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Stefano Giazzon
Venenzia in coturno
Lodovico Dolce tragediografo
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ARACNE editrice S.r.l.

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via Raffaele Garofalo, 133/A–B


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I edizione: dicembre 2011


a Silvia, mio amore
Indice

p. 1 Premessa di Elisabetta Selmi

p. 3 Capitolo I
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico

1. La vita e le opere, p. 3 – 2. Lodovico Dolce poeta tragico: un quadro ge-


nerale, p. 10

p. 35 Capitolo II
Le tragedie di Lodovico Dolce o della riscrittura
manieristica dell’antico

1. Hecuba, p. 35 – 2. Thyeste, p. 84 – 3. Didone, p. 134 – 4. Giocasta,


p. 178 – 5. Ifigenia, p. 222 – 6. Medea, p. 265

p. 289 Conclusione

p. 293 Bibliografia generale


Premessa

Scrittore poliedrico ed eclettico, il veneziano Lodovico Dolce ha


incontrato in questi ultimi decenni un rinnovato interesse nella critica
italiana e straniera ed è stato oggetto di un approccio ermeneutico ben
più meditato ed equilibrato nella valutazione delle dinamiche intellet-
tuali che lo coinvolsero nell’ampio ventaglio di scelte della sua scrittu-
ra trattatistica, teatrale ed esegetica, volta soprattutto, quest’ultima, a
un abilissimo programma culturale, condiviso con un’élite letteraria e
poetica veneziana di cui fecero parte i Molino e i Venier, i Gradenigo
e i letterati gravitanti attorno all’Accademia della Fama di Federico
Badoer, destinato alla valorizzazione dei nuovi modelli emergenti del-
la tradizione volgare, sia pure con una coscienza mai dimessa dell’alto
significato umanistico dell’imitazione dei classici.
Dalla monografia sull’intera carriera del Dolce scritta da Terpe-
ning, agli studi sulle sue opere teatrali, commedie e tragedie, con il fe-
lice recupero già dagli anni Ottanta, da parte di Renzo Cremante, della
Marianna fra i drammi canonici rappresentativi della scena coturnata
cinquecentesca, la personalità letteraria del prolifico scrittore venezia-
no ha messo in luce i tratti di un esercizio poetico tutt’altro che dilet-
tantesco o marginale rispetto al formarsi dei nuovi indirizzi di gusto e
di stile, lirico, scenico e, in senso lato, culturali del più maturo Rina-
scimento italiano. A buon diritto un altro letterato da sottrarre a quelle
corrive e poco lusinghiere liquidazioni del passato che lo etichettava-
no come uno dei tanti poligrafi della cultura cinquecentesca, più da te-
nere in considerazione per il vasto spettro enciclopedico dei suoi oriz-
zonti o per fini documentari che per l’originalità inventiva della pro-
duzione.
Quando, invece, solo per restare all’ambito delle scritture dramma-
tiche, oggetto principe degli studi di cui si materia il presente volume
di Stefano Giazzon, il ruolo assunto dal Dolce sia nell’ambito del clas-
sicismo tragico del secondo Cinquecento, sia in quello della sperimen-
tazione attualizzante dei modelli del dramma senecano ed euripideo,
come della commedia latina (ma noti, oltreché significativi sono anche
i suoi rilanci e falsificazioni delle piecès ruzantesche), si mostrerebbe
influente in un circuito di ricezione che travalica i meri confini veneto-
padani di appartenenza, in direzione del nascente teatro elisabettiano e
del rinnovato senechismo europeo dell’età barocca. Ne sono testimo-
nianza emblematica la Jocasta (1566) di George Gascoygne e Francis
Kinwelmershe (prima tragedia regolare inglese), la Tragedie of Ma-
riam (1613) di Elizabeth Tanfield Cary, e forse una non del tutto im-
probabile influenza sulla poetica tragica di Christopher Marlowe da
parte di quella sua Didone, pubblicata nel 1547 e ristampata nel 1560,
che traccia le linee di una innovativa miscela drammatica ‘patetica’ e
‘grave’, con l’esibizione dei temi della crudeltà dell’amore e della fa-
talità del destino e con il rilancio nel gusto neoclassico elisabettiano di
miti intramontabili dal fascino antico-moderno.
Indubbio sperimentatore di modelli e trame del teatro classico nei
suoi rifacimenti senecani ed euripidei, Lodovico Dolce manifesta u-
n’alta coscienza del significato della traduzione come esercizio nobile
e reinventivo, di transcodificazione dello stile lirico e scenico e dei va-
lori degli archetipi antichi nei moderni modelli della tradizione volga-
re, come si evince anche dall’illustre lettera dedicatoria a Marc’Anto-
nio da Mula, premessa alla ristampa integrale delle sue tragedie del
1560.
Proprio al sondaggio dei modi e dei princìpi che indirizzarono tale
raffinata officina di riscrittura e d’intelligente opera di divulgazione
culturale con cui il Dolce seppe far rivivere i capolavori drammatici di
Seneca e di Euripide è rivolto il presente libro di Stefano Giazzon,
frutto degli studi condotti negli anni in una prospettiva comparatistica
di confronti mai banali fra i processi di trasmissione, autorizzamento e
coscienza della tradizione drammatica classica, presenti nella cultura
cinquecentesca, e gli sviluppi in corso nella scena coturnata moderna.

Elisabetta Selmi
Capitolo I

Lodovico Dolce letterato e poeta tragico

1. La vita e le opere

Lodovico Dolce nacque a Venezia nel 1508 da una famiglia di de-


caduta nobiltà,1 perse prestissimo il padre2 ed ebbe modo di studiare a
Padova, grazie all’intercessione di due grandi famiglie del patriziato
veneziano (Loredan e Cornaro).3 Finiti gli studi universitari, fece ri-
torno nella sua città, qui trovando occupazione come precettore priva-
to e soprattutto come operatore editoriale presso varie importanti offi-
cine tipografiche,4 svolgendo, di volta in volta, il ruolo di revisore e
correttore di stampe, traduttore, editore e curatore, trattatista, com-
mentatore, storico, antologista, ma anche di rimatore, poeta drammati-
co (comico e tragico), narrativo (romanzi e poemi eroici), satirico e
burlesco: un’attività intensissima e un’imponente produzione, fatal-

1
Per il quadro biografico cfr. E. A. CICOGNA, Memoria intorno la vita e gli scritti di Mes-
ser Lodovico Dolce, letterato veneziano del secolo XVI, in ‘Memorie dell’Istituto Veneto di
Scienze, Lettere e Arti’, vol. 11, 1862, pp. 93-200; C. DIONISOTTI, Dolce, Lodovico, voce in
‘Enciclopedia dantesca’, Roma, Istituto dell’Enciclopedia, 1970, pp. 534-35; G. ROMEI, Dol-
ce, Lodovico, voce in ‘Dizionario Biografico degli Italiani’, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, 1991, pp. 399-405; R. H. TERPENING, Lodovico Dolce. Renaissance Man of Letters,
Toronto, University of Toronto Press, 1997, pp. 3-24; A. NEUSCHÄFER, Lodovico Dolce als
dramatischer Autor im Venedig des 16. Jahrhunderts, Frankfurt am Main, Vittorio Kloster-
mann, 2004, pp. 1-96.
2
Fantino Dolce era stato anche gastaldo delle Procuratie, appartenendo quindi pienamente
ai quadri dell’oligarchia amministrativo-burocratica della Serenissima.
3
Il piccolo Lodovico fu affidato al Doge Leonardo Loredan (1438-1521), buon amico di
famiglia.
4
De’ Vitali, Bindoni e Pasini, lo Zoppino, Nicolini da Sabio, Navò, Marcolini, Manuzio, i
Sessa, Farri, Varisco, per citare i più notevoli; del tutto eccezionale fu il rapporto di collabo-
razione con Gabriele Giolito de’ Ferrari.
4 Venezia in coturno

mente gravata dalle tare dell’eccesso, della fretta, del condizionamen-


to commerciale, talvolta dalla corrività.5
L’esordio letterario del Dolce è collocabile nel 1532 con il Sogno
di Parnaso in terza rima,6 che, al di là delle sicure ascendenze dante-
sche, è un’esemplare illustrazione letteraria di un preciso progetto fi-
gurativo: il Parnaso dipinto da Raffaello nella stanza della Segnatura
fra 1510 e 1511.7 Fin da questa prima prova,8 si nota una naturale pre-

5
Della colossale attività del Dolce ricordiamo, a mero titolo esemplificativo, fra i trattati
il Dialogo di M. Lodovico Dolce della institution delle donne (Giolito, 1545), il Dialogo della
Pittura di M. Lodovico Dolce, intitolato l‟Aretino (Giolito, 1557), le Osservationi nella volgar
lingua (Giolito, 1550), il Dialogo nel quale si ragiona delle qualità, diversità, e proprietà de
i colori (F. lli Sessa, 1565); per quanto riguarda l’ambito drammatico, ricordiamo le cinque
commedie (tutte edite a Venezia): Il ragazzo (Navò, 1541), Il capitano e Il marito (entrambe
da Giolito, 1545), Fabritia (Manuzio, 1549), Il roffiano (Giolito, 1551) e i diciotto testi tragici
di cui avremo modo di parlare nel prosieguo; nel campo della poesia narrativa si segnalano il
Sacripante (Bindoni e Pasini, 1536), le Trasformationi da Ovidio (Giolito, 1553), il Palmeri-
no e il Primaleone, figliuolo di Palmerino (F.lli Sessa, rispettivamente nel 1561 e nel 1562),
L‟Enea, tratto da l‟Eneide di Vergilio (Giovanni Varisco, 1568), L‟Achille e l‟Enea (Giolito,
1570), Le prime imprese del conte Orlando (Giolito, 1572), L‟Ulisse (Giolito, 1573). Per la
vita in tipografia cfr. A. QUONDAM, «Mercanzia d‟onore» «Mercanzia d‟utile». Produzione
libraria e lavoro intellettuale a Venezia nel Cinquecento, in Libri, editori e pubblico
nell‟Europa moderna. Guida storica e critica, a c. di A. PETRUCCI, Roma-Bari, Laterza, 1977,
pp. 51-104 e ID., La letteratura in tipografia, in ‘Letteratura Italiana, vol. 2: Produzione e
consumo, direzione di A. ASOR ROSA, Torino, Einaudi, 1983, pp. 555-686; C. DI FILIPPO BA-
REGGI, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinque-
cento, Roma, Bulzoni, 1988 (che fornisce dati impressionanti sulla produzione dolciana: sa-
rebbero 358 le edizioni, comprese le ristampe, curate dal poligrafo veneziano dal 1532 al
1568); P. TROVATO, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi
letterari italiani (1470-1570), Bologna, Il Mulino, 1991. Infine per un quadro generale cfr. E.
L. EISENSTEIN, Le rivoluzioni del libro. L‟invenzione della stampa e la nascita dell‟età mo-
derna, Bologna, Il Mulino, 1995. Quali che siano i dati quantitativi sul lavoro del Dolce, ri-
sulta facilmente giustificabile la non sempre alta qualità dei prodotti allestiti: cfr. S. BONGI,
Annali di Gabriel Giolito de‟ Ferrari da Trino di Monferrato, stampatore in Venezia, descritti
ed illustrati, 2 voll., Roma, Presso i principali Librai, 1890-1895.
6
L. DOLCE, Il Sogno di Parnaso con alcune altre rime d‟amore, Venezia, Bernardino de’
Vitali, 1532.
7
Cfr. C. CAIRNS, The dream of Parnassus, Aretino‟s heritage and the „poligrafi‟, in ID.,
Pietro Aretino and the Republic of Venice. Researches on Aretino and his circle in Venice
(1527-1556), Firenze, Olschki, 1985, pp. 231-49.
8
Qualcosa di simile Dolce compirà ne Lo epithalamio di Catullo nelle nozze di Peleo et di
Theti (Venezia, Navò, 1538), dove l’autore fornirà non già una filologica traduzione del cele-
berrimo epillio catulliano, bensì una descrizione del dipinto intitolato Bacco e Arianna realiz-
zato dall’amico Tiziano nei primi anni Venti del secolo. Su quest’opera cfr. P. TROVATO, Il
primo Cinquecento, in Storia della lingua italiana, a c. di F. BRUNI, Bologna, Il Mulino,
1994, pp. 352-57.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 5

disposizione in Dolce (tratto davvero tipico della sua personalità) a


mediare opere preesistenti, a derivare moduli e strutture, stilemi e
forme da un discorso, letterario e non solo, già dotato della sanzione
dell’autorevolezza e contraddistinto da un’efficacia espressiva, per co-
sì dire, già comprovata.
Proprio a partire dal 1532, inoltre, nasce quella vivace relazione
umana e intellettuale, fatta di protezione e collaborazione, che legherà
per sempre il Dolce a Pietro Aretino.9 Fra gli altri dati biografici degni
di nota vi è senza dubbio l’appartenenza nel tempo (le date sono piut-
tosto insicure) ad alcune importanti Accademie quali quella della Frat-
ta di Rovigo, quella dei Pellegrini di Venezia e, forse, quella degli In-
fiammati di Padova.10 Assolutamente tipica sarà da ritenersi poi, nel
quadro della spesso feroce competizione tra operatori culturali e ri-
spettive officine tipografiche di riferimento, la polemica che oppose
Dolce prima al letterato beneventano Niccolò Franco (reo di averlo
screditato presso Aretino), poi al poligrafo viterbese Gerolamo Ru-
scelli (riguardo alla superiorità delle rispettive edizioni del Decameron
boccacciano).11 Non meno tipicamente cinquecentesca è la vastissima

9
Su Aretino e altri poligrafi cfr. G. AQUILECCHIA, Pietro Aretino e altri poligrafi a Vene-
zia, in ‘Storia della Cultura Veneta’, 3/II: Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, a c.
di M. PASTORE STOCCHI e G. ARNALDI, Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 61-98; R. BRAGANTI-
NI, «Poligrafi» e umanisti volgari in ‘Storia della letteratura italiana’, vol. 4, parte II: Verso il
Manierismo, direzione di E. MALATO, Roma, Salerno Editrice, 1997, pp. 681-754 e P. LARI-
VAILLE, Pietro Aretino, in ‘Storia della letteratura italiana’, vol. 4, parte II: Verso il Manieri-
smo, direzione di E. MALATO, Roma, Salerno Editrice, 1997, pp. 755-85. Sul circolo aretinia-
no e sul ruolo del Dolce cfr. soprattutto C. CAIRNS, Pietro Aretino and the Republic of Venice.
Researches on Aretino and his circle in Venice (1527-1556), Firenze, Olschki, 1985. Un rap-
porto di sincera amicizia legò Dolce allo scrittore toscano, infaticabile promotore di sé stesso
e campione del poligrafismo medio cinquecentesco. Altri amici del nostro furono senza dub-
bio Tiziano e Francesco Sansovino.
10
La prima nacque nel 1540 a Fratta Polesine e annoverò fra i suoi membri Lodovico
Domenichi, Gerolamo Parabosco, Gerolamo Ruscelli, Orazio Toscanella; la seconda nacque
nel 1550 con un ambizioso programma di diffusione della letteratura volgare, ebbe come se-
gretario ed editore di riferimento niente meno che Francesco Marcolini e contò fra i suoi
membri Anton Francesco Doni, Ercole Bentivoglio, Francesco Sansovino, Gerolamo Parabo-
sco e, più avanti, anche Giason De Nores. Nata nel 1540, l’Accademia degl’Infiammati ebbe
in Sperone Speroni l’intellettuale di punta: vi fecero parte negli anni Ruzante, Alessandro Pic-
colomini, Carlo Sigonio, Benedetto Varchi, Giuseppe Betussi e Francesco Sansovino.
11
Per le dispute, provocate spesso da banali conflitti editoriali e indizio sicuro
dell’aggressività che animava il mondo tipografico del tempo, rinviamo soprattutto a C. DI
FILIPPO BAREGGI, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel
6 Venezia in coturno

rete di relazioni intellettuali che Dolce seppe costruirsi tramite il for-


midabile medium della comunicazione epistolare,12 cui prestò anche
qualche cura editoriale.13
Decisivo fu il ruolo del Dolce in qualità di editore delle opere più
rappresentative della letteratura italiana dal Trecento al Cinquecento,
secondo tacitamente accolte direttive bembiane: da ricordare almeno
l’edizione del Decameron (Venezia, Bindoni e Pasini, 1541) e quella
del Corbaccio (Giolito, 1541); l’importante edizione dei Rerum vulga-
rium fragmenta secondo il ms. Vaticano Latino 3195, già di proprietà
di Pietro Bembo, e dei Trionfi nel 1547 (Giolito);14 la fondamentale
stampa della Commedia dantesca, per la prima volta definita Divina
nel titolo (Giolito, 1555).15 E ancora: l’Orlando furioso (Bindoni e Pa-

Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988. L’epistolario dolciano è una preziosa fonte per capire o-
rigini e termini delle polemiche. La diatriba con Ruscelli fu scatenata dalla quasi contempora-
nea pubblicazione (aprile-maggio 1552) presso due editori veneziani rivali (Giolito e Valgrisi)
del Decameron e dalle conseguenti polemiche sulla qualità dei rispettivi lavori. Apice dello
scontro fu la stampa dei Tre discorsi di Gerolamo Ruscelli a M. Lodovico Dolce (Venezia,
Plinio Pietrasanta, 1553), in cui il Dolce veniva duramente attaccato dal competitore su varie
questioni linguistiche, filologiche, stilistiche. Le relazioni tornarono normali di lì a qualche
anno, evidentemente svanite le ragioni che ne avevano provocato la corrosione.
12
Cfr. R. H. TERPENING, Lodovico Dolce. Renaissance Man of Letters, Toronto, Univer-
sity of Toronto Press, 1997, pp. 15-16: «From Dolce’s own letters and poems one gains a
general idea of the variety of his contacts and his many friends. These range form writers such
as Annibale Caro, Benedetto Varchi, Pietro Bembo, Lodovico Domenichi, Francesco Maria
Molza, Anton Francesco Doni, Luigi Groto, […], Alessandro Piccolomini, Bernardo and Tor-
quato Tasso, Sebastiano Erizzo, Trifon Gabriele, and Pietro Aretino to women poets such as
Veronica Gambara, Vittoria Colonna, Laura Terracina, and Chiara Matraini; from political fi-
gures such as the deges Andrea Gritti and Pietro Gradenigo, the Procuratore di San Marco
[…] Alessandro Contarini, the patricians Girolamo Loredan, Federico Badoer, and Domenico
Venier, […] Guidobaldo II della Rovere (the Duke of Urbino), Gian Giacomo Leonardi (the
Count of Montelabbate and the Duke of Urbino’s ambassador to the Signoria of Venice), Gi-
rolamo Faleti (ambassador of Alfonso d’Este, Duke of Ferrara), and churchmen such as the
cardinals Gasparo Contarini and Marc’Antonio da Mula to men of culture such as Battista Pit-
toni, Virginio Ariosto (son of Lodovico), and Francesco Sansovino; from printers such as
Paolo Manuzio […] and Francesco Marcolini to makers of type such as Francesco Alunno (a
calligrapher from Ferrara), and painters such as Titian».
13
Curando il secondo libro delle lettere dell’amico Aretino e delle Epistole di G. Plinio,
di M. Francesco Petrarca, del s. Pico della Mirandola et d‟altri eccellentissimi huomini, Gio-
lito de’ Ferrari, 1548.
14
Cfr. L. DOLCE, Il Petrarca, corretto […], et alla sua integrità ridotto, Venezia, Giolito,
1547. L’opera ebbe un grande successo e molte ristampe (1548, 1550, 1551, 1554).
15
Cfr. L. DOLCE, La divina commedia di Dante, di nuovo alla sua vera lezione ridotta con
lo aiuto di molti antichissimi esemplari. Con argomenti, et allegorie per ciascun canto, et a-
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 7

sini, 1535),16 precocissima, immediata reazione alla terza edizione del


poema, e le Rime e Satire di Ariosto (Giolito, 1557); il Cortegiano di
Castiglione (Giolito, 1552); le Rime del Poliziano nel 1552 (senza
luogo ed editore) e le sue Stanze per la giostra nel 1560; il Libro di
natura d‟amore di Mario Equicola (Giolito, 1554) e le Prose della
volgar lingua del Bembo nel 1556 (presso Giolito); l’Arcadia e le Ri-
me di Iacopo Sannazaro (Giolito, 1552 e 1553); le Rime e l’Amadigi di
Bernardo Tasso (Giolito, 1555 e 1560).
Un enorme, decisivo lavoro di cura editoriale, contrassegnato tal-
volta da veri e propri interventi ecdotici, talaltra da una modesta azio-
ne di revisione e correzione dei manoscritti e delle stampe utilizzati.
Chiaro è nel tempo il progetto di supportare le opere proposte con pa-
ratesti esplicativi (tavole, allegorie, annotazioni, luoghi difficili, indici
lessicali, postille, etc.): anche grazie alla lungimiranza del Dolce e di
Gabriele Giolito, suo editore di riferimento, si consolidò il prestigio
dei classici volgari della cultura italiana, che vennero ad integrare (se
non a sostituire) il vasto e consolidato patrimonio degli auctores greci
e latini.
In questa direzione va anche la colossale mole di vere e proprie tra-
duzioni compiute dal Dolce nel corso della sua poliedrica e impegna-
tissima carriera letteraria.17 Tra l’altro, dalle letterature antiche, ricor-
diamo La Poetica d‟Horatio tradotta, in endecasillabi sciolti (Bindoni
e Pasini, 1535 o 1536); la Paraphrasi nella sesta satira di Giuvenale,
nella quale si ragiona de le miserie de gli huomini maritati, in prosa

postille nel margine. Et indice copiosissimo di tutti i vocaboli più importanti usati dal poeta,
con la sposition loro, Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1555.
16
Con l’aggiunta di una Apologia contra i detrattori de l‟Autore. L’edizione avrà enorme
fortuna tanto che se ne contano 62 solo a Venezia nel corso del secolo. Nel 1542 Dolce prepa-
rò una nuova giolitina del poema ariostesco dotata di sussidi di lettura: cfr. L. DOLCE, Orlan-
do furioso di M. Lodovico Ariosto, novissimamente alla sua integrità ridotto et ornato di va-
rie figure; con alcune stanze del S. Luigi Gonzaga in lode del medesimo. Aggiuntovi per cia-
scun canto alcune allegorie et nel fine una brieve espositione et tavola di tutto quello, che
nell‟opera si contiene. Fra il 1542 e il 1560, Giolito pubblicò trenta volte l’Orlando furioso,
sintomo di un successo irresistibile dello stesso in area veneta: sulla questione cfr. G. AUZZAS,
La narrativa veneta nella prima metà del Cinquecento, in ‘Storia della Cultura Veneta’, 3/II:
Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, a c. di M. PASTORE STOCCHI e G. ARNALDI,
Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 99-138
17
Sulla questione generale, invero delicata, cfr. B. GUTHMÜLLER, Letteratura nazionale e
traduzione dei classici nel Cinquecento, in «Lettere Italiane», XLV, n. 4, 1993, pp. 501-18.
8 Venezia in coturno

(Navò, 1538); il Dialogo de l‟Oratore di Cicerone (Giolito, 1547); le


Trasformationi da Ovidio (Giolito, 1553), in ottava rima, secondo la
moda del coevo romanzo cavalleresco; le Historie de le guerre esterne
de‟ Romani (Giolito, 1554) e la Historia de le guerre civili de‟ romani
(Giolito, 1559) di Appiano Alessandrino. E ancora: I dilettevoli ser-
moni, altrimenti detti satire, e le morali epistole di Horatio (Giolito,
1559); le Orationi di Marco Tullio Cicerone, con la vita de l‟autore
(Giolito, 1562) e le Opere morali di Marco Tullio Cicerone: cioè tre
libri de gli uffici, due dialoghi; l‟uno de l‟amicitia, e l‟altro de la vec-
chiezza (Giolito, 1563). Inoltre, come indizi di un gusto piuttosto ori-
ginale della stamperia giolitina, non si potranno trascurare la traduzio-
ne italiana degli Amorosi ragionamenti, dal romanzo ellenistico Leu-
cippe e Clitofonte di Achille Tazio (Giolito, 1546), già tradotto in lati-
no da Luigi Annibale Della Croce; la Dignità de‟ consoli e de
gl‟imperadori, parafrasi del Breviarium historiae populi Romani di
Sesto Rufo (Giolito, 1560); le Historie di Giovanni Zonara monaco
diligentissimo dall’Historia rerum in Oriente gestarum ab exordio
mundi et orbe condito del bizantino Iannis Zonaras (Giolito, 1564) e la
sua continuazione, cioè la Historia de gl‟imperatori greci dello storico
bizantino Niceta Acominatus (Giolito, 1569).
Di notevole importanza furono poi le varie versioni di importanti
opere spagnole contemporanee: saranno da citare, soprattutto, Le vite
di tutti gl‟imperadori romani da Giulio Cesare insino a Massimiliano
da Pedro Mexìa (Giolito, 1558), cui venne opportunamente aggiunta
nel 1561 la Vita de l‟invittissimo Carlo Quinto imperatore; Il Conci-
lio, overo consiglio, et i consiglieri del prencipe (Giolito, 1560), pron-
tissima traduzione del trattato politico Concejo e consejeros del Prìn-
cipe (1559) di Fadrique Furiò Ceriol e le significative riscritture del
Palmerino (Giolito, 1561) e del Primaleone (1562) in ottave.
In una vita egemonizzata, come si è visto, dalle pratiche editoriali,
dalle date di pubblicazione, dai contatti intellettuali, sembrano degni
di nota avvenimenti biografici un po’ eccentrici, quali l’esperienza del
carcere del 153718 e i due processi (1558 e 1565) cui Dolce fu sotto-

18
Dolce passò qualche giorno in carcere, a causa di una trasgressione della parte emanata
dal Consiglio dei Dieci in data 22 marzo 1537, che vietava di uscire di notte con le armi: il
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 9

posto dal Sant’Uffizio.19 Specie i due ultimi fatti giudiziari hanno fatto
sì che, negli anni, alcuni interpreti abbiano insistito sul presunto crip-
toevangelismo del Dolce: quantunque in qualche sequenza tragica sia-
no ravvisabili pronunciamenti sospetti ed escludendo una significativa
frequentazione erasmiana,20 l’eterodossia del Dolce continua a sem-
brare più una suggestiva petitio principii che un persuasivo e docu-
mentabile dato.21

nostro, diretto a Padova, fu fermato presso Santa Croce e, trovato in possesso di una spada,
venne arrestato.
19
Nel primo caso, Dolce fu coinvolto solo parzialmente per aver curato la pubblicazione
giolitina dei Dialogi di Secreti della Natura di Pompeo Dalla Barba. Nel secondo, fu del tutto
casualmente chiamato in causa dal Giolito in persona per aver usato in una sua opera storio-
grafica di prossima pubblicazione (la Vita di Ferdinando, primo imperadore di questo nome,
discritta da M. Lodovico Dolce, nella quale sotto brevità sono comprese l‟historie dall‟anno
MDIII al MDLXIIII, Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1566) un testo messo all’Indice: il De statu
religionis et reipublicae Carolo V Caesare commentariorum libri XXVI dello storico e umani-
sta erasmiano tedesco Johannes Sleidanus (ca 1506-1556). Dolce uscì da entrambi i processi
senza nessun capo d’imputazione a carico.
20
Molto sottolineata in C. CAIRNS, Pietro Aretino and the Republic of Venice. Researches
on Aretino and his circle in Venice (1527-1556), Firenze, Olschki, 1985. Per la ricezione ita-
liana della personalità di Erasmo da Rotterdam si rinvia al classico S. SEIDEL MENCHI, Era-
smo in Italia (1520-1580), Torino, Bollati Boringhieri, 1987.
21
Per un quadro complessivo cfr. C. DI FILIPPO BAREGGI, Stampa e suggestioni religiose,
in EAD., Il mestiere di scrivere, cit., pp. 194-241 e M. FIRPO, Artisti, gioiellieri, eretici. Il
mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma, Roma-Bari, Laterza, 2001. Si veda an-
che ciò che dice R. H. TERPENING, Lodovico Dolce. Renaissance Man of Letters, cit., p. 20:
«Given the world in which he worked, that of Venetian presses, Dolce, like other intellects of
the time, apparently came into contact with heterodox or heretical ideas, particularly around
1545 […]. His contacts with reformational ideas and evangelical thought came in part through
Andrea Arrivabene, a printer originally from Mantua, whose bookstore and press could be
found ‘Al segno del Pozzo’». Terpening prosegue menzionando altri intellettuali in odore di
eresia luterana, come Orazio Brunetto (del quale Dolce curò la pubblicazione dell’epistolario)
e Paolo Crivelli, stretto collaboratore e uomo di fiducia di Giolito. Lo stesso Terpening, peral-
tro, giunge a questa equilibrata e condivisibile conclusione (p. 21): «Perhaps the conclusion
that one should draw from these sources, despite the fact thet they demonstrate an acquaint-
ance with individuals and ideas that were of suspect orthodoxy, is not that Dolce was part of
an evangelical group in Venice, but rather […] that reformation ideas circulated widely
among those in the city’s editorial circles». Non si deve certo attibuire troppa importanza alle
relazioni con uomini in odore di eresia quali Orazio Brunetto, Paolo Crivelli, Andrea Arriva-
bene: di sicuro, lo ripeteremmo ad nauseam, la Venezia del medio Cinquecento contemplava
(anche per precise ragioni strategiche: politiche economiche militari) una vasta area di inde-
terminatezza religiosa. Bisogna peraltro anche subito aggiungere che, per più rispetti, sembra
rilevante il rapporto fra eterodossia filo-riformata ed entusiastica adesione alle ragioni del
volgare (di cui zelatore fra i più scrupolosi fu, è cosa nota, Martin Lutero): ci fu, in altre paro-
le, una fase della storia del secolo XVI in cui opporre il volgare al greco e al latino degli uma-
10 Venezia in coturno

Dopo una acuta malattia che lo tormentò per qualche tempo, il po-
ligrafo veneziano morì nel 1568 e fu sepolto nella chiesa di San Luca
Evangelista, forse assieme a quel Pietro Aretino con cui aveva condi-
viso tanta parte della sua vita.

2. Lodovico Dolce poeta tragico: un quadro generale

Brevemente ripercorrendo le vicende della tragedia rinascimentale,


almeno nelle sue articolazioni decisive, nei suoi snodi fondamentali
(essenzialmente la Sofonisba di Trissino, l’Orbecche di Giraldi, la
Canace di Speroni),22 ricordiamo che essa si configura essenzialmen-

nisti poteva anche dare adito a interpretazioni tendenziose sulle proprie simpatie confessiona-
li. Ma davvero questa questione ci porterebbe troppo lontano.
22
Si leggono tutte in Teatro del Cinquecento. La Tragedia, de ‘La Letteratura Italiana.
Storia e testi’, vol. 28, tomo I, a c. di R. CREMANTE, Milano-Napoli, Ricciardi, 1997, ma si
leggevano già ne La tragedia del Cinquecento, tomo I, a c. e con introduzione di M. ARIANI,
Torino, Einaudi, 1977, vero e proprio evento di riscoperta critica della tragedia cinquecente-
sca. Diamo qui di seguito le coordinate bibliografiche essenziali per orientarsi nella fluviale
produzione critica sulla tragedia cinquecentesca. Per un quadro generale cfr. i classici F. NERI,
La tragedia italiana del Cinquecento, Firenze, Galletti-Cocci, 1904; E. LIGUORI, La tragedia
italiana da i primi tentativi a l‟Orazia dell‟Aretino, Bologna, Zanichelli, 1905; E. BERTANA,
La tragedia, in ‘Storia dei Generi Letterari’, Milano, Vallardi, 1906 e, più recentemente, F.
DOGLIO, Il teatro tragico italiano, Parma, Guanda, 1960; M. T. HERRICK, Italian Tragedy in
the Renaissance, Urbana, University of Illinois Press, 1965; C. MUSUMARRA, La poesia tragi-
ca italiana nel Rinascimento, Firenze, Leo Olschki, 1972; N. BORSELLINO, R. MERCURI, Il te-
atro del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1973; M. ARIANI, Tra Classicismo e Manierismo.
Il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974; F. VAZZOLER, Approssimazioni cri-
tiche per la tragedia italiana del Cinquecento, in «L’Immagine riflessa», II, 1, gennaio-aprile
1978, pp. 84-94; M. PIERI, La nascita del teatro moderno in Italia tra XV e XVI secolo, Tori-
no, Bollati Boringhieri, 1989; S. FERRONE, Il teatro, in ‘Storia della letteratura italiana’, vol.
4, parte II: Verso il Manierismo, direzione di E. MALATO, Roma, Salerno Editrice, 1997, pp.
909-1009; I. RAYEVSKY, La tragedia nel Tardo Rinascimento, Palermo, Herbita Editrice,
1998; M. CANOVA, Le lacrime di Minerva. Lungo i sentieri della commedia e della tragedia a
Padova, Venezia e Ferrara tra il 1540 e il 1550, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2002; P.
COSENTINO, Cercando Melpomene. Esperimenti tragici nella Firenze del primo Cinquecento,
Manziana, Vecchiarelli, 2003; M. APOLLONIO, Storia del teatro italiano, Milano, Rizzoli,
2003, pp. 477-525; V. GALLO, Da Trissino a Giraldi. Miti e topica tragica, Manziana, Vec-
chiarelli, 2005; M. PIERI, La tragedia in Italia, in Le rinascite della tragedia. Origini classi-
che e tradizioni europee, a c. di G. GUASTELLA, Roma, Carocci, 2006, pp. 167-206. Per varie
questioni inerenti alla scena tragica cinquecentesca si è poi tenuto conto di F. MAROTTI, Lo
spettacolo dall‟Umanesimo al Manierismo. Teoria e tecnica, Milano, Feltrinelli, 1974; M. L.
ALTIERI BIAGI, La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980; G. ATTOLINI, Teatro e spetta-
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 11

te, e quali che siano destinazione d’uso e orizzonte ideologico dei suoi
autori, come recupero di istanze e di moduli derivati dalla tragedia an-
tica, recentemente rilanciata anche nella sua versione greca dall’edi-
toria veneziana (Seneca tragico essendo da tempo piuttosto ben cono-
sciuto).23
Senza nessuna pretesa, indichiamo le seguenti coordinate come
tratti pertinenti della poesia tragica rinascimentale: 1) le fabulae,
quantunque sceneggino vicende del mito, hanno un rapporto con la re-

colo nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1988; B. CROCE, La «tragedia», in ID., Poesia
popolare e poesia d‟arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Napoli, Biblio-
polis, 1991 (ma già 1946), pp. 269-99; E. BALMAS, Della nascita di un tragico moderno, in
Dalla tragedia rinascimentale alla tragicommedia barocca. Esperienze teatrali a confronto in
Italia e in Francia, a c. di E. MOSELE, Fasano, Schena Editore, 1993, pp. 13-21; R. GORRIS,
La tragedia della crudeltà, in Dalla tragedia rinascimentale alla tragicommedia barocca.
Esperienze teatrali a confronto in Italia e in Francia, cit., pp. 295-309; A. SORELLA, La tra-
gedia, in ‘Storia della lingua italiana’, I. I luoghi della codificazione, a c. di L. SERIANNI e P.
TRIFONE, direzione di A. ASOR ROSA, Torino, Einaudi, 1993, pp. 751-92; S. DI MARIA, The
Dramatic hic et nunc in the Tragedy of Renaissance Italy, in «Italica», vol. 72, n. 3, 1995, pp.
275-97; S. JOSSA, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinascimentali
(1540-1560), Napoli, Vivarium, 1996; P. MASTROCOLA, „Nimica fortuna‟. Edipo e Antigone
nella tragedia italiana del Cinquecento, Torino, Tirrenia Stampatori, 1996 e EAD., L‟idea del
tragico. Teorie della tragedia nel Cinquecento, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Editore,
1998; P. COSENTINO, Fra verso sciolto e sperimentalismo volgare: la rinascita tragica fioren-
tina, in ‘Il verso tragico dal Cinquecento al Settecento’, a c. di G. LONARDI e S. VERDINO, Pa-
dova, Esedra, 2005, pp. 39-62; E. SELMI, Il dibattito retorico sul verso tragico nel Cinquecen-
to, in ‘Il verso tragico dal Cinquecento al Settecento’, cit., pp. 63-104; D. CHIODO-A. DONNI-
NI, Sul teatro del Cinquecento. Tre discorsi e un catalogo, Manziana, Vecchiarelli, 2007.
23
Aldo Manuzio aveva pubblicato il corpus integrale di Sofocle nel 1502 e quello di Eu-
ripide, tranne Elektra, nel 1503. Qualche anno dopo (1518) fu la volta di Eschilo. La princeps
delle Senecae Tragoediae era stata pubblicata a Ferrara fra il 1474 e il 1478, per le cure di
André Belfort. Si ricordano inoltre le tre importanti edizioni veneziane del tardo Quattrocento:
Tragedie cum commento di Gellio Bernardino Marmitta (Lazzaro Suardi, 1492); Tragediae
cum duobus comentis, a c. di Gellio Bernardino Marmitta e Daniele Gaetani (Matteo Capcasa,
1493); Tragoediae cum duobus commentariis, naturalmente ancora di Marmitta e Gaetani
(Giovanni Tacuino, 1498). Molte le edizioni nel Cinquecento. Sulla fortuna euripidea cfr. A.
PERTUSI, La scoperta di Euripide nel primo Umanesimo, in «Italia Medioevale e Umanistica»,
III, 1960, pp. 101-152 e Il ritorno alle fonti del teatro greco classico: Euripide
nell‟Umanesimo e nel Rinascimento, in ID., Venezia e l‟Oriente tra tardo Medioevo e Rina-
scimento, Firenze, Sansoni, 1966, pp. 205-224. Per varie questioni inerenti alla tradizione se-
necana cfr. G. BRUGNOLI, La tradizione manoscritta di Seneca tragico alla luce delle testimo-
nianze medievali, in ‘Memorie dell’Accademia Nazionale dei Lincei’, VIII, 1959, pp. 201-
287; G. BILLANOVICH, Appunti per la diffusione di Seneca tragico e di Catullo, in «Medioevo
e Umanesimo», XVII, 1964, pp. 147-166; G. GIARDINA, La tradizione manoscritta di Seneca
tragico, in «Vichiana», II, 1965, pp. 31-74.
12 Venezia in coturno

altà sociale e politica contemporanea: quindi una società dominata


dalla guerra, dall’instabilità politica, da una spiccata conflittualità reli-
giosa, quale l’Europa del secolo XVI, può produrre tragedie nel tenta-
tivo di esorcizzare le disarmonie storiche del mondo, rappresentando-
le, o con l’obiettivo, non sempre centrato e ideologicamente ambiguo
(perché rischia di compromettere l’equilibrio fra patronage e intellet-
tualità), di demistificare le dinamiche violente e sopraffattorie che
sempre regolano l’azione del potere, svelandone la natura tutta e solo
ideologica e/o centrata, quali che siano i valori effettivamente propo-
sti, sull’autoconservazione; 2) la tragedia sceneggia questioni fonda-
mentali: a tacere d’altro, almeno la dialettica Bene-Male, l’azione del-
la Fortuna e il rapporto con le varie tèchnai, l’ordine cosmico, la
proàiresis, la relazione errore-colpa, il potere come furor, il governo
delle passioni,24 il tutto sussunto sotto un orizzonte antropologico e
culturale irrimediabilmente mutato dall’affermazione della religione
cristiana e dalle lacerazioni confessionali del Cinquecento.
La tragedia, dunque, è rappresentazione dei meccanismi del potere
ed è esorcizzazione simbolica delle sue sconfitte: solo nell’ambito, co-
dificatissimo e censuratissimo, della scena coturnata, il princeps è un
tiranno smisurato e feroce, del tutto privo di humanitas e la sua inevi-
tabile punizione finale (inquadrata entro solide categorie cristiane) è
garanzia del ripristino della legalità, senza che ciò comporti necessa-
riamente una seria indagine ideologica sulla natura autocratica, gerar-
chica ed esclusivistica del medesimo potere.
Detto in altre parole, pur essendo la tragedia una forma che instan-
cabilmente sceneggia radicali questioni etiche, filosofiche e politiche,
la messinscena (rilanciata non per caso da Giraldi) è garanzia della na-
tura esclusivamente ficta dell’articolazione delle medesime. In questo
senso, la dialettica fra iuvare e delectare finisce per configurarsi come
ambigua: la tragedia giova, è utile, nel momento in cui lo spettatore
accoglie come dilettosa la katastrophè che conclude invariabilmente
lo sviluppo della fabula, perché appunto la riconosce come fictio, co-

24
Cfr. M. C. NUSSBAUM, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella fi-
losofia greca, Bologna, Il Mulino, 1996.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 13

me mera simulazione di dinamiche reali e si riconosce legato ad essa


da un patto che implica, peraltro, una presa di distanza.25
La scena tragica diventa così spazio di proiezione delle inquietudini
reali e la mise-en-scène rappresenta l’opportunità terapeutica di liqui-
dazione delle stesse, configurandosi come un’operazione di reintegro
e ricomposizione di un ordine sociale e politico minacciato solo ed e-
sclusivamente sub specie theatrica e che sul palco simbolicamente su-
bisce dei rovesci per scongiurare ogni ipotesi di reale, effettuale con-
fronto critico con esso ordine.
Tralasciando la pur decisiva ed epocale Sofonisba trissiniana,26 è
con Giovan Battista Giraldi Cinzio che la tradizione della tragedia
cinquecentesca compie un significativo passo in avanti. Egli traduce la
coppia aristotelica ἒλεος e φόβος con «pietà e horrore», e non con
«pietà e terrore»: nell’Orbecche (1541),27 che è già una tragedia ma-

25
Per tutta la questione cfr. M. ARIANI, Introduzione, in La tragedia del Cinquecento, cit.,
pp. VII-LXXX. Senza pretese eccessive, forniamo qui una minima bibliografia sulle questioni
teoriche prese in considerazione. In molti di questi testi ci si occupa non tanto di teoria del te-
atro tragico rinascimentale, quanto di teoria del tragico tout court: tuttavia non si può prescin-
dervi. Cfr. P. SZONDI, Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi, 1962; G. STEINER, La
morte della tragedia, Milano, Garzanti, 1965; N. FRYE, Anatomia della critica, Torino,
Einaudi, 1969; W. BENJAMIN, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1971; G. LUKACS,
Il dramma moderno, Milano, Sugar Co Edizioni, 1976; J.-P. VERNANT, P. VIDAL-NAQUET,
Mito e tragedia nell‟antica Grecia, Torino, Einaudi, 1976; M. UNTERSTEINER, Le origini della
tragedia e del tragico, Milano, Cisalpino, 1984; M. CARLSON, Teorie del teatro. Panorama
storico e critico, Bologna, Il Mulino, 1988; G. STEINER, La morte della tragedia, Milano,
Garzanti, 1992; P. SZONDI, Saggio sul tragico, Torino, Einaudi, 1996; R. BARTHES, Sul teatro,
Roma, Meltemi Editore, 2002; T. EAGLETON, Sweet Violence. The Idea of the Tragic, Man-
chester, Blackwell Publishing, 2003; C. GENTILI, G. GARELLI, Il tragico, Bologna, Il Mulino,
2010.
26
Guardando contemporaneamente alla tradizione romanza e al modello euripideo e sofo-
cleo, Trissino, sono cose note, recupera la fabula dall’Africa petrarchesca (al limite con qual-
che significativo prestito liviano), non attua divisione in atti e scene e scrive cori che riprodu-
cono la struttura triadica del tipico stasimo greco, articolato in strophè, antistrophè, epòdos: in
questa maniera, Trissino scrive la prima tragedia di impianto classicistico della storia moder-
na.
27
Giovan Battista Giraldi Cinzio fa rappresentare nella propria casa alla significativa pre-
senza del duca Ercole II d’Este e della corte la sua cupa tragedia, vero punto d’abbrivo di una
nuova fase di sperimentazione della grammatica tragica del secolo. Come noto, con questa
tragedia, Euripide e Sofocle sono soppiantati da Seneca, almeno nelle intenzioni programma-
tiche, e ciò determina, molto semplificando: 1) l’esibizione spregiudicata di raccapriccianti a-
zioni che producono orrore (più che terrore e pietà) e l’epifania di fantasmi (l’umbra di Selina
nel I atto); 2) la nuova funzione attribuita al prologo separato, per la verità più sul modello te-
renziano che su quello senecano, in cui il poeta si confronta con il pubblico direttamente; 3) il
14 Venezia in coturno

nieristica, è sceneggiata la terribile vendetta di Selina, che appare sotto


forma di umbra, nei confronti del marito Sulmone, tiranno di Susa, e
della figlia Orbecche (che aveva causato la morte della madre avendo-
ne ingenuamente rivelato la relazione incestuosa con il figlio, fratello
di Orbecche stessa): come noto, la tragedia si conclude shakespearia-
namente con un efferato bagno di sangue in cui, dopo aver ucciso e
squartato Oronte, marito di Orbecche, e i loro figli, Sulmone viene de-
capitato da Orbecche che infine si suicida. In questa tragedia lo spetta-
tore sa sempre più di quello che sanno gli attori sul palco e il linguag-
gio dei personaggi è manieristicamente ambiguo: vi è sempre o uno
scarto fra parola e azione (cfr. Sulmone, Orbecche, Oronte, il consi-
gliere Malecche), o una consapevole abusio mistificante del linguag-
gio utilizzato, per ragioni politiche, specie in Sulmone, che rappresen-
ta perfettamente – nella sua Übermass – l’ipostasi delle contraddizioni
del potere.28
La prima tragedia del Giraldi pare avere, nella sua oltranza etica ed
espressiva, soprattutto una precisa funzione parenetica: nel vedere
rappresentato un furor politico così crudele e smisurato, la corte (e-
stense) avrebbe ricavato una lezione di clementia ed equilibrio.29 Non
per caso dopo l’esordio, il Giraldi deciderà di virare verso una speri-
mentazione meno eccentrica e tematiche meno inquietanti.

nuovo ruolo assegnato al coro, rifiutata la pàrodos e la sua presenza stabile in scena; 4) la di-
visione in atti e scene, che aumenta il decorum della tragedia e rende la sua struttura molto più
equilibrata e razionale; 5) la marcata accentuazione della dimensione gnomica complessiva,
con una valorizzazione del monologo e del soliloquio e con inevitabile funzione strutturante
assegnata alle sententiae; 6) il largo uso del Nuntius, tratto questo assai tipicamente senecano;
7) l’aumento del numero degli attori contemporaneamente sul palco, nella direzione della va-
rietas e con una attenzione affatto nuova alle esigenze del pubblico che si annoia presto; 8) la
liceità dell’esibizione della morte in scena; 9) il rilievo attribuito a costumi, scene, effetti,
strumenti indispensabili per catturare l’attenzione dello spettatore, secondo logiche che mo-
strano l’evoluzione della dimensione rappresentativa. L’Orbecche verrà edita a stampa a Ve-
nezia da Manuzio nel 1543.
28
Cfr. M. ARIANI, La trasgressione e l‟ordine: l‟«Orbecche» di G. B. Giraldi Cinthio e la
fondazione del linguaggio tragico cinquecentesco, in «Rassegna della Letteratura italiana»,
LXXXIII, 1978, nn. 1-3, pp. 117-80. Per la questione del rapporto fra potere e scena, ma non
solo, cfr. D. LANZA, Il tiranno e il suo pubblico, Torino, Einaudi, 1977.
29
Sull’evoluzione del percorso tragico del Giraldi cfr. C. LUCAS, De l‟horreur au «lieto
fine». Le contrôle du discours tragique dans le théâtre de Giraldi Cinzio, Roma, Bonacci Edi-
tore, 1984.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 15

Dolce riproduce con prontezza sicura alcune dinamiche dell’Orbec-


che nel suo Tieste del 1543, tratto dalla più cupa e macabra fabula di
Seneca,30 cui anche Giraldi aveva guardato con attenzione, dimostran-
do a questa altezza una piena padronanza delle strutture e forme sceni-
che e una notevole capacità di articolazione del discorso tragico: già
manieristicamente declinata è la dialettica fra res e verba nella ma-
schera del potere che Atreo indossa per compiere senza peritanze la
sua mostruosa vendetta contro il fratello Tieste. Il Tieste è una trage-
dia attraversata da maschere monologiche che comunicano diretta-
mente al pubblico, ma poco o nulla fra loro: esemplare mise-en-scène
di una antropologia caratterizzata da un’implacabile frattura fra scena
e realtà.
Con la Canace del 1542, Sperone Speroni risponde a Giraldi ricor-
rendo ad una fabula prelevata non dal vasto macrotesto del mito tragi-
co o della storia, bensì dalle Heroides ovidiane, con ciò tradendo im-
mediatamente la natura programmaticamente sperimentale della sua
proposta.31 Quello che fin da subito scandalizzò i lettori della Canace

30
Cfr. L. DOLCE, Thyeste, Tragedia di M. Lodovico Dolce, tratta da Seneca, Venezia,
Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1543. Si veda la mia recente edizione e le varie note a L. DOLCE,
Tieste, a c. di S. GIAZZON, Torino, Edizioni RES, 2010. Mi permetto di rinviare anche a S.
GIAZZON, Il Thyeste (1543) di Lodovico Dolce, in La letteratura italiana a Congresso. Bilan-
ci e prospettive del decennale (1996-2006), a c. di R. CAVALLUZZI, W. DE NUNZIO, G. DISTA-
SO, P. GUARAGNELLA, Lecce, Pensa Multimedia, 2008, tomo II, pp. 325-333. Sul Thyestes se-
necano cfr. almeno P. MANTOVANELLI, La metafora del Tieste. Il nodo sadomasochistico nel-
la tragedia senecana del potere tirannico, Verona, Libreria Universitaria, 1984; G. PICONE,
La fabula e il regno. Studi sul Thyestes di Seneca, Palermo, Palumbo, 1984; E. ROSSI, Una
metafora presa alla lettera: le membra lacerate della famiglia. „Tieste‟ di Seneca e i rifaci-
menti moderni, Pisa, ETS Editrice, 1989; C. MONTELEONE, Il Thyestes di Seneca. Sentieri
ermeneutici, Brindisi, Schena Editore, 1991.
31
Sperone Speroni lesse pubblicamente la Canace presso l’Accademia degli Infiammati,
delle cui discussioni è sicuramente uno dei frutti letterari più rilevanti: l’opera circolò subito
manoscritta e senza di fatto la revisione definitiva dell’autore (per questo le mancano i cori).
La tragedia, che sarebbe stata pubblicata solo nel 1546 a Venezia rispettivamente da Curzio
Trajano Navò, in una versione molto scorretta, e da Vincenzo Valgrisi a cura di Giovan Anto-
nio Claro, avrà altre cinque edizioni cinquecentesche. Sulla tragedia speroniana cfr. M. ARIA-
NI, Il «puro artifitio». Scrittura tragica e dissoluzione melica nella «Canace» di Sperone Spe-
roni, in «Il Contesto», n. 3, 1977, pp. 79-140; C. ROAF, Retorica e poetica nella Canace, in
«Filologia Veneta. Lingua, letteratura, tradizioni», II, 1989, pp. 169-91; M. CANOVA, Padova:
il „tragico umile‟, in ID., Le lacrime di Minerva, cit., pp. 53-98. Riassumiamo brevemente lo
sviluppo della fabula speroniana: il fantasma del figlio non nato dall’incesto di Canace e Ma-
careo, figli gemelli di Eolo e Deiopea, accusa Venere per aver avviato la spirale di libido che
ha colpito la sua famiglia e anticipa integralmente l’intera tragedia. Il prosieguo prevede il
16 Venezia in coturno

fu la colossale coupure che lo Speroni istituì fra oltranza tematica32 e


sermo suavis: schiacciante essendo sul piano quantitativo la primazìa
del settenario sull’endecasillabo33 e vistoso, in sede di costituzione del
verso, l’affoltarsi di strategie esibizionisticamente e narcisisticamente
liriche.34 Non per caso il Giraldi, nel Giuditio sopra la tragedia di Ca-
nace e Macareo, contesterà energicamente la coerenza strutturale, te-
matica e stilistica della tragedia speroniana, rilevando in essa alcune
clamorose aporie: i protagonisti sono consapevolmente e immoral-
mente scellerati (a differenza del perfetto personaggio tragico che è
scellerato inconsapevole: Edipo); lo spettro del bimbo non nato che si
autopresenta nella prima scena d’atto è un’incoerente follia; il parto di
Canace che, a gambe aperte, invoca l’aiuto di Giunone Lucina è inde-
coroso; infine, i versi adoperati dallo Speroni sono inadeguati alla tra-
gedia e piuttosto adatti alla poesia d’amore.35
È in questo contesto, non privo di impuntature polemiche e di con-
testuali decisivi aggiornamenti culturali,36 che si colloca la personalità

parto segreto di Canace; il tentativo (fallito) da parte della Nutrice di nascondere il bimbo ad
Eolo in una cesta di fiori: scopertolo, Eolo lo abbandona crudelmente in un bosco. Infine, è
rappresentato il doppio suicidio della coppia incestuosa (prima Canace e poi Macareo), con
Eolo che – assai poco tragicamente – finisce per pentirsi della sua severità.
32
Si ricordino almeno: la rappresentazione dell’incesto consapevole dei due protagonisti, i
gemelli Canace e Macareo; l’apparizione dello spettro del loro bimbo morto nella prima sce-
na; la giustificazione dei comportamenti scellerati con il ricorso alla vendicatività degli dèi
(Venere vs Eolo), etc..
33
Addirittura 1496 settenari contro 566 endecasillabi, su 2069 versi.
34
Spesseggiano rime, omeoteleuti, allitterazioni, paronomasie, consonanze e assonanze:
siamo di fronte ad una dictio che prelude platealmente allo slittamento del discorso tragico
verso tragicommedia, dramma pastorale, melodramma. A ulteriore dimostrazione di ciò, ba-
sterà osservare l’uso del dispositivo della parola-rima, quasi sempre di legalità petrarchesca:
in generale l’impressione è che la compaginazione dei significanti (spesso accompagnata da
precoci esempi di agudeza) sia precedente e prioritaria, anche sul piano gerarchico, rispetto a
quella dei significati. Per la natura eminentemente manieristica di queste strategie si cfr. M.
ARIANI, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki,
1974.
35
Il Giuditio verrà pubblicato anonimo a Lucca da Vincenzo Busdrago nel 1550. Cfr. la
moderna edizione G. B. GIRALDI CINZIO, Giuditio sopra la tragedia di Canace e Macareo con
molte utili considerationi circa l‟arte tragica, et di altri poemi, in S. SPERONI, Canace e scritti
in sua difesa: Apologia in difesa della sua tragedia. Lezioni in difesa della Canace. Lezioni
sopra i versi, a c. di C. ROAF, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982, pp. 3-94. Il
Giuditio verrà pubblicato da Vincenzo Busdrago a Lucca nel 1550.
36
Si pensi all’affermazione della teoresi aristotelica, grazie alle varie traduzioni e ai
commenti alla sua Poetica: A. PAZZI DE’ MEDICI, Aristotelis Poetica, per Alexandrum Pac-
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 17

di Lodovico Dolce e la realizzazione del suo significativo corpus tra-


gico,37 praticamente tutto compreso nel perimetro cronologico del se-
condo tempo del teatro tragico cinquecentesco (1536-1565),38 domina-
to dalle coordinate tipiche di una nuova Stimmung e di un nuovo gusto
che chiamiamo, senza equivoci, manieristi.39

cium, patricium florentinum, in Latinum conversa, Venezia, Manuzio, 1536; F. ROBORTELLO,


In librum Aristotelis de Arte poetica explicationes, Firenze, Lorenzo Torrentino, 1548; B. SE-
GNI, Rettorica, et Poetica d‟Aristotile, tradotte di greco in lingua vulgare fiorentina da Ber-
nardo Segni gentil‟huomo, et accademico fiorentino, Firenze, Lorenzo Torrentino, 1549; V.
MAGGI e B. LOMBARDI, In Aristotelis librum de Poetica communes explanationes, Venezia,
Vincenzo Valgrisi, 1550. Per un quadro complessivo sulle poetiche del secolo cfr. G. DELLA
VOLPE, Poetica del Cinquecento, Bari, Laterza, 1954; F. TATEO, „Retorica‟ e „Poetica‟ fra
Medioevo e Rinascimento, Bari, Adriatica Editrice, 1960; B. WEINBERG, A History of Literary
Criticism in the Italian Renaissance, 2 voll., Chicago, The University of Chicago Press, 1961;
R. MONTANO, L‟estetica del Rinascimento e del Barocco, Napoli, Quaderni di Delta, 1962; R.
BARILLI, Poetica e retorica, Milano, Mursia, 1969; H. GROSSER, La sottigliezza del disputare.
Teorie degli stili e teorie dei generi in età rinascimentale e nel Tasso, Firenze, La Nuova Ita-
lia, 1992; E. RAIMONDI, Rinascimento inquieto, Torino, Einaudi, 1994; S. JOSSA, Rappresen-
tazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinascimentali (1540-1560), Napoli, Viva-
rium, 1996; F. SBERLATI, Il genere e la disputa. La poetica tra Ariosto e Tasso, Roma, Bulzo-
ni, 2001.
37
Sul Dolce poeta tragico in generale cfr. A. PALADINI, «Ornamenti» e «bellezze»: la tra-
gedia secondo Lodovico Dolce, in Scritti in onore di Giovanni Macchia, vol. II: Le dimensioni
dello spettacolo, Milano, Mondadori, 1983, pp. 35-45; R. H. TERPENING, Lodovico Dolce.
Renaissance Man of Letters, Toronto, University of Toronto Press, 1997; R. CREMANTE, Ap-
punti sulla grammatica tragica di Ludovico Dolce, in «Cuadernos de Filologìa Italiana», V,
1998, pp. 279-90; A. NEUSCHÄFER, Da Thieste (1543) a Le Troiane (1566): le tragedie di Lo-
dovico Dolce tra traduzione e rifacimento, in «La parola del testo», V, 2001, 2, pp. 361-80; A.
NEUSCHÄFER, «Ma vorrei sol dipingervi il mio core,/ E aver un stile che vi fosse grato»: le
commedie e le tragedie di Lodovico Dolce in lingua volgare, in «Quaderni del Centro tedesco
di studi veneziani, 56», 2001; A. NEUSCHÄFER, Lodovico Dolce als dramatischer Autor im
Venedig des 16. Jahrhunderts, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 2004.
38
Si possono individuare almeno tre stagioni nella cronologia della tragedia del secolo
XVI: 1) il periodo dei grecizzanti fiorentini (1514-1536), che vede l’esordio di Trissino, Ru-
cellai, Alamanni, Pazzi de’ Medici e Martelli e che si conclude con la stampa della traduzione
latina della Poetica aristotelica allestita dal Pazzi stesso; 2) il periodo aristotelico e senecano
(1536-1565), che propongo di chiamare anche Primo Manierismo, caratterizzato dalla centra-
lità delle proposte del Giraldi Cinzio, dello Speroni, di Dolce, di Aretino e dal rilievo assunto
dal corpus tragico di Seneca rispetto ai tragici greci; 3) il Tardo Cinquecento (1565-1600), ca-
ratterizzato, da un lato, dal progressivo sfaldamento delle coordinate della grammatica tragica
precedente, dall’affermazione della poesia pastorale e di generi ibridi; dall’altro, da una non
casuale crisi dell’aristotelismo e da un rilancio programmatico della cultura cristiana (con una
nuova centralità riassunta dai tragici greci). I principali protagonisti di questa tarda stagione
cinquecentesca furono Groto, Torquato Tasso, Torelli.
39
Per il Manierismo in generale cfr. A. HAUSER, Il Manierismo. La crisi del Rinascimento
e l‟origine dell‟arte moderna, Torino, Einaudi, 1965; G. R. HOCKE, Il Manierismo nella lette-
18 Venezia in coturno

Quali che siano le prospettive da cui la complessa questione del


Manierismo viene osservata, indiscutibile mi pare il fatto che il Clas-
sicismo che aveva dominato nel Rinascimento, comincia progressiva-
mente a diventare repertorio di pure forme cui attingere, secondo
un’estetica egemonizzata dalla retorica dell’elocutio e della variatio
tematica e dalle prime vigorose spinte edonistiche: sempre più la lette-
ratura si esaurisce nei verba, emancipandosi dalle res, anche perché la
rappresentazione del mondo muta irreversibilmente e viene incrinato il
rapporto simmetrico fra parole e cose.40
Esordendo nella poesia melpomenia nel fatidico 1543, egli rifiuta
di inventare integralmente la proprie fabulae, come avevano fatto
Trissino, Giraldi e Speroni, e recupera invece inventio e dispositio di
due celebri tragedie antiche (l’Ecuba di Euripide, ma mediata da Era-
smo da Rotterdam, e il Tieste di Seneca), definendo immediatamente
le coordinate grammaticali del suo codice tragico, posto in equilibrio
tra attivazione delle passioni e orrore, patetismo e parenesi e, sul piano
strutturale, modulato specialmente sulle due proposte forti della recen-
te poesia coturnata italiana: l’Orbecche di Giraldi e la Canace di Spe-
roni. Semplificando un poco, la prima si caratterizzava per la sicura
destinazione rappresentativa, per la divisione in atti e scene, per la
schiacciante prevalenza dell’endecasillabo sciolto (più mimetico), per
la presenza del prologo che parla direttamente agli spettatori, per una
certa oltranza nella rappresentazione dell’orrore (non priva di funzio-
nalità parenetica); la Canace si distingueva invece per la scelta di un
sermo fortemente musicale, per la presenza egemonica del settenario
(spesso in rima), per la valorizzazione dei tratti erotico-sentimentali
della fabula (prelevata da Ovidio), con inevitabile obliterazione della
gravitas tematica e stilistica.
Dolce si decide, con il suo pragmatismo tipico, per una proposta e-
clettica, giocata tanto sulla partitura euripideo-senecana, quanto sulle

ratura. Alchimia verbale e arte combinatoria esoterica, Milano, Il Saggiatore, 1965; T. KLA-
NICZAY, La crisi del Rinascimento e il Manierismo, Roma, Bulzoni, 1973; Problemi del Ma-
nierismo, a c. di A. QUONDAM, Napoli, Guida, 1975.
40
Cfr. M. FOUCAULT, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1967. Ma si veda anche, per la
descrizione delle rilevanti implicazioni epistemologiche e antropologiche delle ricerche cos-
mologiche copernicane e post-copernicane, P. ROSSI, La rivoluzione astronomica, in Storia
della scienza, vol. I, Novara, De Agostini, 2006, pp. 163-92.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 19

forme della nuova tragedia di Giraldi e Speroni: non va trascurata la


possibilità che, per ragioni eminentemente commerciali, egli abbia in-
teso proporre nella Hecuba la tipica tragedia rinascimentale caratteriz-
zata da una protagonista femminile dolente e misera (si pensi al fortu-
nato archetipo della Sofonisba); con il Thyeste abbia voluto invece in-
serirsi nel recentemente fortunato filone della tragedia della crudeltà e
dell’orrore (à la Orbecche appunto).41
La Didone, terza tragedia del Dolce,42 sembra essere quella che più
esplicitamente esibisce il proprio debito, e con la Sofonisba trissinia-
na, e con la Canace, sceneggiando la triste vicenda sentimentale della
regina cartaginese, perfetta ipostasi della sedotta e abbandonata che
già aveva avuto una sanzione come personaggio tragico nelle proposte
di Pazzi de’ Medici e Giraldi stesso.43 Di particolare rilievo pare il fat-
to che sotto la lettera della Didone, quasi in controluce, sia chiaramen-
te avvertibile una cospicua presenza dell’Aretino della Seconda Gior-
nata,44 come si avrà modo di verificare puntualmente nel capitolo se-
guente: con il che l’operazione di Dolce si configura come recupero
non parodistico di un testo che programmaticamente si era costituito
invece come mise-en-burlesque della seria epica virgiliana, celeberri-
ma nel primo e medio Cinquecento anche per i molti volgarizzamenti
che diffusero i libri dell’Eneide come opere autonome e indipenden-
ti:45 in questa prospettiva il IV venne proposto come libro sommamen-
te sentimentale. Altro elemento di novità della Didone sarà la tematiz-

41
Cfr. L. DOLCE, La Hecuba. Tragedia tratta da Euripide, Venezia, Gabriele Giolito de’
Ferrari, 1543. Cfr. inoltre L. DOLCE, Le Tragedie di M. Lodovico Dolce, cioè Giocasta, Dido-
ne, Thieste, Medea, Ifigenia, Hecuba, di nuovo ricorrette e ristampate, Venezia, Gabriele
Giolito de’ Ferrari, 1560. Per il Thyeste ci permettiamo di rinviare ancora a L. DOLCE, Tieste,
a c. di S. GIAZZON, Torino, Edizioni RES, 2010.
42
L. DOLCE, Didone, tragedia di M. Lodovico Dolce, con privilegio, Venezia, Manuzio,
1547. Ma cfr. L. DOLCE, Didone, a c. di S. TOMASSINI, Parma, Archivio Barocco, Edizioni
Zara, 1996.
43
Rispettivamente con la Dido in Carthagine (1525 ca) e con la Didone (1541). Sulle tre
versioni cfr. C. LUCAS, „Didon‟. Trois réécritures tragique du livre IV de l‟Eneide dans le
théâtre italien du XVIe siècle, in Scritture di scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento,
cit., pp. 557-604.
44
Cfr. P. ARETINO, Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa le poltronerie degli
uomini inverso le donne. Seconda giornata (Venezia, Marcolini, 1536).
45
Cfr. L. BORSETTO, L‟«Eneida» tradotta. Riscritture poetiche del testo di Virgilio nel
XVI secolo, Milano, Unicopli, 1989.
20 Venezia in coturno

zazione di una rinnovata antropologia dell’amore, non priva di infles-


sioni palesemente erotiche e non indifferente al rilevante dibattito sul-
la questione del matrimonio e, più in generale, sulla posizione della
donna nella nuova società medio-cinquecentesca.46
La Giocasta, rifacimento di materia tebana delle Phoinissai euripi-
dee,47 mette in scena la dolorosa vicenda del fratricidio di Eteocle e
Polinice e pare tragedia fortemente sbilanciata in direzione pacifista,
tratto questo tra i più persuasivamente caratteristici dell’intera produ-
zione del Dolce e verosimile eredità erasmiana.48
Due anni dopo, nel 1551, il Dolce pubblica la sua Ifigenia,49 uno
dei testi più sottovalutati dell’intero teatro tragico cinquecentesco e, a
mio avviso, la sua prova più convincente assieme alla più tarda Ma-
rianna (1565):50 con essa, il poligrafo veneziano approfondisce in sen-

46
Cui anche Dolce aveva fornito il suo personale contributo, specialmente con il Dialogo
della institution delle donne (Giolito, 1545).
47
L. DOLCE, La Giocasta di M. Lodovico Dolce, Venezia, Manuzio, 1549.
48
Non mi pare sia stata ancora sufficientemente studiata la relazione di dipendenza dei
poligrafi italiani del Medio Cinquecento (Pietro Aretino, Giovan Battista Gelli, Lodovico
Domenichi, Anton Francesco Doni, Orazio Toscanella, Girolamo Ruscelli, Antonio Brucioli,
Tommaso Porcacchi, Lodovico Dolce…) dalla personalità e dall’opera di Erasmo da Rotter-
dam. Non va dimenticato che proprio un’opera erasmiana diffuse (pur in contesto fortemente
ironico e derisorio) il termine di poligrafo: cfr. ERASMO DA ROTTERDAM, Il Ciceroniano o del-
lo stile migliore, a c. di A. GAMBARO, Brescia, La Scuola Editrice, 1965, p. 242: «Bulephorus:
Hinc tibi proferam Erasmum Roterodamum, si pateris. Nosoponus: Professus es te de scripto-
ribus dicturum. Istum uero ne inter scriptores quidam pono, tantum abest ut ciceronianis an-
numerem. Bulephorus: Quid ego audio? Atqui uidebatur et inter πολσγράφοσς censeri posse.
Nosoponus: Potest, si πολσγράφος est, qui multum chartarum oblinit atramento. Alia res est
scribere, quode nos agimus, et aliud scriptorum genus». (vd. ERASMO DA ROTTERDAM, Il Ci-
ceroniano o dello stile migliore, a c. di A. GAMBARO, Brescia, La Scuola Editrice, 1965, p.
242). Ha paternità erasmiana il pacifismo molto diffuso nella letteratura veneziana (ma non
solo) del secolo: la Querela Pacis e l’adagio Bellum dulce inexpertis sono opere assai cono-
sciute e apprezzate. Sulla nuova figura intellettuale del poligrafo cfr. ancora C. DI FILIPPO
BAREGGI, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cin-
quecento, Roma, Bulzoni, 1988. Su Erasmo in Italia cfr. ancora S. SEIDEL MENCHI, Erasmo in
Italia (1520-1580), Torino, Bollati Boringhieri, 1987.
49
L. DOLCE, Ifigenia. Tragedia di M. Lodovico Dolce, con privilegio, Venezia, Giolito
de’ Ferrari, 1551.
50
Va subito aggiunto che Torquato Tasso nel suo dialogo Malpiglio secondo ovvero del
fuggir la moltitudine ricorderà esplicitamente l’Ifigenia del Dolce. Leggiamo infatti: «Fore-
stiero: Ma forse più co’ tragici, che con alcun’altro, perché l’ufficio loro è di muover orrore e
compassione. Giovanlorenzo Malpiglio: Con questi piango volentieri l’amore di Masinissa, e
la morte di Sofonisba e quella di Canace e di Macareo; e laudo la pietà d’Ifigenia e la fortezza
di Rosmonda; e abborrisco la crudeltà di Solmone, e m’empie di terrore l’infelicità de la mise-
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 21

so autenticamente manierista la lezione dei modelli scelti,51 proponen-


do una fabula in cui la doppiezza e l’ambiguità assurgono a veri e
propri nuclei tematici e strutturali, con la conseguenza diretta che il
focus dello sviluppo drammatico si concentra più sull’evoluzione inte-
riore dei personaggi che sulle vicende da questi agìte. È, quello
dell’estrema volubilità psichica degli agonistài, uno dei tratti più sug-
gestivamente moderni della tragedia euripidea e Dolce sembra averlo
pienamente compreso, spingendo proprio manieristicamente sul ver-
sante dello smarrimento dell’identità dei vari personaggi coinvolti, se-
condo coordinate che appartengono alla cultura del Manierismo matu-
ro e che sembrano davvero anticipare amletici disorientamenti.52
L’Ifigenia, quando sia letta in questa prospettiva, diventa un perfet-
to esempio di ricollocazione e ricontestualizzazione di un testo antico
nel campo letterario manierista,53 con sicure capacità di rappresenta-
zione della realtà contemporanea e di demistificazione di alcune sue
istituzioni immateriali, se non di autentica e dissolvente critica ideolo-
gica.54 In questo senso, perfettamente riprodotta, in questa capitale

ra Orbecche». La ricostruzione della genealogia della tragedia cinquecentesca mi pare assai


indicativa: Sofonisba, Canace, Ifigenia, Rosmunda, Orbecche sono i testi indicati dal Tasso,
che in quegli anni si stava occupando assiduamente di poesia tragica, come modelli di riferi-
mento.
51
Euripide, ma soprattutto Erasmo da Rotterdam. Per il quale cfr. ERASMO DESIDERIO DA
ROTTERDAM, Tragedie di Euripide. Hecuba – Iphigenia in Aulide, a c. di Giovanni BARBERI
SQUAROTTI, con introduzione di F. SPERA, Torino, Edizioni RES, 2000.
52
Sorprende un poco che uno studioso della caratura di Marco Ariani si sia del tutto di-
menticato del Dolce e della sua Ifigenia nel suo Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tra-
gico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974. Certo l’assenza del tragediografo veneziano
non può essere ritenuta casuale e si spiega, a mio avviso, come oggettiva difficoltà di inseri-
mento di una personalità che non fece direttamente i conti con la tipica corte rinascimentale
nel quadro allestito dall’Ariani nei suoi vari studi sul teatro cinquecentesco. Naturalmente non
si deve correre il rischio di compiere una insensata apologia della statura del Dolce, ma occor-
rera anche immediatamente registrare la notevole capacità di anticipazione che alcune sue tra-
gedie possiedono, tanto più Ifigenia. Proprio nell’epoca di consolidamento del Manierismo
europeo si porrà persuasivamente la questione della mutevolezza dell’io, nucleo concettuale
che influenzerà il pensiero di Montaigne, ma anche di Tasso, Cervantes, Shakespeare, per non
citare che i grandissimi.
53
Per il concetto di campo culturale e letterario cfr. P. BOURDIEU, Les règles de l‟art, Pa-
ris, Editions du Seuil, 1992.
54
Succede con la traduzione del Dolce quel che accade con il Don Quixote tradotto da
Pierre Menard nel celeberrimo racconto borgesiano di Ficciónes: financo la riproposizione
delle stesse parole cervantine cambia di segno se il contesto di accoglimento muta. Nel caso
della versione del Dolce, il livello di innovazione ipertestuale è in funzione del discorso cultu-
22 Venezia in coturno

tragedia del Dolce, è poi la cosiddetta ‘doppia morale’ che Machiavel-


li aveva analizzato nel Principe55 e che, è già stato notato, è uno dei
tratti più pertinentemente rappresentativi della crisi del Rinascimen-
to.56 Da tutti questi elementi, su cui inevitabilmente torneremo, emer-
ge l’originalità dell’operazione del Dolce.
Dopo un silenzio di qualche anno, vede la luce nel 1557 la Mede-
57
a, opera con cui si conclude la prima parte della produzione tragica
del Dolce e che nasce ancora programmaticamente da una contamina-
tio di Euripide e Seneca: con questo personaggio fondamentale della
drammaturgia antica e recente, Dolce si congeda per qualche anno
dall’invenzione coturnata per concentrarsi totalmente sulla traduzione
delle dieci tragedie attribuite a Seneca, che verranno pubblicate nel
1560.58
Non va peraltro dimenticato che la stampa della Medea si colloca
in un momento storicamente delicato per Venezia, funestata a partire
dal 1555 da una terribile e prolungata epidemia di peste: in questa pro-
spettiva, il personaggio di Medea può essere concepito come un dupli-
cato di Edipo, una sorta di pharmakòs che va eliminato per ripristinare
una temporanea e giocoforza illusoria (sembra suggerire Dolce) har-
monia mundi. E come la peste, a un certo punto Medea sparisce. La
stessa lunga descrizione della morte di Creusa e del padre Creonte, su
cui avremo modo di tornare, sembra potersi ricondurre più alla feno-
menologia della sofferenza prodotta dalla peste (che Dolce e gli spet-
tatori dovevano ben conoscere), che a ragioni esclusivamente artisti-
che.
In sostanza e per concludere: quale che sia il valore della Medea
(che continuiamo a reputare il testo più caduco dell’intera produzione
originale del nostro), importa il fatto che in essa la scelta di fare spet-

rale e antropologico (quanto consapevole non importa) che il tragediografo fa sul presente,
con reale, efficace capacità decostruttiva e con perfetta rappresentazione di varie istanze della
Stimmung manierista che si stava affermando.
55
Cfr. N. MACHIAVELLI, Il Principe, XV e XVIII.
56
Cfr. A. HAUSER, Il Manierismo. La crisi del Rinascimento e l‟origine dell‟arte moder-
na, Torino, Einaudi, 1965.
57
L. DOLCE, La Medea. Tragedia di M. Lodovico Dolce, Venezia, Giolito de’ Ferrari,
1557.
58
L. DOLCE, Le Tragedie di Seneca, tradotte da M. Lodovico Dolce, Venezia, Giovan
Battista e Melchiorre Sessa, 1560.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 23

tacolo delle antonomastiche scelerità della maga colchica, recuperan-


do anche alcune coordinate espressive del teatro senecano, si spieghi
come risemantizzazione del mito in funzione di un orizzonte storico
drammaticamente connotato.
Esaurita questa prima fase del suo percorso coturnato, come detto,
Dolce si volge all’impresa – invero titanica – di fornire una traduzione
integrale (la prima in una lingua europea) del corpus tragico seneca-
no.59
Inevitabile in questo lavoro l’aggiornamento di alcune coordinate
dell’originale latino: se nel Rinascimento l’imitatio/aemulatio del mo-
dello classico, giudicato ottimo, aveva come obiettivo la totale identi-
ficazione con esso, nell’estetica manierista, scontata l’impraticabilità
del recupero integrale dei modelli antichi, li si emula per distinguerse-
ne, valorizzandone strategicamente alcuni elementi. Dolce sceglie e-
sattamente questa seconda opzione nella sua traduzione di Seneca: ne
ammorbidisce l’orrore e il macabro secondo i dettami del decorum; ri-
dimensiona o cassa l’erudizione mitologica, geografica, metaforica;
alleggerisce il dettato poetico con un massiccio uso di settenari e con
una versificazione vistosamente sbilanciata sul versante dei suoni. Il
risultato finale è di tutto rispetto, quantunque la gravitas della dictio
senecana sia fatalmente edulcorata (o neutralizzata) e la terribilità di
molte sue fabulae sia messa in discussione dal cozzo con una pronun-
zia troppo suavis.

59
Cfr. L. DOLCE, Le Tragedie di Seneca, tradotte, Venezia, F. lli Sessa, 1560. Sul ruolo e
la funzione del teatro senecano nel Cinquecento europeo, questione su cui torneremo, cfr. Les
tragédies de Sénèque et le théâtre de la Renaissance, a c. di J. JACQUOT, Parigi, Edition du
Centre Nationale de la Recherche Scientifique, 1964; M. PAGNINI, Seneca e il teatro elisabet-
tiano, in «Dioniso. Rivista di studi sul teatro antico», LII, 1981, pp. 391-413; G. BRADEN,
Renaissance Tragedy and the Senecan tradition. Anger‟s Privilege, New Haven-London, Yale
University Press, 1985. Si tenga presente che Seneca tragico è nel primo Cinquecento oggetto
di molte pregevoli edizioni (con commento o senza): cfr. Senecae Tragoediae, a c. di BENE-
DETTO RICCARDINI, Firenze, Filippo Giunta, 1506 e 1513; la capitale edizione erasmiana di
Parigi: L. Annei Senece Tragoediae pristinae integritati restitutae: per exactissimi iudicii vi-
ros post Avantium et Philologum. D. Erasmum Roterodamum, Gerardum Vercellanum, Aegi-
dium Maserium, cum metrorum presertim tragicorum ratione ad calcem operis posita. Expla-
nate diligentissime tribus commentariis. G. Bernardino Marmita Parmensi, Daniele Gaietano
Cremonensi, Iodoco Badio Ascensio, Parigi, Josse Bade Ascensius, 1514; S(c)enecae Tragoe-
diae, a c. di GIROLAMO AVANZI, Venezia, Aldo Manuzio, 1517; L. Annei Senecae Corduben-
sis Tragoediae, Lione, Sebastien Gryphius, 1547.
24 Venezia in coturno

Il letterato veneziano proseguirà il suo più che ventennale percorso


di tragediografo con la Marianna,60 la cui materia è originalmente pre-
levata dalle Antiquitates iudaicae di Giuseppe Flavio e che ha come
suo cuore pulsante una passione romanzesca quale la gelosia.61 La
Marianna venne rappresentata una prima volta nel 1565 nel palazzo
privato di Sebastiano Erizzo, ubicato nella parrocchia di San Martino,
davanti a trecento gentiluomini, con le musiche predisposte da Clau-
dio Merulo; una seconda, con sfarzo ancor maggiore, presso la casa
privata sul Canal Grande di Alfonso II d’Este, duca di Ferrara. E infi-
ne scriverà Le Troiane,62 ancora nel segno della programmatica conta-
minatio delle Troades di Euripide con le Troades/Troas di Seneca: an-
che per le Troiane vi è una precisa data di rappresentazione (Carneva-
le del 1566) e ciò che risulta di eccezionale importanza è l’inserzione
di quattro intermedii mitologici musicati da Claudio Merulo fra i cin-
que atti della fabula, indicazione precisa dell’evoluzione del genere in
direzione del dramma musicale del Seicento.63 Precisiamo anche subi-
to che né la traduzione senecana, né le due ultime tragedie saranno
oggetto specifico del presente lavoro: contiamo di tornare compiuta-
mente sulla questione in altra sede e in altro momento.
Alla luce di questa rapida rassegna del corpus tragico di Lodovico
Dolce, ci sembra opportuno rilevarne gli elementi essenziali della sua
grammatica. Scontata l’inevitabile relazione emulativa con la tragedia

60
L. DOLCE, Marianna, Tragedia di M. Lodovico Dolce, recitata in Vinegia nel Palazzo
dell‟Eccellentiss. S. Duca di Ferrara, con alcune rime e versi del detto, con privilegio, Vene-
zia, Giolito de’ Ferrari, 1565. Ma cfr. soprattutto l’edizione moderna compresa in Teatro del
Cinquecento. La Tragedia, tomo I, a c. di R. CREMANTE, Milano-Napoli, Ricciardi, 1997, pp.
729-877. Cremante è stato tra i pochi studiosi ad accorgersi per tempo se non della genialità,
perlomeno della dignità del Dolce tragico.
61
Che ancora, non va dimenticato, sarà riproposta come nucleo semico e tematico decisi-
vo nell’Othello di Shakespeare.
62
L. DOLCE, Le Troiane, tragedia di M. Lodovico Dolce, recitata in Vinegia l‟anno
MDLXVI, con privilegio, Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1566.
63
Per qualche utile indicazione cfr. G. DAMERINI Il sodalizio artistico di Lodovico Dolce
con Antonio Molino detto il Burchiella per la Marianna e le Troiane, in «Il Dramma», 41, n.
342, marzo 1965, pp. 37-44. Gli intermedii, che erano abitualmente collocati fra un atto e
l’altro delle commedie, furono i più significativi precedenti del melodramma: ruolo archetipi-
co ebbero quelli presentati nel 1589 a Firenze in occasione delle nozze di Ferdinando de’ Me-
dici e Cristina di Lorena e che videro la collaborazione di una équipe composta, fra gli altri,
da Giovanni Bardi, Emilio de’ Cavalieri, Luca Marenzio, Iacopo Peri, Giulio Caccini, Cristo-
fano Malvezzi.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 25

antica (Euripide e Seneca sono i modelli privilegiati), paiono tratti


pertinenti della sua scrittura: l’assenza di preoccupazioni di ordine te-
orico;64 la natura ipertestuale delle fabulae, che sono non tanto tradu-
zioni quanto riscritture o rifacimenti;65 una tipica sensibilità tipografi-
ca per la diffusione in volgare di contenuti classici (quali quelli tragi-
ci), riarticolati per venire incontro alle competenze di un nuovo ceto di
consumatori culturali, il che comporta la liquidazione di motivi repu-
tati troppo culti (riferimenti mitologici, etnografici, geografici, ono-
mastici, eruditi) e una almeno parziale neutralizzazione dell’allusività
e della metaforicità tipiche della scrittura tragica antica.
L’intero corpus tragico del Dolce può essere inoltre rubricato sotto
il paradigma della razionalizzazione esplicativa e della chiarificazione
comunicativa, secondo i dettami della verosimiglianza,66 e si caratte-
rizza per l’adozione di strategie retoriche riconducibili all’amplifi-
catio, all’adiectio, all’expolitio: varie ripetizioni egemonizzano la sua
dictio, con l’obiettivo principale della perspicuitas,67 che specie nel
caso della traduzione di Seneca non è facile da raggiungere, iuxta la
natura eminentemente anfibologica di tante sequenze del poeta tragico
latino: le figure della ripetizione (geminationes, redditiones, redupli-
cationes, polittoti, sinonimi, anafore, epifore, diafore, isocòli, etc.) e
dell’amplificazione (commorationes, descriptiones, correctiones, epi-
frasi, dittologie, etc.) hanno un precipuo valore emotivo e connotativo,
arrestando il passaggio di informazioni dal mittente al ricevente e re-
plicando con micro-variationes semantiche ed espressive, le informa-
zioni già fornite: in Dolce vi è in tanto un abuso di tutte queste figura-
e, in quanto il poligrafo veneziano teme l’obscuritas e la possibilità di

64
Aspetto che sembra piuttosto caratteristicamente manierista.
65
Sul concetto di ipertestualità cfr. G. GENETTE, Palinsesti. La letteratura al secondo
grado, Torino, Einaudi, 1997. Sulla categoria di riscrittura cfr. Scritture di scritture. Testi, ge-
neri, modelli nel Rinascimento, a c. di G. MAZZACURATI e M. PLAISANCE, Roma, Bulzoni,
1987; L. BORSETTO, Il furto di Prometeo. Imitazione, scrittura, riscrittura nel Rinascimento,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1990; A. LEFEVERE, Traduzione e riscrittura, Torino, UTET,
1998.
66
Specialmente sorprendente in alcuni passi di Didone, Giocasta, Ifigenia, Medea.
67
Per la categoria retorica di perspicuitas cfr. i classici H. LAUSBERG, Elementi di retori-
ca, Bologna, Il Mulino, 1969 e B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, Milano, Bom-
piani, 1988, pp. 135-39. Sulla retorica e sulle sue funzioni cfr. R. BARTHES, La retorica anti-
ca, Milano, Bompiani, 1972 e A. BATTISTINI, E. RAIMONDI, Le figure della retorica, Torino,
Einaudi, 1990.
26 Venezia in coturno

equivoco. Ma la ripetizione è un doppio variato, strategicamente fun-


zionale, vera e propria pars pro toto per indicare paradigmaticamente
una intera stagione culturale caratterizzata dalla scrittura come eleva-
mento a potenza, riscrittura, letteratura al quadrato, au second degré.
Inoltre ha una precisa funzione patetizzante ed enfatizzante: il per-
sonaggio in preda al furor e alle passioni, interrompe la sequenzialità
additiva della sua comunicazione per ribadire ossessivamente, convul-
samente, anancasticamente, le stesse cose con le stesse parole. Deci-
samente frequenti sul piano stilistico sono in Dolce: 1) le giunture ag-
gettivo + nome (o viceversa); 2) un profluvio di dittologie di prevalen-
te legalità petrarchesca (ma anche dantesca) e la cui funzione andrà
precisata caso per caso; 3) la sentenziosità, vero puntello del discorso
tragico, che ha le caratteristiche della ripetizione paradigmatica essen-
do, per ovvie ragioni, topica.
In linea con l’aggiornamento che il linguaggio tragico aveva co-
minciato a subire a partire dall’innovativa proposta della Canace, an-
che in Dolce fa la sua significativa comparsa un’impo-nente mèsse di
figurae di suono: allitterazioni, omeoteleuti, rime a contatto e a distan-
za, assonanze, consonanze, paronomasie, anagrammi, etc., che in
qualche caso arrivano a minacciare l’assetto metrico e prosodico dello
sciolto e che possiedono spesso autonoma capacità di condizionamen-
to della lettera del testo, finendo per determinare con i significanti, an-
che i significati: questo tratto, così esibito, ma nel complesso poco in-
dagato, è elemento di sicuro interesse nella produzione tragica del
Dolce.68 Inoltre, andrà notata una frequenza piuttosto alta nell’uso del
settenario (altro persuasivo tratto canaceo), specie nelle sequenze ad
alta caratura patetica e nei monologhi dei personaggi femminili. I cori
sono tendenzialmente modellati su precedenti petrarcheschi o lieve-
mente variati rispetto a questi.
L’uso delle fonti mobilitate da Dolce per la compaginazione della
sua pagina tragica non si discosta troppo dalle costanti del codice tra-
gico cinquecentesco: l’incoesa pluralità dei materiali lessematici im-
piegati è esemplare testimonianza delle difficoltà implicite nell’or-
ganizzazione testuale della tragedia in volgare e rivela l’affanno, la fa-

68
Per analogo funzionamento della fonicità in ambito comico cfr. M. L. ALTIERI BIAGI,
La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 27

tica, lo squilibrio della ricerca coturnata.69 Egemonica, va da sé, è la


presenza del Petrarca mediamente grave e dei petrarchisti (Bembo e
Bernardo Tasso, su tutti);70 nondimeno degna di nota è la consistenza
del lessico dantesco, di Poliziano e dell’Ariosto cavalleresco, autori
molto amati e ammirati dal Dolce. Certamente da sottolineare sarà poi
la ovvia relazione con la tradizione tragica cinquecentesca.
Passando dal piano stilistico a quello tematico e ideologico, più
problematica si rivela l’indagine delle relazioni del nostro con Venezia
e con il potere, anche perché nel suo caso (un unicum nella tragedia
rinascimentale e manierista italiana) non vi è la committenza o il me-
cenatismo di una corte e di un principe, bensì l’articolatissimo e varie-
gato contesto della spettacolarità della Serenissima che, per certi ri-
spetti, è già modernamente strutturata secondo logiche di mercato.71
Non si deve dimenticare che Giolito, il principale editore di Dolce
(che fu il suo collaboratore principe), fu il più significativo promotore
della stampa e ristampa di tragedie e commedie nel Cinquecento.72
Prendendo in considerazione il solo versante coturnato e le sole
prime edizioni, annoveriamo oltre ad Hecuba e Thyeste (1543), la So-
fonisba di Galeotto Del Carretto (1546), notevole archetipo della capi-
tale tragedia trissiniana, e l’Orazia di Aretino (1546); e poi ancora
l’Ifigenia del Dolce (1551), l’Orbecche di Giraldi (1551) e la Sofoni-
sba del Trissino (1553); infine, dopo la Medea dolciana del 1557, la
Canace di Speroni (1562), le già nominate Marianna e Troiane (1565
e 1566) e la Fedra di Francesco Bozza Candiotto (1578). Se all’elenco
si aggiungono anche la princeps dei Discorsi intorno al comporre de i

69
Le stesse contraddizioni inscritte nei percorsi di tutti i tragediografi del tempo e nelle
loro opere vanno spiegate come segni di debolezza di un codice che non possiede testi vera-
mente forti e di una pluralità di pratiche che non riesce a costituirsi come grammatica. Per la
questione cfr D. JAVITCH, La nascita della teoria dei generi poetici nel Cinquecento, in «Ita-
lianistica», XXVII, maggio-agosto 1998, pp. 177-97.
70
Sulla dialettica gravitas-suavitas cfr. A. AFRIBO, Teoria e prassi della gravitas nel Cin-
quecento, Firenze, Franco Cesati Editore, 2001.
71
Cfr. R. GUARINO, Teatro e mutamenti. Rinascimento e spettacolo a Venezia, Bologna, Il
Mulino, 1995. Sul versante comico della teatralità veneziana cfr. il fondamentale G. PADOAN,
La commedia rinascimentale a Venezia: dalla sperimentazione umanistica alla commedia
«regolare», in ‘Storia della Cultura Veneta’, 3/III: Dal primo Quattrocento al Concilio di
Trento, a c. di M. PASTORE STOCCHI e G. ARNALDI, Vicenza, Neri Pozza, 1981, pp. 377-465.
72
Alla collaborazione fra Dolce e Giolito si deve la diffusione del cinquecentesco libro de
theatro.
28 Venezia in coturno

Romanzi, delle Commedie e delle Tragedie del Giraldi (1554) e


l’edizione complessive del teatro tragico del Dolce del 1560 il quadro
si fa ancora più coerente.73
Le autorità veneziane, che favorirono molto generi parateatrali qua-
li le momarie74 e che sopportarono invece con un certo fastidio la rap-
presentazione di commedie, sostanzialmente tollerarono le tragedie,
avvertite pour cause come meno pericolose sul piano sociale per
l’oligarchia veneziana e non reputate capaci di incidere davvero sulle
sue consolidate strutture istituzionali.75
Dalla sostanziale assenza di opposizione fra potere e cultura, anzi
dalla valorizzazione del mito di Venezia76 promosso dalle sue oligar-
chie e che, è stato giustamente osservato da Cozzi,77 discende di fatto
dalla necessità di controbilanciamento delle frustrazioni provocate dal-
la perdita di reale peso politico della Serenissima a partire dal 1509, si
costituisce direttamente il topicissimo motivo della Laus Venetiae, che

73
Per tutti questi dati cfr. S. BONGI, Annali di Gabriel Giolito de‟ Ferrari da Trino di
Monferrato, stampatore in Venezia, descritti ed illustrati, 2 voll., Roma, Presso i principali
Librai, 1890-1895 e gli aggiornamenti di P. CAMERINI, Notizia sugli Annali Giolitini di Salva-
tore Bongi, in ‘Atti e Memorie della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova’,
vol. 51, 1934-1935, pp. 103-238 e ID., Aggiunta alla “Notizia” sugli Annali Giolitini di Sal-
vatore Bongi, in ‘Atti e Memorie della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Pado-
va’, vol. 53, 1936-1937, pp. 91-111.
74
Cfr. M. T. MURARO, La festa a Venezia e le sue manifestazioni rappresentative: le
Compagnie della Calza e le momarie, in ‘Storia della Cultura Veneta’, 3/III: Dal primo Quat-
trocento al Concilio di Trento, a c. di M. PASTORE STOCCHI e G. ARNALDI, Vicenza, Neri
Pozza, 1981, pp. 315-41.
75
Sulle istituzioni veneziane e sul patriziato cittadino cfr. D. E. QUELLER, Il patriziato ve-
neziano. La realtà contro il mito, Roma, Il Veltro, 1987. Per una ricostruzione della storia del-
la Serenissima ho tenuto conto soprattutto di W. H. MCNEILL, Venezia: il cardine d‟Europa
(1081-1797), Roma, Il Veltro, 1979; O. LOGAN, Venezia. Cultura e società (1470-1790), Ro-
ma, Il Veltro, 1980 e E. CROUZET-PAVAN, Venice Triumphant. The Horizons of a Myth, Bal-
timora, The Johns Hopkins University Press, 2002.
76
Sul mito di Venezia cfr. F. GAETA, L‟idea di Venezia, in ‘Storia della Cultura Veneta’,
3/III: Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, a c. di M. PASTORE STOCCHI e G. AR-
NALDI, Vicenza, Neri Pozza, 1981, pp. 565-641. Su un piano più storico cfr. G. BENZONI, Un
ancoraggio contro la crisi: Venezia, in ID., Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere
nell‟Italia della Controriforma e barocca, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 7-77. Il libro di Ben-
zoni è da tenere presente integralmente per la ricostruzione molto suggestiva della situazione
dell’intellettualità tardo-cinquecentesca che vi viene compiuta.
77
Cfr. G. COZZI, La politica culturale della Repubblica di Venezia nell‟età di Giovan Bat-
tista Benedetti, in Giovan Battista Benedetti e il suo tempo, Istituto Veneto di Scienze, Lettere
ed Arti, 1987, pp. 9-27.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 29

ha un sicuro rilievo nella produzione tragica del Dolce, trovando col-


locazione negli spazi prologici78 della Giocasta, dell’Ifigenia, di Me-
dea, della Marianna.79 Ma proprio questa totale identificazione ideo-
logica con l’orizzonte oligarchico veneziano, di fatto senza deflessioni
o peritanze, permette a Dolce di compiere un discorso decostruttivo
sui meccanismi del potere, pessimisticamente valutato come inerte ri-
petizione di strategie sopraffattorie, salva restando comunque l’intan-
gibilità dell’organizzazione istituzionale a forte marca utopistica della
Repubblica veneziana.
E dall’impietosa rappresentazione del potere, dalla convinzione
della sostanziale negatività della storia, discende un altro tema centra-
le nel corpus tragico del poligrafo veneziano: quello, di cui già si è
detto, del pacifismo di ascendenza erasmiana e della conseguente de-
precazione della guerra, descritta realisticamente come spaventosa
sciagura in varie pièces. La stessa materia di molte delle fabulae selet-
te (almeno Hecuba, Giocasta, Ifigenia, Le Troiane) permette al Dolce
la rappresentazione degli orrori della guerra, derivandone le coordina-
te direttamente dalla dolorosa storia del Cinquecento, veneziano e
no.80 Ed anche laddove la guerra abbia solo una funzione minore, sia
decentrata rispetto ad altri nuclei tematici (Didone), la presenza di mo-
tivi ad essa inerenti ha una persuasiva forza di denuncia.81

78
Caratteristicamente e programmaticamente così significativi, perché a metà strada, nella
loro liminarità, fra paratesto e testo vero e proprio.
79
Cfr. rispettivamente Giocasta, prologo, vv. 35-40; Ifigenia, prologo, vv. 1-5; Medea,
prologo, vv. 58-75; Marianna, prologo I, vv. 76-93.
80
Per la questione risulta ancora irrinunciabile C. DIONISOTTI, Geografia e storia della
letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1963 e specialmente le pp. 201-26.
81
Cfr. L. DOLCE, Didone, vv. 2160-77: «Nunzio: Misere, e che ci resta/Altro, che veder la
città smarrita/Prender, e sacheggiar dal fero Iarba?/E quella crudeltà nel sangue nostro/Usar,
ch’a raccontar non fia creduta?/Bizia: Indovino ben sei di queste pene:/Perché pur hora uno
de’ nostri è giunto,/Spettacol brutto, e a rimirar pietoso:/Tronche le mani avea, le orecchie, e
’l naso,/E tutto rosso del suo stesso sangue,/N’avisò che i Getuli ardon per tutto/I nostri cam-
pi, e occidono qualunque/Huomo, donna, fanciullo, o vecchio infermo/Trovan per le campa-
gne, o ne le case. /E questo detto, dal dolor trafitto,/Cadde morto dinanzi a’ nostri piedi./Onde
già la roina di Cartago,/E ’l flagello di noi troppo è vicino». Per il nucleo tematico della guer-
ra nella tragedia cinquecentesca cfr. R. CREMANTE, Appunti sul tema della guerra, ed in par-
ticolare della guerra d‟Oriente, nella tragedia italiana del Cinquecento, in Guerre di religio-
ne sulla scena del Cinquecento, a c. di M. CHIABÒ e F. DOGLIO, Roma, Torre d’Orfeo, 2006,
pp. 121-138 e ID., Aspetti della realtà contemporanea nella tragedia italiana del Cinquecen-
30 Venezia in coturno

Fra gli altri temi ricorrenti nella tragedia del Dolce, non può man-
care un topos della poesia rinascimentale quale quello della rea For-
tuna,82 declinato in qualche caso con notevole originalità e non senza
addentellati con la questione eterodossa, ma culturalmente decisiva,
del rapporto fra libero arbitrio e predestinazione: difficile pensare che
nella Venezia di medio Cinquecento tali problematiche non avessero
diritto di cittadinanza nel dibattito culturale corrente, senza che ciò
implicasse peraltro una autentica adesione alle teorie riformate.83
In ultima analisi, occorre gettare un breve sguardo alla fondamenta-
le questione della mise-en-scène: Dolce prevede per tutte le sue trage-
die la rappresentazione teatrale. Non vi sono attestazioni di traduzione
scenica per le prime due tragedie di Dolce (Hecuba e Tieste), ma per
le altre disponiamo di dati sicuri: la Didone fu messa in scena a Vene-
zia da Pietro d’Arman nel 1546; la Giocasta ebbe una rappresentazio-
ne nel 1549 e vi sono addirittura testimonianze di una ripresa viterbese
nel 1570. Sicura è anche la messinscena di Ifigenia, Medea, Marianna
e Troiane, queste due ultime con la partecipazione del celebre Antonio
Molin detto Burchiella, grande attore comico riciclatosi per l’occa-
sione.84
Come noto, il problema della rappresentazione scenica non era sta-
to la principale preoccupazione della prima stagione di rilancio del te-
atro tragico classicistico cinquecentesco: solo con il Giraldi Cinzio la
questione si era riproposta in tutta la sua urgenza, tanto che già nella
Lettera sulla Tragedia (1541) egli poteva enfaticamente sostenere di
aver rinnovato «l’uso dello spettacolo» che era «poco meno che anda-
to in obblivione».85 Per Dolce, che certamente fu condizionato da un

to: appunti sul tema della guerra, in La scena del mondo. Studi sul teatro per Franco Fido, a
c. di L. PERTILE, R. A. SYSKA-LAMPARSKA, A. OLDCORN, Ravenna, Longo, 2006, pp. 77-88.
82
D. DALLA VALLE, Il tema della Fortuna nella tragedia italiana rinascimentale e baroc-
ca, in «Italica», vol. 44, n. 2, 1967, pp. 180-208.
83
Per un quadro sulla circolazione editoriale a Venezia e dei rapporti con la censura cfr.
P. F. GRENDLER, L‟Inquisizione romana e l‟editoria a Venezia: 1540-1605, Roma, Il Veltro,
1983.
84
Cfr. sempre G. DAMERINI Il sodalizio artistico di Lodovico Dolce con Antonio Molino
detto il Burchiella, in «Il Dramma», 41, n. 342, marzo 1965, pp. 37-44.
85
Nel Discorso intorno al comporre delle Comedie e delle Tragedie (Venezia, Giolito,
1554), Giraldi sosteneva addirittura la necessità di una diversa struttura della fabula tragica a
seconda che la sua destinazione fosse quella della rappresentazione (nel qual caso era a suo
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 31

mercato teatrale estremamente dinamico e per così dire bulimico come


quello veneziano, la rappresentazione era un passaggio obbligato: ciò
non escludeva, va da sé, la successiva promozione editoriale delle o-
pere messe in scena, stampate e ristampate in formati maneggevoli.86
In ogni caso ciò che balza agli occhi nelle tragedie del Dolce, anche
in quelle per cui non disponiamo di documenti a supporto dell’ipotesi
della messinscena, è l’alto gradiente di teatrabilità definito dalle preci-
se strategie di scrittura drammatica adottate: notevole coefficiente per-
formativo di alcune sequenze del linguaggio tragico; significativa arti-
colazione prossemica mediante deissi (distale vs prossimale, a seconda
delle relazioni emotive e psicologiche attivate); ostensione di oggetti-
segni sovrasemantizzati scenicamente (cfr. il cadavere velato di Poli-
doro nella Hecuba, i resti dei cadaveri dei figli nel Tieste, la spada in
Didone, la lettera in Ifigenia…); vivacizzazione delle sequenze dialo-
giche con sticomitie e addirittura antilabài; rifiuto di infrangere la ve-
rosimiglianza scenica che nasce da puntiglio razionalistico, ma anche
da precise esigenze rappresentative (cfr. soprattutto la liquidazione
della celebre scena epicheggiante di teichoskopìa presente nella Phoi-
nissai e che non trova spazio nella Giocasta perché inverosimile),
etc..87
Concludendo, assai significativo pare il ruolo del Dolce come me-
diatore delle forme del teatro tragico rinascimentale, nelle sue versioni
classicistica e manieristica, per i poeti drammatici del secondo Cin-
quecento: Torquato Tasso, Battista Guarini, Luigi Groto, Pomponio
Torelli. L’impressione è che con lui, ancorché senza approfondimenti
teorici e forse senza troppa consapevolezza, venga avviata una impor-
tante fase di aggiornamento della mappa culturale italiana: pur non po-
tendo liquidare del tutto la tradizione classica, questa – tanto più se
condizionata dalle smanie di novità dell’industria editoriale – necessi-

avviso preferibile il lieto fine), o quella della sola lettura (in cui era da favorire il fine mesto
nel quale Seneca era stato maestro insuperato).
86
Alla collaborazione fra Dolce e Giolito si deve la diffusione del cinquecentesco libro de
theatro.
87
Sulla natura complessa e stratificata del testo teatrale e sulla teatralità come dato inscrit-
to nel testo drammatico cfr. F. RUFFINI, Semiotica del testo. L‟esempio del teatro, Roma, Bul-
zoni, 1978; M. DE MARINIS, Semiotica del teatro. L‟analisi testuale dello spettacolo, Milano,
Bompiani, 1982; C. SEGRE, Teatro e romanzo, Torino, Einaudi, 1984; K. ELAM, Semiotica del
teatro, Bologna, Il Mulino, 1988.
32 Venezia in coturno

tava di una robusta iniezione di originalità, attraverso il ricorso a nuo-


ve auctoritates che venivano non a soppiantare bensì ad aggiungersi ai
consolidati punti di riferimento della cultura del Rinascimento maturo
(Cicerone, Orazio, Virgilio): fra gli altri, Ovidio, Seneca, Tacito e Plu-
tarco, ma anche Petronio e Apuleio.88 Si capisce che, per quanto con-
cerne almeno Ovidio e Seneca, il Dolce ebbe un significativo ruolo di
mediazione e divulgazione.
Dagli anni Sessanta entriamo compiutamente nel terzo tempo cultu-
rale del secolo: il quadro complessivo si caratterizza per la riafferma-
zione politica della Chiesa cattolica, che avrà modo di condizionare
con il dispositivo della censura e con la riorganizzazione del
Sant’Uffizio, anche se con differenze significative, il campo cultura-
le.89
Certamente mutano i gusti del pubblico medio: l’editoria si specia-
lizza in catechismi, libri devozionali, vite di santi, opere patristiche,
trattati teologici, commenti biblici, testi di approfondimento religioso.
Le tragedie non vengono dimenticate (mai come in questa fase del
Cinquecento si scrivono e pubblicano tragedie), ma in molti casi ci
troviamo di fronte ad eclettici episodi presentati come estremi tentativi
di ripristino dei dispositivi del discorso tragico antico, non senza un
robusto, quantunque un poco velleitario, nuovo filologismo grecizzan-
te, e che in realtà rispecchiano una antropologia definitivamente e ir-
reversibilmente mutata e coordinate teatrali rinnovate: perfetto esem-
plare di questa nuova ricerca sarà il sofocleo Edipo re allestito nella
traduzione italiana di Orsatto Giustinian (fastoso Gesamtkunstwerk
con otto attori, novantatré figuranti e un coro composto da quindici
cantanti), con cui venne inaugurato nel 1585 il palladiano Teatro O-
limpico di Vicenza, per la regia di Angelo Ingegneri, le musiche di
Andrea Gabrieli, la partecipazione di Luigi Groto nelle vesti di Edipo:

88
Cfr. E. PARATORE, L‟influenza della letteratura latina da Ovidio ad Apuleio nell‟età del
Manierismo e del Barocco, in Manierismo, Barocco, Rococò: concetti e termini, Accademia
Nazionale dei Lincei, n. 52, Roma, 1962, pp. 239-301.
89
Il Cathalogus librorum haereticorum del 1554, che è il primo indice di provenienza
romana, diffonde il principio secondo il quale basta anche solo qualche passo di un autore per
censurare integralmente i suoi opera omnia. Offre una sintesi efficace sul quadro storico R.
PO-CHIA HSIA, La Controriforma. Il mondo del rinnovamento cattolico (1540-1770), Bologna,
Il Mulino, 2001.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 33

un’impresa straordinaria eppure sostanzialmente estranea al linguag-


gio tragico cinquecentesco, se è vero che la dictio del testo fu sopraf-
fatta da uno straordinario apparato coreografico, costumistico, illumi-
notecnico, musicale, ulteriore dimostrazione di un’evoluzione in atto
nella direzione della pura visività spettacolare e della musicalità: con
il che si annunciano altre Stimmungen e altri gusti (che il Dolce già
con le Troiane sembrava avere preconizzato).
Evidentemente, anche alla luce della riaffermazione del pensiero
platonico, che sarà capitale punto di riferimento teorico per tutti i ge-
neri musicali secenteschi, nuove sono le direzioni della ricerca lettera-
ria italiana à la page nel tardo XVI secolo: i capolavori drammatici di
questo periodo non sono, la cosa è nota, né il Re Torrismondo,90 né la
bellissima Adriana del Groto o la decorosa e classicistica Merope del
Torelli, bensì il tassiano Aminta e il Pastor fido del Guarini, opere
programmaticamente sperimentali e ibride, nelle quali alto è il coeffi-
ciente di autonomia rispetto alla dominante teoresi aristotelica e che
sono gli esiti più notevoli di una ricerca drammatica a clamorosa, e
davvero non più revocabile in dubbio, caratura madrigalistica e meli-
ca. Con i loro drammi pastorali tragicomici il Tasso e il Guarini rap-
presentano il punto di partenza di tutta la ricerca poetica che porterà
alla nascita del melodramma.
La musa tragica ausonia non si esaurirà certo con la sperimentazio-
ne tardo-cinquecentesca, ma parlerà una lingua altra rispetto a quella
che aveva parlato in precedenza, essendo la peculiarità del suo discor-
so sempre più compromessa da una teatralità scenografica, musicale e
spettacolare o da soluzioni ibride sul piano del genere: altri contesti
culturali (Inghilterra, Francia, Spagna) erediteranno le faticose conqui-
ste della theorìa e della pràxis della tragedia italiana del Cinquecento,
portandola a smagliante maturità espressiva. E anche in questo senso
il ruolo del Dolce appare quello di un mediatore forte e non di un epi-
gono o di un modesto dilettante: basti ribadire che la prima tragedia
regolare inglese, la Jocasta di George Gascoygne e Francis Kinwel-

90
Su cui almeno cfr. S. VERDINO, Il Re Torrismondo e altro, Alessandria, Edizioni
dell’Orso, 2007.
34 Venezia in coturno

mershe,91 è una plateale parafrasi della Giocasta del nostro e che la


Dido, Queen of Carthage di Christopher Marlowe è, per più rispetti,
debitrice nei confronti della Didone dolciana.
Ma la storia dell’incidenza del teatro del Dolce su tradizioni sceni-
che allotrie, quale quella spagnola e quella inglese in particolare, è in
larga parte ancora da scrivere, ferma restando la centralità di
un’esperienza che nasce da un articolato e diseguale, e nondimeno im-
portante, lavoro di combinazione, embricazione, intarsio, riscrittura,
che diede vita alla poesia drammatica se non del più grande, almeno
del più «attivo e prolifico tragediografo di questi anni».92

91
Cfr. A Tragedie written in Greeke by Euripides translated and digested into Acte by
George Gascoygne and Francis Kinwelmershe of Grayes Inne, and there by them presented,
1566.
92
M. PIERI, La tragedia in Italia, in Le rinascite delle tragedia. Origini classiche e tradi-
zioni europee, a c. di G. GUASTELLA, Roma, Carocci, 2006, p. 187. Non senza un pizzico di
provocazione, io ritengo che Dolce sia stato davvero il più grande tragediografo italiano del
secolo. Sulle ascendenze senecane e italiane del teatro elisabettiano cfr. R. S. MIOLA, Shake-
speare and Classical Tragedy. The Influence of Seneca, Oxford, Clarendon Press, 1992.
Capitolo II

Le tragedie di Lodovico Dolce


o della riscrittura manieristica dell‟antico

1. Hecuba1

Precede la tragedia una epistola dedicatoria indirizzata al nobile


Cristoforo Canale:

Al magnifico M. Cristophoro Canale


Lodovico Dolce

La Fortuna ha tanta forza nelle cose humane, che non senza cagione ne gli
antichi secoli alcuni le sacrarono Tempi et Altari. Percioché ella gli stati bassi
con gli alti agguagliando; et i piaceri mescolando con le tristezze; niente lassa
qua giù, che non sia tocco et rivolto da lei: di maniera, che sempre lo estremo
d‟i risi tengono i pianti, et alle miserie sopravengono le felicità. Là onde cota-
li et sì diversi accidenti facendone questa conoscere; niuna condition tra mor-
tali esser perpetua, quegli antichi huomini, i quali prima, che fossero edificate
le Mura di Athene, menavano la lor vita ne‟ campi; non senza cagione trova-
rono le Commedie et le Tragedie; sotto il piacevole velo di cotali avenimenti
discoprendo a poco a poco la vita migliore; et insegnando l‟huomo nelle a-
versità non doversi sì fattamente disperare, che non pensasse a qualche tempo
poter ritornare a più lieta vita; ne per le felicità de‟ prosperi avenimenti in
modo insuperbire, che non temesse, quando che sia, al fondo delle miserie
poter cadere. Et al fine veggendo tra noi non esser perpetua contentezza, si
rivolgesse al cielo; et cercasse la vera et eterna felicità di là su. Per il che io;
che delle dolcezze di essa Fortuna pochissima parte sempre, et delle sue ama-
ritudini grandissima quantità ho gustato e gusto; non sapendo quello ch‟io
m‟habbia più hoggimai a sperare, né più a temere; con gli altrui esempi vo
cercando di consolarmi. Il che ha dato occasione al nascere della presente
Tragedia. Di Padova, a Sedici di Giugno, 1543

1
L. DOLCE, La Hecuba. Tragedia tratta da Euripide, Venezia, Gabriele Giolito de‟ Ferra-
ri, 1543. Cfr. anche l‟edizione giolitina del 1560 che contiene tutte le tragedie di Dolce.
36 Venezia in coturno

Si tratta di un documento particolarmente importante anche da un


punto di vista storico e biografico: Dolce accenna, in cauda, con una
sincerità che va forse al di là della topica degli spazi dedicatorî, alle
sue sofferenze, facendo una sconsolata riflessione sulla vanità di qual-
sivoglia tentativo di contrastare Fortuna. Da notare, comunque, in
primis, il singolare tentativo di ricostruzione storica del genere teatrale
e delle sue due forme principali (commedia e tragedia), declinate se-
condo una logica vistosamente didattica; poi, il riferimento consolato-
rio, ma in un quadro decisamente pessimistico, alla dimensione reli-
giosa come unica occasione di risarcimento per l‟uomo afflitto da una
perenne precarietà.
La tragedia è articolata in cinque atti con tre cori2 ed un (consueto)
breve coro madrigalistico in conclusione – sorta di marchio di fabbrica
della scrittura di Dolce tragediografo – in cui il poeta riflette sulla du-
rezza del destino e sulla sofferenza umana. I versi complessivi sono
2590, essenzialmente endecasillabi, rispetto ai 1376 della Hecuba era-
smiana (modello sicuro dell‟operazione di Dolce) e ai 1295 della He-
kabe euripidea: un dato questo che fa capire come il drammaturgo ve-
neziano operi nella sistematica direzione di una spiccata amplificatio.
I personaggi di Ecuba e Polissena come esemplari epitomi di diverse
virtutes (patientia stoica vs spirito sacrificale…) giungono a Dolce già
largamente mediati da autorevoli fonti romanze: su tutte, si pensi al
boccacciano De mulieribus claris, 33 e 34. Si tenga inoltre presente
che una Hecuba aveva allestito (su palinsesto erasmiano) Giovan Bat-
tista Gelli, forse nel 1519,3 e che nei tardi anni Trenta anche Matteo
Bandello si era dedicato ad un‟Ecuba.4

1. Il primo atto (= prologo in Euripide ed Erasmo) è avviato dal-


l‟Ombra di Polidoro che sul far dell‟alba si autopresenta al pubblico in
alcuni densissimi versi: una voga, questa dell‟umbra di un defunto che
fa da propellente all‟azione, ispirata certamente dal recupero di Sene-

2
Manca alla fine del primo atto.
3
Hecuba. Tragedia di Euripide poeta greco tradotta in lingua volgare per Giambattista
Gelli (mancano luogo data editore).
4
Edita però solo nel 1813: Ecuba. Tragedia di Euripide, tradotta in verso toscano da
Matteo Bandello, Roma, Stamperia de Romanis, 1813.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 37

ca5 e che era stata consolidata da Giraldi in Orbecche e dallo stesso


Speroni, sebbene con una figurazione meno cupa e orrorosa in Cana-
ce:6

OMBRA DI POLIDORO
Uscito fuori de‟ profondi e tristi
Cerchi d‟Inferno, e de l‟horrende porte
De la caliginosa notte eterna:
Nel bel seren di questa luce chiara,
Che cotanto ad altrui diletta e piace,
M‟appresento a vostr‟occhi ombra dolente
Del morto Polidor d‟Hecuba figlio.
E perché vi fia esempio la mia sorte,
E porga frutto a voi quel, ch‟a me nocque,
A l‟orecchie pietose de‟ mortali
Darò de‟ casi miei notitia intera. (vv. 1-11)7

Si noti la strategia di selezione lessicale calibrata dantescamente


sulla dialettica fra mondo avernale (= orrore/buio/male: profondi e tri-
sti, Inferno, orrende porte, caliginosa notte eterna) e mondo degli
uomini (= luce/bene: bel seren, luce chiara, diletta e piace e ancora
più avanti ai vv. 101-02: de‟ mortali/Luce soave, che si chiama vita),
con il che si allude alla natura fatalmente ambigua del personaggio di
Polidoro, contemporaneamente morto e vivo, scenicamente presente
(e determinante, come si evincerà dal prosieguo) e nondimeno assen-
te.
Mancano in questi versi 1) le coordinate genealogiche e 2) il pre-
ziosismo erudito così peculiari negli ipotesti di riferimento (Euripide e
il diligente traduttore Erasmo):8 Dolce tende sempre a semplificare –

5
Cfr. SENECA, Agamemnon e Thyestes.
6
Cfr. G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 227-315 (= Ombra di Selina) e S. SPERONI,
Canace, vv. 1-138 (= Ombra del figlio di Canace e Macareo). È comunque estremamente i-
struttivo sui modi compositivi di Dolce, il fatto che egli scelga dal repertorio classico, invece
di inventarle integralmente, quelle fabulae che gli sembrano più adeguate ai nuovi gusti del
pubblico: Hecuba e Thyeste rispondono evidentemente a queste mutate esigenze dei fruitori.
7
Si cita sempre, qualora non sia indicato diversamente, dalla edizione giolitina del 1560.
Per comodità si è provveduto a numerare i versi.
8
Cfr. EURIPIDE, Hekabe, vv. 1-15, in cui troviamo, per esempio, Κιζ ζ έως o Φρσγών
πόλιν (= Troia), che dovevano risultare preziosità a Dolce, il quale, avendo a cuore il proble-
ma della ricezione, le illimpidisce o le cassa nella traduzione; in ERASMO DA ROTTERDAM, He-
38 Venezia in coturno

quando non a espungere e cassare – riferimenti eruditi, preziosità o-


nomastiche, toponimi: è questo, per lui e soprattutto per il suo pubbli-
co, un vocabolario del tutto superfluo, perché non determinante per lo
sviluppo della fabula e, in un certo senso, solo narcisistico, antiquario
virtuosismo.
Sul piano dello stile, molto insistito è l‟uso del modulo dittologico,
sinonimico e no (aggettivale, verbale, nominale, anche con variante
epifrastica): si vedano, pars pro toto, le frequenti occorrenze nel pri-
mo intervento di Polidoro: profondi e tristi, caliginosa notte eterna,
diletta e piace, chiaro e immortale, empio e crudele, ricco e fertile,
avaro e crudo, superba d‟arme e bellicosa, corona e impero, i bei pa-
lazzi e i templi, commise e diede, coraggioso e forte, danno o tormen-
to, cortese e pio, immatura etate acerba, giovanil membra meschine,
lieta e riposata, secur senza sospetto (anche allitterante), portato e
spinto, ignudo e molle, vile e negletto, serva e cattiva,9 legati e forti,
[del caldo sangue] bagnata e sparsa, veduto e conosciuto, misera e
dolente, debole e stanca, misera e afflitta, felice e lieta, fugace e lieve.
Come si vede anche solo da questo modesto campione non è facile
districarsi nella selva di una casistica estremamente varia, in cui tro-
vano spazio endiadi (come corona e impero, isotopica rispetto alla pe-
trarchesca corone e scettri, altrettanto usata dal Dolce), ma anche figu-
re a basso (o nullo) contenuto di adiectio semantica, che avranno piut-
tosto funzione esornativa e/o metrica (diletta e piace, commise e die-
de). In altri casi, la dittologia ha la tipica funzione di sfumare o preci-
sare meglio quanto il primo membro della coppia comunica (cortese e
pio, serva e cattiva, fugace e lieve, etc.)
Tutta la rhesis di Polidoro (vv. 1-165) ha una marcata struttura nar-
rativa (cui si aggiungono una caratteristica dimensione espositiva e, in
parte, allusiva, tipica del prologo euripideo e una non eliminabile

cuba, vv. 1-22 (ora e sempre in IDEM, Tragedie di Euripide, cit.), piuttosto fedele
all‟originale, troviamo: Cisseide, Marte Graio (= esercito acheo), Phrygia moenia, Troico so-
lo, e così via. In Dolce queste parole e iuncturae subiscono una torsione nella direzione della
pura denotazione; con il che – va da sé – il poeta perde alcune significative opportunità e-
spressive, ma guadagna in chiarezza (sia che la fruizione della sua opera sia affidata alla lettu-
ra, sia che preveda, come sempre in Dolce, un consumo „visivo‟ a teatro).
9
Dove probabile è un‟eco dantesca: vd. Inferno, XXX, 16-20: «Ecuba trista, misera e cat-
tiva,/poscia che vide Polissena morta,/e del suo Polidoro in su la riva/del mar si fu la dolorosa
accorta,/forsennata latrò sì come cane».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 39

componente allocutiva che ne conferma la teatrabilità, se non la teatra-


lità): si vedano le marche narrative dei vv. 10-11: «A l‟orecchie pieto-
se de‟ mortali/Darò de‟ casi miei notitia intera» e 26-27: «Or poi, che
con pietà ciascun m‟ascolta/Narrerò di mia vita il fine acerbo» e le
marche allocutive dei vv. 6: «M‟appresento a vostr‟occhi ombra do-
lente»; 8-9: «E perché vi sia esempio la mia sorte,/E porga frutto a voi
quel, ch‟a me nocque»; 17: «Questo, che voi vedete, è Cherroneso (=
Chersoneso)». Tutto il passo, riepilogativo, deve certamente molto an-
che a Ovidio, Metamorfosi, XIII, 429 ss., tradotto poi dallo stesso
Dolce in ottave nelle Trasformationi, XXV, pp. 264-265.10
Al v. 140 («Ma ecco, che la misera, e dolente») viene anticipato
l‟ingresso scenico di Hecuba: le scelte lessicali ed espressive di Dolce
sono consentanee al pathos inerente alla debole, dolorante protagoni-
sta eponima della fabula. È Polidoro a parlare: la regina è appunto mi-
sera, e dolente (v. 140); sembra spaventata/Da l‟ombra mia (vv. 142-
43); ha un angoscioso aspetto; in cui si vede/La vera effigie de
l‟horribil Morte (vv. 146-47); è sopra ogni mortal misera Don-
na,/Madre solo di pianto e di dolore (vv. 148-49); dispone di una do-
lente vita:/Che si può veramente chiamar morte (vv. 151-52);11 vive
ormai la più grave età debole e stanca (v. 155) e patisce di servitù non
degni pesi (v. 157); infine, è definita misera e afflitta (v. 158), con
singolare recupero (con variatio) della dittologia che aveva avviato la
descrizione della donna.
Hecuba viene presentata come una sorta di mater dolorosa sopraf-
fatta da terribili sofferenze. Da notare, in particolare, l‟efficacia della
parziale progressione Donna (v. 148) ~ Madre (v. 149)~Reina (v.
153), con cui Polidoro ribadisce la topica tragica della precarietà come
condizione universale che non risparmia nessuno: proprio coloro che
hanno detenuto/detengono il potere sono i più suscettibili di caduta.

10
Anche il canto XXVI della riscrittura ovidiana di Dolce è tematicamente importante per
la vicenda di Ecuba, Polissena e Polinestore. Vd. L. DOLCE, Le Trasformationi, in questa
quinta Impressione da lui in molti luoghi ricorrette, Con privilegi, In Vinegia appresso Ga-
briel Giolito de‟ Ferrari, MDLVIII, pp. 266 ss..
11
Dove è avvertibile certamente una riflessione ciceroniana (Tusculanae disputationes, I,
31.75) e poi agostiniana (De ciuitate Dei, XII.21: «Si tamen uita ista dicenda est quae potius
mors est»), parzialmente mediata, tra gli altri, anche dal Petrarca di Triumphus Mortis, II, vv.
21-24. Con la presente considerazione Hecuba viene spinta nel perimetro post-umano e oltre-
mondano al quale già appartiene l‟Ombra di Polidoro.
40 Venezia in coturno

Hecuba è stata punita sia nella sua dimensione pubblica e politica


di Reina (ora è costretta al ruolo di captiva del nemico Agamennone),
sia – ed è peggio – in quella privata e sentimentale di moglie e madre,
orbata del marito Priamo e di tutti i figli.12
Con il v. 166 entra in scena effettivamente la protagonista che av-
via un pateticissimo canto commatico con il coro, genuina e autonoma
invenzione di Dolce, caratterizzato dalla significativa presenza della
misura del settenario, frequentemente in rima (a contatto e a distanza)
e tipicamente usato dal nostro (come anche da altri tragediografi cin-
quecenteschi) con funzione patetizzante:

HECUBA
O meste del mio mal Donne Troiane,
Più, che del nostro istesso:
Donne, che già mi foste amiche Ancelle
Ne la tranquilla vita;
Hor compagne e sorelle
Ne la miseria mia sola e infinita:
Che far mi resta homai, che se n‟è gita
L‟hora felice: e son condotta a tale,
Ch‟invidio ogni mortale?
Lamenterommi, ahi lassa,
De l‟iniqua Fortuna, o de le Stelle?13
Questa fallace; e quelle
C‟hor versan bene, hor male;
Come a ciascun la Sorte è stabilita.
Dite, che far mi resta?
Se non squarciar; s‟io sarò tanto ardita,
Questa noiosa mia, lacera vesta.

12
Meno Polidoro e Polissena, nelle convinzioni della stessa Hecuba. Ma noi sappiamo fin
dalla prima scena della tragedia che Polidoro non c‟è più e che Polissena sarà sicuramente sa-
crificata sul tumulo di Achille (vd. i vv. 110 ss.: «I Greci vincitori a bada stanno/Però,
ch‟essendo già per dipartirsi/E volendo spiegar le vele in alto;/Veduta fu da l‟alta sepoltu-
ra/Del grande Achille uscir l‟ombra superba./Il qual la gente al lungo assedio stanca:/Ch‟ardea
di riveder l‟amate case,/Madri, padri, fratei, figliuoli, e spose;/Contra il comun desio, ritener
pote./Egli dimanda, che del caldo sangue/Di mia cara sorella Polissena/Si vegga inanzi a la
partita loro/La sepoltura sua bagnata e sparsa./Cotal ei chiede vittima; e per cer-
to/L‟ottenerà: ch‟i suoi più cari amici/Non vorran sostener, ch‟egli sia privo/De l‟inquo da
lui bramato honore»). E la personale tragedia della regina troiana consisterà proprio
nell‟aggiunta di questi due altri figli alla sua contabilità di morti.
13
Cfr. S. SPERONI, Canace, vv. 518-519: «La cagione io recava,/Sciocca, suso alle stelle e
alla fortuna».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 41

Voi non mi rispondete altro, che pianto:


E ben pianto conviene
A chi fuor di speranza vive in pene. (vv. 166-85)

Il lamento di Hecuba è molto patetico: la matura eroina troiana e-


sprime il proprio dolore e sembra riferirsi a uno stato di sofferenza in-
scritto naturalmente nella condizione umana. Cui prodest lamentarsi
con la Fortuna e con le stelle? L‟unica soluzione possibile sarebbe la
morte, ma occorre molto ardimento.
Hecuba non è più donna (avendo perso tutta la sua famiglia), non è
regina (avendo perso il regno) e non è altro, ormai, che una serva me-
schina, come fa lei stessa notare con un perspicuo anticlimax rimato
(cfr. vv. 196-197: «Non mi chiamate più Donna o Reina;/Ma ben ser-
va meschina»). Prosegue poi, continuando ad utilizzare un modulo in-
terrogativo che già l‟aveva caratterizzata alla sua apparizione, con un
breve ludus di sapore manieristico:

Chi potrà far giamai,


Quantunque possa assai;
Ch‟i guai non siano guai,
E‟l duol non sia dolore? (vv. 202-05)

In questi versi troviamo, oltre alla rima, debole quantunque rara,


una perfetta parisosi ai vv. 204 e 205, con diafora nel primo (guai-
guai) e polittoto allotropico e diaforico nel secondo (duol-dolore):
trattasi di una accensione concettistica, non frequentissima nel corpus
teatrale dolciano, che giustifica peraltro la sussunzione dell‟autore nel
perimetro di una Stimmung non più integralmente classicistica e
d‟altra parte non ancora autenticamente manierista.
E ancora, a sottolineare la dimensione di senilità e debolezza fisica
di Hecuba:

HECUBA F. PETRARCA, Triumphus Temporis,


Dunque conserve mie vv. 136-38
Sostenetemi alquanto; Quanti son già felici morti in fasce!
E questa vecchia debole e tremante, Quanti miseri in ultima vecchiezza!
Che pò viver poc‟hora, Alcun dice: - Beato chi non nasce!
Aiutate a uscir fuora.
O vita piena di miserie tante
42 Venezia in coturno

A che pur duri ancora? G. G. TRISSINO, Sofonisba, vv. 308-09


Prendete questa mano: Deh, foss‟io morta in fasce!
Ch‟io del torto bastone Che ben morendo quasi si rinasce
Facendo appoggio a le mie membra
stanche G. RUCELLAI, Rosmunda, vv. 139-41
Impallidite e bianche O quanto me‟ saria non esser nate!
Dal grave de l‟etade e de gli affanni Felice è chi non nasce,
Il piede affretterò, tardo da gli anni: Ma più felice è quel che more in fa-
O felici coloro, e ben felici, sce
Che moion ne le fasce,
Se per languir si nasce. (vv. 216-31) G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche,
vv. 630-33
Onde si può ben dir quel c‟ho già u-
dito
A molti saggi dir, che sol felice
È chiunque nel mondo mai non nasce
O che subito nato se ne more

G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche,


vv. 928-29
Deh non foss‟io nel cieco mondo na-
ta,
O morta fossi in un momento in fa-
sce.

Tutta questa sezione (cfr. i vv. 166-382) è caratterizzata da un tasso


di figuralità piuttosto alto: specialmente notevole pare l‟irruzione di
una topicissima sententia molto frequente nella poesia tragica cinque-
centesca ai vv. 229-31.14 Infine, notiamo l‟anafora di meco ai vv. 241
e 242 e l‟allitterazione di [s] nei vv. 243-46, con rime: «Assai, Signor,
assai più la vendetta/Del tuo giusto disdegno./Ripon, cortese Re, la tua
saetta,/E stiasi la mia sorte a questo segno».

14
La prima occorrenza del motivo è in TEOGNIDE, Ελεγειων, A, vv. 425-28. Naturalmente
si tratta di sententia destinata a formidabile fortuna in ambito tragico: cfr. almeno SOFOCLE,
Oidipous epi Kolonoi, vv. 1224-1227. Per una declinazione romana del motivo vd. CICERONE,
Tusculanae disputationes, I 48.114: «Adfertur etiam de Sileno fabella quaedam; qui cum a
Mida captus esset, hoc ei muneris pro sua missione dedisse scribitur: docuisse regem non na-
sci homini longe optimum esse, proximum autem quam primum mori», cui segue, tra l‟altro,
una riformulazione dello stesso pensiero prelevata dal Cresfonte di Euripide. A mediare il
pensiero (che è anche biblico: cfr. Qohelet, IV, 2-3), per i poeti tragici del Cinquecento, è il
Petrarca.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 43

Da notare che la parte testuale dell‟originale euripideo (e della ver-


sione erasmiana) dedicata ad Hecuba comincia ad essere riconoscibile,
nella riscrittura dolciana, col v. 216: la sezione commatica che precede
non esiste nei testi usati come modelli da Dolce: questa è la flagrante
dimostrazione dell‟autonomia che spesso contraddistingue il modus
operandi emulativo del poligrafo veneziano, accentuata dal fatto che
un accesso diretto alla fonte euripidea gli era certamente interdetto. Il
drammaturgo sente forse il bisogno di vivacizzare una sequenza altri-
menti troppo statica con l‟introduzione di un dialogo drammatico.
Il v. 263 avvia una caratteristica sequenza in cui assistiamo alla de-
scrizione del sogno, anzi dei due sogni premonitori che hanno terro-
rizzato Hecuba prima dell‟alba:15

HECUBA F. PETRARCA, Triumphus Mortis, I, v.


Mentre, ch‟in questa notte innanzi a 166
l‟Alba Pallida no, ma più che neve bianca.
Per la pietà de‟ miei martir pungenti,
Chiuse alquanto le luci un sonno lieve; F. PETRARCA, Rvf, 190, v. 1
M‟apparve il mio figliuolo in forma o- Una candida cerva sopra l‟erba16
scura,
Lacero il petto, e i bei colori spenti, F. PETRARCA, Rvf, 199, v. 9
Et era il volto suo pallida neve. Candido leggiadretto et caro guanto
Poi, come fa che del suo mal si dole,
Mosse piangendo a me queste parole: G. BOCCACCIO, Ninfale fiesolano, 76,
- Tale è la fede pura vv. 5-8
Che serbar tra mortali hoggi si suole. e veramente Iddio
Il vostro Polidor non è più in vita: con le sue man la fe‟ sì leggiadretta;
Queste, che parla, l‟ombra, e non aspet- e nell‟andar come gru era leve,
ta; e bianca tutta come pura neve (riferito a
Se non giusta vendetta -. una „cerbietta‟).
Ciò detto via sparì subitamente:

15
Notevole è la fortuna tragica del sogno profetico che prelude ad eventi futuri della
fabula: tra gli antichi, cfr. ESCHILO, Persai e Coephoroi e, va da sé, EURIPIDE, Hekabe. Nelle
tragedie del Cinquecento ritroviamo il sogno pre-albare, talvolta come mise-en-abîme
dell‟intera fabula, in G. G. TRISSINO, Sofonisba, vv. 101-17; G. RUCELLAI, Rosmunda, vv. 84-
103; A. PAZZI DE‟ MEDICI, Dido in Carthagine, p. 64; L. MARTELLI, Tullia, vv. 688 ss.; G. B.
GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 2622-55; S. SPERONI, Canace, vv. 387-438; P. ARETINO, Ora-
zia, vv. 559-624. Dolce, oltre che qui, usa il modulo onirico nella Medea, vv. 143-57. Per tale
motivo in ambito romanzo cfr. certamente DANTE, Inferno, XXVI, v. 7 e Purgatorio, IX, vv.
16 ss.; F. PETRARCA, Triumphus Mortis, II; A. POLIZIANO, Stanze, II, 27.
16
Per la cerva in Petrarca cfr. anche Rvf, 212, vv. 7-8 e Triumphus Pudicitie, v. 38.
44 Venezia in coturno

Ond‟io ne resto ancor mesta e dolente. G. BOCCACCIO, Decameron, IV, 6. 14


[…] Se io fossi voluto andar dietro a‟ sogni,
A me parea dapoi fiso dormendo io non ci sarei venuto, non tanto per lo
Raccor nel grembo pietosamente tuo quanto per uno che io altressì questa
Candida, humile, e leggiadretta Cerva: notte passata ne feci. Il qual fu che a me
La qual pur con la gonna iva coprendo pareva essere in una bella e dilettevole
Per tema d‟un possente selva e in quella andar cacciando e aver
Orso, che di lontan le venia drieto. presa una cavriuola tanto bella e tanto
Ma non potei, ch‟in lei fermi tenendo piacevole quanto alcuna altra se ne ve-
Gli occhi pieni d‟horrore desse giammai; e pareami che ella fosse
La strappò del mio seno immantenente più che la neve bianca e in brieve spazio
La Fera; ch‟a me venne empia e proter- divenisse sì mia dimestica, che punto da
va, me non si partiva. […]. E appresso que-
Poi portandone lei tra selve e boschi sto mi pareva che, riposandosi questa
Con la sanguigna bocca cavriuola una volta e tenendomi il capo
La traffisse e divise in molte parti. in seno, uscisse non so di che parte una
E mentre ch‟io m‟invio, né so ben dove; veltra nera come carbone, affamata e
Vidi uscir fuor della sua bella tomba spaventevole molto nell‟apparenza, e
L‟ombra del forte Achille; verso me se ne venisse, alla quale niuna
Il qual parea, ch‟in premio dimandasse, resistenza mi parea fare.
Che gli fosse donata una fanciulla:
E questa mi pareva Polissena. A. POLIZIANO, Stanze per la giostra, I,
(vv. 263-97) 34, 1-4
E con sua man di leve aier compuose
l‟imagin d‟una cervia altera e bella,
con alta fronte, con corna ramose
candida tutta, leggiadretta e snella.

Dapprima ad Hecuba è apparsa l‟umbra di Polidoro, dal volto livi-


do come neve. In un secondo momento, la regina troiana ha sognato di
proteggere una Cerva minacciata da un possente Orso, senza succes-
so: strappata dal suo seno, la cerva è stata sbranata e squartata. Infine,
ha visto Achille che in cima alla sua tomba chiedeva come premio fu-
nebre il sacrificio di una fanciulla troiana (Polissena).17
Sul piano microtestuale notiamo che la cerva, che è βαλιὰν, „scre-
ziata‟, in Euripide (v. 90) e variam, „variopinta‟, in Erasmo (v. 99) di-
venta candida, humile, e leggiadretta (v. 281), con mobilitazione di un
trikolon dotato di cospicua autorizzazione letteraria, non senza adden-

17
Il secondo sogno ha una piuttosto esplicita doppia articolazione: a una sezione allegori-
ca segue una assai tipica, quantunque superflua, sezione esplicativa che ha il compito di chia-
rire denotativamente quanto comunicato nella precedente sequenza di versi.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 45

tellati con una dimensione onirica, visionaria e fantastica, a testimo-


nianza esemplare di un lavoro di stratificazione di fonti romanze che
interferiscono su una fabula classica a livello di elocutio. Inoltre,
l‟erasmiano (e già euripideo) lupus ungue cruento18 viene sostituito
con il possente/Orso dei vv. 283-284 (con fortissima inarcatura sin-
tagmatica).
Molto significativa è anche, qualche verso oltre, la sequenza della
preghiera (vera e propria monodia lirica) che Hecuba, incitata dal co-
ro, recita per scacciare i funesti presagi che i sogni le hanno inoculato.
Forniamo ancora la versione di Dolce e, a specchio, quella di Erasmo:

HECUBA HECUBA
Voi; che ‟l tutto reggete O fulgur Iovis, o nox picea,
Santi celesti Dei; Ut quid ita sub nocte silenti
Onde ogn‟opra mortal quà giù discende: Terriculis visisque exagitor?
Se l‟orecchie porgete O sacra tellus,
A giusti preghi miei, Gignens atris somnia pennis,
E se de l‟altrui mal pietà vi prende; Sit precor irrita noctis imago
Poi, che mi si contende Quam de prole mea,
Lassa, ogn‟altra speranza; Quae servatur Thraces oris,
E sol morte m‟avanza Dulcique Polyxena sobole
Rimedio a le mie pene; Alto vidi mersa sopore:
Servate il mio figliuolo: a cui s‟attiene Nam terrificum vidi visum,
Il sostegno e ‟l riparo Didici, sensi.
Del nostro illustre sangue, O terrestria numina, gnatum
A me già corpo esangue Servate meum, qui iam solus
Più, che la vita e più, che l‟alma, caro. Generis superest ancora nostri,
Giunga il vostro favore Thraces habitans arva nivalis
A quel di Giove appresso Patrio commendatus amico.
Ne la gratia, ch‟io cheggio humilemente. Aderit iamiam quodcunque malum
Ciò fate: e parimente Luctumque novum luctibus addet.
Da sorte iniqua e ria Haud sic unquam mens mea certo
Servate insieme Polissena mia. Timuit, tremuit, tacta pavore.
Io già non mi difido Ubinam divina Helenum mente,
De la pietà di lui, Ubi Cassandram, Iliades, videam
Che vi fa quel, che sete. Ut mihi caeca insomnia pandant?
Ma s‟aggiungete i vostri a li miei preghi, (vv. 75-98)
Cosa poi non sarà, che a me si nieghi.
Notte; che l‟ombra oscura
Per riposo di noi ritorni e rendi:

18
ERASMO, Hecuba, v. 102.
46 Venezia in coturno

Deh, se pioggia giamai, nebbia, né vento


Non turbi il bel sereno,
Che ti fa a te più vaga, altrui più cara;
Prego, ch‟alhor, che ‟l tuo soave oblio
Acqueta gli animali
Me non spaventi e offendi
Con la imagine dura
Di qualche sogno rio,
Bàstiti, che son‟io
Vegghiando sempre afflitta e tormentata.
Siami del sonno avara
Se dormendo s‟accresce il mio spavento.
Alma terra sacrata
Madre de lieti e de dogliosi sogni,
Che con fosche e negr‟ali
Mentre, che ‟l corpo dorme,
S‟appresentano a noi sotto più forme;
L‟horribil visione
(S‟è ver, che la cagione
Nasca da te, che ne gli togli e dai
Per la parte, ch‟in noi possedi et hai)
Fa, che torni fallace,
Perch‟io gusti tal volta o tregua o pace.
Parmi pur di sentire
Qualche grave percossa,
Ch‟a tutti i pianti un nuovo pianto ag-
giunga,
Né per grave martire,
Che mi ricerchi le midolla e l‟ossa,
Fu tanto a temer possa
La mente mia: com‟hor par, che la punga
Acerba tema di futuro male.
Dura sorte mortale,
Almeno Heleno mio fosse presente:
Heleno, che sovente
Fu presago e indovino
Del secreto Divino:
Che, sua mercede, m‟aprirebbe il velo,
Che chiuso mi spaventa.
Over potessi almeno
Questi sogni dolenti
Palesar a Cassandra, che solea
Aprir il ver de le future cose:
Et a noi l‟esponea
Le tragedie di Lodovico Dolce II 47

Alhora ohimè, ch‟alcun non le credea.


(vv. 306-76)

Come si vede siamo di fronte a una sorta di canzone molto libera di


settenari ed endecasillabi, con stanze di diversa lunghezza e con
schema metrico e sillabico variabile:19 molte, va da sé, le rime.
Sono versi che riscrivono Hekabe, 68-89 e Hecuba, 75-98 con una
pronunciatissima amplificatio; sul piano strutturale mi pare degna di
nota la scelta di invertire la sequenza preghiera~sogni che troviamo
nei due ipotesti di riferimento.20 Il (ri-)montaggio del materiale testua-
le fornito è piuttosto scoperto. Le prime due strofe (vv. 306-31) sono
rivolte agli dei affinché serbino Polidoro e Polissena, unico motivo di
vita per Hecuba (è qui negletta l‟altra figlia di Priamo, Cassandra, cui
si accennerà alla fine); la terza (vv. 332-45) – molto originale – è
un‟invocazione alla Notte, modellata, anche se con un respiro nuovo e
dimensioni inusitate, su Hekabe, 68-70 e Hecuba, 75-77: qui la prota-
gonista scongiura la Notte di non ricondurre il sonno, se questo porta
con sé le terribili imagines viste prima dell‟alba. La quarta strofe (vv.
346-56) continua sul diapason espressivo della strofa precedente ed è
amplificazione di altri spunti forniti dai modelli di riferimento:21 Dol-
ce riprende dal testo euripideo (cfr. anche Iphigeneia Taurica, 1262
ss.) la suggestione dei Sogni come figli di Χθών e non della Notte e
attribuisce loro, con bellissima dittologia di sapore dantesco fosche e
negr‟ali. La quinta e ultima strofa (vv. 357-76) si apre su oscuri pre-
sagi di fatali e prossime sofferenze e si conclude con la deprecatio per
non poter utilizzare le abilità profetiche di Eleno e Cassandra.22

19
La prima stanza ha schema [abC.abC.cddeE.fggF]; la seconda [abC.cdDefg.HH]; la ter-
za ha addirittura [aBCdEFghaffIlM], etc.
20
In Euripide ed Erasmo prima c‟è la preghiera di Ecuba e poi ella chiarisce le coordinate
dei sogni prealbari compiuti (pur accennandovi già nella sequenza della preghiera); esatta-
mente il contrario in Dolce.
21
Cfr. EURIPIDE, Hekabe, vv. 70b-72 e ERASMO, Hecuba, vv. 78-80.
22
Si noti che in Euripide i due – accoppiati per i loro poteri profetici – sono invocati da
Ecuba ai vv. 87-88; in Erasmo li troviamo ai vv. 96-97. Come si vede, ancora una volta, Dol-
ce si sente pienamente legittimato a destrutturate i suoi testi di riferimento e a ricostruirli se-
condo sue proprie esigenze funzionali.
48 Venezia in coturno

Il coro, razionalisticamente, demolisce la presunta capacità profeti-


ca dei sogni, secondo un modulo topico nella tragedia cinquecentesca
italiana,23 ma certamente di ascendenza euripidea:

CORO
Vano è ‟l temer de‟ sogni:
Che qual vegghiando noi, l‟humana mente
È ingombrata da noia o diletto,
Tal sogna parimente
Lieto o noioso effetto
L‟anima, poi che ‟l corpo s‟addormenta. (vv. 377-82)

A ciò Hecuba risponde che – nel suo caso – c‟è un precedente che,
purtroppo, depone a favore della assoluta veridicità dei sogni, specie
se infausti:

HECUBA
Vano non fu già quello;
Quando a me parve al partorir di Paris,
Di partorir una facella ardente,
Che crescendo copria tutto il mio Regno;
Non s‟ammorzando prima
Che Troia in polve e in cenere ridusse. (vv. 383-88)

Qui pare degna di nota la plateale strategia di sovraesposizione del


nucleo fonetico [par-], semanticamente e tematicamente così impor-
tante, che viene disseminato nel testo. Inoltre, si deve ricordare che il
motivo di Paride-facella ardente non si trova nella Hekabe euripidea,
bensì nelle sue Troades24 e, soprattutto, nelle Troades di Seneca, che
sembra essere davvero la tragedia cui Dolce ha guardato come sinopia
per alcuni nuclei semici della sua: egli sente il bisogno di decodificare
il Seneca di Troades, 36 («Prior Hecuba vidi gravida, nec tacui me-

23
Cfr. G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 2656-77; S. SPERONI, Canace, vv. 510-546;
con un rilievo eccezionale P. ARETINO, Orazia, vv. 562-76 e, con capacità rara di demistifica-
zione e svelamento, soprattutto i vv. 625-632; A. PAZZI DE‟ MEDICI, Dido in Cartagine, vv.
184-86 (con numerazione mia dei versi).
24
Cfr. EURIPIDE, Troades, vv. 919-22. Dove Elena, sollecitata a confrontarsi con Ecuba,
la accusa di essere la responsabile principale della distruzione di Troia per aver dato la luce a
colui – Paride – che effettivamente era stato, col rapimento della moglie di Menelao, la causa
prima della guerra.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 49

tus») e 40 («Meus ignis iste est, facibus ardetis meis»),25 esplicitando


l‟identità (del resto antonomastica) facella~Paris.
Al v. 393 entra in scena la Serva di Hecuba (si pensi che in Euripi-
de l‟ancella entra al v. 657; in Erasmo al v. 704), cui spetta l‟orribile
compito di aggiungere ulteriore sventura alla miseria di Hecuba, con
la rivelazione del proposito dei Greci di sacrificare Polissena sulla
tomba di Achille (dando così corso effettuale ai funesti presagi prece-
dentemente descritti) a causa di una precisa richiesta fatta dall‟ombra
dell‟eroe:

SERVA
E le navi fermò, ch‟alhora alhora
Erano già per dar le vele a i venti;
Queste formando, o simili parole
Con voce, che lontan si pote udire;
– Dove fuggite voi, lasciando o Greci
Le mie ceneri oscure senza honore? –. (vv. 426-31)

La Serva descrive con puntualità come l‟esercito acheo sia giunto a


questa risoluzione ricostruendo la diatriba che un‟ipotesi così crudele
aveva scatenato (con Agamennone contrario al sacrificio umano e U-
lisse proclive). Si tenga presente che in questa scena sicura è
l‟interferenza della poesia ovidiana (Metamorfosi, XIII, vv. 441 ss.) e
della mediazione già compiuta in proprio dal Dolce con le sue Tra-
sformationi:

– Dunque havete da voi posto in oblio


(Disse l‟ombra d‟Achille) in un momento
I chiari gesti, e l‟alte prove, ch‟io
Per vostro ben fui a dimostrar intento;
Che lasciando negletto il corpo mio,
Vogliate o Greci dar le vele al vento?
Deh non per Dio, non fate questo errore,
Et al sepolcro mio rendete honore –. (XXVI. 5, p. 265)

25
Ora e sempre si cita da Senecae Tragoediae, a c. di BENEDETTO RICCARDINI, Firenze,
Giunti, 1513.
50 Venezia in coturno

In Euripide ed Erasmo il ruolo informativo-espositivo è affidato


non alla Famula Hecubae, bensì al coro. Ai vv. 498-501 vediamo
all‟opera un altro procedimento paradigmatico della scrittura tragica
dolciana ovvero la neutralizzazione o edulcorazione parziale dei tratti
più accesamente espressivistici dei testi su cui basa il proprio rifaci-
mento (iuxta un senechismo ibrido e di fatto morbidamente atteggiato
e la sua scarsa disponibilità, etica e ideologica, più che estetica, alla
descriptio di un orrore puro):

SERVA
Però, ch‟è di bisogno o di placare
L‟alte Divinità si, che non resti
Orba de la figliuola amata e cara:
O, che con gli occhi propri hoggi tu vegga
Nanzi al sepolchro del superbo Greco
Aprir il bianco petto; e horribilmente
L‟infelice cader sparsa di sangue. (vv. 495-501)

Euripide e Erasmo indugiano invece con una certà crudele voluttà


su alcuni realistici e raccapriccianti particolari:

ἢ δεῖ ζ ‟ ἐπιδεῖν ηύμβοσ προπεηῆ Aut spectent tua lumina oportet


θο ινιζ ζ ομένεν αἳμαηι παρθένον Ad tumulum procumbere sparsam
ἐκ τρσζοθόροσ Sanguine nata deque aurifera
δειρῆς ναζ μῷι μελανασγεῖ.26 Cervice atrum undare cruorem.27

Come si vede, Dolce è più essenziale rispetto alle soluzioni adottate


dai predecessori e cassata del tutto risulta la nota, in qualche misura
avvertita come contestualmente sconveniente, del collo cerchiato da
una collana aurea. Ciò che noi pittoricamente vediamo è la dialettica
cromatica fra bianco e rosso.
Hecuba risponde alla Serva con una nuova, patetica monodia:

HECUBA
Misera, quali accenti
M‟usciranno del petto;

26
EURIPIDE, Hekabe, vv. 150-53 («vedrai la fanciulla dinanzi alla tomba/crollare, e arros-
sarsi di un fiotto di sangue/sul collo cerchiato/dall‟oro, fra neri barbagli»).
27
ERASMO, Hecuba, vv. 166-69.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 51

Ch‟a i gravi miei martir vadano eguali?


Con quai gridi e lamenti
Piangerò l‟empio effetto
De‟ colpi di Fortuna aspri e mortali?
Quando fur tanti mali
In un corpo ridotti?
O qual pena è maggiore
Giù nel profondo horrore
Tra li dannati a le perpetue notti?
U‟ fu doglia giamai,
Ch‟agguagliasse i miei guai?
Chi fia lassa, chi fia
C‟hora mi porga aita?
Qual amico? Qual gente? Qual cittade?
L‟alta progenie mia
È spenta: e lei finita
Hanno crudeli e scelerate spade.
E ne la estrema etade,
Vista de‟ figli suoi
Spietata horrenda morte,
Il mio caro consorte
Uscio di vita et ha lasciate noi
In questa oscura e nera
Vie più, che morte fiera.
Ove volger debb‟io
Il passo tardo e grave?
A cui ricorrerò serva infelice?
Troiane il corpo mio
Con la crudele, oimè crudel novella
Misera havete estinto, havete estinto:
Ch‟in sì grave cordoglio
Io viver più non voglio;
Anzi farò, mal grado de la sorte,
Quel, che non vuol l‟inesorabil morte:
Intanto tu mio piede,
Tu mio piede infelice,
A la vicina porta
Me vecchio incarco homai conduci e porta. (vv. 502-41)

Strutturata sul modello metrico della canzone petrarchesca Rvf


12528 nelle prime due strofe, poi – quasi ad indicare un dolore che non

28
Con schema [abC.abC.cdeeD.ff].
52 Venezia in coturno

è più contenibile nella misura della metrica tradizionale – si disarticola


e incrina in un canto sempre più libero e con frequentissime rime.
Come di prammatica, la monodia è retoricamente molto elaborata:
geminationes (vv. 515, 532, 533), un‟anafora interrogativa in trikolon
al v. 517 («Qual amico? Qual gente? Qual cittade?»), una reduplicatio
composta ai vv. 538-39 («Intanto tu, mio piede,/Tu, mio piede infeli-
ce»), una rima equivoca tra 540 e 541; onnipresenti le dittologie.
Hecuba chiama poi la figlia Polissena e avvia un dialogo con cui si
conclude l‟atto primo. Sarà da notare, nel dialogo tra madre e figlia
(vv. 546-82), ancora l‟uso frequentissimo di rime e settenari; l‟abuso
dell‟epiteto figlia – con variante figliuola – in geminatio ai vv. 546,
565, 572 e senza geminatio ai vv. 568, 576, 581, ad indicare palese-
mente una valorizzazione esibitissima della dimensione famigliare;29
una epifrasi al v. 552 (I fieri accenti e rei), altre geminationes ai vv.
550, 556; la redditio di v. 559 (Madre mia cara, madre), etc.. Tutti
procedimenti che hanno come obiettivo quello di incrementare la cara-
tura patetica e tragica della sequenza.
Con il v. 558 entra in scena, per l‟appunto, Polissena (che in Euri-
pide si presenta al v. 177 e in Erasmo al v. 195) che subito invoca la
madre, fatto che ha rilievo anche nei modelli.30 Dolce imprime
un‟ulteriore accentuazione patetica per la triplicazione dell‟epiteto
(«Madre d‟ogni mio ben sola radice/Madre mia cara, madre»). Qual-
che verso oltre vediamo all‟opera un‟altra precisa strategia del dram-
maturgo veneziano: dice Polissena:

Perché mi fate uscir mesta e sospesa


Con quella fretta: con la qual da nido
Timidetta Colomba esce fuggendo,
E con alma tremante et angosciosa? (vv. 561-64)

Dove l‟iponimo Colomba – peraltro dotato di una certa autorizza-


zione letteraria31 – è preferito agli iperonimi ὄρνις e volucer che tro-

29
Secondo le coordinate di una precisa strategia patetizzante, confermata anche
dall‟esordio di Polissena.
30
Cfr. EURIPIDE, Hekabe, vv. 176-77: «ἰώ˙/μᾶτερ μᾶτερ ηί βοᾷς» ed ERASMO, Hecuba, vv.
195-96: «Ehem, mater, mater,/Quid clamas?».
31
Cfr. VIRGILIO, Aeneis, V, vv. 213-217; D. ALIGHIERI, Inferno, V, vv. 82-84; F. PETRAR-
CA, Triumphus Cupidinis III, vv. 89-90 e Rvf, 187, vv. 5-6; M. M. BOIARDO, Amorum libri, I,
Le tragedie di Lodovico Dolce II 53

viamo rispettivamente in Euripide ed Erasmo:32 Dolce rifugge quasi


sempre dalla genericità, tanto più se può usare dei moduli già lettera-
riamente sanciti: qui l‟esito è particolarmente felice e rinvia
all‟immagine, che già era in Virgilio e Dante, di dolcezza minacciata.
L‟atto è concluso da un‟altra, dolente, breve monodia, affidata sta-
volta a Polissena (vv. 583-613 = Hekabe, vv. 197-215; Hecuba, vv.
218-37):

POLISSENA
O tre volte infelice
Madre; infelice vecchia
Più di quante giamai saranno e furo.
Qual spirto de l‟Inferno
Pieno di rabbia e di veneno interno
Nuovo pianto apparecchia
A vostra vita trista;
Perché ‟l duol, che v‟attrista,
Sia quì solo nel mondo e sempiterno.
Duolmi di non potere;
Com‟io bramava, ahi lassa;
Esservi in questa età figlia e conserva:
Poi, ch‟io debbo morire
Lasciandovi in martire
Senza alcun, che v‟aiuti e vi consoli:
Dunque fra tanti duoli
Misera aspettarete,
Che da le mani altere
De‟ nostri empi nimici
Vi fia tolta di braccio; come Cerva
Dal suo natio ricetto? E vederete
L‟indegna morte mia?
Il che solo a me fia
Per me duro et acerbo
Pensando a vostre incomparabil pene;
Ch‟a me sarà contento,
E non doglia o tormento;
Rompendo i duri nodi e le catene;

50, 8; B. TASSO, Rime, I, 62, v. 1; G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, V, v. 2633. Si ricordi an-
che Matteo, X, 16: «estote prudentes sicut serpentes, et simplices sicut columbae».
32
Nel quale ultimo la scelta espressiva è motivata dalla ricerca di un vistoso effetto allitte-
rante, non privo di elementi di derivatio: «Sic me veluti volucrem tectis/Cogis trepidam pro-
volitare?» (vv. 197-98).
54 Venezia in coturno

A cui l‟alma s‟attiene;


Da miseria infinita
Passar a lieta e riposata vita. (vv. 583-613)

La fanciulla accoglie la prossima morte con liberatoria serenità


(anche con una punta di masochistica voluptas moriendi di marca cri-
stiana e stoica), ma si strugge amaramente per la miserrima sorte della
madre, in un formidabile slancio empatico: emerge la tipica dialettica
cristiana (agostiniana) fra una vita-che-non-è-vita (miseria infinita) e
una morte-che-non-è-morte, ma liberazione dai gravami della corpo-
reità e della sofferenza, interpretata lucidamente da Polissena come
dato antropologico non rimovibile (Passar a lieta e riposata vita).
Il lessico, qua e là,33 e l‟atmosfera complessiva sembrano piuttosto
scopertamente rinviare (e pour cause) alla Laura trasfigurata di
Triumphus Mortis, I e II:34 nessuna tensione tragica in questo commia-
to dalla vita; piuttosto la sofferenza per la terribile sorte della madre
Hecuba, sempre più sola, e una stoica serenità (che è dato topico nella
vicenda di questa Polissena laurana) nell‟affrontare il disumano sacri-
ficio.
Al v. 602 di rilievo sicuro è la scelta di rendere l‟erasmiano «Hin-
nuleum seu montibus hirtis/Alitam vitulam» (vv. 226-27) con il più
pertinente Cerva, che non troppo allusivamente richiama il sogno
premonitore di Hecuba: esemplare, economico sfruttamento di ele-
menti drammatici intratestuali a beneficio della coerenza dello svilup-
po scenico e dello spettatore/lettore che non viene disorientato da e-
ventuali strategie decettive (più o meno consapevoli). Manca il coro
finale.

2. Il secondo atto è avviato da alcuni versi35 che mostrano in fun-


zione un altro esemplare tratto della grammatica tragica dolciana, ov-
vero l‟expolitio: i vv. 614-21 – opportunamente collocati fra parentesi

33
La dittologia duro et acerbo (v. 606) è prelevata da Rvf, 305, v. 6; 360, v. 57, ma con
inversione.
34
Cfr. specialmente Triumphus Mortis, II, vv. 34-39.
35
L. DOLCE, Hecuba, vv. 614-21: «Coro: Veramente, Reina: (che Reina/Vi chiamerò mai
sempre;/Però, che la Fortuna non ha forza/Sopra la nobiltà degli alti cuori:/E ben, che v‟abbia
con ogn‟altro bene/Levato il Regno; e s‟apparecchi ancora/A nuovo vostro insopportabil ma-
le;/Non levarà l‟honor, che vi si deve)./Veramente Reina io vi conforto/A lagrimar».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 55

– si configurano come una puntigliosa e verbosa digressione esplicati-


va, del tutto ridondante, con cui il coro (qui davvero epitome scenica
del cortegiano adulatore) giustifica il semplice fatto di continuare a ri-
volgersi ad Hecuba con il rispettoso epiteto di Reina, pur essendo lei,
secondo diritto e per le vicende occorse, non più regina: si tratta di
versi che certamente dovevano essere espunti nell‟eventuale messin-
scena, come dimostra la perfetta replicazione del primo verso della se-
quenza («Veramente Reina») dopo la parentesi.
Il coro ha qui una funzione di puro raccordo drammatico fra le vi-
cende sceneggiate nel precedente atto e l‟ingresso di Ulisse. Da notare
che Euripide ed Erasmo sbrigano la pratica in due versi,36 che corri-
spondono ai soli due versi finali dell‟intervento del coro nell‟Hecuba
dolciana: «Ma ecco Ulisse: a lui volgete il viso:/E chiedete mercede
humilemente».37 Ulisse ribadisce ad Hecuba la decisione dell‟esercito
greco di sacrificare Polissena e comunica il nome del suo omicida:
Pirro Neottolemo, figlio di Achille. La breve risposta di Hecuba (vv.
658-76) è caratterizzata da una nuova esibizione del registro patetico e
lirico, a lei perfettamente consentaneo nel corso di tutta la fabula. Poi
inizia il dialogo in cui la regina si scontra con Ulisse nel tentativo di
strappare la figlia al suo destino di morte (cfr. tutta la sezione dei vv.
677-885). Forniamo come specimine il riscontro con alcuni versi di
Erasmo:

ULISSE ULYSSES
È lecito: e ‟l concedo: e vo piacerti Licet, roga; neque enim hoc tibi invideo
Di questo poco spatio, che trametti morae.
Nanzi a la morte de la tua figliuola. HECUBA
HECUBA Scin Ilium explorator ut subiveris
Penso, che di quel tempo vi ricordi; Pannosus atque squalidus? Genas tuas
Quando per ispiar le cose nostre Stillae obsidebant mortis oculis excitae.
Veniste in Troia in vili e tristi panni: ULYSSES
E, ch‟alhor vi stillavan per le guancie Memini. Haud enim haec res summa
Lagrime, qual si dice, de la morte. strinxit pectoris.
ULISSE HECUBA
Me ne ricordo: e questo fatto invero Ten‟ agnitum uni prodidit Helene mihi?

36
Cfr. Hekabe, vv. 216-17 ed Hecuba, 238-39: «Sed ecce Ulysses huc citus movet gra-
dum/Hecube, tibi aliquem nuntium ferens novum».
37
L. DOLCE, Hecuba, vv. 627-28.
56 Venezia in coturno

Io riposi nel fondo del mio petto. ULYSSES


HECUBA Meminimus, in discrimen adducti grave.
Sapete ancora, che la bella moglie HECUBA
Di Menelao, cagion de‟ nostri danni, Supplexque factus genua tangebas mea?
Poscia, che vi conobbe, immantinente ULYSSES
A nessun, fuor ch‟a me, vi fe palese. Sic, manus ut istis instupesceret peplis.
ULISSE HECUBA
Soviemmi, ch‟a quel punto mi trovai Dedin‟ ergo vitam et Ilio emisi solo?
In gran sospetto e in gran periglio invol- ULYSSES
to. Ita, ut hoc profecto solis aspiciam iubar.
HECUBA HECUBA
Alhor Signor, non vi gettaste voi Quid tum locutus, cum mihi in manu
Con le ginocchia inanzi a i piedi miei fores?
Porgendo humile e reverenti preghi? ULYSSES
ULISSE Quo me necis subducerem periculo,
E questo è ver: né resterò di dirlo. Omneis vafer tum comminiscebar dolos,
HECUBA Cunctasque pariter persuadendi vias.
Adunque ben sapete, ch‟io vi diedi (vv. 261-75)
La vita alhora: e fui cagion, ch‟usciste
Fuor de le mura senza alcuna offesa.
ULISSE
Confesso: e che per te contemplo e veg-
gio
Questo raggio di Sol, c‟hor si dimostra.
HECUBA
Sonvi uscite di mente le parole,
Che dicevate, essendo in poter mio?
ULISSE
Io per uscir di quel periglio fuori
Usai tutte le fraudi e tutte l‟arti
Da persuader la libertade mia.
(vv. 677-706).

Come si vede, resta impregiudicata la possibilità di usare, pur nel


rispetto sostanziale della materia del contenuto del testo primo, la ra-
pidità conferita alla dictio tragica dal serrato, energico modulo della
sticomitia. Ulisse – secondo le coordinate di una Realpolitik feroce e
machiavellicamente disumana – non intende deflettere dal proposito di
ottenere Polissena.
Di fronte a questa tetragona risolutezza, Hecuba coinvolge la me-
desima figlia, nella speranza che le sue parole possano distogliere U-
lisse dal sacrificio umano: ma questa, ormai stabilmente entrata nel
Le tragedie di Lodovico Dolce II 57

perimetro della morte, pensa ad altro. Ci sia consentito di allegare qui


il lungo monologo di Polissena (= Hekabe, vv. 342-78 e Hecuba, vv.
375-416), sottolineando tutti i passi in cui la fanciulla argomenta a
proposito dell‟opportunità di morire:38

POLISSENA
Signor, io veggio, che la destra mano
Tenete sotto al Real manto ascosa,
E, che la faccia rivolgete a dietro:
Perch‟io con humiltà l‟una baciando,
E l‟altra discernendo nel mio volto
Alcun segno di pena e di dolore;
Non s‟accenda per me nel vostro petto
Di pietoso calor qualche favilla.
Ma v‟assecuro, ch‟a l‟impresa vostra:
Ch‟è di menarmi a destinata morte;
Ogni fatica fia levata e tolta.
Perch‟io son per seguirvi allegra e presta;
O perché a ciò necessità mi tiri
Del decreto fatal, che mal si fugge;
O perch‟io stessa di morir desio:
Ancor, ch‟essendo femina, ad altrui
Timida parer possa; e de la vita,
Sì come l‟altre, desiosa e vaga.
Però, che nulla a me cagion avanza
Per cui mi sia tra voi la vita cara:
Sì come quella, che figliuola io fui
Del gran Re de‟ Troiani. Ahi, che sol questo
M‟è principio d‟amara odiosa vita.
Era nudrita ne‟ dorati alberghi
De‟ palazzi Real fra li diletti,
Che pò dar ad altrui lieta Fortuna:
Con speme d‟esser poi felicemente
Di qualche Re beato altera sposa,
Tra molti, che bramavan d‟ottenere
Le mie superbe et honorate nozze.
Mi sentiva chiamar Donna e Reina;
Honor, che tanto a nostre orecchie aggrada,
E via sparisce poi, com‟ombra e fumo.
Era ancor di costumi e di bellezza

38
Certamente da tenere presente, per le riflessioni sulla morte, CICERONE, Tusculanae di-
sputationes, I.
58 Venezia in coturno

(Se dir mi lece) a null‟altra seconda,


E forse a i Dei da tutte parti eguale.
Se la sorte mortal si toglie fuora,
Hor son da quella mia Reale altezza
Caduta nel poter de‟ miei nimici;
E m‟è di libertà tolto il camino.
Ma, quando non havessi altra cagione;
Solo di servitù l‟odiato nome
Fa, che sempre mi sia la morte cara;
Da la qual non attenda altro, che pace.
Dove restando in questa amara vita,
Sarei costretta a servir sempre altrui;
E forse tal Signor mi daria sorte
Il qual non si vedria satio giamai
Del mio mal, del mio danno, e del mio sangue.
Ringratio dunque il ciel, che no ‟l consente;
Né vol, ch‟io Donna di sì altera prole,
Già del famoso Hettor degna sorella,
Sia vil serva de Greci; e non permette
Ch‟insieme con la mia felicitade
Perda ancor l‟honestà, che m‟è rimasa
Di cotanti thesori unico bene.
Così grato mi sia l‟uscir di vita;
Così offerisco volentieri a morte
Questo mio giovenil lacero corpo
Cinto e ripien de le miserie humane.
Però Signor menatemi al sepolchro:
E fate sacrificio del mio sangue:
Che pronta e humil la vittima vi segue:
Né temete, che fugga, o che s‟asconda;
Perché vita l‟è morte, e morte vita.
Forse lasciando una perpetua notte
Troverò col morir perpetuo giorno.
Voi cara madre mia non v‟opponete
Né in parola, né in fatto al voler mio:
Né pianger vi convien di questa morte,
Se non havete invidia del mio bene.
Anzi, se punto la figliuola amate,
Mi dovreste esortar, che volentieri
Andassi a questo fin di tutti i mali,
Prima, ch‟avenga alcuna cosa indegna
O di mia castitade, o del mio sangue.
Deh non volete voi, deh non v‟è caro,
Ch‟un bel morir le mie miserie honori?
Le tragedie di Lodovico Dolce II 59

Chi non è uso al mal, benche ‟l sopporti;


Duolsi però, quand‟egli pone il collo
De l‟iniqua Fortuna al grave peso:
Ma questo è più felice, essendo morto,
Che stando in vita, ch‟ei miseria chiama.
Non è molta fatica a viver bene;
Se l‟honesto desio non è impedito:
Ma, chi viver non può con chiaro honore,
Fa ben, se con honor morir desia. (vv. 898-984)

Vediamo ancora all‟opera in questa sequenza la tipica amplificatio


dolciana rispetto alle realizzazioni di Euripide ed Erasmo. Sempre ri-
petuta, da diversi punti di vista, è la necessità (già in precedenza arti-
colata dalla fanciulla) di una morte concepita come conclusivo esau-
rimento del dolore, come soluzione a un presente di acerba sofferenza
e male. Di fronte a una amara odiosa vita (v. 920), definita ancora
amara (v. 940) e semplicemente miseria (v. 980), la morte è cristia-
namente fin di tutti i mali (v. 971), pertanto grato è l‟uscir di vita (v.
954), Perché vita l‟è morte, e morte vita (v. 962), dove vediamo due
antonimi collocati a specchio ed energicamente diaforici.39
Polissena prosegue: «Forse lasciando una perpetua notte/Troverò
col morir perpetuo giorno» (vv. 963-64), platealmente modellato su un
celebre luogo di Catullo (Carmina V, vv. 5-6: «nobis cum semel occi-
dit brevis lux/nox est perpetua una dormienda»), piegato però alla glo-
rificazione della vera vita della Veritas cristiana. A concludere il mo-
nologo di morte, un epifonema esemplarmente costruito (vv. 981-84).
Segue, dopo qualche altro scambio fra Hecuba ed Ulisse, la pietosa
e pateticissima scena di addio fra madre e figlia (vv. 1036-1144 = He-
kabe, vv. 402-43 e Hecuba, vv. 441-85). Degni di nota sono senz‟altro
i bei versi dell‟addio alla luce di Polissena:
O luce, a me pur giova
Di chiamar il tuo nome;
Perché non più mi sarà copia data
Di poterti goder luce beata;
Luce soave e grata,
Se non quel poco spatio,
Che fia di gir al ferro,

39
Tutta la sezione risente ancora del clima petrarchesco del Triumphus Mortis, I e II.
60 Venezia in coturno

E a la Pira d‟Achille;
A Dio luce del mondo: io mi diparto. (vv. 1121-29)

Lieve espansione di Erasmo:

O lux, licet nam nomen affari tuum,


Neque ulla posthac copia dabitur tui
Nobis fruendi, nisi quod interest morae
Ad ensem eunti hinc atque Achillis ad pyram. (vv. 476-79)

Conclude l‟atto un altro intervento di Hecuba:

HECUBA
Oimè, che ‟l fil, che queste membra lega,
Romper mi sento e a tanto duol vien meno
La debil mente: e pur rimango viva.
Abbraccia o figlia la tua cara madre.
Teco la mena: porgi o figlia, porgi
La man: dallami o figlia.
Non mi lasciar senza di te figliuola.
Oimè che più non mi sostegno, amiche:
Ecco, ch‟io son caduta:
Volesse Dio, ch‟in questo stato acerbo,
Fra questi pianti istessi
Helena anco vedessi:
Che con caduco fior d‟alta bellezza
La superba città d‟Asia Reina,
E la mia prole indegnamente ha spento. (vv. 1130-44)

La reduplicazione del vocativo non è qui mero espediente retorico,


ma autentica invocazione al sostegno fisico e morale da parte di una
creatura al limite estremo della sofferenza: non a caso assistiamo a una
sorta di gradatio discendente: prima Hecuba chiede un abbraccio, poi
una mano, infine (e sono i versi successivi ad informarci di ciò), fallito
anche l‟ultimo tentativo di trattenere colei che era stata letteralmente
suo sostegno, Hecuba cade, altrettanto letteralmente (e qui Dolce non
è proprio finissimo nel far notare gli effetti del venir meno del soste-
gno: «Ecco, ch‟io son caduta»). Per il resto, mobilitate perfettamente
sono tutte le strategie patetizzanti (interiezioni, geminationes, etc.).
Le tragedie di Lodovico Dolce II 61

Il coro I ha prima stanza regolare40 e poi deflagra: è il coro della


sofferenza per il destino delle donne troiane prigioniere degli odiosi
greci. Moltissimi i settenari e molte le rime.

3. Il terzo atto si apre con Taltibio, araldo di Agamennone, che e-


sordisce facendo alcune sorprendenti considerazioni sulla medietas
come condizione essenziale per una vita felice. Questa sequenza è
un‟elaborazione piuttosto autonoma di qualche spunto degli ipotesti. E
a una medietas quasi satirica (di satira oraziana, s‟intende) sembra ac-
cordarsi la riflessione dell‟araldo, certamente modulata su valori-
chiave della topica morale peripatetico-cinico-stoica quali autarkeia e
metriotes:41

TALTIBIO
Se ‟l cielo a voglia mia mi concedesse
Elegger qui tra noi stato mortale,
Non l‟alto eleggerei, né ‟l basso e humile;
Che quel mi par che veramente sia
E felice, e beato che si gode
In modesta Fortuna, e non desia
Maggior altezza; e ‟l chiaro animo forte
Non turba di cader, sospetto o tema:
E se pur cade, la caduta è tale,
Che senza suo gran danno in pié ritorna.
Quel ch‟è in altezza, giù cadendo al basso,
Porta nel suo cader tanta ruina,
Che poi difficilmente al sommo s‟erge,
O con doppio martir perpetuo giace.
Senza che, posto a la Reale altezza,
Non può viver colui lieto e securo;
Perché spesso lo punge e lo spaventa
La sorte de‟ mortai; cui non è dato
Cosa stabile haver sotto la Luna:
Teme l‟odio de‟ popoli; e sovente
In mezo a le vivande atro veneno.
Quinci l‟ambition: quindi l‟ardente

40
Secondo il modulo [abC.abC.cdeff.gG].
41
Vd. soprattutto ORAZIO, Sermones, I.1; II.2 e almeno Carmina, II.10. Per la declinazio-
ne politica delle stesse tematiche cfr. senz‟altro SENECA, Thyestes, vv. 348-403; specialmente
446-70; 596-622; Agamemnon, vv. 57-107 e ancora Epistulae morales ad Lucilium, 84. 11-13
e 94. 58-61.
62 Venezia in coturno

Avaritia; due pesti acerbe e fiere,


Che ne infettano i Regni e le cittadi;
Tengon sempre di lui l‟animo infermo:
L‟huom, che privato vive, allegro vive. (vv. 1223-48)

Degno di considerazione è lo sfruttamento funzionale del motivo


(topicamente filosofico e tragico) della caduta da una posizione di
prestigio, che vediamo dominare tematicamente alcuni versi della rhe-
sis di Taltibio. Presente è il solito pulviscolo di riferimenti petrarche-
schi e/o petrarchistici.42
Hecuba sofferente sollecita Taltibio a raccontare come si è svolta
l‟esecuzione di Polissena e questi così narra in un colossale monologo
(vv. 1312-1427 = Hekabe, vv. 518-582 = Hecuba, vv. 560-629), as-
sumendo la funzione attanziale, tipica nel teatro tragico senecano (ma
anche euripideo), del Nuntius:

TALTIBIO
Tu vuoi pur, ch‟io rinfreschi e rinovelli
A te Donna la doglia, et a me il pianto:
Che veramente (e ‟l rimembrar mi duole)
Fu sì fiero spettacol, ch‟io ne piansi,
In su quell‟hora dolorosa e mesta,
Che l‟alma uscio di quel bel corpo fuori.
Hor parimente converrà ch‟io pianga:
E tu insieme farai de gli occhi rivi,
Se ‟l soverchio dolor non si attraversa. (vv. 1312-20)

L‟exordium di Taltibio è svolto sotto il segno di una espressiva


commoratio e della sua relativa economia lessicale e tematica: due so-
stantivi (doglia~dolor e pianto) e i relativi verbi (dolersi e piangere)
dominano ossessivamente, in realizzazione allotropica, polittotica e
sinonimica (farai de gli occhi rivi), la sequenza, caratterizzata anche
dall‟adozione di forme verbali con prefisso iterativo.
Con il v. 1321 inizia il vero e proprio resoconto del messo, con
sermocinationes di Pirro Neottolemo, materiale esecutore del sacrifi-
cio, ai vv. 1342-54, e di Polissena, hostia sacrificata, ai vv. 1367-99.
42
Come specimen cfr. la dittologia di v. 1245 che rinvia a Petrarca, Triumphus Cupidinis,
II, v. 174: acerba e fera, e a Bernardo Tasso, De gli Amori, I. 26, v. 8: acerbo e fero e ancora
I. 87, v. 9, II. 3, v. 2, etc.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 63

Pars pro toto si leggano i seguenti versi e li si confronti con qual-


che ottava del XXVI delle Trasformationi del Dolce:

TALTIBIO 8.
Ella [Polissena scil.] che ciò comprese, – Spargi (diss‟ella con sicuro aspetto)
immantinente Il nobil sangue mio, che sol mi resta.
Queste formò parole e così disse: Eccomi pronta, o fora questo petto,
- O voi, c‟havete la cittade mia, O questa gola (e si levò la vesta)
Sì come piacque a Giove, arsa e disfatta: Che con sommo gioir la morte aspetto,
Deh per pietà mi concedete o Greci; Poi ch‟io posso fuggir solo per questa
Che questo corpo mio non tocchi alcuno. La servitù. M‟è dunque ella gradita,
Io volentieri moro: volentieri Da che libera passo a l‟altra vita.
Porgerò il collo al destinato ferro;
Né mi spaventa la vicina morte. 9. […]
Ma, perch‟io moia tal, qual si conviene
A l‟alto sangue, e a l‟honorata prole 10.
Di tanti miei progenitori illustri, E voi crudi Ministri, ch‟io discerno
Libera m‟occidete: che nel vero Pronti per far l‟ufficio vostro in vano,
Reina essendo e di tal padre figlia; Perch‟io libera io vada ne l‟Inferno,
Di morir, come serva, io mi disdegno -. Alcun sopra di me non ponga mano.
[…] Così ‟l mio sangue a chi nel lago Aver-
Ella, poi che si vide in libertade, no
Volgendo gli occhi in certo atto pietoso, Lo brama, o dov‟ei sia presso, o lonta-
Che alcun non fu, ch‟i suoi tenesse a- no,
sciutti; Sarà più caro, e via più accetto e grato,
La sottil vesta con le bianche mani Poi che del sangue mio solo è assetato.
Squarciò dal petto insino a l‟ombilico,
E ‟l suo candido sen dimostrò fuori. 11.
E quindi humil con le ginocchia a terra Appresso io già di Re figlia, hor di voi
Mosse queste parole amare et aspre: Vil prigioniera, prego, che senz‟oro
– Giovane, se t‟aggrada aprirmi il petto, Concediate il mio corpo a lei; dapoi
Eccolo pronto a la ferita e al ferro: Che co‟ figli ha perduto ogni thesoro –.
E se ti piace dipartir il collo
Da l‟infelice busto; eccolo ancora
Pronto al colpo mortal, che lo diparta.
Hor spenga la sua sete col mio sangue
L‟anima di colui, che l‟ha sì caro.
Non sarà morte la mia morte, s‟io
Andrò libero spirto a l‟altra vita –.
(vv. 1365-99)

Come si evince, sicura è l‟interferenza della Polissena ovidiana. La


sermocinatio della fanciulla ribadisce il valore tematico dei lessemi
64 Venezia in coturno

della morte; il confronto tra le due sequenze evidenzia ancora la natura


inerziale di alcuni procedimenti costruttivi del Dolce scrittore: su tutti
evidentissima l‟allitterazione di [s] nei versi centrati su un‟altra paro-
la-chiave della tragedia qual è sangue.
Taltibio poi descrive, in versi retoricamente assai costruiti, la morte
di Polissena (ove pare di presentire qualcosa di tassiano):

TALTIBIO T. TASSO, Gerusalemme liberata,


Pure alfin alzò il braccio: e ‟l ferro i- XII, 64, VV. 3-7
gnudo Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
Immerse nel gentil petto innocente. che vi s‟immerge e ‟l sangue avido beve;
Da le vene uscì alhor, come da fonte, e la veste, che d‟or vago trapunta
Il caldo sangue e l‟anima gentile le mammelle stringea tenera e leve,
N‟andò volando a più felice vita. l‟empie d‟un caldo fiume.
Il volto; che di pria rendean sì vago
Vermiglie rose e candidi ligustri; D. ALIGHIERI, Purgatorio, VI, V. 79
Venir si vide su quel punto estremo Quell‟anima gentil fu così presta
Pallido no, ma più ch‟Avorio bianco.
Cadd‟ella: e nel cader mirabilmente F. PETRARCA, Rvf, 31, v. 1
Serbò degna honestà di Real Donna: Questa anima gentil che si diparte
E mostrò cura di celar altrui
Quelle parti più care e più secrete: F. PETRARCA, Rvf, 127, v. 37
Le quai deve celar casta Donzella. Dove oggi alberga l‟anima gentile
(vv. 1404-17)43
A. POLIZIANO, Stanze per la giostra, I,
44, vv. 5-6
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose.

L. ARIOSTO, Orlando furioso, VII, 11,


vv. 5-7
Spargeasi per la guancia delicata
misto color di rose e di ligustri;
di terso avorio era la fronte lieta.

43
A dimostrazione che la scrittura tragica dolciana è talvolta inerzialmente automatica, si
legga la sua traduzione delle Troades senecane, ove, ancora riferendosi a Polissena, leggiamo
ai vv. 2147-48: «Nondimeno le guancie/Tingea per tutto un bel color di rose». Inoltre cfr. Di-
done, vv. 1301-1305: «E dal suo viso insieme/È sparito il sereno./Le guancie tinte di color di
rose/Con nuova pallidezza/Son ritratto del cuore».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 65

L. ARIOSTO, Orlando furioso, X, 96, vv.


5-6
se non vedea la lacrima distinta
tra fresche rose e candidi ligustri.

T. TASSO, Aminta, III, 2, VV. 1457-58


Crudel , sì picciol dono
mi nieghi al punto estremo?

L. DOLCE, Le Trasformationi, XXVI, 13,


vv. 1-2
E nel cader mostrò di prender cura,
Che le membra restassero velate.

Se sicura è qui la presenza di una fonicità densa,44 notevole è altresì


la cospicua contaminatio emulativa delle fonti adibite a modelli (che
abbiamo collocato nella seconda colonna): la giuntura anima gentile
ha una legalità stilnovistica, dantesca e petrarchesca; la coppia ro-
se~ligustri (o gigli) per descrivere il viso femminile gode di una tradi-
zionale fortuna45 e di qualche rilievo paiono anche, per la capacità di
anticipazione dimostrata dal Dolce, le relazioni intertestuali, lato sen-
su, che si possono scorgere guardando nella direzione niente meno che
di Torquato Tasso.
Soprattutto importa rilevare, come nella descriptio di Polissena mo-
rente, Dolce strategicamente prelevi un celebre verso petrarchesco (già

44
Rileviamo la consonanza in innocente-fonte-mirabilmente (ribattuta dagli stilnovistici
gentil a v. 1404 e gentile a v. 1407 e da volando al v. 1408 che a sua volta ripropone materiale
di n‟andò), la ricca allitterazione della [v], fonema tematicamente importante perché contenu-
to nelle parole-chiave volto e vita, ai vv. 1408-12, etc
45
Non ci pare nemmeno da sottolineare il fatto che nella poesia pre-stilnovista e stilnovi-
sta (ma certo già in quella latina e mediolatina), l‟accostamento rosso~bianco (con figuranti di
volta in volta diversi) per descrivere il viso della donna amata è assolutamente tipico. Senza
nessuna pretesa di completezza, cfr. almeno G. GUINIZZELLI, Vedut‟ho la lucente stella diana,
v. 5; CINO DA PISTOIA, Oimè lasso, quelle trezze bionde, vv. 10-11. Poi naturalmente cfr. F.
PETRARCA, Rvf, 131, vv. 9-10: «et le rose vermiglie in fra la neve/mover da l‟òra, et discovrir
l‟avorio» e Rvf, 157, v. 12: «perle et rose vermiglie». Per la tenuta della tessera in ambito pe-
trarchistico vd. almeno, G. G. TRISSINO, Rime, LIX, vv. 42-45: «né gigli o neve han bianco sì
perfetto,/com‟ella ha ‟l viso e ‟l petto,/in cui qualche rossezza vi si posa,/che pare in latte una
vermiglia rosa». Va subito aggiunto che nel Petrarca lirico il ligustro non c‟è; è presente in
Triumphus Temporis, v. 101, in contesto, peraltro, lievemente decentrato e sollecitato verosi-
milmente dall‟illustre VIRGILIO, Bucolica, II, v. 18: «Alba ligustra cadunt, uaccinia nigra le-
guntur».
66 Venezia in coturno

ripreso con altre intenzioni da Boccaccio, Bembo e Giraldi Cinzio)46


dal Triumphus Mortis, I al v. 1412 «Pallido no, ma più ch‟Avorio
bianco»,47 così implicitamente portando il lettore a rievocare l‟intero
passo in cui il verso è inserito:

F. PETRARCA, Triumphus Mortis, I, v. 166-72


Pallida no, ma più che neve bianca
che senza vento in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca:
quasi un dolce dormir ne‟ suo‟ belli occhi,
sendo lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman li sciocchi:
Morte bella parea nel suo bel viso.

La semplice sostituzione della neve con l‟Avorio (peraltro perfet-


tamente isotopico) non può mettere in ombra il formidabile recupero,
con funzione tematica, dell‟intera sequenza petrarchesca:48 il preciso e
plateale prelievo serve a Dolce per conferire a questa Polissena auten-

46
G. BOCCACCIO, Decameron, IV, 6. 14: «e pareami che ella fosse più che la neve bian-
ca»; P. BEMBO, Asolani, II, 18:«Et ecco dal monte venir due colombe volando, bianchissime
più che neve»; G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, V, 2, v. 57: «una columba più che neve bian-
ca».
47
Su „pallido‟ cfr. M. PERI, Ma il quarto dov‟è? Indagine sul topos delle bellezze femmi-
nili, Pisa, ETS Edizioni, 2004, p. 95: «Come ha mostrato Feo [cfr. M. FEO,“Pallida no, ma
più che neve bianca”, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 152, 1975, pp. 321-
361], il latino pallidus (pallor, pallere) e anche l‟italiano pallido non designano primariamen-
te il bianco o un qualsivoglia colore sbiadito, ma il giallognolo o giallastro di un volto smorto
o incartapecorito o spento».
48
Il petrarchesco „capitolo della Morte‟ fu dotato nel secolo XVI di una precisa funzione
drammatica che ne autorizzava l‟uso come sinopia di sequenze tragiche: cfr. a questo proposi-
to G. B. GIRALDI CINZIO, Discorso intorno al comporre dei romanzi (Venezia, Giolito, 1554):
«E quando parlando della morte di Laura disse ne‟ Trionfi della morte: Morte bella parea nel
suo bel viso. E quantunque la voce bella accompagnata con la morte non pate con esso lei
quella manifesta contraddizione che fa amarissima con la dolcezza, è però contraria alla natu-
ra della cosa alla quale è aggiunta, perché non è cosa alcuna né più oscura agli uomini, né più
schifevole o brutta che la morte […] e nondimeno dicendo che ella nel viso della morta donna
pareva bella, mostra efficacissimamente la bellezza di lei, quando era viva» (si cita da G. B.
GIRALDI CINZIO, Scritti critici, a c. di C. GUERRIERI CROCETTI, Milano, Marzorati, 1973, pp.
152-53). Il motivo ha una certa fortuna, oltre che nella lirica cinquecentesca, anche nella tra-
gedia del secondo ‟500: cfr. A. VALERINI, Afrodite, Verona, Dalle Donne, 1578, p. 40: «e ver-
so il tempio andò, portando in braccia/la defunta regina, che pareva/da un breve sonno ad-
dormentata, e Morte/ridea nel suo bel viso». Dietro a Petrarca si intravvedono un certo plato-
nismo e vari luoghi ciceroniani: su tutti cfr. Tusculanae, I. 49, 117-19.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 67

tici e persuasivi tratti laurani e a porre l‟accento non tanto sui partico-
lari feroci e crudeli del sacrificio, quanto sul senso platonico/cristiano
del distacco dell‟anima dal corpo;49 il che implica, va da sé, una inter-
pretazione della morte come transitus dolce e sereno, passaggio a una
vita più piena e felice, a una vita~vita: in sostanza, il luogo petrarche-
sco è consapevolmente assunto e riarticolato come segnale e modulo
dotato di precise intenzionalità semiche e tematiche, a conferma di un
lavoro non scontato e non banale di ristrutturazione emulativa di alcu-
ni snodi decisivi della fabula scelta.50
Esaurita la pietosa rievocazione del sacrificio da parte di Taltibio, il
coro interviene con una riflessione ad alto gradiente gnomico, con ri-
me (fra cui anche una interna morte-sorte), dove è ancora avvertibile
l‟influsso petrarchesco, già recuperato dalla poesia tragica cinquecen-
tesca e sempre in contesto corale (anche se certo la tematica ricorre
frequentemente nella moralistica antica e moderna):

CORO F. PETRARCA, Triumphus Mortis, I, vv.


Misero è ben chi spera 85-90
In suo stato e grandezza, Miser chi speme in cosa mortal pone
In honori e ricchezza (ma chi non ve la pone?) e se si trova
Goder qua giù felicitade intera. a la fine ingannato, è ben ragione.
Il dì loda la sera, O ciechi, el tanto affaticar che giova?
E la vita la morte: Tutti tornate a la gran madre antica,
Tal è l‟humana sorte, e tal fia sempre e ‟l vostro nome a pena si ritrova.
Fin, che si giri il ciel ne le sue tempre.
(vv. 1438-45) G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, coro
II, vv. 11-19 (ed. Cagnacini 1583)

49
Questa rilettura laurana della protagonista femminile verrà riproposta da Cesare de‟ Ce-
sari nella sua Cleopatra (Venezia, Giovanni Griffio, 1552): cfr. M. P. MUSSINI SACCHI, Cleo-
patra altera Laura. La presenza di Petrarca in un personaggio del teatro tragico cinquecente-
sco, in I territori del petrarchismo. Frontiere e sconfinamenti, a c. di C. MONTAGNANI, Roma,
Bulzoni, 2005, pp. 209-29.
50
Mi sembra assai probabile la mediazione esercitata da Ariosto per la costituzione di
questa Polissena con tratti di Laura: in uno dei passi allegati (cfr. Orlando furioso, X, 96, vv.
5-8) Ariosto indulge a classici procedimenti di dissimulazione/allusione sul nome della Laura
petrarchesca. Il modulo verrà riproposto da un grande poeta tragico manierista: cfr. L. GROTO,
Adriana, I, 3, vv. 169 ss.: «In tanta morte andava scolorando/il già sì bello e colorito viso./E ‟l
colore, e ‟l calor venian mancando./Come purpureo fior, che ‟l curvo aratro/abbia passando
tronco, il qual perduto/le sue vaghezze, e ‟l bel colore smorto,/alfin venendo meno,/cada la
terra in seno». Naturalmente non si dovrà dimenticare che già Sofonisba e Rosmunda avevano
tratti di matrice laurana.
68 Venezia in coturno

Misero chi pon spene


Ne le cose mortai, quanto se ‟nganna
Chi pensa esser poter felice in terra,
Ove in continua guerra
Sono le cose sempre.
E s‟avien pur ch‟alcuna volta tempre
Qualche piacere il mal, tosto n‟afferra
Doglia maggiore, e a pena il bene appare
Ch‟egli qual neve al Sol tosto dispare.

Dolce riprende gli spartiti ipotestuali a partire dal v. 1462 (= Heka-


be, v. 585 ed Hecuba, v. 632) dove inizia una nuova rhesis di Hecuba
(vv. 1462-1547) che è 1) compianto sul cadavere di Polissena e 2)
meditazione, invero un po‟ didascalica, sulla condizione umana (a par-
tire peraltro sempre dalla personale situazione di derelizione e soffe-
renza della donna). Dolce spinge molto sul registro del patetismo, an-
che innovando: si prenda il pietoso riferimento – che non è né di Euri-
pide, né di Erasmo – all‟asciugatura del corpo morto di Polissena coi
capelli di Hecuba, che rinvia forse più propriamente a una suggestione
delle Metamorfosi ovidiane51 (trascurata nelle Trasformationi del Dol-
ce): «S‟altro non m‟è concesso/Dolce figliuola mia,/T‟asciugherò con
questo crine istesso» (vv. 1521-23).
Ecco il tono della accorata rhesis di Hecuba, tra rimpianto del pas-
sato glorioso e amara constatazione della terribilità del presente, dove
al di là di molte altre plausibili fonti, egemonica sembra ancora la pre-
senza del Petrarca volgare e latino:

HECUBA Ivi eran quei che fur detti felici,


O dorati palazzi, o già felice Pontefici, regnanti, imperadori;
Alta casa Real: o già possente or sono ignudi, miseri e mendici.
Di cotante ricchezze e tanti figli U‟ sono or le ricchezze? U‟ son gli hono-
Diletto mio consorte: ri?
O me già madre altera e le gemme e gli scettri e le corone,
Di sì honorati parti; e le mitre e i purpurei colori?
U‟ son hor le superbie, u‟ son gli hono- (Triumphus Mortis, I, 79-84)
ri?

51
Vd. OVIDIO, Metamorphoses, XIII, vv. 490-492: «…lacrimas in vulnera fun-
dit/osculaque ore tegit consuetaque pectora plangit/canitiemque suam concreto in sanguine
verrens».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 69

O come sono instabili et infide e ‟l conoscer chiaramente


Le ruote di Fortuna. Ecco, che siete che quanto piace al mondo è breve so-
Voi spinti; et io son nulla. gno.
Così, s‟huom lieto ride (Rvf, 1, vv. 13-14)
Tosto l‟assale il pianto.
Chi felice si gode cosa bella mortal passa et non dura.
Di nobiltà e d‟honori; (Rvf, 248, v. 8)
Si specchi in me: che con li proprij dan-
ni O res hominum ambiguas, o impremedi-
Esempio sono a quelli, tatos exitus, o fallacem spem volubilem-
Che al mondo nasceran dopo mill‟anni; que fortunam, o tenuissimo filo gaudia
E pensi, che quest‟ombre e questi sogni, nostra pendentia, o nunquam certum
Che ben chiaman gli sciocchi; mortalibus semperque suspectum ac for-
Fuggono a un volger d‟occhi: midabilem fati diem!
E, che quel si può dir più, che mortale; (Familiares, XI, 3.4)
Cui concesso è dal ciel di far partita
Da questa amara vita,
Senza provar da nessun lato il male.
(vv. 1524-47)

Hecuba, alla fine, sviene di nuovo (tratto che non troviamo in Euri-
pide ed Erasmo).
Il coro dell‟atto III52 presenta la tipica liquidazione della raffinata
onomastica dell‟originale. Atropos, Alexander, iubar Phoebi, civitati
Iliacae, Lacaena puella53 diventano rispettivamente: a) «Una de le tre
Dee (= le Parche);/Che fila il dolce e sì gradito stame/De la vita mor-
tale» (vv. 1558-60); b) «il troppo audace Pari» (v. 1561); c) sempli-
cemente: il Sole (v. 1568); d) cassato; e) «Qualche vecchia» (v. 1594).
Elemento di assoluto interesse mi pare poi il recupero preciso
dell‟immagine di Paride = fiaccola, che già aveva avuto un peso nel
sogno di Hecuba nel I atto, alla fine della prima strofa,54 altro autono-
mo spazio che Dolce ha ritagliato nel suo rifacimento:

Ei [Paride scil.] fu ben quella face,


Quella, ch‟apparve in sonno
A questa vecchia afflitta,

52
Composto da due lunghe strofe rispettivamente con schema assai libero [A-
bca.DedE.fghHGiiLlmnO] e [abc.Bbd.deefghfIilmnmoppn].
53
ERASMO, Hecuba, vv. 679-99.
54
Cfr. L. DOLCE, Hecuba, vv. 383 ss..
70 Venezia in coturno

Onde avampar devea tutto il suo Regno. (vv. 1573-1576)

Nuova conferma di un lavoro di intarsio, nel quale le allusioni e i


motivi che hanno un qualche spazio nella fabula vengono riutilizzati a
distanza, unità sintagmatiche funzionali – nella prospettiva del Dolce
– ad allestire un percorso drammatico dotato di una qualche coerenza.

4. Il quarto atto (vv. 1600-1993) prevede subito una nuova ferale


rivelazione per la miserrima Hecuba: Polidoro, unico figlio maschio
sopravvissuto, ritenuto al sicuro in Tracia, è invece morto e con effi-
cacissima scelta viene condotto in scena da una Serva. La prima scena
d‟atto, magistrale nella Hekabe euripidea (vv. 657-725), è di sicura ef-
ficacia anche in Dolce che prepara il coup de théâtre scenicamente
impeccabile del v. 1646 («Conosci il tuo figliuol? Questi è colui»), in
cui la Serva, inviata a raccogliere acqua di mare con cui compiere gli
abituali riti di abluzione purificatoria sul cadavere di Polissena, svela
ad Hecuba, togliendo il velo posto sul cadavere condotto in scena, il
corpo morto di Polidoro.
Hecuba recita l‟ennesima monodia funebre:

HECUBA
Dolor, sei tanto crudo,
Che doler non mi lassi
Quanto dovrei dolermi. Adunque questo
È Polidoro mio?
Anzi non Polidor; ch‟ei non è vivo:
Questo è il suo corpo morto.
[…]
Son questi figlio mio le rose e i gigli
Che dipingeano il volto,
U‟ si vedeva espressa
La vera imagin stessa
Del tuo padre infelice? È questa quella
Mano innocente e bella,
Che dovea vendicar le nostre offese?
Crudel man, crudel ferro,
Che aperse il bianco petto
D‟un semplice Agnelletto,
Che ancor non peccò mai. (vv. 1647-1681)
Le tragedie di Lodovico Dolce II 71

Mette conto rilevare qui il gioco concettoso costruito con il politto-


to della parola tematica dolore e il puntiglio razionalistico, a declina-
zione eufuistica e prebarocca, che caratterizza la correctio con cui
viene precisata l‟attuale natura di Polidoro, ridotto a corpo morto. I-
noltre, come già nella descriptio di Polissena morente, Dolce vira de-
cisamente verso un registro lirico/patetico nella prosopografia del fi-
glio di Hecuba, convocando i più topici figuranti floreali del rosso e
del bianco (rose e gigli) e riproponendo la biblica dinamica sacrificale
con l‟immagine platealmente cristiana dell‟Agnelletto (con ciò riba-
dendo la natura di mater dolorosa di Hecuba stessa). Viene poi qui in-
trodotto, declinato ancora secondo coordinate essenzialmente liriche55
e senza addentellati con Euripide ed Erasmo, il motivo della mano
vendicatrice (così significativo da essere il secondo nucleo diegetico
della fabula): «È questa quella/Mano innocente e bella,/Che dovea
vendicar le nostre offese?». La metonimia mano per forza ed energia
non è nuova ed ha un qualche rilievo nel prosieguo.56
Col v. 1746 prende il via la metamorfosi di Hecuba, non più succu-
be del proprio destino, ma attiva regista interna della fabula, energi-
camente convinta della necessità di far valere le proprie ragioni, attra-
verso un piano di vendetta che coinvolga Agamennone, suo nuovo
dominus, contro Polinnestore, l‟infido re trace cui Polidoro era stato
consegnato e che per pura avidità lo ha ucciso. In questo caso la sti-
comitia dei modelli (cfr. Hekabe, vv. 758-86 ed Hecuba, vv. 796-823)
viene perfettamente riproposta:

AGAMENNONE
In che ti pò giovar l‟opera mia?
HECUBA
In fatto assai lontan dal tuo pensiero.
Tu vedi il corpo morto: sopra ‟l quale
Spargo un fonte di pianto amaro et aspro?
AGAMENNONE
Veggo: e chi questo sia, m‟è ascoso ancora.

55
F. PETRARCA, Rvf, 37, vv. 98 e 116; 199, v. 1; 200, v. 1; 208, v. 12.
56
Cfr. L. DOLCE, Hecuba, vv. 1826-1827: «Ma possente è la man, possente il braccio/Del
sommo Dio, de la giustitia eterna». In una prospettiva segnata nel profondo dalla cultura cri-
stiana, non sarà la mano di Polidoro a vendicare Hecuba, bensì quella di Dio.
72 Venezia in coturno

HECUBA
Fu mio parto; e ‟l portai nel ventre mio.
AGAMENNONE
Forse è costui de i tuoi figliuoli alcuno?
HECUBA
È: non di quelli che periro in Troia.
AGAMENNONE
Adunque oltre a coloro altri n‟havevi?
HECUBA
N‟hebbi; ma inutilmente, come vedi.
AGAMENNONE
Quando prendemmo lei; questi dov‟era?
HECUBA
Per salvarlo, suo padre il mandò altrove.
AGAMENNONE
A qual luogo, partendolo da tutti?
HECUBA
In questo Regno, ov‟è trovato morto.
AGAMENNONE
In questo, dove Polinnesto regge?
HECUBA
A questo; con thesor, che gli fu amaro.
AGAMENNONE
Or chi l‟uccise, e di qual morte è spento?
HECUBA
Nessun‟altro, che quei, che gli dié albergo.
AGAMENNONE
Huomo crudel, sol per cagion de l‟oro?
HECUBA
Per quel, veduta la rovina nostra.
AGAMENNONE
Trovasti ‟l tu? O l‟ha portato alcuno?
HECUBA
Lui su ‟l lito del mar trovò costei.
AGAMENNONE
U‟ andò per questo, over per altro effetto?
HECUBA
Per acqua, ond‟io lavassi Polissena.
AGAMENNONE
Colui l‟uccise, e lo gettò nel mare?
HECUBA
Così fece ‟l crudel d‟un corpo humano.
AGAMENNONE
Ben sei sommersa in infiniti mali.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 73

HECUBA
Mal non mi resta più; ch‟io son già morta.
AGAMENNONE
Chi è quella infelice, ch‟ancor vive?
HECUBA
L‟ombra di me: o s‟ho pur corpo vivo
Questo Signore, è la miseria istessa. (vv. 1769-99)

Qui Dolce opera nella direzione dell‟ammorbidimento dell‟orrore:


il v. 782 di Hekabe (= Hecuba, v. 820: «Ponto vehendum, membra sic
sic dissecans») reca tracce dell‟antica pratica rituale del machalismòs
(= amputazione degli arti del cadavere al fine di scongiurarne il ritor-
no),57 ma il particolare macabro scompare totalmente (v. 1794).
Non essendo riuscita a convincere subito il re di Micene della ne-
cessità di garantire l‟attuazione della sua giusta vendetta contro Polin-
nestore, Hecuba elogia, in un passo più articolato rispetto ai modelli,
la retorica persuasiva (Πειθώ), de‟ mortali Donna e Reina:

HECUBA
Deh perché l‟huomo s‟affatica e suda
Ne l‟altre discipline honeste e degne
Di nobil sangue; e non impara l‟arte
Di persuader? La qual è de‟ mortali,
Si come piace a lei, Donna e Reina;
E ‟l tutto a voglia sua governa e regge?
Questa imparar si dee sopra ogni cosa;
E per acquistar lei riputar nulla
I diamanti, i rubin, le perle, e l‟oro;
Acciò l‟animo human lieto consegua
Quanto vuol, quanto pensa, e quanto brama.
Però, che la ragion senza costei;
È qual senza alma e senza vita corpo. (vv. 1846-58)

L‟apice di questo processo di valorizzazione del discorso è colloca-


to poco oltre, dove Hecuba sogna di poter trasformare letteralmente il
proprio corpo in energia retorica:

HECUBA
Deh perché queste mani e queste braccia,

57
Vd. ESCHILO, Coephoroi, v. 439 e SOFOCLE, Elektra, v. 445.
74 Venezia in coturno

Questi canuti crini, e questi piedi


Non possono formar parole umane?
Acciò tutti abbracciando parimente
Le tue Real ginocchia; parimente
Piangessero; e da tutti uscisse fuori
Ogni dolente suon di mesti accenti. (vv. 1881-87)

Hekabe, vv. 836-40 Hecuba, vv. 876-80


εἴ μοι γένοιηο θθ όγγος ἐν βρατίοζ ι Utinam quidem fiant mihi vocalia
καὶ τερζ ὶ καὶ κόμαιζ ι καί ποδῶν βάζ ει Brachia manusque comaeque et extremi
ἢ Γαιδάλοσ ηέτναιζ ιν ἢ θεῶν ηινος, pedes,
ὡς πάνθ‟ ὁμαρηῇ ζ ῶν ἒτοινηο γοσνάηων Seu Daedali arte sive quopiam deo,
κλαίονη‟, ἐπιζκήπηονηα πανηοίοσς Ut cuncta pariter genua contingant tua.
λόγοσς. Plorentque et omnis generis emittant
sonos.

In Dolce i deittici prossimali, anaforicamente replicati a due a due,


conferiscono ai nomi che seguono precisa icasticità scenica. Inoltre si
noti la scelta di liquidare il particolare, invero un poco culto, di Deda-
lo, cui anticamente si attribuì anche (fatto cui alludono Euripide ed
Erasmo) l‟invenzione dei primi automi. Agamennone non vuole tradi-
re un fedele alleato della causa achea come Polinnestore e, d‟altro can-
to, non può non riconoscere il clamoroso tradimento compiuto da que-
sti ai danni di Hecuba; pertanto si limita a garantire una sorta di coper-
tura politica ai progetti della moglie di Priamo che si attueranno
nell‟ultimo atto.
Il coro III (vv. 1994-2065), formato da cinque stanze,58 è un bel
canto sulla distruzione di Troia, vista dalla tragica prospettiva delle
donne troiane, ora captivae, che rievocando l‟orribile notte della fine
non possono esimersi dal maledire nuovamente Elena spartana, causa
prima della sciagura che ha devastato la loro città.

5. Il quinto e ultimo atto è avviato dall‟ingresso di Polinnestore


che, da perfetto tiranno, finge di dolersi del destino di miseria di He-
cuba. Inizia poi una decisiva sticomitia, innescata dalla semplice do-
manda di Hecuba su Polidoro:

58
Con schema [ABC.ABC.cDdEe.FF] e congedo [aBbCcDD], prelevato da F. PETRARCA,
Rerum vulgarium fragmenta, 207, con lieve variazione della fronte.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 75

HECUBA
Polidoro mio figlio; il qual ti fue
Raccomandato già dal vecchio padre;
E commesso a tua fe, quanto la vita;
Vive egli? Questo di saper desio:
E poi ragionerò d‟altrui secreti.
POLINNESTO
Vive; e da questa parte sei felice.
HECUBA
O, come tal parlar ti si conviene.
POLINNESTO
È altro che da me d‟intender brami?
HECUBA
S‟è de la madre sua scordato ancora?
POLINNESTO
Anzi a te di secreto venir volse.
HECUBA
L‟or, che seco recò, si trova salvo?
POLINNESTO
Questo è salvo e secur nel mio palazzo.
HECUBA
Di ciò fai ben, né dei bramar l‟altrui.
POLINNESTO
A me basta goder quel, ch‟io mi trovo.
HECUBA
Forse non sai ciò, ch‟io da te vorrei.
POLINNESTO
Non, s‟intender no ‟l fai con le parole.
HECUBA
Che l‟ami, sì com‟io t‟amo al presente.
POLINNESTO
Che accadeva voler meco i figliuoli?
HECUBA
Di Priamo è un gran thesor sotterra ascoso.
POLINNESTO
Vuoi, che di ciò s‟avisi il tuo figliuolo?
HECUBA
Voglio; e per te, che sei buono e fedele.
POLINNESTO
Che bisogna, che sian presenti i figli?
HECUBA
Se avien che muori, acciò che ‟l sappian questi.
POLINNESTO
Hai fatto bene, con prudentia molta.
76 Venezia in coturno

HECUBA
Sai dove in Troia era di Palla il Tempio?
POLINNESTO
Ivi è ‟l Thesoro? Hai tu segnato il luoco?
HECUBA
Vi puosi un negro et elevato sasso.
POLINNESTO
Seguita, s‟altra cosa a dir ti resta.
HECUBA
Questi danar vorrei, che tu serbassi.
POLINNESTO
Quali danar? Io non so veder nulla.
HECUBA
Ch‟io trassi a le ruine, e portai meco.
POLINNESTO
Gli hai sotto a panni, o pur altrove ascosi?
HECUBA
Dentro le Tende in molte spoglie involti.
POLINNESTO
Questi non son de‟ Greci alloggiamenti?
HECUBA
Son proprij de le femine prigioni.
POLINNESTO
Può esser, che non sia dentro alcun‟huomo.
HECUBA
Huomo non v‟è. Noi alloggiamo sole
Ma v‟entra tu: però, che d‟hora in hora
Son per partirsi i Greci: che gran tempo
Braman di riveder le lor contrade:
Acciò, che fatto quel, ch‟è di te degno,
Possi co‟ figli tuoi ritornar tosto
Là, dove il mio figliuol lieto t‟aspetta. (vv. 2122-64)

Il serrato dialogo è tutto giocato sulla dissonanza prodotta dai disli-


velli conoscitivi: Hecuba finge di non sapere che Polidoro è morto
(cosa che il pubblico sa perfettamente); Polinnestore non sa che Hecu-
ba conosce la verità e dunque recita una grottesca commedia degli in-
ganni. Tutte le battute della donna sono in realtà a doppio taglio, anfi-
bologiche; perfettamente orchestrata è la fraus che spinge Polinnesto
ad entrare nelle Tende del campo acheo: qui sono appostate le compa-
Le tragedie di Lodovico Dolce II 77

gne troiane di Hecuba (= coro),59 che uccidono brutalmente i figli di


Polinnestore e lo acciecano;60 compiuta è la vendetta di Hecuba:

POLINNESTO F. PETRARCA, Rvf, 103, vv. 5-8


Oimè oimè son privo: oimè son privo, L‟orsa, rabbiosa per gli orsacchi suoi,
Oimè de gli occhi e de la luce cara. che trovaron di maggio aspra pastura,
SEMICORO rode sé dentro, e i denti et l‟unghie en-
Sentite voi di quel Tiranno il grido? dura
POLINNESTO per vendicar suoi danni sopra noi.
Oimè, oimè; che occidon miei figliuoli.
[…]
Voi fuor de le mie man non uscirete
Crudeli; ancor, ch‟a piedi haveste l‟ali:
S‟io dovessi gettar giù nel profondo
Il ciel; non che cotesti alloggiamenti.
SEMICORO
Sentite voi, come percote e fere,
E risonar fa d‟ogn‟intorno il lito?
Entriamo dentro: e sendo nostro albergo,
È ben dever, che si dia aiuto al nostro.
State a veder, sì come a guisa d‟Orso,
Rode se stesso, e i denti, e l‟unghie indura
Per far sopra di noi vendetta acerba.
HECUBA
Rompa ciò, ch‟egli vuol, roini il tutto:
Far non potrà, che gli ritornin gli occhi:
E posto, che tornasser: non potrai
Veder per questo i tuoi figliuoli vivi;
I quali ho uccisi al tuo cospetto avanti
Di mille punte al cuor con queste mani.
SEMICORO
Ma diteci Reina, come è andato
Questo bel fatto e di memoria degno.
HECUBA
Hor cieco lo vedrai dal Padiglione
Brancolando e tenton mover i passi
Con la faccia e col sen brutto di sangue.
E vedrai insieme i suoi due cari figli,

59
In questa scena Dolce segue da vicino Erasmo e come lui divide il coro in due semicori:
uno dentro la tenda a compiere materialmente il massacro dei figli e l‟accecamento del tiranno
(off-stage); l‟altro a svolgere la funzione di Nuntius on-stage.
60
L‟accecamento funziona ovviamente come punizione espiatoria che ritorna anche nel
mito di Edipo.
78 Venezia in coturno

Ambi traffitti da le nostre mani


Portar di fuori sanguinosi e morti.
Ecco, pagate ei m‟ha debite pene.
(vv. 2189-22)

Le strategie retoriche esprimono perfettamente la condizione di


strazio nella quale si trova inopinatamente Polinnesto: le geminatio-
nes, gli adynata e l‟esibita frantumazione della frase – prolungata dal-
la presenza delle esclamazioni – servono a riprodurre il dolore del ti-
ranno. Il pathos è esasperato rispetto ai pur coinvolgenti spartiti ipote-
stuali.61 Polinnesto viene poi paragonato dal semicoro, sempre nel-
l‟ottica del massimo sfruttamento possibile degli elementi intratestua-
li, ad un Orso,62 su cui agisce senza dubbio (e platealmente) la forte
pressione del Petrarca lirico, anche per non casuali omologie temati-
che. La bestializzazione del re trace, del tutto autonoma rispetto ai
modelli, procede ai vv. 2225-26, ove Hecuba dice di volersi allontana-
re «Da l‟ira e dal furor di questa Fera/Da questo Lupo indomito e su-
perbo».63
Quindi anche Polinnesto canta la sua patetica monodia lirica:

POLINNESTO
Dove lasso n‟andro? Dove mi porta
Il pié? Verso a qual via debbo indrizzarmi?
A guisa d‟animal gir mi conviene
Senz‟occhi, ricercando con la mano
Lo smarrito camin solo a me stesso.
Ah, maledetto seme.
Donne spietate e rie,
Dove vi nascondete?
Febo, splendor del giorno;
De‟ nostri passi duce,
Concedimi la luce
Tanto, ch‟io sfoghi l‟ira,

61
EURIPIDE, Hekabe, vv. 1035-1037: «‟ώμοι, ησθ λοσμαι θέγγος ‟ομμάηον ηάλας/[…]/‟ώ-
μοι μάλ‟ασθις, ηέκνα, δσζ ηήνοσ ζ θαγης»; ERASMO, Hecuba, v. 1091-1093: «Oculum orbor
eheu luce et aspectu miser!/[…]/Heu rursus eheu, liberos necant meos!».
62
Dolce aveva trasformato già un lupo in orso al v. 284, come si ricorderà.
63
In Dolce vi è sempre maggiore concretezza rispetto ai suoi testi di riferimento: orso e
lupo sono sue invenzioni per conferire plasticità e realismo alla un po‟ generica definizione
dell‟ira di Polinnesto.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 79

L‟ira giusta del cuore,


Lo disdegno, e ‟l furore
Sopra le scelerate.
Io sento i passi loro,
Non mi satierò io, Furie Infernali
Di quelle carni, et ossa?
Ma dove pur m‟invio,
E lasso il sangue mio
A queste fiere inique:
La cui spietata bocca,
Hor se lo asciuga e bee?
Ah crudeli Medee.
Ove son miei figliuoli?
Figli, miei dolci figli;
Io son tornato a voi
Dentro a questi sanguigni infami alberghi,
Per difender, s‟io posso,
La vostra cara vita,
Ch‟io temo, che sia gita.
[…]
Oimè oimè: o feroce
O bellicosa gente
De la mia Thracia, o gente
Sopra a forti corsier con l‟hasta in mano
Valorosa e possente.
O Greci, o Greci: o voi
Lor Capi e Imperadori
Agamennone e Menelao; i vi chiamo,
I vi chiamo, i vi chiamo;
Deh venite vi prego
Per tutti i Santi Dei
A gli empi casi miei.
Può esser, che non m‟oda alcun di voi,
Né mi soccorra alcuno?
Qual cagion vi ritarda?
Man feminile e fiera
Mi priva d‟esser huomo.
Donne afflitte e prigioni,
Donne in forza d‟altrui,
M‟han tolto ogni potere.
Grave dolor, ch‟io sento.
Chi fia colui, chi fia,
Che mi porti su in cielo,
O giuso ne l‟Inferno?
80 Venezia in coturno

Ahi dura sorte e ria. (vv. 2227-85)

Al solito moltissimi sono i settenari, molte le rime e complessiva-


mente incrementato il tasso figurale.64 Tra gli elementi microtestuali
che mette conto sottolineare vi è certamente la scelta di rendere la iun-
ctura erasmiana tartareis Bacchis (vv. 1132-33), restituzione piuttosto
precisa dell‟euripideo Βάκταις Ἅιδοσ (v. 1077), con l‟immediato e al-
litterante Furie Infernali (v. 2243), ulteriormente precisato, qualche
verso sotto, da un‟altra autonoma giuntura del Dolce: crudeli Medee
(v. 2250), convocazione di uno dei paradigmi antichi della feritas
femminile, ma declinato al plurale e usato antonomasticamente.
Nel successivo dialogo con Agamennone, frattanto entrato in scena,
Polinnesto tocca vertici di orrore e crudeltà degni della tragedia sene-
cana. E ancora percepiamo l‟interferenza di topoi romanzi, iuxta quel-
la contaminazione continua e programmatica fra fonti che caratterizza
la scrittura tragica dolciana:

POLINNESTO
Dov‟è questa nimica di pietade:
Ch‟io la voglio squarciar a brano a brano;
E ber quel sangue, che n‟ha sparso il mio.
[…]
Lasciami per l‟amor, che porti a i Dei:
Io le vo trar con le mie mani il cuore. (vv. 2313-18)65

Polinnesto riepiloga poi ad Agamennone, in una abnorme rhesis di


quasi cento versi (vv. 2324-2419 = Hekabe, vv. 1132-82 = Hecuba,
vv. 1195-1252), come sono andati gli ultimi cruenti fatti e cerca spe-
ciosamente di giustificare l‟assassinio di Polidoro come politicamente

64
Registriamo anafora di dove nei primi versi (con variatio sinonimica Verso a qual via);
reduplicatio ai vv. 2238-39 e con allotropia a 2251-52; geminatio e redditio al v. 2252; gemi-
nationes ai vv. 2261, 2266, 2282 (talvolta con redditio); addirittura epizeusi ai vv. 2268-69;
quasi epifora ai vv. 2273-74; anafora ai vv. 2278-79; epifrasi al v. 2285; allitterazione di [f]
al v. 2276, etc..
65
Il motivo del cuore (rubato e/o mangiato), del tutto assente nei modelli, è in verità asso-
lutamente medievale: per la tradizione italiana vd. comunque almeno DANTE, Vita Nova, I,
21-24: A ciascun‟alma presa e gentil core e Rime, Voi che savete ragionar d‟amore, vv. 2-4;
D. FRESCOBALDI, Voi che piangete nello stato amaro, vv. 55-58; F. PETRARCA, Rvf, 23, vv.
72-74 e 228, vv. 1-2; G. BOCCACCIO, Decameron, IV, 1.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 81

necessario, onde evitare altre contese fra greci e frigi. Nel racconto mi
pare ancora efficace la nuova rifunzionalizzazione dell‟immagine del-
la fiaccola ai vv. 2403-05, applicata qui però non a Paride (cui pure
Dolce evidentemente allude), bensì a Polidoro:

Questa è la somma de gli estremi mali


Re, c‟ho patito sol per farti cosa
Utile, via levando con la morte
Il giovanetto [Polidoro scil.], tuo nimico fiero:
Che qual picciola fiamma, a poco a poco
Havria fatto un incendio così grande
Che fatica sarebbe ad ammorzarlo. (vv. 2399-2405)

Con queste parole Polinnesto autorizza il pensiero che, se Polidoro


fosse sopravvissuto, si sarebbe rivelato una sorta di Paride rovesciato,
con mutamento dell‟oggetto destinato ad essere simbolicamente bru-
ciato: in questo caso non Troia, ovviamente, ma il potere degli achei.
Hecuba, lucidissima nella sua requisitoria contro il re trace (vv. 2431-
2509), ne svela la colossale mistificazione e ne ottiene la condanna da
parte di Agamennone.
La tragedia si conclude con una buona sticomitia fra Polinnesto ed
Hecuba (qua e là contrappuntata anche da battute di Agamennone),
che ci permettiamo di citare integralmente (cfr. Hekabe, vv. 1252-86
ed Hecuba, 1329-63):

POLINNESTO
Io vinto da una femina cattiva
A peggiori di me son fatto esempio.
AGAMENNONE
Meritamente, havendo fatto il male.
POLINNESTO
Piango ah misero, i figli e gli occhi miei.
HECUBA
Duolti? E non pensi, ch‟a me dolga il figlio?
POLINNESTO
Tu t‟allegri crudel d‟havermi ucciso?
HECUBA
Non mi debbo allegrar di tal vendetta?
POLINNESTO
Non così forse alhor, che ‟l mar e l‟onde.
82 Venezia in coturno

HECUBA
Non sarò io condotta a i liti Greci?
POLINNESTO
Il mar ti coprirà, d‟alto cadendo.
HECUBA
Io non posso cader, se non ascendo.
POLINNESTO
La rabbia ti farà, voglia o non voglia.
HECUBA
Io non intendo quel, che mi minacci.
POLINNESTO
Forsennata latrar conversa in Cane.
HECUBA
Chi rivelato t‟ha questi secreti?
POLINNESTO
Uno indovin; cui molta fede io porgo.
HECUBA
E di questo tuo mal nulla predisse?
POLINNESTO
La fraude tua non m‟haverebbe aggiunto.
HECUBA
Morrò nel mar, o vi fia posta morta?
POLINNESTO
Morta: ma ben havrai sepolcro e nome.
HECUBA
Nome da la mutata mia persona?
POLINNESTO
Di Can sepolcro; a marinari segno.
HECUBA
Sia pur: poi, che di te preso ho vendetta.
POLINNESTO
Conven, che moia ancor la tua Cassandra.
HECUBA
Questo annuntio ritorni nel tuo capo.
POLINNESTO
L‟aspra di costui moglie uccideralla.
HECUBA
Già non fec‟io così de la cognata.
POLINNESTO
Occiderà anco lui miseramente.
HECUBA
Ragiona del tuo mal, che t‟è davanti.
AGAMENNONE
Costui ne sente molto e cerca peggio.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 83

POLINNESTO
Occidi me. Tu sara‟ occiso in Argo.
AGAMENNONE
Levatemi di quà quest‟huom bestiale.
POLINNESTO
Ti par la morte a udir terribil cosa.
AGAMENNONE
Chiudeteli la bocca; e via ‟l menate.
POLINNESTO
Chiudete. Quel, ch‟è detto, è suto detto.
AGAMENNONE
Fate voi ciò, quanto si pò più tosto. (vv. 2534-69)

Il tiranno trace – cieco e perciò topicamente capace di vedere oltre,


nel tempo – profetizza le sventure che colpiranno Hecuba,66 la figlia
Cassandra e Agamennone.
A chiuder la fabula un breve madrigale, rispettoso dei modelli, ma
con un di più di sentenziosità e liricità e con una dictio franta dalle i-
narcature, in cui si ribadisce l‟impossibilità di sfuggire al proprio de-
stino:

CORO CHORUS
Ite Donne infelici, Ite ad portus agite et Graium
Ite al porto; e tornate Ad tentoria tendite saeva,
A le lasciate tende, Experturae posthac sortis
De‟ nostri alti nimici. Aerumnas servilis acerbas.
Ivi meste aspettate Nam sic urget nescia flecti et
Pene fiere et horrende Cogit dira necessitas. (vv. 1371-76)
Di servitù; che ci consuma e strugge,
Come neve talhor raggio di Sole;
Così comanda e vuole
Dura necessità, che mal si fugge.
(vv. 2581-90)67

66
Per il destino di Ecuba cfr. anche OVIDIO, Metamorfosi, XIII, vv. 558-575 e relativa se-
zione delle Trasformationi (XXVI, 24-26, p. 267) del Dolce. Ma soprattutto cfr. Inferno,
XXX, vv. 16-21.
67
Da registrare è ancora la significativa mediazione petrarchesca, almeno per il topos del-
la neve al sole: cfr. Rvf, 23, v. 115: «né già mai neve sotto al sol disparve»; 30, v. 21: «che mi
struggon così come ‟l sol neve»; 73, vv. 14-15: «anzi mi struggo al suon de le parole,/pur
com‟io fusse un huom di ghiaccio al sole». La dittologia consuma e strugge di v. 2587 ha an-
cora legalità petrarchesca: cfr. Rvf, 72, v. 39. È anche ripresa, tra gli altri, da A. POLIZIANO,
Stanze, I, 57, v. 3.
84 Venezia in coturno

2. Thyeste68

La lunga dedicatoria del Thyeste, seconda tragedia pubblicata dal


Dolce, è un vero e proprio compendio delle principali questioni di po-
etica traduttoria, riscrittoria, emulativa che interessavano il poligrafo
veneziano:

Al Magnifico Giacomo Barbo


Lodovico Dolce

Egli si vede non rade volte avenire, nobilissimo M. Giacomo, che o per dif-
fetto della natura, liberale a pochissimi delle sue grazie, o di altro impedi-
mento che sia in noi, molti uomini prudenti et in qualche studio di lettere e-
sercitati, non possono i loro concetti, sì come essi gli hanno nell‟intelletto,
così di fuori con la lingua perfettamente esprimere. La qual cosa sì come è
compassionevole, così veramente è degna di scusa. Ma coloro i quali, da folle
licenzia mossi, hanno ardimento di mandare agli inchiostri le cogitazioni lo-
ro, senza saperle né disporre, né ornare, né con qualche piacevolezza dilettare
l‟animo di chi legge, sono sempre stati e debbono meritamente esser ripresi.
Il che se è difficile (che nel vero esser si vede), molto più è da credere che
difficile cosa sia lo esprimere o con parole o con inchiostri i concetti d‟altrui,
di maniera che non si offenda né l‟intelletto di chi legge, né le orecchie di chi
gli ascolta: perciò che fa di mestiero che noi quasi un‟altra lingua e quasi (se
far si può) un‟altra natura prendiamo. Non è adunque di sì poca importanza,
come alcuni istimano, l‟officio di tradurre un libro d‟una lingua in un‟altra, in
modo che si possa comportevolmente leggere. Percioché oltre che ogni lingua
ha certe particolarità che recata in un‟altra in gran parte le perde, aviene an-
cora che molte cose ci si vengono dette altrimenti di quello per aventura che
furono intese dal loro autore. Onde fa di bisogno che l‟interprete sia non pure
intendentissimo et accompagnato da un buono e perfetto giudicio, ma ornato
ed eloquente nel dire. Le quai cose trovandosi insieme aggiunte, non è dubbio
che a nostri dì non si potesse nella nostra lingua volgare rappresentar la can-
didezza e bellezza delle prose di Cicerone, e la maestà ed eleganza contenute
nei versi di Virgilio. Percioché i soggetti, o bene o male che si trasportino,

68
L. DOLCE, Thyeste. Tragedia, tratta da Seneca, Venezia, Gabriele Giolito de‟ Ferrari,
1543. Si è tenuto conto delle edizioni del 1547, del 1560 e specialmente del 1566. Ci permet-
tiamo, per ragioni di comodità, di citare il testo dalla nostra recente edizione: vd. L. DOLCE,
Tieste, a c. di S. GIAZZON, Torino, RES, 2010. Per una breve analisi cfr.ancora S. GIAZZON, Il
Thyeste (1543) di Lodovico Dolce, in La letteratura italiana a Congresso. Bilanci e prospet-
tive del decennale (1996-2006), a c. di R. CAVALLUZZI, W. DE NUNZIO, G. DISTASO, P. GUA-
RAGNELLA, Lecce, Pensa Multimedia, 2008, tomo II, pp. 325-333. Thyeste è il titolo delle pri-
me due edizioni. Poi Dolce regolarizza in Thieste.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 85

pure in gran parte sono compresi, ma i colori e le figure del dire e le grandez-
ze e purità degli stili del tutto si perdono, se da maestro e giudicioso ingegno
non vengono conosciuti e distesi. Questo, più che altri che si veggano a que-
sta età, avete fatto voi: il quale intendentissimo delle bellezze dei latini e vol-
gari componimenti, quelle così leggiadramente nella volgar lingua rapportate,
che per aventura il nostro mirabile Messer Tiziano (a cui solo la Natura è sta-
ta cortese di questo dono) non fece giamai ritratto che più la imagine del vero
e del vivo rappresentasse. E se non che V. S. è non meno virtuosa che mode-
sta, addurrei in questo il testimonio della orazione di Demostene, da lei così
felicemente tradotta. Per queste cagioni adunque ho voluto appagare il desi-
derio, ch‟era in me, di mandare a V. S. la presente tragedia di Seneca, acciò
che ella giudichi se alcuna parte è in lei che meriti d‟esser letta; quanto di bel-
lo per voi le si potrebbe aggiungere, qualunque volta vi degnate di limarla col
purgatissimo giudicio vostro. A V. S. inchinevolmente mi raccomando, in-
sieme con i suoi magnifici ed onoratissimi fratelli.

Di Padova,
il Primo di Agosto, MDXXXXIII

In primis, viene subito espressa la consapevolezza della dismisura


abissale che separa intenzionalità comunicative e comunicazione, pen-
siero e lingua, res e verba anche presso uomini appartenenti ai ceti in-
tellettuali («molti huomini prudenti et in qualche studio di lettere eser-
citati, non possono i loro concetti, sì come essi gli hanno nell‟intel-
letto, così di fuori con la lingua perfettamente esprimere»): Dolce re-
puta questa asimmetria un fatto costitutivo della natura e della comu-
nicazione umana.
La scrittura letteraria è, a maggior ragione, sempre secondaria, de-
rivativa, sia rispetto all‟elaborazione concettuale, sia rispetto all‟orali-
tà, e quanto meno essa è il prodotto di attente cure e paziente lavoro,
tanto più si rivela fallimentare: coloro che «hanno ardimento di man-
dare a gli inchiostri le cogitationi loro, senza saperle né disporre, né
ornare, né con qualche piacevolezza dilettare l‟animo di chi legge;
sono sempre stati, et debbono meritatamente esser ripresi».69 Per lo
stesso motivo sarà da reputarsi ancor più difficile «lo esprimere o con
parole, o con inchiostri i concetti altrui; di maniera, che non si offenda
né l‟intelletto di chi legge, né le orecchie di chi gli ascolta»: con il che

69
Dove si noterà la centralità delle categorie retoriche classiche di dispositio, ornatus, de-
lectare.
86 Venezia in coturno

siamo al cuore della poetica traduttoria (ma verrebbe da dire poetica


tout-court) di Dolce.
Tradurre è operazione più complessa della stessa invenzione lette-
raria, perché richiede capacità di adeguamento alle intenzioni e al con-
testo (storico, culturale, ideologico, psicologico, retorico) dell‟autore
di partenza, che non sono necessarie – perché già date – nel caso della
creazione artistica originale:70 «perciò che fa di mestiero, che noi qua-
si un‟altra lingua et quasi (se far si può) un‟altra natura prendiamo».
Di fronte a queste premesse epistemologiche è evidente che per Dolce
«non è adunque di sì poca importanza, come alcuni istimano, l‟officio
di tradurre un libro d‟una lingua in un‟altra in modo, che si possa
comportevolmente leggere».
E alle difficoltà post-babeliche ed entropiche della traduzione allu-
de il nostro, con la consueta, esemplare perspicuitas, quando rileva
che siccome «ogni lingua ha certe particolarità, che recata in un‟altra
in gran parte le perde», spesso succede che «molte cose ci si vengono
dette altrimenti di quello peraventura, che furono intese dal loro auto-
re»: perfetta epitome della convinzione che la traduzione perfetta non
esiste, perché assolutamente irriproducibili sono le coordinate conte-
stuali e intenzionali del progetto originale di invenzione e compagina-
zione testuale e troppo differenti i dominî linguistici coinvolti, in ogni
caso.
A sfuggire sono, appunto, le res ontologicamente sottostanti, so-
stanzianti i verba usati per esprimerle. In ogni caso, a marcare la natu-
ra eminentemente elocutiva dell‟operazione traduttoria, «fa di biso-
gno, che l‟interprete sia non pure intendentissimo et accompagnato da
un buono e perfetto giudicio; ma ornato et eloquente nel dire».
E anche qualora vi siano condizioni traduttorie ottimali non si rie-
sce comunque a riprodurre in volgare «la candidezza e bellezza delle
prose di Cicerone, et la maestà et eleganza contenute ne i versi di Vir-

70
Qualcosa di simile scriveva Pazzi de‟ Medici nella Prefatione alla Dido in Carthagine,
sostenendo la maggiore difficoltà della traduzione perché con essa il poeta si mette in gioco
rispetto a un testo di partenza che tutti conoscono e cui tutti possono accedere per compiere
confronti; cosa, questa, interdetta nel caso di un testo di pura invenzione, la cui autenticità o
meno risiede tutta, e solo, nell‟elaborazione concettuale dell‟autore, giocoforza non verificabi-
le, e nella successiva traduzione retorico-stilistica della medesima. Cfr. A. PAZZI DE‟ MEDICI,
Le tragedie metriche, a cura di A. SOLERTI, Bologna, Romagnoli dall‟Acqua, 1887, pp. 43-53.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 87

gilio»,71 poiché se il contenuto concettuale è traducibile «i colori et le


figure del dire; et le grandezze et purità de gli stili del tutto si perdono,
se da maestro et giudicioso ingegno non vengono conosciuti et diste-
si»: una preoccupazione per la riproduzione, nel testo d‟arrivo, della
elocutio e dei colores del testo primo che è molto esibita, nel quadro
di quella valorizzazione degli aspetti stilistici e formali che è tipica
dell‟estetica tardo-rinascimentale e manieristica.72 La lettera è conclu-
sa – convenzionalmente – con l‟invito al destinatario, Giacomo Barbo,
ad intervenire direttamente sul testo dell‟opera dolciana correggendo-
lo, qualora vi ravvisi elementi difettosi.
Emergono, dalla dedicatoria, alcune rilevanti indicazioni: anzitutto,
una idea forte della traduzione letteraria come fatto complesso e cultu-
ralmente importante e utile (con il che, esplicitamente, Dolce sembra
rubricare la sua riscrittura tragica sotto questa categoria); poi, viene
proposto un modello di letteratura come fatto squisitamente retorico e
stilistico (di dispositio ed elocutio, ornatus, colores più che di inven-
tio), integrato peraltro da un vistoso richiamo all‟estetica del delecta-
re, vera e propria bussola orientativa dell‟attività letteraria del nostro.
Elemento di qualche interesse questo, perché applicato a un genere
(la tragedia) che, proprio per il suo essere sublime, non aveva come
precipua funzione quella di dilettare, ma piuttosto quelle di movere e
docere.
Del resto, il lavoro del Dolce nasce dalla crisi del tardo classicismo
rinascimentale, ormai deprivato delle sue componenti di rispetto filo-
logico del testo antico, sempre più costretto ad essere disponibile e
consumabile per un pubblico non troppo colto, educato solo, o preva-
lentemente, alla letteratura in volgare. La declinazione che di tale clas-
sicismo dà Dolce è funzionale alle esigenze di un sistema culturale
rinnovato in cui bisogna leggere i grandi autori classici, ma possibil-
mente in traduzione, perché poco è il tempo a disposizione di ceti non
umanistici e non accademicamente preparati (i più significativi nuovi
consumatori culturali sono i mercanti, i borghesi e le donne, che han-

71
Secondo la più scoperta vulgata bembiana, Cicerone e Virgilio vengono qui convocati
per indicare la dimensione di afàn utópico che caratterizza organicamente la pratica tradutto-
ria.
72
Molto simili mi sembrano alcune considerazioni di Lodovico Castelvetro su questi stes-
si problemi nella Lettera del Traslatare.
88 Venezia in coturno

no poco tempo a disposizione per le attività voluttuarie) e gli stessi in-


tellettuali sono progressivamente sempre più inseriti nei meccanismi
produttivi di una società in profondo mutamento, vedendo eroso il lo-
ro prestigio e non potendosi più nutrire dei miti di un‟intellettualità
cortigiana ormai quasi universalmente estinta.73
Il Thyeste si configura come perfetta sintesi di queste caratteristi-
che: secondo la terminologia di Sebastiano Fausto74 quella di Dolce è
una metafrasi, ovvero una libera traduzione interpretativa in cui il te-
sto originale viene manipolato ad uso e consumo di un pubblico non
dotato di una preparazione adeguata per decifrare il complesso nucleo
di temi mitologici, problemi, allusioni presenti nell‟originale.75
La tragedia è così articolata: cinque atti di endecasillabi e settenari
(variamente rimati), di cui il primo, conformemente all‟originale, è un
prologo a tutti gli effetti; cinque cantica corali (i primi tre cori con
schema petrarchesco;76 il quarto e il quinto coro, madrigaleschi, senza
schema specifico, ma con molte rime, assonanze, consonanze; l‟ulti-
mo, in particolare, non è assolutamente giustificato dal testo senecano
e con esso Dolce, come già in Hecuba, sussume le vicende della
fabula tragica sotto il quadro della giustizia cristiana che punisce gli
scelera e i loro autori). I versi sono 1732 nella redazione definitiva del
1566 (1736 nella princeps del 1543 e nella ristampa con correzioni del
1547).

1. Il prologo, che vede confrontarsi Tantalo e la furia Megera (197


versi rispetto ai 121 del Thyestes senecano, ma essenzialmente per
motivi metrici), è caratterizzato da una adeguata restituzione dell‟orro-
re avernale del modello, senza dubbio passato prevalentemente attra-
verso il crivello della poesia dantesca, la più naturalmente disponibile

73
Vd. G. BENZONI, Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere nell‟Italia della Con-
troriforma e barocca, Milano, Feltrinelli, 1978.
74
S. FAUSTO DA LONGIANO, Dialogo del Fausto da Longiano del modo de lo tradurre
d‟una in altra lingua segondo le regole mostrate da Cicerone, a c. di B. GUTHMÜLLER, in
«Quaderni Veneti», 12, 1990, pp. 57-152.
75
Modello unico di riferimento, rispetto alla pluralità delle fonti che parlano in Hecuba, è
qui Seneca.
76
F. PETRARCA, Rvf, 125, per il primo e il terzo coro; Rvf, 29 per il secondo.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 89

in questo senso (non senza prelievi dall‟ineludibile Petrarca e dai suoi


epigoni):

TANTALO TANTALVS
Qual mi toglie furor? Qual empia forza Quis me furor nunc sede ab infausta ab-
Dal cieco regno de l‟eterno pianto? strahit,
Dove per doppio mal di tempo in tempo Auido fugaces ore captantem cibos?
Il desiato frutto e l‟acqua chiara Quis male deorum Tantalo uiuas domos
Da le mie labbra s‟allontana e fugge? Ostendit iterum? Peius inuentum est siti
Qual Dio, per crescer doglia al mio tor- Arente in undis, aliquid et peius fame
mento, Hiante semper. Sisyphi nunquid lapis
Di novo a riveder Tantalo adduce Gestandus humeris lubricus nostris ve-
I lieti alberghi de la gente viva? nit?
Deh, puossi qui trovar pena maggiore Aut membra celeri differens cursu rota?
Ch‟arder sempre nel cor di fame e sete? Aut poena Tityi semper accrescens ie-
Debbo forse portar sopra le spalle cur?
Il grave sasso ond‟è Sisifo iniquo Vulneribus atras pascit effossis aves,
In un medesmo tempo oppresso e stan- Et nocte reparans, quidquid admisit die,
co? Plenum recenti pabulum monstro iacet.
O por le membra a la dolente rota In quod malum transcribor? O quisquis
Che sempre volge tra gli acuti denti noua
Di fiere serpi, che gli stan d‟intorno, Supplicia functis durus umbrarum arbi-
L‟empio Isione in un veloce giro? ter
Debbo, sì come Tizio, eternamente Disponis, adde siquid ad poenas potes.
Pascer del cuor, ch‟a lui sempre rinasce, Quod ipse custos carceris diri horreat.
Il sanguinoso et affamato augello? Quod maestus Acheron paueat ad cuius
A qual mandato son nel mondo scem- metum
pio? Nos quoque tremamus, quare iam nostra
Se quel non basta ch‟io patisco ognora, subit,
O tu de l‟alme sciolte acerbo e fiero E stirpe turba, quae suum uincat genus,
Giudice, qual ti sei, ch‟a noi comparti Ac me innocentem faciat, et inausa au-
Uguali ai falli uman supplìci degni; deat?
Se aggiunger si pò male al mal ch‟io Regione quidquid impia cessat loci
sento, Complebo, nunquam stante Pelopeia
Giungilo: acciò, che tremi ne l‟inferno domo
Cerbero, che tremar tutto l‟abisso Minos uacabit. (vv. 1-23a) 77
Fa, mentre aprendo l‟orgogliose bocche
Di spaventosi gridi ingombra Averno.

77
Si cita sempre, quando non sia diversamente indicato, da Senecae Tragoediae, Giunti,
Firenze, 1513. La numerazione è ovviamente mia, riscontrata con l‟edizione critica oxonien-
se: L. ANNAEI SENECAE, Tragoediae. Incertorum auctorum Hercules [Oetaeus] Octavia, a c.
di O. ZWIERLEIN, Oxford University Press, Oxford, 1986.
90 Venezia in coturno

Io cerco la cagione: e non m‟è ascoso


Che de la stirpe mia già nato è tale
Che vincerà la prole e me crudele
Potrà a petto di lui render pietoso.
Questi ardirà di far cosa che mai
Non so se cadde in cor di tigre o d‟orsa.
Così, mentre di me fia seme in terra,
Vota non sarà mai l‟infernal corte.
(vv. 1-38)

Inferno, IV, 13
Or discendiam qua giù nel cieco mondo

Inferno, IX, 44
de la regina de l‟etterno pianto.

Inferno, XXXIV, 61
Quell‟anima là su c‟ha maggior pena

Inferno, XXIX, 67
Qual sovra ‟l ventre e qual sovra le spalle

F. PETRARCA, Rvf, 198, v. 14


et di tanta dolcezza oppresso et stanco

B. TASSO, Rime, I, 22, vv. 113-115


Come Ixion a la volubil rota,
Cinta da serpi velenosi e crudi

Inferno, X, 85
Ond‟io a lui: – Lo strazio e ‟l grande scempio

Purgatorio, XII, 55
Mostrava la ruina e ‟l crudo scempio

F. PETRARCA, Rvf, 23, v. 10


benché ‟l mio duro scempio

F. PETRARCA, Triumphus Cupidinis, II, v. 174


nomando un‟altra amante acerba e fera.

B. TASSO, Rime, I, 26, v. 8


acerbo e fero
Le tragedie di Lodovico Dolce II 91

F. PETRARCA, Rvf, 152, v. 1


Questa humil fera, un cor di tigre o d‟orsa

F. PETRARCA, Rvf, 283, v. 14


non dirò d‟uom, un cor di tigre o d‟orso.

B. TASSO, Rime, I, 57, v. 10


D‟orsa e di tigre dispietata e ria

S. SPERONI, Canace, I, vv. 122-123


Certo non è tra voi alma si fera
né cor di tigre o d‟orsa

G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, IV, 1, v. 236


Chi non diria ch‟un cor di tigre o d‟orso

L. DOLCE, Marianna, V, v. 3048


Pianto avrebbe una tigre, un serpe, un‟orsa

Anche una cursoria e meramente quantitativa Quellenforschung


come questa (a monte e a valle, per così dire) fa capire quale articolato
spartito di interferenze sia all‟origine della pagina tragica del Dolce,
alla ricerca – come del resto tutti i tragediografi del secolo – di una
difficile dictio in volgare adeguata al genere più nobile della tassono-
mia poetica antica. Fra le altre cose troviamo nove interrogative dirette
contro le sei presenti nell‟analoga sequenza di Seneca. Retoricamente
costruita è la sezione: anafora di Qual ai vv. 1 e 6; strutture chiastiche
ai vv. 4 e 8; spiccate anastrofi ai v. 7 e 21; la consueta pioggia di ditto-
logie (ai vv. 5, 10, 13, 20, 23, 36); polittoti rispettivamente ai vv. 26 e
27-28; l‟allitterazione di [s] ai vv. 11-13, del gruppo [sc] al v. 19, della
[r] ai vv. 30 e 35-36, etc..
Ci confrontiamo fin da subito con uno dei tratti pertinenti della ri-
scrittura tragica dolciana: l‟illimpidimento di tutte le sequenze reputa-
te troppo culte. Nel presentare Issione, topico peccatore avernale, la
preziosa e brachilogica perifrasi di Seneca, Thyestes, 8 («Aut membra
celeri differens cursu rota?»), che non nomina nemmeno il protagoni-
sta del peccato, viene distesamente chiarita per un pubblico meno pre-
parato, nominando esplicitamente Issione e addirittura integrando la
pena con l‟immissione di una icastica tessera prelevata da Bernardo
92 Venezia in coturno

Tasso, non motivata da un punto di vista testuale, ma certo capace di


incrementare il livello complessivo di orrore.78
Al v. 28 assistiamo a una nuova dimostrazione dell‟esigenza di
chiarezza esplicativa che guida il Dolce: il custos carceris diri di
Thyestes, 16, diventa semplicemente e limpidamente Cerbero, con li-
quidazione della dotta perifrasi e cancellazione del successivo riferi-
mento al fiume Acheronte, ritenuto forse troppo peregrino o comun-
que omissibile. Si leggano, per altri aspetti ancora, i vv. 31-34: qui è
un plateale omeoteleuto costruito su tale, prole, crudele e incastonato
tra due rime (ascoso-pietoso): la fonicità è mobilitata con precisa fun-
zione tematica e serve per la mise-en-relief del valore paradigmatico
che la ferocia di Atreo (cui qui Dolce esplicitamente e senza possibili-
tà di errore rinvia) avrà nel corso della fabula. Tali procedimenti rive-
lano senza dubbio una singolare ricerca di musicalità che in qualche
misura sembra anticipare una dictio poetica più propriamente adeguata
alla pastorale e al melodramma (qua è là perfino a quello metastasia-
no), che alla grave e seria tragedia:79 in questa direzione la produzione
tragica del Dolce acquista un notevole interesse storico e culturale e
può essere riguardata come snodo assai significativo nel passaggio
dalla tragedia di imitazione classicistica a quella più convenientemen-
te rubricabile sotto la categoria di Manierismo.80
Questa la risposta di Megera (= Thyestes, 23b-67). Ci permettiamo
di citarla integralmente:

78
Per tutta la tessera dei peccatori avernali (Sisifo, Titio, Issione, Tantalo), Dolce ha uti-
lizzato come filtro la canzone grave Ben era assai, fanciul crudo e spietato di Bernardo Tasso
(= Rime, I, 22). Si vd. anche OVIDIO, Metamorfosi, IV, vv. 455-463 e L. DOLCE, Le Trasfor-
mationi, IX, 47-48.
79
La scioltezza della scrittura coturnata del Dolce è indiscutibile, quali che siano poi i rea-
li valori poetici della stessa. Assolutamente da non trascurare il sicuro influsso della scrittura
tragica speroniana per questi aspetti. Basti dire che solo il modello dell‟accademico patavino
poteva giustificare un uso così largo del settenario e della rima (in sostanziale contrasto sia col
modello trissiniano, sia con quello proposto da Giraldi).
80
Sul Manierismo in generale e/o come categoria letteraria rinvio ancora ai classici G. R.
HOCKE, Il manierismo nella letteratura, Milano, Il Saggiatore, 1965; T. KLANICZAY, La crisi
del Rinascimento e il Manierismo, Roma, Bulzoni, 1973; A. QUONDAM (a c. di), Problemi del
Manierismo, Napoli, Guida Editore, 1975. Sullo specifico teatrale cfr. M. ARIANI, Tra Classi-
cismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 93

MEGERA
Moviti crudel ombra,
Et i crudel palazzi
Empi di furia e di veneno acerbo!
Fa‟ che li duo fratelli,
A te nipoti degni,
Tingan nel sangue lor gli acuti ferri.
L‟ira mortal ogni termine avanzi.
Né la consumi il tempo,
Anzi prenda vigore:
Et al vecchio peccato nasca il nuovo,
E succeda vendetta a la vendetta,
Né senta alcun di loro
Ora dolce e tranquilla.
Siano da‟ Regni lor cacciati e spinti;
E l‟uno e l‟altro se ne vada errando
Per disusati luoghi, ermi e selvaggi.
Fia meschino il possente,
E possente il meschino.
E mentre or regi, ora di ospizio privi,
Non cessaran di far opre a crudeli
Crudeli e scelerate,
In odio di ciascuno
Tanto gli vegga il mondo,
Quanto odieran se stessi:
Il che fia senza fine.
Il fratello il fratello
Scacci, paventi e fugga.
Et il figliuolo il padre.
Gli innocenti fanciul vadan sotterra;
La moglie il suo consorte,
Altra conduca a morte
Arsa d‟incesto amore,
Altra il suo lasci, e segua
Pastor barbaro e vile;
Onde ne nasca poi
Lungo tempo battaglia
In straniere contrade e pellegrine.
Tra lor fia sempre guerra
E sia del sangue uman rossa la terra.
E perché ciò non basta
Mora ogni fede, ogni giustizia umana;
Né da cotanti mali
Si vegga intatto il cielo,
94 Venezia in coturno

Ma nel vago sereno,


Quando è più chiaro il giorno,
Si mostri oscura e spaventosa notte.
Fugga Febo e s‟asconda
Mesto, per non veder quel che potria
Far pietoso l‟inferno.
Crudel ombra, che fai? Tu cessi ancora?
Entra ne‟ fieri alberghi
De‟ tuoi fieri nipoti,
E spargili d‟orror, d‟odio e di morte.
Corona lor de‟ rami
De‟ funeral cupressi;
Splenda nel tu‟ apparir terribil fiamma.
Avanzi l‟opra rea
L‟opera scelerata
Di Progne e di Medea
In numero maggiore.
Ancora indugia, ancora
Il misero Tieste
Fra disusati duoli
A pianger i figliuoli?
La spiumante caldaia ancor non bolle?
Sien divise le membra
In mille parti e mille;
Tinga i paterni fuochi
Il sangue de‟ figliuol fervente e caldo,
E di lor s‟apparecchin le vivande.
Tu, lieto, siedi a mensa,
Né ti dimostra schivo:
Che quel non fia per te nuovo convito,
Che tal ne festi prima
Con le tue proprie mani.
A ciò t‟è dato in libertade un giorno
E a cotal mensa oscura
Si scaccierà la tua perpetua fame.
Rompi il lungo digiuno,
Mira con occhio allegro
Com‟altri bevva il vino
Mescolato con sangue.
Ecco, ch‟ho ritrovato
Cibo che ‟l ventre tuo,
Da fame molestato,
Ora aborrisce e fugge.
Dove, dove ne vai?
Le tragedie di Lodovico Dolce II 95

Dove con tanta fretta audace scampi?


Qual novella paura il cuor t‟ingombra?
Fermati, crudel ombra! (vv. 39-128)

Caratterizzata dalla netta prevalenza del settenario (e perciò molto


più lunga che nell‟originale senecano) e impostata su un preciso mo-
dulo iussivo/esortativo, è dominata da un vero e proprio vocabolario
del terrore/orrore: crudel (ripetuto); furia; veneno acerbo; sangue; a-
cuti ferri; ira mortal; peccato; vendetta a la vendetta; disusati luoghi,
ermi e selvaggi; a crudeli; opre crudeli e scelerate; odio; odieran se
stessi; il fratello scacci, paventi e fugga; innocenti fanciul vadan sot-
terra; morte; guerra; sia del sangue uman rossa la terra; mora ogni
fede; oscura e spaventosa notte; mesto; inferno; crudel ombra; spargi-
li d‟orror, d‟odio e di morte; funeral cupressi; terribil fiamma; opra
rea; opera scelerata; misero Tieste; fra disusati duoli a pianger; sien
divise le membra in mille parti e mille; sangue fervente e caldo; mensa
oscura; vino mescolato con sangue; paura; crudel ombra. Frequenti le
rime, le assonanze, le consonanze (a contatto o a distanza) e densa –
ancorché egemonicamente dominata da figure di adiectio – la figurali-
tà: l‟intervento è avviato e concluso dalla stessa giuntura (a «Moviti
crudel ombra» di v. 39 risponde per così dire epiforicamente e con an-
titesi verbale «Fermati crudel ombra» di v. 128).
Nel dettaglio poi si possono rinvenire: un parallelismo con antitesi
e polittoto (vv. 48-49); varie e sparse dittologie; una epifrasi con tre
aggettivi disusati luoghi, ermi et selvaggi (v. 54);81 redditio e redupli-
catio in perfetta, speculare, costruzione chiastica (vv. 55-56: «Fia me-
schino il possente/E possente il meschino»). E ancora: reduplicatio ai
vv. 58-59 e 95-96; geminatio polittotica con inarcatura e trikolon ver-
bale (vv. 64-65: «Il fratello il fratello/Scacci, paventi e fugga»); altro
trikolon nominale (v. 91: «d‟orror, d‟odio e di morte»); poi una epifra-
si sinonimica al v. 75 (straniere contrade e pellegrine); un chiasmo al
v. 77; ancora geminatio e redditio al v. 99; un‟altra geminatio al v.
125 con ripresa anaforica al verso successivo, e così via.

81
Anche qui si sovrappone una pletora di fonti. La matrice può essere ancora petrarchesca
(Rvf, 176, v. 1: «Per mezz‟i boschi inhospiti e selvaggi»), ma il conio è al postutto ariostesco:
Orlando furioso, I, 33, vv. 1-2: «Fugge tra selve spaventose e scure,/per lochi inabitati ermi e
selvaggi»
96 Venezia in coturno

Il desiderio di perspicuitas del Dolce è confermato anche dalla de-


cisione di trasformare l‟allusivo laurus senecano (Thyestes, 54: «orne-
tur altum columen et lauro fores»), con cui la Furia invita a pavesare il
palazzo di Micene per ingannare Tieste, con il più consueto, funebre,
ma forse meno efficace funeral cupressi di v. 93. Nessuna decezione
dello spettatore/lettore è possibile se si usano i rami dell‟albero simbo-
lo degli spazi cimiteriali: la carica allusiva presente nel testo primo è
disinnescata, a vantaggio della referenziale chiarezza dello sviluppo
drammatico. Complessivamente mantenuta sembra la natura di profe-
tica anticipazione che possiede la rhesis furiale in Seneca.82
I vv. 95-98 («Avanzi l‟opra rea/L‟opera scelerata/Di Progne e di
Medea/In numero maggiore») esplicitano l‟erudita allusione di Thye-
stes, 56-57 («Thracium fiat nefas/Maiore numero»), nominando preci-
samente Progne cui Dolce aggiunge, del tutto indebitamente da un
punto di vista testuale, Medea, paradigma di feritas evidentemente più
noto rispetto a Progne e per questo più spendibile.83 Allusività e anfi-
bolìa tipiche dello stile senecano e dei suoi disegni scenici vengono
tendenzialmente disinnescate nella riscrittura del Dolce: si pensi al
formidabilmente prolettico «epulae instruantur» di Thyestes, 62, che il
tragediografo veneziano distende nei vv. 104-108, esplicitamente e
puntualmente anticipando il nefas che Atreo compirà.
Ma Tantalo non vuole essere poena per i propri discendenti, non in-
tende esercitare la funzione di genius generis parens ìnfero, pertanto
invoca la possibilità di tornare nell‟Averno (ancora ravvisabile una si-
nopia dantesca):

TANTALO TANTALVS
Lasciami ritornar giù ne l‟inferno Ad stagna, et amnes, et recedentes aquas
A cercar l‟acqua indarno e i frutti vaghi, Labrisque ab ipsis arboris plenae fugas,
Onde sempre patisco e fame e sete. Abire in atrum carceris liceat mei
E se par che minor la pena sia Cubile liceat (si parum uideor miser)

82
Cfr. ancora, specialmente per i vv. 71-77, una possibile eco petrarchesca da Rvf, 128,
vv. 17-22 e 49-51: «Voi cui Fortuna à posto in mano il freno/de le belle contrade,/di che nulla
pietà par che vi stringa,/che fan qui tante pellegrine spade?/perché ‟l verde terreno/del barba-
rico sangue si depinga?/[…]/Cesare taccio, che per ogni piaggia/fece l‟erbe sanguigne/di lor
vene».
83
Già in Hecuba, v. 2250, Medea (addirittura al plurale: Medee) era stata convocata dal
Dolce come topica ipostasi del furor bestiale contro natura.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 97

Di quel ch‟io merto, a me si cangi loco. Mutare ripas. Alueo medius tuo
Faccia l‟orrido re ch‟ardente letto Phlegeton relinquar, igneo cinctus freto.
Mi presti Flegetonte e queste membra Quicunque poenas lege fatorum datus
Ardano sempre con cocenti fiamme. Pati iuberis, quisquis exeso iaces
O tu, cui pende sopra ‟l capo il ferro Pauidus sub antro. Quisquis uenturi ti-
Ritenuto con molle e sottil filo, mes
Tu, che del monte la ruina temi, Montis ruinam. Quisquis auidorum feros
E voi, che ‟n mille e ‟n mille pene sete Rictus leonum, et dira furiarum agmina
Giù ne l‟eterno carcere dannati, Implicitus horres, quisquis immissas fa-
Statevi allegri de‟ tormenti vostri, ces
Ch‟a me pena è maggior l‟esser tra vivi, Semiustus abigis, Tantali uocem excipe
E parmi grazia ch‟io ritorni a voi. (vv. Properantis ad uos, credite experto mihi:
129-144) Amate poenas. Quando continget mihi
Effugere superos? (vv. 68-83a)

Inferno, XII, v. 73
Dintorno al fosso vanno a mille a mille

Inferno, XXX, v. 58
O voi che sanz‟alcuna pena siete

Purgatorio, I, v. 41
fuggita avete la pregione etterna?

Come si vede, rispetto a Seneca viene immesso nel generico accen-


no ai dannati d‟Averno – e non sembra fatto di poco momento – un
preciso riferimento a Damocle che non è un paradigmatico peccatore
infernale, non compare in alcun luogo senecano, rinvia semmai a un
noto passo ciceroniano,84 ed è certo figura proverbialmente più nota
(anche ad un pubblico poco colto) rispetto a Tizio, Issione, Sisifo,

84
Cfr. CICERONE, Tusculanae disputationes, V, 21,61-62. Dolce, con la scelta di Damo-
cle, dimostra di aver perfettamente colto la dimensione intertestuale e combinatoria della
scrittura tragica senecana andando oltre la lettera del Thyestes stesso e individuandone anche
alcuni nuclei strutturali profondi e vitali (la mensa come metafora del potere, la sua precarietà,
la violenza del potere assoluto del tiranno, il tragico della condizione umana…). Da notare poi
l‟analoga dinamica che lega, pur in contesti diversissimi, Damocle e Tantalo: come il primo
vuole andarsene dal ricchissimo palazzo di Dionisio dopo avere sperimentato il terrore della
continua minaccia della morte (= spada appesa sul suo capo), così Tantalo non ne vuole sape-
re di indugiare ancora nelle uiuas/uisas domos e preferisce il ritorno nell‟Ade, una volta che
ha compreso il motivo reale (la contaminazione della propria stirpe) della sua temporanea a-
scensione.
98 Venezia in coturno

rappresentando come pars pro toto la precarietà del potere e dell‟esi-


stenza.
Ma guardando meglio è una recentissima e fondamentale auctoritas
dell‟Umanesimo volgare che, contaminando varie fonti mitografiche,
permette a Dolce la mobilitazione di questa tessera:

P. BEMBO, Asolani, I, XXVI


Fingono i poeti, i quali sogliono alcuna volta favoleggiando dir del vero, che
negli oscuri abissi tra le schiere sconsolate de‟ dannati è uno fra gli altri, cui
pende sopra ‟l capo un sasso grossissimo, ritenuto da sottilissimo filo.85

Megera insiste; incalza l‟umbra di Tantalo affinché sparga la sua


pestifera lues sulla domus di Atreo e Tieste: Tantalo, pur protestando
la propria contrarietà, non può sottrarsi. L‟azione contaminante è pun-
tualmente registrata da Megera che a questo punto, anzi, invita Tanta-
lo a ritornare nell‟Averno:86

MEGERA
Or entra, ch‟io ti seguo.
Così l‟un l‟altro s‟odî,
E l‟un l‟altro mai sempre
Sia del suo sangue istesso
Sitibondo et avaro.
Il palazzo ha sentita
La tua venuta grave,
Che subito tremor lo preme e scuote.
Or basti questo: riedi
Ai bassi regni ombrosi
E al tuo solito fonte,
Che tanto peso omai
Non può portar la terra:
Seccansi l‟acque e gli arboscelli e l‟erbe.
(vv . 175-188)87

85
P. BEMBO, Prose della volgar lingua-Gli Asolani-Rime, a c. di C. DIONISOTTI, Torino,
Utet, 1966, p. 360.
86
È contrappasso (già senecano) che il peccatore letteralmente divorato da sete e fame sia
anche siccus e provochi inaridimento della terra sulla quale ha appena sparso il suo funesto
contagio.
87
Sarà da notare in questa microsequenza la lodevole varietas nell‟assetto prosodico dei
versi come specimen di correnti strategie del Dolce: i settenari 177, 179, 180 e 185 hanno ac-
centi di 3^, spostato in avanti rispetto agli altri versi eptasillabici (che hanno più usuali accenti
Le tragedie di Lodovico Dolce II 99

Il primo atto si conclude con un‟altra energica manipolazione del


testo primo senecano: la complessa immagine geografica con cui si
conclude la rhesis di Megera viene liquidata:

MEGERA MEGAERA
Il mar gonfio, d‟intorno Et qui fluctibus
Risuona a molte miglia; Illinc propinquis Isthmos, atque illinc
Tornano i fiumi a le lor proprie fonti; fremit,
Fuggon gli uccelli e gli animai selvaggi Vicina gracili diuidens terra uada,
E ‟l cielo adombra oscuro orrido velo.88 Longe remotos latus exaudit sonos.
Febo sta in dubbio se ‟l camino usato Iam Lerna retrocessit, et Phoronides
Deve seguir o ritornar a dietro. Latuere uena, nec suas profert sacras
E io, ch‟altrui spavento, Alpheus undas, et Cithaeronis iuga
Sento tema e paura. (vv. 189-197) Stant parte nulla cana deposita niue,
Timentque ueterem nobiles Argi sitim.
En ipse Titan dubitat, an iubeat sequi,
Cogatque habenis ire periturum diem.
(vv. 111-21)

La preziosa onomastica latina viene smantellata e vistosa è la sem-


plificazione semantica inferta alla sequenza senecana: unica conces-
sione del Dolce è Febo, che pure illimpidisce il più culto Titan dell‟o-
riginale. L‟atto si conclude con l‟uscita di scena di una Megera impau-
rita lei stessa e pertanto del tutto autonomamente umanizzata rispetto
al personaggio senecano.
Il coro I89 è riscrittura scorciata, alleggerita (e non senza qualche e-
quivoco interpretativo), dell‟omologo canticum senecano:90

di 2^ e 4^). L‟ultimo verso sembra essere modulazione di DANTE, Purgatorio, XXVII, v. 134:
«vedi l‟erbette, i fiori e li arbuscelli». Vd. anche L. ARIOSTO, Orlando furioso, XII, 72, v. 3 e
B. TASSO, Rime, I, 58, v. 31.
88
Si noti il sorprendente prelievo da B. TASSO, Salmi, 9, v. 12, in punta di verso: «oscuro
orrido verno». Si ricorderà di questo verso del padre, mediato dal Dolce, T. TASSO in Gerusa-
lemme liberata, XII, 15, v. 1: «Ma già distendon l‟ombre orrido velo».
89
Con schema [abC.abC.cdeeD.ff] (= Rvf, 125). Locus criticus inemendabile e trasmesso
da tutti e quattro i testimoni a stampa è la penultima stanza: presenta una sirma espansa con
l‟aggiunta dei vv. 248-250, metricamente non pertinenti, e combinatio finale [xX] e non [xx].
90
Saranno sempre da notare, tra i fatti stilistici e retorici che più importano, la cospicua
semplificazione del complesso catalogo geografico dei primi versi (riassunti di fatto efficace-
mente al v. 200); i trikola ai vv. 201-202 e v. 205; le molte dittologie, tutte o quasi di legalità
dantesca e/o petrarchesca (almeno vv. 214, 215, 216, 226, 240, 245, 249, le epifrasi di vv.
231, 241); le moltissime parole-rima di origine dantesca.
100 Venezia in coturno

CORO DANTE, Inferno, III, v. 3


Se alcun celeste Dio per me si va tra la perduta gente
Ama benigno e lieto
Argo, Pisa, Micena e ‟l bel Corinto, M. M. BOIARDO, Amorum libri, I, 33, v.
Rivolga l‟occhio pio 13
Umano e mansueto che un tempo occultamente il cor mi rose
Al suo terren, d‟eterna gloria cinto.
E tenga da lui spinto M. M. BOIARDO, Orlando innamorato, I.
L‟ira, l‟odio e lo sdegno, 2, 26, vv. 1-2
Acciò ch‟a l‟avo antico Forse ch‟io credo tacendo coprire
Peggior empio nemico La fiamma che me rode il core intorno?
Non succeda il nipote al nostro regno;
E peccato maggiore B. TASSO, Rime, I, 76, v. 13
Non gradisca al minore. Sì che non roda il cor l‟acuta lima
Lasci gl‟impeti fieri
La progenie crudele G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, III, vv.
Di Tantalo, dannato al cieco inferno. 69-70
Folli audaci pensieri, Mi rose sempre „l cor, qual roder suole
Pieni di tosco e fele, Tizio il crudo avoltor tra l‟ombre oscure
Cedano al vero amor scettro e governo.
Che assai, s‟io ben discerno, DANTE, Purgatorio, XIII, v. 148
È testimonio il mondo E cheggioti, per quel che tu più brami
E la passata etade
De la sua crudeltade, G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, coro
Dimostrata su in cielo e giù in profondo. II, v. 1 (ed. Cagnacini 1583)
Onde forsi è ben degno Come corrente rio sempre discorre
Che posi a questo segno.
Sassel Mirtilo infido, B. TASSO, Rime, I, 11, v. 3
Che volendo ingannare chiare e lucid‟onde
La bella donna ond‟era auriga e duce,
Gettato giù dal lido, F. PETRARCA, Rvf, 219, vv. 3-4
Diede il suo nome al mare e ‟l mormorar de‟ liquidi cristalli
Lasciando il bel seren di questa luce. giù per lucidi, freschi rivi et snelli.
E a tal Tantalo adduce
Cieca avarizia e ingorda, L. ARIOSTO, Orlando furioso, II, 34, vv.
Che ‟l proprio figlio uccide 1-4
E le membra divide: La fonte discorrea per mezo un prato
Ch‟esser padre si scorda, d‟arbori antiqui e di bell‟ombre adorno,
(Ahi, fatti iniqui e rei!) ch‟i viandanti col mormorio grato
Per farne cibo ai Dei. a ber invita e a far seco soggiorno
Però ne l‟aria oscura,
Tra la perduta gente, B. TASSO, Rime, I, 103, v. 9
U‟ non pervien giamai raggio di sole, puri e lucidi cristalli
Fame noiosa e dura,
Le tragedie di Lodovico Dolce II 101

E fiera sete ardente A. POLIZIANO, Stanze per la giostra, I,


Di lui roder il cuor mai sempre suole. 91 71
E quel che più gli duole Corona un muro d‟or l‟estreme sponde
È che si vede appresso con valle ombrosa di schietti arbuscelli,
Pianta frondosa e viva ove in su‟ rami fra novelle fronde
Non mai di frutti priva: cantano i loro amor‟ soavi augelli.
Ma gustarne però non gli è concesso Sentesi un grato mormorio dell‟onde,
Ch‟ella le sue ricchezze Che fan duo freschi e lucidi ruscelli,
Gli piega e gli avicina. versando dolce con amar liquore,
Ma quando ei la man porge, ove arma l‟oro dei suoi strali Amore.
Et avien che più brami,
Ratto ritorna al ciel coi carchi rami.
Quinci un corrente rio
Di fresche e lucid‟onde,
Che mostra il fondo suo palese e chiaro,
Con grato mormorio
Corre intorno le sponde
Invitandolo a ber soave e caro.
Ei, per temprar l‟amaro
De la sete molesta,
China le labbra al fiume,
Aride per costume;
Ma il lucido cristal sparisce in questa.
A lui la bocca piena
Riman di secca arena. (vv. 198-265)

Come si vede, ricca è la partitura di fonti mobilitate per l‟alle-


stimento di questa pagina (a dominante dantesca, polizianesca, petrar-
chistica). Sembra peraltro potersi scorgere nel Poliziano di una notis-
sima ottava delle Stanze (che subisce però qui un radicale mutamento
di significato, descrivendo lì il regno di Venere a Cipro) il modello
scelto dal Dolce per la compaginazione dell‟ultima stanza e non solo.

91
Va detto subito che Dolce usa una microsequenza lirica che viene abitualmente impie-
gata per parlare della terribilità delle pene d‟amore e della sofferenza cagionata dalla gelosia.
Citiamo, a riscontro, anche due testimoni quattrocenteschi, fra i tanti che sarebbero da allega-
re: LORENZO DE‟ MEDICI, Rime, 90, v. 11: «del cor che, come suo, consuma e rode» e B. CA-
RITEO, Rime, sonetto 134, v. 12 (ed. Pèrcopo): «Quest‟è ‟l pensier che sempre il cor mi rode».
Anche Petrarca indulge all‟uso di analoga tessera: vd. Rvf, 103, v. 7; 356, v. 8; 360, vv. 69-70.
102 Venezia in coturno

2. Il secondo atto è integralmente occupato, come noto, dal con-


fronto tra Atreo e un suo Consigliere di fiducia (= servus/satelles se-
necano) sulle modalità di esecuzione della vendetta contro il fratello e,
in generale, sulla natura del potere e sulle sue dinamiche. Atreo si au-
topresenta energicamente ma come ossessionato da un furor ultionis
nei confronti del fratello perché afflitto da una triplice debolezza: a)
come marito (= tradito dalla moglie adultera Erope); b) come re (=
privato un tempo ingiustamente del potere che ora ha recuperato); c)
come padre (= dubbioso della propria paternità e timoroso che Aga-
mennone e Menelao siano figli del fratello Tieste):

ATREO ATREVS
Ben è l‟animo tuo timido e vile Ignaue, iners, eneruis (et quod maxi-
Che dopo tante e così gravi offese mum
Del tuo iniquo fratel (se pur fratello Probrum tyranno rebus in summis reor),
Chiamar si dee chi t‟è nemico espresso) Inulte, post tot scelera, post fratris do-
Tra feminil lamenti indegni e vani los.
L‟ira consumi e ‟l giusto sdegno involvi. Fasque omne ruptum, questibus uanis
E quel, di cui non è biasmo maggiore agis
A ciascun ch‟ha d‟altrui corona e scettro, Iras, et Argos fremere iam totum tuis
Ancor puoi dimorar senza vendetta. Debebat armis, omnis et geminum mare
Ah, non dovrebbe Argo e Micena omai Innare classis, iam tuis flambi agros
Per tutto risonar d‟arme e di genti? Lucere, et urbes decuit, ac strictum un-
Non dovrebbe oggimai l‟un mare e l‟altro dique
Esser tutto ripien d‟armati legni? Micare ferrum, tota sub nostro sonet
Già di fiamme devrian splender d‟intorno Argolico tellus equite. non siluae tegant
Gli aperti campi e le città murate, Hostem, nec altis montium structae
E fulminar per ogni parte il ferro. iugis
Or dunque renda in spaventoso suono Arces relictis bellicum totus canat
Tutto il greco terren strepito d‟arme; Populus Mycenis, quisquis inuisum ca-
Et al rumor de‟ corni e al suon di trombe put
Ogni buon cavallier s‟armi a battaglia. Tegit, ac tuetur, clade funesta occidat.
E qual nel mondo fia principe o rege Haec ipsa pollens inclyti Pelopis domus
Ch‟osi occultar il mio nemico fiero Ruat uel in me, dummodo in fratre ruat.
Senta l‟alto poter de la mia mano. Age anime, fac quod nulla posteritas
E se ‟l giusto desio mi fia impedito probet,
Da fortuna o dal ciel, caggia e ruini Sed nulla taceat. aliquod audendum est
L‟alta casa real sovra il mio capo, nefas
Pur che con la mia morte parimente Atrox, cruentum, tale quod frater meus
L‟odiato mio fratel spenga di vita. Suum esse malit. scelera non ulcisceris,
Ma ciò poco sarebbe a tanto fallo Nisi uincis, et quod esse tam saeuum
E d‟altri, e non di me, bassa vendetta. potest
Le tragedie di Lodovico Dolce II 103

Facciano queste man cosa sì nuova Quod superet illum? nunquid abiectus
Che nulla etade la commende o lodi, iacet?
Né secolo futur la taccia mai. Nunquid secundis patitur in rebus mod-
Opra bisogna ordir cruda e spietata, um?
Animo vile, e sanguinosa, e fiera Fessis quietem? Noui ego ingenium viri
Tanto, ch‟al mio fratel dolga esser nato; Indocile, flecti non potest, frangi potest.
Che, se di crudeltà no ‟l lascio a dietro, Proinde antequam se firmet, aut uires
Già la vendetta mia non fia vendetta. paret,
Ma qual fia sì crudel che vinca lui? Petatur ultro, ne quiescentem petat.
Pensi che per vedersi esule e privo Aut perdet, aut peribit, in medio est sce-
Di corona e di scettro, ch‟ei non merta, lus
Abbia diposto giù l‟animo altero? Positum occupanti. (vv. 176-204a)
Ne le felicità non seppe mai
Modo trovar, e la Fortuna avversa
Non pò acquetar quell‟orgogliosa mente.
Ei non si pò piegar, ma romper puossi,
Come verga talor nodosa e secca.
Però, pria che si fermi o prenda forza,
Buon consiglio mi par d‟offender lui,
Avanti che ‟l crudel me stesso offenda,
Benché a l‟offese sue non resta loco.
Senta egli il mio furor! La somma è tale
Ch‟ei perir deve od io per le sue mani.
L‟opera scelerata è posta in mezzo:
E sarà di chi pria l‟occupa e prende. (vv.
266-320)

Atreo non dispone di strumenti interpretativi razionali che gli con-


sentano di comprendere che le offese di Tieste sono irrevocabilmente
collocate nel passato e che il minaccioso e torvo fratello – ora in esilio
– ha compiuto un doloroso percorso di crescita interiore e di purifica-
zione che lo ha trasformato in una sorta di sapiens stoico.92 Ecceziona-
le per più rispetti è la valorizzazione della fonicità, con una colossale
allitterazione della [r] e della [s] e con assonanze (genti-legni, intorno-
suono) e consonanze varie, il tutto con la precisa intenzione di far sen-
tire l‟orrore della guerra ai vv. 275-85, nei quali è avvertibile una tra-
ma di sapore ariostesco:

92
E a nulla servirà il fatto che Tieste si presenti con vesti lacere e sporchi capelli, in con-
dizioni spinte di mendicità: Atreo continua ad avvertirlo come una minaccia e perciò decide di
attivare i meccanismi della sua vendetta che è, si badi bene, largamente preventiva (oltre che
punitiva).
104 Venezia in coturno

L. ARIOSTO, Orlando furioso, XX, 89, v. 8


Ognun fuggia lo spaventoso suono

L. ARIOSTO, Orlando furioso, XVIII, 112, v. 5


fra strepito d‟arme e di cavalli

L. ARIOSTO, Orlando furioso, XX, 83, v. 1


Di trombe, di tambur, di suon de‟ corni

Si noti poi la plastica deformazione cui Dolce sottopone il testo se-


necano al v. 296 («Facciano queste man cosa sì nuova»), conferendo
all‟originale una concretezza che non possiede (= Thyestes, 191: «A-
ge, anime fac quod nulla posteritas probet») e anticipando il riferimen-
to alle mani che Atreo farà in Seneca qualche verso dopo (= Thyestes,
243: «Ad haec manus exempla poscuntur meae»).
Il dialogo fra Atreo e il Consigliere è un distillato di scienza della
politica secondo le più scaltrite chiavi di lettura che Machiavelli aveva
fornito alla disciplina con il suo Principe: moltissime le sententiae
(debitamente rilevate – secondo abito tipografico cinquecentesco –
nell‟edizione giuntina) che contrappuntano la scena fortemente agoni-
stica.93 Il querulo, debole e inaccoglibile tentativo del satelles di con-
trastare, secondo una logica di humanitas e buon senso, la cinica in-
terpretazione del potere compiuta da Atreo rivela, nel suo essere del
tutto velleitaria (il servo alla fine coopera ai progetti mostruosi del suo
padrone), l‟inesorabilità della ragion di stato, qui totalmente risolvibile
nella volontà del tiranno.94
E proseguendo:

ATREO ATREVS
Se pietà s‟annida Excede pietas, si modo in nostra domo
Dentro il palazzo mio, subito sgombri. Unquam fuisti. dira furiarum cohors,
Vengan le infernal Furie ad abitarvi, Discorsque Erynnis ueniant, et geminas

93
Una scena strutturalmente e attanzialmente molto simile si trova in Orbecche, III, 2,
dove Malecche cerca di dissuadere Sulmone dal compiere vendetta contro la figlia.
94
Un discreto repertorio di figurae dell‟adiectio e amplificatio, del quale è financo oziosa
una compiuta registrazione, caratterizza anche questa sequenza d‟atto. A puro titolo informa-
tivo, registriamo almeno la presenza delle consuete dittologie, sinonimiche e non (vd. vv. 266,
270, 290, 297, 299, 300, 312, 320, 321, 352), qualche polittoto, qua e là dei chiasmi, una dia-
fora al v. 303 (su vendetta), anafore, le solite geminationes e redditiones.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 105

Con le teste crinite di serpenti; faces


Ed entri il lor venen dentro il mio petto. Megaera quatiens. nam satis magno
Poco è, a quel che debb‟io, furor uma- meum
no: Ardet furore pectus. impleri iuuat
Spirate il vostro in me terribil mostri, Maiore monstro. (vv. 249-254a)
Tanto ch‟a la vendetta il cuor s‟inaspri
Che faccia di pietà fuggir il sole. (vv.
398b-406)

Singolare esempio di amplificatio ad alto gradiente letterario è il v.


400 in cui Dolce cita platealmente un autore a lui molto caro per in-
crementare il terrore della scena:95

L. ARIOSTO, Orlando furioso, XXXII, 17, v. 6


quelle Furie crinite di serpenti

Per il resto, con due iuncturae iperonimiche (infernal Furie – dan-


tesca – e terribil mostri) Dolce riscrive il testo primo senecano, ancora
una volta semmai giocando sul registro delle suggestioni foniche:

SPiRaTe il voSTRo in me TeRRibil moSTRi


TanTo ch‟a la vendeTTa il cuoR S‟inaSPRi

Vistoso qui l‟effetto allitterante, con in più l‟uso di una tipica paro-
la aspra in punta di verso,96 nel tentativo di conseguire qualche tratto
di gravitas.
Sempre procedendo per specimina, mi pare di non scontata effica-
cia il v. 411, ricostruito sull‟originale v. 257 mediante la frantumazio-
ne ad antilabài dell‟endecasillabo, con aggiunta di una rima interna e
ripetizione del gruppo [-co-] a risarcire ancora sul versante dei signifi-
canti ciò che si perde su quello dei significati, o meglio, a riprodurre
in volgare alcuni procedimenti già senecani:

CONSIGLIERE SERVUS
Non basta il ferro? Ferrum?

95
Vd. anche OVIDIO, Metamorphoses, IV, vv. 449-456 cui assai significativamente segue
l‟inserimento della prima topica tessera dei peccatori avernali (Tizio, Tantalo, Sisifo, Issione,
le Danaidi). Vd. anche L. DOLCE, Le Trasformationi, IX, 46.
96
Cfr. almeno F. PETRARCA, Rvf, 70, vv. 29-30 e 206, v. 30.
106 Venezia in coturno

ATREO ATREVS
È poco. Parum est.
CONSIGLIERE SERVUS
Il foco? Quid ignis?
ATREO ATREVS
Ancora. Etiam nunc pa-
[rum est.

A dimostrare ancora una non comune perizia tecnica nella realizza-


zione della pagina tragica e una cospicua complessità di stratificazione
si vedano i seguenti versi:

ATREO ATREVS
Sento nel petto un agghiacciante vermo Fateor: tumultus pectora attonitus qua-
Che d‟ogn‟intorno lo consuma e rode. tit,
Sento, sento tirarmi, e non so dove; Penitusque uoluit. rapior, et quo nescio,
E pur sento tirarmi. Aspri mugiti Sed rapior, imo mugit e fundo solum.
Rende la terra e l‟alto mio palazzo Tonat dies serenus, ac totis domus
Trema, come ruina il tutto mova. Vt fracta tectis crepuit, et moti lares
Sarà, sarà quel che temete, o Dei! Vertere uultum, fiat hoc, fiat nefas
(vv. 416-422) Quod dii timetis. (vv. 260-266a)

Qui il tumultus attonitus di Seneca, Thyestes, 26097 diventa espres-


sivisticamente agghiacciante vermo, con recupero di una precisa tes-
sera dantesca (e certo già parzialmente biblica), risemantizzata in am-
bito lirico e tragico ad indicare generalmente le pene d‟amore e spesso
posta in relazione al motivo del rodimento del cuore qui già preceden-
temente considerato.
Motivo la cui fortuna, anche dopo Dolce, è indiscutibile:

DANTE, Inferno, VI, v. 22


Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo98

97
Su cui cfr. P. PASIANI, Attonitus nelle tragedie di Seneca, in A. TRAINA (a c. di), Sene-
ca. Letture critiche, Milano, Mursia, 1976, pp. 194-207.
98
Vd. Inferno, XXIX, v. 61: «che li animali, infino al picciol vermo». Non si dimentichi
che Lucifero viene definito vermo reo (Inferno, XXXIV, v. 108). Inoltre per una più comples-
sa immagine vd. Purgatorio, X, vv. 121-129. Già ai tempi di Dante questa desinenza in [-o]
poteva essere riguardata come tratto morfologico arcaizzante: il preciso recupero del Dolce è
certamente un indizio non trascurabile dell‟esigenza di dare alla pagina tragica un colore di
gravitas dantesca, l‟unica autenticamente disponibile in ambito romanzo.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 107

M. M. BOIARDO, Amorum libri, III, 127, v. 7


Altri che voi da l‟amoroso vermo

F. PETRARCA, Rvf, 304, vv. 1-2


Mentre che ‟l cor dagli amorosi vermi
fu consumato, e ‟n fiamma amorosa arse99

L. ALAMANNI, Antigone, vv. 1229-1230


vivendo il cor gli rode
un crudel verme ch‟ogni pace annulla.

B. TASSO, Rime, I, 66, vv. 2-3


Crudel Amor, se velenosi vermi
Rodonlo ognor

L. DOLCE, Marianna, V, v. 2932


Oh, come un freddo verme entro mi rode

G. DELLA CASA, Rime, XVIII, vv. 9-10


O fera voglia, che ne rodi e pasci
e suggi il cor, quasi affamato verme

P. TORELLI, Merope, vv. 1059-1060


un crudo verme
roso m‟avrebbe il cor

Sono versi che ancor bene segnalano il modus operandi emulativo


e agonistico del Dolce. A conferire corpo ai versi le consuete ripeti-
zioni (con due geminationes); un‟assonanza e parziale consonanza ro-
de-dove; una certa densità fonosimbolica complessiva (con parole te-
matiche contrassegnate dalla presenza della [r] allitterante: vermo, ro-
de, tirarmi, aspri, ruina…) e sul piano della sintassi le due notevoli
inarcature consecutive (vv. 419-421).
I versi che seguono, in cui Atreo risponde alla richiesta del Consi-
gliere (v. 423: «Che finalmente è quel che fare intendi?»), ce lo pro-
pongono in preda a una sorta di allucinatorio rapimento:

99
Su cui cfr. il giudizio di P. BEMBO, Prose della volgar lingua, II, 17, p. 168: «E per dire
ancora di questo medesimo acquisto di gravità più innanzi, dico che come che egli [Petrarca
scil.] adoperi e nelle prose e nelle altre parti del verso, pure egli molto più adopera e può nelle
rime; le quali maravigliosa gravità accrescono al poema, quando hanno la prima sillaba di più
consonanti ripiena, come hanno in questi versi: Mentre che ‟l cor dagli amorosi vermi».
108 Venezia in coturno

ATREO
Io non so ben ancor. Ma guardo e cerco
Sorte di nuovo mal tanta e sì fiera
Che tal non fero Antropofagi o Sciti.
Le mense di Tereo furon crudeli,
Confesso; e questo è già peccato antico.
Brama lo sdegno mio pena maggiore,
Cui simile giamai passata etade
Vista non abbia, né futura ascolti.
Insegnami tu, padre, e meco insieme
Movi la mano a l‟onorata impresa
E l‟animosa tua mente m‟inspiri.
Or qual esser può al fin cosa più grave
Che far ch‟ei mangi i suoi figliuoli istessi?
Questo fia assai, né si può gir più avanti.
Ponga dunque il crudel, non s‟accorgendo,
Ponga nel ventre suo le proprie carni.
Ma perché tanto tempo ingiusto e vile
Ho diferito far cosa sì degna? (vv. 424-441)100

Il dialogo fra Atreo e il sottoposto si conclude con il tiranno che ri-


vela la sua volontà di coinvolgere i figli nel progetto, nonostante le
proteste del Consigliere il quale, del resto, svela la sua cattiva co-
scienza con la battuta finale d‟atto: «Non bisogna ch‟alcun me ne ri-
cordi,/Ch‟in mezzo al petto mio fede e paura,/Ma più fede, il terrà ri-
posto e chiuso» (vv. 527-29).101
Il secondo coro, che istituisce tematicamente un rapporto dialettico
sia con l‟episodio che precede, sia con quello che segue, è costituito

100
I vv. 437-38 paiono un poco perissologici: ribadiscono quanto detto nei tre precedenti
versi e pongono la questione (superflua) dell‟incoscienza di Tieste rispetto al nefas di cui è, a
tutti gli effetti, principale strumento esecutivo. Tra gli altri elementi degni di nota vd. l‟uso
della coppia Antropofagi o Sciti (v. 426), a connotare crudeltà smisurata, prelevata essenzial-
mente dal perimetro romanzesco: cfr. L. ARIOSTO, Orlando furioso, XXXVI, 8-9. Altro dato
interessante è la nuova decodificazione esplicativa di Seneca che parla di infandas do-
mus/Odrysia mensas (vv. 272-273) e cita poi la Daulis (la regione nella quale si è svolta la
cupa vicenda di Progne, Iti, Filomela e Tereo, con risvolti cannibaleschi): Dolce ritiene oppor-
tuno ridurre questi esornativi e preziosi riferimenti al semplice mense di Tereo di v. 427 che
ha il pregio della sintetica efficacia.
101
Freudianamente saremmo tentati di dire che questo è un lapsus, del tutto superflua es-
sendo la precisazione fatta dal Consigliere/servus che, semmai, svela come – in un contesto ti-
rannico – sia solo la paura a determinare le azioni dei collaboratori del principe.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 109

da otto coblas unissonans di sette versi ciascuna,102 modellato su Rvf,


29 (anche se meno complesso),103 più un congedo con schema [aBa-
cdefghg]:

CORO GLICONICVM CARMEN CHORUS


Finalmente la casa alta e reale Tandem regia nobilis,
Di Tieste e d‟Atreo, Antiqui genus Inachi
Illustre seme de l‟eterno Giove, Fratrum composuit minas.
Ora ponendo giù l‟odio e lo sdegno, Quis vos exagitat furor,
Venti contrari a la tranquilla vita, Alternum dare sanguinem,
Prende la pace, e la concordia amica Et sceptrum scelere aggredi?
Abbraccia i duoi fratelli. Nescitis cupidi arcium.
Regnum quo iaceat loco
A quanto v‟accendeva, orrido male, Regem non faciunt opes,
Desir spietato e reo Non vestis Tyriae color,
Di nuove offese e di vendette nuove, Non frontis nota regia,
Mentre l‟un l‟altro de l‟antico regno Non auro nitidae trabes,
Tenta cacciar e nel suo sangue invita, Rex est qui posuit metus,
Scelerato, la man fiera e impudica Et diri mala pectoris,
Chiamando or questi, or quelli! Quem non ambitio impotens,
Et nunquam stabilis fauor
Cercate ascender voi, gente mortale, Vulgi praecipitis mouet.
Quant‟alto ir si poteo? Non quidquid fodit occidens,
V‟inganna il bello, e non sapete dove Aut unda Tagus aurea
È il regnar dolce, e riposato, e degno. Claro deuehit alueo.
Re non face ricchezza alta e infinita, Non quidquid Libycis terit
Aurate vesti, o gentil prole antica, Feruens area messibus.
Ma i buon costumi e belli. Quem non concutiet cadens
Obliqui uia fulminis.
Re fia cui tema e invidia non assale Non Eurus rapiens mare,
Di ciò ch‟altri mai feo. Aut saeuo rapidus freto
Del suo s‟acqueta; né desio lo move Ventosi tumor Adriae,
D‟unqua poggiar a più elevato segno. Quem non lancea militis,
Né si turba giamai, quando è fuggita Non strictus domuit Calybs,
Lieta fortuna che, con gran fatica, Qui tuto positus loco,
Si piglia nei capelli. Infra se uidet omnia,
Occurritque suo libens
Nel petto di costui non puote o vale Fato, nec queritur mori.
Quanto d‟oro ascondeo Reges conueniant licet,
Il ricco Tago, o quanto giace altrove Qui sparsos agitant Dachas,

102
Con schema [AbCDEFg].
103
Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi ha più propriamente schema [AbC(d3)EF(g5)Hi].
110 Venezia in coturno

Di perle e gemme, ch‟a l‟umano ingegno Qui Rubri uada litoris?


Tengon la fede e la bontà sbandita: Et gemmis mare lucidum
Che cade, come a la stagion nemica, Late sanguineum tenent,
Le fronde agli arboscelli. Aut qui Caspia fortibus
Recludunt iuga Sarmatis.
Questi chiamato dal suo dì fatale, Certet Danubium licet
Lieto gli occhi chiudeo: Audet qui pedes ingredi,
Senza lagrima altrui, che finta piove Et quocunque loco iacent
Sopra il tiran, ch‟era di vita indegno, Seres uellere nobiles.
U‟ la finta pietà va colorita, Mens regnum bona possidet.
E tal poi manca, quale in piaggia aprica Nil ullis opus est equis,
Erbetta e fior novelli. Nil armis, et inertibus
Telis, quae procul ingerit
Brami pur, chi si vuol, farsi immorta- Parthus, cum simulat fugas.
le Admotis nihil est opus
Come chi vinse Anteo; Urbes sternere machinis,
Over si ponga a più lodate prove, Longe saxa rotanti bus.
Acciò paia di lui ciascun men degno. Rex est qui metuit nihil,
Certo, vita più dolce e più gradita Hoc regnum sibi quisque dat.
Menan di lui, che tanto s‟affatica, Stet quicunque uolet potens
E le fere, e gli augelli. Aulae culmine lubrico.
Me dulcis saturet quies.
Me piccol cibo a piccol stato uguale Obscuro positus loco,
E i frutti d‟Imeneo Leni perfruar ocio.
Rendon pago e contento; ov‟io mi trove Nullis nota Quiritibus
Godo pace e riposo: e non mi sdegno Aetas per tacitum fluat.
S‟alcuno mi schernisce o se m‟addita. Sic cum transierint mei
Meco i miei figli e la moglier pudica Nullo cum strepitu dies,
Vivano, et io con elli. Plebeius moriar senex.
Illi mors grauis incubat,
E quando il giorno fia Qui notus nimis omnibus,
Ch‟io renda questo corpo, ond‟egli è na- Ignotus moritur sibi. (vv. 336-403)
to,
Sarà la morte mia,
Quantunque oscura e umile,
Riposata e tranquilla.
A quelli è morir grave
Che troppo noti al mondo
Ne‟ regni lor concessi
Muoion tra gemme et oro
Vili e ignoti a se stessi. (vv. 530-95)
Le tragedie di Lodovico Dolce II 111

Una volta di più energica è la sfrondatura del modello (certo uno


dei più bei cori senecani, se non il più bello),104 in particolare per
quanto concerne i molti preziosismi geografici ed etnografici (genus
Inachi, uestis Tyriae color, Tagus, Libycis messibus, Eurus, tumor A-
driae, Dachas, Caspia, Sarmatis, Danubium, Seres, Parthus, l‟anacro-
nistico – e perciò tanto più significativo – Quiritibus):105 resta immu-
tata la sostanza quasi cinica della riflessione filosofica senecana; la
cospicua valorizzazione (ideologicamente non neutra) dell‟autàrkeia,
secondo coordinate da ceto medio (vd. l‟ultima cobla), perfettamente
adeguate alle suggestioni della mediocritas oraziana; l‟esaltazione del-
l‟interiorità che, sola, concede autentico possesso di sé.

3. Il terzo atto, che è articolazione scenica della dialettica fra nuclei


tematici forti appena proposti nel coro II (mens bona vs furor regni,
privatezza vs potere, povertà vs ricchezza, campagna vs città…) ed è
quello che accelera lo sviluppo della fabula, è avviato dall‟arrivo ad
Argo di Tieste, il quale discuterà – nel corso della prima scena – col
figlio maggiore Filistene, eloquente pars pro toto dei figli tiestei e in-
genuo e sciagurato corifeo delle ragioni del potere:

TIESTE
Veggo de la mia patria amata e cara
I da me tanto desiati tetti.
Io veggo gli edifici alti e superbi,
Veggo le pompe e le ricchezze d‟Argo,

104
«Forse il più significativo non soltanto nell‟economia del Thyestes ma dell‟intero cor-
pus delle tragedie senecane», lo definisce R. MARINO, Osservazioni sul coro in Seneca tragi-
co: il Thyestes, in «Quaderni di Cultura e Tradizione Classica», X, 1992, p. 224Vd. R.
DEGL‟INNOCENTI PIERINI, „Aurea mediocritas‟. La morale oraziana nei cori delle tragedie di
Seneca, in «Quaderni di Cultura e Tradizione Classica», X, 1992, pp. 155-169 che mostra
quanto dietro a questo coro si percepiscano suggestioni oraziane, specie da Carmina, II.10.
105
L‟unico nome conservato è quello del fiume Tago. Sorprendente è poi la scelta di in-
trodurre nella settima stanza il riferimento ad Anteo, gigante figlio di Poseidone e Gea, ucciso
da Eracle, che è probabilmente prodotto di una qualche pressione interdiscorsiva e interna al
corpus delle tragedie senecane (vd. Hercules, 482 ss. e il secondo coro e Hercules Oetaeus,
24, 1788, 1899) e del personaggio dantesco (vd. Inferno, XXXI, 100 sgg.). Vd. inoltre OVI-
DIO, Metamorphoses, IX, vv. 183-184. Il secondo coro del Theystes ha molti elementi comuni
con il primo di Hercules furens, specialmente 159 ss., e con il primo di Agamemnon, ad indi-
care il valore tematico per così dire assoluto che queste questioni possiedono nell‟animus di
Seneca.
112 Venezia in coturno

A poveri banditi ampio ristoro.


Veggo il natio terren e i patrii Dei
E dei Ciclopi, omai, le sacre torri,
Dal cui raro ornamento è superato
Ogni sudor de la fatica umana.
Veggo la meta, ove cotante volte
Portai la palma col veloce carro.
Già parmi di veder il popol tutto
Venirmi incontra e dimostrar ciascuno
Nuova allegrezza del ritorno mio:
Forse, che meglio fia ch‟io mi ritorni
Ad abitar le più lontane selve,
E menar vita a l‟aspre fere uguale.
Né mi deve ritrar da tal pensiero
D‟ornamento regal falso splendore,
Che abbaglia gli occhi altrui sì che non vede.
E se al gran don, che mi si porge, io guardo,
Ben debbo anco guardar a chi lo porge.
Questo ch‟a sé mi chiama è ‟l mio fratello:
Ma questo è quello ch‟ho cotanto offeso.
Dunque meglio sarà ch‟a dietro io torni
Tra monti e boschi e tra quei luoghi istessi
Che paiono a ciascun aspri e selvaggi.
Pur ora io mi vivea securo e lieto;
Or vo contra a l‟affanno e a la paura.
Che far debb‟io? Il pie‟ va inanzi e segue,
Ma l‟animo si volge e a dietro torna. (vv. 596-626)106

Per un momento Tieste, che con bella carrellata cinematografica


vede i più insigni monumenti della propria recuperata patria (da rile-
vare l‟anafora di Veggo e l‟insistenza sul vedere e guardare anche ol-
tre: vv. 615 ss.), pensa di aver riacquisito pienamente diritti, titoli, glo-
ria, potere; ma è, appunto, un attimo. Subito si rende conto della follia
di questo ritorno, Atreo – e non un normale fratello – essendo colui
che lo ha favorito.107

106
Sempre abbastanza ricco lo spartito retorico: oltre alle molte dittologie, registriamo al-
meno il chiasmo al v. 614, il polittoto incrociato ai vv. 616-617 (porge~guardo), l‟eloquente
diafora di questo ai vv. 618-619 (con aggiunta del deittico quello), la rima al mezzo fratello-
quello ai vv. 618-619, e così via.
107
Si noti come a caratterizzare i luoghi nei quali Tieste vuol far ritorno sia mobilitata an-
cora una dittologia platealmente dantesca: aspri e selvaggi, da Inferno, I, v. 5.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 113

Certo non si può negare che vi sia qualche ambiguità nel personag-
gio:108 non del tutto risolto sembrerebbe il conflitto dialettico fra il
Tieste dolosus, adultero assetato di potere di un tempo, e il nuovo Tie-
ste, sapiens cinico-stoico. D‟altro canto la ratio, grazie alla quale è
stato possibile tollerare l‟esilio e liquidare le allettanti illecebre del po-
tere, si riappropria subito dell‟animus del personaggio, e non procra-
stinabile sembra essere per Tieste il ritorno alla vita nemorale, più au-
tentica e sicura: «Torna a dietro Tieste; a dietro torna!/Né ti fidar nel
don incerto e finto/Del tuo fratello e ti pentisca poi,/Allor che poco il
pentimento giova./Né povertade o esilio ti spaventi;/Gioviti d‟esser
misero e la vita/Apprezza, per la vita di costoro» (vv. 630-636).109
Nel rifacimento del Dolce, ciò che contraddistingue Filistene è il
fatto di essere – al di là della lettera senecana – ossessionato dal re-
gnum:

V‟ha reso il nostro zio, di voi fratello,


La pace e ‟l regno, e vi ritorna a voi.
Perché da tanto ben movete il piede ?
Apprendete la grazia ch‟ei vi porge. (vv. 641-44)

Vincete, padre mio, quanto impedisce


Il felice camin che vi conduce
Al dolce regno de la vostra gioia. (vv. 660-62)

È pur felice cosa l‟esser rege. (v. 666)

Se ‟l regnar non v‟è grato per voi stesso,


Dev‟esser per li figli, a cui, morendo,

108
Perfettamente testimoniata dai successivi vv. 654-59: «Vorrei gir e non gir: e d‟una
parte,/Sì come vedi, il tardo pie‟ si move;/Da l‟altra il cuor contrario mi ritira./Così nave talor
diversi venti/Volgono a questa, ora a quell‟altra parte,/Contra la volontà del suo nocchiero».
Per la tessera, topicissima, della nave vd. in primis SENECA, Thyestes, vv. 438-439: «Sic con-
citatam remige, et uento ratem/Aestus resurgens remige, et uelo fert», ma certo ancora deter-
minante è il crivello romanzo (dantesco e petrarchesco): Inferno, V, v. 30: «che mugghia co-
me fa mar per tempesta/se da contrari venti è combattuto»; Rvf, 26, v. 2: «nave da l‟onde
combattuta e vinta»; 132, vv. 10-11: «Fra sì contrari venti in frale barca/mi trovo in alto mar
senza governo». Il motivo della nave come nucleo metaforico variamente declinato ha una
nobilissima tradizione classica (vd. almeno ALCEO, 64 D e ORAZIO, Carmina, I, 14 e II, 10) ed
ha una significativa consistenza anche nel corpus – tragico e no – di Seneca (cfr. Medea, vv.
939-42 e Agamemnon, vv. 138-140).
109
Corposa la redditio a specchio in apertura.
114 Venezia in coturno

[…]
Lasciar potrete il regno. (vv. 668-72a)

Se ci concede Dio l‟aver impero,


Non si dee rifiutar cotanto dono. (vv. 706-7)

Apice di questa esplicita presa di posizione a favore del potere è il


v. 666, che suona come colossale smentita di quanto il coro II ha so-
stenuto in precedenza. Analogie attanziali sono ravvisabili fra l‟atto
secondo e questa prima scena: in entrambi (quasi specularmente) vi è
un confronto agonistico fra due posizioni, che si conclude con la vitto-
ria delle irrazionali ragioni del furor,110 soprattutto per oggettivo ce-
dimento di coloro che sostengono, un po‟ debolmente (= Consigliere e
Tieste rispettivamente), gli argomenti contrari ad esso.111
Tieste teme, oscuramente e profeticamente, per la sorte dei figli:

Tu cerchi la cagion, che veramente


Io medesmo non so. Se non ch‟io temo
Di te, figliuolo, e di quest‟altri insieme
Sì piccoli fanciulli, a te fratelli.
Che, come sai, tu non fornisci ancora
I quindici anni e questi i nove e i dieci:
E senza me, sareste senza voi,
E voi vivendo, la mia vita vive. (vv. 646-53)112

Si noterà la natura di piuttosto spiccata expolitio che hanno i vv.


648 ss. e la conclusione accesa da un manieristico, concettoso lu-
dus.113
Alle sollecitazioni di Filistene, il padre risponde con una articolata
riflessione, comprovata dalla sua personale esperienza, sulle gravose

110
Anche Tieste, pur deresponsabilizzandosi, alla fine cede: «Io vi seguo figliuoli, e non
vi guido» (v. 733).
111
Così di fatto autorizzando a vederli come falsi oppositori.
112
Ecco un esempio di anticipazione esplicitante che toglie allusività e ambiguità al testo
primo: a quest‟altezza non si giustifica il riferimento alla paura per i figli, di cui il Tieste se-
necano parlerà più avanti. Questa è pertanto una precisa scelta del Dolce.
113
Retoricamente strutturatissimo: i due versi sono isocolici e presentano anafora di sen-
za, derivatio e polittoto paronomastico vivendo-vivere-vita, reduplicatio del pronome voi,
marcata allitterazione di [v].
Le tragedie di Lodovico Dolce II 115

curae che ineriscono all‟esercizio del potere e che suonano come risil-
labazione delle gnomiche argomentazioni del II coro:114

TIESTE
Credimi, figliuol mio, ch‟indegnamente
S‟apprezzano gli scettri e le corone,
E de le cose dure, umili e basse
Ci percuote e ci tien vana paura.
Mentre io sedea di questa altezza in cima,
Un sol giorno non fui senza sospetto.
Sempre temei che traditrice mano
Non mi togliesse in mezzo a‟ lieti giorni.
O quanto è sommo ben lasciar ch‟ognuno
A sua voglia si viva e umile in terra
Prender, lieto e tranquil, securo cibo.
Spesso a le regal mense, alte e sublimi,
Si beve dentro a l‟oro atro veneno.
Non teme picciol casa alta ruina.
E se pur non avrò di seta e d‟ostro
Ricchi e superbi letti, e ch‟a la sponda,
Mentre io chiudo le luci, altrui vegghiando
Mi faccia guardia a la paurosa vita;
S‟io non avrò di bianco avorio il tetto,
Le colonne di marmo e i travi d‟oro,
E mille servitor fallaci e ‟nfidi;
E ch‟ogni cosa, a chi s‟appressa intorno,
Spiri soave odor d‟Indi e Sabei,
Almen l‟animo avrò di tema sgombro.
Agevolmente si difende e serba
Picciolo albergo senza spada e lancia.
E sempre volentier benigno stanza
Dentro le basse case alto riposo.
Ed è gran regno a poter senza regno
Viver, tutti i suoi dì, vita tranquilla. (vv. 676-705)115

114
Come varie spie lessicali indicano inequivocabilmente.
115
I vari motivi qui proposti sono frequenti nel corpus tragico senecano: vd. almeno Her-
cules furens, vv. 159-201; Agamemnon, vv. 57-107; Phaedra, vv. 483-525; Hercules Oetaeus,
vv. 644-657. E hanno naturalmente molta consistenza anche nelle prose filosofiche e morali
dello scrittore. Dietro vi sono senza dubbio solide suggestioni oraziane: vd. per esempio Car-
mina, III, 29. La dittologia scettri e corone (v. 677) è prelievo da F. PETRARCA, Triumphus
Mortis, I, v. 83. La coppia Indi e Sabei (v. 698), topica per indicare il lusso, è probabile recu-
pero dall‟amicissimo P. ARETINO, Dialogo, II giornata: «che in bocca abbiate odor d‟Indi o
Sabei».
116 Venezia in coturno

Siffatte tematiche, oltre ad avere una cospicua fortuna antica, erano


state già variamente declinate da altri illustri protagonisti dell‟Umane-
simo volgare e hanno una ricorrenza non casualmente singolare nel
corpus delle tragedie del Dolce, ad indicare autentica adesione intel-
lettuale, umana, ideologica, del letterato veneziano ai motivi di fondo
delle stesse:

L. ARIOSTO, Orlando furioso, XLIV, 1


Spesso in poveri alberghi e in picciol tetti,
ne le calamitadi e nei disagi,
meglio s‟aggiungon d‟amicizia i petti,
che fra ricchezze invidiose et agi
de le piene d‟insidie e di sospetti
corti regali e splendidi palagi,
ove la caritade è in tutto estinta,
né si vede amicizia, se non finta.

G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 611-25


Ma che dirò di quei che le corone
Portano in capo et han gli scettri in mano,
Che paion sì felici e sì contenti?
Pare forse ad alcun ch‟essi sian fori
De le condizion mortai. Ma tanti
Tormenti, tante angoscie sotto quelle
Purpuree vesti son, tanti pensieri
Spiacevoli, oimè lassa, e tante cure
Premon quelle soperbe, alte corone,
Che chi passa più dentro e ‟l vero scorge,
Vede che è un mar di cure avere impero.
Oltre ch‟i Re maggiori han sempre tanti
Sospetti di velen, sospetti d‟arme,
Di tradimenti a torno, che sovente
Invidian le capanne e i vili stati.

L. DOLCE, Giocasta, vv. 208-19


Color, che i seggi e le reali altezze
Ammiran tanto, veggono con l‟occhio
L‟adombrato splendor, ch‟appar di fuori,
Scettri, gemme, corone, aurati panni;
Ma non veggon dapoi con l‟intelletto
Le penose fatiche, e i gravi affanni,
Le cure e le molestie, a mille a mille,
Che di dentro celate e ascose stanno.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 117

Non san che come il vento e le saette


Percuoton sempre le maggiori altezze:116
Così lo stral de la fortuna ingiusta
Fere più l‟huom, quanto più in alto il trova.

L. DOLCE, Ifigenia, vv. 26-36:


Sappi, ch‟a la tua sorte invidia porto,
E sol felice e aventurato io chiamo
L‟huom, che in fortuna humil queto si vive,
Contento sol di quanto serve e basta
Al bisogno comun de la natura.
Però, ch‟a questo ambition d‟honori
Non arde il petto; e non gli rompe il sonno
Mordace cura: ma chi regge altrui
È sempre cinto di sospetti, e tema:
Che s‟ei tien ritta la giustitia in piede,
Gli huomini offende, e s‟ei la calca, i Dei.

I tentativi di razionalizzazione di Filistene vengono ancora contra-


stati dal padre (vd. gli adynata dei vv. 714-24), ma Atreo sta venendo
incontro al fratello e ai nipoti; si riduce lo spazio di manovra dialettica
di Tieste, caduto ormai nella rete tesa dal tiranno. Memorabile l‟a par-
te recitato da Atreo:

ATREO ATREVS
Dentro le reti mie, tese d‟intorno, Plagis tenetur clausa dispositis fera.
Caduta è già la desiata preda Et ipsum, et una generis inuisi indolem
E col suo genitor l‟odiata stirpe. Iunctam parenti cerno, iam tuto in loco
Venuto è il giorno in cui sicuramente Versantur odia. uenit in nostras manus
Disfogar io potrò lo sdegno e l‟ira Tandem Thyestes, uenit et totus quidem.
Che sì forte mi preme ed ange il petto. Vix tempero animo, uix dolor frenos ca-
Ora è venuto ne le nostre mani pit.
Finalmente Tieste e la sua prole. Sic cum feras uestigat, et longo sagax
Temprar mi posso. A pena posso l‟ira Loro tenetur umber, ac presso uias
Frenar e riguardar l‟odiato aspetto Scrutatur ore, dum procul lento suem
Onde ho già tanti ricevuti oltraggi. Odore sentit, paret, et tacito locum
Così sagace can ne‟ boschi usato Rostro pererrat, praeda cum propior fuit
A fuggitiva fera dar la caccia, Ceruice tota pugnat, et gemitu uocat
Quando da sé lontan sente il cinghiale Dominum morantem, seque retinenti e-

116
Plateale è qui il rinvio a ORAZIO, Carmina, II.10, vv. 9-12, già recuperato da Seneca in
Agamemnon, vv. 92-96.
118 Venezia in coturno

Con l‟odorate nare, facilmente ripit.


Il legame sostien, che lo ritira; Cum spirat ira sanguinem, nescit tegi.
Ma quando gli è vicino, impaziente Tamen tegatur, aspice ut multo grauis
Rompe ogni freno e sopra quel si lancia. Squalore, uultus obruat maestos coma.
Mal nasconder si puote ardente sdegno, Quam foeda iaceat barba, praestatur
Quando il bramato sangue avien che spe- fides.
ri; (vv. 491-507)
Pur bisogna coprirlo a questa volta.
Non sia grave indugiar breve dimora.
Vedi com‟è nel viso afflitto e smorto,
Et ha la barba et i capelli incolti.
(vv. 736-59)

In questi versi viene avviato quel processo di decezione del fratello


Tieste – scenicamente efficace perché centrato sui dislivelli conosciti-
vi prodotti dallo sviluppo della fabula117 – presentandosi come desola-
to per i passati scontri, ma con lo scopo strategico di conquistarne la
fiducia.
Senza dubbio notevole pare il fatto che in pochi versi Dolce, molto
più di quanto non avvenga in Seneca, concentri espressioni in cui A-
treo manifesta elementi di affetto fraterno:

ATREO
Fratel, quanto mi giova di vederti:
Per tenerezza mi si rompe il cuore
E la devuta carità fraterna
Ne l‟allegrezza a lagrimar m‟induce.
Or porgimi fratel, lascia ch‟io prenda
I desiati abbracciamenti cari,
Né si ricordin più passate offese.
Da qui inanzi l‟amor e la pietade
Sempre alberghi e dimori fra noi due,
E lontan se ne stian gli odi e li sdegni. (vv. 760-69)

Non meno sorprendente è che il Tieste diffidente e preoccupato


della prima scena d‟atto ceda il posto a un personaggio accondiscen-

117
Tieste e i figli non hanno assistito al secondo atto della tragedia e nulla sanno dei con-
tenuti dello stesso; lo spettatore/lettore è invece consapevole dei progetti (magari ancora par-
zialmente oscuri) di Atreo e riconosce nelle sue parole la maschera che egli ha deciso di in-
dossare.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 119

dente che, subito convinto dalle parole e dagli atti del fratello, fa nota-
re che la sua esistenza «non era più di viver degna» (v. 778), in singo-
lare contrasto con quanto sostenuto in precedenza.
Atreo invita Tieste e i nipoti ad abbracciarlo per sancire la piena ri-
conciliazione: la sequenza (vv. 788-810) è largamente amplificatoria
rispetto al modello e si configurano come autonoma innovazione iper-
testuale dolciana:

ATREO ATREVS
Non far fratello mio, ch‟io ciò non merto. A genibus manus
Ma con le braccia tue mi cingi il collo Aufer, meosque potius amplexus pete.
E insieme bacia me, com‟io te bacio. Vos quoque senum praesidia tot iuue-
Venite ancora voi nipoti cari: nes, meo
Sian benedette queste bocche e questi Pendete collo, squalidam uestem exue.
Occhi. Non sete voi del sangue mio? Oculisque nostris parce, et ornatus cape
Caro mio Filisten, mentre io ti veggo, Quales mei sunt, laetusque frater impe-
Veggo ne la tua faccia il padre tuo. rii
Questi son gli occhi suoi, questo è il suo Capesse partem, maior hoc laus est mea
volto; Fratri paternum reddere incolumi decus.
Questo il suo aspetto allor ch‟era fanciul- Habere regnum casus est, uirtus dare.
lo. (vv. 522b-29)
(Questi i capelli suoi ch‟assembran l‟oro
De quai più d‟una donna invidia n‟ebbe.
Ecco le rose e ‟l minio che solea
Dolcemente segnar le belle guance;
Ecco l‟avorio de le bianche carni.)118
Caro mio Filisten, un‟altra volta
Ti bacio, e mentre bacio questa bocca,
Bacio quella del padre. Or tu, fratello,
Spogliati questa vile indegna vesta,
E prendi il manto d‟oro, e prendi insieme
La corona e lo scettro: e tal t‟onori
La gente di Argo, qual me stesso onora.
E lasciando coi panni la tristezza
Aggiti la metà del Regno mio,
Però ch‟a me fia gloria a ritornare
Il paterno ornamento al mio fratello.
E sì come ventura i Regni porge,
Così è donarli altrui somma virtute.

118
I versi tra parentesi quadre sono presenti nella princeps del 1543 e nella ristampa del
1547; mancano nell‟edizione giolitina del 1560 e in quella del Farri del 1566.
120 Venezia in coturno

Sono versi ad alto gradiente figurale. Da sottolineare è, in primis,


l‟articolazione prossemica orchestrata da una densissima deissi pros-
simale e distale (a segnalare peraltro coinvolgimento e/o distanzia-
mento più sul piano emotivo, che su quello spaziale),119 cui concorre
uno spartito pronominale-aggettivale (a netta prevalenza possessiva)
di sapiente efficacia drammatica.120
Si tengano inoltre presente la fonicità densa121 e la consueta partitu-
ra di figurae (polittoti bacia-bacio, queste-questi, tua-tuoi, suoi-suo,
questo-questi etc.; una reduplicatio ai vv. 794-95; una parisosi con
doppio polittoto e struttura chiastica occhi suoi-suo volto al v. 796;
l‟endiadi di ascendenza classica le rose e ‟l minio nei versi poi cassa-
ti;122 varie anafore123): si tratta certo di uno degli snodi drammatici de-
cisivi della fabula.
Importa poi rilevare la cristianizzazione che Dolce imprime al di-
scorso tragico senecano:124

Non far fratello mio, ch‟io ciò non merto.

119
Per il ruolo decisivo che la deissi possiede nel testo teatrale cfr. M. DE MARINIS, Se-
miotica del teatro. L‟analisi testuale dello spettacolo, Milano, Bompiani, 1982 e K. ELAM,
Semiotica del teatro, Bologna, Il Mulino, 1988.
120
Si noti come la sequenza riveli, grazie alla semplice dialettica fra pronomi/aggettivi
prossimali (io, noi, mio, nostro) e distali (tu, tuo, te, suo, suoi, voi, vi, loro) l‟animus più au-
tentico di Atreo tra appropriazione dell‟oggetto coinvolto e suo distanziamento reale nel qua-
dro del progetto, a questa altezza non più revocabile in dubbio, di terrificante vendetta da
compiersi ai danni di Tieste. Vero e proprio snodo tematico il v. 793 («Non sete voi del san-
gue mio?») con rapidissimo passaggio prossimale/appropriativo che bene svela le autentiche
intenzioni di Atreo; poi i distali tua, tuo, suoi, suo, suo, suoi allontanano, sul piano emotivo e
psicologico, i nipoti dallo zio e focalizzano l‟attenzione su Tieste.
121
Vari i procedimenti mobilitati, dall‟allitterazione alla disseminazione alla consonanza
all‟assonanza alla riduzione timbrica: fratEllO-mErtO, FAR FRAtello, mio-ch‟io (rima inter-
na), fratello-collo, BrACCIA-BACIA (verticale), Venite-Voi, ancora-cari, Benedette-Bocche,
bOCCHe-OCCHi, Sete-Sangue, De quai più D‟uNa DoNNa iNviDia N‟ebbe, Ecco le rose e ‟l
minio che solea/Dolcemente segnar le belle guance, etc.
122
Cfr. APULEIO, Asinus aureus, IV.2: «rosarum mineus color renidebat».
123
Caro mio Filisten è integralmente ripreso a distanza di qualche verso; inoltre rileviamo
le anafore del presentativo ecco e del temporale mentre; poi, quella (addirittura triplice) del
verbo bacio nei versi conclusivi.
124
L‟insistenza – tutta e solo dolciana ovviamente – sull‟immagine del bacio non può non
rinviare sul piano simbolico alla scena evangelica del bacio di Giuda e ad una allusività com-
plessiva di significato cristologico.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 121

Sian benedette queste bocche e questi


Occhi. Non sete voi del sangue mio?

Caro mio Filisten, un‟altra volta


Ti bacio e mentre bacio questa bocca,
Bacio quella del padre

Scoperto è nella descrizione di Filistene, che occupa i versi liquida-


ti nelle due ultime edizioni, il riuso della topica della descriptio puel-
lae, mobilitata per presentare le bellezze di un puer.125 Tecnicamente
siamo in presenza di una prosopografia breve (descrizione parziale,
non a capite ad calcem), in cui troviamo perfettamente definiti, da fi-
guranti piuttosto tipici, i capelli (= oro), le labbra (= rose), le guance
(= rose + minio), le carni (= avorio); non gli occhi che in questi casi
sono generalmente neri. Al di là degli aspetti più propriamente topici,
quello che mette conto di essere notato è la gratuità di questa digres-
sione lirico-erotica collocata nel corpo della più cupa e macabra trage-
dia senecana.126
D‟altro canto fu lo stesso Dolce a rendersi conto della stonatura,
perché – lo ripetiamo – nelle due ultime edizioni (1560 e 1566), repu-
tati questi versi troppo liricamente sconvenienti, decise di eliminarli:
si era imposta ormai la Stimmung post-tridentina e quegli accenti non
potevano non essere riguardati con moralistico fastidio e con disap-
punto retorico nel contesto di un genere (la tragedia) che aveva fatico-

125
Per una descriptio puellae simile, ma in contesto romanzesco, vd. L. DOLCE, Dieci
canti di Sacripante, III, 17: «Era Selannio ben formato e bello/che trasse l‟elmo, et a nessun
s‟ascose/simile a l‟oro è ‟l biondo suo capello./S‟agguagliano le guance a latte, e a rose./Lun-
ghetto è ‟l viso, e pien di gratia: e in quello/Di dolce un non so che natura pose:/ch‟a qual si
voglia duro, et insensato/render lo potea sempre amico, e grato».
126
Sono versi che già Giovan Battista Giraldi Cinzio nel Giuditio sopra la tragedia di
Canace e Macareo, con molte utili considerationi circa l‟arte della tragedia e d‟altri poemi,
datato 1° luglio 1543 e pubblicato nel 1550 a Lucca da Busdrago, biasimava, ritenendoli del
tutto privi di decoro tragico. Dopo averli citati per esteso, Giraldi, fa dire al Fiorentino – uno
dei principali interlocutori del dialogo: «De‟ quai versi molte fiate mi sono meco medesimo
riso, veggendo che avea costui duce Seneca, grave e felicissimo in questa parte quanto in nis-
sun‟altra, e ha lasciato il suo dicevol modo di dire per accostarsi al vizioso, come anco ha fat-
to in molti altri luoghi e in questa Tragedia e in quella che trasse da Euripide». Si veda S.
SPERONI: Canace e scritti in sua difesa – G. B. GIRALDI CINZIO: Scritti contro la Canace. Giu-
ditio ed Epistola latina, a cura di C. ROAF, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982,
p. 148.
122 Venezia in coturno

samente inseguito una dictio improntata alla gravitas. Quali che siano
le reali motivazioni del percorso correttorio del Dolce, quelli poi can-
cellati sono versi suggestivi e significativi per descrivere alcune sfu-
mature della personalità di Atreo, che sembrerebbe parzialmente con-
figurarsi – nelle intenzioni del tragediografo veneziano – anche come
un maniaco che compie il proprio nefas spinto da una sorta di sadica
pulsione sessuale: ma forse questa è un‟iperinterpretazione.127
L‟atto si conclude con Tieste che accetta di condividere il potere
con il fratello. Agghiacciante nella sua allusività anfibologica 128 la ri-
sposta di Atreo:

ATREO
Tu te n‟andrai divoto al maggior tempio
E renderai ai Dei debito onore,
Fin che la real mensa s‟apparecchia.
Io sacrerò le vittime agli altari
E meco ne verran questi fanciulli
U‟ Menelao e Agamennon gli aspetta. (vv. 835-40)

Il terzo coro ha schema metrico ancora modellato su Rvf, 125, co-


me il primo. Composto da sette stanze, canta l‟avvenuta riconciliazio-
ne fra i fratelli, senza sapere cosa realmente Atreo ha progettato. Parti-
colarmente significative paiono le stanze seconda, terza e quarta per-
ché in esse vi è instanza di tratti pacifisti che per molti versi esorbita-
no, per ampiezza e profondità, la lettera del testo senecano (in cui pure
si trovano): del resto, quello della pace è un nucleo tematico di note-
vole importanza e che attraversa la letteratura veneziana del secolo:129

127
Quasi che Dolce abbia perfettamente compreso il quadro psicopatologico che inerisce
la personalità di Atreo e lo abbia tematizzato. Su questo tratto della psicologia atreica ha insi-
stito peraltro, con risultati estremamente persuasivi, P. MANTOVANELLI, La metafora del Tie-
ste. Il nodo sadomasochistico nella tragedia senecana del potere tirannico, Verona, Libreria
Universitaria Editrice, 1984.
128
Tieste crede letteralmente a ciò che Atreo gli dice; il pubblico, che ha assistito al se-
condo atto e che ha capito cosa intende fare il tiranno, sa invece che queste parole hanno un
significato secondo terribile.
129
Su queste tematiche cfr. i l già citato C. DIONISOTTI, La guerra d‟Oriente nella lettera-
tura veneziana del Cinquecento, in IDEM, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino,
Einaudi, 1967, pp. 201-26: dopo la disfatta cambraica (1509) la letteratura veneziana fu parti-
colarmente sensibile alle tematiche pacifiste. A questo si dovrà aggiungere la persuasiva in-
fluenza della ricca produzione erasmiana su questi argomenti: in primis la Querela pacis. I-
Le tragedie di Lodovico Dolce II 123

CORO
Mi maraviglio io bene
Come tanto riposo
Di cotanto tumulto oggi sia nato.
Pur dianzi Argo e Micena
Insino al mare ondoso
Risuonavano d‟arme in ogni lato.
Del suo figliuolo amato,
Pallida e sbigottita,
Temea la madre, e ‟nsieme
Spargea querele estreme
Per il consorte suo, sposa gradita,
Che con la spada in mano
Sen gia da lei lontano.
Chi rinuova le mura
Ove debol le vede;
Chi ristora le torri, e chi le porte.
E l‟importuna cura
Che i cuor percuote e fiede
Facea del sonno altrui l‟ore più corte.
Trista e pallida Morte
Sen giva per le menti
Or di questo, or di quella;
Né si sentia favella
Ch‟altro formasse che dogliosi accenti;
Né si vedea per strade
Altro che lance e spade.
Or più non s‟ode il fiero
Suon di trombe e di corni
Ch‟a l‟arme invitar suol gli audaci cuori.
Lasciasi il fosco e nero,
E con abiti adorni
Par che ciascun la santa pace onori.
Coronate di fiori
Le vergini donzelle
In vestir bianchi e schietti

nolte cfr. R. CREMANTE, Appunti sul tema della guerra, ed in particolare della guerra
d‟Oriente, nella tragedia italiana del Cinquecento, in Guerre di religione sulla scena del
Cinquecento, a c. di M. CHIABÒ e F. DOGLIO, Roma, Torre d‟Orfeo, 2006, pp. 121-38 e ID.,
Aspetti della realtà contemporanea nella tragedia italiana del Cinquecento: appunti sul tema
della guerra, in La scena del mondo. Studi sul teatro per Franco Fido, a c. di L. PERTILE, R.
A. SYSKA-LAMPARSKA, A. OLDCORN, Ravenna, Longo, 2006, pp. 77-88.
124 Venezia in coturno

Coi fanciul semplicetti


Lode cantano a Dio divote e belle.
Tu, ch‟hai di noi governo
Fa‟ che questa union duri in eterno. (vv. 854-92)

Piuttosto scoperta è ancora la manipolazione dell‟ipotesto e presso-


ché totalmente liquidato il cospicuo apparato geografico, etnografico e
mitografico esibito da Seneca (unici nomi conservati dell‟originale
sono Cariddi e Scilla).130 L‟ultima stanza e il congedo hanno un‟alta
temperatura gnomica, conformemente al coro senecano, quantunque
assai semplificato:

Non si vede nel mondo


Lunga sorte mortale.
M‟al suo contrario il suo contrario cede.
Divien mesto il giocondo,
Il ben succede al male,
E questi ha il capo ove tenea già il piede.
Il riso al pianto riede,
E al riso segue il pianto.
Chi si gode felice,
Pensi che può infelice
Tosto tornar. Né si disperi intanto
Ch‟infelice si giace
Di riposo e di pace.

Alcun non ebbe mai sì amica stella


Che del giorno futuro
Possa girsi securo. (vv. 919-34)

4. Il quarto atto è quello della descrizione, fatta dal Nunzio al coro,


del nefas atreico. Inevitabile la nuova convocazione di un lessico del

130
Al v. 897. Il paradosso della scrittura tragica di Dolce sta nel fatto che in lui convivono
1) una tendenza per la pura amplificazione orizzontale, expolitio e/o commoratio di esclusivo
sapore additivo ed esplicativo, e 2) una acuta sensibilità culturale che pragmaticamente lo
spinge a espungere dai modelli scelti tutto ciò che potrebbe essere di ostacolo alla retta intelli-
genza dello sviluppo drammatico o scenico o alla comprensione. Per questo motivo, quando
introduce una nuova immagine, Dolce tende a conferirle lo statuto di texture modulare, di tes-
sera sintagmatica e paradigmatica, da riutilizzare ogni volta che se ne presenti l‟opportunità,
in modo da evitare sforzi ermeneutici al suo pubblico.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 125

terrore di matrice eminentemente dantesca (infernale):131 ombra; neb-


bia oscura et atra; opra sì scelerata, opra sì cruda; empia casa real,
infame e brutta; terribil mostri; mostruoso parto; e d‟ogn‟intorno cin-
ge/L‟ossa e le membra spaventoso orrore; fatto empio et oscuro; spa-
venta; abominoso fatto; mesti tassi, atri cupressi/Et elci antiche e ne-
gre; acque negre e morte; tristo fonte; Con negri rami eternamente
adombra; Stige crudel; brutta e formidabil l‟onda; d‟infernal spirti
orride voci; mette paura; L‟anime de‟ morti/De‟ lor sepolcri orribil-
mente uscendo/Pallide…/spargendo immensi gridi; mugge il bosco;
rabbioso latrar; mesto e spaventoso il rende; propria è del bosco e-
terna notte; infernal caverna; fero suono, etc..
Poi il Nunzio procede, sollecitato dal coro, con il puntuale resocon-
to dello scellerato nefas:

CORO
In qual prima di loro il ferro tinse?
NUNZIO
Quel che tra l‟uno e l‟altro era d‟etade
Percosse in prima, e acciò che tu non creda
Ch‟ei fosse di pietà del tutto ignudo,
Dedicò questo a l‟avo, ond‟ebbe il figlio
Del gran Giove e di Plote132 l‟ostia prima.
CORO
Con qual cuore il fanciullo, e con che aspetto,
S‟offerse a questa morte orrida e dura?
NUNZIO
Nol posso dir. Ed era a veder lui
Spaventoso spettacolo et orrendo.
Il re crudel lo prese nei capelli
Con l‟una man, con l‟altra il ferro spinse
Fin che nel petto suo tutto l‟ascose.

131
Le seguenti occorrenze si trovano ai vv. 935-1021, prima della descrizione dell‟eccidio
vero e proprio. La descrizione del luogo, davvero infernale, nel quale Atreo compie il massa-
cro dei nipoti può aver influenzato – la suggestione meriterebbe approfondimenti – il Torqua-
to Tasso della foresta di Saron (vd. Gerusalemme liberata, XIII, 1-50).
132
Assai palese anche qui l‟interferenza di fonti romanze con la lettera del testo senecano
che non nomina minimamente i genitori dell‟avo Tantalo, dal quale il primo nipote sacrificato
ha tratto il nome: vd. G. BOCCACCIO, Genealogie deorum gentilium, XII, 1 e il volgarizza-
mento di G. BETUSSI, Geneologia degli dei di M. Giovanni Boccaccio, XII, 1: «Tantalo, se-
condo Lattantio, fu figliuolo di Giove, et di Plote ninfa». La perifrasi è piuttosto una eccezio-
ne tra le strategie riscrittorie dolciane.
126 Venezia in coturno

Al trar del ferro si sostenne alquanto


Quel corpo in piedi e qua e là piegando
Finalmente cadeo sopra di lui,
E di sangue il tiran per tutto sparse.
Egli più che mai crudo ai sacri altari
Tragge, dopo di questo, Filistene,
Per ch‟egli compagnia faccia al fratello.
E di lui percotendo il bianco collo
Ferillo con tant‟impeto e sì forte
Che di qua il corpo sanguinoso resta
E di là salta il capo, e dalla bocca
Esce con rotti et imperfetti accenti:
“Fanne giusta vendetta, o padre Giove!”
CORO
Che fece poi? Rimase sazio a questa
Spietata occision de‟ duoi nipoti,
E perdonò al fratel minor d‟etade,
O a tai scelerità la terza aggiunse?
NUNZIO
Chi mai veduto ha ne le selve armene
Spaventoso leon, sazio e ripieno
Di molta carne e sangue, che nel mezzo
Stando del guasto e umil, timido, armento,
Benché vinta e scacciata abbia la fame,
Non però pone l‟ira e altier minaccia
Col stanco dente ora quel toro, or questo
Pargoletto vitel, che ‟l guarda e trema,
Pensi di veder tal, empio e superbo,
Il re: lo qual tenendo il ferro in mano
Fatto vermiglio omai di doppio sangue,
Ancor non sazio de l‟ardente sdegno
Drizzò gli occhi al fanciul, né più potendo
La gran rabbia tener, squarciogli i panni
Dinanzi e immerse nel tremante petto
Il ferro, sì ch‟a quel dopo le spalle
Aprendo larga via, n‟uscì la punta.
Sopra d‟i rii, contaminati altari
Cadd‟egli e col suo sangue i fochi estinse,
E per l‟una e per l‟altra empia ferita
Lo spirto rese, e qui finì i suoi giorni. (vv. 1095-1145)

Prima hostia è il mediano dei tre figli di Tieste, Tantalo per Dolce:
raccapricciante la notazione (che non si trova in Seneca) del sangue
Le tragedie di Lodovico Dolce II 127

della vittima che bagna Atreo: «E di sangue il tiran per tutto sparse»
(v. 1115).133 L‟articolazione delle varie fasi del nefas – concepito co-
me parodia infera del rito sacrificale – è assai perspicua nella riscrittu-
ra del Dolce.
Peraltro, il culmine mostruoso della perversa azione atreica non è
stato, come si sa, ancora toccato nel resoconto del Nunzio: dopo aver
compiuto una ieroscopia con gli exta dei nipoti, il tiranno ne squarta i
cadaveri e li cucina per imbandirli a Tieste:134

CORO CHORVS
Che puote ei far più scelerato e brutto? Quid ultra potuit? obiecit
Ha dato forse i corpi de‟ nipoti feris
A mangiar a le fere? Lanianda forsan corpora, atque igne ar-
NUNZIO cuit?
Dio volesse, NVNTIUS
Ch‟avesse fatto ciò, che stato fora, Vtinam arcuisset, ne tegat funto humus,
Di gran lunga, peccato assai men grave Ne soluat ignis auidus. epulandos licet
E ne la crudeltà qualche pietade. Ferisque triste pabulum saeuis trahat,
O gran scelerità! E tal che vera Votum est sub hoc, quod esse suppli-
Creder non la potran secoli et anni. cium solet,
Egli da‟ petti lor tremanti ancora, Pater in sepultos spectet. o nullo scelus
Ancor caldi, ancor vivi, trasse fuori Credibile in aeuo, quoque posteritas ne-
Gli interior con le sue proprie mani. get,
Ancor spiran le vene e parimente Erepta uiuis exta pectoribus tremunt,
Il cor pavido ancor saltella e trema. Spirantque uenae, corque adhuc paui-
Ma quei, con occhio fier, ricerca e tocca dum salit,
Le fibre et il futur riguarda in elle; At ille fibras tractat, ac fata inspicit.
E per dentro discorre, e segna, e nota. Et adhuc calentes uiscerum uenas notat,
Poi che gli piacquer l‟ostie, omai securo, Postquam hostiae placuere, securus ua-
S‟accinge a nova impresa e d‟esse pensa cat,
Apparecchiare al frate empie vivande. Iam fratris epulis, ipse diuisum secat
Così divide i corpi in molte membra, In membra corpus, amputat trunco tenus
E le membra in più parti: quivi è un Humeros patentes, et lacerto rum moras,
braccio, Denudat artus durus, atque ossa ampu-
Colà una gamba. Indi, di parte in parte, tat.

133
Per quanto in contesto diverso e con semantica simbolica differente, il particolare fa
forse pensare a SOFOCLE, Antigone, vv. 1238-39: «poi con un soffio [Emone] emette sulla
candida guancia [di Antigone morta] un violento fiotto di sangue»). Anche in quel caso è un
Nuntius a riportare le parole.
134
Senza pretendere di proporre una bibliografia appena sufficiente si rinvia, per le impli-
cazioni antropologiche e cultuali, almeno a M. DETIENNE, J.-P. VERNANT, La cucina del sacri-
ficio in terra greca, Torino, Bollati Boringhieri, 1982.
128 Venezia in coturno

Di qua le carni e di là l‟ossa stanno. Tantum ora seruat, et datas fidei manus.
Sol riserba le teste e quelle mani Haec ueribus haerent uiscera, et lentis
Che già in segno di fé date gli furo. data
Una parte arrostir, altra a le fiamme Stillant caminis. illa flammatus latex
Ei vuol che bolli. Al che tre volte il foco Querente aheno iactat, impositas dapes
S‟ammorzò per pietade et altretante Transiluit ignis, hincque trepidantes fo-
Egli con le sue mani empio l‟accese; cos
E così legno appresso legno aggiunse Bis, ter, regestus, et pati iussus moram
Che, stimolato, suo mal grado avampa. Inuitus ardet, stridet in ueribus iecur,
Stride il fegato ne‟ schidoni involto, Nec facile dicam, corpora, an flammae
Né so ben qual gemeo, la carne o ‟l foco. gemant.
La negra fiamma si converte in fumo Gemuere, piceus ignis in fumos abit
Ed esso tristo e come nebbia grave Et ipse fumus tristis, ac nebula grauis
Tutto n‟empié lo scelerato loco. Non rectus exit, seque in excelsum
O Febo, ancor che tu ritorni a dietro leuat.
E nel mezzo del dì rendi la notte, Ipsos penates nube deformi obsidet;
Tardo ascoso ti sei, tardo fuggito. O Phoebe patiens fugeris retro licet,
Ora il misero padre allegro a mensa, Medioque ruptum merseris caelo diem,
De la real corona ornato il capo, Sero occidisti, laniat gnatos pater,
Mangia de‟ figli suoi le proprie carni, Artusque mandit ore funesto suos.
Che poste in vasi d‟or, fumanti e calde, Nitet fluente madidus unguento coma,
Gli fa recar dinanzi il suo fratello. Grauisque uino saepe praeclusae cibum
Restò più volte ne le fauci il cibo Tenuere fauces, in malis hoc unum tuis
E più volte cercò d‟uscir di fuori. Bonum est Thyesta, quod mala ignoras
Oh, misero Tieste, hai ne‟ tuoi mali tua.
Questo di ben: che ancor non gli conosci! Sed et hoc peribit, uerterit cursus licet
Ma tosto ei perirà, quantunque, o chiara Sibi ipse Titan, obuium ducens iter
Luce del mondo, ritornando a dietro Tenebrisque facinus obruat tetrum
Lasci che si ricopra e che si veli nouis,
D‟inusitate tenebre la terra, Nox missa ab ortu tempore alieno
Pur tutto si vedrà chiaro e palese. grauis,
(vv. 1155-1207) Tamen uidendum est, tota patefient ma-
la.
(vv. 747b-788)

Il quarto è un coro più libero metricamente rispetto ai precedenti ed


è composto da cinque stanze irregolari di settenari ed endecasillabi
(con rime varie): è tra tutti quello in cui maggiormente conservata –
perché non del tutto liquidabile, se non a detrimento della significati-
vità dell‟intero canticum – è la sostanza astrologico-mitologica del
corrispettivo coro di Thyestes, in cui si descrive lo stravolgimento dei
fenomeni naturali e l‟apocalisse cosmica nella quale tutte le costella-
Le tragedie di Lodovico Dolce II 129

zioni precipitano una sull‟altra: eccellente pare la scelta, davvero


d‟autore, di eliminare dall‟elenco delle costellazioni zodiacali la Libra
(= Bilancia), perché l‟esibizione del simbolo dell‟equilibrio in un uni-
verso sconvolto e rovesciato riuscirebbe incomprensibile.

2.5. Il quinto atto è quello del trionfo di Atreo che esordisce assa-
porando il proprio successo: «Or ben son io felice, or ben avanzo/Di
gioia ogni mortale;/Or ben vo‟ eguale a Giove/E superbo le stelle ag-
giungo e tocco;/Or veramente del mio regno io tengo/La corona e lo
scettro/E l‟onorato seggio/Del mio onorato padre» (vv. 1300-1307).
Tieste risponde con una monumentale monodia (vv. 1396-1472),135
prevalentemente eptasillabica e altamente lirica, in cui a poco a poco
sembra disvelarsi l‟orrore di cui è stato inconsapevole vittima. Si
prendano, pars pro toto, i primi versi (nei quali si avverte forse qual-
cosa del Boccaccio mediatore senecano):

TIESTE G. BOCCACCIO, Elegia di madonna


Fuggite dal mio petto, Fiammetta, VII, p. 173 (ed. Erbani)
Cure noiose e gravi. «O amorosi petti, lungamente da‟ mali
Fuggasi la tristezza, indeboliti, omai ponete giù le sollecite
La paura e ‟l dolore. cure, poscia che ‟l caro amante di noi ri-
Fugga la povertade, cordantesi torna come promise. Fuggasi
Del mio esilio compagna. il dolore, la paura e la grave vergogna
Fuggasi la vergogna nell‟afflitte cose abondante, né come per
Amica de gli afflitti et ogni cosa addietro la fortuna v‟abbia guidati vi
Sia ripien di diletto. (vv. 1396-1404) venga in pensiero, anzi cacciate via le
nebbie de‟ crudeli fati, e ogni sembiante
del misero tempo da voi si parta, e torni
il lieto viso al presente bene, e la vecchia
Fiammetta della rinnovata anima del tut-
to si spogli fuori».

Tieste è dominato dal dubbio (a segnalarlo le tredici interrogative


dirette ai vv. 1419-1461): percepisce che qualcosa è per così dire fuori
quadro, ma non riesce ad andare oltre la mera sensazione:

Perché torno agli accenti


Lagrimosi e dolenti? (vv. 1419-20)

135
Nel testo latino è in dimetri anapestici.
130 Venezia in coturno

Ohimè, che sarà questo?


Chi mi vieta e mi toglie
Di celebrar il giorno
De la mia nuova gioia?
Perché dagli occhi miei
Esce pioggia di pianto?
Perché da capo a sospirar ritorno?
Chi invidia il mio soggiorno?
Qual è nuova cagion che mi s‟asconde?
Questa di fiori e fronde
Vaga ghirlanda e cara
Chi mi fura e contende
Ch‟io cinga d‟essa le felici tempie?
Perché caggion dal loco, ove le pose
La propria e istessa mano,
Queste vermiglie rose?
Chi ‟l cuor già lieto m‟empie
Di subito terrore? (vv. 1430-47)

Già temer non vorrei,


E pur aven ch‟io tema,
E dirne la cagione io non saprei.
O miseri occhi miei
Voi pur piangete ancora
E il miser cuor si duole,
Né so qual sia maggiore
O la tema, o il dolore. (vv. 1465-72)

I versi successivi si incaricheranno di portare alla luce la macabra


verità che noi già conosciamo. Atreo manifesta il proprio implacabile
sadismo con risposte anfibologiche e connotate da cupa ironia tragica:

TIESTE
Già, pietoso fratel, sazio mi sento
Egualmente nel cuor di cibo e vino.
Se meco i figli miei fosser presenti,
Il colmo in me saria d‟ogni allegrezza.
ATREO
Credi ch‟ei siano in braccio di suo padre:
Teco sono e saranno eternamente,
E non temer che, sin che resti vivo,
De la tua stirpe ti si tolga parte.
Ben vedrai tosto i desiati volti.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 131

Pensa d‟esser di ciò pago e satollo,


Ch‟ora, insieme co‟ miei felicemente,
Onoran pueril sacrata mensa.
Intanto apprenderai questo presente,
Che così ‟l cuor come la man ti porge;
E beverai l‟almo liquor di Bacco
In fino al fondo del dorato vaso. (vv. 1481-96)

La catastrofe, segnalata da decisivi mutamenti atmosferici, si palesa


simbolicamente ai vv. 1502 ss. recitati ancora da Tieste: «Ma perché
nel toccar trema la mano?/Perché sì grave è il peso, ch‟a fati-
ca/Sostener io lo posso? E perché il vino/Da le mie labbra s‟allontana
e fugge?/E, mentre l‟avicino, esce del vaso/E sul mio petto si riversa e
cade?».
A questo punto nessuna fictio è più ulteriormente prolungabile: A-
treo mostra al fratello – in una movenza dai significativi tratti scenici
– quel che resta dei figli:

TIESTE
Io pur nel ventre mio per tutto sento
Insolito tremor che ‟l preme e scuote:
E dentro grave e non più usato peso.
Sì duole e geme acerbamente il petto,
E pur questo non è gemito mio.
Or venite miei figli: or già venite,
Dove vi chiama il vostro caro padre,
Che nel vedermi il vostro aspetto avanti,
Subito fuggirà tutta la doglia.
ATREO
Conosci queste teste e queste mani?
Questi son tuoi figliuoli: ora gli abbraccia,
Che questo è Filisten; questi son gli altri.
(vv. 1522-33)

L‟orrore è supremo, ma non tocca ancora il vertice che solo i vv.


1585-86, in una eccezionale e apparentemente inarrestabile klimax,
pienamente rivelano: «Tu medesmo hai mangiati i figli tuoi,/Empia
vivanda, e non t‟accorgi ancora!».
Tieste solo a questo punto, resosi autenticamente conto di cosa gli è
capitato, scioglie un pateticissimo canto funebre:
132 Venezia in coturno

TIESTE
Ohimei, ohimei, ohimei!
Or la cagione intendo
Del dì cangiato in notte.
Non han potuto i Dei
Veder tal crudeltade.
O celeste pietade
Dunque pòi consentir tanto peccato?
Ed io trovo parole
Da poter lamentarmi?
Or non devria il dolore,
La paura e l‟orrore
Tosto di vita trarmi?
Io veggo inanzi gli occhi
Le teste de‟ miei figli;
Veggo i visi sanguigni,
Veggo le care mani,
Che pur or m‟abbracciar sì dolcemente.
O secoli inumani!136
O scelerata etade!
Ohimè, quante fiate
Mi si serrò la bocca
Fuggendo di gustar cibi sì fieri!
Or le viscere tutte
Mi si rivolgon dentro:
Che ‟l pasto empio e crudele
De‟ miei figli pietosi
Vorrebbe uscir di fuori; e tuttavia
Va cercando la via.
Fratel, porgimi omai,
Porgimi quella spada,
Ch‟ha troppo del mio sangue.
Lascia che queste mani
Lor facciano la strada.
Se tal grazia mi neghi,
Non mi negar almeno
D‟uccider me, sì come hai quelli ucciso.
E sì come potesti
Rendermi de le carni
Sazio de‟ miei figliuoli,
Saziati de le mie,
Che, ciò facendo, avrai l‟un cibo e l‟altro!

136
Puntuale prelievo da S. SPERONI, Canace, v. 7.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 133

A che stato son io,


Che premo i figli miei
Ed ei premon me stesso?
Questa è ben crudeltade
Ch‟avanza ciascun fine. (vv. 1587-1632)

Larghissima la prevalenza di settenari – come sempre in questi casi


– e frequenti, ancorchè irregolari, le rime (specie a distanza: ohimei-
dei, crudeltade-pietade-crudeltade, dolore-orrore, mani-inumani,
spada-strada…) si noteranno inoltre: l‟epizeusi iniziale, la rilevatis-
sima anafora di Veggo ai vv. 1599 ss., la reduplicatio ai vv. 1615-16
(«Fratel porgimi omai,/Porgimi quella spada»), qualche polittoto, etc..
La tragedia si conclude col trionfo assoluto di Atreo e soprattutto
senza che si verifichi alcun ravvedimento finale o qualche forma di
compensazione punitiva per quanto di mostruoso è stato commesso
(ed è ciò che fa tanto del fascino perverso, nella sua Übermass, del vi-
lain più nero dell‟intera tragedia antica). Radicalmente senza dèi è
l‟orizzonte nel quale si inscrivono le vicende dei figli di Pelope; il
Dolce naturalmente non può esimersi dal collocare un‟appendice cora-
le di sapore assai convenzionale, con cui – almeno parzialmente – cer-
ca di sussumere la vicenda sceneggiata sotto rassicuranti categorie cri-
stiane (anche per evitare l‟accusa di aver sviluppato una fabula così
immorale e del tutto aliena da tentazioni didattiche):

CORO
L‟almo Fattor del mondo,
Giusto e pietoso Dio,
Non lascierà giamai
Senza giusta vendetta
Questo peccato rio,
Ch‟ogni peccato altrui vince d‟assai.
Sia pur l‟empio tiran lieto e giocondo:
Degno castigo aspetta,
Se ben l‟ira del cielo
Non vien con molta fretta. (vv. 1723-32)
134 Venezia in coturno

137
3. Didone

Terza prova tragica della scrittura coturnata del Dolce ed esperi-


mento fra i suoi più significativi è Didone, con cui il poligrafo ripren-
de la storia del tragico connubio di Amore e Morte che caratterizza la
vicenda della celeberrima regina cartaginese: vicenda già sceneggiata
nel Cinquecento italiano da Alessandro Pazzi de‟ Medici e Giovan
Battista Giraldi Cinzio,138 e ripresa molte volte fino alla Dido, Queen
of Carthage di Christopher Marlowe.139 L‟operazione del Dolce si in-
scrive certamente nel perimetro della straordinaria fortuna virgiliana140

137
Edizioni cinquecentesche di riferimento: L. DOLCE, Didone, tragedia di M. Lodovico
Dolce, con privilegio, Venezia, Aldo Manuzio, 1547; L. DOLCE, Tragedie di M. Lodovico
Dolce, cioè Giocasta, Didone, Thieste, Medea, Ifigenia, Hecuba, di nuovo ricorrette e ristam-
pate, Venezia, Gabriele Giolito de‟ Ferrari, 1560; L. DOLCE, Le Tragedie di M. Lodovico Dol-
ce, cioè Giocasta, Didone, Thieste, Medea, Ifigenia, Hecuba, di nuovo ricorrette et ristampa-
te, Venezia, Domenico Farri, 1566. Ci siamo attenuti largamente alla recente edizione di S.
TOMASSINI (a c. di), L. DOLCE, Didone, Parma, Archivio Barocco, Edizioni Zara, 1996, con
importante introduzione del curatore (L‟abbaino veneziano di un «operaio» senza fucina, pp.
IX-XLIV), da cui sempre si cita. Confessiamo subito, a scanso di equivoci, che in larghissima
parte siamo debitori del suo commento e del suo lavoro: qualora non esplicitamente dichiara-
to, si rinvia comunque al testo da lui approntato. Vd. inoltre R. H. TERPENING, From Imitation
to Emulation: Dolce‟s Classicism and the Fate of Infelix Dido in Cinquecento Tragedy, in
ID., Lodovico Dolce: Renaissance Man of Letters, cit., pp. 105-127 e A. NEUSCHÄFER, La Di-
done (1547), in EAD., Lodovico Dolce als dramatischer Autor im Veneidig des 16. Jahrhun-
derts, cit., pp. 420-48.
138
A. PAZZI DE‟ MEDICI, Dido in Carthagine, in ID., Le tragedie metriche, a c. di A. SO-
LERTI, Bologna, Romagnoli dall‟Acqua, 1887, pp. 55-136 e G. B. GIRALDI CINZIO, Didone, in
Le tragedie, Venezia, Giulio Cesare Cagnacini, 1583. Dedicato esplicitamente a queste que-
stioni è C. LUCAS, Didon. Trois réécritures tragique du livre IV de l‟Eneide dans le théâtre
italien du XVIe siècle, in Scritture di scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento, a c. di
G. MAZZACURATI e M. PLAISANCE, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 557-604.
139
CH. MARLOWE, The Tragedie of Dido, Queen of Carthage, London, Thomas Wood-
cocke, 1594. La fortuna della vicenda didonea è notevole anche in area francese dove si anno-
verano la Didon se sacrifiant (1555 ca.) di Etienne Jodelle e varie riprese seicentesche. Il per-
sonaggio di Didone arriva a Dolce già come topos strutturato di una significativa, ancorché
oscillante, tradizione romanza (vd. almeno DANTE, Inferno, V, vv. 61-62; F. PETRARCA,
Triumphus Pudicitie, vv. 10-12 e 154-160; G. BOCCACCIO, Genealogie deorum gentilium,
XIV, 13; G. G. TRISSINO, Sofonisba, vv. 22 ss..). Vd. inoltre, per la tenuta nel tempo della vi-
cenda didonea, Dido and Aeneas di Henry Purcell-Nahum Tate e la celeberrima Didone ab-
bandonata metastasiana. Sulla continuità della tradizione europea di Didone informa Énée et
Didon. Naissance, fonctionnement et survie d‟un mythe, a c. di R. MARTIN, Editions du Centre
National de la Recherche Scientifique, Paris, 1990.
140
Su cui vd. almeno L. BORSETTO, L‟Eneida tradotta. Riscritture poetiche del testo di
Virgilio nel XVI secolo, Milano, Unicopli, 1989.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 135

ed è assai significativa perché – come del resto accade anche per le


tragedie dei predecessori – è il frutto di una articolata stratificazione di
fonti e modelli, tragici e no: ineludibile, va da sé, il IV dell‟Eneide,141
nel caso del Dolce occorre aggiungere perlomeno la sinopia costituita
dal Dialogo di Pietro Aretino.142
La Didone si configura pertanto come un originale prodotto sorto
dal cortocircuito contaminatorio fra a) fonti classiche (direttamente at-
tinte); b) loro declinazione tragica moderna, e c) recente riscrittura pa-
rodica (sollecitata verosimilmente anche da precise, nuove suggestioni
antropologiche e sociologiche).143
Questo comporta, nella dialettica fra conservazione e innovazione
dei nuclei tematici della fabula scelta, una specifica azione di transco-
dificazione, trasposizione, selezione. La prima significativa differenza
rispetto ad Hecuba e Thyeste è che la dedicatoria non sia scritta
dall‟autore, ma dall‟attore veneziano Tiberio d‟Arman (che aveva
messo in scena l‟opera) e che si rivolge al senatore veneziano Stefano
Tiepolo.

1. La tragedia comincia con un vero e proprio prologo recitato da


Cupido in forma di Ascanio, scritto prevalentemente in settenari e con

141
Come noto, i vari libri del poema virgiliano vengono pubblicati autonomamente nel
corso del secolo XVI: si pensi, pars pro toto, alle traduzioni del libro IV approntate da Nicolò
Liburnio nel 1534 (per Nicolini da Sabio) e da Bartolomeo Carli Piccolomini nel 1540 (per
Comin da Trino) o al celebre Secondo libro della Aeneide di Virgilio, tradotto in volgare da
Ippolito de‟ Medici e pubblicato nel 1539 a Venezia (presso lo Zoppino).
142
Cfr. P. ARETINO, Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa le poltronerie degli
uomini inverso le donne. Seconda giornata (Venezia, Marcolini, 1536). La mise-en-burlesque
della storia di Didone prevede che Enea sia un «barone romanesco, non romano, uscito per un
buco del sacco di Roma come escano i topi», che approda, in seguito a un naufragio, «al lito
di una gran cittade de la quale era padrona una signora che non si può dire il nome» (vd. P.
ARETINO, Sei Giornate, a c. di G. AQUILECCHIA, Bari, Laterza, 1969, p. 218). Acclarata (cfr.
L. BORSETTO, Traduzione e furto nel Cinquecento. In margine ai volgarizzamenti dell‟Eneide,
in EAD., Riscrivere gli Antichi, riscrivere i Moderni e altri studi di letteratura italiana e com-
parata tra Quattro e Cinquecento, Torino, Edizioni dell‟Orso, 2002, pp. 13-53) è la stretta a-
derenza dell‟Aretino alla versione procurata da Tommaso Cambiatore attorno al 1430 (Eneide
in terza rima) e pubblicata da Bernardino de‟ Vitali nel 1532.
143
Su cui insiste, opportunamente a mio avviso, Tomassini nell‟introduzione alla sua edi-
zione, ma di cui non si può tenere troppo conto in questa sede.
136 Venezia in coturno

moltissime rime (a contatto e a distanza),144 in cui vengono allusiva-


mente anticipati alcuni dei nodi drammatici che verranno sciolti nel
corso dello sviluppo della fabula: l‟intera vicenda di Didone ed Enea è
sussunta sotto il segno della vendetta di Venere contro Giunone.
Cupido si autopresenta come divinità crudele e implacabile e, al so-
lito, Dolce costruisce la sequenza montando materiale testuale pluri-
mo, pur sentendosi nel complesso una filigrana bembiana sul piano
della materia del contenuto:

CUPIDO IN FORMA DI ASCANIO F. PETRARCA, Rvf, 282, v. 14


Io, che dimostro in viso, a l‟andar, a la voce, al volto, a‟ panni
A la statura, e a i panni,
D‟esser picciol fanciullo, F. PETRARCA, Rvf, 314, v. 5
Si come voi mortale; agli atti, alle parole, al viso, ai panni
Son quel gran Dio, che ‟l mondo chiama
Amore. B. TASSO, Salmi, 22, v. 15
Quel, che pò in cielo, e in terra, Che mi fan portar sotto il volto e i pan-
E nel bollente Averno; ni?
Contra di cui non vale
Forza né human consiglio; F. PETRARCA, Rvf, 93, v. 14
Né d‟ambrosia mi pasco, ch‟i‟ mi pasco di lagrime, et tu ‟l sai145
Sì come gli altri Dei,
Ma di sangue e di pianto. A. POLIZIANO, Stanze, I, 2, vv. 1-4
Ne l‟una mano io porto O bello idio [Amore scil.] ch‟al cor per
Dubbia speme, fallace, e breve gioia; gli occhi inspiri
Ne l‟altra affanno, e noia, dolce disir d‟amaro pensier pieno,
Pene, sospiri e morti. (vv. 1-16) e pasciti di pianto e di sospiri,
nudrisci l‟alme d‟un dolce veleno

F. PETRARCA, Rvf, 71, v. 97


angoscia et noia

144
Si vedano: vv. 4-8, 14-15, 19-20, 30-33-34, 38-39, 40-41, 43-45, 50-51, 65-66, 72-73,
75-76, 77-78, 79-80, etc..
145
Per altri significativi riscontri petrarcheschi vd. Rvf, 130, vv. 5-6: «Pasco „l cor di so-
spir‟, ch‟altro non chiede,/e di lagrime vivo a pianger nato»; 134, v. 12: «Pascomi di dolor,
piangendo rido»; 224, v. 11: «pascendosi di duol, d‟ira et d‟affanno»; 360, vv. 59-60: «[…]
non questo tiranno/che del mio duol si pasce, et del mio danno». Ma il motivo, topico, si ri-
verbera anche nella produzione di Bernardo Tasso, Della Casa e Guarini, per citare alcuni au-
torevoli interpreti della sensibilità manieristica: vd. B. TASSO, Rime, III. 21; G. DELLA CASA,
Rime extravaganti, 72, vv. 1-7; B. GUARINI, Il Pastor fido, I, vv. 531-533.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 137

F. PETRARCA, Rvf, 207, v. 96


pianto, sospiri et morte

P. BEMBO, Asolani, I, 11
Certissima cosa è adunque, o donne, che di tutte le turbazioni dell‟animo niu-
na è così noievole, così grave, niuna così forzevole e violenta, niuna che ci
commova e giri, come questa fa che noi Amore chiamiamo. […]. Senza fallo
esso Amore niuno è che piacevole il chiami, niun dolce […]: di crudele,
d‟acerbo di fiero tutte le carte son piene. […]. Per la qual cosa manifestamen-
te si vede Amore essere non solamente di sospiri e lacrime, né pur di morti
particolari, ma eziandio di ruine d‟antichi seggi e di potentissime città […]
cagione.

P. BEMBO, Asolani, I, 17
Egli [Amore scil.] così giuoca e, quello che a noi è d‟infinite lagrime e
d‟infiniti tormenti cagione, suoi scherzi sono e suoi risi, non altramente che
nostri dolori. E già in modo ha sé avezzo nel nostro sangue e delle nostre feri-
te invaghito il crudele, che di tutti i suoi miracoli quello è il più meraviglioso,
quando egli alcuno ne fa amare, il qual senta poco dolore.

P. BEMBO, Asolani, I, 18
Ma perciò che, fatto Idio dagli uomini Amore […] parve ad essi convenevole
dovergli alcuna forma dare, […] ignudo il dipinsero […]; fanciullo […]; ala-
to, non per altro rispetto se non perciò che gli amanti, dalle penne de‟ loro
stolti disideri sostentati, volan per l‟aere […]. Oltre acciò una face gli posero
in mano accesa. […]. Ma per dar fine alla imagine di questo Idio […] a tutte
queste cose, Lisa, che io t‟ho dette, l‟arco v‟aggiunsero e gli strali. 146

Come sempre articolato, quantunque piuttosto omogeneo in questo


caso, è lo spartito delle fonti mobilitate, dal mero prelievo lessematico
alla rifunzionalizzazione strategica. Questo prologo con Cupido en
travesti – che verrà parzialmente recuperato dal Tasso nel prologo di
Aminta147 – ha per modello fondamentale l‟omologa sezione prologica
della Canace speroniana, il confronto con la quale consente di indivi-
duare alcune isotopie testuali abbastanza scoperte (oltre ad esservi una
relazione di ordine metrico per la comune facies eptasillabica):

146
Si cita sempre dall‟ed. Dionisotti.
147
T. TASSO, Aminta, vv. 1-91 in ID., Teatro: Aminta - Il Re Torrismondo, a c. di M. GU-
GLIELMINETTI, Milano, Garzanti, 1983.
138 Venezia in coturno

S. SPERONI, Canace, Prologo


VENERE
Agli atti, al volto, a‟ panni
che spiran tutti amore e leggiadria,
alle saette, all‟arco
di questo ignudo fanciulletto, a quelle
tre ninfe ornate e belle,
[…]
credo che ogni persona
[…]
ormai debba esser certa
che io son quella verace, immortal Dea
[…]
Venere ho nome, e in terra,
ove uom parla a suo modo,
son chiamata or la bella
Ciprigna or Citerea. (vv. 1-18)

A condizionare questa feroce rappresentazione di Amore-furor,


certo ormai largamente passata in giudicato in ambito letterario, sarà
anche il progressivo aggiornamento (desultorio e parziale, in verità)
delle coordinate edulcoranti della teologia platonica e la diffusa con-
vinzione che Eros sia da concepirsi anche come una divinità ctonia
che intrattiene relazioni con l‟universo avernale.148
Ciò che è in gioco a questa altezza – e la Didone ne è testimonianza
fra le più significative – sono proprio i periclitanti equilibri di un as-
setto sociale e culturale (e dei modelli di comportamento a questo sot-
tesi), squassati da mutamenti antropologici e psicologici profondi.

148
Il prosieguo del prologo di Didone si incaricherà di autorizzare perfettamente questa
lettura. Cfr. i vv. 61-80 in cui Cupido intende (proprio come la Furia nel prologo del Thye-
stes/Tieste) trascinare del suo cerchio fuora l‟om-bra pallida e misera di Sicheo, in modo da
sconvolgere in sogno l‟equilibrio della regina cartaginese. Del resto, la dimensione avernale
di Cupido è esibita già al v. 7 del prologo (ed è un dato significativo anche nella Dido in Car-
thagine di Pazzi de‟ Medici). Per la questione vd. V. GALLO, Da Trissino a Giraldi, cit., pp.
162-163: «La centralizzazione di cui gode Didone si spiega non solo alla luce della sua
drammaticità, ma anche in quanto fulcro […] di un‟antropologia interessata alla messa a fuo-
co dell‟elemento passionale. La consolidata tradizione esegetica […] consegnava infatti al
primo Cinquecento l‟immagine della donna punica quale emblema dell‟amor-furor, del desi-
derio erotico che ottenebra la mente, della libidine ferina: Didone, nel suo duplice statuto di
regina-amante, assurgeva a exemplum morale della colpevole e autodistruttiva acquiescenza
all‟eros, nei suoi duplici risvolti politici e individuali». Va anche subito aggiunto che Dolce
conferisce al personaggio di Didone uno spessore politico non trascurabile.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 139

Specie a Venezia, dove non esisteva alcuna cesura fra dimensione


pubblica e privata e dove, sempre più spesso, lo spettacolo tendeva a
diventare valvola di sfogo di represse pulsioni, sessuali e non, che solo
il Concilio di Trento tenterà di arginare o ridimensionare, confinando-
le nel perimetro esclusivo della domestica privatezza.
Tra gli elementi microtestuali più notevoli della rhesis prologica di
Cupido-Ascanio mi pare da rilevare, per la non comune consistenza, la
movenza energicamente volitiva (di sapore quasi alfieriano), realizzata
mediante anafora della prima persona verbale (specie nella forma apo-
copata):

Ch‟i‟ voglio tosto, i‟ voglio. (v. 40)

Vo‟, che la città nova


Si bagni del suo sangue. (vv. 46-47)

Vo‟ che ‟l suo fine apporti


Altri pianti, altre morti. (vv. 50-51)

Vo‟ trar la pallid‟ombra


Del misero Sicheo. (vv. 63-64)

E vo‟ ch‟a Dido ella si mostri innanzi. (v. 67)

E questa i‟ vo‟, che tutto l‟empia il core. (v. 75)

L‟atto primo (prevalentemente endecasillabico) si apre con Didone


che, rivolgendosi alla sorella Anna, riepiloga – in una rhesis dalla for-
se eccessiva tensione ragionativa – le vicende che hanno preceduto il
tempo zero della fabula: un anno è passato da quando l‟armata troiana
giunse a Cartagine; poco meno da «Quando i tuoni, la pioggia, e la
tempesta» (v. 128) (simbolo trasparente della pulsione erotica) spinse-
ro la regina ed Enea «soli in disparte/Ne la spelunca, testimonia eter-
na/De‟ primi nostro abbracciamenti cari» (vv. 129-31).149
Scoperta, nel corso di tutto l‟intervento, è la declinazione nuziale
che Didone conferisce a queste vicende:
149
Vd. L. ARIOSTO, Orlando furioso, XIX, 35, vv. 5-8: «nel mezzo giorno un antro li co-
priva,/forse non men di quel commodo e grato,/ch‟ebber, fuggendo l‟acque, Enea e Dido,/de‟
lor secreti testimonio fido».
140 Venezia in coturno

E ‟l Duca Enea, quantunque esule e privo


Di quel, che ‟l mondo cieco apprezza tanto,
Ho gradito di titol di consorte
Guardando più al valor, che a la fortuna. (vv. 92-95)

Però, che con ragioni vivaci e piene


D‟alta efficacia, veder festi chiaro
Che per utile mio dovea inchinarmi,
E porre il collo al marital legame. (vv. 99-102)

Quivi conchiusi il matrimonio: quivi


Egli de l‟amor mio raccolse il frutto. (vv. 132-33)150

Esaurito il riepilogo del nucleo privato (erotico-sentimentale) della


tragica vicenda didonea, Dolce avvia una opportuna (anche se certo
drammaticamente poco efficace) rievocazione dei principali fatti poli-
tici che avevano visto coinvolta la regina punica: la fuga da Tiro per
l‟assassinio del marito Sicheo; la rivalità con il fratello Pigmalione; la
fondazione di Cartagine; l‟ostilità di Iarba (re getulo e suo pretenden-
te).
Didone conclude il suo intervento, ribadendo la sua piena fiducia
(privata e politica) nei confronti di Enea, anche se certo i versi conclu-
sivi colorano il quadro di qualche pennellata di inquietudine, iuxta
l‟irruzione (assolutamente topica, come si sa) del regno dell‟irrazio-
nale attraverso il consueto, profetico, accenno al sogno prealbare:

DIDONE
E già mi par veder la gloria nostra
Ascender sì, che toccherà le stelle,
Pur che non turbi il mio seren fortuna,
Né in tanto dolce qualche amaro metta.
Di che non temo già: ma certo sogno,
C‟ho fatto presso l‟alba, afflige il core,
E fra dubbii pensier‟ sospeso il tiene. (vv. 174-80)

150
Da notare qui la scelta, assai eloquente, di adoperare un hysteron proteron, a comuni-
care perfettamente ciò che prioritariamente importa a Didone: non l‟incontrollabile passione
erotica, ma la regolarizzazione (financo burocratica) della relazione con Enea occupa i suoi
pensieri, con evidenti implicazioni politiche.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 141

Interlocutrice di Didone è la sorella Anna, la cui risposta alle con-


siderazioni della regina è caratterizzata dalla presenza di molti settena-
ri (e contestualmente – come è consueto in Dolce – di molte rime) e si
apre quasi subito allusivamente con una deprecatio, senza giustifica-
zioni di ordine diegetico a quest‟altezza (quasi Anna presentisse oscu-
ramente tale possibilità), contro l‟eventuale (e, come si sa, concretis-
sima) ipotesi di fuga di Enea:

ANNA
Tale e sì fatto è il merto,
C‟havete nel Troiano,
Che s‟ei v‟abandonasse;
Sarebbe il più inhumano,
Il più ingrato e crudele,
Che mai produsse Antropofago, o Scitha. (vv. 189-94)

Anna rappresenta, concependo le due sorelle come un nucleo attan-


ziale unico differenziato in due personaggi, la pars rationalis, e perciò
a lei spetta il compito di demistificare il sogno come meccanismo in-
fido e dalla scarsa attendibilità.151 Infatti procede:

ANNA
Penso, che ancora abbiate
Talhor sentito, o letto,
Che son l‟imagin‟ false
De‟ fuggitivi sogni;
Che per desir, o tema
Di quel, c‟huom prezza od ode
Spesse volte si sogna.
E non si de‟ nel bene
Gir augurando il male. (vv. 211-19)152

Col v. 222 inizia la sequenza del sogno di Didone:

151
G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 2656-2677; S. SPERONI, Canace, vv. 510-546; P.
ARETINO, Orazia, vv. 562-576 e vv. 625-632; A. PAZZI DE‟ MEDICI, Dido in Carthagine, vv.
184-186. In ogni caso, ad autorizzare questa decodificazione razionalistica del sogno è Euri-
pide (e prima ancora OMERO, Odissea, XIX, vv. 560-61).
152
Avvertibile forse una suggestione ariostesca: vd. L. ARIOSTO, Orlando furioso, VIII,
84, vv. 1-2: «Senza pensar che sian l‟imagin false/quando per tema o per disio si sogna».
142 Venezia in coturno

DIDONE
A me parea, ch‟io fossi
In un bel prato herboso,
Ove un fiume correa di puro argento.
E presso a me sedea
Questo mio core et alma,
Coronando i miei crini
D‟una ghirlanda verde,
Ch‟egli tessuto avea con le sue mani,
E meco compartia dolci parole
Con sì soavi accenti,
Ch‟acquetavano i venti;
Né menò Febo mai più chiaro giorno.
E mentre a me parea
Esser nel ciel di Giove,
Si mosse un nembo oscuro,
Che rese il giorno notte
Sì tenebrosa, ch‟io
Non vedeva più luce,
Sì come io fossi giù nel cieco Inferno.
Dapoi mostrossi un raggio,
Che fe‟ sereno intorno:
Ma per fisar la vista
Più non potei vedere
Il caro mio consorte.
Onde con viso di color di morte
Cercando ‟l gìa, ma non sapeva dove;
Quando a man destra aprir vidi una fossa,
Ch‟era piena di sangue:
Et una voce udìo
Dirmi: «Infelice Donna,
Donna mesta e dolente,
Entra costà: che ‟l tuo Sicheo t‟aspetta».
Alhor partissi il sonno; e mi trovai
Gli occhi di pianto, e ‟l sen bagnati e molli. (vv. 222-255)

La sequenza è avviata da un locus amoenus,153 per la compagina-


zione del quale Dolce adopera un vocabolario petrarchesco e petrar-

153
Cfr. il classico E. R. CURTIUS, Il paesaggio ideale, in ID., Letteratura europea e Medio
Evo latino, a c. di R. ANTONELLI, Firenze, La Nuova Italia, 2006, pp. 207-226.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 143

chistico;154 sul piano strutturale sembrano esservi riflessi più ipotesti


(da Rvf, 323, vv. 25-48, all‟Arcadia sannazariana,155 ad Orlando furio-
so, VIII, 80-83, etc.).
Ma la situazione è improvvisamente minacciata dall‟apparizione di
un nembo oscuro (v. 236),156 che trasforma il giorno in una notte abis-
sale e provoca la comparsa di una pozza piena di sangue: qui il lessico
del Dolce vira opportunamente verso lidi stilistici di coerente matrice
dantesca: cieco Inferno, fisar la vista, con viso di color di morte, a
man destra aprir vidi una fossa/Ch‟era piena di sangue (non senza
una conclusione ancora modellata su Petrarca: «partissi il sonno» da
Rvf, 359, v. 71 e la dittologia bagnati e molli da Rvf, 53, v. 105).
Del tutto sorprendente è la decifrazione – fin troppo rivelatrice e
consapevole – che poco dopo Didone compie del sogno appena rac-
contato ad Anna, allegandovi una componente di minaccia che confe-
risce allo sviluppo successivo della tragedia il senso della fatalità irre-
vocabile:

DIDONE
Prima, che questo avenga,
Ch‟abandonata i‟ sia
Dal mio novello sposo,
Alcun Iddio pietoso
Tronchi subitamente
Lo stame, a cui s‟attien la vita mia. (vv. 262-67)157

154
Vd. Rvf, 283, v. 6, ma anche P. BEMBO, Asolani, III, 8, vv. 43-45: «E fiorir l‟erbe sotto
le sue piante,/E quetar tutti i venti/Al suon de‟ primi suoi beati accenti» e B. TASSO, Inni et
Ode, 42, vv. 97-8: «con sì soavi accenti/ch‟acqueteranno il mar irato e i venti», da rileggere
tutta per le varie riprese dolciane (certamente non casuali). Probabilmente prelevata da Ario-
sto è la giuntura in punta di v. 223: cfr. L. ARIOSTO, Orlando furioso, XXVIII, 95, v. 3.
155
Segnatamente della prosa XII dove si trova anche il motivo tematico della ghirlanda
verde (XII, 12, ed. Erspamer) recuperato precisamente dal Dolce.
156
Per il quale si vd. ancora B. TASSO, Inni et Ode, 42, vv. 1-5: «Dianzi il verno nevo-
so/d‟un folto oscuro nembo/coperto aveva de la terra il grembo,/e l‟aere tenebroso/il bel viso
del ciel teneva ascoso» e, in un contesto di vibrante polemica antibellicistica, Salmi, 18, v. 44:
«nembo oscuro e folto». Per la iunctura, usata in senso metaforico e in un contesto sentenzio-
so, si vd. L. ARIOSTO, Orlando furioso, X, 15, vv. 1-2: «Oh sommo Dio, come i giudicii uma-
ni/spesso offuscati son da un nembo oscuro!».
157
L‟immagine dell‟ultimo verso sembra speroniana (cfr. Canace, vv. 797-800: «Deh,
perché non troncate,/Anzi che ciò m‟avegna,/Lo stame a cui s‟attiene/Questa mia vita inde-
gna?»), anche se il punto di riferimento originario è ancora F. PETRARCA, Rvf, 37, vv. 1-2,
167, v. 13 e 296, v. 7.
144 Venezia in coturno

Anna ha il compito di allontanare ancora i timori – infondati? – di


Didone (e temere, tema sono non per caso le parole-chiave di questa
sezione: si vedano i vv. 282-285); nondimeno l‟atto si conclude con la
regina ancora in preda a uno stato di inquietudine non ulteriormente
definibile (e che forse sarà placato dalle offerte rituali agli dei):

Io già non temo, e pure


Non son senza sospetto;
E in mezo l‟allegrezza
Sento pena e tristezza;
E son felice e misera in un tempo. (vv. 286-290)

Il primo coro ha struttura particolare: una prima strofa di settenari


che smentisce, almeno parzialmente, Anna e ritiene che i sogni siano
spesso veridici mezzi con cui gli dèi comunicano con gli uomini e,
nella seconda parte, gnomicamente rileva la natura sistematicamente
transitoria della vita dolce e serena e due stanze di canzone con sche-
ma [abC. abC. cdeffD. gg].158 La seconda strofa è dedicata a Giunone
ed ha una chiara apertura stilnovistica (vd. vv. 328-9: «Però, gentile e
saggia/Schiera di donne belle»); la terza a Venere: le due rivali che
hanno prodotto con la loro inimicizia le vicende della fabula. Si pro-
pone di sacrificare una colomba (simbolo di pace e di concordia) e il
verso ha una singolare, implicita, efficacia cromatica (v. 347): «Il san-
gue bel d‟una colomba pura». Qui il rosso e il bianco sono chiamati a
cozzare, quasi ossimoricamente, ed esprimono perfettamente, attraver-
so due topicissimi figuranti (anche con possibili allusioni alle nuptiae
alchemiche tra vir rubeus e foemina alba, di cui è testimonianza poeti-
ca il noto passo di Antigone già allegato in precedenza),159 la minaccia
che incombe su Didone.160

2. L‟atto secondo ci ripropone un Cupido tiesteo, attanzialmente


molto vicino alla Furia che nella tragedia senecana estrae a forza
dall‟Ade l‟umbra di Tantalo, perché sparga la nefasta lues che conta-

158
Lo schema è [abab. cdcd. effe. ghhid. lmlm. nnaa. oppo]. Nella terza strofa l‟ultimo
verso è endecasillabico (dunque: gG).
159
Si veda in questo capitolo il riferimento a Tieste, v. 1115, con relativa nota.
160
Nel prosieguo la dialettica cromatica bianco-rosso diventerà tematica.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 145

minerà l‟intera domus Pelopia e produrrà il mostruoso delitto di Atreo


e il contestuale banchetto del fratello; dunque schematizzando:

Cupido : Furia = Ombra di Sicheo : umbra di Tantalo

La prima scena dell‟atto pone il problema dello sviluppo cronolo-


gico della fabula con la plausibile sovrapposizione fra tempi di svi-
luppo. Cupido invita Sicheo a mostrare a Didone la sua pallida ima-
go,161 mentre lui, da vera divinità ctonia, inoculerà nella povera regina
il morbo del furor amoris:

CUPIDO
Che in tanto io le porrò su ‟l bianco petto
Questo serpe sanguigno, horrido, e fiero
C‟ho divelto pur‟hora
Dal capo di Megera,
Il qual il cor di lei roda e consumi. (vv. 373-77)162

L‟ombra di Sicheo sembra essere pienamente consapevole del pro-


prio ruolo di strumento nelle mani di Cupido:

OMBRA DI SICHEO
Dio più ch‟altro possente;
Dio, che disprezzi le saette horrende
Del gran padre de i Dei;
Non lasciar d‟adempir l‟officio degno:
Ch‟io ti seguo, sì come
Rettor de‟ passi miei.
Tuo fui, mentre ch‟io vissi, e tuo son morto.
Fa‟, ch‟io vegga costei
Rubella d‟honestà, di fé, e d‟Amore: 163
Fa‟, ch‟io me le avicini;

161
Della giuntura si ricorderà, certo anche per effetto di una comune dipendenza da Virgi-
lio, Aeneis, I, 353-56, il Tasso della Gerusalemme: vd. IV, 49, vv. 1-2: «Spesso l‟ombra ma-
terna a me s‟offria,/pallida imago e dolorosa in atto».
162
Palese anche qui l‟allitterazione di [r]. Vd. per la dittologia verbale conclusiva L. DOL-
CE, Tieste, v. 417: «Che d‟ogn‟intorno lo consuma e rode», e ancora F. PETRARCA, Rvf, 38, v.
8; 72, v. 39; 103, v. 7 e Triumphus Cupidinis, III, v. 70.
163
Da rilevare il fatto, degno di nota, che con parole simili, Didone, molti versi dopo, a-
postroferà il proprio spergiuro amante Enea: cfr. Didone, v. 1240: «Nimico di pietà, di fé ru-
bello».
146 Venezia in coturno

Fa‟, ch‟io possa sfogar la pena mia. (vv. 382-92)

Con il v. 393 entra finalmente in scena Enea. Egli esordisce con


una riflessione filosofica sulla vanitas, mobilitando – fra le altre –
l‟auctoritas di Cicerone a partire dal v. 396:164

ENEA
Oh quanto son diversi i pensier‟ nostri
Dal voler di colui, che ‟l tutto regge,
Quanti disegni se ne porta il vento.
Oh fallaci speranze, oh vita incerta
Lieve e mutabil più, ch‟al vento foglia:
Chi fia, che preveder possa il suo fine? (vv. 393-98)

Il condottiero troiano si riscuote da una sorta di torpore erotico-


sentimentale che lo ha annebbiato per quasi un anno (è qui largamente
praticata la diseroicizzazione del personaggio, che è un tratto pertinen-
te del teatro dolciano, più coinvolto dall‟esemplarità delle vicende pri-
vate – borghesi – dei suoi protagonisti, che dalla decantata patina tra-
gico ed eroica che li ricopre). Ma non è una decisione autonoma di
Enea a spingerlo a salpare per portare a termine la sua missione, bensì
l‟irruzione di una forza avventizia (= Mercurio) che lo rende consape-
vole dei suoi fatali errori: la sua dipendenza da Didone è divenuta ser-
vitù (vv. 430-431: «E in poter d‟una donna, onde sei sposo,/Anzi più
tosto divenuto servo», con correctio degradante per Enea); la libido lo

164
CICERONE, De oratore, III, 1. 7: «O fallacem hominum spem fragilemque fortunam et
inanis nostras contentiones!». Ci sia permesso rinviare addirittura ad A. MUSSATO, Ecerinis,
vv. 432-435: «O fallax hominum premeditatio/Euentus dubii sortis et inscia/Venture! Instabi-
les nam uariat uices/Motus perpetue continuus rote». Va tenuto presente il fatto che Dolce a-
veva tradotto a questa altezza (e pubblicato presso Giolito nel 1547) proprio il De oratore ci-
ceroniano. Si veda L. DOLCE, Il dialogo dell‟oratore di Cicerone, tradotto, Venezia, Gabriele
Giolito de‟ Ferrari, 1547 e ID., Il dialogo dell‟oratore di Cicerone, tradotto da M. Lodovico
Dolce, e nuovamente da lui ricorretto, e ristampato con una utile espositione di quanto a più
piana intelligenza di tale opera s‟appartiene, Venezia, Gabriele Giolito de‟ Ferrari, 1554. Per
ragioni di maggiore accessibilità si cita peraltro dalla bellissima edizione I tre libri
dell‟Oratore di M. Tullio Cicerone, tradotti in volgare da M. Lodovico Dolce, e in questa
nuova edizione illustrati con una prefazione istorico-critica, Venezia, Pietro Bassaglia, 1745,
p. 160: «O fallaci speranze degli uomini! Volubile fortuna, e vani nostri disegni, i quali spesso
in mezzo il cammino ci sono interrotti; e prima si sommergono nell‟onde di questa vita morta-
le, che possano vedere il porto!».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 147

ha soggiogato e lo ha trasformato in uomo effeminato e molle.165 Deve


assolutamente scuotersi di dosso la propria neghittosa inerzia (conno-
tata esemplarmente come fatto erotico) e assumere le sue responsabili-
tà storiche e politiche: e qui Dolce colloca uno dei più strepitosi ana-
cronismi dell‟intero suo corpus tragico, con una forte impronta ideo-
logica filo-veneziana.
Dopo aver invitato Enea a muoversi verso l‟Italia, se non per per-
sonale ambizione, almeno per tutelare il figlio Ascanio, da cui nasce-
ranno coloro che governeranno il mondo (= i Romani), Mercurio
(sempre in sermocinatio, poiché è Enea che ne riferisce le parole, dia-
logando con Acate) aggiunge:

MERCURIO
“E i cui tardi nipoti, dopo molto
Girar di cielo, e lungo spazio d‟anni,
A un‟altra gran città daranno inizio,
Con più felice augurio, in mezo l‟acque.
Ove la pace sempre, ove l‟amore,
Ove virtude, ove ogni bel costume
Terranno il pregio in fin che duri il mondo.
Quivi la bella Astrea regnerà sempre
Coronata i bei crin‟ di bianca oliva:
Quivi ne‟ tempi torbidi et aversi
A‟ travagliati fia tranquillo porto”. (vv. 453-63)

Sperticata apologia politica di Venezia, novella Troia come Roma


(e anche più di Roma, che aveva – sotto molti rispetti – esaurito la
propria funzione di guida del mondo ai tempi della composizione della
tragedia dolciana), e la cui vita civile, dominata dalla serenità e dalla
pace, era da ritenersi modello di riferimento superiore rispetto a quello
incarnato dall‟imperialismo romano, perché prodotto esclusivo dell‟a-
zione di una divinità sociale e culturale quale Astrea.166
Venezia diventa dunque l‟approdo pacifico e accogliente, la capita-
le di virtude e del bel costume: il disegno è esibitamente ideologico e

165
Vd. G. B. GIRALDI CINZIO, Didone, p. 54: «In tal manier hor vinto è da Dido-
ne/Ch‟egli, come huomo effeminato e molle/Tutto è sotto l‟arbitrio di costei».
166
Con il che siamo autorizzati a pensare a Venezia come ipostasi storica dell‟aurea ae-
tas: cfr. ovviamente OVIDIO, Metamorfosi, I, vv. 149-150.
148 Venezia in coturno

moralistico e va ben oltre la realtà storica di una Serenissima certo tol-


lerante e aperta, ma anche libertina e notturna, disinibita e pornografi-
ca, labirintica e puttanesca.
Enea vive una fase di smarrimento, dopo aver riportato le parole di
Mercurio: emerge il cuore pulsante della caratterizzazione che Dolce
compie del personaggio, descrivendolo co-me in preda a una sorta di
radicale dubbio, suo tratto pertinente. Emersione di una coordinata
psicologica e ideologica sostanzialmente estranea all‟assiologia uma-
nistica e classico-rina-scimentale e, semmai, anticipazione di una
Stimmung altra, assolutamente moderna.167 Valgano, pars pro toto, i
topicissimi vv. 476-81:

ENEA
Da l‟altra poi l‟offesa, che partendo
Son per far a Didon, cui debbo tanto,
M‟induce a non voler, quel ch‟io vorrei:
E sto, sì come combattuta nave
In mezo l‟onde da diversi venti,
C‟hor da quel lato, hor da quest‟altro inchina.

Dove si sentiranno almeno:

F. PETRARCA, Rvf, 26, v. 2


nave da l‟onde combattuta et vinta

D. ALIGHIERI, Inferno, V, v. 30
se da contrari venti è combattuto

167
Vd. S. TOMASSINI, a c. di, L. DOLCE, Didone, cit., nota 159, pp. 36-37: «l‟irrisolta in-
decisione di Enea […], assunta dal Dolce quasi come unico carattere distintivo del personag-
gio (sorta di monumento ideologico antiumanistico al „dubbio‟, eletto vero e proprio pro-
gramma dell‟agire [o del non agire, aggiungo io] del personaggio), muove dal testo virgiliano
in cui dimorava originariamente nell‟esile misura di una meteora passeggera (cfr. VIRGILIO,
Aeneis, IV, vv. 285-286) […]. Vale a dire che ciò che in Virgilio descrive solo uno stato
d‟animo di passaggio nel personaggio, il quale non può rimanere inerte agli eventi, e da subito
infatti reagirà, nella drammatizzazione tragica del Dolce questa descrizione viene assunta co-
me cifra di un più intimo sentire, di un più turbato stato psicologico, che pervade ogni livello
dell‟agire del personaggio, fino a decentrarlo nei confronti dei suoi „doveri eroici‟. La distra-
zione di Enea nei confronti della decisione di partire costituisce il nucleo drammatico selezio-
nato dal Dolce per ritrarre il personaggio in scena […]».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 149

L. DOLCE, Tieste, vv. 654-59


Vorrei gir e non gir: e d‟una parte,
Sì come vedi, il tardo pie‟ si move;
Da l‟altra il cuor contrario mi ritira.
Così nave talor diversi venti
Volgono a questa, ora a quell‟altra parte,
Contra la volontà del suo nocchiero.

Enea è, al di là di tutto, in una condizione di concreta tensione, la-


cerato fra principio di realtà (= honesto, v. 493) e principio di piacere
(= quel che piace, v. 493), in una cornice che sembra già controrifor-
mistica e che è perfettamente rappresentata dalle riflessioni di Acate, il
consigliere fidato, la cinica (e pratica) incarnazione della Ragion di
Stato: «Et è più degno, che riceva oltraggio/Una femina sola, che peri-
sca/Il sommo pregio de gli honori vostri» (vv. 497-99).
La risposta di Enea si precisa per mezzo del prelievo integrale di
una sententia petrarchesca di Triumphus Cupidinis, II, 52 al v. 504,
perfettamente rifunzionalizzata ad indicare l‟irridu-cibilità della dialet-
tica pubblico~privato. Con il v. 528 Acate comincia a sentenziare nel
tentativo di dare una giustificazione teorica alla necessità implacabile
della partenza:

I patti che si fan contra la voglia


De‟ sommi Dei, non debbon esser fermi;
Né inganno si pò dir, quel ch‟ebbe effetto
A‟ preghi altrui. Ella vi chiese, et ella
Ordì ‟l suo mal. […]
[…]: e non pensate,
Che si pecchi a disfar quel che sta male.
Anzi a l‟incontro egli è disnore e biasmo
A difender gli errori, e starvi dentro. (vv. 528-539)

E poco dopo, rispondendo ad Enea ancora titubante, perché vorreb-


be almeno non far soffrire troppo la regina sedotta, propone

Con ragion‟, con promesse, et con inganni


Io spero di far sì che l‟otterremo. (vv. 555-56)

Acate ha ormai pianificato una partenza dolosa e segreta. Sbalordi-


tiva è poco oltre la razionalistica misoginia del consigliere che sostie-
150 Venezia in coturno

ne (non senza ironia tragica: sarà clamorosamente smentito nei fatti) la


non-correità di Enea nell‟eventuale, ma sfocato e difficilmente ipotiz-
zabile, suicidio della regina:

ACATE
Non credo, che qua giù si trovi affanno
Tanto possente, che conduca donna
A darsi morte con la propria mano.
E, s‟ella poté rimaner in vita
Dopo l‟acerba morte di Sicheo,
Che di sì caldo amor le accese il petto,
Hor men, signor, s‟occiderà per voi.
Ma posto ancor che s‟occidesse; questo
Homicidio sarà de le sue mani. (vv. 593-601)
[…]
Se Dido la ragion torrà per guida,
Crudel mai non sarà contra se stessa:
Se a l‟ira ella darà la briglia in mano,
Del precipizio suo la colpa tutta
A lei sola verrà, non ad Enea. (vv. 607-11)

Patetico è il tentativo di alleviare le responsabilità di Enea nella


tragedia personale di Didone. Ed è a questo punto che Enea, retorica-
mente persuaso della sua estraneità ai destini della regina punica, dà
avvio ai preparativi della partenza: davvero un piccolo eroe della
menzogna e dell‟inganno, quasi un adultero che riveli all‟amante in-
gannata di avere moglie e figli lontani, deciso a fingere fino in fondo
con lei e incapace di rivelare semplicemente la realtà dell‟indifferibi-
lità della partenza voluta dagli dèi (motivo che sembra rivelare totale
inconsistenza e una natura eminentemente pretestuosa nella riscrittura
del Dolce).
Chiude l‟atto Acate con un breve monologo di schietto sapore con-
troriformistico, nel quale viene ribadita la necessità di richiamare
l‟uomo alle sue responsabilità quand‟egli esce di miseria fuore (v.
668), liberandosi del peso (dietro miseria è forse il paronimico misu-
ra?) del furor (ch‟in qualche error trabocchi, v. 656); e d‟altra parte si
sottolinea ancora l‟impensabilità di una salvezza che non passi attra-
verso il soccorso divino: nessun homo faber è più riproponibile, esau-
Le tragedie di Lodovico Dolce II 151

ritasi la fase di entusiasmo umanistico, e la prospettiva religiosa si


profila nuovamente come l‟unica praticabile.
Il secondo coro (formato da endecasillabi e settenari variamente
rimati senza schema fisso) insiste sulla totale subordinazione dell‟uo-
mo al destino ed ha andamento tipicamente gnomico. Si vedano gli
esemplari vv. 690-95:

Dura legge mortale,


Poi che si nasce a tale,
Per viver sempre in guai:
Beato chi più tosto s‟avicina
Al fine, a cui camina
Chi prima è nato, o nascerà giamai. 168

3. Il terzo atto (vv. 707-1338) si apre con l‟ingresso di Barce, nutri-


ce di Sicheo, la quale dialoga con il coro di donne, preconizzando altre
sciagure: inizia poi al v. 722 una lunga rhesis in cui la vecchia donna
dal crin canuto e bianco (v. 717)169 descrive il dolore di Didone, a
quest‟altezza diegeticamente immotivato,170 e l‟orrore del sacrificio
cui ha personalmente assistito: il vino cultuale si è trasformato in san-
gue e dal collo della bianca vacca sacrificata questo ha imbrattato il
drappo di candor di neve della Reina, con esemplare valorizzazione
metaforica della tessera cromatica rosso~bianco: con essa Dolce allu-
de alla nuova perdita di purezza verginale (si legga: onore) di Didone,
che ha avuto rapporti sessuali con Enea: la sua recuperata verginità è
stata macchiata irreversibilmente e solo le pubbliche nozze con il con-
dottiero troiano la salverebbero dalla ruina. Leggiamo alcuni versi
dell‟intervento di Barce:

168
In cui è riformulata una notissima sententia tragica già reperita anche in Dolce: cfr.
Hecuba, vv. 229-31: «O felici coloro, e ben felici/Che moion nelle fasce;/Se per languir si
nasce». Inoltre cfr. F. PETRARCA, Triumphus Temporis, vv. 136-38; G. G. TRISSINO, Sophoni-
sba, vv. 308-9; G. RUCELLAI, Rosmunda, vv. 139-41; G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv.
630-33.
169
Cfr. ancora il prelievo petrarchesco da Rvf, 16, v. 1, già riproposto in ambito tragico da
G. G. TRISSINO, Sophonisba,, v. 1421 e da P. ARETINO, Orazia, prologo, v. 49.
170
E spiegabile soprattutto come pressione esercitata dal macrotesto delle suggestioni pre-
testuali e predrammatiche.
152 Venezia in coturno

BARCE
Poi che fece Didon quell‟empio sogno
Ch‟io penso, che fia noto a tutte voi
[…]
Ben finalmente dopo lungo pianto
Le lagrime cessar, ma non la doglia.
E lasciar non volendo il sacrificio,
Là se n‟andò, dov‟era acconcio il tutto:
Ma prima impose ad Anna, che mandasse
Un de‟ più fidi a ricercar d‟Enea.
Intanto con la vittima a l‟altare
In bianca vesta il Sacerdote venne.
La mesta Dido in man tenendo un vaso
Pien del liquor di Bacco, tra le corna
Lo sparse de la vittima: la quale
Era una bianca e ben formata Vacca.
Cosa io dirò da spaventarvi tutte:
Quel ch‟era puro vin cangiossi in sangue. 171
Si smarrì ‟l Sacerdote; e la Reina
Pallida venne, e chinò gli occhi a terra.
[…]
Tacito il Sacerdote il bianco collo
Traffisse de la vittima più volte
Fin ch‟ella cadde: e sì lontano il sangue
N‟andò, che ‟l drappo di candor di neve
De la Reina (e mi sgomento a dirlo)
In molte parti di vermiglio tinse.
Appresso gli esti riguardando bene
De l‟occiso animale il Sacerdote,
Per molto ricercar non trovò il core.
Ben si vide il fegato a destra parte
Tutto di negro fèl spumoso e brutto.
Lascio di dir, che gli odorati incensi
Reser, posti nel fuoco, d‟ogni intorno
Contra il costume lor noioso odore.
E dopo lungo spazio, assai penando
Con diversi color‟ la fiamma apparse,
Qual ceruleo, qual verde, e qual sanguigno.
La qual piegando in quella parte, dove
Era Didon, di subito s‟estinse;
E rimase per tutto oscuro fumo.

171
Si ricorderà di questo verso A. CARO, Eneide di Virgilio, IV, v. 703: «E ‟l puro vin
cangiarsi in tetro sangue».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 153

E taccio ancora molti aperti segni. (vv. 722-64)

La sequenza, contrappuntata da alcune significative marche preteri-


tive (Lascio di dir, E taccio ancora molti aperti segni), nasce dal cali-
brato montaggio dei versi del IV di Eneide con una sezione
dell‟Oedipus senecano,172 secondo una originale e suggestiva ars com-
binatoria politestuale, egemonicamente sbilanciata sul versante del
tragico latino:

MANTO
Genitor, quid hoc est? non leui motu, ut solent,
agitata trepidant exta, sed totas manus
quatiunt nouusque prosilit uenis cruor.
cor marcet aegrum penitus ac mersum latet
liuentque uenae; magna pars fibris abest
et felle nigro tabidum spumat iecur. (vv. 353-58)

Non una facies mobilis flammae fuit (v. 314)

caerulea fuluis mixta oberrauit notis,


sanguinea rursus; ultima in tenebras abit. (vv. 319-20)

ambitque densus regium fumus caput


ipsosque circa spissior uultus sedet
et nube densa sordidam lucem abdidit. (vv. 325-27)173

Un prezioso lavoro di intarsio che rivela, ancora una volta, la peri-


zia costruttiva ed emulativa del Dolce. Procedendo:

BARCE
Poscia che ‟l sacrificio fu finito,
L‟infelice Reina entrò nel tempio,
[…]
Dove, come sapete, in picciol vaso174
Le ceneri di lui [Sicheo scil.] rinchiuse stanno.
A pena ella toccò la prima soglia,

172
Cfr. SENECA, Oedipus, vv. 293-402.
173
Si cita qui dall‟edizione critica oxoniense: L. Annaei Senecae Tragoediae, incertorum
auctorum Hercules [Oetaeus] Octauia, a c. di O. ZWIERLEIN, Oxford, Oxford University
Press, 1986.
174
Vd. B. TASSO, Rime, IV, 34, v. 11.
154 Venezia in coturno

Che tremò il tempio, e chiara voce udissi,


Simile a quella de l‟estinto sposo,
Che chiamò il nome suo con mesti accenti:175
E dopo questo fu veduto ancora
L‟ombra di lui con spaventoso aspetto.
Avea la barba, i crini, il viso, e i panni
Tinti di sangue, e tutti molli e brutti:176
E fuggendo da noi con guardo obliquo
Didon mirava, e con la manca mano
Le accennava al partir, che la seguisse.
Appresso (e questo è quel che tutto avanza)
Fu posto a lei da non veduta mano
Un serpe al collo, che con molti nodi
Lo cinse errando, e sibillando pose
La testa in seno; e la vibrante lingua
Quinci e quindi leccò le poppe e ‟l petto;
Poi via disparve e non le fece oltraggio. (vv. 766-89)

L‟epifania dell‟ombra di Sicheo mi pare ancora modellata sul Laio


ctonio di Oedipus, 624-625: «stetit per artus sanguine effuso horri-
dus,/paedore foedo squalidam obtentus comam», contaminato con un
altro luogo dolciano dal Tieste, vv. 758-59: «Vedi com‟è nel viso af-
flitto e smorto,/Et ha la barba et i capelli incolti». È una rhesis, questa
di Barce, caratterizzata anche da un gusto per il meraviglioso di sapore
già quasi barocco con il tocco finale del serpente177 (simbolo di inva-
samento furioso, anticipato nei primi versi del secondo atto da Cupi-
do) che una invisibile mano colloca sul petto di Didone, non senza in-
dugio francamente erotico nella descriptio del corpo della donna.178

175
Vd. almeno G. STAMPA, Rime, 1, v. 2.
176
Cfr. ancora B. TASSO, Rime, I, 41, vv. 6-8: «[…] ove i men fieri orrori/son membra
sparte, e tinti e molli i fiori/veder di sangue umano d‟ora in ora».
177
Non vi sarà anche qui una interferenza aretiniana? Vd. P. ARETINO, Ragionamenti. Sei
giornate, a c. di R. MAR-RONE, Roma, Newton Compton, 1993, p. 154: «NANNA: - Perché di-
ce il canto figurato che Chi s‟alleva il serpe in seno/le intervien come al villano/come l‟ebbe
caldo e sano/lo pagò poi di veleno».
178
Il motivo è un‟autonoma innovazione di Dolce ed è prelevato verosimilmente da VIR-
GILIO, Aeneis, VII, vv. 346-53: «Huic dea caeruleis unum de crinibus anguem/conicit inque
sinum praecordia ad intuma subdit,/quo furibunda domum mostro permisceat omnem./Ille in-
ter veste set levia pectora lapsus/volvitur attactu nullo fallitque furentem,/vipeream inspirans
animam; fit tortile collo/aurum ingens coluber, fit longae taenia vittae/innectitque comas et
membris lubricus errat». Da notare che in questo caso è la furia Aletto a spargere il suo nefa-
sto influsso, mentre nella Didone è Cupido in persona.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 155

Come di consueto nella tragedia senecana (ma con alcune significa-


tive variazioni in questo frangente),179 arriva un Nunzio (v. 806) che
rivela alla regina e al coro di aver casualmente udito, mentre stava
cacciando un cervo, le parole di due capitani troiani che parlavano del-
la loro imminente partenza. Avendo compreso da ciò che Enea è in
procinto di andarsene da Cartagine di nascosto, Didone si dispera:

Misera me, ben apparecchia il cielo


Di versar sopra me larga procella.
Ma vo‟ gir dentro a disfogar il core,
Che pel nuovo dolor tutto si strugge. (vv. 869-72)180

Il Nunzio e il coro avviano poi un lungo dialogo (vv. 873-977) in


cui il primo – vero e proprio portavoce, lievemente misogino, di una
posizione razionalistica – critica Enea, reputandolo un perfido tradito-
re e per di più di pessima famiglia, e contesta Didone per aver perduto
il senno a causa della passione erotica, secondo una logica (più che
con un lessico) perfettamente adeguata al V di Inferno (vv. 928-31:
«Né creder voglio, che movesse Dido/A questo error, che voi chiama-
te nozze,/[…] ragione alcuna/Ma quell‟amor che l‟intelletto adom-
bra»), mentre il coro (di donne) continua pervicacemente a difendere
la buona fede del condottiero troiano e soprattutto la purezza
dell‟amore che lega a lui la regina (a smentire irrevocabilmente questa
ingenua posizione sarà la successiva sequenza dei vv. 978-1033 nei
quali Enea e il fido Acate discutono dei preparativi della partenza).
La grande scena centrale del terzo atto (vv. 1115-1297) vede con-
frontarsi direttamente Didone ed Enea (il coro contrappunta con qual-
che battuta di raccordo il loro privatissimo dialogo). Nella patetica
rhesis d‟esordio della regina, Dolce usa i vv. 305-30 del IV di Eneide,
aggiornandoli a livello microtestuale con precisi prelievi ovidiani, al

179
È un Nunzio che rappresenta perfettamente il popolo cartaginese, si assume il ruolo di
sentenzioso ideologo (vv. 875-876), critica apertamente l‟unione della sua regina con Enea e
arriva – cosa inaudita per un semplice messo – a minacciare Acate e i troiani tutti, rimprove-
rando anche il popolo di Cartagine per la sua eccessiva ospitalità. Come si capisce, mai prima
d‟ora un Nunzio aveva avuto un rilievo drammatico così cospicuo in una fabula tragica.
180
Si veda il nuovo prelievo petrarchesco da Rvf, 92, v. 8: «quanto bisogna a disfogare il
core».
156 Venezia in coturno

solito adeguati ad un pubblico meno disinvolto e competente, 181 ma


soprattutto – e il livello di oltranza tocca qui uno dei suoi vertici – re-
cuperando, anche con plateali prelievi testuali, mutata di segno, la mi-
se-en-burlesque compiuta dall‟amico Aretino nella Seconda Giornata
del Dialogo:

DIDONE
Maravigliomi ben, perfido, molto,
Che tanta crudeltà s‟avolga in voi,
Che mi vogliate far sì grave oltraggio,
E che speriate ancor di ricoprirlo.
Maravigliomi ben, ch‟aggiate speme
Di potervi partir da la mia terra,
Senza ch‟io ‟l sappia; e che vi soffra ‟l core
Di non pur dir a questa afflitta «a Dio»;
E non vi possa ritener l‟amore,
Che in me vedete, e conoscete a prova,
Né la data a me fé con questa mano:
[…]
Anzi (chi ‟l crederebbe? et è pur vero)
L‟odio che mi portate è tanto e tale,
C‟hora nel mezo al tempestoso verno
V‟apparecchiate a navigar per l‟onde,
Che son turbate da‟ più fieri venti.
[…]
Ma chi fuggite voi perfido Enea?
Forse son io colei, che nacque in Argo?
O armossi il padre mio con quei, che furo
In Aulide a tagliar le prime funi,
E distrussero il vostro almo paese?
Voi me fuggite, me; che dato in dono
V‟ho quanto al mondo avea di bello e caro,
L‟honestà, la città, la propria vita.
Ma se de l‟amor mio vi cal si poco:
Vi prego Enea per queste istesse amare
Lagrime, ch‟io qui spargo, e per cotesta,

181
Il dato reperibile in OVIDIO, Heroides, VII Dido Aeneae, vv. 165-166: «Non ego sum
Phthia magnisque oriunda Mycenis/nec steterunt in te virque paterque meus», viene stravolto
nella riscrittura del Dolce ai vv. 1141 ss.: Argo è la patria di Elena, causa prima della guerra
di Troia; Aulide è il promontorio in cui Agamennone fece scelleratamente sacrificare Ifigenia
pur di partire (ed è scena di un‟altra tragedia dolciana): la scelta è nella direzione di una mino-
re densità erudita e di una più agevole identificazione dei luoghi citati.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 157

C‟hor tocco, forte e vincitrice mano


[…]
Per li communi abbracciamenti nostri,
Per le pur hora incominciate nozze
[…]
Che vi mova a pietà de la ruina
Del novo regno; e questa fera voglia
Da l‟indurato cor fugga e diparta.
Per voi di Libia le superbe genti
M‟odiano, e le Getùle, e per voi solo
A me nimici son Nomadi e Tiri.
[…]
Avess‟io, prima che da me partiste,
Almen del sangue vostro alcun figliuolo!
Ché s‟io vedessi un pargoletto Enea
Con giuochi pueril scherzarmi intorno,
Ch‟a voi d‟aspetto sol fosse simile,
E non d‟animo già, non di costumi,
Non mi parrebbe esser del tutto sola,
E mi conforterei col vostro seme. (vv. 1115-81)182

P. ARETINO, Dialogo. Seconda Giornata (ed. Aquilecchia)183


Prima ella [la signora che ospita il barone] vidde le cose sottosopra, onde si
accorse che la buona limosina voleva fare con la sua nave il leva eius: e posta
in furor per ciò, senza lume e senza animo correva per la terra come insensa-
ta; e giunta inanzi al barone col viso smorto, con gli occhi molli e con le lab-
bra asciutte, snodò la lingua ingroppata nei lacci de la passione lasciandosi
cader di bocca cotali voci: «Credesti, disleale, trafugarti di qui senza mia sa-
puta, ah? E ti basta la vista che l‟amor nostro, la fede promessa e la morte a la
qual son disposta non possa ritenerti del partir deliberato? Ma tu sei pur cru-
dele ancor inver te stesso, da che vuoi navicare or che il verno è ne la mag-
gior furia de l‟anno; dispietato che non solamente non doveresti cercar i paesi
strani, ma non ritornare a Roma per tali tempi, se bene ella fosse più in fiore
che mai: tu fuggi me, crudo; me fuggi, empio. Deh! Per queste lagrime che
mi si movano dagli occhi, e per questa destra che dee por fine al mio martire,
e per le nozze cominciate da te, e se per le dolcezze in me gustate merito nul-
la, abbi pietà del mio stato e de la mia casa che, tu partendo, cade; e se i pre-
ghi che piegano fino a Iddio hanno luogo nel tuo petto, spogliati questa vo-
lontà di partire: già per essermiti data in preda son venuta in odio non solo ai

182
Tutta la sequenza reca tracce vistose della messinscena: vd. il deittico questa mano (v.
1125) e i vv. 1149-51: «Vi prego Enea per queste istesse amare/Lagrime, ch‟io qui spargo, e
per cotesta,/C‟hor tocco, forte e vincitrice mano».
183
Si cita ancora dall‟edizione P. ARETINO, Ragionamenti. Sei giornate, cit., p. 155.
158 Venezia in coturno

duchi, ai marchesi e ai signori dei quali refutai il matrimonio, ma mi hanno a


noia i propi miei cittadini e vasalli; e mi par tuttavia esser prigiona di questo
o di quello. Ma ogni cosa si potria sopportare se io avessi un figliuol di te; il
qual giocando mostrassi ad altrui le tue fattezze e la tua faccia propia».

E questa è la risposta di Enea (vv. 1184-1239), che corrisponde ai


vv. 333-61 del IV di Eneide:

ENEA
Io non nego, Reina, e non fia mai,
Che a voi né ad altri di negar pressumi,
Che gli oblighi, ch‟i‟ v‟ho, non siano tali
Ch‟io non v‟arrivo col pensiero a pena,
Non, ch‟io gli possa dir con le parole.
E mi ricorderò del vostro nome
Per fin che di me stesso mi ricordi,
E che lo spirto mio regga quest‟ossa.
Ma brevemente rispondendo i‟ dico,
Che mai non cadde in me sì vil pensiero
Di farvi alcuna offesa, o di fuggirmi,
Et occultar la mia fatal partita:
Né men tra noi fu matrimonio; et io
Qua venuto non son per tal cagione.
Ché se mi concedessero li fati
Di regger sotto il fren de‟ miei desiri
Lo spazio de la vita, che m‟avanza,
Vorrei tornar ad habitar ancora
L‟amato mio terreno, e i dolci campi;
E rifar Troia […]
[…]
Ma l‟oracol d‟Apollo espressamente
Mi comanda, ch‟io cerchi il ricco piano
D‟Italia, ov‟esser dé la patria mia.
[…]
Non cessa il padre mio ben mille volte
Appresentarsi, et ammonirmi in sogno:
Quando l‟oscuro vel la notte spiega,
E i suoi lucenti fochi accende il cielo,
Pietosamente ei m‟ammonisce e prega:
[…]
Giuro per questa e quella cara testa
Che pur dianzi è disceso giù dal cielo
L‟imbasciador di Giove, ed hammi imposto
Le tragedie di Lodovico Dolce II 159

Quel che chiamata voi furto, et offesa.


[…]. A mezo giorno
Io l‟ho veduto entrar in queste mura,
Et ho udito la voce, e le parole. (vv. 1184-1236)

Ma ancor sempre drammatizzazione di un nucleo narrativo areti-


niano:

P. ARETINO, Dialogo. Seconda Giornata


Il simulatore, il maestro de le astuzie, ostinato ne l‟albagia del sogno fatto,
non batte punto gli occhi, né si volge al pregare né al piangere suo: somi-
gliando un avarone miserone al tempo de la carestia, il qual vede morire i po-
veri per le strade e non vuol dare un boccone a la fame che gli manica. A la
fine, con poche parole disse che non negava gli obblighi che aveva seco, e
che sempre era per tenergli ne la mente, e che non pensò mai di partirsi senza
dirgnele; negando con volto invetriato di averle promesso di torla per moglie,
dando la colpa del suo andarsene a celi celorum: e le giurò che l‟angelo gli
era apparito e comandatogli gran faccende.184

Sicura è la riduzione della dimensione eroica e della solidità etica


del personaggio virgiliano nella tragedia del Dolce. Condivisibile
quanto sostiene, a questo proposito, Stefano Tomassini:

In un veloce confronto [tra Aeneis, IV, vv. 333-61 e Didone] appare chiaro
che l‟attacco „lirico‟, disciolto poi in un periodo prosastico in tono minore,
nella versione del Dolce corre in una direzione di corruzione del carattere „e-
roico‟ del personaggio di Enea. Se nel testo virgiliano Enea parla e vive con
distanza gli eventi, perché abitato coscientemente da un destino superiore,
nella versione del Dolce l‟insicuro pio troiano, quasi preda del più lucido vo-
lere del dogmatico Acate, mente per viltà (vil pensiero) e incapacità di domi-
nare il proprio desiderio (il fren de‟ miei desiri), tra nostalgia e melanconia
del proprio milieu domestico (amato mio terreno …dolci campi). Per Dolce la
vocazione eroica del personaggio di Enea è quindi quella di sparire, a basso
regime, in un circolo vizioso di preoccupazioni “domestiche”. 185

È insomma un Enea „borghese‟, questo, che tenta di giustificare la


propria partenza, sostenendo un po‟ stancamente, la supremazia dei
disegni dei Fati, e sottolineando – la cosa non pare di poco momento –

184
Ibidem, p. 155.
185
Cfr. L. DOLCE, Didone, p. 75, n. 304.
160 Venezia in coturno

che nessun vincolo matrimoniale lo lega a Didone (vv. 1196-97), con


ciò riducendo implicitamente la loro relazione a mero fatto sessuale.
A queste parole, Didone così energicamente risponde:

DIDONE
Nimico di pietà, di fé rubello,
Sciocco è chi crede, che vi fosse madre
La santa, e gentil Dea, madre d‟Amore,
E la paterna di voi stirpe scenda
Da Dardano; anzi in duri e freddi sassi
Caucaso istesso, od altro horrido monte
De la nevosa Scithia vi produsse,
E vi dieder le Tigri Hircane il latte;186
Poscia che i caldi affettuosi preghi
Di chi contra ragion v‟apprezza et ama
Non han potuto trar da gli occhi crudi
Una lagrima sola, e dentro il petto
Destar breve pietà del danno mio.
[…]
Ei [Giove scil.] non è giusto, come il mondo crede.
Ove si può trovar fede sicura?
Costui da tutti i mar sbattuto e spinto,
E discacciato ancor da tutti i lidi,
Povero, ignudo, e di speranza privo,
Con le misere genti a morte tolsi,
Ristorai la sua armata, e finalmente
L‟ho ricevuto del mio Regno a parte:
Ecco il premio, che acquisto, ecco l‟amore!
Oimè, ch‟io veggio le Infernal sorelle
Cingermi intorno, e minacciarmi morte;
Veggo le serpi oimè, veggo le faci
Ne i fochi accese del bollente Averno:
[…]
Hor l‟oracol d‟Apollo, hora di Giove
L‟alato messo al danno mio comanda

186
Per tutta l‟immagine si vd. G. B. GIRALDI CINZIO, Didone, IV, 1 (ed. Cagnacini): «Ahi
disleal, non ti fù madre mai/Venere Dea, né da Dardano venne/Mai la tua stirpe: ma de gli a-
spri sassi/Del Caucaso nascesti, e da le poppe/Havesti il latte de le Tigri Hircane». Cfr. poi
CH. MARLOWE, The Tragedy of Dido, Queen of Carthage, V, vv. 156-59: «Thy mother was
no goddess, perjur‟d man/Nor Dardanus the author of thy stock;/But thou art sprung from
Scythian Caucasus,/And tigers of Hyrcania gave thee suck».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 161

Cose nimiche di pietà, e d‟Amore.


[…]
Hor seguite l‟Italia, io non vi tengo:
[…]
Spero, che s‟alcun Dio pietoso ascolta
D‟alcun misero afflitto i giusti preghi,
Quel legno, in che sarete empio, e spergiuro,
Percoterà fortuna a‟ duri scogli;
Onde affogando in mezo a turbid‟onde
Spesso in vendetta mia, morendo poi,
La fredda lingua a tempo tardo e vano
Sia costretta a chiamar di Dido il nome.
Io, quando morte scioglierà dal corpo
L‟alma dolente, e che le membra mie
Ne i fochi oscuri del funereo Rogo
Ardendo resteran minuta polve;
Ne verrò pallid‟ombra, ove sarete. (vv. 1240-90)

P. ARETINO, Dialogo. Seconda Giornata


[…] ella [la signora scil.] già lo guardava con occhio contrario; e la rabbia,
che fuor del cor di fuoco gli moveva il giusto sdegno e il duolo, le usciva per
gli occhi e per la bocca. Per la qual cosa se gli voltò e dissegli: «Tu non fosti
giamai romano, e menti per la gola di essere di cotal sangue: Testaccio, uomo
senza fede, ti ha creato di quei cocci di che si ha fatto il monte, e le cagne di
quel luogo te han dato il latte: perciò non hai fatto niuno atto compassionevo-
le mentre ho pregato e pianto. Ma dinanzi a chi contarò io i miei casi, poiché
lassuso non par che ci sia niuno che risguardi i torti con dritta ragione? Cer-
tamente oggi non è più fede alcuna; e che sia il vero, io ricolgo costui scon-
quassato dal mare, io gli faccio parte d‟ogni mia cosa, io me gli do e gli dono:
e non basta a far sì che egli non mi abandoni tradita e vituperata; e per più
strazio mi vuol far credere che il messo gli sia venuto dal Cielo riferendogli i
secreti dei Domenedio, il quale non ha a far altro che pigliare i tuoi impacci.
Ma io non ti tengo: va pur via e seguita le pedate dei sogni e de le visioni, che
certo certo tu rifarai il popolo d‟Israelle; ma ho speranza, se vai, che ne pati-
rai le pene tra gli scogli, onde chiamarai il mio nome, augurando la gentilezza
e la bontà mia più di sette volte; e io ti seguirò come nimica, e con fuoco e
con ferro farò le mie vendette, e quando sarò morta ti perseguitarò, con
l‟ombra, con l‟anima e con lo spirito… »; non poté dire, perché la passione le
serrò la via de le parole, talché lasciò il parlare nel mezzo; e come inferma,
perduta la vista, non potendo tenersi in piei, si fece letto de le braccia de le
sue donzelle: le quali la portarono a giacere, lasciando il barone non senza la
162 Venezia in coturno

faccia vituperata dal rossore de la vergogna del tradimento che faceva a la


meschina….187

Tanto sbalorditivo è il riscontro con il passo aretiniano che ciò ci


esime dal fare ulteriori analisi. Durante questo patetico sfogo, Didone
avverte per la prima volta, ai vv. 1265-68, quantunque ancora oscura-
mente, di essere ormai in una condizione di debolezza: in lei si è acce-
so il buio del furor ispirato da Cupido. E dopo l‟augurio funesto di un
naufragio che colpisca Enea, la regina prefigura allusivamente il suo
suicidio (vd. vv. 1286 ss.), con il coro che non può non notare, ancora
con un lessico di ascendenza lirica,188 il mutamento fisico di Didone:

CORO
Oimè, sì come irata
In mezo a le parole
Da noi s‟invola e fugge!
E dal suo viso insieme
È sparito il sereno.
Le guancie tinte di color di rose
Con nuova pallidezza
Son ritratto del cuore,
Che ‟l duol fere, et occide. (vv. 1298-1306)

La successiva sticomitia fra il coro ed Enea (vv. 1315-1325) con-


clude l‟atto centrale della tragedia. Poco oltre, Enea ribadirà il conflit-
to fra la sua volontà e il progetto storico e politico nel quale i fati
l‟hanno coinvolto, quasi suo malgrado: gli ultimi quattro versi sem-
brano recitati in un sincero, emotivamente coinvolgente, patetico a
parte:

Ahi troppo acerba, e troppo dura legge:


Poi che debbo voler, quel che m‟ancide.
Ah misera Didone, et io crudele,
S‟io potrò senza te restar in vita. (vv. 1335-38)

187
Vd. P. ARETINO, Ragionamenti. Sei giornate, cit., pp. 155-56.
188
Cfr. B. TASSO, Rime, I, 92, v. 5: «tu ne le guance di color di rose», ma anche L. ARIO-
STO, Orlando furioso, VII, 11, vv. 5-6.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 163

Il coro III (vv. 1339-1377) decodifica i significati dell‟inoculazione


del malefico veleno sotto forma di serpente nel corpo di Didone: l‟ira
è la peggiore fera con cui l‟uomo si trova ad avere a che fare quando
tradisce la fiducia della donna amata. Lo schema metrico è [abC. abC.
cdeeD. eE], distribuito su tre stanze. Nella seconda viene introdottoa
Medea, personaggio polivalente nel teatro dolciano (uno dei più fre-
quentemente mobilitati),189 che è perfetta ipostasi mitica della furiosa
rabbia d‟amore. Il coro si conclude con la speranza (vana) che Didone
resista e non si dia la morte.

4. Il quarto atto si apre con la regina che, in parte placata, chiede al-
la sorella Anna di convincere Enea a rinviare la partenza, non a can-
cellarla:

DIDONE
Però vorrei, che tu [Anna] n‟andassi a lui,
E che tentassi con le tue parole
D‟impetrar al viaggio, ch‟aparecchia
Tanta dimora che trapassi ‟l verno,
Ond‟abbia al navigar venti migliori;
Acciò, ch‟in tanto a sofferir impari
La mia miseria in premio de l‟amore,
Ch‟io gli ho portato, e porterò in eterno.
Questa è l‟ultima grazia, ch‟io dimando.
Del matrimonio, poi ch‟ei non mi degna,
Bench‟ingannato m‟ha, più non mi cale:
[…]
Digli, ch‟io non mandai l‟armata Greca
A disfar Troia, o del suo padre Anchise
Ho le ceneri offese, e sparse al vento.
[…]
Vanne, sorella mia; ch‟effetto avranno
(Se non l‟ebbero i miei) forse i tuoi preghi.
Tu sai ben, come ei reverir soleva
Questa tua etade, e d‟ogni suo secreto
Fosti più volte Messaggera fida.
Vanne, sorella: e t‟affatica e sforza
Vincer con l‟humiltà l‟hoste superbo.
[…]

189
Cfr. Hecuba, v. 2250 e Tieste, v. 97.
164 Venezia in coturno

Vanne, sorella mia, pria ch‟ei si parta. (vv. 1391-1421)

P. ARETINO, Dialogo. Seconda Giornata


Ma ecco la signora che, avendo anco un poco di speranza, parla con la sorella
dicendole: «Sorella, non vedi tu che egli se ne va via, e già la nave si accon-
cia per moversi? Ma perché, o cieli ingrati, s‟io potei sperare cotanto affanno,
nol posso io patire? Pur, sorella, tu sola mi aiutarai, poiché quel traditore ti
fece sempre segretaria dei suoi pensieri e sempre fidossi di te: onde va e par-
lagli, e parlandogli cerca di umiliarlo, con dirgli per parte mia che io non fui
compagna di coloro che col nome di accordo posero in rovina la sua patria; e
che io non trassi de la sepoltura l‟ossa di suo padre; e se così è, piacciagli di
ascoltarme quattro parole prima che io moia; diragli che faccia a me che
l‟adoro sventuratamente questa sola grazia, che non se ne vada ora; ma quan-
do il camino sarà più navicareccio. Io non gli voglio esser moglie, poiché mi
disprezza, né meno che resti qui, ma un poco d‟indugio che sia spazio al duo-
lo: e ciò desidero per imparare a sopportarlo». E qui si tacque lagrimando. 190

Ancora una riscrittura seria e patetica della parodica sequenza are-


tiniana. Si noteranno l‟energica volitività espressa dalla regina carta-
ginese con il modulo iussivo, anaforicamente variato ai vv. 1410,
1415, 1421, cui in maniera simmetrica ed esemplarmente significativa
risponde Anna, con un condizionale che è perfetta trascrizione dello
iato che separa intenzioni e realtà:

Figlia io vorrei, c‟hora serbaste quello


Animo invitto […] (vv. 1422-23)

Vorrei, che se ‟l Troian di fede manca,


Pensaste (ancor che sia l‟inganno vostro)
Che l‟infamia è pur sua […] (vv. 1432-34)

Vorrei, dico, poter figliuola mia


Così sciorvi d‟amar cui non dovete,
Come prima cagion fui di legarvi. (vv. 1442-44)

Partita Anna alla volta di Enea (ma con poche speranze), Didone
recita prima un pateticissimo addio alla vita secondo il modulo epico
della teichoskopìa e poi colloca sé stessa nel perimetro delle mitiche

190
Vd. P. ARETINO, Ragionamenti. Sei giornate, cit., pp. 156.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 165

donne tradite dai compagni, secondo la mobilitazione di una precisa


tradizione ovidiana:191

DIDONE
Oh città cara, oh mie novelle mura:
Com‟io vi veggo, come
Quasi in sul cominciar giunte a l‟estremo.
Com‟è il tempo seren cangiato in fosco
In un girar di ciglia;
E di breve piacer qual doglia i‟ sento!
Misera me, che forse nacqui in terra
Per dar ad altre esempio,
Più che donna giamai, d‟aversa sorte.
Lassa, ch‟io mi credea gioir felice
Di novo sposo: e forse
Hor disperata e mesta
N‟andrò a trovar l‟antico entro l‟Inferno.
[…]
Oimè, che tra le donne, ch‟ingannate
Da‟ lor mariti foro,
È senza ugual l‟alta miseria mia.
Paris lasciò la sfortunata Enone,
E Demofonte Fille;
Tradì Theseo la figlia di Pasife.
Così ingrato Giason fu già a Medea.
Ma di queste giamai tanta, e sì giusta
Da dolersi, quant‟io di mia fortuna:
Ch‟al perfido d‟Enea
Donai la vita, e poi
L‟oro, lo stato, e la persona mia. (vv. 1455-82)

Iperbolicamente Didone è più disperata di Enone, Fillide, Arianna e


Medea, perché al seduttore ha consegnato non soltanto il suo cuore,
bensì anche «L‟oro, lo stato, e la persona mia» (v. 1482) ed Enea, con
felice cortocircuito e recupero allusivo di una tessera intratestuale,192 è

191
Tutti gli exempla sono prelevati da OVIDIO, Heroides: cfr. le epistole II, V, X, XII. As-
sai probabile è peraltro la mediazione del Boccaccio dell‟Elegia di madonna Fiammetta (spe-
cie il VI libro), vera sinopia per la compaginazione di scene monologiche ad alto gradiente di
patetismo nella tragedia del Cinquecento.
192
Il serpente essendo la causa della perdita della ragione di Didone.
166 Venezia in coturno

paragonato a un «serpe tra‟ fiori» (v. 1490), culta memoria lettera-


ria.193
La sofferenza di Didone è tale che ormai lei stessa si colloca in un
orizzonte di dolore niente meno che infernale: per comunicare effica-
cemente questo passaggio, Dolce adopera la, topica tessera (senecana
e ovidiana) dei peccatori puniti nell‟Ade, nella quale vengono asse-
gnate a Didone – plasticamente e simbolicamente – tutte le pene di Si-
sifo, Tizio, Tantalo e Issione,194 ciascuna perfettamente connotata, se-
condo una movenza che rinvia quasi certamente, ancora una volta, an-
che per indiscutibili analogie funzionali, a precise fonti romanze (Boc-
caccio e, notevole, Bernardo Tasso, Rime I, 22, da leggere tutta per le
significative riprese e cui pertanto rinviamo):

DIDONE G. BOCCACCIO, Elegia di madonna


Tra le prive di luce alme dolenti Fiammetta, VI (ed. Ageno)
In sempiterne pene, «Lo ‟nferno, de‟ miseri suppremo sup-
Non è doglia, e martir, ch‟in me non sia; plicio, in qualunque luogo ha in sé più
Ch‟io sento il sasso sopra a le mie spalle cocente, non ha pena alla mia somiglian-
Ond‟è Sisifo grave, te. Tizio ci è porto per gravissimo es-
E nel cuor l‟Avoltor, che Titio pasce: semplo di pena dagli antichi autori, di-
E con Tantalo posta a la fontana, centi a lui sempre essere pizzicato dagli
Veggo, che da me fugge avoltoi il ricrescente fegato, e certo io
Il frutto, e l‟acqua, ond‟ho più fame e non la stimo piccola, ma non è alla mia
sete. simigliante; ché se a colui avoltoi pizzi-
Poi mi volge la ruota d‟ogni intorno cano il fegato, a me continuo squarciano
De‟ miei martiri in cima il cuore cento milia sollecitudini più forti
Con Ision: né spero che alcun rostro d‟uccello. Tantalo si-
D‟uscir vivendo, s‟altri nol consente. milmente dicono tra l‟acque e li frutti
È ver, che col morire morirsi di fame e di sete; certo e io, posta

193
Vd. VIRGILIO, Bucolica, III, v. 93: «latet anguis in herba», ma poi ancora D. ALIGHIE-
RI, Inferno, VII, v. 84: «che è occulto come in erba l‟angue»; F. PETRARCA, Triumphus Cupi-
dinis, III, v. 157: «so come sta tra‟ fiori ascoso l‟an-gue» e Rvf, 99, v. 6: «che ‟l serpente tra‟
fiori e l‟erba giace»; A. POLIZIANO, Stanze, I, 15, v. 3 e II, 21, vv. 3-4.
194
Topos classico tra i più resistenti e significativi nella tragedia (specie dolciana) del
Cinquecento: cfr. VIRGILIO, Aeneis, VI, vv. 595-617; OVIDIO, Metamorphoses, IV, vv. 457-61
e X, vv. 41-44; SENECA, Hercules, vv. 750-759, Medea, vv. 744-749, Thyestes, vv. 1-12, Oc-
tauia, vv. 621-23, Hercules Oetaeus, vv. 940-46 e 1068-82. Cfr. anche G. B. GIRALDI CINZIO,
Orbecche, vv. 273-84 e lo stesso L. DOLCE, Tieste, vv. 1-20.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 167

Avrà fine il mio duol, ch‟in voi fia eter- nel mezzo di tutte le mondane delizie,
no. (vv. 1499-1513)195 con affettuoso appetito il mio amante de-
siderando, né potendolo avere, tal pena
sostengo quale egli, anzi maggiore, però
che egli con alcuna speranza delle vicine
onde e de‟ propinqui pomi pure si crede
alcuna volta potere saziare, ma io ora del
tutto disperata di ciò che a mia consola-
zione sperava, e più amando che mai co-
lui che nell‟altrui forza con suo volere è
ritenuto, tutta di sé m‟ha fatta di speranza
rimanere di fuori. E ancora il misero Is-
sione nella fiera ruota voltato non sente
doglia sì fatta, che alla mia si possa ag-
guagliare: io, in continuo movimento da
furiosa rabbia per gli avversarii fati rivol-
ta, patisco più pena di lui assai. E se le
figliuole di Danao ne‟ forati vasi con va-
na fatica continuo versano acque creden-
doli empiere, e io con gli occhi, tirate dal
tristo cuore, sempre lagrime verso. Per-
ché ad una ad una le infernal i pene io mi
fatico di raccontare? Con ciò sia cosa che
in me maggior pena tutta insieme si tro-
va, che quelle in diviso o congiunte non
sono».196

A questo punto torna Anna che ha cattive notizie: i troiani sono già
partiti. Didone – ormai in preda al delirio – alterna a velleitarie in-
giunzioni militari ai collaboratori (vv. 1536-39: «deh cittadin prende-
te/L‟arme, entrate ne i legni, e prestamente/Movete i remi; e con fuo-
chi e i ferri/Seguite pronti i nostri alti nimici»),197 fasi di temporanea
riacquisizione della lucidità (vv. 1540-41: «Che parlo? O dove sono?
E qual pazzia/L‟intelletto mi toglie e la ragione?»), accessi di delirio
sadico nei quali si pente di non aver ucciso Enea e Ascanio (vv. 1549-

195
Sarà da notare la conclusione improntata ad un cupio dissolvi di pretto sapore materia-
lista e assai poco connotato in senso cristiano.
196
G. BOCCACCIO, Elegia di madonna Fiammetta~Corbaccio, Milano, Garzanti, 1988, pp.
148-49.
197
Si noterà certo la frequenza delle inarcature.
168 Venezia in coturno

54: «Non potev‟io squarciar in molte parti/Il corpo suo, e poi gettarlo
in mare?/Tagliar a pezzi le sue genti; e quello/Quell‟Ascanio, cagion
d‟ogni mio male,/Svenar con le mie mani; e le sue carni/Porre a la
mensa, e farne cibo al padre?»).198 Irrinunciabile è ancora una volta il
riscontro con la prosa aretiniana:

P. ARETINO, Dialogo. Seconda Giornata


[…] e vedendo la nave lontana dal suo porto, battendosi il petto, graffiandosi
il volto e squarsciandosi i capelli, piglia a dire: «O Iddio, andrassene costui a
mio dispetto, e un forestiero spregerà la mia signoria, e le mie forze non han-
no a poter nulla seco e nol seguiranno per tutto il mondo? Su, portate arme e
fuoco! Ma che dico io? e dove sono? E chi mi toglie la mente dal suo luogo?
Ahi, infelice, la tua fortuna crudele è poco lungi: io doveva far ciò quando io
poteva, e non ora che non posso. […]; ecco il pietoso della patria: eccolo là
che mi viene incontra con le spalle […]. Ma perché, tosto che io seppi la sua
fellonia, non lo avelenai? o vero, facendolo minuzzare, non mi mangiar la sua
carne tremolante e calda? […]». […] e poi che ebbe detto quello che le uscì
di bocca, mandata una sua balia a far non so che servigio, dispose di ammaz-
zarsi.199

In un impromptu dissimulatorio, tanto più potente scenicamente


proprio perché non preparato, Didone cambia registro e tono e recita i
sorprendenti vv. 1635-39:

DIDONE
Viver io voglio, se la vita mia
È, come dite, a beneficio vostro.
Ma impetratemi voi da le mie pene
Tanto di tregua (io non vo‟ dir di pace)
Ch‟ella sia forte a sostenerle tutte.

La repentinità ha il pregio di allentare la tensione, ritardando la


conclusione della fabula. Questo intervento dà l‟avvio alla celebre se-
quenza magica (vv. 1660 ss. = vv. 478 ss. del IV di Eneide):

198
Nel delineare le coordinate di questa impossibile vendetta Didone usa i moduli dello
sparagmos (sul modello della Medea epica che così aveva ucciso il fratello Absirto) e del
banchetto cannibalico (sul modello del Thyestes senecano e del suo Tieste).
199
Cfr. P. ARETINO, Ragionamenti. Sei giornate, cit., pp. 157.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 169

DIDONE
Da l‟ultimo Occidente a questi giorni
Ne la città, forse per mia ventura,
È venuta un‟antica sacerdote.
[…]
Mi promette di far cose stupende:
Sanar a suo voler senza fatica
Le menti offese d‟amorose piaghe,
E le sane infettar d‟eterno amore;
Così contra le leggi di natura
Tornar sovente ogni pianeta a dietro.
Fa l‟alme gir fuor de‟ sepolcri errando,
E sotto a‟ piedi suoi trema la terra;
[…]
Giovimi adunque al gran bisogno mio
Di provar l‟arti Magiche, e mi sia
Lecito far, quanto costei m‟insegna.
Prima bisogna, ch‟apparecchi dentro
La più riposta e più secreta parte
Del gran palazzo una novella pira.
E su vi ponga quella istessa spada,
Che quel crudel, e del mio ben nemico,
Presso al letto commun lasciò sospesa:
E ‟l letto ancora, ove perì ‟l mio honore,
Con l‟imagine sua, con tutte quelle
Spoglie che fur di lui. (vv. 1660-86)

Qui molto esibito è lo sdoppiamento della fabula: vi è una linea di


sviluppo esplicita cui partecipano, senza troppo sospettare, Anna e le
donne del coro; e vi è anche quella implicita, di cui assoluta regista e
protagonista è Didone e nella quale siamo coinvolti come pubblico: il
sortilegio altro non è che un mechanema architettato per dissimulare il
suicidio e per alimentare la linea diegetica esplicita dell‟azione tragi-
ca. Bellissimi i versi con cui si apre il congedo di Didone:

Ma non bisogna dar a l‟opre indugio


Hor, che la Luna ha quasi empiuto il cerchio,
E de le stelle ancor la notte è adorna. (vv. 1693-95)

Il quarto coro, di tre stanze con schema [abC.BaC.cdeFge.hH], di-


mostra in realtà perfette capacità di decifrazione dei comportamenti di
170 Venezia in coturno

Didone e paventa la morte della regina. Particolarmente significativo è


nella prima stanza il ricordo della Canace speroniana (vd. vv. 305 ss.);
la conclusione è una critica ad Amore, cagione «D‟ogni mal, d‟ogni
danno/In che cade sovente/La meschinella gente» (vv. 1734-37).

5. Il quinto atto si apre con un nuovo bellissimo monologo lirico di


Didone, che doveva essere un vero e proprio pezzo di bravura in occa-
sione delle rappresentazioni:

DIDONE
Profondo sonno, che d‟intorno vai
Nudrendo ancora, in questa parte e ‟n quella,
Ne‟ travagliati spirti alto riposo;
Poscia ch‟io solo a le mie pene desta
Trovar non posso homai pace né tregua,
È ben ragion, ch‟io mi lamenti, e dolga
Di fortuna, d‟Amore, e di me stessa.
Ah dolenti occhi miei dunque piangete,
Piangete oimè, ché rimanendo in vita
Io non debbo giamai vedervi asciutti.
Tu mesta, e sconsolata ombra infelice
Del mio caro Sicheo, che qui d‟intorno
Forse hora te ne vai misera errando
[…]
A le querele mie pietà ti fermi.
Io t‟ho offeso, e ‟l confesso: e questa mano
Tosto del fallo mio farà vendetta,
E m‟aprirà la via da seguitarti.
Così volesse Dio, che ‟l primo giorno,
Che nel carcer mortal le luci apersi,
Fosse stato per me quel giorno estremo,
Che gli occhi nostri eternamente chiude:
Ch‟io non avrei veduta la tua morte,
Né macchiato il tuo honore, e la mia fede.
Crudel amor, crudel amor, tu prima
Crudel fosti cagion d‟ogni mio male:
Tu m‟hai bendato gli occhi, e fatta cieca
Al mio honore, al mio bene, al mio riposo.
Ahi, c‟ho potuto oimè fuggir da l‟armi
Del mio crudo fratello, anzi nimico;
Ho potuto ingannar l‟astuto Iarba,
E città fabbricar nel suo terreno;
Le tragedie di Lodovico Dolce II 171

[…]
Ma già non ho potuto da‟ tuoi colpi
Coprirmi, né schermir, né far difesa.
E tu volubil Dea, che ‟l mondo giri
Calcando i buoni, e sollevando i rei:
Che t‟ho fatto io? Che invidia oimè t‟ha mosso
A ridurmi a lo stato, in ch‟io mi trovo?
Quanto mutata m‟hai da quel ch‟io fui,
Che in un sol punto m‟hai levato, e tolto
Tutto quel, che mi fea viver contenta:
Dico la castità, dico l‟honore,
Senza di cui non voglio, e più non debbo
Viver, acciò vivendo a l‟altre donne
Non sia qua giù d‟impudicizia essempio.
Ma indegnamente la fortuna incolpo,
Indegnamente amor: ch‟io sola errai;
Ch‟avea ragione, avea intelletto, e mai
Non dovea consentir a le losinghe
D‟Amor, ché non potea l‟empio sforzarmi.
Ben tu crudele Enea: ma lassa!, ch‟io,
Lassa, ch‟a ricordar solo tal nome
La lingua, e l‟alma oimè mancar mi sento.
Però è ben tempo di provar, s‟io posso
Finir le pene mie con questa mano.
Cara diletta luce ad altri porgi
Gioia, ch‟io tosto per lasciarti sono. (vv. 1743-1801)200

A maggior ragione in questi versi, Dolce mobilita un vasto reperto-


rio di modelli (al di là della relazione con Virgilio):

L. ARIOSTO, Orlando furioso, VIII, 79, vv. 1-2


Già in ogni parte gli animanti lassi
davan riposo ai travagliati spirti

B. TASSO, Salmi, 27, v. 35


e star teco in dolce, alto riposo.

F. PETRARCA, Rvf, 57, v. 9


prima ch‟i‟ trovi in ciò pace né triegua

200
Cfr. M. T. HERRICK, Italian Tragedy in the Renaissance, cit., p. 169: «Dido‟s long soli-
loquy at the beginning of the Act 5, which owes much to Virgil, is perhaps the best poetry in
the play».
172 Venezia in coturno

A. POLIZIANO, Rime, 75 (ed. Delcorno Branca)


Piangete, occhi dolenti, e non restate,
piangete sempre, accompagnate il core,
piangete sempre per fin che lasciate.201

F. PETRARCA, Rvf, 322, v. 1


Mai non vedranno le mie luci asciutte

F. PETRARCA, Rvf, 264, vv. 6-8


mille fiate ò chiesto a Dio quell‟ale
co le quai del mortale
carcer nostro intelletto al ciel si leva.

B. TASSO, Rime, V, 185, v. 86


sciolto dal carcer mortale

F. PETRARCA, Rvf, 29, v. 22


Ma l‟ora e ‟l giorno ch‟io le luci apersi

F. PETRARCA, Rvf, 189, v. 4


siede ‟l signore, anzi ‟l nimico mio

B. TASSO, Inni et Ode, 42, v. 43


sol tu, volubil Dea, per nostro danno

DANTE, Inferno, XIX, v. 105


calcando i buoni e sollevando i pravi

F. PETRARCA, Rvf, 33, v. 12


quanto cangiata, oimè, da quel di pria!

L. ARIOSTO, Orlando furioso, VIII, 41, vv. 5-8


che, se ben con effetto io non peccai,
io do però materia ch‟ognun dica
ch‟essendo vagabonda io sia impudica.

In questa densissima sequenza, la regina fa i conti con la propria si-


tuazione, si lamenta «Di fortuna, d‟Amore, di me stessa», chiede per-
dono a Sicheo (che ammette di aver tradito), prospetta il suicidio come
conclusione di questo percorso di autochiarificazione. La statura mo-
rale e umana di Didone emerge quando si attribuisce tutte le responsa-
201
Analoga tematica sviluppano anche i rispetti 46 e 79 delle Rime del Poliziano.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 173

bilità per la tragedia che l‟ha colpita. Causa della sua caduta è il fatto
di aver sottoposto la ragione al furor amoris, alla libido.
La breve seconda scena d‟atto (per noi una delle più sorprendente-
mente interessanti; vd. vv. 1819-76) è caratterizzata da una decisissi-
ma virata in direzione di tematiche prettamente politiche: un Prefetto e
un Consigliero dialogano, infarcendo le loro riflessioni di sententiae
prelevate dalla letteratura classica e che poi caratterizzeranno la tradu-
zione del Concejo e consejeros del Prìncipe (1559) di Fadrique Furiò
Ceriol compiuta dal Dolce nel 1560:202 il Prefetto, nel suo breve inter-
vento, distingue fra il Regno meritocratico che il destino aveva asse-
gnato ai fenici e la tirannide affermatasi con Pigmalione, fratello di
Didone: lui poi assieme ad altri aveva seguito in Africa.
Il dialogo fra i due viene interrotto dal nuovo ingresso del Nunzio,
il quale ha in mano una spada imbrattata di sangue, in una scena viva-
cemente connotata in senso scenico, grazie a una deissi assai articola-
ta:203

CONSIGLIERO
Ecco il servo e ministro di Didone
Con una spada sanguinosa in mano.
Certo nuovo dolor costui n‟apporta.
PREFETTO
Oimè, che spada è quella,
E di chi ‟l sangue ancor stillante, e caldo?
NUNZIO
Prefetto, questa è quella infame spada,
Che già portar solea
Il perfido, e crudel, ch‟è dipartito:
E questo, ahi lasso, è di Didone il sangue.
PREFETTO

202
Vd. Il Concilio, ovvero Consiglio, et i consiglieri del Prencipe, tradotta di Lingua
Spagnuola nella Volgare Italiana, per M. Lodovico Dolce, con privilegio, Venezia, Gabriele
Giolito de‟ Ferrari, 1560.
203
La spada insanguinata è senza dubbio il più economico ed efficace tra i veicoli segnici
ostensibili in questo contesto. Basta la spada portata dal Nunzio per fare capire allo spettatore
e al lettore tutto ciò che è accaduto. Il segno teatrale mostra in questo caso la sua fenomenale
potenza di significazione metonimica (spada+sangue = suicidio di Didone) e viene percepito
come assolutamente intenzionale dallo spettatore. Peccato che poi Dolce aggiunga troppe pa-
role che suonano come fatalmente digressive rispetto alla centrale eccezionalità dell‟esibizio-
ne scenica dello strumento con cui Didone si è inflitta la morte.
174 Venezia in coturno

Dimmi, s‟è forse la Reina uccisa?


NUNZIO
Uccisa s‟è con questa spada istessa. (vv. 1877-87)

Il Nunzio descrive con puntualità, sollecitato dal Prefetto, la morte


della regina, cui ha assistito in prima persona. Le ultime parole di Di-
done, riportate in sermocinatio dal Nunzio, sono letteralmente domi-
nate dall‟idea della morte e, nondimeno, di Enea:

NUNZIO
Così disse: e baciando il caro letto
E l‟imagin d‟Enea co i panni amati,
Seguì: «Dunque io morrò senza vendetta?
Morrò: così mi giovi andar a morte,
Et ei, che n‟è cagion, rimanga in vita.
Forse ne l‟alto mar veggendo il foco,
Indizio tristo de la morte mia,
Tingerà quel crudel di pianto il volto;
E manderà de l‟agghiacciato petto204
Per pietade di me qualche sospiro». (vv. 1994-2003)205

Il Nunzio non ha saputo evitare il suicidio della regina e ne descri-


ve gli ultimi istanti di vita con enfatico patetismo, fra onde di pianto e
laghi di sangue:

NUNZIO
Il palazzo fu pien d‟angoscia e pianto.
Correva inanzi a la dolente turba
Anna; e si percotea co mani il petto:
E lacerando ambe le guancie e ‟l crine, 206
Chiamava pur con imperfetti accenti

204
Cfr. L. DOLCE, Tieste, v. 416: «Sento nel petto un agghiacciante vermo».
205
Se tutta la scena ricalca abbastanza da vicino S. SPERONI, Canace, vv. 1728-1807, con
il Ministro che racconta a Macareo come è morta la sorella-amante, certo speroniano (ma an-
che trissiniano: cfr. Sophonisba, vv. 1634-38, a sua volta prelevato da EURIPIDE, Alkestis, vv.
177-188) è il motivo del letto che, peraltro, in Dolce non si concretizza in una vera e propria
apostrofe.
206
Recupero di un tipico modulo funebre tragico: cfr. ESCHILO, Coephoroi, vv. 22-31;
EURIPIDE, Hekabe, vv. 650-656 (già impiegato da Dolce in Hecuba, vv. 1591-1595: «Forse
avven che si lagne,/E si percota il petto,/Squarciando i bianchi crini,/Qualche vecchia ch‟è
priva/De‟ suoi figli meschini»); Hiketides, vv. 71-79; Helene, vv. 370-374.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 175

La meza morta giovane per nome.


Ascese il Rogo, e lei recata in braccio,
L‟abbracciava, e baciava; e tuttavia
Piangea, cercando in van di darle aìta.
[…]
E pur tentava la sorella indarno
D‟asciugar con la vesta il caldo sangue,
Ch‟usciva fuor de la profonda piaga:
Ma col pianto, ch‟uscia de gli occhi suoi,
A guisa d‟onda la bagnava tutta.
[…]
Tre volte ella inalzò la bella testa,
Cercando pur con le non ferme braccia
Di sollevarsi; et altre tante cadde.
Al fin con gli occhi languidi et erranti
Tanto penò, che l‟alma luce vide:
E lei veduta, dopo un gran sospiro
[…]
Quelli serrò per non aprirli mai.
Così il crudele Enea lasciò a Didone
Il ferro, e la cagion de la sua morte:
Così per troppo amar, l‟inclita Donna
con la sua propria man se stessa ha estinta. (vv. 2022-2050)

Vero e proprio coup-de-thèâtre e appendice tragica alla vicenda di-


donea è quello avviato dall‟ingresso di Bizia, un nuovo personaggio
femminile, nutrice della famiglia reale e vero e proprio Nuntius al
quadrato in questa sezione della fabula, cui spetta il compito di rac-
contare, aggiungendo dolore a dolore, l‟inopinato suicidio di Anna,
impiccatasi con il cinto cui era appesa la spada di Enea (metafora delle
reti d‟amore che avevano avvolto anche lei?).207
E davvero a questo punto la ruina privata di Didone e Anna diventa
orrendamente pubblica: la stessa Bizia rivela gli orrori della guerra
scatenata dai nemici di Cartagine in questa fase di sospensione del po-
tere politico, cancellato nelle sue coordinate dalla morte delle due so-
relle e temporaneamente affidato al burocratico Prefetto:

207
Ricalca probabilmente Speroni che fa morire anche la Nutrice assieme a Canace: cfr.
Canace, vv. 1772-73. Solo Christopher Marlowe, tra coloro che hanno ripreso il mito tragico
di Didone, evidentemente imitando Dolce, fa morire Anna (e per di più on-stage) alla fine del-
la fabula.
176 Venezia in coturno

NUNZIO
Misere, e che ci resta
Altro, che veder la città smarrita
Prender, e sacheggiar dal fero Iarba?
E quella crudeltà nel sangue nostro
Usar, ch‟a raccontar non fia creduta?
BIZIA
Indovino ben sei di queste pene:
Perché pur hora uno de‟ nostri è giunto,
Spettacol brutto, e a rimirar pietoso:
Tronche le mani avea, le orecchie, e ‟l naso,
E tutto rosso del suo stesso sangue,
N‟avisò che i Getuli ardon per tutto
I nostri campi, e occidono qualunque
Huomo, donna, fanciullo, o vecchio infermo
Trovan per le campagne, o ne le case.
E questo detto, dal dolor trafitto,
Cadde morto dinanzi a‟ nostri piedi.
Onde già la roina di Cartago,
E ‟l flagello di noi troppo è vicino. (vv. 2160-77)

Dietro queste parole avvertiamo lo sdegno pacifista (di marca anco-


ra eminentemente erasmiana), che in Dolce è pressoché sistematico, e
la testimonianza diretta di abitudini di guerra storicamente sperimenta-
te dai veneziani e dall‟Europa tutta nel corso del terribile Cinquecento.
Su questa dolentissima nota si conclude la tragedia sentimentale ed
erotica di Didone. La storia ha fatto la sua brutale irruzione nel privato
della regina cartaginese, sotto forma di fatale necessità rapendogli
l‟amatissimo e vile Enea; sotto forma di guerra di conquista mossa da
un esercito nemico (quello getulo), con la minaccia alla sopravvivenza
stessa della civiltà fondata da Didone: il suo fallimento, personale e
politico, non poteva essere più completo.
L‟esodo è affidato alla misura madrigalistica di un breve coro,208
caratterizzato da una nuova dichiarazione della vanità dell‟opposizio-
208
Lo schema è [abCcdDc]. Si avverte forse una memoria senecana, specie dell‟incipit:
vd. SENECA, Oedipus, vv. 980-995: «Fatis agimur: cedite fatis;/non sollicitae possunt cura-
e/mutare rati stamina fusi./Quidquid patimur mortale genus,/quidquid facimus uenit ex al-
to,/seruatque suae decreta colus/Lachesis dura reuoluta manu./Omnia certo tramite ua-
dunt/primusque dies dedit extremum:/non illa deo uertisse licet,/quae nexa suis currunt cau-
sis./It cuique ratus prece non ulla/mobilis ordo:/multis ipsum metuisse nocet,/multi ad fatum
uenere suum/dum fata timent».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 177

ne umana agli dèi, con toni cupi e forse vagamente eterodossi: tutto è
predestinato ab origine, quindi occorre che l‟uomo ceda ai fati, che
non si affatichi vanamente nel tentativo di costruirsi un destino alter-
nativo, la qual cosa – si ribadisce – non ha alcun senso:

CORO
Quel dì, che ‟l miser huomo
Veste qua giuso l‟alma
Di questo corporal caduco velo,
Là su con lettre salde, e adamantine
È discritto il suo fine.
Però a i fati cedete
Voi, che felici, o sventurati sète:
Ch‟ogni cosa mortal governa il Cielo. (vv. 2180-87)
178 Venezia in coturno

4. Giocasta

La «periodicità biennale»209 che segna, forse per ragioni di politica


editoriale, la pubblicazione delle tragedie di Lodovico Dolce, è ancora
rispettata con la sua quarta prova: la Giocasta, edita da Paolo Manuzio
nei primi mesi del 1549.210 La dedicatoria, assai convenzionale, è indi-
rizzata a Jean de Morville, ambasciatore a Venezia per conto di Fran-
cesco I di Valois:211

Allo Illustre, et molto Rever. Mons. il Signor Giovanni de Morvile, Abbate di


Borgomezo, Oratore della Christianiss. Maestà, appresso la Eccellentiss.
Repubblica di Vinegia

Certo era convenevole, Illustre et molto Reverendo Signore, che dovendosi a


satisfatione di molti dare in luce la presente Tragedia già di Euripide inven-
tione, et hora di nuovo parto mio, per esser‟ ella, rispetto alla sua prima ori-
gine, nobile et degna di non poca laude, ella ancora a V. S. si dedicasse, la
quale tra più honorati signori honoratissima, non meno honora il grado che
tiene che la persona che rappresenta. Et come che le virtù, delle quali V. S. è
dotata, sieno molte et tutte eroiche et convenienti alla sua grandezza, non di

209
Cfr. R. CREMANTE, Appunti sulla grammatica tragica di Ludovico Dolce, cit., p. 280.
210
L. DOLCE, La Giocasta di M. Lodovico Dolce, Venezia, Aldi Filii (= Paolo Manuzio),
1549. Verrà poi ripubblicata nelle edizioni complessive del teatro tragico dolciano (1560 e
1566) e nell‟edizione settecentesca del Savioli. Nel corso del presente lavoro si citerà dall‟edi-
zione giolitina del 1560; qualora ce ne discosteremo, lo motiveremo. Va ricordato che prima
della riscrittura del Dolce, le Phoinissai di Euripide erano state tradotte in volgare dal fioren-
tino Michelangelo Serafini, il quale però non pubblicò mai il suo lavoro, comunque collocabi-
le non prima del 1548. Se si tiene presente che la prima rappresentazione scenica di Giocasta
a Venezia è databile al 1548, si inferisce ipso facto che assai difficilmente Dolce poteva avere
contezza del lavoro del Serafini: la sua tragedia è pertanto autonoma. Per qualche approfon-
dimento cfr. A. PORRO, Volgarizzamenti e volgarizzatori di drammi euripidei a Firenze nel
Cinquecento, in «Aevum», LV, 1981, pp. 481-508. Per un‟introduzione alla tragedia cfr. P.
MONTORFANI, Giocasta, un volgarizzamento euripideo di Lodovico Dolce (1549), in «Ae-
vum», LXXX, settembre-dicembre 2006, pp. 717-39 e S. GIAZZON, La Giocasta di Lodovico
Dolce: note su una riscrittura euripidea, in «Chroniques Italiennes», XX, 2, 2011, pp. 47 (on-
line).
211
Ulteriore dimostrazione di una certa elasticità del Dolce, dei suoi editori e della cultura
veneziana in genere verso possibili alleati politici della Serenissima, se è vero che i dedicatari
delle opere mutano per ragioni eminentemente extra-letterarie e a causa della ridefinizione,
nel tempo, del quadro politico europeo. Naturalmente la dedicatoria cade nelle successive edi-
zioni della tragedia. Jean de Morville è indicato da S. SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia (1520-
1580), Torino, Bollati Boringhieri, 1987, p. 265, come uno dei più zelanti promotori politici
della causa francese in Italia.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 179

meno quella della humanità è tanta, che volendosi lodare quanto basta, sono
pochi gli inchiostri, et non se le trova comparatione. Questa fece che nel rap-
presentar di essa tragedia V. S. non pur si degnò di honorarla della sua pre-
sentia, insieme col dotto e molto Rever. Signor l‟Abate Loredano, ma me‟
della sua affabilità et cortesia. Onde essendole io per questa cagione obligato,
ho preso occasione di obligarmele molto più col publicar hora, sotto il suo
nome questa mia fatica, e pregandola a riceverla con la medesima humanità,
con che si degnò di ascoltarla. Né penso, che ella le sarà manco grata per es-
sere iscritta in Lingua Italiana, sapendo che non meno si diletta di leggere i
componimenti nostri, di quello che ella faccia i Francesi suoi proprij; et natij.
Et se la illustre memoria del glorioso Francesco, a questa età amatore arden-
tissimo delle virtù, ebbe in tanta istima i poemi italiani, che non solo volen-
tieri gli ascoltava, ma premiava etiandio et a sé chiamava cortesemente tutti
quelli che in essi avevano alchun nome: per che non debbo io credere, che V.
S., che è uno de‟ più chiari lumi della nobiltà et delle virtù francesi; gradisca
di veder nell‟istesso terreno Italiano ridotto il seme dell‟antico Euripide? Il
quale se avenuto fosse, che per difetto del mio ingegno, havesse in qualche
parte tralignato dalla sua primiera bontà: non debbo similmente sperare che
quella stessa humanità, che tanto V. S. adorna, iscusandomi, riguardi più al-
l‟animo che alle forze? Certo sì, et in ciò assicurandomi le porgo humilmente
così fatto dono; et a V. S. mi raccomando et inchino.

Di Vinegia, il dì primo de la
Quaresima, l‟anno 1549

Da sottolineare, ancora una volta, l‟azione (appena sfumata nel fi-


nale) di riappropriazione inclusiva di Dolce nei confronti dell‟inventio
della tragedia euripidea (peraltro non esplicitamente precisata: noi
sappiamo essere Phoinissai), che lui ritiene a tutti gli effetti «hora di
nuovo parto mio», iuxta la natura squisitamente emulativa della sua
drammaturgia e l‟insistenza, tipica delle pratiche traduttorie e riscritto-
rie cinquecentesche, sulle fasi della dispositio ed elocutio nell‟elabora-
zione.
Sarà sufficiente notare che, con gesto tipicamente autoriale, Dolce
decide di mutare il titolo originale, avvertito – comprensibilmente –
come troppo decentrato e marginale rispetto al cuore delle vicende
della fabula sceneggiata, con quello di Giocasta, tutto centrato sulla
protagonista femminile della tragedia.212 Il Coro di donne fenicie, del
tutto inspiegabile per il pubblico cinquecentesco e in qualche misura

212
Dolce è il primo autore europeo a operare questa scelta.
180 Venezia in coturno

un poco cervellotico (forse) anche per il pubblico ateniese di Euripide,


viene liquidato e sostituito con un più ragionevole Coro di donne te-
bane: così facendo, Dolce decide di ricusare il titolo originale, moti-
vabile – va da sé – solo con la presenza scenica di un Coro di origine
fenicia.
La scelta compiuta è perfettamente giustificabile in sede dramma-
turgica, Giocasta essendo il vero personaggio-fulcro della tragedia:

1) madre-moglie di Edipo;
2) madre di Eteocle, Polinice, Antigone, Ismene;
3) sorella di Creonte;
4) zia di Meneceo ed Emone;

È insomma l‟unico personaggio che abbia una qualche relazione


con tutti gli altri ed è anche l‟unica donna che muoia nel corso della
tragedia. Punto di partenza per la compaginazione della fabula è, co-
me parzialmente anche per Hecuba e sempre tenendo per buone le
conclusioni cui sono giunti vari studiosi riguardo l‟inaccessibilità lin-
guistica dell‟originale greco per Dolce, la già citata prima traduzione
integrale in latino delle tragedie euripidee curata dall‟umanista Doro-
teo Camillo.213 Non va peraltro trascurata la capacità di suggestione –
specie linguistica, ma certo anche retorica e strutturale, vista la corri-
spondenza d‟amorosi sensi che lega elettivamente Dolce al poeta e fi-
losofo latino – esercitata dalle Phoenissae di Seneca (tragedia-torso,
come noto, essendo stata tràdita in forma largamente mutila).
La tragedia è preceduta da un prologo separato,214 in cui Dolce pare
davvero proporre, specie nell‟incipit, come significativa conseguenza
della visione dello spettacolo la catarsi (ed è la prima volta in lui, cro-

213
Euripidis Tragoediae XVIII per Dorotheum Camillum et Lati[n]o donatae, et in lucem
editae: Hecuba, Orestes, Phoenissae, Medea, Hippolytus, Alcestis, Andromache, Supplices,
Iphigenia in Aulide, Iphigenia in Tauris, Rhesus, Troades, Bacchae, Cyclops, Heraclidae, He-
lena, Ion, Hercules furens, Basilea, Robert Winter, 1541. Ogni tragedia è preceduta da un Ar-
gumentum ed è anche possibile che proprio utilizzando queste sezioni peritestuali, Dolce ab-
bia esemplato le sue tragedie euripidee. Ricordiamo che Doroteo Camillo (1499-1578), calvi-
nista, fu professore di greco presso l‟Università di Zurigo e ambasciatore presso la Repubblica
di Venezia e la corte francese.
214
È la prima tragedia dolciana in cui troviamo un prologo separato e autonomo rispetto
alla fabula. Sicura è, per questo particolare, l‟influenza giraldiana.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 181

nicamente alieno da sforzi teorici e certo non troppo disponibile nei


confronti di Aristotele): vedere rappresentate le sofferenze altrui ha un
formidabile potere terapeutico e didattico; insegna a sopportare con
animo più equilibrato gli eventuali capricci con cui Fortuna, tirannica
e volubile, ci affliggerà:

PROLOGO, A SODISFATTION DEGLI SPETTATORI, RECITATO DA UN FANCIULLO


Debito officio è d‟uom, che non sia privo
D‟humanitade, ond‟ei riceve il nome,
Haver pietà de le miserie altrui:
Che chi si duol de gli accidenti humani,
Con che sovente alcun Fortuna afflige,
Conosce ben, che quelli, e maggior mali
Avenir ponno similmente a lui:
Ond‟ei per tempo s‟apparecchia et arma
A sostener ciò che destina il cielo.
E tanto più nel suo dolor conforto
Prende costui; quant‟ha veduto, o letto
Alcun, che più felice era nel mondo,
Esser nel fine a gran miseria posto.
Onde se punto a lagrimar v‟indusse
Il mal gradito amor di quella Donna,
Che tradita da Enea se stessa uccise:
Hor non chiudete a la pietade il core;
Che sete per veder su questa scena
L‟infelice Reina de‟ Thebani
[…]
Per soverchio dolor trafitta, e morta.
Che più? Vedrete et udirete insieme
Di crudeltade i più crudeli effetti,
Che mai per carte o per altrui favelle
Pervenir a l‟orecchie de‟ mortali.
Hora pensate di trovarvi in Thebe,
[…]
Poi lodate il fattor de gli elementi,
Che fece il natal vostro in questa Illustre
Cittade, honor non pur d‟Italia sola,
Ma di quanto sostien la terra e ‟l mare:
Ove mai crudeltà non hebbe albergo,
Ma pietade, honestà, giustitia, e pace.
In tanto, se l‟Autor non giunge a pieno
Col suo stile a l‟altezza, che convene
A tragici Poemi, egli v‟afferma
182 Venezia in coturno

(Con pace di ciascun) che in questa etade


Fra molti ancor non v‟è arrivato alcuno.
E si terrà d‟haverne laude assai,
Se tra gli ultimi voi non lo porrete;
E ascoltarete con silentio, quanto
Al bel fiume Thoscan dal Greco Ilisso
Per gradir pur a voi riduce e porta.
Ma ecco la Reina. O Sole ascondi
I raggi tuoi, come già festi prima
A la mensa crudel del Re Thieste;
Per non veder gli empi homicidi, c‟hoggi
Debbon far il terren di sangue pieno. (vv. 1-55)

Dolce accenna poi al valore consolatorio e risarcitorio che possiede


la rappresentazione della caduta di coloro che sono tradizionalmente
ritenuti i detentori della felicità e quindi, con significativa movenza
metaletteraria (con una citazione della sua Didone), illustra le coordi-
nate della nuova tragedia, invitando lo spettatore a stipulare una sorta
di patto di fictio,215 in modo da evocare lo scenario della città di Tebe,
teatro delle cupe vicende sceneggiate. Per contrasto lo stesso pubblico
è poi invitato ad esaltare Venezia, ancora una volta epifania storica e
ideologica della aurea aetas.216 Cospicuo l‟elenco delle dramatis per-
sonae: un Servo, Giocasta, un Bailo, Antigone, il Coro di donne teba-
ne, Polinice, Eteocle, Creonte, Meneceo, Tiresia, Manto, un Sacerdo-
te, un Nunzio, un secondo Nunzio, Edippo. 217
Del più vivo interesse mi pare il fatto che la prima tragedia regolare
della letteratura inglese, la Jocasta di George Gascoygne e Francis
Kinwelmershe,218 sia totalmente esemplata (quantunque il debito ven-
ga taciuto) sul modello fornito dalla Giocasta del Dolce, risultandone

215
Vd. G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 61-96.
216
Per l‟idea di Venezia nella storia cfr. sempre F. GAETA, L‟idea di Venezia, in „Storia
della Cultura Veneta‟, 3/III: Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, a c. di M. PASTO-
RE STOCCHI e G. ARNALDI, Vicenza, Neri Pozza, 1981, pp. 565-641.
217
Da notare la venezianizzazione cui Dolce sottopone il personaggio euripideo del Peda-
gogo che diventa un Bailo.
218
Cfr. A Tragedie written in Greeke by Euripides translated and digested into Acte by
George Gascoygne and Francis Kinwelmershe of Grayes Inne, and there by them presented,
1566.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 183

di fatto una traduzione.219 Nel prosieguo daremo conto della cosa,


quando lo riterremo opportuno.

1. Ad aprire l‟atto è una scena dialogata in cui parlano Giocasta e


un vecchio Servo (vv. 1-234): la donna racconta all‟interlocutore, che
peraltro già conosce tutto (e dunque ad esclusivo beneficio del pubbli-
co) gli orrori che hanno segnato la sua esistenza e che si celano dietro
il suo attuale stato di disperata miseria.220 Questa è una sequenza dagli
spiccati tratti narrativi e caratterizzata dalla messa in opera di una ma-
crologica expolitio: la mole di informazioni fornita è perfettamente
supervacanea per chi abbia familiarità con il complesso mitico riguar-
dante Edipo.221
Da notare l‟abituale corredo di sententiae, vero e proprio puntello
dell‟architettura della poesia tragica cinquecentesca, tra cui almeno un
paio meritano qualche attenzione: la prima si riferisce al perfetto per-
sonaggio tragico – secondo l‟armatura prescrittiva attribuita al pensie-
ro estetico e poetico aristotelico – ovvero Edipo: «Non pecca l‟uom
che, non sapendo, incorre/In alcun mal, da cui fuggir non puote» (vv.

219
L‟elenco degli Interloquutors della Jocasta è totalmente mututato da quello del Dolce:
Jocasta, Servus, Bailo, Antygone, Chorus (= foure Thebane dames), Pollynices, Eteocles,
Creon, Meneceus,Tyresias, Manto, Sacerdos, Nuntii, Oedipus.
220
Nell‟ordine: le nozze con Laio; la sua curiositas riguardo al destino dei figli e la mo-
struosa profezia dell‟oracolo delfico; l‟esposizione del neonato Edipo, la sua casuale salvezza
ad opera di un pastore e la sua adozione da parte di Polibo e Merope; l‟attuazione della profe-
zia; l‟autoaccecamento edipico; lo scontro politico fra Eteocle e Polinice che ha portato
all‟attuale situazione: Tebe è assediata dalle truppe argive di Adrasto e di Polinice, che vuole
risolvere militarmente il conflitto (dinastico e politico) che lo oppone al fratello.
221
Tutta la scena è, in sostanza, una sorta di drammatizzazione narrativa con pura funzio-
ne informativo-espositiva della tragica vicenda di Edipo. Cfr. EURIPIDE, Phoinissai, vv. 1-77,
dove il prologo, affidato alla sola Giocasta, ha la consueta funzione riepilogativa che serve a
meglio precisare il momento nel quale l‟azione è avviata; in essa tragedia viene conferito un
maggiore rilievo al motivo della genealogia della famiglia reale tebana (con sfoggio di prezio-
sismi onomastici che Dolce, naturalmente, liquida) e, in più, vi è un ben diversamente calibra-
to rispetto dei tempi scenici, con qualche ellissi e maggiore economia informativa: Dolce ri-
tiene indispensabile – è un suo tratto caratterizzante – informare con puntualità su tutto ciò
che può essere non solo oggetto di equivoci o fonte di dubbi (sciogliendoli, se necessario), ma
anche causa di una non perfetta intelligenza dello sviluppo della tragedia da parte degli spetta-
tori; fatalmente, talvolta, ottiene questo risultato, sacrificando parzialmente coerenza ed effi-
cacia drammatica e dilungandosi pesantemente e quasi digressivamente.
184 Venezia in coturno

122-23); la seconda (v. 127: «E morte è fin de le miserie umane»),


perfetto prelievo di un desolato verso rucellaiano di Rosmunda.222
Il ruolo modellizzante che sempre possiede Seneca nella scrittura
tragica dolciana è vistosamente all‟opera nella descrizione che Gioca-
sta compie delle maledizioni che Edipo, profeticamente, ha scagliato
addosso ai figli Eteocle e Polinice:

GIOCASTA
Ecco perché del mal concetto seme
Non si sentisse il miser cieco [Edipo scil.] allegro:
I due figliuol, da crudeltà sospinti,
A perpetua prigion dannaro il padre:
La ‟ve, in oscure tenebre sepolto,
Vive dolente e disperata vita,
Sempre maledicendo ambi i figliuoli,
E pregando le furie empie d‟Inferno
Che spirin tal velen ne i petti loro,
Che questo e quel contro sé stesso s‟armi;
E s‟aprano le vene, e del lor sangue
Tingano insieme le fraterne mani
Tanto, che morto l‟un e l‟altro cada.
E ne vadano a un tempo a i Regni stigi.(vv. 130-143)

SENECA, Phoenissae
OEDIPUS
Tumet animus ira, feruet immensum dolor.
Maiusque quod casus, et iuuenum furor
Conatur, aliquid cupio. non satis est adhuc
Ciuile bellum, frater in fratrem ruat.
Nec hoc sat est. quod debet ut fiat nefas
De more nostro, quod meos deceat toros,
Date arma patri. (vv. 356-62a)

SENECA, Thyestes
MEGAERA
Certetur omni scelere, et alterna uice
Stringantur enses, ne fit irarum modus,
Pudorue, mentes saecus instiget furor.
Rabies parentum duret, et longum nefas
Eat in nepotes. nec uacet cuiquam uetus

222
G. RUCELLAI, Rosmunda, v. 58: «La morte è fin de le miserie umane».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 185

Odisse crimen, semper oriatur nouum.


[…]
Fratrem expauescat frater, et natum parens,
Gnatusque patrem, liberi pereant male.
Peius tamen nascantur. (vv. 25-42a)223

L. DOLCE, Thyeste
MEGERA
Fa‟ che li duo fratelli,
A te nipoti degni,
Tingan nel sangue lor gli acuti ferri. (vv. 42-44)224

Ed ecco la restituzione di Gascoygne e Kinwelmershe:

JOCASTA
Now to the ende this blinde outrageous fire
Should reape no joye of his unnaturall fruite,
His wretched sons, prickt foorth by furious spight.
Adjudge their father to perpetuall prison:
There, buried in the depthe of dungeon darke,
Alas! he leades his discontented life,
Accursing still his stony harted sonnes,
And wishing all th'infernall sprites of hell
To breathe suche poysned hate into their brestes
As eche with other fall to bloudy warres.
And so with pricking poynt of piercing blade
To rippe their bowels out, that eche of them
With others bloud might strayne his giltie hands,
And bothe at once, by stroke of speedie death,
Be foorthwith throwne into the Stigian lake. (I, 1, vv. 144-158)225

L‟oltranza espressivistica di questi versi del Dolce non è evidente-


mente motivabile invocando le Phoinissai euripidee, molto più so-
brie.226 Qui, andando addirittura oltre il dettato senecano, Dolce inse-
risce l‟icastico e raccapricciante particolare dello svenamento recipro-

223
Sequenza che dipende a sua volta da OVIDIO, Metamorphoses, I, vv. 144 ss.
224
Citiamo sempre dalla nostra edizione: L. DOLCE, Tieste, a c. di S. GIAZZON, Torino,
RES Edizioni, 2010.
225
J. W. CUNLIFFE (a c.di), Supposes and Jocasta, two plays translated from the Italian,
the first by George Gascoygne, the second by George Gascoygne and Francis Kinwelmershe,
Boston and London, D.C. Heath & Co. Publishers, 1906, pp. 149-50.
226
Cfr. EURIPIDE, Phoinissai, vv. 66-68.
186 Venezia in coturno

co dei fratelli. L‟azione scenica vera e propria inizia solo dopo questa
francamente verbosa sezione analettica: Giocasta ha ottenuto dai figli
la promessa della tregua di un‟ora, nella quale Eteocle e Polinice si in-
contreranno per provare a comporre la contesa che li vede opposti:

GIOCASTA
Ho fatto sì con le preghiere mie,
Ch‟oggi, che si dovea dar la battaglia
A la cittade, o che le genti nostre
Uscissero di fuori a la campagna,
Tanto di tregua conceduto m‟hanno
I due fratelli, anzi nimici fieri,
Ch‟io tenti, pria che tra lor movan l‟armi,
S‟acquetar posso le discordie loro,
Assegnandomi a questo un‟ora sola. (vv. 177-185)

Il Servo viene inviato a convincere definitivamente Eteocle, evi-


dentemente ancora titubante. Egli, prima di compiere l‟ambasciata
impostagli, recita un sentenzioso e topico monologo, di preciso sapore
stoico, sugli affanni del potere (peraltro con quasi nessuna reale capa-
cità di analisi critica dei meccanismi ideologici che lo fondano e senza
che si compia una effettiva decostruzione smascherante delle sue strut-
ture):

SERVO
Color, che i seggi e le reali altezze
Ammiran tanto, veggono con l‟occhio
L‟adombrato splendor, ch‟appar di fuori,
Scettri, gemme, corone aurati panni;
Ma non veggon dapoi con l‟intelletto
Le penose fatiche, e i gravi affanni,
Le cure, e le molestie a mille a mille,
Che di dentro celate e ascose stanno.
Non san, che come il vento e le saette
Percuoton sempre le maggiori altezze:
Così lo stral de la fortuna ingiusta
Fere più l‟huom, quanto più in alto il trova.
Ecco Edippo pur dianzi era Signore
Di noi Thebani, e di si bel domino
Stringea superbo, et allentava il freno,
Et era formidabile a ciascuno:
Le tragedie di Lodovico Dolce II 187

Hora, sì come prigionero afflitto,


Privo di luce in fiero carcer chiuso,
È giunto a tal, che ha in odio l‟esser vivo.
Quinci i figliuoli hanno rivolte l‟armi
L‟un contra l‟altro; e la città di Thebe
È per cader (se ‟l ciel non la sostiene)
Nel grave assedio, ond‟è per tutto cinta.
Ma nel modo, ch‟al dì la notte segue,
A la felicità va dietro il pianto. (vv. 208-232)227

La seconda scena d‟atto (= vv. 235-405) è occupata da un dialogo


fra il Bailo di Polinice228 e Antigone: la guerra è alle porte e il Bailo si
sorprende di trovare una fanciulla fuori casa in questo frangente; effi-
cace pare qui la rappresentazione acustica della guerra compiuta dal
Bailo:

BAILO
Gentil figlia d‟Edippo, e pia sorella
De l‟infelice giovane, sbandito
Dal suo fratel de le paterne case:
A cui ne i puerili e tener‟anni
Fui (come saper dei) bailo e custode:
Esci, poi che ‟l concede la Reina;
E fa, ch‟io sappia la cagion, ch‟adduce
Così honesta fanciulla a porre il piede
Fuor de‟ secreti suoi più cari alberghi
Hor che per tutto la cittade è piena;
Di soldati e di bellici istrumenti;
Né viene a nostre orecchie altro concento,
Ch‟annitrir di cavalli, e suon di trombe:
Il qual par, che scorrendo in ogni parte
Formi con roche voci sangue e morti.
Non mostra il Sol quel lucido splendore,
Ch‟ e‟ suol mostrar, quando conduce il giorno;

227
I vari motivi qui proposti sono ricorrenti nel corpus tragico (ma non solo) di Seneca:
vd. Hercules furens, vv. 159-201, Agamemnon, vv. 57-107, Thyestes, vv. 339-403, 446-470,
596-622, Phaedra, vv. 483-525, Octauia, vv. 377-84 e 896-98, Hercules Oetaeus, vv. 644-
657. Il modello fondamentale è certamente e platealmente ORAZIO, Carmina, II. 10 e III. 29.
Fra i moderni vd. almeno F. PETRARCA, Triumphus Mortis, I, vv. 79-92 e G. B. GIRALDI CIN-
ZIO, Orbecche, vv. 611-25.
228
Bailo equivale a balio, ovvero colui che allevava e faceva crescere culturalmente un
fanciullo.
188 Venezia in coturno

E le misere Donne hor vanno insieme


Per la mesta città, cercando tutti
I Tempi, e a i Dij porgendo humilemente
Honesti voti e affettuosi preghi. (vv. 235-55)

La bella tessera descrittiva è debitrice, ma con una significativa tor-


sione acustica, nei confronti di una sequenza della Sophonisba trissi-
niana:

G. G. TRISSINO, Sophonisba, vv. 1139-42:


In ogni parte ov‟io rivolgo lj‟ocki
Veggio annitrir cavalli e muover arme,
Onde mi sento il cuor farsi di giaccio;
E temo sì che ‟l campo non trabocchi.

Antigone, che parteggia per Polinice, esemplarmente delinea con le


sue parole di chiara caratura politica la dialettica fra potere tirannico
rappresentato da Eteocle e, in prospettiva, da Creonte229 (moralmente
illegittimo, anche se giuridicamente fondato), e potere monarchico, di
cui sarebbe perfetto interprete e detentore legittimo Polinice, appunto:

ANTIGONE
Ambi son miei fratelli, et ambedoi
Gli amo, quanto più amar sorella deve.
Ma l‟ingiuria, c‟ha fatto a Polinice
Questo crudel, c‟ha effetto di Tiranno,
M‟induce ad amar più la vita e ‟l bene
Di Polinice, ch‟i non fo di lui:
Oltre, ch‟essendo Polinice in Thebe,
Mostrò sempre ver me più caldo amore,
Che non fec‟egli; a cui par ch‟io mi sia
Caduta in odio; anzi io mi sono accorta,
Che vorria non vedermi, e forse pensa
Tormi di vita: e lo farà, potendo.
Onde questa da me bramata nuova
M‟è cara pel desio, c‟ho di vederlo.

229
Inopinata, a questo punto della vicenda, l‟uscita di Antigone su Creonte, ma interessan-
te perché chiaro segnale della pressione interdiscorsiva che induce Dolce ad attivare, certo de-
sultoriamente, altre linee drammatiche, potenzialmente decettive per lo spettatore, ma capaci
anche di sollecitarne la cooperazione interpretativa in modi non banali. Nelle parole e nei
comportamenti di Antigone sembra esservi, per così dire, traccia della sua personale tragedia.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 189

Ma la tema del mal, quanto piu l‟amo,


Tanto più ‟l dolce mio cangia in amaro.
[…]
[…] Appresso mi spaventa
Certo sospetto (io non so donde nato)
C‟ho preso già più dì sopra Creonte,
Il fratel di mia madre. Io temo lui
Più ch‟io non fo d‟altro periglio. (vv. 323-43)

Conclude il primo atto, surrogando la scena epicheggiante dell‟eu-


ripidea teichoskopìa,230 la semplice e geometrica descrizione del cam-
po nemico da parte del Bailo, senza indugi sui nomi o sulla genealogia
dei prestigiosi condottieri (Ippomedonte, Tideo, Partenopeo, Polinice,
Adrasto, Anfiarao, Capaneo):

ANTIGONE
Caro a me in questo mezo intender fora
L‟ordine de l‟esercito; e se questo
È tal, che basti ad espugnarne Thebe:
Che grado tiene il mio fratello, e dove
Trovato l‟hai, e quai parole ei disse
[…].
BAILO
Giunto, ch‟io fui nel campo, ritrovai
L‟esercito ordinato, e tutto in armi,
Come volesse alhor dar la battaglia
A la cittade. L‟ordine diviso
È in sette schiere; e di quelle ciascuna
È di buon Capitan posta in governo.
A ogn‟un de Capitani è dato cura
D‟espugnar una porta: che ben sai,
Che la nostra cittade ha sette porte. (vv. 346-75)231

Tratto questo di spiccata originalità nella riscrittura dolciana: quan-


do Antigone aveva espresso il desiderio di vedere il campo di batta-
glia, subendo la pressione intertestuale delle coordinate diegetiche tra-
dizionalmente inerenti al suo personaggio, il Bailo aveva risposto che

230
Cfr. EURIPIDE, Phoinissai,vv. 117-181.
231
Da notare la superflua expolitio esplicativa dei due ultimi versi.
190 Venezia in coturno

questa sarebbe stata un‟operazione impossibile, perché concretamente


troppo lontano dalla città era il campo medesimo:

ANTIGONE
Un ardente desio m‟infiamma ogn‟hora
Di veder Polinice: ond‟io ti prego,
Che in una de le Torri mi conduchi
Donde si veggon le nimiche squadre:
Che pur, ch‟io pasca alquanto gli occhi miei
De la vista del caro mio fratello;
S‟io ne morrò dapoi, morrò contenta.
BAILO
Real figliuola la pietà, che serbi
Verso il fratello, è d‟ogni lode degna.
Ma brami quel che non si può ottenere,
Per la distanza ch‟è dalla cittade
Al piano, ove l‟esercito è accampato.
Appresso non conven, ch‟una pulcella
Veder si lassi in luogo, ove fra tanti
Nuovi soldati et huomini da guerra
È il buon costume, e l‟honestà sbandita.
Ma rallegrati pur, che ‟l tuo desio
Contento fia tra poco spatio d‟hora
Senza disturbo alcun, senza fatica:
Però, che qui fia tosto Polinice. (vv. 267-86)

Mi pare un‟operazione di riscrittura parodica del testo primo: Dolce


ricusa di venire corrivamente incontro all‟orizzonte d‟attesa del pub-
blico colto, che certo conosceva la scena di Antigone e il successivo
καηάλογος delle armi nelle Phoinissai euripidee, e lo elude/delude, ri-
correndo a un dato razionalistico di straordinario realismo pragmatico
(rispettando le esigenze della mise-en-scène e di un pubblico non colto
e pertanto poco attento alle enumerazioni mitologiche e/o onomasti-
che).232 La notazione, quantunque apparentemente impoetica o prosai-

232
Al di là delle materiali condizioni teatrali in cui la tragedia fu rappresentata (che evi-
dentemente non agevolavano la realizzabilità di una scena di teichoskopìa credibile), qui av-
vertiamo anche l‟orrore di Dolce per le sequenze drammaticamente poco verosimili. In Euri-
pide, quali che siano la diversa altezza poetica della sua tragedia rispetto a quella del Dolce e
le profonde, sostanziali, giustificazioni culturali, letterarie e topiche che portano a inserire la
scena di teichoskopìa e il contestuale catalogo delle armi nemiche (riconducibili forse anche
alla pressione intertestuale esercitata dagli Hepta epì Thebas di Eschilo), questa sezione risul-
Le tragedie di Lodovico Dolce II 191

ca, lumeggia efficacemente, a mio parere, la pratica di scrittura dram-


matica di Dolce, aliena dal concedere con troppa facilità alle auctori-
tates adibite a modello l‟ultima parola, soprattutto qualora sia in gioco
la verosimiglianza della rappresentazione (in questo caso spaziale e
prossemica): non esistendo le condizioni minime di realizzabilità sce-
nica di una teichoskopìa,233 poco servirebbe all‟azione riproporla, per
di più punteggiando il testo di preziosi nomi grecizzanti, difficilmente
noti ad un pubblico veneziano medio.
Il coro I234 ha ben poco a che spartire con la pàrodo delle Phoinis-
sai – anche perché, lo ribadiamo, neutralizzata ab origine è la possibi-
lità che a recitarlo siano le donne fenicie che in Euripide danno addi-
rittura il titolo alla tragedia – ed ha una forte, topica, temperatura
gnomica: è un canto sulla prepotente tracotanza di Fortuna, instabil
Diva che tutto sovrasta, e sulla vanitas di bona terreni (bellezza, pote-
re, ricchezza), invero solo presunti e destinati invece a divenire fumo
et ombra.235
La sezione più suggestivamente interessante mi pare quella in cui
Dolce fa compiere al coro una riflessione ideologica sulla relazione fra
potenti e sottoposti in cui, in una sorta di decostruzione demistificante
della concezione (oraziana, senecana, stoica, cinica) secondo cui la
tranquillitas animi e la quies inerirebbero naturalmente alla vita di co-
loro che vivono umilmente, viene contestato esplicitamente quanto so-
stenuto in precedenza dal Servo (vd. vv. 208-32): qui mi pare di co-
gliere l‟amara lucidità del Dolce che sa quanto questo motivo fosse
stato generato e falsificato dalla topica della tradizione classica, tragi-
ca e no. In altre parole, e sempre che io veda bene, Dolce sembra qui
aprire una smagliatura (non priva di ambiguità, peraltro) nel compatto,
inconsutile tessuto ideologico e filosofico della tragedia rinascimenta-

ta comunque lievemente stucchevole, digressiva, decentrata nella sua descrittivistica epicità.


Devo a Matteo Residori, che ringrazio, questa felicissima notazione: qualche decennio dopo,
Galileo Galilei muoverà nelle sue Considerazioni al Tasso una analoga obiezione razionalisti-
ca alla teichoskopìa di Erminia nella Gerusalemme liberata.
233
Per la scena di teichoskopìa vd. STAZIO, Thebais, VII, vv. 243 ss..
234
Quattro stanze di canzone con schema [AbC. BaC. cDEeD. FF] e congedo di cinque
versi.
235
I motivi sono piuttosto topici. Tra i recenti vd. F. PETRARCA, Triumphus Mortis, I, vv.
79-92, Triumphus Temporis, vv. 37-48 e 112-120, ma anche (per qualche elemento microte-
stuale) Rvf, 156, v. 4, Africa, II, vv. 348-350, Rerum memorandarum libri, III, 80, 2.
192 Venezia in coturno

le: il motivo per cui «il vento e le saette/Percuoton sempre le maggiori


altezze» (vv. 216-17) non corrisponde alla realtà fattuale, in cui il rap-
porto Principe~Suddito è sempre da intendersi come riproduzione sub
specie politica della dialettica Padrone~Servo: se il Principe patisce
«ruina o scempio», a causa dell‟ottenebramento della sua mente, il di-
sastro si ripercuote inevitabilmente anche sul «suddito meschino»:

CORO
Da grave error fu circondato e cinto
Quei, che tranquilla vita
Pose nella volgar più bassa gente.
Quando la luce a chi regge è sparita,
A noi si asconde il giorno,
E sdegna il Sol mostrarsi in Oriente:
Né può sì leggermente
Il Principe patir ruina o scempio,
Che ‟l suddito meschin non senta il danno.
E di ciò d‟anno in anno
Scopre il viver human più d‟uno esempio.
Così delle pazzie de‟ Real petti
Ne portano il flagel sempre i soggetti. (vv. 432-444)

Rilevante appare qui il rifiuto di un vasto e consolidato patrimonio


di classiche riflessioni sul potere (convenzionalmente concepito come
iattura, cura perpetua, gravame intollerabile…) e contestualmente sul-
la serenità e tranquillità d‟animo come condizioni consustanziali alla
vita umile, svelate per ciò che sono: patenti finzioni ideologiche di cui
abbonda la tragedia antica e con cui, in realtà, il potere mira a puntel-
lare se stesso.
Non è chi non veda come Dolce proponga, nel breve, ambiguo spa-
zio di manovra concessogli dalla pausa corale, una interpretazione i-
deologica dei rapporti di potere e degli equilibri gerarchici (in breve,
della storia) che ha pochi eguali, a mio giudizio, nella poesia tragica
cinquecentesca. Si badi bene, non siamo di fronte a un esplicito
j‟accuse, quantunque magari edulcorato dalla distanza fra effettiva re-
altà politica e ricreazione mitico-tragica della scena, contro l‟imbalsa-
mazione oligarchica delle istituzioni (veneziane?), quanto piuttosto in
presenza di un più generale discorso sul potere e sulle leggi di necessi-
tà che condizionano implacabilmente e spietatamente la storia: il pote-
Le tragedie di Lodovico Dolce II 193

re è sì garanzia di ordine ed equilibrio, ma in tempi perigliosi, come


quelli che vengono rappresentati nella Giocasta e che certo furono an-
che vissuti dal Dolce, «delle pazzie de‟ Real petti/Ne portano il flagel
sempre i soggetti», e la guerra pare davvero, fra le follie dei principi,
la più assurda e crudele.
Non per caso il coro si conclude con un‟invocazione a Dioniso,
protettore di Tebe, affinché protegga la città da Marte che sembra or-
mai prendere il sopravvento.236

2. Polinice entra in scena nel secondo, monumentale atto della tra-


gedia (= vv. 463-1198), titubante per la lunga lontananza da Tebe e
per i sospetti nei confronti del fratello, suo più temibile hostis.237 In
una movenza assai scenografica e fortemente connotata dalla deissi,
Polinice presenta i punti di riferimento civile, culturale, affettivo della
sua città:

POLINICE
Questa è pur la città propria e natia:
Questo è il paterno mio diletto nido.
Ma bench‟io sia tra le mie stesse case,
E ‟nsieme securtà me ne habbia data
Colui, che gode le sostanze mie:
Non debbo caminar senza sospetto;
Poi, ch‟ove e ‟l mio fratello, ivi bisogna,
Ch‟io tema più, che fra nemiche genti.
È ver, che mentre ne la destra mano
Sostegno questa giusta e invitta spada,
S‟io morrò, non morrò senza vendetta.
Ma ecco il santo Asilo, ecco di Bacco
La veneranda Imago, ecco l‟altare,
La dove il sacro foco arde e risplende;
E dove nel passato al nostro Dio
Tante già di mia man vittime offersi.
Veggo dinanzi un honorato coro
Di Donne: e sono a punto de la corte

236
Qui vi è la riformulazione di alcuni motivi della pàrodo delle Phoinissai euripidee.
237
Scorgiamo analogie, dinamiche e attanziali, con la scena I del terzo atto del Tieste (vv.
596-626), in cui Tieste recupera la patria dopo l‟esilio. Naturalmente, se è legittimo vedere in
Polinice un nuovo Tieste, è perfettamente logico pensare a Eteocle come nuovo Atreo. Inoltre
vd. L. DOLCE, Tieste, v. 601: «Veggo il natio terren e i patrii Dei».
194 Venezia in coturno

Di Giocasta mia madre. Ecco sì come


Son vestite di panni oscuri et negri,
Color, ch‟altrove mai per altri danni
A miseri non fu conforme tanto.
Ch‟in breve si vedran (mercé del folle
E temerario ardir del suo Tiranno)
Prive, altre de‟ figliuoli, altre de‟ padri,
Et altre de‟ mariti, e amici cari. (vv. 463-88)238

In coda irrompe il coro di Donne vestite petrarchescamente di


«panni oscuri et negri»239 e, ben al di là dell‟originale euripideo, viene
riproposto un motivo molto caro a Dolce: quello della polemica contro
la guerra, orrore che accumula vittime di ogni genere. 240 Il successivo
incontro fra Giocasta e il figlio (vv. 500-700 = Phoinissai, vv. 301-
442) viene condotto dal Dolce secondo una riscrittura a basso gradien-
te di originalità rispetto al modello euripideo (mediato verosimilmen-
te, va sempre ricordato, dalla traduzione latina di Doroteo Camillo).241
A questo punto, introdotto dalle parole del coro, entra in scena il ti-
ranno Eteocle: comincia un‟altra pletorica scena di dialogo tra i fratelli
(vv. 707-1061 = Phoinissai, vv. 446-637), sapientemente gestita da
una Giocasta che per l‟occasione diviene una sorta di direttrice di sce-
na e giudice insieme.242 Eteocle è dominato dalla fretta e in cuor suo
ha già stabilito che non ci sarà nessun accordo col fratello: tutta la se-
238
Mi pare nel complesso interdetta a Dolce la possibilità di motivare in maniera autenti-
camente efficace questa sequenza descrittiva che in lui suona piuttosto esornativa; in Euripide
i vari edifici elencati hanno la funzione, non trascurabile, di rassicurare Polinice, assai timoro-
so nei confronti del fratello.
239
Variazione di Rvf, 29, v. 1.
240
Oltre alla sicura emersione di una sinopia pacifista di matrice erasmiana è forse possi-
bile invocare, almeno parzialmente, un recupero di alcune coordinate del pensiero del Trissi-
no, per il pacifismo (strategico e interessato) del quale, si rinvia a M. ARIANI, Utopia e storia
nella „Sofonisba‟ di Giangiorgio Trissino, in ID., Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tra-
gico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974, pp. 9-51.
241
Solo parzialmente sfruttata la rapidità e allusività che Euripide ottiene (cfr. Phoinissai,
vv. 389-426), con l‟uso della sticomitia. Polinice racconta comunque che si era recato ad Argo
perché aveva sentito parlare di una oscura profezia che preconizzava un doppio matrimonio
per le figlie del re della città, Adrasto, secondo cui egli avrebbe dato in spose le figlie ad un
cinghiale e ad un leone. Poiché l‟insegna di Polinice reca un leone (nuova naturalizzazione
veneziana di un motivo altrimenti declinato in Phoinissai?), egli aveva interpretato positiva-
mente il segno e tentato la sorte, avendo incontrato in effetti i favori del re.
242
La dinamica della sequenza deve molto, come spesso nel teatro greco, alla retorica
giudiziaria. Non intendiamo troppo soffermarci sulla questione.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 195

quenza è contrassegnata dallo stigma dell‟expolitio, essendo essa du-


plicazione distesa di informazioni che possediamo già: scenicamente
non efficacissima, quantunque Dolce rispetti la sostanza della tragedia
euripidea.
Emerge perfettamente dal dialogo il fatto che Eteocle ragioni con
coordinate logiche e ideologiche irriducibili alla semplice dialettica
vero~falso, essendo ormai la sua mente preda di un devastante fu-
ror:243 dopo aver sostenuto il radicale relativismo di ogni giudizio u-
mano, egli compie una spudorata e interessata auto-apologia del pote-
re tirannico, con una schiettezza che è anche nel testo primo euripideo:

ETEOCLE
Se quello, che ad alcun assembra honesto
Paresse honesto parimente a tutti,
Non nascerìa giamai contesa o guerra.
Ma quanti huomini son, tante veggiamo
Essere l‟openion; e quel, che stima
Altri ragion, ad altri è ingiuria e torto.
Dal parer di costui [Polinice scil.] lungo camino
Madre (per dire il vero) è il mio lontano.
Né vi voglia occultar, che s‟io potessi
Su nel cielo regnar, e giù in Inferno,
Non mi spaventeria fatica e affanno
Per ritrovar al mio desio la strada
Di gire in questo, o di salir in quello.
Onde non è da creder ch‟io commetta,
Che del dominio, ch‟io posseggo solo
Altri venga a occupar alcuna parte:
Ch‟egli è cosa da timido et da sciocco
Lasciar il molto per haver il poco.
Oltre di questo, ne verria gran biasmo
Al nome mio; se costui, ch‟è mosso
Con l‟armi per guastar i nostri campi,
Ottenesse da me quel che vorria.

243
Come esemplarmente chiarisce Giocasta appena entra in scena il figlio (vd. vv. 715
ss.): «Raffrena, figliuol mio, l‟impeto e l‟ira/Ch‟offuscano la mente di chi parla/In guisa, che
la lingua, a mover pronta/Di rado può formar parola honesta./Ma quando con lentezza e senza
sdegno/L‟huom discorrendo quel, che dir conviene,/Voto di passion la lingua scioglie,/Alhor
escono fuor sagge risposte,/E di prudenza ogni suo detto è pieno./Rasserena il turbato aspetto
o figlio,/E non drizzar in altra parte gli occhi,/Che qui non miri il volto di Medusa,/Ma si tro-
va presente il tuo fratello».
196 Venezia in coturno

[…]
Non di meno, s‟ei vuol ne la cittade
Habitar, come figlio di Giocasta,
Non come Re di Thebe, io gliel concedo.
Ma non istimi già che, mentre io posso
Comandar ad altrui, voglia esser servo.
Mova pur contra noi le genti armate,
E i fuochi e i ferri: ch‟io per me giamai
Non son per consentir, che meco regni. (vv. 790-827)

Giocasta risponde con un discorso di alto valore etico e parenetico


in cui, conformemente all‟originale euripideo (vd. Phoinissai, vv. 528-
85), vengono contrapposte la Φιλοηιμία (vv. 838-39: «L‟ambition,
ch‟è la più cruda peste/Che ne infetti le menti de‟ mortali») e la
‟Ιζόηης (v. 850: «L‟equità: questa le città mantiene»). Mentre la prima

ne le cittadi, e nei palagi


Entra sovente, e sempre seco adduce
E lascia al possessor danno et ruina.
Questa distrugge l‟amicizia: questa
Rompe le leggi, la concordia abbatte,
E sossopra ne volge imperii et regni. (vv. 840b-45)

la seconda è interpretata non solo come principio politico, ma co-


smico:

E lega l‟huom con stretto, et saldo nodo


D‟amica fune che non rompe mai.
[…]
Questa divise fé con giusta meta
Le ricchezze, e i terreni, e questa eguali
Rende i giorni a le notti: e l‟esser vinto
Ora il lume da l‟ombra, or da la luce
Il fosco manto che la notte spiega,
Ad alcun d‟essi invidia non apporta. (vv. 851-61)

Radicalmente civile e politico, nella sua μεζόηης pacifista e auten-


ticamente orientata alla tutela degli interessi pubblici (diversamente
trascurati da entrambi i contendenti), è il calibratissimo ragionamento
di Giocasta che, se da un lato invita Eteocle a impostare il proprio po-
tere su coordinate diverse, non può, d‟altro canto, esimersi dal rim-
Le tragedie di Lodovico Dolce II 197

proverare Polinice, che si è trasformato in un insensato hostis publicus


e cui certo poco potrà giovare l‟eventuale distruzione della patria
Il vero e proprio dialogo fra i fratelli, corpo a corpo oratorio che
prefigura il tragico duello che li opporrà nel prosieguo, inizia al v.
948; Giocasta è costretta nel ruolo di madre che cerca di scongiurare
lo scontro fatale. Autonoma innovazione del Dolce è la patetica con-
clusione affidata alla regina che si rivolge a se stessa:

GIOCASTA
O misera Giocasta, ove si trova
Miseria, ch‟a la tua sen vada eguale?
Deh foss‟io priva di quest‟occhi, e priva
Di queste orecchie oimè, per non vedere,
Et udir quel, ch‟udir et veder temo.
Ma che mi resta più, se non pregare
Il dolor, che mi sia tanto cortese,
Che mi tolga di vita, avanti, ch‟io
Intenda nuova, ch‟a pensar mi strugge:
Donne restate fuor, pregate i Dei
Per la salute nostra: ch‟io fra tanto
Mi chiudo in parte, ove non vegga luce. (vv. 1040-53)

Conclude l‟atto una scena (vv. 1062-1198) che in Euripide coincide


con l‟intero secondo epeisodion,244 in cui Eteocle e Creonte (suo con-
sigliere principale a questa altezza della fabula e del mito) si consulta-
no sulle strategie belliche da adottare: esemplare prodotto del montag-
gio e della ridistribuzione cui Dolce sottopone il materiale testuale eu-
ripideo.
Il coro II245 riprende, con minore ricchezza e originalità e con il
consueto abbassamento di registro, provocato dalla cassazione di tutte
le allusioni genealogiche, geografiche e mitologiche in esso contenute,
il primo stasimo delle Phoinissai, in cui si inveisce contro Ares in di-
fesa della pace e della prosperità. Ecco la prima stanza:

CORO
Fero e dannoso Dio;

244
Cfr. EURIPIDE, Phoinissai, vv. 690-783.
245
Formato da quattro stanze con schema [abC. abC. cdeeD. fF] e un congedo di tre versi,
modellato su F. PETRARCA, Rvf, 126.
198 Venezia in coturno

Che sol di sangue godi,


E volgi spesso sottosopra il mondo:
Perché crudele e rio,
Turbi la pace, et odi
Lo stato altrui tranquil, lieto, e giocondo?
Perch‟empio e furibondo
Col ferro urti e percuoti
La cittade innocente
Di quel giusto e possente
Dio, che n‟ingombra il cor de‟ suoi divoti
Di contento e di gioia,
E scaccia di qua giù tormento o noia? (vv. 1199-1211)

Relativamente poco articolata è la sovrapposizione, su cui molto


gioca invece Euripide, di feroce invasamento prodotto da Marte e fe-
stoso enthousiasmòs dionisiaco (Dioniso è il protettore di Tebe).

3. Il terzo atto, ancora piuttosto ampio (= vv. 1254-1602), si apre


con l‟ingresso di Tiresia e Manto, preannunziato in precedenza da E-
teocle.246 Dolce colloca qui una delle sue amplificationes: a differenza
delle Phoinissai dove, piuttosto rapidamente e senza troppo peritarse-
ne, Tiresia confessa a Creonte che dovrà purificare Tebe con una vit-
tima umana, individuata in Meneceo suo figlio,247 il tragediografo ve-
neziano opta per una soluzione dilatoria e l‟indovino risponde allusi-
vamente così:

TIRESIA
Per cagion d‟Eteocle molti mesi
Chiudendo per timor la bocca ogn‟hora,
Rimasi in Thebe di predir il vero.
Ma poi che tu mi chiedi il gran bisogno,
Ch‟io t‟apra il vel de le celate cose,
A bene universal de la cittade,
Son contento di far, quanto ti piace.
Ma prima è di mestier, ch‟al vostro Dio
Hora si faccia sacrificio degno

246
Giocasta, vv. 1174-78: «Però vo che tu mandi il tuo figliuolo/Per Tiresia indovin, ch‟a
te ne venga;/Che ben so che venir per nome mio/Non vorebb‟egli, perché alcune vol-
te/Vituperai quest‟arte, e lo ripresi».
247
Cfr. EURIPIDE, Phoinissai, vv. 834-959.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 199

Del più bel capro, che si trovi in Thebe:


Dentro gli exti di cui guardando bene
Il Sacerdote; e riferendo, come
Gli troverà, a me stesso; io spero darti
Di quanto far conviene aviso certo. (vv. 1309-22)

Ove pare già di scorgere qualche segnale della pressione esercitata


dal macrotesto tragico senecano e segnatamente dalla suggestiva scena
ieroscopica dell‟Oedipus,248 che ben più potentemente verrà recupera-
ta nei versi successivi. Immediata è la transizione al sacrificio: il Sa-
cerdote presiede il rituale mentre Tiresia funge da guida pratica; in se-
guito l‟indovino, sfruttando le indicazioni fornite dal ministro del cul-
to,249 decodificherà il sacrificio, informando astanti e pubblico:

TIRESIA
Reca la salsa mola; e spargi d‟essa
Il collo de la bestia, il resto poni
Nel sacro foco; et ungi poi d‟intorno
Il coltel destinato al sacrificio.
[…]
SACERDOTE
Questo officio ho fornito.
TIRESIA
Il capro svena.
SACERDOTE
Tu figlia di Tiresia entro quel vaso
Con le vergini man ricevi il sangue:
Quinci divota l‟offerisci a Bacco.
MANTO
Santo di Thebe Dio, ch‟apprezzi ed ami
La pace, e sdegni di Bellona e Marte
I noiosi furor, le ingiurie, e l‟armi,
Dator d‟ogni salute, e d‟ogni gioia;
Gradisci o Bacco, e con pia man ricevi
Questo debito a te sacro olocausto:
E, come questa alma città t‟adora;
Così per te, che lo puoi far, respiri,
E da nimici oltraggi illesa resti.

248
Cfr. SENECA, Oedipus, vv. 291-402.
249
Medesima funzione attanziale e informativa mi pare avere Manto in Seneca, Oedipus,
vv. 303-383.
200 Venezia in coturno

SACERDOTE
Hor col tuo santo nome apro col ferro
La vittima.
TIRESIA
Mi di‟, sì come stanno
L‟interiora.
SACERDOTE
Ben formate e belle
Son per tutto. Il fegato è puro, e ‟l core
Senza difetto; è ver, ch‟egli non have
Più ch‟una fibra; appresso cui si vede
Un non so che, che par putrido e guasto:
Il qual levando, ogn‟intestino resta
Intatto e sano.
TIRESIA
Hor pon nel sacro foco
Gli odoriferi incensi: indi m‟avisa
Del color de le fiamme, e d‟altre cose
Convenienti a vaticinio vero.
SACERDOTE
Veggo la fiamma di color diversi,
Qual sanguigno, qual negro, e qual in parte
Bigio, qual perso, e qual del tutto verde. (vv. 1336-73)

I prelievi testuali senecani paiono indiscutibili. Nell‟ordine si leg-


gano:

Oedipus, v. 335
et sparge salsa colla taurorum mola

Thyestes, v. 688
tangensque salsa uictimam culter mola

Oedipus, v. 352
sede ede certas uiscerum nobis notas

Oedipus, vv. 356-60


cor marcet aegrum penitus ac mersum latet
liuentque uenae; magna pars fibris abest
et felle nigro tabidum spumat iecur,
ac (semper omen unico imperio graue)
en capita paribus bina consurgunt toris
Le tragedie di Lodovico Dolce II 201

Oedipus, vv. 306-7


MANTO
Iam tura sacris caelitum ingessi focis
TIRESIA
Quid flamma? largas iamne comprendit dapes?

Oedipus, vv. 314-20


Non una facies mobilis flammae fuit:
imbrifera qualis implicat uarios sibi
Iris colores, parte quae magna poli
curuata picto nuntiat nimbo sinu
(quis desit illi quiue sit dubites color),
caerulea fuluis mixta oberrauit notis,
sanguinea rursus; ultima in tenebras abit.250

Non revocabile in dubbio è inoltre una qualche edulcorazione


dell‟orrore che percorre la pagina latina: con scoperto ludus analogico,
le interiora del capro sacrificato non sono collocate in mostruoso di-
sordine (come in Seneca) e sono di fatto sane, perché fondamental-
mente sane sono le metaforiche membra di Tebe; hanno bisogno solo
di un piccolo intervento di eliminazione di una piccola fibra «putrida e
guasta» (= Meneceo), che rischia di compromettere la salute del si-
stema nel suo complesso.
Come già in Didone,251 Dolce monta in maniera personale il mate-
riale testuale prelevato da Seneca e colloca in conclusione la descri-
zione dei colori della fiamma del fuoco cultuale, secondo una modula-
zione cromatica di sapore dantesco e petrarchesco.252
Tiresia decifra il significato del rito, ma esibisce in cauda, a diffe-
renza del più risoluto personaggio euripideo, una prolungata aposiope-
si rivelatrice del suo turbamento, autocensurandosi – con notevole fi-
nezza psicologica – rispetto al terribile contenuto della ieroscopia (=
l‟uccisione purificatoria del giovane Meneceo, figlio di Creonte, come
unica soluzione alla crisi che incombe ):

250
Citiamo per comodità dall‟edizione critica di Otto Zwierlein.
251
Cfr. L. DOLCE, Didone, vv. 750-63.
252
D. ALIGHIERI, Inferno, VII, v. 104 e F. PETRARCA, Rvf, 29, v. 1 e Triumphus Cupidinis,
IV, v. 123.
202 Venezia in coturno

TIRESIA
Hor basti questo haver veduto e inteso.
Sappi Creonte, che la bella forma
De gli exti, appresso quel, che mi dimostra
Il Signor, ch‟ogni cosa intende e vede,
Dinota, come la città di Thebe
Contra gli Argivi vincitrice fia,
Se averrà, che consenti. Ma non voglio
Seguir più avanti.
CREONTE
Deh per cortesia
Segui Tiresia, e non haver rispetto
Ad huom, che viva, a raccontar il vero.
[…]
TIRESIA
Contra di quel, c‟ho detto, il fero incesto,
E ‟l mostruoso parto di Giocasta
Cotanto ha mosso in ciel l‟ira di Giove,
Che innonderà questa citta di sangue;
Correrà vincitor per tutto Marte
Con fochi, uccision, rapine, e morti:
Cadranno gli edifici alti e superbi,
E ‟n breve si dirà, qui fu già Thebe.
Solo una strada a la salute io veggio:
M‟a te non piacerà Creonte udirla,
Et a me forse il dir non fia sicuro.
Però mi parto. (vv. 1374-1400)

Ma non si può però prolungare all‟infinito la finzione:

TIRESIA
Intenderai Creonte,
Che la via di salvar questa cittade
È tal: conven, che ‟l tuo figliuolo uccidi;
Conven, che per la patria del suo corpo
Vittima facci. Hor ecco quel, che cerchi
Di saper: e da poi, che m‟hai sforzato
A dirti cosa, ch‟io tacer volea,
S‟offeso t‟ho con le parole mie,
Di te ti duol, e de la tua fortuna. (vv. 1425b-33)

Nei versi seguenti Creonte, un po‟ sorprendentemente forse, sem-


bra proclive a subordinare la Ragion di Stato ai suoi privati bona: cfr.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 203

vv. 1439 «Pera la patria: io non consento a questo» e 1441 «È crudel


chi non ama i suoi figliuoli», etc.. Poi, uscito di scena Tiresia, restano
in scena Creonte e Meneceo che fin da subito, senza le peritanze che
distinguono l‟analogo personaggio euripideo, pare teso nello sforzo di
eludere le attenzioni paterne, in modo da realizzare indisturbato il pro-
prio progetto di suicidio politico (già perfettamente delineato): 253 da
autentico sapiens che sentenzia filosoficamente sulla morte come ap-
prodo felice di una vita tragicamente intesa come travaglio, 254 Mene-
ceo, con impressionante maturità, ritiene un privilegio poter morire
per la patria, secondo coordinate tipiche dell‟etica eroica antica:

MENECEO
Sapete padre mio la vita nostra
Esser fragile e corta, e veramente
Non altro tutta, che travagli e pene:
E morte, ch‟ad alcun par tanto amara,
Porto tranquil de le miserie humane:
A la qual chi più tosto arriva, è giunto
Più tosto da gli affanni al suo riposo.
Ma posto che qua giù non si sentisse
Punto di noia, e non turbasse mai
Il bel nostro seren l‟empia fortuna:
Essendo io nato per morir, non fora
Opra di gloria e chiaro nome degna
A donar a la patria, ov‟io son nato
Per lungo bene un breve spazio d‟anni?
Io non credo, ch‟alcun questo mi neghi.
Hor se a vietar sì gloriosa impresa
Cagion sola di me padre vi move;
V‟aviso, che cercate di levarmi
Tutto il maggior honor, ch‟acquistar possa.
Se per vostra cagion, dovete meno:
Però, che quanto maggior parte havete
In Thebe, tanto più dovreste amarla.
A presso havete Hemon, ch‟in vece mia
Padre mio caro rimarrà con voi,

253
Giocasta, vv. 1484-86: «Anzi dovete consentir ch‟io mora,/Padre, da poi che ‟l mio
morir fia quello/Ch‟apporti a la città vittoria e pace».
254
Per alcune declinazioni del motivo vd. almeno CICERONE, Cato maior de senectute,
XIX, 71; SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, II, 19. 2; D. ALIGHIERI, Convivio, IV, 28, 2-
3; F. PETRARCA, Rvf, 126, 20-26; 317, v. 1 ; 332, vv. 69-70; 365, vv. 9-10.
204 Venezia in coturno

Onde, benché di me sarete privo,


Non sarete però privo di figli. (vv. 1490-1515)

La coda dell‟intervento di Meneceo suona tragicamente ironica, dal


momento che Emone morirà suicida con Antigone proprio per gli ec-
cessi legalistici del padre. Nel successivo dialogo fra Creonte e il fi-
glio si infittiscono progressivamente le allusioni alla morte:255

CREONTE
Io non posso figliuol, se non biasmare
Questo, c‟hai di morir troppo desio
Che se de la tua vita non ti cale,
Ti dovrebbe doler di me tuo padre;
Il qual, quanto piu inanzi vo poggiando
Ne la vecchiezza, tanto ho piu bisogno
Della tua aita. Io già negar non voglio,
Che ‟l morir per la patria non apporti
A gentil cittadin gloria et honore:
M‟alhor, quando si muor con l‟arme in mano,
Non, come bestia, in sacrificio uccisa.
E se pur deve consentir alcuno
Per tal cagione a volontaria morte
Debbo esser io quell‟un; che essendo visso
Assai corso di tempo, è breve e poco
Quel che mi resta di fornir ancora:
Et utile maggior la patria nostra
Può sperar figliuol mio da la tua vita,
Che sei giovane e forte, che non puote
Sperar da un vecchio homai debole e stanco.
Vivi adunque figliuol; ch‟io morir voglio,
Come di te già di morir piu degno.
MENECEO
Degno non è si indegno cambio farsi.
CREONTE
Se in tal morir è gloria, a me la dona.
MENECEO
Non voi, me chiama a questa morte il cielo.
CREONTE
Ambi siamo un sol corpo, ambi una carne.

255
I versi in questione presentano una proliferazione del tutto eccezionale, e certo non ca-
suale, di vari lessemi riconducibili alla morte.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 205

MENECEO
Padre io debbo morir non voi.
CREONTE
Morendo
Tu, non pensar figliuol, ch‟io resti in vita.
Lassa adunque ch‟io mora, che in tal modo
Morrà figlio chi deve, e morrà un solo. (vv. 1516-45)

Procedendo: Meneceo ormai deciso ad attuare il proprio progetto


sacrificale, finge di accogliere l‟invito di Creonte di andare a rifugiarsi
a Dodona in Epiro; a differenza di Euripide che inserisce un demistifi-
cante a solo nel quale il giovane rivela di aver ingannato il padre,256
qui nulla viene rivelato delle sue reali volontà e Dolce decide di con-
notare allusivamente, anfibologicamente, le ultime parole del giovane
che fa riferimento alla partenza, senza che il lettore possa decidere se
si tratta di quella reale per Dodona o di quella, simbolica e definitiva,
per l‟oltretomba:257

MENECEO
Ecco ch‟io parto.
Donne pregate voi pel mio ritorno.
Vedete ben, come malvagia stella
M‟induce a gir de la mia patria fuora:
E, s‟egli aviene, ch‟io finisca avante
Questa mia giovenil dolente vita,
Honoratemi voi del vostro pianto.
In tanto anch‟io per la salute vostra
Pregherò sempre, ov‟io men vada, i Dei. (vv. 1594-1602)

Il coro III258 si concentra su Fortuna, padrona delle vicende umane


ed è tipicamente adeguato alle coordinate della grammatica tragica ri-
nascimentale, non esistendo paralleli con l‟originale euripideo:259

256
EURIPIDE, Phoinissai, vv. 991 ss..
257
Del progetto di morte di Meneceo siamo semmai informati nel suo dialogo col padre:
Dolce cerca di mantenere la tensione riguardo al destino di morte che incombe sul ragazzo.
Come noto, la vicenda di Creonte e Meneceo è tematicamente rilevante nello sviluppo di una
fabula programmaticamente poco coesa e policentrica quale Phoinissai.
258
Composto da cinque stanze di canzone con schema [AbC. ABC. dee. FF] e congedo.
259
Cfr. EURIPIDE, Phoinissai, vv. 1018-1066.
206 Venezia in coturno

CORO
Quando colei, ch‟in su la rota siede
Volge il torbido aspetto
A l‟huom, che ‟l suo seren godea felice:
Non cessa di girar l‟instabil piede
Fin, ch‟ad ogni miseria il fa soggetto:
E come pianta svelta da radice
Egli non più ritorna,
Onde l‟ha spinto quella
Del nostro ben rubella:
E se pur torna, non pò gir di paro
Il dolce suo col già gustato amaro.
Dura necessità ben pose il cielo
Sovra l‟humane cose:
Che per vedere il nostro male avanti
(Come bendasse gli occhi oscuro velo)
Perché non sian le voglie al ben ritrose,
Non possiamo trovar riparo a i pianti.
Onde la sorte ria
Chi contende, per forza
Tira; e chi a la sua forza
Cede, adduce in un punto a la ruina,
Che ‟l ciel per nostro mal spesso destina.
Saggio nocchier, s‟a gran periglio mira
Il combattuto legno
Hor quinci, hor quindi da contrari venti,
Là, ‟ve grave del ciel lo caccia l‟ira,
Solea l‟ondoso regno,
Quantunque del suo fin tremi e paventi:
Perché conosce e ‟ntende,
Ch‟a chi col ciel contrasta
Human saper non basta:
Ond‟ei ponendo in Dio tutto ‟l conforto,
Sovente arriva al desiato porto.
Sciocco è chi crede, che ‟l gran padre eterno,
Che là su tempra e move
Ad uno ad uno i bei lucenti giri,
Non habbia di qua giù tutto ‟l governo,
A tal, che non si trove
Poter che senza lui si stenda, o giri.
O noi ciechi del tutto
E miseri mortali
Soggetti a tanti mali:
Che per esser digiun di pene e guai,
Le tragedie di Lodovico Dolce II 207

Meglio fora ad alcun non nascer mai.


Poteva ben con la morte del figlio
(Se predir suole il vero
Tiresia del futur certo indovino)
Trar la patria d‟affanno e di periglio:
Ma lontano è ‟l pensiero
Da l‟utile comun lungo camino,
Quando far non si puote
Senza alcun proprio danno.
Ecco, sì come vanno
Dritto a ruina le publiche cose,
Se a quelle le private alcun prepose.
Pur noi non cesseremo
Di pregar, Giove tua bonta, che toglia
La città de l‟assedio, e noi di doglia. (vv. 1603-60)

Nella prima stanza la topica figurazione medievale della rota For-


tunae viene filtrata dal vocabolario petrarchesco, già recuperato da
Dolce in altre occasioni. 260
La terza stanza è precisa riarticolazione del notissimo topos del
nocchiero e della nave~vita travagliata da venti contrari, piuttosto fre-
quente nella poesia tragica (ma non solo), con in più la chiusa in cui
subentra un senso di serenità derivato dalla fiducia nell‟aiuto divino
(non privo di qualche accento eterodosso in direzione della giustifica-
zione per fede?):
L. DOLCE, Tieste, vv. 657-59
Così nave talor diversi venti
Volgono a questa, ora a quell‟altra parte
Contra la volontà del suo nocchiero.

L. DOLCE, Didone, vv. 479-81


E sto, sì come combattuta nave
In mezo l‟onde da diversi venti,
C‟hor da quel lato, hor da quest‟altro inchina.

260
F. PETRARCA, Triumphus Cupidinis, III, v. 178 e 186; Triumphus Mortis, I, v. 46-48, in
cui, fra l‟altro, l‟ultimo verso («nel vostro dolce qualche amaro metta»), viene riformulato da
Dolce al v. 1613. Inoltre vd. Rvf, 57, v. 12; 164, v. 10; 173, v. 5; Triumphus Cupidinis, III, v.
186. Per altri luoghi dolciani vd. Didone, vv. 176-177: «Pur che non turbi il mio seren fortu-
na/Né in tanto dolce qualche amaro metta» e vv. 676-679: «Ché quella, ch‟i mortai si prende a
giuoco,/Dal suo vaso distilla/Il dolce stilla a stilla,/M‟a guisa d‟onde suol versar l‟amaro».
208 Venezia in coturno

G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 506-513


Perché, come sapete, è proprio questa
Nostra vita mortale
Quasi nave che in mar sia a i venti e a l‟onda.
Ch‟or da crudel tempesta,
Che d‟improviso con furor l‟assale,
Combattut‟è sì ch‟or da l‟una sponda,
Ora da l‟altra oppressa,
Si vede a canto aver la morte espressa.

La quarta stanza ribadisce la totale, assoluta subordinazione del-


l‟uomo alle volontà di Dio e si conclude ancora con un lessico e con
forme di ascendenza petrarchesca:

Triumphus Mortis, I, vv. 85-90


Miser chi speme in cosa mortal pone
(ma chi non ve la pone?) e se si trova
a la fine ingannato, è ben ragione.
O ciechi, el tanto affaticar che giova?
Tutti tornate alla gran madre antica,
e ‟l vostro nome a pena si ritrova

Triumphus Temporis, vv. 132-38


ben che la gente ciò non sa né crede:
cieca, che sempre al vento si trastulla,
e pur di false opinion si pasce,
lodando più il morir vecchio che ‟n culla.
Quanti son già felici morti in fasce!
Quanti miseri in ultima vecchiezza!
Alcun dice: - Beato chi non nasce! -.

Triumphus Eternitatis, vv. 49-51


Misera la volgare e cieca gente,
che pon qui sue speranze in cose tali
che ‟l tempo le ne porta sì repente.

Rvf, 355, vv. 1-2


O tempo, o ciel volubil, che fuggendo
inganni i ciechi et miseri mortali.

4. Il quarto atto (vv. 1661-2002) contempla l‟ingresso del primo


Nunzio della fabula: come di consueto, Dolce seleziona funzional-
Le tragedie di Lodovico Dolce II 209

mente i nuclei dello spartito euripideo: una significativa sezione del


racconto del Nunzio a Giocasta (cfr. Phoinissai, vv. 1098-1171) viene
ritenuta esornativa e quindi è sottoposta a una radicale potatura (è una
sequenza di versi preziosi ed eruditi, che forniscono la descrizione
precisa delle porte tebane e dei condottieri argivi: conformemente con
le sue pratiche di riscrittura, Dolce ne decreta l‟inutilità e dunque la li-
quida).261 Solo a partire dall‟ingresso del più noto fra i guerrieri asse-
dianti Tebe (Capaneo), Dolce recupera il testo euripideo: con la morte
dello spergiuro, la città è salva e salvi sono anche Eteocle e Polinice;
purtroppo però la frattura fra l‟ordine politico e quello privato trova
qui una delle sue esplicitazioni drammatiche: quando Giocasta invita
il Nunzio a proseguire il suo racconto, egli, dopo una qualche tituban-
za iniziale, non può esimersi dal rivelare che i due figli della regina si
sono sfidati a singolar tenzone per stabilire a quale esercito si debba
assegnare la vittoria (= vv. 1778-1827).
Terminato il resoconto del Nunzio, Giocasta invita Antigone ad u-
scire dal palazzo reale, divenuto icasticamente una «casa di mestizia e
pianto» (v. 1829), per cercare di dissuadere i fratelli dal progetto di
duello mortale: il nuovo ingresso scenico della fanciulla segna l‟avvio
di una sequenza fortemente connotata in senso lirico e patetico, con
netta prevalenza di settenari, in cui sembra davvero di presentire
un‟atmosfera più propriamente coerente con la pastorale o con il me-
lodramma.262 Il coro, che funge da raccordo nel dialogo fra Giocasta e

261
Va anche aggiunto che quasi tutti gli editori e gli interpreti di Euripide ritengono la
lunga sequenza frutto di interpolazioni posteriori: Dolce sembrerebbe quasi aver intuito la na-
tura spuria dei versi in questione, verosimilmente più per ragioni di coerenza drammatica, che
per precise intuizioni critico-testuali.
262
Vd. Giocasta, vv. 1835-1929. Solo sedici gli endecasillabi su 94 vv.. Qui rileviamo
almeno: varie dittologie (mestizia e pianto, paura et horrore, fiero e miserabil, affanno e duo-
lo…); geminatio e redditio al v. 1835; un‟assonanza ai vv. 1835-1836 (madre-formate); rime
ai vv. 1837, 1838, 1843 (accenti-dolenti-spenti), 1841-1842 (mio-Dio), 1861-1862, 1889-
1892 e 1894-1896; un polittoto al v. 1841; una geminatio composta al v. 1839 («Che vi mole-
sta, ohimè? Che vi molesta?»); l‟anafora dell‟esclamativo ohimè ai vv. 1844 e 1845 (con sim-
ploche nel primo dei due versi: «Ohimè, che dite, ohimè, che cosa dite?»); un perfetto chia-
smo con reduplicatio ai vv. 1850-1851 («Eteocle crudele:/O crudele Eteocle»), con puro valo-
re enfatico; la rima a distanza vivo-privo (vv. 1846 e 1856); un‟altra geminatio al v. 1858 (an-
diamo, andiamo: ripresa perfettamente al v. 1873, ma in punta di verso); l‟allitterazione della
[v] ai vv. 1859-1860 («Dove volete voi,/Madre, ch‟io venga?»); una rima interna, ma a di-
stanza ai vv. 1893-1897 (dolente-possente ); altra rima ai vv. 1902-1903 (dolore-core); una
nuova geminatio composta al v. 1907 («Io tremo, tutta, io tremo»); l‟allitterazione di [s] al v.
210 Venezia in coturno

la figlia, anticipa l‟ingresso di Creonte e di un nuovo Nunzio che, nel-


la scena conclusiva del quarto atto (= vv. 1930-2002), racconterà con
precisione al padre la morte di Meneceo: Dolce decide di tematizzare
– attribuendogli un rilievo assolutamente notevole – il suicidio del
giovane, le cui alte, severe, parole politiche sono riportate in sermoci-
natio dal Nunzio:

NUNZIO
Sappiate signor mio, che ‟l vostro figlio
Venne inanzi a Eteocle, e disse a lui
Con alta voce, che ciascuno intese.
– Re la vittoria nostra, e la salute
De la città non è riposta in arme,
Ma consiste signor ne la mia morte:
Così ricerca, anzi commanda Giove.
Onde sapendo il beneficio, ch‟io
Posso far a la patria, ben sarei
Di sì degna cittade ingrato figlio,
Se al maggior uopo io ricusassi usarlo.
Qui pria vestei Signor la mortal gonna,
E qui honesto fia ben, ch‟io me ne spogli.
Però dapoi, che così piace a i Dei,
Uccido me, perché viviate voi.
Cortesi cittadin l‟officio vostro
Sarà poi d‟honorar il corpo mio
Di qualche sepoltura; ove si legga
Qui Meneceo per la sua patria giace –.
Così disse, e col fin de le parole
Trasse il pugnal, e se l‟ascose in petto. (vv. 1959-79)

Meneceo è ipostasi di uno dei termini dell‟opposizione ideologica


ed etica fra valorizzazione del politico e sua subordinazione alle pas-
sioni personali (in Eteocle e Polinice). In Euripide, è cosa nota, Creon-
te raccoglie i miseri resti del corpo del figlio dopo che quegli si è get-
tato dalla rupe del drago (Phoinissai, vv. 1310-21), luogo altamente

1911 («Che sono un sangue istesso»); una rima interna ai vv. 1913-1914 e ancora una rima ai
vv. 1917-1919 (infelice-genitrice); per concludere con l‟epifora di morte (vv. 1920-1921), con
ripresa anaforica interna al v. 1923.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 211

simbolico nella storia mitologica di Tebe:263 qui invece Dolce decide


di utilizzare un pugnale, l‟arma più perfettamente adeguata alla scena.
Un poco sorprendente, perché inopinata, ma efficace, sembra la
torsione politica che Dolce impone a Creonte ai vv. 1981 ss.:

CREONTE
Poiché ‟l mio sangue deve
Purgar l‟ira di Giove, et esser quello
Che solo pace a la cittade apporti;
È ben anco ragion, ch‟io sia signore
Di Thebe: e ne sarò forse col tempo
Per bontade o per forza. Questo è il nido
De le scelerità. La mia sorella
Sposò il figliuol, che prima uccise il padre
E di tal empio abominoso seme
Nacquero i due fratei, c‟hor son trascorsi
A l‟odio sì, ch‟o questo, o quel fia spento.
Ma perché tocca a me? Perché al mio sangue
Portar la pena de gli altrui peccati?
O felice quel nuntio, che mi dica,
– Creonte i tuoi nipoti ambi son morti –.
Vedrassi alhor, che differenza sia
Da signor a signor; e quanto nuoce
L‟haver servito a giovane alcun tempo.
Io vo di qui per far, ch‟al mio figliuolo
S‟apparecchin l‟esequie: che saranno
Debitamente accompagnate forse
Da l‟esequie del corpo d‟Eteocle. (vv. 1981b-2002)

Creonte dichiara il proprio progetto politico, anche alla luce del sa-
crificio sproporzionato che lui ha dovuto subire; durissima la requisi-
toria contre Tebe, sentina di «scelerità» inenarrabili, e contro i nipoti,
di cui lo zio si augura la contemporanea morte: che Creonte sia squas-
sato dal daimon della vendetta non deve sorprendere, data la sua situa-
zione emotiva; nondimeno, che venuto a conoscenza del terribile sui-
cidio di Meneceo, si trasformi ipso facto in un tiranno in pectore è
perlomeno curioso ed è probabile indizio, a mio avviso, della volontà
del Dolce di far sentire qualche suggestione sofoclea nel personaggio.

263
Tale sequenza, senza la culta allusione alla caverna del drago, è utilizzata da Dolce più
avanti (inizio dell‟atto V), con una dislocazione piuttosto tipica.
212 Venezia in coturno

Nulla di tutto ciò è presente in Euripide, dove, anzi, Creonte sem-


bra emotivamente coinvolto nella sciagura che colpisce l‟intera fami-
glia reale di Tebe, senza contrapporre (in una logica, per così dire, a-
treica) la propria discendenza a quella della sorella e dei nipoti. Dolce
propone un Creonte più moderno, condizionato nelle sue scelte politi-
che da precise sollecitazioni private e affettive e dominato dal furor
regni, aggiornato, insomma, alle condizioni delle corti rinascimentali.
Il coro IV264 esibisce la, fatalmente un po‟ retorica, invocazione al-
la Concordia, unica divinità in grado di riportare la harmonia mundi,
di salvare l‟uomo dalla rovina, di aiutare Tebe:

CORO
Alma concordia; che prodotta in seno
Del gran Dio de gli Dei
Per riposo di noi scendesti in terra:
Tu sola cagion sei
Che si governi il ciel con giusto freno;
E che non sia tra gli elementi guerra.
In te si chiude e serra
Virtù tanto possente,
Che quei regge, e mantiene:
E da te sola viene
Tutto quel ben, che fa l‟humana gente
Gustar, quanto è giocondo
Questo, che da‟ mortali è detto mondo.
Tu pria da quel confuso antico stato,
Privo d‟ogni ornamento
Dividesti la Machina celeste.
Tu facesti contento
De l‟influsso e de l‟ordine a lui dato
Ogni Pianeta: e per te quelle e queste
A girar così preste
Stelle vaghe et erranti
Scoprono a gli occhi nostri
I lor bei lumi santi:
E tosto, che dal mar Febo si mostri,
Per te lieto et adorno
Risplende il ciel di luminoso giorno.
Tu sola sei cagion, ch‟a Primavera
Nascano herbette e fiori,

264
Sei stanze con schema [AbC.bAC.cdeeD.fF] e congedo.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 213

E vada estate de‟ suoi frutti carca.


Tu sola a nostri cori
Spiri fiamma d‟amor pura e sincera,
Per cui non è la stirpe humana parca
(Mentre a morte si varca)
Di propagar sua prole,
Tal ch‟ogni spetie sempre
Con dolci amiche tempre
Si perpetua quà giù fin che ‟l ciel vole:
Onde la terra è poi
D‟huomini e d‟animai ricca fra noi.
Per te le cose humil s‟ergono al cielo,
E ovunque il piè si move,
Pace tranquilla i cuor soave e cara:
Per te di gioie nove
Sempre l‟huomo è ripieno al caldo, e al gelo:
Ne lo turba giamai novella amara.
Per te sola s‟impara
Vita senza martire:
E per te al fin si regge
Con ferma e salda legge
Qui ciascun Regno, e non può mai perire
Mortal Dominio; se ‟l tuo braccio eterno,
Madre di tutti i ben, tiene il governo.
Ma senza te la legge di natura
Si solverebbe; e senza
Te le maggior città vanno a ruina.
Senza la tua presenza
La madre col figliuol non è secura,
È zoppa la ragion debole e china.
Senza di te meschina
È nostra vita ogn‟hora;
E, s‟io dritto discerno,
Il mondo oscuro inferno
D‟ogni miseria: e sasselo hoggimai
Questa nostra città più ch‟altra mai.
Già mi par di sentir lagrime e pianti
Risonar d‟ognintorno,
E le voci salir sino a le stelle;
Veggio il caro soggiorno
Quinci e quindi lasciar meste e tremanti;
E per tutto gridar Donne e Donzelle.
Già le nuove empie e felle
Mi sembra udir, ond‟io
214 Venezia in coturno

Chiamo felice sorte


Quella, ch‟a darsi morte
Condusse Meneceo benigno e pio
Verso la patria: e voglia Dio, che sia
Salva col suo morir la città mia.
Santo cortese padre
A te mi volgo, e sprezzo ogn‟altra aita:
Soccorri a la città: che solo puoi.
Fa che l‟error d‟altrui non nuoccia a noi. (vv. 2003-83)

Tale coro è l‟esito di un prezioso lavoro di intarsio letterario, chia-


ramente modellato non su qualche stasimon euripideo quanto sui pri-
mi cori delle due più importanti tragedie del primo e medio Cinque-
cento italiano: la Sofonisba e l‟Orbecche.265

5. Creonte è anche colui cui spetta il compito di avviare l‟azione


nel quinto, pletorico, atto della tragedia (= vv. 2084-2725), recuperan-
do alla lettera il v. 1310 delle Phoinissai euripidee: «Oimè, che far
debb‟io?» (v. 2084a).266
Parzialmente placata l‟ira che lo aveva caratterizzato nel precedente
intervento collocato alla fine del IV atto, Creonte sta cercando la so-
rella Giocasta per lavare il corpo del figlio morto, quando sopraggiun-
ge un secondo Nunzio a portare altre notizie terribili: Eteocle e Polini-
ce si sono reciprocamente uccisi e «Con i figliuoli la Reina è morta»
(v. 2141). Retoricamente elaborata è, va da sé, questa sezione:267 la
dictio tragica è sbilanciata su tinte platealmente patetiche e prefigura
negli eccessi smodati e nella mobilitazione di molti fatti stilistici che

265
Cfr. G. G. TRISSINO, Sophonisba, vv. 596-681 e G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv.
320-83, ma anche vv. 2357-2439.
266
EURIPIDE, Phoinissai, v. 1310. Perfettamente adeguata al modello del Dolce è la resti-
tuzione di Gascoygne e Kinwelmershe, dove Creon esordisce nel V atto così: «Alas! what
shall I do?» (v. 1). Autenticamente tragica è la tensione che squassa il personaggio, che così
procede: «Pianger me stesso,/O la ruina de la patria?» (vv. 2084b-85a).
267
Senza alcuna pretesa di completezza, diamo conto qui di una serie di procedimenti sti-
listici: si va dalla replicazione anaforica su misero me con geminatio al v. 2121, all‟anafora di
quai e nuntio e quasi rima volte-morte con cui esordisce il Nunzio; dalla redditio di nuova con
reduplicatio al v. 2132, alle anafore di misero e miseria (vv. 2137-40), al perfetto chiasmo
trimembre dei vv. 2142-43, a suo modo memorabile («Piangete, Donne, oimè/Oimè, Donne,
piangete»), alle varie rime, etc..
Le tragedie di Lodovico Dolce II 215

paiono meri espedienti decorativi la torsione melodrammatica di certa


pronunzia tragica manierista.
Come di prammatica in questi casi, il punto di vista dello spettato-
re/lettore si identifica totalmente con quello scenico di uno dei perso-
naggi: in questo caso è Creonte che vuole avere informazioni detta-
gliate e che pertanto invita il Nuntio al racconto. Inizia qui una colos-
sale sequenza, caratterizzata prevalentemente da moduli epici e narra-
tivi e nella quale, ricorrendo anche ad alcune sermocinationes, il mes-
so fa un preciso resoconto del duello che ha visto soccombere sia Ete-
ocle sia Polinice. Lo scontro nel quale si sono combattuti li ha tra-
sformati in ferae: v. 2197:«Come Serpi o Leon di rabbia ardenti» e vv.
2209 ss.: «Dimostravano ben, che nel suo petto/Fosse quant‟odio mai,
disdegno, et ira/Esser possa in due cor di Tigre o d‟Orso».268
Giocoforza patetica è la pietosa scena dell‟arrivo di Giocasta e An-
tigone, impotenti, sul campo ove si sono appena uccisi Eteocle e Poli-
nice: se il primo si congeda da noi con una misurata grammatica di
muti gesti

NUNTIO
Al suon di tai lamenti il Signor nostro
Mandò con gran fatica fuor del petto
Un debole sospiro, e alzò la mano,
Quasi mostrando, di voler alquanto
Racconsolar la madre, e la sorella:
Ma in vece di parole fuor per gli occhi
Gli uscir alcune lagrime, e dapoi
Chiuse le mani, e abandonò la luce. (vv. 2267-74)

Polinice, al contrario, riesce, del tutto innaturalmente viste le sue


condizioni di moribondo, ad articolare un compiuto discorso, riportato
in sermocinatio dal Nunzio, in cui si dispera per Giocasta e Antigone,
si duole della morte del fratello e infine chiede di essere sepolto nella
sua città (quasi presentendo che la questione non è del tutto pacifica,
essendo lui un esule e un hostis publicus). Dolce rispetta qui in so-
stanza l‟originale euripideo.

268
Questa seconda coppia è di legalità petrarchesca: vd. Rvf, 152, v. 1 e 283, v. 14.
216 Venezia in coturno

Apice e centro dell‟orrore della fabula è la subitanea decisione di


Giocasta di darsi la morte: impugnato il coltello, raccolto accanto al
cadavere di Polinice, la donna si trapassa il collo e spira:

NUNTIO
Ma la madre vedendo ambi i figliuoli
Morti, vinta dal duol, tolse il pugnale
Di Polinice, e si passò la gola,
E cadde in mezo a i suoi figliuoli morta. (vv. 2296-99)

G. GASCOYGNE, F. KINWELMERSHE, Jocasta


NUNCIUS
The mother, thus beholding both hir sonnes
Ydone to death, and, overcome with dole,
Drewe out the dagger of hir Pollinice
From brothers brest, and gorde therewyth her throte.
Falling betweene hir sonnes. (V, 2, vv. 173-77)

La tragedia è, sul piano drammatico, compiuta.


Il coro, con un breve intervento a fine scena, riporta dalla fictio del
terribile resoconto del Nunzio alla realtà effettuale dei tre cadaveri o-
stensivamente esibiti on-stage, in una scena di forte impatto visivo e
che certo doveva costituire un momento di particolare effetto durante
la rappresentazione: «Ma quel, ch‟è più crudel veggiamo ancora/I tre
corpi defunti: eccogli avanti» (vv. 2325-26 = Phoinissai, vv. 1481 ss.).
Segue un kommos recitato da Antigone e dal coro, ove alto è il gra-
diente patetico e conseguentemente molti sono i settenari: complessa
pare la rappresentazione che del dolore di Antigone propone Dolce,
poiché in lei si mescolano compianto funebre, disperazione per il pro-
prio destino di solitudine, un chiaro cupio dissolvi. Proponiamo, come
pars pro toto, una sequenza di Antigone:

ANTIGONE
Madre, perduto io v‟ho, perduto insieme
Ho i miei cari fratelli.
O Polinice mio tu col tuo sangue
Hai posto fine a la crudel contesa
C‟havevi con colui,
Che già ti tolse il Regno:
E finalmente t‟ha la vita tolta.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 217

Che non può l‟ira oime, che non può l‟ira?


Lassa, che far debb‟io?
Già voi vivendo, era mia speme viva
Di vedermi gioire
Di fortunate nozze,
E sentirmi chiamar donna e Reina.
Hor col vostro morire
È la speranza morta;
E non spero giamai
Se non tormenti e guai,
Se pur questa mia man fia tanto vile;
Che non sappia finire
Questa misera vita. (vv. 2352-71)

Versi nei quali notevole mi pare, oltre al consueto spartito di strate-


gie retoriche, l‟efficacia di alcune riprese tematiche: il v. 2360 è, per
esempio, perfetto recupero del v. 2084a, con cui Creonte aveva avvia-
to l‟atto, e serve a rappresentare la sicura relazione fra i due personag-
gi, da questo momento in poi gli autentici protagonisti della fabula.
In conclusione, ella convoca in scena il padre Edipo (sinistramente
presente nel corso dell‟intero sviluppo drammatico, ma, per così dire,
rinchiuso in una sorta di spazio separato – il carcere – che solo la mor-
te di tutti i protagonisti permette di aprire): vera e propria ipostasi del-
la genealogica maledizione che ha insanguinato la casata reale tebana,
Edipo è, pur nel perimetro del suo modesto ruolo scenico, personaggio
robustamente delineato (del resto alle spalle c‟è Sofocle): la cecità, la
sua condizione subumana di ἀιθέρος ἀθανές είδωλον, la sofferenza
come stigma della sua tormentata condizione esistenziale sono tratti
pertinentemente definiti da Dolce.
Inoltre, con movenza che ricorda il Tantalo del Tieste,269 Edipo non
vuole uscire dal suo albergo:

EDIPPO
Perché figliuola mia
Uscir fai questo cieco
Dal suo cieco et oscuro
Albergo di miserie e di lamenti
A quella luce chiara,

269
Vd. L. DOLCE, Tieste, vv. 1-8.
218 Venezia in coturno

Che di veder fui indegno?


E chi potrà veder senza tormento
(Ahi fato acerbo e forte)
Questa non d‟huom, ma imagine di morte? (vv. 2407-15)

A contrastare questa cupa atmosfera funebre, interviene un energi-


co Creonte (vd. vv. 2468 ss.: «Donne lasciate omai querele e pian-
ti,/Che tempo e già di sepellir il corpo/Del vostro Re con onorate ese-
quie»), che annuncia la volontà di dare corso ai progetti già avviati dal
predecessore Eteocle: Antigone sposerà Emone; Edipo lascerà per
sempre Tebe, perché pharmakòs non ulteriormente tollerabile;270 Poli-
nice resterà insepolto e sarà «esca a gli uccelli». 271 In una efficace sti-
comitia (vv. 2555-2605 = Phoinissai, vv. 1646-1706), Creonte e Anti-
gone recitano la loro tragedia, dialetticamente contrapposti: nel rispet-
to della volontà di Eteocle il primo; in difesa delle ragioni parentali la
seconda. Frequenti – come è caratteristico nelle sticomitie – le redu-
plicationes (tre consecutive ai vv. 2556-59; poi ancora a cavallo dei
vv. 2561-62), e notevole l‟uso, anche in questo contesto di forte ten-
sione drammatica, di varie tessere di origine petrarchesca (tra cui cfr.
almeno il v. 2577: «Sono le tue parole al vento sparse»).272
Antigone minaccia di uccidere, come una novella danaide, il marito
Emone (figlio di Creonte) durante la prima notte di nozze e poi sceglie
l‟esilio con il padre:

ANTIGONE
Viva non sarò mai moglie di Hemone.
CREONTE
Ricusi d‟esser moglie al mio figliuolo?
ANTIGONE
Non voglio esser di lui, né d‟altri moglie.
CREONTE
Farò, che ci sarai, vogli, o non vogli.

270
Edippo risponde agli ordini di Creonte impiegando ancora una tessera petrarchesca da
Rvf, 216, v. 11, inserita nei vv. 2572-75: «O crudel mio destin ben fatto m‟hai/Nascer a le mi-
serie e a le fatiche/Di questa morte, che si chiama vita,/Più c‟huom mortal, che mai nascesse
in terra».
271
Tutta questa parte, spuria, anticipa diegeticamente lo scontro tra Creonte e Antigone.
272
Cfr. F. PETRARCA, Rvf, 90, v. 1; 143, v. 9 e Triumphus Cupidinis, III, v. 136.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 219

ANTIGONE
Ti pentirai d‟havermi usato forza.
CREONTE
E che potrai tu far, ond‟io mi penta?
ANTIGONE
Con un coltel reciderò quel nodo.
CREONTE
Pazza sarai, se te medesma uccidi.
ANTIGONE
Io seguirò lo stil d‟alcune accorte.
CREONTE
T‟intenderò, se tu più chiaro parli.
ANTIGONE
L‟ucciderò con questa mano ardita.
CREONTE
Temeraria e crudel ardisci questo?
ANTIGONE
Perché non debbo ardir sì bella impresa?
CREONTE
A che fin pazza queste nozze sprezzi?
ANTIGONE
Per seguir ne l‟esilio il padre mio.
CREONTE
Quel, ch‟in altri e grandezza, è in te pazzia. (vv. 2587-2602)

In questo frangente, la tipica ansia di semplificazione e illimpidi-


mento del Dolce cozza con un oggettivo incremento di obscuritas, a
causa della strategia perifrastica che caratterizza alcune risposte.
Nell‟originale euripideo, il riferimento alle Danaidi è preciso e inequi-
vocabile (cfr. Phoinissai, v. 1675); non così in Giocasta, dove le cele-
bri figlie uxoricide di Danao sono nominate mediante la iunctura allu-
siva alcune accorte, senza che il Dolce riesca a rendere perspicuo il ri-
ferimento. Si dovrà inoltre rilevare la cospicua (e poco elegante, per la
verità) allitterazione di [z] ai vv. 2600-2.
Edippo, alle parole della figlia, la scongiura di rimanere: errerà da
solo per boschi e spelonche (difficile non ripensare al motivo tiesteo,
ma non solo, della contrapposizione etica fra città a natura); poi invo-
ca Giocasta, con una dictio che davvero manieristicamente sembra
preludere (absit iniuria verbis) a certe soluzioni shakespeariane (ancor
più evidenti, va da sé, nella Jocasta di Gascoygne e Kinwelmershe):
220 Venezia in coturno

EDIPPO
N‟andrò figliuola, ove vorrà la sorte,
Riposando il meschin corpo dolente
Dovunque gli farà coperta il cielo.
Che in cambio di palagi e ricchi letti
Le selve, le spelunche, e gli antri oscuri,
Misero vecchio mi daranno albergo.
[…]
O madre, o moglie, misera egualmente:
Addolorata madre,
Addolorata moglie;
Oimè volesse Dio, volesse Iddio
Non fossi stata mai moglie né madre. (vv. 2613-32)

OEDIPUS
O wife, O mother, O both wofull names,
O wofull mother, and O wofull wyfe,
O woulde to God, alas, O would to God,
Thou nere had bene my mother nor my wife! (V, 5, vv. 163-66)

Il dialogo fra Antigone e il padre procede e ad un certo punto, quasi


dissimulata, scorgiamo una riflessione che ci pare degna di nota:

ANTIGONE
Padre mio, la giustitia non riguarda
Con diritt‟occhio i miseri; e non suole
Gastigar le pazzie di chi comanda. (vv. 2668-70)

In queste parole sembra sentenziosamene ribadito, con sicura capa-


cità di demistificazione del funzionamento del potere, il fatto che la
giustizia non rimunera i miseri e non punisce le scelleratezze dei po-
tenti.
Edippo prosegue utilizzando un significativo vocabolario petrar-
chesco:

Misero me, quanto mutato io sono


Da quel, ch‟i fui. (vv. 2671-72)

O sola del mio mal dolce conforto. (v. 2692)

Hor drizziamo il camin figliuola adunque


Verso i più aspri e più sassosi Monti,
Le tragedie di Lodovico Dolce II 221

Dove vestigio uman non si dimostri (vv. 2705-07)

F. PETRARCA, Rvf, 1, v. 4
quand‟era in parte altr‟uom da quel ch‟i‟ sono

Rvf, 28, v. 10
d‟un vento occidental dolce conforto

Rvf, 35, v. 4
Ove vestigio human la rena stampi

A suggellare la vicenda tragica appena sceneggiata, troviamo il


consueto coro madrigalistico (vv. 2726-36); ciò che sorprende un poco
è che, contrariamente al protagonismo di Giocasta, esibito fin dal tito-
lo, oggetto della riflessione finale (ancora fortemente politica e didat-
tica) in cui viene ribadita la tirannia assoluta della Fortuna,273 sia Edi-
po:

CORO
Con l‟esempio d‟Edippo
Impari, ogniun, che regge,
Come cangia fortuna ordine e stile:
Tal, che ‟l basso et humile
Siede in alto sovente;
E colui, che superbo
Hebbe già signoria di molta gente,
Spesso si trova in stato aspro et acerbo.
Onde, sì come di splendor al Sole
Cede la bianca Luna;
Così ingegno e virtù cede a Fortuna.

273
Chiaramente avvertibile l‟influsso del coro finale di G. RUCELLAI, Rosmunda, vv.
1226-1228: «Ciascun che regge, impari/Dal dispietato Re che morto iace/A non esser crudel,
che a Dio non piace».
222 Venezia in coturno

5. Ifigenia

Lodovico Dolce torna a pubblicare una tragedia con il suo editore


di riferimento, Gabriele Giolito de‟ Ferrari, a due anni di distanza dal-
la sua ultima prova tragica (la Giocasta del 1549).274 La scelta cade
ancora su una notissima fabula euripidea,275 ma anche in questo caso –
come già per la Hecuba – si rivela decisiva la mediazione dell‟Iphi-
genia in Aulide latina di Erasmo da Rotterdam.276
L‟Ifigenia possiede (oltre a una dedicatoria al marchese Bernardino
Bonifacio) un prologo separato assai interessante che, per la verità,
viene collocato dal Dolce in conclusione alla tragedia, secondo una
pràxis autenticamente giraldiana e segnatamente derivata da Orbec-
che:

PROLOGO, NEL QUALE S‟INTRODUCE LA TRAGEDIA A FAVELLARE


A GLI SPETTATORI
Honorati, sublimi, e antichi padri,
Chiaro non pur de la cittade illustre,
Che nel mondo sarà sempre Donzella,
Ornamento e sostegno, ma splendore
Sovra quanti fur mai d‟Italia tutta:
E voi altri gentil, spiriti degni,
Che, la vostra mercé, venuti sete,
Per honorar questo apparecchio altero,
Al superbo apparir, al grave aspetto,
A la corona, et a i fregiati panni,
Ond‟io vestita son, ricca, et adorna,
Veggio ciascun di maraviglia pieno.
E tanto più, che in una mano io porto
Lo scettro, et ho ne l‟altra il ferro ignudo.
Io son colei, ch‟addimandaro i Greci
Tragedia; e nacqui alhor, ch‟in terra nacque
La Tirannide iniqua, e incominciaro

274
L. DOLCE, Ifigenia, Venezia, Giolito de‟ Ferrari, 1551. Come le precedenti, anche que-
sta verrà citata nel testo fornito dalla ristampa giolitina del 1560.
275
Le fabulae su Ecuba e Ifigenia (in Aulide) sono le più note e pubblicate nel corso del
secolo XVI. Su 119 fra edizioni in greco, adattamenti e riscritture, traduzioni in latino o in
qualche lingua moderna europea di tragedie euripidee, si contano 59 stampe cinquecentesche
dedicate alle due tragedie.
276
ERASMO DA ROTTERDAM, Iphigenia in Aulide, in ID., Tragedie di Euripide, cit., pp. 73-
175.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 223

A estinguersi la fe, l‟honesto, e ‟l vero.


Perché tosto che Giove il vecchio padre
Cacciò giù ne l‟inferno, e su nel mondo
I termini distinser le campagne;
I minor d‟ardimento e di fortuna
Essendo da i maggior offesi e privi
De le sostanze loro; e men trovando
Astrea, che n‟era già salita in ciel;
Co i tristi e sanguinosi avvenimenti,
Ch‟io soglio appresentar, come dimostra
Questa, che voi vedete horrida spada;
Di far per opra mia s‟affaticaro;
Che poscia non potea ragione e amore
Ritrovar la virtù ne i petti ingiusti,
La destasse spavento. […]
[…]. E come sù l‟Ilisso
Stetti molt‟anni; così a me non piacque
D‟habitar sopra il Tebro. Hor sopra l‟Arno
Volger mi fece il piede assai pomposa
Quel, che già pianse il fin di Sofonisba,
E quello, che d‟Antigone e di Hemone
Rinovò la pietà, la fe, e l‟amore,
E quell‟altro dapoi, che estinse Orbecche,
E chi cantò lo sdegno di Rosmunda;
E chi con nuovo e non più visto esempio
Lo scelerato amor di Macareo,
Ne men quell‟alto ingegno, che fe degna
L‟Horatia de l‟orecchie del gran padre,
C‟ha le chiavi del cielo e de l‟inferno,
E l‟anime di noi sopra la terra,
Sì come piace a lui, lega e discioglie.
Alcuni al fin da proprio ardir sospinti
Han voluto por mano in questi panni,
Mal mio grado tirandomi la, dove
In iscambio d‟honor n‟hebbi vergogna.
Ma non è dato il seguitarmi a tutti:
Ne picciol Rana a le paludi avezza
Può poggiar sopra i monti; e parimente
Noturno Augel fisar gli occhi nel Sole.
Ben la difficoltà di questa impresa
Lo Stagirita mio con dotta penna
Fece scrivendo a chiari ingegni conta:
Ma non resta però di lacerarmi
Più d‟un Marsia: a cui forse se per pena
224 Venezia in coturno

Convenisse tal‟hor lasciar la pelle,


Caderebbe l‟audacia a chi la prende.
Ond‟io ricorsi a Euripide; e togliendo
Il bel, che mi fe nobile e honorata,
Lo diedi a un nostro cittadino e servo;
Perché con altra lingua, et altra forma,
Com‟egli suol, l‟appresentasse a voi.
Quinci havete veduto pianger mesta
L‟infelice Giocasta: hora vedrete
Dolersi del suo error misero padre,
E lamentarsi ad un madre e figliuola.
Già fu chi pregò ‟l sol, che s‟ascondesse,
Per non veder la crudeltà di Thebe:
Hora io lo prego, che non porti a voi
Giamai turbati e nubilosi giorni,
Ma sempre hore serene, e lieta pace.
Qui sempre ogni suo don Cerere spieghi,
E vi tenga ad ogn‟hor la copia il Corno.
Ma mentre humil lamenti, e meste voci,
E pietose preghiere, et opre crude
Vi feriran di par l‟orecchie e ‟l core,
In tanto il mal d‟altrui vi porga esempio.
E voi Donne gentili, accorte, e saggie,
Degnateli, se ‟n voi pietà dimora,
Di qualche lagrimetta. Ben fia tempo
Che l‟altra baldanzosa mia sorella
Vi farà serenar la fronte e gli occhi:
Hora io ricerco in voi sospiri et pianto. (vv. 1-101)

Nei primi versi (cfr. 1-14) Dolce fa un topico elogio dei patres del
Senato veneziano e del pubblico accorso alla rappresentazione della
tragedia. Molto significativi paioni invero i successivi versi, ove vi è
lo spazio e per una ricostruzione dell‟evoluzione storica del genere
tragico, e per la definizione di un vero e proprio canone della poesia
melpomenia cinquecentesca.277

277
Che sarà ripreso dal nostro – in maniera più sintetica – nella Marianna, Prologo I, vv.
40-46. Per una considerazione su questa sezione importantissima del prologo dolciano cfr. R.
CREMANTE, Appunti sulla grammatica tragica di Ludovico Dolce, cit., pp. 286-87: «Mentre
dunque si interroga sul significato delle rappresentazioni tragiche nella società contemporane-
a, il Dolce mostra di conoscere perfettamente l‟accidentato paesaggio storico della tragedia
cinquecentesca, illustrandone con notevole chiarezza e lucida coscienza critica, attraverso le
parole che la medesima Tragedia rivolge agli spettatori nel Prologo dell‟Ifigenia, il canone
Le tragedie di Lodovico Dolce II 225

Specialmente interessante, nella sequenza sulle origini della trage-


dia, l‟imitatio del I delle Metamorphoses di Ovidio.278 Rispettivamen-
te:

A estinguersi la fe, l‟honesto, e ‟l vero. (v. 18)

fugere pudor uerumque fidesque. (I, 129)

Perché tosto che Giove il vecchio padre


Cacciò giù ne l‟inferno (vv. 19-20)

Postquam Saturno tenebrosa in Tartara misso


sub Ioue mundus erat, subiit argentea proles. (I, 113-14)

e su nel mondo
I termini distinser le campagne (vv. 21-22)

communemque prius ceu lumina solis et auras


cautus humum longo signavit limite mensor. (I, 135-36)

e men trovando
Astrea, che n‟era già salita in ciel (vv. 24-25)

et Virgo caede madentes,


ultima caelestum, terras Astraea reliquit. (I, 149-50)

Il Dolce propone poi una ricostruzione „democratica‟ della genesi


della tragedia, che verrebbe configurandosi come il genere con il quale
i «minor d‟ardimento e di fortuna/Essendo da i maggior offesi e pri-
vi/De le sostanze loro» (vv. 22 ss.) avrebbero cercato di instillare nei

pressoché definitivo che comprende, nell‟ordine, gli esemplari del Trissino, dell‟Alamanni,
del Giraldi, del Rucellai, dello Speroni e dell‟Aretino (dall‟elenco prodotto più tardi nel primo
Prologo della Marianna saranno esclusi l‟Alamanni e l‟Aretino, morti entrambi nel 1556).
[…]. L‟eccellenza dei predecessori non impedisce tuttavia al Dolce, dalla sua specola di os-
servatore attento e sensibile dei problemi del consumo e dell‟industria culturale, di riconosce-
re con franchezza la complessiva insufficienza di quelle proposte, la loro generale inadegua-
tezza al paragone non soltanto degli archetipi greci e latini, ma anche dei più fortunati e popo-
lari generi letterari fiorenti alla metà del secolo».
278
Cfr. in particolare Metamorphoses, I, vv. 89-150, dove è descritto il passaggio dall‟au-
rea aetas alla ferrea aetas.
226 Venezia in coturno

«petti ingiusti» la virtù, ricorrendo al dispositivo scenico dello spaven-


to (v. 32).279
Nella conclusione, Dolce, postulando l‟esistenza di uno iato fra
scena e realtà, teatro e mondo e augurando agli spettatori veneziani
prosperità, li invita a trarre da quanto vedranno una lezione esemplare:
il pubblico femminile è quasi giocosamente invitato a partecipare em-
paticamente al rito tragico degli « humil lamenti, e meste voci,/E pie-
tose preghiere, et opre crude», in attesa di veder la propria fronte e gli
occhi rasserenati dalla Commedia, baldanzosa sorella di Tragedia.
Questa pare una dichiarazione programmatica, ancorché certo condi-
zionata dal topos, in favore di un tragico depotenziato, meno crudo e
orroroso, più adeguato a mutate coordinate culturali e ideologiche, più
meraviglioso, recuperato, per così dire, come una dolorosa parentesi
didattica.
La tabula delle dramatis personae è questa: Agamennone e Mene-
lao, un Servo, un Nunzio (del quale, per la verità, non c‟è traccia sce-
nica, assolvendo la sua funzione lo stesso Servo), Clitennestra, Ifige-
nia ed Oreste (che non è agonistès né in Euripide, né in Erasmo), A-
chille,280 un Vecchio di Calcidia, il Coro di donne calcidesi e, soprat-
tutto, Calcante, l‟indovino che un ruolo decisivo ha nella definizione
del sacrificio di Ifigenia e che è un‟assoluta (e felice) invenzione
drammatica del Dolce. Liquidato – seguendo il modello erasmiano – il
doppio ἄγγελος euripideo.

1. Il primo atto comincia di notte: siamo nel campo acheo dove l‟e-
sercito è pronto a salpare per Troia dal promontorio dell‟Aulide, di-
nanzi alle coste dell‟Eubea. Agamennone è tormentato da cupi pensie-
ri, che vengono comunicati ad un fedele Servo: la battuta iniziale della
tragedia viene enfiata nella riscrittura del Dolce:

EURIPIDE, Ἰθιγένεια ἠ ἐν Αὐλίδι, vv. 1-2a


AΓΑΜΔΜΝΩΝ
Ὦ πρέζβσ, δόμων ηῶνδε πάροιθεν
ζ ηεῖτε.

279
Allusione alla catarsi aristotelica, ma declinata secondo mutate coordinate ideologiche.
280
Definito, a scanso d‟equivoci e per neutralizzare qualunque possibile sorpresa,« finto
marito d‟Ifigenia», traduzione dell‟erasmiano Achilles dictus sponsus.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 227

ERASMO, Iphigenia in Aulide, v. 1


AGAMEMNON
Horsum, senior, prodi tectis

AGAMENNONE
D‟ogni segreto mio ministro fido,
Che gli anni tuoi con la prudentia agguagli,
D‟animo via maggior, che di fortuna:
Se mai de l‟opra tua n‟havesti honore,
Hora è mestier, che nel maggior bisogno
La mia speranza, e la tua fede avanzi:
Che così forte, e si tenace nodo
D‟obligo mi porrai d‟intorno l‟alma,
Che non la potrà sciorre altro che morte. (vv. 1-9)

Viene poi eliminato il bellissimo riferimento astronomico a Si-


rio,281 più per il sacro terrore onomastico di Dolce, crediamo, che per
la peregrina inaccessibilità dell‟immagine di straordinario effetto poe-
tico. Al Servo che ribadisce fedeltù al Re e si stupisce di trovarlo a
vegliare in orario notturno, Agamennone risponde rimodulando il to-
pos oraziano e senecano della vita umile di contro alla terribilità della
vita di potere, caratterizzata da noiose incombenze e faticose cure:

AGAMENNONE
Sappi, ch‟a la tua sorte invidia porto,
E sol felice e aventurato io chiamo
L‟huom, che in fortuna humil queto si vive,
Contento sol di quanto serve e basta
Al bisogno comun de la natura.
Però, ch‟a questo ambition d‟honori
Non arde il petto; e non gli rompe il sonno
Mordace cura: ma chi regge altrui
È sempre cinto di sospetti, e tema:
Che s‟ei tien ritta la giustitia in piede,
Gli huomini offende, et s‟ei la calca, i Dei. (vv. 26-36)282

281
Cfr. EURIPIDE, Iphigeneia, vv. 6-8; ERASMO, Iphigenia in Aulide, vv. 8-11.
282
Cfr. L. DOLCE, Tieste, vv. 676-705: «Credimi figliuol mio, ch‟indegnamente/S‟ap-
prezzano gli scettri e le corone/E de le cose dure, umili e basse/Ci percuote e ci tien vana pau-
ra./[…]/O quanto è sommo ben lasciar ch‟ognuno/A sua voglia si viva e umile in terra/Pren-
der, lieto e tranquil, securo cibo./[…]/Non teme picciol casa alta ruina./[…]/Agevolmente si
228 Venezia in coturno

Il Servo risponde filosoficamente – come spesso accade nella tra-


gedia del secolo –, invitando il re a non angosciarsi per ciò che è onto-
logicamente ineluttabile: la sottomissione del destino umano alla ca-
pricciosa volontà della Fortuna, sussunta sotto la cornice di una natu-
rale, ciclica, dinamica cosmica, contro la quale nessuna lotta individu-
ale ha senso. 283 Agamennone a questo punto spiega, con dovizia deci-
samente eccessiva e in una sequenza di impianto narrativo e riepiloga-
tivo (cfr. i vv. 57-179, esplicitamente inseriti a beneficio di un pubbli-
co di fruitori non preparatissimo), i motivi del suo turbamento e della
sua attuale angoscia.
Al v. 96 torniamo al presente scenico: tutti i condottieri greci sono
in Aulide pronti per salpare alla volta di Troia, ma un‟infida bonaccia
ne impedisce la partenza: il testo originale è sufficientemente rispetta-
to. Dolce decisamente innova quando inserisce il tremendo vaticinio
compiuto dal sacerdote Calcante, vero e proprio motore diegetico e
drammatico della fabula:

AGAMENNONE
Ma quel, che solo ogni mia pace turba,
È, che Calcante, l‟indovin fallace,
Ha predetto a l‟esercito, che noi
Quindi non potrem mai scioglier le navi,
Se prima l‟innocente Ifigenia,
Mia figlia, in sacrificio non s‟uccida
A la pudica Dea figlia di Giove,
A cui questo terren d‟intorno è sacro;
E la cagione è così poca e lieve,
Ch‟io stesso a raccontarla mi vergogno.

difende e serba/Picciolo albergo senza spada e lancia./E sempre volentier benigno stanza/Den-
tro le basse case alto riposa./Ed è gran regno a poter senza regno/Viver, tutti i suoi dì, vita
tranquilla» e Giocasta, vv. 208-15: «Color che i seggi e le reali altezze/Ammiran tanto, veg-
gono con l‟occhio/L‟adombrato splendor ch‟appar di fuori,/Scettri, gemme, corone, aurati
panni;/Ma non veggon dapoi con l‟intelletto/Le penose fatiche, e i gravi affanni,/Le cure, e le
molestie, a mille a mille,/Che di dentro celate e ascose stanno». Naturalmente, il modulo è
molto presente in Seneca: cfr. almeno Hercules, vv. 159-201; Agamemnon, vv. 57-107; Thye-
stes, vv. 339-403, 446-70, 596-622.
283
Sono versi densamente strutturati. Cfr. F. PETRARCA, Triumphus Cupidinis, III, v. 178.
Per i vv. 39-40 con la topica coppia „assenzio e fiele‟ cfr. tra gli altri: G. STAMPA, Rime, 68, v.
33; B. TASSO, Inni et Ode, 25, v. 5; B. VARCHI, Rime, 88, v. 10; L. TANSILLO, Canzoniere,
canzone I dolci, leggiadretti, vv. 22-3.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 229

Ma che? La sciocca openion di molti,


Da superstition vana adombrati,
Ne sforza a dar credenza a le menzogne
D‟avari Sacerdoti, che fingendo
Vanno di favellar con Giove spesso;
O per certi portenti, che natura,
E ‟l caso fa, d‟antiveder le cose;
Come, che human saper gli alti secreti
Potesse penetrar de i sommi Dei. (vv. 109-127)

Occorre sacrificare Ifigenia a Diana per avere la strada libera per la


Frigia. Ma quello che conta in questa sequenza è la perentorietà della
posizione razionalistica e rigorosamente antiprofetica di Agamennone
(fatalmente smentita nel prosieguo, peraltro): non è da escludere
nemmeno che qui vi sia una presa di posizione obliqua, di segno pla-
tealmente eterodosso, a favore dell‟accessus alle Sacre Scritture non
mediato dalle gerarchie ecclesiastiche. Naturalmente, sono soprattutto
suggestioni. Comunque, questa riflessione non ha luogo né in Euripi-
de, né in Erasmo.
Agamennone prosegue il suo resoconto al Servo: aveva inviato un
araldo (Taltibio) a comunicare all‟esercito la sua intenzione di partire,
essendo per lui insopportabile il sacrificio di Ifigenia, ma il fratello
Menelao, accecato dalla libido uictrix tipica della sua stirpe, ne aveva
contrastato il progetto di disimpegno, costringendolo a scrivere una
lettera in cui si ingiungeva a Clitennestra di condurre immediatamente
in Aulide la figlia Ifigenia, a causa di una proposta di nozze fatta da
Achille.284
Solo Agamennone, Menelao, Ulisse e Calcante sono a parte di que-
sto dolus, del quale il Re e capo della spedizione achea si è peraltro
pentito: a questo punto scatta il contro-dolus di Agamennone che invia
il Servo a raggiungere Clitennestra meschina (v. 170) e a consegnarle
una lettera di smentita dei contenuti della prima. Dopo le ultime rac-
comandazioni rituali, il Servo si allontana e qui, con nuova sorpren-

284
Il motivo della lettera, deltos, abbastanza frequente nel teatro greco e nel racconto, è
spesso strettamente legato al motivo dell‟inganno. La parola incisa sulla tavoletta, non smen-
tibile dall‟intonazione della voce, né dalla gestualità del corpo è quasi sempre un messaggio
depistante. Cfr. la celebre tavoletta scoperta sul corpo di Fedra impiccata nel terzo episodio
dell‟Hippolytos.
230 Venezia in coturno

dente decezione/elusione del nostro Erwartungshorizon euripideo-


erasmiano, Dolce fa entrare in scena l‟indovino Calcante, che avvia un
articolato dialogo con Agamennone (cfr. vv. 200-334), in cui, per la
verità, assume la funzione molto precisa del Satelles/Consigliere così
tipica della tragedia sul potere del Cinquecento. Non occorre riportare
l‟intero dialogo; solo mette conto di notare alcune cose notevoli. Così
esordisce l‟indovino, che diegeticamente sembra svolgere funzione
analoga a quella del personaggio di Tiresia nella Giocasta, quando
annunzia la dolorosa necessità di sacrificare Meneceo:

CALCANTE
Re Agamennone è di gran lode degna
La cura, che voi tien vigile e desto
Per riposo comun di tutti noi.
E certo ben convien, se l‟huomo avanza
Gli altri di Stato, che gli avanzi ancora
Di sollecite cure, e di pensieri:
Che ‟l Signor valoroso accorto e saggio
Deve i sudditi amar, come figliuoli,
E in giovar loro dimostrarsi padre.
Onde non acquistò Principe honore
Per opra altera e di trionfo degna,
Che degnamente s‟appreggi a questa
Uscita dal cortese animo vostro,
Di ricovrar col sangue de la figlia
La gloria universal di tutti i Greci:
Perché vincendo il naturale affetto,
Vincete più; che, se vittoria havendo
Sopra a nimici, vi vedesse il mondo
Mille palme acquistar, mille trofei.
Appresso vi mostrate parimente
A la religion servo et amico,
Senza la qual non si ritrova Regno,
Che durar possa lungamente in piede.
Io certo alquanto spatio hebbi rispetto
Di far il santo Oracolo palese,
Veggendo, come a voi solo noceva.
Ma tornandomi a mente, quanto v‟era
Caro l‟util di tutti, hebbi certezza,
Le tragedie di Lodovico Dolce II 231

Che non v‟offenderian le mie parole. (vv. 200-28)285

Ciò che più sorprende non è tanto la spiccata declinazione politica


dell‟incipit di battuta, lievemente ironico, di Calcante, quanto l‟impre-
vedibile evoluzione (scenicamente e psicologicamente formidabile)
dell‟atteggiamento di Agamennone che i suddetti versi preparano:286

AGAMENNONE
Calcante né doler di te mi debbo,
Né de gli Dij: di te, che sei tenuto
A dire il vero: de gli Dij, che questi
Oprano sempre a beneficio nostro,
Né da lor mai procede effetto ingiusto.
E, se ben de la morte di mia figlia
Non posso non dolermi, essendo padre:
Nondimeno maggior è l‟allegrezza,
Ch‟io prendo di quel ben, che se n‟aspetta,
Che tristezza non ho del proprio danno. (vv. 229-38)

Lo spettatore si trova di fronte un sorprendente Agamennone che è


il duplicato condiscendente del personaggio iperrazionalistico e severo
nei confronti dell‟arte profetica appena visto nella scena di apertura
della tragedia: quale dei due è il vero Re di Micene? Agamennone
vuole realmente salvare la figlia (come sembrava di capire dal dialogo
con il Servo) o preferisce, sacrificandola, conquistare il prestigio e o-
nore eterni che lo accompagneranno se conquisterà Troia?
Del resto, la doppiezza e l‟ambiguità sono fra i tratti più caratteri-
stici della storia di Ifigenia, segnata da un‟estrema, patologica labilità
psicologica dei personaggi coinvolti, con la conseguenza diretta che il
focus dello sviluppo drammatico si concentra più sull‟evoluzione inte-
riore degli stessi che sulle vicende agite. È quello dell‟estrema volubi-
lità psichica degli agonistài uno dei tratti più suggestivamente moder-

285
Nel discorso di Calcante vi è una temperatura retorica abbastanza alta: oltre alle solite
dittologie, abbiamo un trikolon al v. 206, il polittoto di „vincere‟ (vincendo…vincete) ai vv.
215-216, con derivatio del sostantivo vittoria nel secondo verso, una rima interna vincendo-
avendo (vv. 215-216) in consonanza con mondo (v. 217), l‟anafora di mille in parisosi a v.
218 («Mille palme acquistar, mille trofei»), etc..
286
Rispetto a premesse che hanno delineato una dialettica insanabile fra i due: vd. i vv.
110, 119-27, 160.
232 Venezia in coturno

ni della tragedia euripidea e Dolce sembra aver pienamente compreso


questo aspetto, spingendo proprio manieristicamente sul versante del-
l‟ambiguità e dello smarrimento dell‟identità dei vari personaggi, se-
condo coordinate che appartengono alla cultura del grande Manieri-
smo europeo.287
L‟Ifigenia è, quando sia letta in questa prospettiva, un perfetto e-
xemplum di ricontestualizzazione di un testo antico (già peraltro ripro-
posto nel primo Cinquecento) nel campo letterario manierista, con si-
cure capacità di demistificazione delle istituzioni immateriali della re-
altà, se non di autentica e dissolvente critica ideologica.288 Perfetta-
mente riprodotta mi pare poi la cosiddetta „doppia morale‟ che Ma-
chiavelli aveva proposto nel Principe289 e che Hauser, per esempio,
reputava essere uno dei tratti più pertinentemente rappresentativi della
crisi del Rinascimento.290 Da tutti questi elementi, di cui già abbiamo
detto e su cui torneremo, emerge l‟originalità assoluta dell‟operazione
del Dolce.

287
Senza pretese e senza rischiare di fare una poco sensata apologia della statura europea
del Dolce, occorre però anche immediatamente registrare la straordinaria capacità di anticipa-
zione che alcuni tratti pertinenti della sua Ifigenia possiedono: in fin dei conti sarà proprio
nell‟alveo del Manierismo europeo che si porrà persuasivamente la questione della mutevo-
lezza dell‟Io: questo potente nucleo concettuale influenzerà il pensiero di Montaigne, ma an-
che di Tasso, Cervantes, Shakespeare, per non citare che i grandissimi. Va da sé che una arti-
colata riflessione su queste questioni esula dal perimetro della presente ricerca. Per una rico-
struzione delle dinamiche del Manierismo si rinvia sempre ai classici: A. HAUSER, Il Manieri-
smo. La crisi del Rinascimento e l‟origine dell‟arte moderna, Torino, Einaudi, 1965; G. R.
HOCKE, Il Manierismo nella letteratura. Alchimia verbale e arte combinatoria esoterica, Mi-
lano, Il Saggiatore, 1965; T. KLANICZAY, La crisi del Rinascimento e il Manierismo, Roma,
Bulzoni, 1973; A. QUONDAM (a c. di), Problemi del Manierismo, Napoli, Guida, 1975. Per la
questione da un punto di vista teatrale cfr. ancora M. ARIANI, Tra Classicismo e Manierismo.
Il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974, il quale peraltro decide di escludere
totalmente (e colpevolmente) Dolce tragico dalle sue riflessioni.
288
Succede talvolta con la traduzione del Dolce quel che accade con il Don Quixote tra-
dotto da Pierre Menard nel celeberrimo racconto borgesiano di Ficciones: financo la ripropo-
sizione delle stesse parole cervantine cambia di segno se il contesto di accoglimento muta.
Nel caso della versione del Dolce, il livello di innovazione ipertestuale è in funzione del di-
scorso culturale e antropologico (quanto consapevole non importa) che il tragediografo fa sul
presente, con reale, efficace capacità decostruttiva e con perfetta rappresentazione di varie i-
stanze della Stimmung manierista che si stava affermando.
289
Cfr. N. MACHIAVELLI, Il Principe, XV e XVIII.
290
Cfr. A. HAUSER, Il Manierismo, cit., passim.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 233

Procedendo: Calcante rivela di essere stato spesso impegnato nella


decifrazione astrologica del destino del Re e ribadisce che, senza la
conquista di Troia, vi sarebbero conseguenze disastrose per la soprav-
vivenza della civiltà ellenica; con accenti che ancora una volta sem-
brano petrarcheschi,291 descrive l‟orrore di una eventuale invasione
nemica:

CALCANTE
E per giovar in quel, ch‟io posso, e debbo,
Quando il soave obblio tutt‟altri acqueta,
Osservando ne vò l‟erranti stelle,
Che destinan fra noi diversi effetti.
Acciò, che voi sapendo il bene e ‟l male,
Che scende di la sù, sappiate ancora
Se debbono avvenir qua giù dapoi,
Fortunate l‟imprese, od infelici.
[…]
Così a l‟incontro, se ‟l paterno amore
(Di che i‟ non temo) soverchiasse in voi
L‟honesto officio; i nostri alti nimici
Verriano in Grecia con armata mano,
Distruggendo le nostre alme cittadi,
I bei palagi, et i dorati Tempi:
Et i nostri figliuoli, e le mogliere
O de la scelerata audacia preda
Diverrian de‟ soldati empi e malvagi;
O che del sangue lor vermiglie e brutte
Del Barbarico stuol farian le spade;
Cosa, che solo a imaginarla io tremo (vv. 257-89)

Agamennone, in questa sorta di vertiginoso gioco delle parti in cui


tutto ciò che viene detto pare reversibile e polivalente, conclude il dia-
logo con un intervento coerentemente (se così si può dire) ambiguo:

291
Mi pare scoperta una complessiva derivazione di moduli e lessico da F. PETRARCA,
Rvf, 128. È forse possibile ravvisare in questa riflessione del sacerdote una traccia del dibatti-
to sul rapporto fra mondo occidentale e civiltà ottomana che era tra le più spinose questioni di
geopolitica del tempo, specie a Venezia. Un Calcante promotore della crociata antiturca? For-
se la lettura è un po‟ forzata, ma non va assolutamente sottovalutata l‟ipotesi di una rifrazione
di tematiche contemporanee nella poesia tragica del tempo.
234 Venezia in coturno

AGAMENNONE
L‟huom, che per tema di futuro male
Resta di porre il piè fuor del camino
De l‟honestà; che trapassar non deve;
È indegno d‟esser riputato buono.
Buono è colui, che fa quanto conviene
Di suo voler, e non da forza astretto.
Io son mosso Calcante (e creder dei)
Io son mosso ad aprir le proprie carni,
E versar il mio sangue, solamente
Pel natio desiderio, ond‟io son pieno,
Di sostener l‟honor, quanto più posso,
De‟ nostri Greci. […]
Dunque la verginità a mia figliuola,
De la qual attendea genero illustre,
E nipoti honorati in breve tempo,
Io non voglio, che più mia figlia sia,
Ma, qual bramate voi, vittima vostra. (vv. 290-312)

Qui del tutto scenicamente dissimulato è il tentativo, in atto, di evi-


tare il sacrificio di Ifigenia, esemplarmente riarticolata la dialettica fra
res e verba e rappresentata la scissura conflittuale fra dimensione
pubblica e privata del personaggio, come ha modo di constatare poi in
un lucidissimo, disvelante, breve monologo conclusivo proprio Cal-
cante, lasciato solo da Agamennone:

CALCANTE SOLO
Cosa non è, di cui si possa meno
Ritrar ferma certezza, che del cuore:
Ch‟a le parole, che la lingua forma,
È dissimil sovente; e rende vano
Il giudicio de l‟huomo: onde rimane
Ingannato talhor, che men sel crede.
Quel, c‟habbia Agamennon chiuso nel petto,
Sasselo quei, che solo intende e vede,
Ciò che non vede l‟intelletto humano.
Certo è raro colui, che ponga avanti
L‟utilità commune al proprio bene.
Ne pur io sol di qualche fraude temo;
Ma l‟istesso fratel, che tuttavia
Osserva, e fa osservar ogni camino,
Accio ch‟alcun de la città non parta
Le tragedie di Lodovico Dolce II 235

Per l‟amico silentio de la notte:


Et hammi imposto, ch‟io cercassi in tanto
Di saper il voler, ch‟in lui si gira. (vv. 315-32)

Tale conclusione di Calcante in un certo senso giustifica – ma solo


agli occhi del lettore/spettatore che ha oggettivamente una posizione
privilegiata rispetto agli stessi attori della vicenda – il comportamento
equivoco di Agamennone e serve a disambiguarne (ma per quanto?) le
zone d‟ombra: Agamennone finge di non volersi opporre al sacrificio
della figlia, ma in realtà non è convinto della sua necessità, ribadita
invece da Calcante ossessivamente.
In questo perfetto gioco di specchi, l‟indovino ci rivela che è Mene-
lao ad averlo inviato da Agamennone per cercare di capire quali fosse-
ro le sue intenzioni a proposito di Ifigenia: Calcante non è quindi un
sacerdote-astrologo alla ricerca di segni favorevoli, ma letteralmente
una spia di Menelao. Con il che, la stessa precedente scena acquista un
preciso valore funzionale: evitare di generare il sospetto che Agamen-
none stesse operando nella direzione opposta a quella della guerra, vo-
luta da tutti, e solo per tutelare affetti privati. Siamo davvero di fronte
ad uno dei migliori atti dell‟intero teatro tragico cinquecentesco, per
ricchezza di motivi, finezza della caratterizzazione psicologica, coe-
renza dello sviluppo drammatico, caratura ideologica della scrittura
drammatica. Così si chiude l‟atto primo.
Il coro I292 corrisponde non già all‟erudita, epicheggiante e catalo-
gica pàrodos del testo euripideo, peraltro quasi sicuramente spuria e
ripresa scrupolosamente da Erasmo (cfr. Iphigenia, vv. 197-386), ben-
sì al primo stasimo della fabula greca. È un coro rivolto contro Amo-
re, «Tiran, che di lascivia nasce/E sol di sangue human si nutre e pa-
sce»293 (v. 343-44): da rilevare in generale le dittologie, qualche triko-
lon, qualche epifrasi e alcune paronomasie a segnare una sorta pro-
gressione lirica del coro. Si vedano come specimen i bei vv. 379 ss. di
topica caratura filosofica:

292
Costituito da sette stanze con schema [abb. Cdd. BC. EE] e congedo di quattro versi.
293
Cfr. L. DOLCE, Didone, vv. 10-12: «Né d‟ambrosia mi pasco,/Sì come gli altri Dei,/Ma
di sangue et di pianto». Il motivo ha una fortuna così eccezionale, che ci permette di evitare il
rinvio alla filiera delle fonti.
236 Venezia in coturno

Cotal produce effetto


Fuggitivo diletto:
E stan presso le rose acute spine:
Così amaro d‟Amor ritorna il frutto:
Così dopo il sereno atra tempesta
L‟herbe, le piante, e i fior fere e molesta.

Dove il sapore – o meglio, il profumo – mi pare ancora petrarche-


sco (Rvf, 220, vv. 2-3 e Rvf, 246), polizianesco (Stanze, I, 78), arioste-
sco (Orlando furioso, I, 42-43).
Di particolare interesse sembrano le stanze sesta e settima che, con
il congedo, approfondiscono il motivo pacifista della guerra come di-
sastro totale, tanto per i vincitori, quanto per i vinti, con una parteci-
pazione che è propria e solo di Dolce e non dei modelli:

CORO
Ma vinca pur, chi vuole
O ragione, o fortuna,
La qual sotto la Luna294
Ogni cosa mortal governa e regge:
Quanto ella ad altri suole
Di quel, che strugge e duole,
Apportar con la vista horrida e bruna; 295
Come par, che ricerchi ordine, e legge;
Sarà comune al vincitore e al vinto,
E fia il Greco, e ‟l Troian di sangue tinto.
Quante madre dolenti
Vedransi in su l‟Ilisso
Pregar, che ‟l negro abisso
S‟apra a finir il crudo affanno loro:
Quanti s‟udran lamenti,
Quanti dogliosi accenti
D‟afflitti padri; il cui destin è fisso,
Che i figli, cari più d‟ogni thesoro,
Dal ferro crudelmente uccisi e vinti
Ne i più verd‟anni lor restino estinti.

294
L‟immagine, di probabile origine biblica, ha una notevole fortuna: cfr. almeno F. PE-
TRARCA, Rvf, 229, v. 13; 237, v. 10; 360, v. 99.
295
La dittologia, invero originale, si può ritrovare nel canzoniere di Bernardo Tasso, uno
dei più notoriamente frequentati dal Dolce: cfr. B. TASSO, Rime, IV, 36, v. 13: «già spezza la
tempesta orrida e bruna».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 237

Ma noi Donne e donzelle


Ce ne staremo in tanto
Lunge d‟Ascanio e Santho296
Secure ad ascoltar l‟empie novelle. (vv. 385-408)

Ancora una volta nella tragedia del Dolce fa la sua apparizione il


pacifismo così caratteristico della letteratura veneziana post-cambraica
del Cinquecento, esemplare irruzione, in una fabula già confezionata,
di un dato storico, tematicamente assai importante.

2. Il secondo atto (vv. 409-901) comincia con una brevissima scena


in cui viene rappresentato lo scontro fra il Servo e Menelao, che gli ha
requisito la seconda lettera di Agamennone a Clitennestra e Ifigenia.
Tutta questa sezione ha buona vivacità scenica e la deissi serve a rico-
struire sulla pagina scritta le dinamiche spaziali e simboliche della
fabula agita. Particolarmente notevole è la funzione teatrale dell‟og-
getto-lettera, autentico fulcro della scena:

MENELAO
Re conoscete voi questo sigillo?
Conoscete la lettra, che contiene
Opra d‟una malvagia e torta mente?
AGAMENNONE
Ella è mia lettra, e haverla scritta affermo,
Con questa mano; e quanto è scritto in lei,
Vuò sostener, che con ragion è scritto.
Ma ritornala a me: che ciò facendo,
Ti fia d‟honore, ov‟hor t‟è di vergogna. (vv. 447-54)

La questione della lettera avvia lo scontro fra i due fratelli. Di sicu-


ro interesse per una migliore caratterizzazione delle ambiguità psico-
logiche di Agamennone sono vari versi recitati da Menelao che riepi-
loga alcuni degli antefatti:

296
Cfr. L. ARIOSTO, Orlando furioso, XLI, 63, v. 6: «col sospirato Ascanio e caro Xanto».
È questo uno dei pochi casi in cui Dolce indulga ad una notazione geografica erudita. Ma su-
bito occorre notare che la paternità ariostesca serve a neutralizzare in partenza qualunque ipo-
tesi di confusione nel pubblico medio.
238 Venezia in coturno

MENELAO
Questo fe adunque, che Calcante havendo,
Dopi i solenni sacrifici a Giove,
Predetto, che sarian propitij i venti
Per condur tante genti, e tante navi
A la città, la qual restando in piede,
I Greci sempre vitupero havranno,
Quando a Diana vittima facesse
Il sangue d‟Ifigenia vostra figlia:
Alhora dimostrando ne la fronte
Per questa nuova un‟allegrezza immensa,
Offriste al sacrificio la fanciulla
Di voler vostro (che negar non puossi)
E non, che alcun ve ne facesse forza.
[…]
[…]. Hora in un tratto,
A guisa di vil femina, mutando
Pensiero e voglie, a Clitennestra vanno
Altre lettere, altri messi, et altri avisi. (vv. 556-77)

Questo è un passo in cui Menelao informa distesamente lo spettato-


re/lettore su fatti cui in precedenza si era solo alluso. Riletto alla luce
di queste informazioni, Agamennone diventa un duplicato dell‟Eteocle
della Giocasta, annebbiato dalla philotimìa, e non il padre premuroso,
pentito e debole che Dolce ci ha presentato nel primo atto. Ancora pe-
rò si pone il problema di capire quale Agamennone sia quello vero,
quali e quante maschere sia in grado di indossare e nuovamente riba-
dita è la discontinuità psicologica come condizione consustanziale al-
l‟uomo di potere, ma certo anche all‟uomo in generale, secondo una
interpretazione che sembra anticipare alcune delle più abissali figure
del teatro shakespeariano.
Assai politicamente connotata, anche se un po‟ decentrata rispetto
al discorso avviato, è poi la conclusione del ragionamento di Menelao
che fornisce un suo personale catalogo delle virtutes necessarie per e-
sercitare l‟arte del comando:

MENELAO
Ma, quando fosse in poter mio concesso
Di dar il freno, et il governo in mano
Di cittade, o d‟esercito ad alcuno,
Contra l‟uso, che serbano gli sciocchi,
Le tragedie di Lodovico Dolce II 239

A nobiltade io non havrei riguardo,


Né a merti di passati né a ricchezze,
Ma solo eleggerei chi fosse adorno
De‟ thesori de l‟animo; che questi
È veramente nobile; e bisogna
Che sia ardito, sia astuto, e d‟alto cuore,
Sia discreto, prudente, e forte, e saggio
Chi di regger altrui cura si prende:
E conchiudo, che Prencipe è colui
Che di bontà, di cortesia, d‟amore,
Di prudenza, e virtù tutt‟altri avanza. (vv. 597-611)297

Come si vede vi è in questo breve speculum principis una precisa


impronta cristiana e „democratica‟, assente di fatto nei modelli. Aga-
mennone, attaccato dal fratello per la scarsa coerenza, gli rinfaccia la
responsabilità stessa della guerra, che si sta preparando solo per anda-
re a recuperare la di lui moglie Elena; il dialogo si chiude, fra recipro-
che accuse, senza esito.
Il v. 702 segna l‟ingresso di un Nunzio trafelato che annuncia l‟ar-
rivo del convoglio con Clitennestra, Ifigenia e Oreste:

NUNTIO
Quanto venuto io sia correndo in fretta,
Per darvi tosto il desiato avviso
Magnanimo Signor, lo vi dimostra
Questo sudor, e ‟l non poter a pena
Per formar queste voci haver il fiato.
Saprete adunque, che la cara figlia
La moglie, e ‟nsieme il pargoletto Oreste
Venuti son (come imponeste) d‟Argo:
Ma stanchi dal camin per ristorarsi
Fermato s‟hanno a le fiorite sponde,
Che ‟l bel lucido Eurito irriga e bagna;
E in Aulide saran fra poco d‟hora. (vv. 702-13)

Al di là del particolare realistico e basso del sudor sul viso del


Nunzio, più comico che tragico,298 una nuova spia microtestuale con-

297
Qua è là si avvertono lacerti del pensiero politico rinascimentale, oltre che quasi sicure
influenze letterarie: cfr. per il v. 610 F. PETRARCA, Rvf, 261, v. 2: «di senno, di valor, di corte-
sia». Si tengano presenti, per una prospettiva diversa rispetto a quella qui esibita, i tanti capi-
toli del Principe del Machiavelli dedicati ad illustrare le qualità del buon principe.
240 Venezia in coturno

ferma la dipendenza del Dolce dalla traduzione latina di Erasmo da


Rotterdam, il quale aveva tradotto l‟aggettivo euripideo εὔρσηον (v.
420) così: «Sed quod viam longam peregerint, apud/Lymphas niten-
teis fontis Euryti manent» (vv. 540-41).
Il Nunzio riporta, con terribile ironia tragica, le impressioni e i pen-
sieri dell‟esercito: perché Agamennone ha fatto venire Ifigenia? Vuole
averla vicina per nostalgia o, come sembra, la vuole far sposare da
qualcuno? In ogni caso – con movenza digressiva tipica di un gusto
pastorale – invita Agamennone e Menelao a cingersi le tempie con co-
rone di rose, per festeggiare il giorno di festa:

NUNTIO
Ora lasciando ciò, che non importa,
Vedete in questa Cesta due ghirlande
Di vaghe rose, e di be‟ fior conteste.
Una ne manda la Reina a voi,
E l‟altra a Menelao, perch‟ambedoi
Ve n‟orniate le tempie; com‟è degno
Di farsi in questo dì solenne e festo.
Il qual, sì come a la donzella fia
Lieto e felice; così questa casa
Dee risonar di canti e voci allegre:
Quinci l‟arme dipor Bellona e Marte,
Fin che Venere amica et Himeneo
Possano accompagnar felicemente
Al letto marital la bella sposa. (vv. 728-41)299

Agamennone, che sa quanto il Nunzio si stia sbagliando, si rifugia


ancora nella topica della mesòtes e della quies vulgi:

AGAMENNONE
O veramente in ciò troppo felici
Voi, ch‟in oscuro, e basso grado posti
Ne i molti affanni, onde la vita è piena,
Potete lagrimar, quanto vi cale.

298
Cfr. L. ARIOSTO, Orlando furioso, VII, 56, vv. 7-8.
299
La Cesta rinvia probabilmente a S. SPERONI, Canace, vv. 1166-67: «Con quella cesta
adunque e col fanciullo/Posto tra l‟erbe e‟ fiori». Cfr. anche T. TASSO, Gerusalemme liberata,
XII, 29, vv. 1-3: «Io piangendo ti presi, e in breve cesta/fuor ti portai, tra fiori e frondi asco-
sa/ti celai da ciascun».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 241

M‟a noi, che habbiam d‟altrui corona e scettro,300


Conceduto non è pur di dolerci:
Non lice a me bagnar di pianto il volto;
E detto io fia crudel, se non lo bagno. (vv. 750-57)

Questa sezione prevede un innalzamento della temperatura patetica,


giacché Agamennone si lamenta della sua sorte e del destino di morte
che attende Ifigenia che dantescamente «Tra poco oimè sarà giù ne
l‟Inferno/Sposa del Re de le perdute genti?» (vv. 774-75).
Ed è a questa altezza dello sviluppo diegetico che si colloca, per
smorzare la tensione drammatica, un altro coup-de-théâtre: l‟infles-
sibile Menelao della prima scena dell‟atto muta atteggiamento nei
confronti del fratello dopo averlo visto piangere affranto e si dichiara
pronto a rinunciare ad Elena pur di evitare ad Agamennone il dolore
della perdita di Ifigenia:

MENELAO
Io giuro per l‟illustre nostro padre,
E per l‟ombra del grande Avolo antico,
Che, qual di dentro è il cor, tali saranno
Hor le parole mie senza menzogna.
Certo il veder di lagrime rigarvi
Gli occhi, e ‟l considerar, quanto v‟affanni
Hora il debito amor de la figliuola,
Di fraterna pietà m‟ha punto l‟alma.
Onde insieme ne piango, e finalmente
Ho cangiato desio, pensiero, e voglia.
Quinci conforto voi, che non vogliate
Consentir a la morte de la figlia,
Perché honesto non è, né si conviene,
Che ‟l diletto di me vi rechi affanno:
E che per mia cagion perisca alcuno
De‟ vostri figli, e i miei restino in vita. (vv. 788-803)

Il pentimento di Menelao risponde alla logica del rovesciamento e


del gioco di specchi che caratterizza lo sviluppo della fabula: ma se in
Euripide ed Erasmo questo tratto sembra essenzialmente funzionale al
sacrificio della vergine, nella riscrittura del Dolce pare invece dotato

300
Ancora ripreso F. PETRARCA, Triumphus Mortis, I, v. 83.
242 Venezia in coturno

di autonoma consistenza concettuale e tematica, secondo le coordinate


di una Stimmung convincentemente manierista. E non meno inopinata
è la risposta di Agamennone, ormai convinto della irreversibilità della
pratica sacrificale avviata:

AGAMENNONE
Ti ringratio fratel, ch‟in te pietade
(Quel, ch‟io non aspettava) possa tanto,
Quanto ragion et honestà ricerca,
Ma questa non mi tol, che non s‟uccida
La mia figliuola, perché gita innanzi
La cosa è sì, ch‟ogni rimedio è vano. (vv. 832-37)

Con questo intervento è avviata una scattante sticomitia in cui Me-


nelao sentenzia sulla necessità di uccidere Calcante, onde evitare che
questi riveli all‟esercito il tormentato percorso interiore di Agamenno-
ne, puntellando l‟esortazione con sententia davvero machiavellica al
v. 846: «È giusto tutto quel, ch‟utile apporta». Conclude l‟atto una
nuova innovazione ipertestuale del Dolce: Menelao, ormai passato de-
finitivamente nella pars di coloro che reputano indegno sacrificare I-
figenia e trasformato in una sorta di perfetto, simmetrico anti-
Calcante, vuole convincere Ulisse a persuadere l‟esercito e Agamen-
none della dispensabilità del sacrificio, giudicato ora, sempre secondo
la strategia del rovesciamento delle posizioni precedentemente soste-
nute, un «vitupero indegno» (v. 899).
Il coro II301 è una radicale invenzione del Dolce. Topicamente, la
prima stanza riflette sull‟u-niversale condizione di precarietà nella
quale l‟uomo vive, sottoposto ai capricci di Fortuna. Poi Dolce crtitica
l‟ambizione (= philotimìa greca) che spinge l‟uomo (specie quello di
potere) ad osare sempre di più e a farsi guidare non dalla ragione, ma
dalle passioni autodistruttive.

3. Il terzo atto, monumentale (vv. 941-1683), vede entrare in scena


le principali protagoniste femminili della tragedia: Clitennestra ed Ifi-
genia. La regina micenea è assolutamente convinta delle prossime

301
Con schema [abC. abC. cdEde. Ff] distribuito su tre stanze.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 243

nozze della figlia, cui si rivolge petrarchescamente ai vv. 946-47, sot-


tolineando che «su ‟l più vago fiore/Sei de la giovanil tenera etate».302
Anche il settenne Oreste accompagna il convoglio proveniente da
Micene. Tutta la seguente scena è accordata al diapason affettuoso-
sentimentale del patetico ricongiungimento familiare: ma l‟abuso di
termini del lessico parentale, che in Dolce tocca vertici di frequenza e
pregnanza rari,303 sembra qui strategicamente rivelare, proprio per il
suo sospetto rilievo quantitativo, una falsa ossessione per la famiglia e
per la dimensione privata.
Ancora una volta evidente è il divorzio fra res e verba, nella asso-
luta impossibilità per queste ultime di rappresentare unilateralmente e
univocamente le prime. Il dialogo fra Agamennone e la figlia è carat-
terizzato massicciamente dalla doppia destinazione e dall‟anfibologia
degli interventi del re acheo, che sfrutta, per così dire, i dislivelli co-
noscitivi che si sono venuti a creare fra fabula agita e fabula racconta-
ta, fra personaggi sul palcoscenico e pubblico. Si leggano i seguenti
versi di Agamennone:

Dolcissima figliuola, e tu consorte


Da me diletta, e tu mio caro Oreste,
Sallo Dio, che ‟l veder voi, che mi sete
Tutto quel, ben, che goder posso in terra,
Per tenerezza a lagrimar m‟induce:
Ma non prendete così dolce affetto
Per tristo augurio a le future nozze. (vv. 974-80)

Figlia il continuo peso, ch‟io sostengo


[…]
Cagion è che mostrar non posso il viso
Verso di te, com‟io dovrei, sereno. (vv. 985-89)

302
Cfr. F. PETRARCA, Rvf, 278, v. 1; 315, v. 1; 336, v. 3; Triumphus Eternitatis, v. 133; B.
TASSO, Rime, II, 75, vv. 6-7: «cogliete, o giovenette, il vago fiore/de‟ vostri più dolci anni…»
303
Cfr. amata figlia (v. 941), tuo padre (v. 944), d‟Agamennon più tarda prole (v. 951),
festa/de la sorella (vv. 954-955, con indubbio valore anfibologico), Illustre Genitor (v. 959),
figlia (v. 960), Illustre Padre mio (v. 966), Dolcissima figliuola (v. 974), consorte (v. 974),
padre mio (v. 981), Figlia (v. 985), caro mio padre (v. 990), Figliuola (v. 994), Figlia (v.
999), Figlia (v. 1010), figli vostri (v. 1013), madre mia (v. 1014), figlia (v. 1027), figlia vo-
stra (v. 1033), Padre (v. 1034), Madre mia (v. 1037), Figlia (v. 1042), figli (v. 1047), Padre
(v. 1052), figlia mia (v. 1054), figlia (v. 1059), Padre/Paternamente (vv. 1062-1063), figlia
mia (v. 1065), cara figlia (v. 1069).
244 Venezia in coturno

Figlia questo giorno


Dee l‟un da l‟altro star tosto diviso
Eternamente, o lungo spatio d‟anni.
A che pensando, dal paterno amore
Vinto, non posso far, ch‟io non mi dolga. (vv. 999b-1003)

Ma il linguaggio del corpo non lascia dubbi e Ifigenia non può esi-
mersi dal registrare questa scissura fra le parole, apparentemente ras-
sicuranti (eppure oscure al v. 1008), e la trasparenza delle emozioni:

Pur il vedervi padre mio turbato


Fuor di costume, me sconforta alquanto:
Che havendo cara la venuta mia,
Non si convien sì nubiloso aspetto. (vv. 981-84)

Caro mio padre insin, che sete meco,


Deh non v‟incresca alleggerir la mente
Da gl‟importanti vostri alti pensieri;
E, come sete qui con la persona,
Siate ancora con l‟animo. (vv. 990-94a)

Ma che vogliono dir questi sospiri?


Perché vi veggo anchora uscir de gli occhi
Lagrime nuove? (vv. 997-99a)

L‟anfibologia diventa incandescente nel prosieguo del dialogo, spe-


cie a partire dal v. 1032. Valga come pars pro toto questo scambio:

IFIGENIA
Deh non sarete voi padre contento,
Ch‟a questo sacrificio anch‟io mi trovi?
AGAMENNONE
È mestier figlia mia, che tu ti trovi
Più che null‟altro.
IFIGENIA
Vi bisogna forse
L‟opera mia?

AGAMENNONE
Te più felice estimo
Di me, da poi che non intendi ancora
Del sacrificio la segreta forma. (vv. 1052-58)
Le tragedie di Lodovico Dolce II 245

La restituzione del modello euripideo è nel complesso riuscita. Il


successivo dialogo fra Agamennone e Clitennestra (Ifigenia è uscita di
scena alla fine della scena precedente) è ancora ambiguamente caratte-
rizzato dal modulo dell‟ironia tragica, tentando il re acheo di inganna-
re la moglie sulle reali ragioni della convocazione di Ifigenia: tutta e
autenticamente politica è l‟insistenza con cui Agamennone, indossata
la maschera del re, continua a sostenere l‟imminenza delle nuptiae con
Achille di Ifigenia, ben sapendo che esse sono una fola.
Ma le sue capziose strategie argomentative non hanno successo:
Clitennestra, risolutamente, intende presenziare al matrimonio della
figlia, non senza una sorta di impeto femminista che la induce a repli-
care alle ingiunzioni del marito: «Sia detto senza offesa/Del vostro
cuor: a ciò obedir non voglio» (vv. 1120b-21).
Con il v. 1143 si apre un nuovo spazio di invenzione originale da
parte del Dolce, che immette un dialogo fra il coro e Clitennestra:

CORO
O Miseria infinita,
Ch‟un Re, ch‟ad altri suole
Imponer leggi e freno;
Ne pur, quant‟egli deve
Ma ancor fa, quanto vuole;
Sia astretto a consentire,
Che la propria figliuola
Col ferro crudelmente esca di vita.
CLITENNESTRA
Poi che ‟l mio sposo è gito
Io non so dove, intento
A le future nozze,
Che senza me vorria
Troppo crudel, che fosser celebrate:
M‟è caduto nel core
Di trovar quell‟Achille,
A cui casto e legittimo Himeneo
Dee congiunger la mia
Amata Ifigenia;
Che insolito timore
Di non so che, non mi lascia godere
Quella gioia compita,
La qual sogliono havere
Ne le nozze de‟ cari
246 Venezia in coturno

Lor figli sempre le pietose madri. (vv. 1143-66)

Da rilevare è qui la totale assenza di comunicazione fra i due inter-


locutori, dato il dislivello conoscitivo che emerge dalle loro parole.304
La battuta di Clitennestra ha la funzione di spiegare, anticipandole ca-
taforicamente nel discorso, le prossime vicende e rivela una tipicissi-
ma ansia di obscuritas dello sviluppo tragico. Non per caso il dialogo
introduce diegeticamente il personaggio di Achille che scenicamente
compare con il v. 1180 (dopo che Dolce ha deciso di cassare il secon-
do stasimo della tragedia).
Il grande eroe esordisce con alcuni versi in cui esibisce un animus
filosofico a quest‟altezza del tutto sconosciuto al personaggio di Euri-
pide ed Erasmo:

ACHILLE
Perché la vita è fuggitiva e breve;
E non riman di noi dopo la morte
Altro, che ‟l bello et honorato nome
De l‟opre illustri, e di memoria degne;
Non è perdita alcuna, onde più debba
Dolersi l‟huom, che di lograr il tempo,
Danno, che non più mai si ricompensa. (vv. 1180-86)

Segue un colloquio fra Achille e Clitennestra inevitabilmente do-


minato dall‟equivoco, dalla contrapposizione di dòxai, che portano al-
la rivelazione di una verità parziale, dichiarata reversibile, mobile e re-
lativa da Achille:

CLITENNESTRA ERASMO, Iphigenia in Aulide


Io non so Signor mio, donde proceda, CLYTEMNESTRA
Che insieme voi de le parole mie Quid esse tandem possit hoc negocii?
Meraviglia prendete, io de le vostre. Orationem tu vicissim nunc meam
ACHILLE Mirare; dicta nempe miror ego tua.
Però tra voi considerate bene ACHILLES
Questa nova cagion: ch‟esser potreb- Coniicito: coniectare quid sibi haec velint
be, Commune nobis, quippe utrique forsitan
Che, se ben nel parlar contrarij siamo, Vera loquimur nec fraude mentimur mala.
L‟uno e l‟altro di noi dicesse il vero. (vv. 1131-36)

304
Si noteranno anche le varie rime e altre figure di suono.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 247

(vv. 1254-60)

Sequenza interessante perché ribadisce il concetto, manierista


quant‟altri mai, di una verità non univocamente data.305
Con tempismo perfetto giunge a questo punto in scena un Servo,
che blocca Achille e rivela a lui e a Clitennestra la verità sul sacrificio
di Ifigenia: Dolce vivacizza questa parte, puntando sul consueto regi-
stro lirico e su un uso massiccio del settenario, specie a partire dal v.
1359:306

CLITENNESTRA
Ah di quante fur mai,
E di quante saranno,
La più misera figlia;
Et io di tutte ancora
La più misera madre;
Adunque io stessa, adunque
Io stessa t‟ho condotta
In questo luogo, in questo:
Dove lieta pensando
D‟esser di sposo tal Donna gradita;
Dei con misero fine
Terminar la tua vita?
Così tenero fiore
In un dì s‟apre e more.
Ma senza me tu non farai partita. (vv. 1359-73)

Qui importa notare come le varie ripetizioni abbiano un preciso ef-


fetto patetizzante ed enfatico, lievemente melodrammatico. Clitenne-
stra, saputa l‟enormità del progetto di Agamennone, decide di chiede-
re direttamente l‟intervento di Achille, che risponde con ferma risolu-
tezza, promettendo di salvare Ifigenia a costo della propria vita (ed è
promessa totalmente bombastisch, da miles gloriosus più che da eroe,
come gli eventi si incaricheranno di mostrare nel prosieguo): è un A-

305
Davvero di sapore eufuistico sembrano i vv. 1244-45 pronunciati da Clitennestra: «Vi
scuso, che mostriate non sapere/Quel, che sapeste pria, ch‟io lo sapessi».
306
Sul piano retorico troviamo: anafora di quante ai vv. 1359-60, parisosi ai vv. 1361 e
1363, geminationes ai vv. 1364 e 1366, reduplicatio composta ai vv. 1364-65 (con forte rilie-
vo espressivo), ripresa ossessiva di misero, misera e miseria (vv. 1361, 1363, 1369, 1375,
1376). Tutto il passo è ricco di figure di suono; molte le rime.
248 Venezia in coturno

chille certamente inedito rispetto a quello epico, essendo la devozione,


il rispetto, la compassione i valori ai quali Chirone lo ha educato:
ACHILLE
Quanto più lamentar Donna v‟ascolto,
Tanto più cresce in me lo sdegno e l‟ira
De l‟offese, tessute ad ambi noi:
[…]
Quanto a casi di voi di pietà degni,
Per questo lume, ch‟ogni cosa aviva,
Vi giuro, v‟assecuro, e vi prometto,
Che tutte quelle forze, c‟haver puote
Questa giovane età fiorita e verde,
In servigio di voi, s‟adopreranno.
Così il vostro dolor facendo mio;
Da queste turbolenti atre procelle
Vi ridurrò con mio periglio in porto:
Né alcuno ucciderà la figlia vostra,
Ch‟io mai non sosterrò, che ‟l nome mio,
Quasi homicida altrui dardo e saetta,
La vergine Real tolga di vita.
[…]
Ma Reina
Io ritorno a giurar non sol per questo
Almo splendor, ch‟a noi conduce il giorno,
Ma per lo sacro ventre di colei,
Per cui quest‟alma a queste membra è involta,
E pel mio Genitor, ch‟Agamennone
Non solo non havrà poter o forza
Di far de la fanciulla empio holocausto,
Ma alcun non fia, che di toccarla ardisca.
[…]
E voglia Dio, che pria che questa spada
Divenga de l‟hostil sangue vermiglia,
Non la tinga talhor nel sangue Greco:
Il che farò, se la figliuola vostra
Non lascieran, come conviene, in vita.
E vuò, che tal mi conosciate ancora,
Qual fin qui conosciuto alcun non have. (vv. 1490-1562)

E così nel mio cor è impresso e saldo


Questo honesto desio di conservarla,
Che non nel pò levar novo pensiero.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 249

Ponete dunque il cor Reina in pace:


Consolatevi homai, state sicura
Ch‟io non so romper fe, ne cambio voglia. (vv. 1632-37)

Reina io vi prometto, che bisogno


Voi non havrete di cercarmi; ch‟io
Per voi farò la guardia de la figlia;
Però restate con fiducia certa,
Che maggior troverete in me gli effetti,
Che non son le promesse e le parole. (vv. 1666-71)

Anche in questo caso, ancor più che nei modelli, straordinaria è


l‟enfasi con cui Achille ripetutamente, ossessivamente promette di
salvare Ifigenia (talvolta con una prosopopea che sconfina nel comi-
co); ancora una volta incolmabile pare, a chi conosce la fabula, la di-
stanza tra res e verba, dichiarazioni e realizzazioni e davvero tragica-
mente ironiche suonano le parole con cui si chiude l‟intervento di A-
chille: «maggior troverete in me gli effetti/Che non son le promesse e
le parole», autentico profezia rovesciata di quanto si verificherà. Que-
sto Achille è in sostanza, e solo, un eroe della parola vuota, narcisisti-
camente bloccato in essa e incapace di trasformarla in azione; ed è,
tanto più per questo motivo, una perfetta ipostasi scenica della trage-
dia manierista, che è appunto detta e non agita.
Il coro III è una sestina, per la verità un po‟ macchinosa:307

CORO
Più volte ho udito dir leggiadre Donne;
Che fra gli altri animai, che sono in terra,
Non è animal più misero de l‟huomo:
Però, che da quel dì, ch‟ei nasce in vita,
Fin a l‟estremo, che lo toglie morte,
Qua giù non gode mai tranquilla un‟hora.
E se pur ha dal ciel felice un‟hora,
Subitamente (e lo vedete Donne)
Al dolce stato suo s‟oppone morte,
E l‟incarco mortal torna a la terra;
O che si cangia la gioiosa vita:

307
Tale forma metrica, certamente esemplata sulle sue occorrenze nel macrotesto lirico
petrarchesco, ha una discreta fortuna nella tragedia del Cinquecento: cfr. G. RUCELLAI, Ro-
smunda, vv. 1124-62; G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 2025 63.
250 Venezia in coturno

Et al fine infelice è ciascun‟huomo.


Ben è in vero fra noi misero l‟huomo
Da suoi primieri giorni a l‟ultim‟hora,
Che ‟l cerchio chiuder suol de la sua vita.
Ma la miseria nostra avanza o Donne,
Quanti miseri mai furono in terra,
E quanti ne farà fortuna, o morte.
E se non, che talhor pietosa morte
Da l‟Imperio, che in noi tien spesso l‟huomo,
Sottrar ne suol levandone di terra;
Di flagello in flagello, e giorno et hora,
Di pena in pena ogn‟hor care mie Donne,
Tutto ‟l corso n‟andria di nostra vita.
Amara più ch‟assentio è a noi la vita,
E sovra ogn‟altro ben dolce la morte;
Che ne parte di quà da l‟altre Donne,
Dove sempre il furor di crudel huomo
Sol di riposo a noi non lascia un‟hora,
Fin che ne copre poi la madre terra.
Misero il dì, che ti produsse in terra
Al torbido seren di questa vita
Misera Ifigenia: ch‟ad hora ad hora
Aspetti fiera, e dispietata morte
Dal padre il più crudel di ciascun‟huomo,
A la figlia. Hor che fora a l‟altre Donne?
Ma fra le Donne andrai famosa in terra:
E ‟l mondo dirà ogn‟hora, che quell‟huomo
Che ti dié vita, ancor ti diede morte. (vv. 1684-1719)308

4. Clitennestra e Agamennone avviano l‟azione nel quarto atto (vv.


1720-2562); il re, che non sa che la moglie e la figlia sanno tutto, sta
predisponendo il sacrificio e impudentemente prolunga ancora il suo
mascheramento:

AGAMENNONE
Hor tutto quel, ch‟a sacrificio accade,
È apparecchiato, i purgamenti, e i fochi,
Che da Vergine man trattar si denno.

308
Cfr. F. PETRARCA, Rvf, 22, per il tono complessivo. Sul piano microtestuale, sembra
degna di nota la presenza dantesca: il v. 1685 è certo modellato su Inferno, II, v. 2; il v. 1693
su Purgatorio, XI, v. 43. Dalla terza stanza si fa vistoso il rapporto con G. RUCELLAI, Ro-
smunda, vv. 307-39, e, soprattutto, con G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 885-913: «Non
Le tragedie di Lodovico Dolce II 251

Son le giuvenche apparecchiate ancora,


Che prima che le nozze habbiano effetto,
È mestier, ch‟a la Dea suora d‟Apollo
Versino un largo rio di caldo sangue.
Però fa che qui scenda Ifigenia,
Perch‟ella venga in compagnia del padre.
CLITENNESTRA
Se fossen l‟opre a le parole eguali,
Si potrebbe lodar e quelle e queste:
Ma essendo elle contrarie, e differenti,
Sì come l‟une commendar io debbo,
Così l‟altre non posso. (vv. 1738-51)

Nelle parole di Clitennestra viene nuovamente e definitivamente


registrata la fatale frattura fra parole ed opre, verba e res, vera e pro-
pria cifra tematica della tragedia che si sta svolgendo: così facendo,
svela le reali intenzioni del marito. A questo punto non ha davvero più
senso prolungare il mechànema delle nozze fittizie. Ifigenia, convoca-
ta dalla madre, scioglie una dolente monodia lirica, che Dolce anticipa
di parecchi versi rispetto ai modelli:

IFIGENIA
Padre mio, caro padre:
Benché dovrei tacere
Questo nome di padre,
Poi che sotto tal nome
Si comprende pietade;
E voi verso la figlia
Sete solo ripieno
D‟odio e di crudeltade:
Pur dirò, caro padre,
Come trovar poss‟io
Principio a mie parole?
Come potrò dolermi
De le miserie mie?
Ditele voi per me; voi che non solo
Padre mio le sapete,
Ma ne sete cagione.
Io poi, ch‟altr‟arme, altro saper non trovo,
Che solo il lagrimar, piangerò tanto,
252 Venezia in coturno

Quanto dar mi potranno humor quest‟occhi. (vv. 1774-92)309

Clitennestra incalza il marito con formidabile energia e gli chiede:


«V‟apparecchiate voi scioglier di vita,/Di vita Ifigenia, mia figlia, e
vostra?» (vv. 1803-04), versi in cui la plateale reduplicatio sembra
mimare perfettamente l‟emotività sopra le righe, convulsa e spezzata,
della regina e madre, che ha come scopo quello di far rimuovere la
maschera indossata da Agamennone, il quale ancora procede, ma or-
mai davvero da pessimo attore, con la menzogna: «Ah più questo non
dir: di cosa parli,/Che gran peccato è il sospettarne solo» (vv. 1805-
06).
Ed è singolarmente istruttivo che in una tragedia così ipertrofica-
mente connotata dalla parola, sia il silenzio a rivelare la verità:

CLITENNESTRA
Sappiate, ch‟ogni cosa m‟è palese;
E l‟opra ho inteso abominosa e cruda,
Che scelerato voi consorte e padre
Contra di me, contra la figlia ordite.
Quantunque assai me ‟l manifesti e approvi
Questo vostro tacer, questi sospiri.
Ond‟ei più non v‟accade usar fatica
In adombrar, quel ch‟è sì chiaro, in darno. (vv. 1821-28)

A questo punto la finzione è svanita. Clitennestra, Ifigenia, financo


il piccolo Oreste, che in Euripide ed Erasmo non interviene, cercano
di dissuadere Agamennone dal commettere questo nefas disumano.
Teatralissima, nella sua convenzionalità, pare la scelta di fare snu-
dare ad Oreste la piccola spada che porta (cfr. v. 2057). Ma a questo
punto dello sviluppo della tragedia, il rito sacrificale non è più revoca-
bile, essendo conseguenza di una necessità implacabile (vv. 2093 e
2125); Clitennestra e Ifigenia sciolgono allora una sorta di canto com-
matico (vv. 2129-61), caratterizzato dall‟adozione della consueta stru-
mentazione retorica, e dilatato, per ragioni di sostenutezza emotiva ed
espressiva, dal vero e proprio abuso di varie figure della ripetizione e

309
Da rilevare ancora l‟insistenza significativa sul lessico parentale.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 253

da frequenti fratture prodotte dall‟uso dell‟enjambement. Si legga l‟at-


tacco, certo caso-limite convulso e barocco, di Clitennestra:

CLITENNESTRA
Oimè figliuola, oimè; che la tua morte
Mi toglie la mia vita.
Ecco, che ‟l tuo crudele
Padre, il tuo crudel padre,
Destinandoti a l‟empio
Fin, si diparte, e s‟allontana, e fugge.
Crudel padre, crudele
Stella, crudel me stessa,
Figlia, se col morir non t‟accompagno.
E crudel mano ancora,
Ch‟ardirà mai d‟aprire
Questo candido petto,
O dal collo partir la bella testa. (vv. 2129-41)

Dove, oltre la geminatio esclamativa iniziale, di tutto rilievo sem-


bra la commoratio – quasi a descrivere uno stato di estasi delirante –
dei vv. 2131-32; impressionante è poi, vero contrassegno di questa
folle sequenza di versi, la ripetizione dell‟aggettivo crudel(e).
Il tutto a testimonianza che i meccanismi di controllo del discorso
tragico sono totalmente saltati e radicalmente inutilizzabili si rivelano
strategie discorsive volte a sussumere sotto il dominio della ratio e-
mozioni, affanni, dolori non più arginabili ed esprimibili da una rassi-
curante pronuncia improntata a compostezza e decoro: Clitennestra
non sa più controllarsi e il suo discorso, che si avvolge ossessivamente
su sé stesso in un cortocircuito nel quale le parole sono qui davvero
perfetta traduzione di uno stato d‟animo, ne è l‟esemplare, eccezionale
conferma. Il corpo stesso della parola si fa emozione, delirio implaca-
bile, orrore, in un empito mimetico di espressivistica suggestione.
Qualche verso sotto rientra in scena Achille che rivela il rischio
corso nel vano tentativo di salvare Ifigenia: nelle domande decisamen-
te sarcastiche di Clitennestra (tratto, questo, che viene molto accentua-
to dal Dolce rispetto ai modelli) e nelle risposte ambigue e irresolute
dell‟eroe improvvisamente dimidiato emerge, ancora una volta, la di-
mensione di doppiezza radicale e di trionfo della relatività assoluta
che contraddistingue questa tragedia, in cui nessun personaggio, tran-
254 Venezia in coturno

ne forse Clitennestra, è dall‟inizio alla fine coerente nelle sue azioni e


nei suoi comportamenti rispetto alle premesse etiche e ideologiche e-
nunciate:

ACHILLE
È nato un gran rumor fra tutti i Greci.
CLITENNESTRA
Di che cosa Signor? Fate ch‟io ‟l sappia.
ACHILLE
Sopra la figlia vostra.
[…]
Ch‟è mestier, che s‟ancida.
CLITENNESTRA
E non è stato alcuno,
C‟habbia lor contradetto?
ACHILLE
Io, per far questo, sono
A gran risco venuto.
CLITENNESTRA
A qual riscro e periglio
Signor venuto sete?
ACHILLE
D‟esser, come nimico
Del Greco utile e honore
Lapidato, et ucciso.
CLITENNESTRA
Per cagion Signor mio
D‟haver voluto forse
Difender l‟innocente
Vita di mia figliuola?
ACHILLE
Veramente per questo.
CLITENNESTRA
E chi fia quel, ch‟ardisca
Signor di porre in voi
La temeraria mano?
ACHILLE
Insieme i Greci tutti. (vv. 2195-2218)

Ciascun personaggio è, ci ripetiamo, manieristicamente schizofre-


nico: declina le coordinate dell‟etica di volta in volta assunta come ri-
Le tragedie di Lodovico Dolce II 255

ferimento secondo personali esigenze, in un vertiginoso, labirintico,


gioco di rispecchiamenti e parzialità.310
Achille non fa eccezione: è davvero una sorta di plautino miles glo-
riosus in coturno e tragicamente ironica è la sicumera con cui risponde
all‟accorata interrogazione della povera Clitennestra:
CLITENNESTRA
Ditemi pur Signore,
Se mercé vostra ella potrà fuggire
Da questa morte indegna.
ACHILLE
Fuggirà sì: non ve ne date affanno. (vv. 2276-79)

Risposta che suona oscenamente ipocrita, se non sinistra, alla luce


di quanto inesorabilmente accadrà fra qualche verso. Quello rappre-
sentato in Ifigenia è insomma un universo se non totalmente disfatto,
perlomeno in avanzato stato di decomposizione, perché nessuno è pie-
namente padrone della propria volontà; l‟egoismo prevale sistemati-
camente sulle spinte familiari, sociali, comunitarie; la logica del pote-
re e del dover essere, con la sua ferocia implacabile, finisce per orien-
tare le condotte, al di là dei pronunciamenti e delle affermazioni, tanto
altisonanti, quanto in sostanza ridotte a mere petitiones principii.
A ridefinire ancora una volta la direzione della tragedia, interviene
un nuovo coup-de-théâtre, decisivo e definitivo: Ifigenia, che aveva
disperatamente cercato di salvarsi fino a questo momento, viene coin-
volta ella pure nel prismatico movimento metanoico che caratterizza
tutti gli schizofrenici partecipanti all‟azione della fabula: ora, come ri-
svegliata da un sonno che non le permetteva di vedere bene, la fanciul-
la vuole morire:

IFIGENIA
Hora le luci a me madre volgete:
Et ascoltate quel, che la mia lingua
Giusta cagione a favellar induce.
Che parole dirò molto diverse
Da quel, ch‟io dissi, e che per voi s‟aspetta;
Pensate, ch‟io sia tale a questo punto

310
Cfr. MONTAIGNE, Essais, II, 1.
256 Venezia in coturno

Qual è chi da gran sonno si risveglia.


E vegga quel, che non vedeva alhora
Ch‟erano gli occhi suoi chiusi dal sonno.
Dico adunque, che voi vi lamentate
Indegnamente de la morte mia.
E indegnamente di mio padre, il quale
È astretto da chi pò più di noi tutti
A consentir a ciò, che non vorrebbe:
E noi dobbiam quel, che non può vietarsi,
Sofferir con prudenza, e arditamente.
[…]
Io volentier son di morir contenta
Per acquistar (se con fortezza io vado
A questo, che sarà breve sospiro)
Ne i secoli futuri honor e gloria.
Sapete ben, ch‟in me sola riguarda
L‟occhio di Grecia, e da me solo aspetta
Sì grande armata il desiato corso,
E da me sola la ruina pende
De‟ rei Troiani, e la vittoria nostra.
[…]
Tutto questo averrà con la mia morte,
Et io n‟avanzerò perpetuo grido
D‟haver col sangue mio, con la mia vita
Ricovrato l‟honor di tutti i Greci.
[…]
Conchiudo madre mia; ch‟a Grecia tutta
Io fo del corpo mio cortese dono.
Menatemi a gli altar; fate di lui
La vittima bramata; hor m‟uccidete
E con la morte mia prendete Troia,
Ardete Greci le superbe mura;
Che, quantunque n‟havrà trionfo morte
Di queste mie sì giovinette spoglie;
Per la bocca di tutti eternamente
Viva n‟andrò con honorata fama. (vv. 2280-2351)

È una Ifigenia inesplicabilmente altra (Dolce, come già Euripide ed


Erasmo, lascia di fatto impregiudicato il motivo per cui si sarebbe ve-
rificata questa conversione); nazionalista e bellicista, la vergine desi-
dera acquisire fama immortale con il proprio sacrificio, in una rhesis
che neutralizza, rendendole superflue e ascitizie, tutte le argomenta-
zioni precedentemente esposte, tutti i pietosi tentativi di persuasione
Le tragedie di Lodovico Dolce II 257

attivati nei confronti di Agamennone: miracolo estremo di questa


fabula così imperfetta e eppure suggestiva.
La scena seguente (cfr. 2416-2562) è caratterizzata dalla tipica so-
stenutezza patetica del congedi definitivi: Ifigenia saluta Clitennestra e
il piccolo Oreste. Tra i particolari degni di nota, va sottolineato che
Clitennestra, prefigurando allusivamente le vicende della fabula del-
l‟Agamemnon, che nella cronologia fittizia del mito sono successive
alla conquista di Troia, in cui lei sarà la grande protagonista, nega re-
cisamente di voler perdonare il marito e ci appare, ancora una volta,
come il personaggio più forte, più coerente, dell‟intera tragedia:

Non fia giamai


Ch‟ami questo crudel, mentre ch‟io viva. (vv. 2475b-76)

Questi è degno di biasmo, e d‟odio eterno (v. 2481)

Inevitabilmente, molto commossa è tutta la scena d‟addio, con api-


ce raggiunto nei versi conclusivi, modulati su un nuovo addio alla luce
dopo quello, non meno patetico, di Polissena nella Hecuba:311

IFIGENIA
Dolce lume del ciel, lucente e bello,
Poi che destin m‟adduce,
Da te mi parto, e ad altro mondo i‟ passo,
Ove non splende luce.
Io mi parto, e tu resta
A portar a mortali
Di quelli, c‟ho havut‟io, più lieti giorni. (vv. 2556-62)

Il coro IV,312 nel complesso ben confezionato, sembra esemplato


soprattutto su un coro della Rosmunda rucellaiana.313 Ne riportiamo le
prime due stanze:

311
Cfr. L. DOLCE, Hecuba, vv. 1121-29: «O luce, a me pur giova/Di chiamar il tuo no-
me;/Perché non più mi sarà copia data/Di poterti goder, luce beata./Luce soave e grata,/Se non
quel poco spazio/Che fia di gir al ferro,/E a la pira d‟Achil-le:/Addio, luce del mondo, io mi
diparto».
312
Non ha corrispondenza in Euripide ed Erasmo. Composto di tre stanze di canzone e-
semplate sul modello petrarchesco di Rvf, 126, ovvero [abC. abC. cdeeD. fF] più un congedo
di tre versi.
313
Cfr. G. RUCELLAI, Rosmunda, vv. 307-339.
258 Venezia in coturno

CORO
Perché chiaro e divino
Sia l‟intelletto nostro,
E che talhor a Dio vegga nel seno,
Non può contra il destino,
Che vince il saper nostro
Et a l‟human poter pon briglia e freno.
Ei l‟incarco terreno
Regge, conduce, e sforza
Al fin da lui prescritto.
Quinci misero e afflitto
Si trova, e d‟aiutarsi non ha forza:
Quinci al voler suo fermo
È il consiglio mortal debile e infermo.
E pur‟ è chi sovente
Folle si vanta e crede
Di por la su nel ciel legge e governo:
Che di bei lumi ardente
Sopra di voi si vede
Girarsi ogn‟hor con movimento eterno:
Et hora apporta il verno
Che tutto secca e sfiora.
Hor state, hor primavera;
Et hor mattino, hor sera;
E quando avvien, ch‟un nasca, e quando mora
Onde al fatal decreto
Non val, che l‟huom s‟opponga, o fugga a drieto. (vv. 2563-88)314

5. La tragedia si conclude con un atto piuttosto breve. Entra un


Vecchio di Calcidia (= Calcide in Eubea), non previsto nei modelli e
che svolge la funzione del Nunzio, che in un dialogo assai sentenzioso
invita le donne del coro a fuggire dall‟Aulide, perché un prodigio
d‟orrori si sta compiendo: è un intervento, questo, in cui Dolce riuti-
lizza materiale testuale non sfruttato precedentemente (cfr. segnata-
mente il terzo stasimo euripideo, vv. 1080 ss. ed Erasmo, vv. 1511
ss.):

VECCHIO DI CALCIDIA
De l‟iniqua città Donne fuggite,

314
Molto consistente ancora la presenza di suggestioni dantesche e petrarchesche (special-
mente cfr. Rvf, 72, vv. 13-15; 142, vv. 23-24; 265, vv. 5-6; 270, vv. 67-68).
Le tragedie di Lodovico Dolce II 259

Dove cose si fan sì crude et empie,


Ch‟è maraviglia, che risplenda il Sole.
In qual parte del mondo incolta e strana
L‟humane creature (ah secol fiero)
S‟uccidon, come pecore, a gli altari?
[…]
Che giova Donne mie l‟esser discese
Di sangue illustre, e di gran Re figliuole,
Se desio di regnar mette sotterra
Bontà, giustitia, amor, pietade, e fede
E induce a por le man nel proprio sangue?
Quant‟era meglio a l‟innocente figlia
Esser nata ne‟ boschi, e ne le selve
Di vil Pastor: ch‟almen si goderebbe
Viver dolce, e tranquil, fin che natura
Al corso, che dà il ciel, ponesse meta:
[…]
Ah mondo tristo u son le leggi? U sono
L‟honestadi? E ragion dove dimora?
Il padre è micidial de la figliuola,
Il zio de la nipote: e solamente
Di così abominoso empio peccato
Lussuria e ambition ministre sono. (vv. 2605-34)

Topicissima è la contrapposizione fra la purezza del mondo della


campagna e l‟impudica disonestà che egemonizza i comportamenti
della vita di palazzo, nella quale a dominare sono sempre la lussuria e
l‟ambizione. Ancora vistosi i prelievi petrarcheschi; nella coda si può
poi forse ravvisare la variatio di un celebre modulo ovidiano e sene-
cano:

OVIDIO, Metamorphoses, I, 144-46


Vivitur ex rapto; non hospes ab hospite tutus,
non socer a genero, fratrum quoque gratia rara est.
Inminet exitio uir coniugis, illa mariti.

SENECA, Thyestes, 40-41


fratrem expauescat frater et gnatum parens
gnatusque patrem
260 Venezia in coturno

Il coro chiede al Vecchio – come sempre in questi casi – di descri-


vere come si stia approntando il sacrificio, che non può essere eviden-
temente rappresentato sul palcoscenico, ma solo riportato.
Di particolare interesse, tra le altre considerazioni, i seguenti versi
che ulteriormente confermano il vuoto eroismo fanfarone di Achille e
ribadiscono il trionfo della dissimulazione e della frattura res~ verba
nella fabula:

CORO
È maraviglia ben, che ‟l forte Achille,
Che promesse di far, ch‟ella vivrebbe,
Habbia le sue promesse al vento sparse. (vv. 2646-48)

La risposta del Vecchio è un po‟ spiazzante, perché radicalmente


pessimistica: chi si fida dell‟uomo in generale sbaglia sempre; inoltre,
procedendo nella sua vibrante requisitoria morale contro gli orrori di
una religiosità sopraffatoria e dai rituali crudeli, egli compie un‟azione
di smascheramento che ha pochi eguali, per la sua esplicitezza, nella
tragedia del Cinquecento, individuando nel potere politico il referente
che continuamente adopera la religione come mero strumento di so-
stegno alla propria sovranità:

VECCHIO
Che si facciano i rei di vita cassi
È giusto officio: ma a versar il sangue
De gli innocenti, ogni impietade avanza.
E chi crede, che ciò gradisca a i Dei,
Toglie lor la bontà, la qual togliendo
Toglie lor similmente l‟esser Dei.
Che l‟ignorante, e sciocco vulgo sia
In questa cieca openione involto,
Non è d‟haverne maraviglia molta.
Ma bene è da stupir, che quei, che sono
Posti al governo de l‟humane genti,
A così fatta vil folle credenza
Volgan l‟animo in guisa, che ne danno
Le tragedie di Lodovico Dolce II 261

Cattivissimo esempio al popol tutto. (vv. 2656-69)315

Il Vecchio preferisce non vedere e non udire nulla del sacrificio di


Ifigenia, dal quale si schermisce con orrore, allontanandosi. Ma la sua
presenza in scena, del tutto imprevedibile a questa altezza ed elusiva
rispetto all‟orizzonte d‟attesa dello spettatore/lettore che attende il to-
pico resoconto del Nuntius, ha consentito a Dolce di prendere esplici-
tamente le distanze dalla barbarie del sacrificio umano, che non può
avere nessuna giustificazione religiosa e/o razionale, e contestualmen-
te di preparare con maggior cura (non senza un‟inevitabile gradatio di
suspence) l‟inatteso e davvero sorprendente finale intonato non alla
logica della maraviglia, bensì (e in ciò Dolce disorienta e colpisce lo
spettatore più che se avesse deciso di seguire pedissequamente i mo-
delli) a quella, desolante e cupa, della crudeltà inutile, motivata con
speciosissimi sofismi religiosi e cultuali e che va razionalisticamente
demolita.
Non un Nunzio vero e proprio, ma il Servo di Agamennone, con
cui la fabula si era avviata e che rappresenta con una certa coerenza le
ragioni della clementia e della humanitas, funziona da testimone della
scena decisiva della tragedia. Con il v. 2705 prende avvio l‟articolata
narrazione del sacrificio di Ifigenia, cui l‟intera armata achea (in una
movenza che reca qualcosa della scopofilia) ha assistito: Agamenno-
ne, disperato e piangente, per non vedere la figlia-hostia si era coperto
gli occhi; lei, da perfetta novella Polissena, aveva richiesto di non es-
sere toccata da alcuna mano contaminante:316

SERVO
Poi che fu l‟innocente al loco giunta
Sol di lei stessa al sacrificio eletto,
Dove i Greci facean larga corona,
Al nostro Re, come venir la vide,
(Benché fuori di tempo e troppo tardo)
Da paterna pietà gelossi il sangue;

315
Cfr. F. PETRARCA, Rvf, 51, v. 11: «pregiato poi dal vulgo avaro e scioccho». Per
l‟intera immagine dei vv. 2662-64, si tengano presente anche Triumphus Temporis, vv. 132-
134 e Triumphus Eternitatis, v. 49. L. DOLCE, Ifigenia, vv. 2656-2669.
316
Tra i vari particolari, sorprende che Achille, dopo le parole precedentemente pronun-
ciate, partecipi attivamente al rito, invocando l‟aiuto di Cinthia (cfr. vv. 2744b-56).
262 Venezia in coturno

E la pallida faccia rivolgendo


A dietro, amare lagrime, e sospiri
Gli uscir da gli occhi, e dal dolente petto.
Quinci co‟ panni si coperse il volto.
[…]
Alhora il Sacerdote; il quale havea
Ne la diritta mano il ferro ignudo;
Dopo i debiti preghi, accortamente
Riguardò di ferir il bianco collo
In parte, dove più spedita l‟alma,
E sentendo minor pena, e tormento,
Passasse a i regni de la notte eterna. (vv. 2705-67)

Il vero coup-de-théâtre, iperrazionalistico e insieme macabramente


senecano,317 Dolce lo riserva alla vera e propria descrizione del sacri-
ficio. Il Servo non sopporta la vista del colpo che decapita Ifigenia
quindi:

SERVO
Io vinto dal dolor, gli occhi rivolsi
In altra parte, e mi ferì l‟orecchie
Di tutti i circonstanti un mesto grido.
Alhor tornando a la fanciulla, veggo
Qui l‟infelice testa, e colà il corpo,
Che divisi dal fer, di sangue brutti
Giaceano inanzi al dispietato altare. (vv. 2770-76)

Com‟è noto non così finiscono l‟omonima tragedia di Euripide e


l‟Iphigenia in Aulide erasmiana: grazie a un miracoloso prodigio, pe-
raltro verosimilmente spurio, Ifigenia viene sostituita da una cerva che
irrora col suo sangue l‟altare di Artemide.
Dolce ricusa di accogliere la conclusione edulcorante e magica, ri-
velandosi più razionalista e realista dello stesso Euripide, forse anche
perché molto attento alla questione della mise-en-scène. Il gioco inter-
testuale e metatestuale si fa assai spiccato quando Dolce fa recitare,
sempre al Servo, i seguenti versi:

317
Cfr. per questo particolare raccapricciante SENECA, Thyestes, 726 ss..
Le tragedie di Lodovico Dolce II 263

SERVO
È ver, ch‟alcuni affermano, che in vece
D‟Ifigenia, Diana a quello altare
Fe apparir una Cerva: e la fanciulla
Trasse a sé viva entro una nube oscura:
Ma creder non voglio io quel che non vidi. 318
Or tale è di colei, che vi fu figlia,
Il fine acerbo, misero, e crudele. (vv. 2793-99)

Mi sembra chiaro il rinvio alle fabulae allestite da Euripide ed Era-


smo, testi dai quali, ancora una volta manieristicamente, il poligrafo e
tragediografo veneziano prende le distanze, per proporre, con efficace
gioco di specchi, la sua interpretazione dell‟abominio di tanta ritualità
e cultualità religiosa, cinquecentesca e non.
Questo finale è una delle più esibite effrazioni commesse dal Dolce
nel suo rifacimento, l‟apice razionalistico della sua rilettura: il mera-
viglioso che, come si ricorderà, veniva preannunziato nel prologo, non
ha alcuno spazio nella nuova interpretazione scenica e il prodigio della
sostituzione di Ifigenia viene valutato (alla stregua dei vaticinii e delle
profezie) esclusivamente come mera invenzione favolosa, cui occorre
guardare con sospetto e con fastidio: in questo atteggiamento non è
chi non veda una recisa presa di posizione contro la degenerazione
delle pratiche e dei comportamenti religiosi del medio Cinquecento,319
secondo coordinate tipiche di una inquieta tensione cattolica riformi-
sta.
Quindi nessun „lieto fine‟ trova posto nell‟Ifigenia dolciana. Aga-
mennone ribadisce la necessità (v. 2855) di quanto è accaduto:

AGAMENNONE
Cara Consorte mia poscia, che quello,
Che piaciuto è a gli Iddij, sortito ha fine;

318
Siamo qui di fronte a una valorizzazione dell‟esperienza visiva che tanta parte avrà nel
Dialogo della Pittura, intitolato l‟Aretino (1557), nel quale Dolce scriverà che mentre l‟intel-
letto può sbagliare, l‟occhio difficilmente si inganna: ergo, tutti possono stabilire se un quadro
è bello o brutto. Nessuno può dunque revocare in dubbio, nonostante qualcuno dica il contra-
rio, che Ifigenia sia realmente morta, dal momento che a garanzia del fatto ci sono gli occhi di
un Servo che ha sì distolto lo sguardo nel momento della decapitazione, ma ha visto, senza
possibilità di smentita, il capo della fanciulla spiccato dal busto.
319
Non si deve dimenticare che l‟Inquisizione aveva cominciato a lavorare con fervore da
qualche anno.
264 Venezia in coturno

Hor ne convien alleggerendo il duolo,


De la necessità far legge a noi. (vv. 2852-55)

Clitennestra, al contrario, rifiuta di perdonare l‟empietà compiuta


dal marito, con ciò nuovamente prefigurando la terribile vendetta che
cadrà su Agamennone al suo ritorno da Troia.
Il breve coro conclusivo, una perfetta ottava con schema [ABA-
BABCC], è topicamente dedicato alla descrizione della fragilità di o-
gni progetto umano, alla desolata visione di un mondo mai frequentato
dalla letizia e dalla serenità:

CORO
A che con tanti affanni egri mortali,320
Procacciate d‟haver corone, e regni,
Se con subite poi roine e mali
Nebbia, e polvere son nostri disegni?
O letitie di noi fugaci, e frali:
O altezza, che non hai che ti sostegni:
E quì, dove, si prova e caldo e gelo,
Stato felice alcun non lassa il cielo. (vv. 2886-93)321

320
L. DOLCE, Marianna, v. 3287: «Vedete, egri mortali», ma tutto l‟esodo di Ifigenia
sembra echeggiato in quello di Marianna.
321
Cfr. L. DOLCE, Marianna, v. 3287: «Vedete, egri mortali», ma tutto l‟esodo di Ifigenia
sembra echeggiato in quello di Marianna. Da notare, anche in questo caso, la sicura media-
zione del Petrarca dei Triumphi: cfr. Triumphus Eternitatis, vv. 52-54 e Triumphus Fame, I, v.
9.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 265

6. Medea322

La sesta tragedia dolciana, frutto della preziosa ars combinatoria


che il Dolce pratica sul doppio spartito euripideo e senecano, è edita
nel 1557 da Giolito de‟ Ferrari a significativa distanza dalla sua ultima
prova tragica pubblicata.323
La dedicatoria, scontata la non obliterabile componente di topica
enfasi nei confronti del dedicatario, è comunque preziosa:

Al Magnifico e virtuosissimo Signore, il S. Odoardo Gomez, nobile lusitano

La virtù, Magnifico e virtuosissimo Signore, ha questo privilegio: che non so-


lamente induce ad amare e riverir quelli che si conoscono, ma coloro ancora
che non si sono veduti giamai. Onde si legge che alcuni, mossi dalla fama del
gran Tito Livio, andarono insino a Roma per vederlo. Di qui avendo io inteso
le virtuosissime qualità et il valore di V. S., infiammato da una ardente affe-
zione, mi sento esser pervenuto verso di lei ad ogni termino di amore e di ri-
verenza. L‟esser nato di sangue nobile, et abondante di ricchezze e di facoltà,
è cosa veramente prezzata dal mondo, ma è dono della fortuna, e comune a
molti. Ma l‟esser virtuoso et aver l‟animo volto a belli studi di lettere et a im-
prese onorate e pensieri onesti e gentili è propria industria dell‟uomo, e parte-
cipa con pochi. Onde, essendo V. S. per nobiltà superiore a molti, per ric-
chezze fra il numero de‟ pochi, e per virtù non inferiore ad alcuno, è ben di-
gnissimo che ognuno l‟ami et onori. Di qui non sapendo con quale altro mez-
zo che con quello degl‟inchiostri farle nota parte della mia divozione, le ho
voluto indrizzar la presente Tragedia, tratta da buono autore, che è Euripide:
la quale, a guisa di esempio cavato da valente pittore, non può perder tanto
della sua primiera eccellenza che non ne tenga qualche sembianza. A che sen-
tendomi a un certo modo timido, mi ha recato non picciolo animo, ricordan-
domi la infinita sua umanità, il mio virtuoso S. Alfonso Uglioa, il quale ridu-

322
L. DOLCE, La Medea. Tragedia di M. Lodovico Dolce, Venezia, Gabriele Giolito de‟
Ferrari, 1557, ristampata identica l‟anno seguente e poi compresa nella giolitina complessiva
della produzione tragica dolciana (1560); infine ripubblicata nel 1566 da Domenico Farri. Per
ragioni di comodità si legge la Medea nella recente edizione moderna: cfr. L. DOLCE, Medea,
a c. di O. SAVIANO, Torino, Edizioni RES, 2005. Tutte le citazioni si intendono prelevate da
tale edizione, di cui si è tenuto debitamente conto.
323
Di sicuro interesse è il fatto che la fabula di Medea stesse avendo, proprio in questi an-
ni, un significativo rilancio: si vedano la versione latina di Coriolano Martirano del 1556 e la
Medea di Maffeo Galladei (Venezia, Giovanni Griffio, 1558). Su quest‟ultima cfr. V. GALLO,
«Contro l‟ingiuria del tempo». La Medea di Maffeo Galladei, in Granteatro. Omaggio a
Franca Angelici, a c. di B. ALFONZETTI, D. QUARTA, M. SAULINI, Roma, Bulzoni, 2002, pp.
25-49.
266 Venezia in coturno

cendo molte opere di lingua spagnuola in italiana giova all‟una et all‟altra pa-
rimente, et è di lei affezionatissimo et obbligatissimo servitore. V. S., se ri-
guarderà alla qualità del dono, lo troverà picciolo, se al mio cuore, grandissi-
mo. E le bacio la mano.

Di Venezia,
a X di Ottobre, MDLVII

Ut pictura poësis, sembra dirci Dolce parafrasando l‟Epistula ad


Pisones oraziana;324 e non sarà da rubricare nella categoria del puro
caso il fatto che, nello stesso 1557 di Medea, abbia visto la luce il Dia-
logo della Pittura di M. Lodovico Dolce, intitolato l‟Aretino.325
Nell‟opera (una delle maggiori del Dolce) si contrappongono come in-
terlocutori l‟amico Pietro Aretino e il grammatico toscano Giovan
Francesco Fabrini. Aretino, dopo aver difeso Giovanni Bellini e Gior-
gione e sostenuto che Tiziano sia il più grande pittore vivente, elogia
Raffaello e Correggio, Parmigianino e Giulio Romano, Polidoro da
Caravaggio e Perin del Vaga, Andrea del Sarto e Pordenone, secondo
un gusto che è spiccatamente orientato in direzione del Manierismo; il
Fabrini, che riecheggia posizioni vasariane, ritiene invece che Miche-
langelo sia insuperabile ed è il corifeo della cosiddetta „scuola tosco-
romana‟ che storicamente uscirà vincente dal confronto con la „scuola
veneta‟.
Aretino sostiene che la pittura sia, aristotelicamente, imitazione
della natura: quanto più il pittore si avvicina alla perfezione della na-
tura, tanto più è grande. La riflessione continua secondo le coordinate
di un classicismo più esibito che autenticamente supportato. Dolce be-
ne testimonia la natura ancora ibrida di questa stagione culturale, e
della sua posizione personale, quando simultaneamente elogia la natu-

324
Cfr. ORAZIO, Ars poetica, vv. 1-10 e vv. 361-365. Si dovrà ricordare che Dolce aveva
tradotto l‟epistola oraziana nel 1535-36.
325
Propriamente Dialogo della Pittura di M. Lodovico Dolce, intitolato l‟Aretino. Nel
quale si ragiona della dignità di essa pittura, e di tutte le parti necessarie, che a perfetto pit-
tore si acconvengono: con esempi di pittori antichi, et moderni: e nel fine si fa mentione delle
virtù e delle opere del divin Titiano, Venezia, Gabriele Giolito de‟ Ferrari, 1557. Cfr.
l‟edizione di riferimento L. DOLCE, Dialogo della Pittura, intitolato l‟Aretino, in Trattati
d‟arte del Cinquecento. Fra Manierismo e Controriforma, vol. I, a c. di P. BAROCCHI, Bari,
Laterza, 1960, pp. 141-206.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 267

ra (= Classico) e l‟artificio (= Manierista) e accorda la propria prefe-


renza figurativa alla rappresentazione di corpi delicati, esili, eleganti
(à la Parmigianino), di contro alla corporeità massiccia, eroica, subli-
me di ascendenza michelangiolesca (già manierista, ma di un manieri-
smo, va da sé, diverso).326
Per concludere questo breve inserto digressivo e tornando alla de-
dicatoria della Medea, Dolce vi sostiene un‟interpretazione dell‟imita-
tio/aemulatio secondo cui a garantire della bontà complessiva di un ri-
sultato artistico sarebbe soprattutto la grandezza incomparabile dei
modelli e non tanto l‟abilità, quale che sia, dell‟artista che li imita:
pertanto, scegliere Euripide (o Seneca) significa ipso facto conferire
alla propria operazione traduttoria, riscrittoria, emulativa parte della
auctoritas di quegli illustri punti di riferimento e «a guisa di esempio
cavato da valente pittore, non può perder tanto della sua primiera ec-
cellenza che non ne tenga qualche sembianza».
Anche la Medea è preceduta, come Ifigenia, da un prologo: i primi
versi subito immergono lo spettatore in un universo storico fosco e bu-
io, dominato dall‟ingiuriosa Fortuna e nel quale a Venezia (l‟orizzon-
te veneziano è sempre presente nelle tragedie del Dolce) le commedie
non vengono più rappresentate:

PROLOGO
Questa, che ‟l mondo imperiosa volge
Come a lei pare, e quinci e quindi aggira
Imperii, signorie, scettri, e corone,
A cui poser gli antichi altari e tempi
E la chiamar Fortuna, questa iniqua
Empia tiranna de le cose nostre,
Questa de‟ beni umani involatrice,
Porge spesse cagioni, ond‟altri scriva
Di morte, di dolor, di guerre e pianti;
E quindi avien che le Comedie sono
Tralasciate per tutto, e ‟n vece loro
Con mesto suon di lagrimosi versi
Vengono le Tragedie a farsi udire. (vv. 1-13)

326
Cfr. M. POZZI, L‟«ut pictura poësis» in un dialogo di Lodovico Dolce, in Lingua e Cul-
tura del Cinquecento, Quaderni del Circolo Filologico e Linguistico Padovano, 7, Padova, Li-
viana Editrice, 1975, pp. 1-22.
268 Venezia in coturno

Ribadita è inoltre, coerentemente con le premesse classicistiche


della poetica del Dolce, la radicale irriducibilità tematica e stilistica di
tragedia e commedia, ben compendiata dalla vivace immagine dei vv.
39-40, di palese derivazione petrarchesca: «Né convengono bene ad
ogni piede,/Sì come i socchi, i tragici coturni». 327 Dopo aver presenta-
to la protagonista della nuova tragedia con una evidente citazione dan-
tesca,328

Vedrete adunque comparirvi inanzi


Medea, ch‟a tanta crudeltà discende,
Che fa di sé contra di sé vendetta. (vv. 55-57)

Inferno, XIII, v. 72
ingiusto fece me contra me giusto.

il prologo tocca il motivo già discusso, tematicamente e politica-


mente rilevantissimo, della Laus Venetiae:329

O felice città, ch‟in alcun tempo


Non diede esempio tal, dove fur sempre
Donne gentili e di pietade amiche!
Onde, se ben, giovani accorte, udrete
Medea dolersi, e ragionar in modo
Che di compassion vi parrà degna,
Deh non vi movan le parole false:

327
Cfr. F. PETRARCA, Triumphus Cupidinis, IV, v. 88: «materia di coturni, e non di soc-
chi». Cfr. anche ORAZIO, Ars poetica, v. 80: «hunc socci cepere pedem grandesque cothurni».
328
Con la citazione, Dolce ci autorizza a compiere una parziale identificazione fra Medea
e Pier delle Vigne. Ciò che condanna entrambi i personaggi è la sproporzione fra scelus subito
e smisuratezza della vendetta compiuta.
329
Per l‟encomio di Venezia cfr. Didone, vv. 453-63; Giocasta, prologo, vv. 35-40; Ifige-
nia, prologo, vv. 1-5; Marianna, prologo I, vv. 76-93. In ambito non tragico cfr. L. DOLCE, Le
Trasformationi, XII, 4: «Ma tu, donna del Mar, tu patria mia/In cui l‟antico honor vivo ri-
splende/E fiorisce valor e cortesia/E virtù sempre ogni suo lume accende,/Tu sol da la com-
mune peste ria/Intatta sei, che ‟l ciel te ne difende,/In te sempre è colei più bella e chiara/Che
fu a Caton più che la vita cara»; XXIX, 8: «Ma che dirò di questa inclita e chiara/Republica
da Dio formata in terra,/In cui quanto da stella amica e cara/Piove bontà e virtù, tutto si ser-
ra?/Qui v‟abita la pace al mondo rara/E tien lunge da lei sempre ogni guerra/Giustitia ed Equi-
tà che con lei nacque/Quando al sommo Fattor fondarla piacque» (si cita da L. DOLCE, Le
Trasformationi di M. Lodovico Dolce, di nuovo ristampate, e da lui ricorrette, et in diversi
luoghi ampliate. Con la Tavola delle Favole. Con privilegi, Venezia, Gabriele Giolito de‟ Fer-
rari, 1553).
Le tragedie di Lodovico Dolce II 269

Che ben sapete quanto la natura


Fu di doglie, di pianti e di sospiri,
Di fallaci querele e di lamenti
Al sesso feminil cortese e larga.
[…]
A voi speme d‟Europa, onor di quanto
Appennin parte, e ‟l mar circonda e l‟Alpe,
Per cui cinta d‟oliva, ornata d‟oro,
L‟amata da Caton più che la vita
Qui pose e serba il suo bel seggio eterno,
Non sarà grave di prestarci intanto
Benigne orecchie. (vv. 58-77a)330

L‟esaltazione di Venezia, peraltro, è qui funzionale alla celebrazio-


ne dell‟equilibrio e della virtù delle sue donne, che mai furono costret-
te a comportarsi come la barbara Medea.
Le dramatis personae della Medea sono, nell‟ordine: la Nudrice di
Medea, il Balio dei suoi Figli, Medea, il Coro di Donne, Creonte e
Giasone, Egeo e un Vecchio, un Nunzio, i Figliuoli di Medea, un Con-
sigliere. La scena è collocata a Corinto.

1. Apre la tragedia una corposa rhesis recitata dalla Nudrice (vv.


81-162), che ha una funzione riepilogativa ed espositiva, in cui sottil-
mente Dolce tende a ridimensionare, come già era accaduto con
l‟Enea della Didone, la dimensione eroica inerente al personaggio di
Giasone, che il vello aureo di Frisso «Non per valor, ma per ventura
ottenne» (v. 87). La storia argonautica è notissima: Medea, sedotta da
Giasone, dopo averlo aiutato a recuperare il vello d‟oro, ha lasciato
suo padre e ha compiuto un mostruoso delitto, squartando il fratello
Absirto,331 per seguirlo in Grecia.
Ma ora Giasone l‟ha ripudiata per ragioni eminentemente politiche
e si accompagna con la figlia del re corinzio Creonte: la Nudrice è
preoccupata perché sa che Medea può compiere crudeltà terribili e qui
Dolce, omaggiando di fatto la grammatica tragica cinquecentesca e

330
Sempre rilevante la mediazione petrarchesca (per il v. 72 cfr. Rvf, 146, v. 14: «ch‟Ap-
pennin parte, e ‟l mar circonda et l‟Alpe») e il filtro dantesco (per il v. 73 cfr. Purgatorio,
XXX, v. 31: «sovra candido vel cinto d‟uliva»).
331
Particolare, questo dello sparagmòs di Absirto, che viene taciuto per decorum dal Dol-
ce.
270 Venezia in coturno

innovando decisamente rispetto alle fonti, colloca una sequenza oniri-


ca prealbare di cui non è traccia in Euripide e Seneca:

NUDRICE DI MEDEA
Poi mi spaventa un sogno che dormendo
Fei questa notte, inanzi che l‟aurora
Di purpureo color spargesse il cielo,
Nel quale a me parea veder Vulcano
Tutto irato e cruccioso arder le mura
Del palazzo real, e in quelle fiamme
Periano insieme e la figliuola e ‟l padre.
Pianser dormendo similmente i figli
Di Medea e di Giasone, ond‟io chiedendo
La cagion di quel pianto, essi tremando
Risposer che veduto avean nel sonno
Un serpe che venia per divorarli,
Tal ch‟a gran pena discacciar la tema. (vv. 145-57)

Assolutamente notevole mi sembra lo stratagemma del doppio so-


gno simultaneo che ha angosciato i sonni di tre personaggi centrali
della tragedia (la Nudrice e i due bimbi di Medea) e perspicuo è il va-
lore metaforico attribuito a Vulcano e al serpe. Figuranti della smisu-
rata feritas di Medea, preludono ai tratti del suo carattere che diver-
ranno tragicamente rilevanti sul piano della semantica scenica: il fuo-
co della passione brucerà letteralmente il palazzo reale con dentro
Creusa/Glauce e Creonte («Periano insieme la figliuola e ‟l padre», v.
151); il serpente, tradizionale ipostasi della saeuitia prodotta dall‟in-
vasamento furiale e anche importante simbolo biblico del demonio, è
l‟animale in cui Medea si trasformerà simbolicamente per compiere il
duplice infanticidio.332
Nella seconda scena dell‟atto entrano i figli di Medea con il Balio:
a lui spetta il compito di rivelare che Creonte ha deciso ormai di man-
dare in esilio sia Medea, sia i suoi figli. Mentre Euripide parla piutto-
sto genericamente di egoismo,333 Dolce decodifica il comportamento
di Giasone sub specie politica. Si sente che fra la Medea antica e que-

332
Mi pare da ravvisarsi qui una qualche presenza di un celebre locus virgiliano: cfr. VIR-
GILIO, Aeneis, II, vv. 203 ss., in cui si descrive l‟orribile divoramento dei figli di Laocoonte da
parte di un gigantesco serpente marino.
333
Cfr. EURIPIDE, Medeia, vv. 84-88.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 271

sta si è frapposta la recente riflessione politica di un Machiavelli, qua-


le che sia la reale presenza della sua produzione in questi versi:

BALIO
Grande è l‟amor de‟ figli, ma l‟avanza
Di gran lunga il desio caldo et ardente
Di vederci in istato alteri et grandi;
E molti son ch‟hanno i figliuoli uccisi
Per cagion di regnar senza sospetto.
Che se bene i Signor le leggi fanno,
Non vogliono però lor sottoporsi
Tanto, che quando l‟utile gl‟invita,
Non possano dispor come lor piace.
Né m‟affaticherò d‟addurti esempi,
Che ve ne son fra quanto vede il sole. (vv. 208-18)

Qui vi è forse un‟eco della rilevante questione giuridico-politica i-


nerente al perimetro delle prerogative giurisdizionali del princeps e al
rapporto fra il suo potere e le leggi,334 con cui Dolce, forzando molto
il testo euripideo, propone una interpretazione attualizzante della so-
vranità nel mito tragico, rivolgendosi al presente storico della Serenis-
sima Repubblica, in una fase di significativo aggiornamento dei rap-
porti politici nazionali e internazionali.
Inoltre, fra le righe (e nemmeno troppo…), si possono verosimil-
mente scorgere allusioni a varie congiure e ad omicidi politici che agi-
tarono le corti e le città rinascimentali.335 Il Balio procede nelle sue ri-
flessioni, anche lievemente ironiche (cfr. i vv. 246-7: Nudrice: «Chi fa
la legge, rivocar la puote». Balio: «Ciò far si suol quando la legge è

334
Già la giurisprudenza medievale aveva elaborato svariate teorie sul concetto di sovra-
nità e si era arrovellata attorno all‟alternativa fra diverse architetture istituzionali e fra diverse
configurazioni dei rapporti fra potere e leggi (rex supra legem, rex sub lege, princeps legibus
solutus, princeps legibus alligatus…). Chi aveva egregiamente recuperato le fonti medievali
della questione, dando loro una moderna declinazione politica era stato Erasmo da Rotterdam,
specialmente nell‟adagio Aut regem aut fatuum nasci oportere: «[…] admonetur licere quic-
quid libet. Audit omnes omnium possessiones esse principis, principem esse superiorem legi-
bus, in pectore principis omnem legum et consiliorum mundum esse reconditum» (vd. ERA-
SMO DA ROTTERDAM, Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, a c. di S. SEIDEL MEN-
CHI, Torino, Einaudi, 1980, p. 22).
335
Anche Venezia. Senza andare troppo indietro, si pensi almeno alla celebre vicenda di
Pier Luigi Farnese ucciso nel 1547 e alla morte violenta, proprio a Venezia, di Lorenzino de‟
Medici (1548).
272 Venezia in coturno

buona»), decostruendo con puntualità i meccanismi che regolano la


conservazione del potere e accusando Giasone di aver fatto prevalere
irresistibilmente le ragioni della politica:

BALIO
È cosa naturale amar se stesso
Più che null‟altro; e la corrotta usanza
Fa che comunemente è posto inanzi
Fra la più parte l‟utile a l‟onesto.
Non credo ch‟abbia in odio i suoi figliuoli
Giason, ma cred‟io ben che di Corinto
Ami più la corona che i figliuoli. (vv. 254-60)

Ma, occorre subito aggiungere, è una sorta di fuoco di paglia: verso


altri lidi approderà la tragedia. Il v. 280 della Nudrice («Io la veggio
venir tutta turbata») anticipa l‟entrata in scena della protagonista in-
troduce che si autopresenta nominandosi e lamenta la propria situa-
zione secondo le più consuete coordinate patetiche della grammatica
tragica del Cinquecento.
La scrittura del Dolce, come sempre in questi casi, si anima lirica-
mente e sul piano figurale diventa più articolata: dal v. 294 molti sono
i settenari, molte le rime e si percepisce una complessiva ricerca di
musicalità, quasi à la Metastasio. Basti questo campione:

MEDEA
Misera, che ‟l mio male è tale e tanto
Che vince di gran lunga il mio lamento,
Né la mia lingua, né il pensier l‟aguaglia.
O prodotti figliuoli
Di scelerato seme,
Voi per le crude mani
De la madre crudele
Ne morrete col vostro iniquo padre.
Così con egual scempio
Caderà di Creonte
L‟alta casa reale,
Tal che pietra non fia che resti salda. (vv. 296-307)

Dove, al di là delle scontate figure di suono (rime interne, omete-


leuti, allitterazioni e consonanze varie…), di qualche nota degni mi
Le tragedie di Lodovico Dolce II 273

paiono il chiasmo allitterante (e parzialmente derivativo) crude : mani


= madre : crudele e la proliferazione dell‟aggettivo (con funzione
prossimale) mio, mia ad indicare, oltre che coinvolgimento emotivo,
anche energica assunzione di responsabilità ed esclusiva concentra-
zione sulla propria vicenda personale da parte di Medea, che già deli-
nea perfettamente lo svolgimento della tragedia; e contrario, i posses-
sivi di seconda plurale hanno evidente funzione distanziante.
E poi:

MEDEA
Deh, ché non piove omai celeste fiamma,
Che m‟arda tutta, e incenerisca e pera,
Poscia ch‟al mondo mai sorte gradita
Esser non pò, per cui brami la vita?
Deh, parti odiosa vita, parti omai:
A che pur meco stai?
Con quelle alberga, et accompagna quelle,
Che si godon qua giù felice stato.
A me non è più grato
(Sì come a‟ lieti suole)
Questo ciel, questa luce, e questo sole,
Ma pria ch‟io mora, è ben ragion ch‟io faccia
Morir quei che cagion son di mia morte. (vv. 315-27)

Ancora una volta notiamo come la fonicità densa e l‟incremento di


figuralità336 non vadano tanto nella direzione della gravitas, quanto
piuttosto del patetico. Genialmente manieristica, nella sua vistosa me-
tatestualità, mi pare la battuta della Nudrice ai vv. 328-29: «Ecco pur
morte sempre/È il fin di sue parole», dove la parola fin è anfibologica,
poiché morte è contemporaneamente parola clausolare dell‟intervento
di Medea (sul piano dei verba), ma anche scopo e autentico progetto
d‟a-zione inscritto nel pensiero della maga (sul piano delle res).

336
Per la precisione, registriamo in questa breve sequenza: la gradatio trimembre del v.
316; le rime gradita-vita (vv. 317-18, con rima interna vita al verso successivo), omai-stai
(vv. 319-20), stato-grato (vv. 322-23), suole-sole (vv. 324-25), fra l‟altro ricca e par onoma-
stica, quantunque banale; la geminatio di v. 319; la redditio di v. 320; un chiasmo con redditio
al v. 321; il trikolon con polittoto del deittico di v. 325; il polittoto (con derivatio) dei vv.
326-27, con anfibologica diafora e lieve ludus, poiché morte ha valore qui di „vita infelice‟.
274 Venezia in coturno

Se Atreo ha modellato il proprio nefas (almeno parzialmente e nel


puro macrotesto del mito) su quello di Progne e Filomela, Medea in-
voca le furie de l‟Inferno (v. 363), affinché le conferiscano l‟energia
indispensabile per compiere l‟orrendo infanticidio che si sta prefigu-
rando. 337
Uscita di scena Medea, la Nudrice si incarica di riusare una topica
tessera per caratterizzarne l‟animus irato e vendicativo:

NUDRICE
Vedete come è ritornata dentro.
Suo core è quale un agitato mare
Dal più rabbioso vento
Che ‟l gonfia tutto, e lo solleva e gira.
E ben è ver che quando avien che donna,
Ch‟amò un tempo, disami,
Quanto già fu l‟amore,
Tanto l‟odio è maggiore
Che l‟alma offesa stimola e flagella. (vv. 366-74)

Il coro I,338 che tematicamente riprende il primo stasimo della Me-


dea euripidea, formula una impietosa accusa contro Amore fiero ti-
ranno (v. 392) e causa di ogni male nel mondo (deliberatamente tra-
scurando le giustificazioni umane e psicologiche di Medea e liquidan-
do pour cause la dimensione politica della vicenda).
Piuttosto convenzionale nel complesso, ma con qualche spunto de-
gno di nota: la deprecatio contro il nefas progettato da Medea, definito
«Quel che non soglion fare/In aria, in terra e in mare/Augei, pesci, le-
on, tigri e serpenti» (vv. 425-27), propone tre versi per i quali oltre al-
la notevolissima rapportatio di sapore già barocco (peraltro con inver-
sione dell‟ordine terra~mare nella ripresa), mi pare si possa parlare di
eccezionale «saturazione dello spazio figurativo», conseguita attraver-
so gli accenti fitti e ribattuti, secondo un modus operandi che rinvia

337
Cfr. SENECA, Thyestes, vv. 250-52: «dira Furiarum cohors/discorsque Erinys ueniat et
geminas faces/Megaera quatiens». Inoltre cfr. L. DOLCE, Tieste, vv. 400-02: «Vengan le in-
fernal Furie ad abitarvi,/Con le teste crinite di serpenti;/Ed entri il lor venen dentro il mio pet-
to».
338
Composto da quattro stanze di canzone con schema [abC. abC. cdeeD. ff] e congedo
(perfettamente equivalente a Rvf, 125).
Le tragedie di Lodovico Dolce II 275

decisamente al Boiardo,339 ancorché qui come diluito. Ulteriore con-


ferma, però, della complessità del lavoro di intarsio che presiede la
compaginazione della pagina tragica del Dolce.

2. Medea torna in scena all‟inizio del secondo, lungo, atto (vv. 446-
1078), continuando a ingiuriare Amore340 e riepilogando, con scelta
scenica debolissima, gli antefatti della vicenda sceneggiata.341
In questo mare di versi piattamente didascalici e riepilogativi, sa-
ranno degni di una mise-en-relief quelli che sembrano dotati di una ca-
ratura letteraria più alta:

MEDEA
Avendo ancor poter un‟altra volta
Ne‟ corpi ritornar l‟alme partite,
Pietosamente a questo reo donando
Il mio amore, il mio avere, e la mia vita,
Con mia perdita molta gl‟insegnai
I tori soggiogar, vincer gli armenti
Adormentare il drago, e finalmente
Del mirabil tesor farsi signore. (vv. 505-12)

Qui, per esempio, il v. 510 va a sollecitare, ritmicamente e lessi-


calmente, una memoria intertestuale che dal Caro giunge fino a Leo-
pardi:

A. CARO, Eneide di Virgilio, VIII, v. 553


Udian greggi belar, mugghiare armenti

G. LEOPARDI, Il passero solitario, v. 8


Odi greggi belar, muggire armenti

339
Cfr. P. V. MENGALDO, Prima lezione di stilistica, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 30, che
esemplifica la sua mirabile analisi su Amorum libri, III, 129, v. 9.
340
Vi è qui una sospetta insistenza sul tema che non trova riscontri né in Euripide, né in
Seneca. Dolce, semmai, sembra guardare ad OVIDIO, Metamorphoses, VII, vv. 9-21.
341
Qui l‟ansia di perspicuitas travolge Dolce, che avrebbe benissimo potuto rinunciare al-
la spiegazione distesa delle vicende argonautiche che hanno coinvolto anche Medea. Inoltre,
già in precedenza la Nudrice si era soffermata sugli antefatti mitici della fabula: si capisce che
non vi è alcuna necessità di un indugio perissologico di tale portata.
276 Venezia in coturno

Medea prosegue, spalleggiata dal coro (cfr. vv. 542-83), facendo un


quadro desolante della condizione femminile: in questa sezione viene
recuperato il dettato euripideo, filtrato però attraverso due dei testi ca-
pitali della grammatica tragica rinascimentale:342

MEDEA
Ma che bisogna dir? Certo noi donne
Siam tutte assai più misere e infelici
Di qualunque animale alberga in terra:
Che primamente non possiam da noi
Regger lo stato nostro; indi conviene
Che col prezzo de l‟oro e de l‟argento
Compriamo il proprio male, e questo è il nostro
Marito, anzi per dirlo veramente
Il signor de la vita e de la morte,
Il qual non con dolcezza e con amore,
Ma con asprezza e crudeltà ci regge.
[…]
S‟aggiunge che non è lecito a noi
Rifiutare il tiran del nostro bene
E d‟ogni pace, e per viver con lui
Vita tranquilla, ci convien avere
Sofferenza ne l‟alma eternamente,
E far del suo voler leggi a noi stesse. (vv. 542-60)

Sempre presente il lessico lirico petrarchesco (cfr. il plateale pre-


lievo da Rvf, 22, v. 1) e sostanzialmente rispettata l‟articolazione del
discorso tragico che Medea compie in Euripide. La pronuncia poetica
si frange per le molte inarcature e raggiunge vertici di concettismo ip-
notico ai vv. 594-601, soprattutto a causa della eufuistica correctio
posta fra parentesi:

MEDEA
O quanto differente è la mia sorte
Da la vostra! Voi sete ne la dolce
Patria natia, dove abondanza avete
Di facultà, di commodi, e d‟amici;
Io priva del mio caro amato Regno

342
Cfr. EURIPIDE, Medeia, vv. 230-66; G. RUCELLAI, Rosmunda, vv. 307-39 e G. B. GI-
RALDI CINZIO, Orbecche, vv. 885-913.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 277

(Anzi per troppo amar chi non doveva,


Regno a me poco amato e poco caro,
Ma ch‟esser mi dovea caro et amato)
Quasi preda condotta in queste parti,
Non veggio ch‟io n‟aspetti altro che morte,
Perché meglio è morir che viver serva,
O sprezzata da tutti e vilipesa. (vv. 590-601)

La seconda scena dell‟atto vede entrare il re Creonte, padre di


Creusa e nuovo suocero di Giasone. Ritenendo che Medea possa con-
taminare Corinto, le ingiunge di andarsene subito con i figli. La prota-
gonista, rispondendogli, viene investita da un clamoroso processo di
assimilazione alle esigenze dei ceti medi (veneziani?), al di là di qua-
lunque autorizzazione euripidea e/o senecana:

MEDEA
Appresso non chiedendo altro ch‟un poco
D‟umil coperchio e di casetta vile,
Che me con la mia picciola famiglia
Da la pioggia e dal sol tenga difesi,
E tanto d‟alimento da Giasone,
Che co‟ suoi figli mi sostenga in vita. (vv. 660-65)

Ma il tentativo fallisce e allora Medea decide di puntare sul pateti-


smo della supplica, ancora inutilmente. Solo la personale pietas di
Creonte concede alla maga l‟indugio di un giorno: gli ultimi versi
pronunciati da Creonte suonano sinistramente anfibologici:

CREONTE
Dunque ti si concede questo giorno,
Nel cui termine so che non potrai
Far contra noi quel che veder mi pare
Che dentro l‟alma tua vai disegnando;
Or col tempo dispensa i tuoi bisogni. (vv. 764-68)

E subito Medea si incarica di svelare, a conferma che Creonte sta


sbagliando, il suo progetto di vendetta, per la verità ancora impreciso:

MEDEA
Certo che in ogni parte ov‟io mi volga
278 Venezia in coturno

Mi cingono martir, tormenti e morti,


Ma ne l‟amaro che mi rode il core
Tempra la doglia una dolcezza sola,
Ch‟io non mi partirò senza vendetta. (vv. 776-80)

Dove molto sviluppato è lo spartito fonico: allitterazione di [m] ed


[r] nel trikolon quasi anagrammatico del v. 777 e nel v. 778; allittera-
zione di [d] in doglia-dolcezza, con cui amaro di v. 778 viene posto in
tensione attraverso lo sfruttamento di una antitesi tipicissimamente pe-
trarchesca, risemantizzata e rifunzionalizzata.
Il v. 811 segna l‟entrata in scena di Giasone, il quale rivela che la
ragione prima dell‟esilio di Medea è politica: aver detto «parole ingiu-
riose e indegne/De l‟altezza del Re, ne le cui mani/Egualmente è la vi-
ta e la tua morte» (vv. 826-28), evidentemente concepito come tiran-
no, ha segnato il destino della donna, non altro. La risposta di Medea
innova, rispetto ai modelli, per il singolare riferimento alla bellezza
svanita che sarebbe all‟origine del ripudio di Giasone: altro tratto ero-
tico e sentimentale di segno tipicamente rinascimentale che implica la
ridefinizione delle coordinate tragiche del mito di Medea e che lo inse-
risce piuttosto nel perimetro della rappresentazione di un banale e rea-
listico ménage:

MEDEA
Or non avesti tu da le mie mani
Il vello d‟oro? Non avesti ancora
Mia castitate, e la tua istessa vita?
E qual si può trovar dote maggiore,
E da tenersi più pregiata e cara?
O forse ch‟è costei di me più bella
E più giovane ancor? Già pur lodasti
(Qual io mi sia) questo mio aspetto, e pure
Fioriva allor mia verde etade, quando
Il bel fior virginal tu mi rapisti. (vv. 911-18)343

343
Qualche tarsia petrarchesca, magari variata, è riconoscibile: cfr. Rvf, 315, v. 1: «Tutta
la mia fiorita et verde etade»; Triumphus Mortis, II, v. 68: «ne l‟età mia più verde, a te più ca-
ra»; Triumphus Eternitatis, v. 133: «ne l‟età più fiorita e verde». Per il v. 918 rinvierei almeno
al celeberrimo L. ARIOSTO, Orlando furioso, I, 42-43, a sua volta emulativo rispetto a CATUL-
LO, Carmina, 62, vv. 39-47.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 279

Le varie accuse di Medea a Giasone culminano nei bei vv. 940 ss.:

MEDEA
Volesse Dio che la natura avesse
Fatta nel petto nostro una fenestra,
In cui mirando, si vedesse chiaro
La falsitate e la bontà de‟ cuori:
Ch‟or non sarei ne la miseria mia,
Né tu, ch‟indegno sei, saresti in vita. (vv. 940-45)

Adeguata ad un personaggio imborghesito e cinico, del tutto dise-


roicizzato e un poco trivializzato rispetto alla tradizione, è la risposta
di Giasone che occupa i vv. 946-91. Questi, vero e proprio nuovo E-
nea, in un miserabile tentativo di convincere Medea dei tanti benefici
da lui ricevuti, sottilmente e un poco ingenuamente rivela le reali mo-
tivazioni che lo hanno condotto al suo ripudio e alle nuove nozze con
Creusa:

GIASONE
Poi non mi son congiunto con la figlia
Del Re Creonte perch‟odio ti porti,
O perch‟io tenga lei di te più degna,
Ma solo affin che per tal parentado
Io possa esser d‟aiuto a‟ miei figliuoli,
E render a te premio maggiormente
Del beneficio che da te conosco. (vv. 980-86)

Giustificazione davvero zoppa e molto in linea con i vuoti discorsi


di Enea nella Didone, tragedia-gemella della Medea nel corpus del
Dolce. Del resto la maga neutralizza immediatamente la falsa retorica
dell‟interlocutore ai vv. 992 ss.: «Sappi, Giason, che non merita lo-
de/D‟eloquente orator l‟uom ch‟è malvagio,/E dimostrando il mel ne
le parole/Dentro del petto suo l‟ascenzio asconde», nuova, esemplare
registrazione della divaricazione fra res e verba che è così tipica di
tanta produzione tragica dolciana.
Innovativa è la breve scena (vv. 1044-78) con cui si chiude il se-
condo atto. Con un intervento fortemente politico, un Consigliere cri-
tica l‟eccessiva disponibilità di Creonte nei riguardi di Medea. Il coro
II ha schema libero con prevalenza di settenari ed è uno dei più deso-
280 Venezia in coturno

lati dell‟intera produzione tragica dolciana, a conferma che nella Me-


dea pare ulteriormente incupito e pessimistico lo sguardo dell‟autore,
sollecitato a ciò da un cumulo di vicende, storiche e personali, con-
trassegnate dalla negatività. E non sarà da reputarsi casuale la liquida-
zione della tradizionale metrica petrarchesca, ambendo il discorso tra-
gico di Dolce, in questo frangente, alla riflessione filosofica e morale
secondo coordinate da satira oraziana.344
Si leggano, pars pro toto, questi versi:

CORO
Questa vita mortale
È veramente sì noiosa e grave
Ch‟io stimo meglio assai
Non esser nato mai,
Over, presa la gonna umile e frale,
Senza far più soggiorno,
Sentir il primo dì l‟ultimo giorno.
[…]
Il ricco è sempre afflitto e sconsolato,
E quanto egli più acquista,
Il desio d‟acquistar via più l‟attrista.
Cerca miglior fortuna
Il povero, e per tema
Di non perir, s‟affretta a l‟ora estrema.
Questa cura che noi
Sempre stimola, batte, e sferza, e punge,
Cura di viver lieti,
[…]
Nel nostro cor produce
Mill‟aspre pene, e spesso morte adduce. (vv. 1079-1105)

Sicura sembra la dipendenza da vari luoghi della tragedia rinasci-


mentale. Tra gli altri cfr. il seguente:

G. G. TRISSINO, Sofonisba, I, 1
ERMINIA
Questa vita mortale

344
Inevitabile per i vv. 1089-1105 il rinvio a ORAZIO, Sermones, I, 1. Ciò non vuol dire
che non vi siano molti versi di ascendenza petrarchesca: cfr. Rvf, 37, vv. 17-32; 312, vv. 12-
14; 349, vv. 9-14; Triumphus Temporis, vv. 133-38.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 281

non si può trappassar senza dolore;


che così piacque a la giustizia eterna.
Né sciolta d‟ogni male
del bel ventre materno usciste fuore;
che in stato buono o reo nessun s‟eterna.
Di quel sommo fattor, che ‟l ciel governa,
appresso ciascun piede un vaso sorge,
l‟un pien di male e l‟altro è pien di bene,
e d‟indi or gioia, or pene
trae mescolando insieme, e a noi le porge.
Poi vi ricordo ancor fra voi pensare
che a valoroso spirto s‟appartiene
porsi a le degne imprese, e ben sperare,
e da poi sopportare
con generoso cuor, quel che n‟avviene.

Inoltre, topicamente molto esibito è il rinvio a un notissimo locus


teognideo-sofocleo, riproposto sentenziosamente da tutte le più signi-
ficative tragedie del Cinquecento nei primi quattro versi.345

3. Il terzo atto (vv. 1119-1489) comincia con la dislocazione di un


passo che nel testo euripideo occupa i vv. 764-823: è un dialogo fra
Medea e il coro, in cui la donna rivela il suo progetto di vendetta ai
danni di Giasone, Creonte e Creusa. Alla rivelazione che anche i soui
figli verranno coinvolti nel nefas (non Giasone sarà ucciso, ma i suoi
figli che sono come le sue carni) il coro reagisce pateticamente nel di-
sperato tentativo di impedire a Medea la realizzazione del piano: si
uccidano pure Creonte («Signore empio et ingiusto», v. 1197) e Creu-
sa, ma non siano toccati i bimbi, cosa reputata «fuor d‟ogni costume
umano» (v. 1202).
Ed ecco che Medea, sorprendendo il nostro orizzonte d‟attesa e ri-
badendo l‟insistenza del Dolce sul motivo dell‟ambiguità della paro-
la,346 così risponde:

345
Cfr. TEOGNIDE, Δλεγειων, A, vv. 425-428 e SOFOCLE, Oidipous epi Kolonoi, vv. 1224-
1227. Come già detto vd. G. G. TRISSINO, Sofonisba, vv. 308-09; G. RUCELLAI, Rosmunda,
vv. 139-41; G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 630-33 e 928-29; P. ARETINO, Orazia, vv.
437-41 e già L. DOLCE, Hecuba, vv. 229-31.
346
Del resto il coro dirà di Medea ai vv. 1269-70: «Altro la lingua parla,/Et altro forse è
nel suo petto ascoso».
282 Venezia in coturno

MEDEA
I pietosi consigli
Vostri ricevo: infin son madre, e sono
Di carne come voi; però vivranno
I miei figliuoli, e ne morrà colui
Che non merita già nome di padre. (vv. 1222b-26)

Giasone rientra in scena con i figli e Medea dice di essersi pentita


per i suoi precedenti comportamenti, in una scena in cui clamorosa è
la distanza fra fictio e realtà, scena e mondo. Giasone è persuaso e
perciò acconsente a che i figli siano inviati da Creusa con due bellis-
simi doni nuziali che segneranno invece per sempre il destino della
regina. Caduca e verbosa pare tutta l‟ultima parte d‟atto con l‟ingres-
so, inopinato invero anche in Euripide, di Egeo, re d‟Atene, a cui Me-
dea chiede preventivamente asilo politico, in una sequenza di fatto
marcata dall‟infrazione dell‟unità spaziale e quindi piuttosto digressi-
va. Il coro III è una severa (e topica) requisitoria contro la Fortuna.

4. L‟atto quarto (vv. 1527-2023) si apre con una pletorica scena di


dialogo fra il Balio, rientrato in scena con i bimbi di Medea, e
quest‟ultima: l‟allusiva ed essenziale costruzione dell‟originale è sfi-
lacciata in una faticosa argomentazione dominata dall‟amplificatio. A
spiccare tra i tanti versi è il monologo (quasi) interiore di Medea ai vv.
1624-77, dove lo stato allucinatorio della mente della donna viene ri-
specchiato da una dictio poetica irta di ripetizioni e come ossessiva-
mente irresoluta. Si veda il campione:

MEDEA
Questo io sperava, ma fortuna ingrata
Mi toglie il mio contento e la mia pace,
E vuol ch‟io speri sol pace e contento
Da bella, ardita, e generosa morte.
Lassa, che far debb‟io, debbo lasciarli
Ne le mani e in poter de‟ miei nimici?
O pur menarli meco? Ne le mani
Lasciarli de‟ nimici è cosa iniqua,
E comportar no ‟l voglio. Poi menarli
Meco agli affanni è un‟impietà. Che dunque,
Che debbo far? Non vo‟ che siano a parte
Le tragedie di Lodovico Dolce II 283

De le miserie mie. […]


[…]
Ma che? Vegg‟io, veggio un rimedio solo.
Io gli ho prodotti, io gli trarrò di vita.
Oimè, che è quel ch‟io dico? Oimè, che penso
Ah, crudel madre, anzi crudel serpente,
Anzi di sasso, e non di carne: adunque
Potrai te stessa uccider? che tu stessa
Se‟ ne‟ figliuoli. (vv. 1652-72)

Di qualche rilievo, anche scenico, sarà l‟allusione crudel serpente


di v. 1669, in cui Dolce, recuperando una tessera intratestuale del pri-
mo atto (cfr. vv. 152-7), riattiva tematicamente l‟identificazione fra
Medea e questo animale. Inoltre, poco dopo, Dolce icasticamente (e
secondo un modus che è assai tipico in Seneca) rappresenta la defini-
tiva abdicazione della ragione a vantaggio del furor omicida:

MEDEA
Ah misera Medea, già sento, sento
Le furie de l‟Inferno in mezzo il petto:
Sento i serpi crudei, sento il veleno,
Che discorre per l‟ossa, e a poco a poco
M‟ingombra di furor la mente e ‟l cuore. (vv. 1689-93)

Il v. 1732 vede entrare in scena il consueto Nunzio che rivela la


morte di Creusa e Creonte, periti assieme a molti altri nell‟incendio
del palazzo reale: tratto, questo, più pertinentemente senecano che eu-
ripideo.347
Minuziosamente raccapricciante, come di prammatica peraltro, è la
descrizione della morte di Creusa, che ripropone in una cornice mara-
vigliosa i moduli dell‟orrore così tipicamente senecano:

NUNZIO
In lei non apparea più d‟occhi forma,
Né ‟l volto somigliava aspetto umano,
E da la testa distillava il sangue
Mescolato col foco, e le sue membra,

347
Cfr. SENECA, Medea, vv. 879-90, in cui il Nuntius racconta del fuoco divoratore che sta
distruggendo il palazzo e che viene alimentato e non spento dall‟acqua.
284 Venezia in coturno

Spiccandosi per tutto a poco a poco,


Mostravan l‟ossa in molte parti ignude. (vv. 1882-87)

Dove si deve certamente rilevare la demetaforizzazione che Dolce


fa subire al dettato originale in cui Euripide paragonava i brandelli di
carne del corpo della donna alle πεύκινον δάκρσ, „lacrime di resina di
pino‟ (v. 1200). In una sorta di irresistibile gradatio dell‟orrore, Dolce
indugia anche sulla morte di Creonte che nel disperato, inutile tentati-
vo di far rinvenire la figlia, resta impaniato nel mortifero peplo che el-
la indossa e che gli strappa la carne uccidendolo fra atroci sofferenze:
«E pur cercando di spiccarsi indarno,/Miser, gli si spiccavano le car-
ni,/Uscendo insieme a viva forza il sangue./Rimase al fine a la figliuo-
la appresso/Lo sventurato Re tra poco estinto» (vv. 1921-25).
A questo racconto, accolto con viva partecipazione e gioia da Me-
dea, segue la sua definitiva trasformazione in furia, convinta della ne-
cessità di uccidere i figli. Il coro che conclude l‟atto quarto348 si confi-
gura come deprecativa invocazione a Minerva affinché infonda in
Medea la saggezza necessaria a scongiurare l‟orrendo nefas da lei pre-
annunziato e al Sole affinché non illumini più luoghi che hanno visto
avvenire un orrido scempio.

5. L‟ultimo atto (vv. 2024-2335) ripropone nei primi versi, in una


sorta di microscopica Ringkomposition, una riflessione della Nudrice
sulla veridicità del sogno compiuto all‟inizio della tragedia: «Ah veg-
gio, lassa, ah veggio/Che ‟l sogno aspro e crudel ch‟io fei dormen-
do/Fia vision, non sogno».349
Ancora è presente in scena il Balio che, dopo aver dichiarato di a-
ver compreso le intenzioni di Medea, compie una incredibile (e sceni-
camente insensata) digressione etico-giuridica sul parricidio, colossale
anacronismo romano del Dolce che, usando la ciceroniana Pro Roscio
Amerino, fa discettare il personaggio sulla tremenda poena cullei, giu-
dicata giusto guiderdone per coloro che uccidono il proprio padre: la
sequenza, che ha qualche sapore aretiniano,350 è del tutto gratuita e ha

348
Modellato sullo schema metrico di F. PETRARCA, Rvf, 126.
349
Vistosa la dipendenza dal capostipite della grammatica tragica cinquecentesca: G. G.
TRISSINO, Sofonisba, vv. 299-300: «O duro sogno,/Anzi più tosto vision che sogno!».
350
Cfr. P. ARETINO, Orazia, vv. 1951 ss..
Le tragedie di Lodovico Dolce II 285

forse la funzione di collocare il delitto di Medea nel quadro della di-


sumana feritas del mondo antico contemporaneamente alludendo al
valore didattico della punizione che colpisce gli autori di scelera.
Nella seconda scena dell‟atto, con buona articolazione della dialet-
tica fra movenze on-stage e off-stage, i figli di Medea stanno cercando
di sfuggire alla madre presso il coro, ma alla fine soccombono. Il de-
litto immane è compiuto.351
Al v. 2163 entra in scena Giasone che cerca disperatamente Medea,
non sapendo ancora che i figli sono morti, e la definisce Megera cru-
del (v. 2175) e morbo rio (v. 2181) che contamina la terra (con il che
la stessa digressione giuridica del Balio assume una nuova importanza
strategica alludendo al potere contaminante che possiede il parricida e
colui che commette delitto parentale in genere). In Euripide, Giasone
temeva che le umbrae dei morti (Creonte e Creusa) potessero minac-
ciare l‟incolumità dei figli; in Dolce, opportunamente e icasticamente,
è Medea stessa ad essere ritenuta capace dello scelus maius.
Prima ancora che gli scherani di Giasone possano iniziare ad abbat-
tere la porta d‟ingresso del palazzo per vedere i cadaveri dei bimbi,
Medea – con felicissimo senso del tempo scenico – la apre. Giasone la
accusa di infettare la terra, il mare, il cielo, tutto, 352 ma Medea, orgo-
gliosamente, risponde che causa di tutte le scelleratezze viste è stato
l‟infido principe greco, verso il quale, peraltro, non può esimersi dal
ribadire di provare un amore assoluto: e si noti la felice scelta dolciana
di accentuare la dimensione coniugale dello sdegno di Medea, con la
ossessiva, insistita repetitio del nome di moglie.353
Conclude l‟atto e quindi la tragedia Medea impegnata ad impedire
a Giasone di seppellire i figli e a riaffermare, in una sorta di femmini-
stico rictus, il suo diritto di (quasi) proprietà sui cadaveri, sottolineato
anche dal fatto che l‟anafora del pronome focalizza tutta l‟attenzione

351
Certo da notare questa sospensione quasi cinematografica che Dolce conferisce alla
sequenza: i fanciulli descrivono (innaturalmente o iperrealisticamente) nel dettaglio la loro
morte.
352
Nell‟ottica, quindi, dell‟analogia Medea-pestis che certo è delle più produttive per
l‟intera operazione dolciana.
353
Cfr. L. DOLCE, Medea, vv. 2261-72: «Che tu send‟io tua moglie, e quella moglie/Che ti
campò da morte, quella istessa/[…]/Che teco viveria moglie mai sempre/[…]/Perfido non do-
vevi abbandonarmi,/E prender nuova moglie; né dovea/Creonte, s‟era Re pietoso e giu-
sto,/Concederti per moglie la figliuola».
286 Venezia in coturno

dello spettatore su di lei: «Io quelli ho partorito, io quelli ho uccisi:/Io


con mie man darò lor sepoltura» (vv. 2305-6). In cauda ecco ancora
un coup-de-théâtre: senza che lo spettatore riesca bene a capire come,
Medea scompare e al coro spetta il compito di annunciare l‟evento che
si svolge velocissimo ai vv. 2319-20: «Vedete come fugge:/Ecco ch‟è
già sparita».
Completa la fabula il consueto coro madrigalistico di vago sapore
eterodosso:

CORO
Se l‟uom potesse a pieno
Antiveder i mali
Ch‟attristano la vita de‟ mortali,
Questo chiaro sereno,
Questa soave luce,
Non turbarla già mai contrario vento,
E sempre fora pieno
Il corso uman di gioia e di contento.
Ma la vista mortal non si conduce
Là dove più riluce
Il decreto del cielo, a noi celato,
Onde a quel fin n‟adduce
Che dan le stelle, e la fortuna, e ‟l fato. (vv. 2323-35)

La conclusione della tragedia, quantunque topica, è priva di spe-


ranza, essendo vietato a Giasone persino seppellire i cadaveri dei figli
ed evaporando Medea.
Non va dimenticato che la Medea si colloca in un momento stori-
camente delicato per Venezia funestata, a partire dal 1555, da una ter-
ribile e prolungata epidemia di peste: in questa prospettiva, il perso-
naggio di Medea può essere concepito come un duplicato di Edipo,
una sorta di pharmakòs che va eliminato per ripristinare una tempora-
nea e giocoforza illusoria (sembra suggerire Dolce) harmonia mundi.
E come la peste viene e va, così ad un certo punto Medea sparisce.
La stessa lunga descrizione della morte di Creusa e del padre Creonte
sembra potersi ricondurre più alla fenomenologia medica delle soffe-
renze prodotte dalla peste (che Dolce e gli spettatori dovevano ben co-
noscere), che a ragioni eminentemente artistiche.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 287

In sostanza e per concludere: quale che sia il valore della Medea


(che continuiamo a reputare il testo più caduco dell‟intera produzione
originale del Dolce) non si può omettere di notare che in essa la scelta
di fare spettacolo delle antonomastiche scelerità della maga colchica,
recuperando anche alcune coordinate espressive del teatro senecano, si
spiega come risemantizzazione del mito in funzione di un orizzonte
storico e sociale drammaticamente e precisamente connotato, nuova
conferma della necessità di una rilettura del teatro del Dolce scevra di
pregiudizi, quale la nostra è certamente stata.
Conclusione

Ben confesso ch’in me non troverete


Superbe voci, né epiteti gravi
Ma (se pur questo a voi prometter posso)
Sermon soave e dir facile e puro.
L. DOLCE, Marianna (1565), prologo I, vv. 58-61

Apparteneva alla sconsolante categoria dei precursori. Da un lato fortemente adattati al


modo di vivere prevalente della loro epoca, e dall’altro ansiosi di superarlo “dall’alto”
preconizzando nuovi comportamenti o rendendo popolari comportamenti ancora poco
praticati, in genere i precursori necessitano una descrizione un po’ più lunga, anche per-
ché spesso il loro percorso è più tormentato e confuso. Tuttavia essi hanno un mero ruolo
di acceleratore storico – generalmente di acceleratore di una decomposizione storica –
senza mai poter imprimere una nuova direzione agli avvenimenti – tale ruolo essendo
commesso ai rivoluzionari o ai profeti.
M. HOUELLEBECQ, Le particelle elementari

Dall’analisi delle tragedie di Lodovico Dolce, scritte fra il 1543 e il


1557 e qui considerate, emerge egli dunque come il più grande poeta
tragico italiano del tempo? Sono le sue fabulae costruite meglio, me-
glio scritte, rispetto a quelle allestite da Trissino, Rucellai, Pazzi de’
Medici, Alamanni, Martelli, Giraldi, Speroni?
Praticamente innegabile è la natura di almeno parziali monstra che
tutte le più significative tragedie del primo e medio Cinquecento ita-
liano possiedono, a causa di una dialettica, senza sintesi possibile, fra
contenuti gravi e materiale lessematico impiegato. Per questo motivo,
Lodovico Dolce sembra davvero il mediatore più equilibrato e notevo-
le di un discorso tragico strutturalmente dipendente sia dalla tradizio-
ne classica (Seneca ed Euripide), sia dalle recenti proposte in volgare
(Trissino, Giraldi e Speroni). La natura ibrida delle sue prove tragiche
viene ad assumere una funzione assolutamente decisiva per i successi-
vi sviluppi della poesia scenica cinquecentesca in generale e della
scrittura coturnata in particolare: si pensi, da un lato, all’Aminta del
Tasso e al Pastor fido di Guarini; dall’altro, non solo al Torrismondo,
ma alle prove tragiche di Pomponio Torelli che sono, per più rispetti,
290 Venezia in coturno

debitrici, e in misura forse non sempre pienamente rilevata, nei con-


fronti del lavoro del letterato veneziano.1
Fin dalla Hecuba, ma ancor più nelle successive tragedie qui prese
in considerazione, la dictio del Dolce va nella direzione (già indicata
da Speroni nella Canace) dell’aggiornamento melico del codice tragi-
co rinascimentale, secondo strategie contaminatorie e combinatorie
assai significative: la cosa prelude evidentemente all’infrazione, carat-
teristica propria della Stimmung tardo-cinquecentesca e secentesca, dei
rigidi perimetri di appartenenza dei testi ai generi e anticipa lo svilup-
po delle forme sceniche più tipiche della cultura barocca (in primo
luogo, il melodramma).
Inoltre, autenticamente manieristico sembra il rapporto che Dolce
intrattiene con i testi classici di volta in volta adibiti a modelli, passati
sempre, secondo una scala che va dalla traduzione alla riscrittura alla
reinvenzione, attraverso il crivello di una grammatica tragica moderna
e di un lessico classico-volgare di legalità complessivamente bembia-
na (pur con notevoli aperture in direzione di Dante e dell’amico Areti-
no).
Invero degno di nota pare poi il fatto che la scrittura del Dolce sia
caratterizzata da un uso estremamente cospicuo (e direi ancora manie-
ristico) del prelievo intertestuale, che imprime una dilatazione centri-
fuga alla vicenda sceneggiata, aprendola a ventaglio nella direzione
dei testi e degli autori dai quali il recupero, variamente declinato, è
compiuto. Alla luce di ciò, possiamo ben dire che la sua sperimenta-
zione coturnata, nella cosciente riproposizione di forme e formule,
moduli e strutture, sia testimonianza esemplare di una fase in cui la
lingua tragica narcisisticamente si guarda allo specchio e cerca negli
iperletterari verba della tradizione, liquidati inesorabilmente i referenti
di realtà, il proprio ubi consistam: manieristicamente (ma forse già se-
condo un gusto barocco) la parola non viene più impiegata in quanto
vettore semantico, duplicato linguistico delle res, bensì in quanto voce
dotata di consistenza e spessore letterari o come puro corpo sonoro. E
la scelta di Seneca, così coerente e sicura per molti rispetti, come mo-

1
Sul ruolo del Dolce come mediatore forte del codice tragico antico per Battista Guarini
insiste assai persuasivamente E. SELMI, ‘Classici e Moderni’ nell’officina del Pastor Fido, A-
lessandria, Edizioni dell’Orso, 2001.
Conclusione 291

dello tragico privilegiato (al di là e oltre la meramente quantitativa


predilezione per fabulae di ascendenza euripidea), sbilancia ulterior-
mente lo sviluppo drammatico dal piano dell’actio a quello della dic-
tio.
Lodovico Dolce fu non tanto, dunque, un «operaio della letteratu-
ra»,2 almeno per quel che concerne le sue scritture sceniche, quanto
piuttosto un abilissimo artigiano e uno scrupoloso professionista, ca-
pace di confezionare tragedie di sicuro valore (Didone, Giocasta e so-
prattutto Ifigenia non hanno nulla da invidiare alle più blasonate prove
giraldiane e paiono funzionare anche sul pianto squisitamente teatra-
le), convinto, in un orizzonte tipografico in cui il pubblico aveva ac-
quisito rinnovate funzioni, della edonistica necessità che, anche in
ambito tragico,

coloro i quali, da folle licenzia mossi, hanno ardimento di mandare agli in-
chiostri le cogitazioni loro, senza saperle né disporre, né ornare, né con qual-
che piacevolezza dilettare l’animo di chi legge, sono sempre stati e debbono
meritamente esser ripresi.3

Ciò basta a farci riguardare il suo corpus come una sorta di chiave
di volta del codice tragico del nostro Cinquecento, capace di incidere
significativamente e in profondità tanto sullo sviluppo delle successive
forme sceniche italiane, quanto su quello di altre, più nobili, tradizioni
tragiche europee (Inghilterra, Spagna, Francia, Germania).

2
Cfr. C. DIONISOTTI, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1963, p.
213.
3
Cfr. L. DOLCE, Tieste, Lettera al Magnifico Giacomo Barbo, a c. di S. GIAZZON, Torino,
RES, 2010, p. 87.
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