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Stefano Giazzon
Venenzia in coturno
Lodovico Dolce tragediografo
Copyright © MCMXCVII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
info@aracneeditrice.it
ISBN 978–88–548–xxxx–x
p. 3 Capitolo I
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico
p. 35 Capitolo II
Le tragedie di Lodovico Dolce o della riscrittura
manieristica dell’antico
p. 289 Conclusione
Elisabetta Selmi
Capitolo I
1. La vita e le opere
1
Per il quadro biografico cfr. E. A. CICOGNA, Memoria intorno la vita e gli scritti di Mes-
ser Lodovico Dolce, letterato veneziano del secolo XVI, in ‘Memorie dell’Istituto Veneto di
Scienze, Lettere e Arti’, vol. 11, 1862, pp. 93-200; C. DIONISOTTI, Dolce, Lodovico, voce in
‘Enciclopedia dantesca’, Roma, Istituto dell’Enciclopedia, 1970, pp. 534-35; G. ROMEI, Dol-
ce, Lodovico, voce in ‘Dizionario Biografico degli Italiani’, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, 1991, pp. 399-405; R. H. TERPENING, Lodovico Dolce. Renaissance Man of Letters,
Toronto, University of Toronto Press, 1997, pp. 3-24; A. NEUSCHÄFER, Lodovico Dolce als
dramatischer Autor im Venedig des 16. Jahrhunderts, Frankfurt am Main, Vittorio Kloster-
mann, 2004, pp. 1-96.
2
Fantino Dolce era stato anche gastaldo delle Procuratie, appartenendo quindi pienamente
ai quadri dell’oligarchia amministrativo-burocratica della Serenissima.
3
Il piccolo Lodovico fu affidato al Doge Leonardo Loredan (1438-1521), buon amico di
famiglia.
4
De’ Vitali, Bindoni e Pasini, lo Zoppino, Nicolini da Sabio, Navò, Marcolini, Manuzio, i
Sessa, Farri, Varisco, per citare i più notevoli; del tutto eccezionale fu il rapporto di collabo-
razione con Gabriele Giolito de’ Ferrari.
4 Venezia in coturno
5
Della colossale attività del Dolce ricordiamo, a mero titolo esemplificativo, fra i trattati
il Dialogo di M. Lodovico Dolce della institution delle donne (Giolito, 1545), il Dialogo della
Pittura di M. Lodovico Dolce, intitolato l‟Aretino (Giolito, 1557), le Osservationi nella volgar
lingua (Giolito, 1550), il Dialogo nel quale si ragiona delle qualità, diversità, e proprietà de
i colori (F. lli Sessa, 1565); per quanto riguarda l’ambito drammatico, ricordiamo le cinque
commedie (tutte edite a Venezia): Il ragazzo (Navò, 1541), Il capitano e Il marito (entrambe
da Giolito, 1545), Fabritia (Manuzio, 1549), Il roffiano (Giolito, 1551) e i diciotto testi tragici
di cui avremo modo di parlare nel prosieguo; nel campo della poesia narrativa si segnalano il
Sacripante (Bindoni e Pasini, 1536), le Trasformationi da Ovidio (Giolito, 1553), il Palmeri-
no e il Primaleone, figliuolo di Palmerino (F.lli Sessa, rispettivamente nel 1561 e nel 1562),
L‟Enea, tratto da l‟Eneide di Vergilio (Giovanni Varisco, 1568), L‟Achille e l‟Enea (Giolito,
1570), Le prime imprese del conte Orlando (Giolito, 1572), L‟Ulisse (Giolito, 1573). Per la
vita in tipografia cfr. A. QUONDAM, «Mercanzia d‟onore» «Mercanzia d‟utile». Produzione
libraria e lavoro intellettuale a Venezia nel Cinquecento, in Libri, editori e pubblico
nell‟Europa moderna. Guida storica e critica, a c. di A. PETRUCCI, Roma-Bari, Laterza, 1977,
pp. 51-104 e ID., La letteratura in tipografia, in ‘Letteratura Italiana, vol. 2: Produzione e
consumo, direzione di A. ASOR ROSA, Torino, Einaudi, 1983, pp. 555-686; C. DI FILIPPO BA-
REGGI, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinque-
cento, Roma, Bulzoni, 1988 (che fornisce dati impressionanti sulla produzione dolciana: sa-
rebbero 358 le edizioni, comprese le ristampe, curate dal poligrafo veneziano dal 1532 al
1568); P. TROVATO, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi
letterari italiani (1470-1570), Bologna, Il Mulino, 1991. Infine per un quadro generale cfr. E.
L. EISENSTEIN, Le rivoluzioni del libro. L‟invenzione della stampa e la nascita dell‟età mo-
derna, Bologna, Il Mulino, 1995. Quali che siano i dati quantitativi sul lavoro del Dolce, ri-
sulta facilmente giustificabile la non sempre alta qualità dei prodotti allestiti: cfr. S. BONGI,
Annali di Gabriel Giolito de‟ Ferrari da Trino di Monferrato, stampatore in Venezia, descritti
ed illustrati, 2 voll., Roma, Presso i principali Librai, 1890-1895.
6
L. DOLCE, Il Sogno di Parnaso con alcune altre rime d‟amore, Venezia, Bernardino de’
Vitali, 1532.
7
Cfr. C. CAIRNS, The dream of Parnassus, Aretino‟s heritage and the „poligrafi‟, in ID.,
Pietro Aretino and the Republic of Venice. Researches on Aretino and his circle in Venice
(1527-1556), Firenze, Olschki, 1985, pp. 231-49.
8
Qualcosa di simile Dolce compirà ne Lo epithalamio di Catullo nelle nozze di Peleo et di
Theti (Venezia, Navò, 1538), dove l’autore fornirà non già una filologica traduzione del cele-
berrimo epillio catulliano, bensì una descrizione del dipinto intitolato Bacco e Arianna realiz-
zato dall’amico Tiziano nei primi anni Venti del secolo. Su quest’opera cfr. P. TROVATO, Il
primo Cinquecento, in Storia della lingua italiana, a c. di F. BRUNI, Bologna, Il Mulino,
1994, pp. 352-57.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 5
9
Su Aretino e altri poligrafi cfr. G. AQUILECCHIA, Pietro Aretino e altri poligrafi a Vene-
zia, in ‘Storia della Cultura Veneta’, 3/II: Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, a c.
di M. PASTORE STOCCHI e G. ARNALDI, Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 61-98; R. BRAGANTI-
NI, «Poligrafi» e umanisti volgari in ‘Storia della letteratura italiana’, vol. 4, parte II: Verso il
Manierismo, direzione di E. MALATO, Roma, Salerno Editrice, 1997, pp. 681-754 e P. LARI-
VAILLE, Pietro Aretino, in ‘Storia della letteratura italiana’, vol. 4, parte II: Verso il Manieri-
smo, direzione di E. MALATO, Roma, Salerno Editrice, 1997, pp. 755-85. Sul circolo aretinia-
no e sul ruolo del Dolce cfr. soprattutto C. CAIRNS, Pietro Aretino and the Republic of Venice.
Researches on Aretino and his circle in Venice (1527-1556), Firenze, Olschki, 1985. Un rap-
porto di sincera amicizia legò Dolce allo scrittore toscano, infaticabile promotore di sé stesso
e campione del poligrafismo medio cinquecentesco. Altri amici del nostro furono senza dub-
bio Tiziano e Francesco Sansovino.
10
La prima nacque nel 1540 a Fratta Polesine e annoverò fra i suoi membri Lodovico
Domenichi, Gerolamo Parabosco, Gerolamo Ruscelli, Orazio Toscanella; la seconda nacque
nel 1550 con un ambizioso programma di diffusione della letteratura volgare, ebbe come se-
gretario ed editore di riferimento niente meno che Francesco Marcolini e contò fra i suoi
membri Anton Francesco Doni, Ercole Bentivoglio, Francesco Sansovino, Gerolamo Parabo-
sco e, più avanti, anche Giason De Nores. Nata nel 1540, l’Accademia degl’Infiammati ebbe
in Sperone Speroni l’intellettuale di punta: vi fecero parte negli anni Ruzante, Alessandro Pic-
colomini, Carlo Sigonio, Benedetto Varchi, Giuseppe Betussi e Francesco Sansovino.
11
Per le dispute, provocate spesso da banali conflitti editoriali e indizio sicuro
dell’aggressività che animava il mondo tipografico del tempo, rinviamo soprattutto a C. DI
FILIPPO BAREGGI, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel
6 Venezia in coturno
Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988. L’epistolario dolciano è una preziosa fonte per capire o-
rigini e termini delle polemiche. La diatriba con Ruscelli fu scatenata dalla quasi contempora-
nea pubblicazione (aprile-maggio 1552) presso due editori veneziani rivali (Giolito e Valgrisi)
del Decameron e dalle conseguenti polemiche sulla qualità dei rispettivi lavori. Apice dello
scontro fu la stampa dei Tre discorsi di Gerolamo Ruscelli a M. Lodovico Dolce (Venezia,
Plinio Pietrasanta, 1553), in cui il Dolce veniva duramente attaccato dal competitore su varie
questioni linguistiche, filologiche, stilistiche. Le relazioni tornarono normali di lì a qualche
anno, evidentemente svanite le ragioni che ne avevano provocato la corrosione.
12
Cfr. R. H. TERPENING, Lodovico Dolce. Renaissance Man of Letters, Toronto, Univer-
sity of Toronto Press, 1997, pp. 15-16: «From Dolce’s own letters and poems one gains a
general idea of the variety of his contacts and his many friends. These range form writers such
as Annibale Caro, Benedetto Varchi, Pietro Bembo, Lodovico Domenichi, Francesco Maria
Molza, Anton Francesco Doni, Luigi Groto, […], Alessandro Piccolomini, Bernardo and Tor-
quato Tasso, Sebastiano Erizzo, Trifon Gabriele, and Pietro Aretino to women poets such as
Veronica Gambara, Vittoria Colonna, Laura Terracina, and Chiara Matraini; from political fi-
gures such as the deges Andrea Gritti and Pietro Gradenigo, the Procuratore di San Marco
[…] Alessandro Contarini, the patricians Girolamo Loredan, Federico Badoer, and Domenico
Venier, […] Guidobaldo II della Rovere (the Duke of Urbino), Gian Giacomo Leonardi (the
Count of Montelabbate and the Duke of Urbino’s ambassador to the Signoria of Venice), Gi-
rolamo Faleti (ambassador of Alfonso d’Este, Duke of Ferrara), and churchmen such as the
cardinals Gasparo Contarini and Marc’Antonio da Mula to men of culture such as Battista Pit-
toni, Virginio Ariosto (son of Lodovico), and Francesco Sansovino; from printers such as
Paolo Manuzio […] and Francesco Marcolini to makers of type such as Francesco Alunno (a
calligrapher from Ferrara), and painters such as Titian».
13
Curando il secondo libro delle lettere dell’amico Aretino e delle Epistole di G. Plinio,
di M. Francesco Petrarca, del s. Pico della Mirandola et d‟altri eccellentissimi huomini, Gio-
lito de’ Ferrari, 1548.
14
Cfr. L. DOLCE, Il Petrarca, corretto […], et alla sua integrità ridotto, Venezia, Giolito,
1547. L’opera ebbe un grande successo e molte ristampe (1548, 1550, 1551, 1554).
15
Cfr. L. DOLCE, La divina commedia di Dante, di nuovo alla sua vera lezione ridotta con
lo aiuto di molti antichissimi esemplari. Con argomenti, et allegorie per ciascun canto, et a-
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 7
postille nel margine. Et indice copiosissimo di tutti i vocaboli più importanti usati dal poeta,
con la sposition loro, Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1555.
16
Con l’aggiunta di una Apologia contra i detrattori de l‟Autore. L’edizione avrà enorme
fortuna tanto che se ne contano 62 solo a Venezia nel corso del secolo. Nel 1542 Dolce prepa-
rò una nuova giolitina del poema ariostesco dotata di sussidi di lettura: cfr. L. DOLCE, Orlan-
do furioso di M. Lodovico Ariosto, novissimamente alla sua integrità ridotto et ornato di va-
rie figure; con alcune stanze del S. Luigi Gonzaga in lode del medesimo. Aggiuntovi per cia-
scun canto alcune allegorie et nel fine una brieve espositione et tavola di tutto quello, che
nell‟opera si contiene. Fra il 1542 e il 1560, Giolito pubblicò trenta volte l’Orlando furioso,
sintomo di un successo irresistibile dello stesso in area veneta: sulla questione cfr. G. AUZZAS,
La narrativa veneta nella prima metà del Cinquecento, in ‘Storia della Cultura Veneta’, 3/II:
Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, a c. di M. PASTORE STOCCHI e G. ARNALDI,
Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 99-138
17
Sulla questione generale, invero delicata, cfr. B. GUTHMÜLLER, Letteratura nazionale e
traduzione dei classici nel Cinquecento, in «Lettere Italiane», XLV, n. 4, 1993, pp. 501-18.
8 Venezia in coturno
18
Dolce passò qualche giorno in carcere, a causa di una trasgressione della parte emanata
dal Consiglio dei Dieci in data 22 marzo 1537, che vietava di uscire di notte con le armi: il
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 9
posto dal Sant’Uffizio.19 Specie i due ultimi fatti giudiziari hanno fatto
sì che, negli anni, alcuni interpreti abbiano insistito sul presunto crip-
toevangelismo del Dolce: quantunque in qualche sequenza tragica sia-
no ravvisabili pronunciamenti sospetti ed escludendo una significativa
frequentazione erasmiana,20 l’eterodossia del Dolce continua a sem-
brare più una suggestiva petitio principii che un persuasivo e docu-
mentabile dato.21
nostro, diretto a Padova, fu fermato presso Santa Croce e, trovato in possesso di una spada,
venne arrestato.
19
Nel primo caso, Dolce fu coinvolto solo parzialmente per aver curato la pubblicazione
giolitina dei Dialogi di Secreti della Natura di Pompeo Dalla Barba. Nel secondo, fu del tutto
casualmente chiamato in causa dal Giolito in persona per aver usato in una sua opera storio-
grafica di prossima pubblicazione (la Vita di Ferdinando, primo imperadore di questo nome,
discritta da M. Lodovico Dolce, nella quale sotto brevità sono comprese l‟historie dall‟anno
MDIII al MDLXIIII, Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1566) un testo messo all’Indice: il De statu
religionis et reipublicae Carolo V Caesare commentariorum libri XXVI dello storico e umani-
sta erasmiano tedesco Johannes Sleidanus (ca 1506-1556). Dolce uscì da entrambi i processi
senza nessun capo d’imputazione a carico.
20
Molto sottolineata in C. CAIRNS, Pietro Aretino and the Republic of Venice. Researches
on Aretino and his circle in Venice (1527-1556), Firenze, Olschki, 1985. Per la ricezione ita-
liana della personalità di Erasmo da Rotterdam si rinvia al classico S. SEIDEL MENCHI, Era-
smo in Italia (1520-1580), Torino, Bollati Boringhieri, 1987.
21
Per un quadro complessivo cfr. C. DI FILIPPO BAREGGI, Stampa e suggestioni religiose,
in EAD., Il mestiere di scrivere, cit., pp. 194-241 e M. FIRPO, Artisti, gioiellieri, eretici. Il
mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma, Roma-Bari, Laterza, 2001. Si veda an-
che ciò che dice R. H. TERPENING, Lodovico Dolce. Renaissance Man of Letters, cit., p. 20:
«Given the world in which he worked, that of Venetian presses, Dolce, like other intellects of
the time, apparently came into contact with heterodox or heretical ideas, particularly around
1545 […]. His contacts with reformational ideas and evangelical thought came in part through
Andrea Arrivabene, a printer originally from Mantua, whose bookstore and press could be
found ‘Al segno del Pozzo’». Terpening prosegue menzionando altri intellettuali in odore di
eresia luterana, come Orazio Brunetto (del quale Dolce curò la pubblicazione dell’epistolario)
e Paolo Crivelli, stretto collaboratore e uomo di fiducia di Giolito. Lo stesso Terpening, peral-
tro, giunge a questa equilibrata e condivisibile conclusione (p. 21): «Perhaps the conclusion
that one should draw from these sources, despite the fact thet they demonstrate an acquaint-
ance with individuals and ideas that were of suspect orthodoxy, is not that Dolce was part of
an evangelical group in Venice, but rather […] that reformation ideas circulated widely
among those in the city’s editorial circles». Non si deve certo attibuire troppa importanza alle
relazioni con uomini in odore di eresia quali Orazio Brunetto, Paolo Crivelli, Andrea Arriva-
bene: di sicuro, lo ripeteremmo ad nauseam, la Venezia del medio Cinquecento contemplava
(anche per precise ragioni strategiche: politiche economiche militari) una vasta area di inde-
terminatezza religiosa. Bisogna peraltro anche subito aggiungere che, per più rispetti, sembra
rilevante il rapporto fra eterodossia filo-riformata ed entusiastica adesione alle ragioni del
volgare (di cui zelatore fra i più scrupolosi fu, è cosa nota, Martin Lutero): ci fu, in altre paro-
le, una fase della storia del secolo XVI in cui opporre il volgare al greco e al latino degli uma-
10 Venezia in coturno
Dopo una acuta malattia che lo tormentò per qualche tempo, il po-
ligrafo veneziano morì nel 1568 e fu sepolto nella chiesa di San Luca
Evangelista, forse assieme a quel Pietro Aretino con cui aveva condi-
viso tanta parte della sua vita.
nisti poteva anche dare adito a interpretazioni tendenziose sulle proprie simpatie confessiona-
li. Ma davvero questa questione ci porterebbe troppo lontano.
22
Si leggono tutte in Teatro del Cinquecento. La Tragedia, de ‘La Letteratura Italiana.
Storia e testi’, vol. 28, tomo I, a c. di R. CREMANTE, Milano-Napoli, Ricciardi, 1997, ma si
leggevano già ne La tragedia del Cinquecento, tomo I, a c. e con introduzione di M. ARIANI,
Torino, Einaudi, 1977, vero e proprio evento di riscoperta critica della tragedia cinquecente-
sca. Diamo qui di seguito le coordinate bibliografiche essenziali per orientarsi nella fluviale
produzione critica sulla tragedia cinquecentesca. Per un quadro generale cfr. i classici F. NERI,
La tragedia italiana del Cinquecento, Firenze, Galletti-Cocci, 1904; E. LIGUORI, La tragedia
italiana da i primi tentativi a l‟Orazia dell‟Aretino, Bologna, Zanichelli, 1905; E. BERTANA,
La tragedia, in ‘Storia dei Generi Letterari’, Milano, Vallardi, 1906 e, più recentemente, F.
DOGLIO, Il teatro tragico italiano, Parma, Guanda, 1960; M. T. HERRICK, Italian Tragedy in
the Renaissance, Urbana, University of Illinois Press, 1965; C. MUSUMARRA, La poesia tragi-
ca italiana nel Rinascimento, Firenze, Leo Olschki, 1972; N. BORSELLINO, R. MERCURI, Il te-
atro del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1973; M. ARIANI, Tra Classicismo e Manierismo.
Il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974; F. VAZZOLER, Approssimazioni cri-
tiche per la tragedia italiana del Cinquecento, in «L’Immagine riflessa», II, 1, gennaio-aprile
1978, pp. 84-94; M. PIERI, La nascita del teatro moderno in Italia tra XV e XVI secolo, Tori-
no, Bollati Boringhieri, 1989; S. FERRONE, Il teatro, in ‘Storia della letteratura italiana’, vol.
4, parte II: Verso il Manierismo, direzione di E. MALATO, Roma, Salerno Editrice, 1997, pp.
909-1009; I. RAYEVSKY, La tragedia nel Tardo Rinascimento, Palermo, Herbita Editrice,
1998; M. CANOVA, Le lacrime di Minerva. Lungo i sentieri della commedia e della tragedia a
Padova, Venezia e Ferrara tra il 1540 e il 1550, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2002; P.
COSENTINO, Cercando Melpomene. Esperimenti tragici nella Firenze del primo Cinquecento,
Manziana, Vecchiarelli, 2003; M. APOLLONIO, Storia del teatro italiano, Milano, Rizzoli,
2003, pp. 477-525; V. GALLO, Da Trissino a Giraldi. Miti e topica tragica, Manziana, Vec-
chiarelli, 2005; M. PIERI, La tragedia in Italia, in Le rinascite della tragedia. Origini classi-
che e tradizioni europee, a c. di G. GUASTELLA, Roma, Carocci, 2006, pp. 167-206. Per varie
questioni inerenti alla scena tragica cinquecentesca si è poi tenuto conto di F. MAROTTI, Lo
spettacolo dall‟Umanesimo al Manierismo. Teoria e tecnica, Milano, Feltrinelli, 1974; M. L.
ALTIERI BIAGI, La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980; G. ATTOLINI, Teatro e spetta-
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 11
te, e quali che siano destinazione d’uso e orizzonte ideologico dei suoi
autori, come recupero di istanze e di moduli derivati dalla tragedia an-
tica, recentemente rilanciata anche nella sua versione greca dall’edi-
toria veneziana (Seneca tragico essendo da tempo piuttosto ben cono-
sciuto).23
Senza nessuna pretesa, indichiamo le seguenti coordinate come
tratti pertinenti della poesia tragica rinascimentale: 1) le fabulae,
quantunque sceneggino vicende del mito, hanno un rapporto con la re-
colo nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1988; B. CROCE, La «tragedia», in ID., Poesia
popolare e poesia d‟arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Napoli, Biblio-
polis, 1991 (ma già 1946), pp. 269-99; E. BALMAS, Della nascita di un tragico moderno, in
Dalla tragedia rinascimentale alla tragicommedia barocca. Esperienze teatrali a confronto in
Italia e in Francia, a c. di E. MOSELE, Fasano, Schena Editore, 1993, pp. 13-21; R. GORRIS,
La tragedia della crudeltà, in Dalla tragedia rinascimentale alla tragicommedia barocca.
Esperienze teatrali a confronto in Italia e in Francia, cit., pp. 295-309; A. SORELLA, La tra-
gedia, in ‘Storia della lingua italiana’, I. I luoghi della codificazione, a c. di L. SERIANNI e P.
TRIFONE, direzione di A. ASOR ROSA, Torino, Einaudi, 1993, pp. 751-92; S. DI MARIA, The
Dramatic hic et nunc in the Tragedy of Renaissance Italy, in «Italica», vol. 72, n. 3, 1995, pp.
275-97; S. JOSSA, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinascimentali
(1540-1560), Napoli, Vivarium, 1996; P. MASTROCOLA, „Nimica fortuna‟. Edipo e Antigone
nella tragedia italiana del Cinquecento, Torino, Tirrenia Stampatori, 1996 e EAD., L‟idea del
tragico. Teorie della tragedia nel Cinquecento, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Editore,
1998; P. COSENTINO, Fra verso sciolto e sperimentalismo volgare: la rinascita tragica fioren-
tina, in ‘Il verso tragico dal Cinquecento al Settecento’, a c. di G. LONARDI e S. VERDINO, Pa-
dova, Esedra, 2005, pp. 39-62; E. SELMI, Il dibattito retorico sul verso tragico nel Cinquecen-
to, in ‘Il verso tragico dal Cinquecento al Settecento’, cit., pp. 63-104; D. CHIODO-A. DONNI-
NI, Sul teatro del Cinquecento. Tre discorsi e un catalogo, Manziana, Vecchiarelli, 2007.
23
Aldo Manuzio aveva pubblicato il corpus integrale di Sofocle nel 1502 e quello di Eu-
ripide, tranne Elektra, nel 1503. Qualche anno dopo (1518) fu la volta di Eschilo. La princeps
delle Senecae Tragoediae era stata pubblicata a Ferrara fra il 1474 e il 1478, per le cure di
André Belfort. Si ricordano inoltre le tre importanti edizioni veneziane del tardo Quattrocento:
Tragedie cum commento di Gellio Bernardino Marmitta (Lazzaro Suardi, 1492); Tragediae
cum duobus comentis, a c. di Gellio Bernardino Marmitta e Daniele Gaetani (Matteo Capcasa,
1493); Tragoediae cum duobus commentariis, naturalmente ancora di Marmitta e Gaetani
(Giovanni Tacuino, 1498). Molte le edizioni nel Cinquecento. Sulla fortuna euripidea cfr. A.
PERTUSI, La scoperta di Euripide nel primo Umanesimo, in «Italia Medioevale e Umanistica»,
III, 1960, pp. 101-152 e Il ritorno alle fonti del teatro greco classico: Euripide
nell‟Umanesimo e nel Rinascimento, in ID., Venezia e l‟Oriente tra tardo Medioevo e Rina-
scimento, Firenze, Sansoni, 1966, pp. 205-224. Per varie questioni inerenti alla tradizione se-
necana cfr. G. BRUGNOLI, La tradizione manoscritta di Seneca tragico alla luce delle testimo-
nianze medievali, in ‘Memorie dell’Accademia Nazionale dei Lincei’, VIII, 1959, pp. 201-
287; G. BILLANOVICH, Appunti per la diffusione di Seneca tragico e di Catullo, in «Medioevo
e Umanesimo», XVII, 1964, pp. 147-166; G. GIARDINA, La tradizione manoscritta di Seneca
tragico, in «Vichiana», II, 1965, pp. 31-74.
12 Venezia in coturno
24
Cfr. M. C. NUSSBAUM, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella fi-
losofia greca, Bologna, Il Mulino, 1996.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 13
25
Per tutta la questione cfr. M. ARIANI, Introduzione, in La tragedia del Cinquecento, cit.,
pp. VII-LXXX. Senza pretese eccessive, forniamo qui una minima bibliografia sulle questioni
teoriche prese in considerazione. In molti di questi testi ci si occupa non tanto di teoria del te-
atro tragico rinascimentale, quanto di teoria del tragico tout court: tuttavia non si può prescin-
dervi. Cfr. P. SZONDI, Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi, 1962; G. STEINER, La
morte della tragedia, Milano, Garzanti, 1965; N. FRYE, Anatomia della critica, Torino,
Einaudi, 1969; W. BENJAMIN, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1971; G. LUKACS,
Il dramma moderno, Milano, Sugar Co Edizioni, 1976; J.-P. VERNANT, P. VIDAL-NAQUET,
Mito e tragedia nell‟antica Grecia, Torino, Einaudi, 1976; M. UNTERSTEINER, Le origini della
tragedia e del tragico, Milano, Cisalpino, 1984; M. CARLSON, Teorie del teatro. Panorama
storico e critico, Bologna, Il Mulino, 1988; G. STEINER, La morte della tragedia, Milano,
Garzanti, 1992; P. SZONDI, Saggio sul tragico, Torino, Einaudi, 1996; R. BARTHES, Sul teatro,
Roma, Meltemi Editore, 2002; T. EAGLETON, Sweet Violence. The Idea of the Tragic, Man-
chester, Blackwell Publishing, 2003; C. GENTILI, G. GARELLI, Il tragico, Bologna, Il Mulino,
2010.
26
Guardando contemporaneamente alla tradizione romanza e al modello euripideo e sofo-
cleo, Trissino, sono cose note, recupera la fabula dall’Africa petrarchesca (al limite con qual-
che significativo prestito liviano), non attua divisione in atti e scene e scrive cori che riprodu-
cono la struttura triadica del tipico stasimo greco, articolato in strophè, antistrophè, epòdos: in
questa maniera, Trissino scrive la prima tragedia di impianto classicistico della storia moder-
na.
27
Giovan Battista Giraldi Cinzio fa rappresentare nella propria casa alla significativa pre-
senza del duca Ercole II d’Este e della corte la sua cupa tragedia, vero punto d’abbrivo di una
nuova fase di sperimentazione della grammatica tragica del secolo. Come noto, con questa
tragedia, Euripide e Sofocle sono soppiantati da Seneca, almeno nelle intenzioni programma-
tiche, e ciò determina, molto semplificando: 1) l’esibizione spregiudicata di raccapriccianti a-
zioni che producono orrore (più che terrore e pietà) e l’epifania di fantasmi (l’umbra di Selina
nel I atto); 2) la nuova funzione attribuita al prologo separato, per la verità più sul modello te-
renziano che su quello senecano, in cui il poeta si confronta con il pubblico direttamente; 3) il
14 Venezia in coturno
nuovo ruolo assegnato al coro, rifiutata la pàrodos e la sua presenza stabile in scena; 4) la di-
visione in atti e scene, che aumenta il decorum della tragedia e rende la sua struttura molto più
equilibrata e razionale; 5) la marcata accentuazione della dimensione gnomica complessiva,
con una valorizzazione del monologo e del soliloquio e con inevitabile funzione strutturante
assegnata alle sententiae; 6) il largo uso del Nuntius, tratto questo assai tipicamente senecano;
7) l’aumento del numero degli attori contemporaneamente sul palco, nella direzione della va-
rietas e con una attenzione affatto nuova alle esigenze del pubblico che si annoia presto; 8) la
liceità dell’esibizione della morte in scena; 9) il rilievo attribuito a costumi, scene, effetti,
strumenti indispensabili per catturare l’attenzione dello spettatore, secondo logiche che mo-
strano l’evoluzione della dimensione rappresentativa. L’Orbecche verrà edita a stampa a Ve-
nezia da Manuzio nel 1543.
28
Cfr. M. ARIANI, La trasgressione e l‟ordine: l‟«Orbecche» di G. B. Giraldi Cinthio e la
fondazione del linguaggio tragico cinquecentesco, in «Rassegna della Letteratura italiana»,
LXXXIII, 1978, nn. 1-3, pp. 117-80. Per la questione del rapporto fra potere e scena, ma non
solo, cfr. D. LANZA, Il tiranno e il suo pubblico, Torino, Einaudi, 1977.
29
Sull’evoluzione del percorso tragico del Giraldi cfr. C. LUCAS, De l‟horreur au «lieto
fine». Le contrôle du discours tragique dans le théâtre de Giraldi Cinzio, Roma, Bonacci Edi-
tore, 1984.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 15
30
Cfr. L. DOLCE, Thyeste, Tragedia di M. Lodovico Dolce, tratta da Seneca, Venezia,
Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1543. Si veda la mia recente edizione e le varie note a L. DOLCE,
Tieste, a c. di S. GIAZZON, Torino, Edizioni RES, 2010. Mi permetto di rinviare anche a S.
GIAZZON, Il Thyeste (1543) di Lodovico Dolce, in La letteratura italiana a Congresso. Bilan-
ci e prospettive del decennale (1996-2006), a c. di R. CAVALLUZZI, W. DE NUNZIO, G. DISTA-
SO, P. GUARAGNELLA, Lecce, Pensa Multimedia, 2008, tomo II, pp. 325-333. Sul Thyestes se-
necano cfr. almeno P. MANTOVANELLI, La metafora del Tieste. Il nodo sadomasochistico nel-
la tragedia senecana del potere tirannico, Verona, Libreria Universitaria, 1984; G. PICONE,
La fabula e il regno. Studi sul Thyestes di Seneca, Palermo, Palumbo, 1984; E. ROSSI, Una
metafora presa alla lettera: le membra lacerate della famiglia. „Tieste‟ di Seneca e i rifaci-
menti moderni, Pisa, ETS Editrice, 1989; C. MONTELEONE, Il Thyestes di Seneca. Sentieri
ermeneutici, Brindisi, Schena Editore, 1991.
31
Sperone Speroni lesse pubblicamente la Canace presso l’Accademia degli Infiammati,
delle cui discussioni è sicuramente uno dei frutti letterari più rilevanti: l’opera circolò subito
manoscritta e senza di fatto la revisione definitiva dell’autore (per questo le mancano i cori).
La tragedia, che sarebbe stata pubblicata solo nel 1546 a Venezia rispettivamente da Curzio
Trajano Navò, in una versione molto scorretta, e da Vincenzo Valgrisi a cura di Giovan Anto-
nio Claro, avrà altre cinque edizioni cinquecentesche. Sulla tragedia speroniana cfr. M. ARIA-
NI, Il «puro artifitio». Scrittura tragica e dissoluzione melica nella «Canace» di Sperone Spe-
roni, in «Il Contesto», n. 3, 1977, pp. 79-140; C. ROAF, Retorica e poetica nella Canace, in
«Filologia Veneta. Lingua, letteratura, tradizioni», II, 1989, pp. 169-91; M. CANOVA, Padova:
il „tragico umile‟, in ID., Le lacrime di Minerva, cit., pp. 53-98. Riassumiamo brevemente lo
sviluppo della fabula speroniana: il fantasma del figlio non nato dall’incesto di Canace e Ma-
careo, figli gemelli di Eolo e Deiopea, accusa Venere per aver avviato la spirale di libido che
ha colpito la sua famiglia e anticipa integralmente l’intera tragedia. Il prosieguo prevede il
16 Venezia in coturno
parto segreto di Canace; il tentativo (fallito) da parte della Nutrice di nascondere il bimbo ad
Eolo in una cesta di fiori: scopertolo, Eolo lo abbandona crudelmente in un bosco. Infine, è
rappresentato il doppio suicidio della coppia incestuosa (prima Canace e poi Macareo), con
Eolo che – assai poco tragicamente – finisce per pentirsi della sua severità.
32
Si ricordino almeno: la rappresentazione dell’incesto consapevole dei due protagonisti, i
gemelli Canace e Macareo; l’apparizione dello spettro del loro bimbo morto nella prima sce-
na; la giustificazione dei comportamenti scellerati con il ricorso alla vendicatività degli dèi
(Venere vs Eolo), etc..
33
Addirittura 1496 settenari contro 566 endecasillabi, su 2069 versi.
34
Spesseggiano rime, omeoteleuti, allitterazioni, paronomasie, consonanze e assonanze:
siamo di fronte ad una dictio che prelude platealmente allo slittamento del discorso tragico
verso tragicommedia, dramma pastorale, melodramma. A ulteriore dimostrazione di ciò, ba-
sterà osservare l’uso del dispositivo della parola-rima, quasi sempre di legalità petrarchesca:
in generale l’impressione è che la compaginazione dei significanti (spesso accompagnata da
precoci esempi di agudeza) sia precedente e prioritaria, anche sul piano gerarchico, rispetto a
quella dei significati. Per la natura eminentemente manieristica di queste strategie si cfr. M.
ARIANI, Tra Classicismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki,
1974.
35
Il Giuditio verrà pubblicato anonimo a Lucca da Vincenzo Busdrago nel 1550. Cfr. la
moderna edizione G. B. GIRALDI CINZIO, Giuditio sopra la tragedia di Canace e Macareo con
molte utili considerationi circa l‟arte tragica, et di altri poemi, in S. SPERONI, Canace e scritti
in sua difesa: Apologia in difesa della sua tragedia. Lezioni in difesa della Canace. Lezioni
sopra i versi, a c. di C. ROAF, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982, pp. 3-94. Il
Giuditio verrà pubblicato da Vincenzo Busdrago a Lucca nel 1550.
36
Si pensi all’affermazione della teoresi aristotelica, grazie alle varie traduzioni e ai
commenti alla sua Poetica: A. PAZZI DE’ MEDICI, Aristotelis Poetica, per Alexandrum Pac-
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 17
ratura. Alchimia verbale e arte combinatoria esoterica, Milano, Il Saggiatore, 1965; T. KLA-
NICZAY, La crisi del Rinascimento e il Manierismo, Roma, Bulzoni, 1973; Problemi del Ma-
nierismo, a c. di A. QUONDAM, Napoli, Guida, 1975.
40
Cfr. M. FOUCAULT, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1967. Ma si veda anche, per la
descrizione delle rilevanti implicazioni epistemologiche e antropologiche delle ricerche cos-
mologiche copernicane e post-copernicane, P. ROSSI, La rivoluzione astronomica, in Storia
della scienza, vol. I, Novara, De Agostini, 2006, pp. 163-92.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 19
41
Cfr. L. DOLCE, La Hecuba. Tragedia tratta da Euripide, Venezia, Gabriele Giolito de’
Ferrari, 1543. Cfr. inoltre L. DOLCE, Le Tragedie di M. Lodovico Dolce, cioè Giocasta, Dido-
ne, Thieste, Medea, Ifigenia, Hecuba, di nuovo ricorrette e ristampate, Venezia, Gabriele
Giolito de’ Ferrari, 1560. Per il Thyeste ci permettiamo di rinviare ancora a L. DOLCE, Tieste,
a c. di S. GIAZZON, Torino, Edizioni RES, 2010.
42
L. DOLCE, Didone, tragedia di M. Lodovico Dolce, con privilegio, Venezia, Manuzio,
1547. Ma cfr. L. DOLCE, Didone, a c. di S. TOMASSINI, Parma, Archivio Barocco, Edizioni
Zara, 1996.
43
Rispettivamente con la Dido in Carthagine (1525 ca) e con la Didone (1541). Sulle tre
versioni cfr. C. LUCAS, „Didon‟. Trois réécritures tragique du livre IV de l‟Eneide dans le
théâtre italien du XVIe siècle, in Scritture di scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento,
cit., pp. 557-604.
44
Cfr. P. ARETINO, Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa le poltronerie degli
uomini inverso le donne. Seconda giornata (Venezia, Marcolini, 1536).
45
Cfr. L. BORSETTO, L‟«Eneida» tradotta. Riscritture poetiche del testo di Virgilio nel
XVI secolo, Milano, Unicopli, 1989.
20 Venezia in coturno
46
Cui anche Dolce aveva fornito il suo personale contributo, specialmente con il Dialogo
della institution delle donne (Giolito, 1545).
47
L. DOLCE, La Giocasta di M. Lodovico Dolce, Venezia, Manuzio, 1549.
48
Non mi pare sia stata ancora sufficientemente studiata la relazione di dipendenza dei
poligrafi italiani del Medio Cinquecento (Pietro Aretino, Giovan Battista Gelli, Lodovico
Domenichi, Anton Francesco Doni, Orazio Toscanella, Girolamo Ruscelli, Antonio Brucioli,
Tommaso Porcacchi, Lodovico Dolce…) dalla personalità e dall’opera di Erasmo da Rotter-
dam. Non va dimenticato che proprio un’opera erasmiana diffuse (pur in contesto fortemente
ironico e derisorio) il termine di poligrafo: cfr. ERASMO DA ROTTERDAM, Il Ciceroniano o del-
lo stile migliore, a c. di A. GAMBARO, Brescia, La Scuola Editrice, 1965, p. 242: «Bulephorus:
Hinc tibi proferam Erasmum Roterodamum, si pateris. Nosoponus: Professus es te de scripto-
ribus dicturum. Istum uero ne inter scriptores quidam pono, tantum abest ut ciceronianis an-
numerem. Bulephorus: Quid ego audio? Atqui uidebatur et inter πολσγράφοσς censeri posse.
Nosoponus: Potest, si πολσγράφος est, qui multum chartarum oblinit atramento. Alia res est
scribere, quode nos agimus, et aliud scriptorum genus». (vd. ERASMO DA ROTTERDAM, Il Ci-
ceroniano o dello stile migliore, a c. di A. GAMBARO, Brescia, La Scuola Editrice, 1965, p.
242). Ha paternità erasmiana il pacifismo molto diffuso nella letteratura veneziana (ma non
solo) del secolo: la Querela Pacis e l’adagio Bellum dulce inexpertis sono opere assai cono-
sciute e apprezzate. Sulla nuova figura intellettuale del poligrafo cfr. ancora C. DI FILIPPO
BAREGGI, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cin-
quecento, Roma, Bulzoni, 1988. Su Erasmo in Italia cfr. ancora S. SEIDEL MENCHI, Erasmo in
Italia (1520-1580), Torino, Bollati Boringhieri, 1987.
49
L. DOLCE, Ifigenia. Tragedia di M. Lodovico Dolce, con privilegio, Venezia, Giolito
de’ Ferrari, 1551.
50
Va subito aggiunto che Torquato Tasso nel suo dialogo Malpiglio secondo ovvero del
fuggir la moltitudine ricorderà esplicitamente l’Ifigenia del Dolce. Leggiamo infatti: «Fore-
stiero: Ma forse più co’ tragici, che con alcun’altro, perché l’ufficio loro è di muover orrore e
compassione. Giovanlorenzo Malpiglio: Con questi piango volentieri l’amore di Masinissa, e
la morte di Sofonisba e quella di Canace e di Macareo; e laudo la pietà d’Ifigenia e la fortezza
di Rosmonda; e abborrisco la crudeltà di Solmone, e m’empie di terrore l’infelicità de la mise-
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 21
rale e antropologico (quanto consapevole non importa) che il tragediografo fa sul presente,
con reale, efficace capacità decostruttiva e con perfetta rappresentazione di varie istanze della
Stimmung manierista che si stava affermando.
55
Cfr. N. MACHIAVELLI, Il Principe, XV e XVIII.
56
Cfr. A. HAUSER, Il Manierismo. La crisi del Rinascimento e l‟origine dell‟arte moder-
na, Torino, Einaudi, 1965.
57
L. DOLCE, La Medea. Tragedia di M. Lodovico Dolce, Venezia, Giolito de’ Ferrari,
1557.
58
L. DOLCE, Le Tragedie di Seneca, tradotte da M. Lodovico Dolce, Venezia, Giovan
Battista e Melchiorre Sessa, 1560.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 23
59
Cfr. L. DOLCE, Le Tragedie di Seneca, tradotte, Venezia, F. lli Sessa, 1560. Sul ruolo e
la funzione del teatro senecano nel Cinquecento europeo, questione su cui torneremo, cfr. Les
tragédies de Sénèque et le théâtre de la Renaissance, a c. di J. JACQUOT, Parigi, Edition du
Centre Nationale de la Recherche Scientifique, 1964; M. PAGNINI, Seneca e il teatro elisabet-
tiano, in «Dioniso. Rivista di studi sul teatro antico», LII, 1981, pp. 391-413; G. BRADEN,
Renaissance Tragedy and the Senecan tradition. Anger‟s Privilege, New Haven-London, Yale
University Press, 1985. Si tenga presente che Seneca tragico è nel primo Cinquecento oggetto
di molte pregevoli edizioni (con commento o senza): cfr. Senecae Tragoediae, a c. di BENE-
DETTO RICCARDINI, Firenze, Filippo Giunta, 1506 e 1513; la capitale edizione erasmiana di
Parigi: L. Annei Senece Tragoediae pristinae integritati restitutae: per exactissimi iudicii vi-
ros post Avantium et Philologum. D. Erasmum Roterodamum, Gerardum Vercellanum, Aegi-
dium Maserium, cum metrorum presertim tragicorum ratione ad calcem operis posita. Expla-
nate diligentissime tribus commentariis. G. Bernardino Marmita Parmensi, Daniele Gaietano
Cremonensi, Iodoco Badio Ascensio, Parigi, Josse Bade Ascensius, 1514; S(c)enecae Tragoe-
diae, a c. di GIROLAMO AVANZI, Venezia, Aldo Manuzio, 1517; L. Annei Senecae Corduben-
sis Tragoediae, Lione, Sebastien Gryphius, 1547.
24 Venezia in coturno
60
L. DOLCE, Marianna, Tragedia di M. Lodovico Dolce, recitata in Vinegia nel Palazzo
dell‟Eccellentiss. S. Duca di Ferrara, con alcune rime e versi del detto, con privilegio, Vene-
zia, Giolito de’ Ferrari, 1565. Ma cfr. soprattutto l’edizione moderna compresa in Teatro del
Cinquecento. La Tragedia, tomo I, a c. di R. CREMANTE, Milano-Napoli, Ricciardi, 1997, pp.
729-877. Cremante è stato tra i pochi studiosi ad accorgersi per tempo se non della genialità,
perlomeno della dignità del Dolce tragico.
61
Che ancora, non va dimenticato, sarà riproposta come nucleo semico e tematico decisi-
vo nell’Othello di Shakespeare.
62
L. DOLCE, Le Troiane, tragedia di M. Lodovico Dolce, recitata in Vinegia l‟anno
MDLXVI, con privilegio, Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1566.
63
Per qualche utile indicazione cfr. G. DAMERINI Il sodalizio artistico di Lodovico Dolce
con Antonio Molino detto il Burchiella per la Marianna e le Troiane, in «Il Dramma», 41, n.
342, marzo 1965, pp. 37-44. Gli intermedii, che erano abitualmente collocati fra un atto e
l’altro delle commedie, furono i più significativi precedenti del melodramma: ruolo archetipi-
co ebbero quelli presentati nel 1589 a Firenze in occasione delle nozze di Ferdinando de’ Me-
dici e Cristina di Lorena e che videro la collaborazione di una équipe composta, fra gli altri,
da Giovanni Bardi, Emilio de’ Cavalieri, Luca Marenzio, Iacopo Peri, Giulio Caccini, Cristo-
fano Malvezzi.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 25
64
Aspetto che sembra piuttosto caratteristicamente manierista.
65
Sul concetto di ipertestualità cfr. G. GENETTE, Palinsesti. La letteratura al secondo
grado, Torino, Einaudi, 1997. Sulla categoria di riscrittura cfr. Scritture di scritture. Testi, ge-
neri, modelli nel Rinascimento, a c. di G. MAZZACURATI e M. PLAISANCE, Roma, Bulzoni,
1987; L. BORSETTO, Il furto di Prometeo. Imitazione, scrittura, riscrittura nel Rinascimento,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1990; A. LEFEVERE, Traduzione e riscrittura, Torino, UTET,
1998.
66
Specialmente sorprendente in alcuni passi di Didone, Giocasta, Ifigenia, Medea.
67
Per la categoria retorica di perspicuitas cfr. i classici H. LAUSBERG, Elementi di retori-
ca, Bologna, Il Mulino, 1969 e B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, Milano, Bom-
piani, 1988, pp. 135-39. Sulla retorica e sulle sue funzioni cfr. R. BARTHES, La retorica anti-
ca, Milano, Bompiani, 1972 e A. BATTISTINI, E. RAIMONDI, Le figure della retorica, Torino,
Einaudi, 1990.
26 Venezia in coturno
68
Per analogo funzionamento della fonicità in ambito comico cfr. M. L. ALTIERI BIAGI,
La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 27
69
Le stesse contraddizioni inscritte nei percorsi di tutti i tragediografi del tempo e nelle
loro opere vanno spiegate come segni di debolezza di un codice che non possiede testi vera-
mente forti e di una pluralità di pratiche che non riesce a costituirsi come grammatica. Per la
questione cfr D. JAVITCH, La nascita della teoria dei generi poetici nel Cinquecento, in «Ita-
lianistica», XXVII, maggio-agosto 1998, pp. 177-97.
70
Sulla dialettica gravitas-suavitas cfr. A. AFRIBO, Teoria e prassi della gravitas nel Cin-
quecento, Firenze, Franco Cesati Editore, 2001.
71
Cfr. R. GUARINO, Teatro e mutamenti. Rinascimento e spettacolo a Venezia, Bologna, Il
Mulino, 1995. Sul versante comico della teatralità veneziana cfr. il fondamentale G. PADOAN,
La commedia rinascimentale a Venezia: dalla sperimentazione umanistica alla commedia
«regolare», in ‘Storia della Cultura Veneta’, 3/III: Dal primo Quattrocento al Concilio di
Trento, a c. di M. PASTORE STOCCHI e G. ARNALDI, Vicenza, Neri Pozza, 1981, pp. 377-465.
72
Alla collaborazione fra Dolce e Giolito si deve la diffusione del cinquecentesco libro de
theatro.
28 Venezia in coturno
73
Per tutti questi dati cfr. S. BONGI, Annali di Gabriel Giolito de‟ Ferrari da Trino di
Monferrato, stampatore in Venezia, descritti ed illustrati, 2 voll., Roma, Presso i principali
Librai, 1890-1895 e gli aggiornamenti di P. CAMERINI, Notizia sugli Annali Giolitini di Salva-
tore Bongi, in ‘Atti e Memorie della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova’,
vol. 51, 1934-1935, pp. 103-238 e ID., Aggiunta alla “Notizia” sugli Annali Giolitini di Sal-
vatore Bongi, in ‘Atti e Memorie della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Pado-
va’, vol. 53, 1936-1937, pp. 91-111.
74
Cfr. M. T. MURARO, La festa a Venezia e le sue manifestazioni rappresentative: le
Compagnie della Calza e le momarie, in ‘Storia della Cultura Veneta’, 3/III: Dal primo Quat-
trocento al Concilio di Trento, a c. di M. PASTORE STOCCHI e G. ARNALDI, Vicenza, Neri
Pozza, 1981, pp. 315-41.
75
Sulle istituzioni veneziane e sul patriziato cittadino cfr. D. E. QUELLER, Il patriziato ve-
neziano. La realtà contro il mito, Roma, Il Veltro, 1987. Per una ricostruzione della storia del-
la Serenissima ho tenuto conto soprattutto di W. H. MCNEILL, Venezia: il cardine d‟Europa
(1081-1797), Roma, Il Veltro, 1979; O. LOGAN, Venezia. Cultura e società (1470-1790), Ro-
ma, Il Veltro, 1980 e E. CROUZET-PAVAN, Venice Triumphant. The Horizons of a Myth, Bal-
timora, The Johns Hopkins University Press, 2002.
76
Sul mito di Venezia cfr. F. GAETA, L‟idea di Venezia, in ‘Storia della Cultura Veneta’,
3/III: Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, a c. di M. PASTORE STOCCHI e G. AR-
NALDI, Vicenza, Neri Pozza, 1981, pp. 565-641. Su un piano più storico cfr. G. BENZONI, Un
ancoraggio contro la crisi: Venezia, in ID., Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere
nell‟Italia della Controriforma e barocca, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 7-77. Il libro di Ben-
zoni è da tenere presente integralmente per la ricostruzione molto suggestiva della situazione
dell’intellettualità tardo-cinquecentesca che vi viene compiuta.
77
Cfr. G. COZZI, La politica culturale della Repubblica di Venezia nell‟età di Giovan Bat-
tista Benedetti, in Giovan Battista Benedetti e il suo tempo, Istituto Veneto di Scienze, Lettere
ed Arti, 1987, pp. 9-27.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 29
78
Caratteristicamente e programmaticamente così significativi, perché a metà strada, nella
loro liminarità, fra paratesto e testo vero e proprio.
79
Cfr. rispettivamente Giocasta, prologo, vv. 35-40; Ifigenia, prologo, vv. 1-5; Medea,
prologo, vv. 58-75; Marianna, prologo I, vv. 76-93.
80
Per la questione risulta ancora irrinunciabile C. DIONISOTTI, Geografia e storia della
letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1963 e specialmente le pp. 201-26.
81
Cfr. L. DOLCE, Didone, vv. 2160-77: «Nunzio: Misere, e che ci resta/Altro, che veder la
città smarrita/Prender, e sacheggiar dal fero Iarba?/E quella crudeltà nel sangue nostro/Usar,
ch’a raccontar non fia creduta?/Bizia: Indovino ben sei di queste pene:/Perché pur hora uno
de’ nostri è giunto,/Spettacol brutto, e a rimirar pietoso:/Tronche le mani avea, le orecchie, e
’l naso,/E tutto rosso del suo stesso sangue,/N’avisò che i Getuli ardon per tutto/I nostri cam-
pi, e occidono qualunque/Huomo, donna, fanciullo, o vecchio infermo/Trovan per le campa-
gne, o ne le case. /E questo detto, dal dolor trafitto,/Cadde morto dinanzi a’ nostri piedi./Onde
già la roina di Cartago,/E ’l flagello di noi troppo è vicino». Per il nucleo tematico della guer-
ra nella tragedia cinquecentesca cfr. R. CREMANTE, Appunti sul tema della guerra, ed in par-
ticolare della guerra d‟Oriente, nella tragedia italiana del Cinquecento, in Guerre di religio-
ne sulla scena del Cinquecento, a c. di M. CHIABÒ e F. DOGLIO, Roma, Torre d’Orfeo, 2006,
pp. 121-138 e ID., Aspetti della realtà contemporanea nella tragedia italiana del Cinquecen-
30 Venezia in coturno
Fra gli altri temi ricorrenti nella tragedia del Dolce, non può man-
care un topos della poesia rinascimentale quale quello della rea For-
tuna,82 declinato in qualche caso con notevole originalità e non senza
addentellati con la questione eterodossa, ma culturalmente decisiva,
del rapporto fra libero arbitrio e predestinazione: difficile pensare che
nella Venezia di medio Cinquecento tali problematiche non avessero
diritto di cittadinanza nel dibattito culturale corrente, senza che ciò
implicasse peraltro una autentica adesione alle teorie riformate.83
In ultima analisi, occorre gettare un breve sguardo alla fondamenta-
le questione della mise-en-scène: Dolce prevede per tutte le sue trage-
die la rappresentazione teatrale. Non vi sono attestazioni di traduzione
scenica per le prime due tragedie di Dolce (Hecuba e Tieste), ma per
le altre disponiamo di dati sicuri: la Didone fu messa in scena a Vene-
zia da Pietro d’Arman nel 1546; la Giocasta ebbe una rappresentazio-
ne nel 1549 e vi sono addirittura testimonianze di una ripresa viterbese
nel 1570. Sicura è anche la messinscena di Ifigenia, Medea, Marianna
e Troiane, queste due ultime con la partecipazione del celebre Antonio
Molin detto Burchiella, grande attore comico riciclatosi per l’occa-
sione.84
Come noto, il problema della rappresentazione scenica non era sta-
to la principale preoccupazione della prima stagione di rilancio del te-
atro tragico classicistico cinquecentesco: solo con il Giraldi Cinzio la
questione si era riproposta in tutta la sua urgenza, tanto che già nella
Lettera sulla Tragedia (1541) egli poteva enfaticamente sostenere di
aver rinnovato «l’uso dello spettacolo» che era «poco meno che anda-
to in obblivione».85 Per Dolce, che certamente fu condizionato da un
to: appunti sul tema della guerra, in La scena del mondo. Studi sul teatro per Franco Fido, a
c. di L. PERTILE, R. A. SYSKA-LAMPARSKA, A. OLDCORN, Ravenna, Longo, 2006, pp. 77-88.
82
D. DALLA VALLE, Il tema della Fortuna nella tragedia italiana rinascimentale e baroc-
ca, in «Italica», vol. 44, n. 2, 1967, pp. 180-208.
83
Per un quadro sulla circolazione editoriale a Venezia e dei rapporti con la censura cfr.
P. F. GRENDLER, L‟Inquisizione romana e l‟editoria a Venezia: 1540-1605, Roma, Il Veltro,
1983.
84
Cfr. sempre G. DAMERINI Il sodalizio artistico di Lodovico Dolce con Antonio Molino
detto il Burchiella, in «Il Dramma», 41, n. 342, marzo 1965, pp. 37-44.
85
Nel Discorso intorno al comporre delle Comedie e delle Tragedie (Venezia, Giolito,
1554), Giraldi sosteneva addirittura la necessità di una diversa struttura della fabula tragica a
seconda che la sua destinazione fosse quella della rappresentazione (nel qual caso era a suo
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 31
avviso preferibile il lieto fine), o quella della sola lettura (in cui era da favorire il fine mesto
nel quale Seneca era stato maestro insuperato).
86
Alla collaborazione fra Dolce e Giolito si deve la diffusione del cinquecentesco libro de
theatro.
87
Sulla natura complessa e stratificata del testo teatrale e sulla teatralità come dato inscrit-
to nel testo drammatico cfr. F. RUFFINI, Semiotica del testo. L‟esempio del teatro, Roma, Bul-
zoni, 1978; M. DE MARINIS, Semiotica del teatro. L‟analisi testuale dello spettacolo, Milano,
Bompiani, 1982; C. SEGRE, Teatro e romanzo, Torino, Einaudi, 1984; K. ELAM, Semiotica del
teatro, Bologna, Il Mulino, 1988.
32 Venezia in coturno
88
Cfr. E. PARATORE, L‟influenza della letteratura latina da Ovidio ad Apuleio nell‟età del
Manierismo e del Barocco, in Manierismo, Barocco, Rococò: concetti e termini, Accademia
Nazionale dei Lincei, n. 52, Roma, 1962, pp. 239-301.
89
Il Cathalogus librorum haereticorum del 1554, che è il primo indice di provenienza
romana, diffonde il principio secondo il quale basta anche solo qualche passo di un autore per
censurare integralmente i suoi opera omnia. Offre una sintesi efficace sul quadro storico R.
PO-CHIA HSIA, La Controriforma. Il mondo del rinnovamento cattolico (1540-1770), Bologna,
Il Mulino, 2001.
Lodovico Dolce letterato e poeta tragico I 33
90
Su cui almeno cfr. S. VERDINO, Il Re Torrismondo e altro, Alessandria, Edizioni
dell’Orso, 2007.
34 Venezia in coturno
91
Cfr. A Tragedie written in Greeke by Euripides translated and digested into Acte by
George Gascoygne and Francis Kinwelmershe of Grayes Inne, and there by them presented,
1566.
92
M. PIERI, La tragedia in Italia, in Le rinascite delle tragedia. Origini classiche e tradi-
zioni europee, a c. di G. GUASTELLA, Roma, Carocci, 2006, p. 187. Non senza un pizzico di
provocazione, io ritengo che Dolce sia stato davvero il più grande tragediografo italiano del
secolo. Sulle ascendenze senecane e italiane del teatro elisabettiano cfr. R. S. MIOLA, Shake-
speare and Classical Tragedy. The Influence of Seneca, Oxford, Clarendon Press, 1992.
Capitolo II
1. Hecuba1
La Fortuna ha tanta forza nelle cose humane, che non senza cagione ne gli
antichi secoli alcuni le sacrarono Tempi et Altari. Percioché ella gli stati bassi
con gli alti agguagliando; et i piaceri mescolando con le tristezze; niente lassa
qua giù, che non sia tocco et rivolto da lei: di maniera, che sempre lo estremo
d‟i risi tengono i pianti, et alle miserie sopravengono le felicità. Là onde cota-
li et sì diversi accidenti facendone questa conoscere; niuna condition tra mor-
tali esser perpetua, quegli antichi huomini, i quali prima, che fossero edificate
le Mura di Athene, menavano la lor vita ne‟ campi; non senza cagione trova-
rono le Commedie et le Tragedie; sotto il piacevole velo di cotali avenimenti
discoprendo a poco a poco la vita migliore; et insegnando l‟huomo nelle a-
versità non doversi sì fattamente disperare, che non pensasse a qualche tempo
poter ritornare a più lieta vita; ne per le felicità de‟ prosperi avenimenti in
modo insuperbire, che non temesse, quando che sia, al fondo delle miserie
poter cadere. Et al fine veggendo tra noi non esser perpetua contentezza, si
rivolgesse al cielo; et cercasse la vera et eterna felicità di là su. Per il che io;
che delle dolcezze di essa Fortuna pochissima parte sempre, et delle sue ama-
ritudini grandissima quantità ho gustato e gusto; non sapendo quello ch‟io
m‟habbia più hoggimai a sperare, né più a temere; con gli altrui esempi vo
cercando di consolarmi. Il che ha dato occasione al nascere della presente
Tragedia. Di Padova, a Sedici di Giugno, 1543
1
L. DOLCE, La Hecuba. Tragedia tratta da Euripide, Venezia, Gabriele Giolito de‟ Ferra-
ri, 1543. Cfr. anche l‟edizione giolitina del 1560 che contiene tutte le tragedie di Dolce.
36 Venezia in coturno
2
Manca alla fine del primo atto.
3
Hecuba. Tragedia di Euripide poeta greco tradotta in lingua volgare per Giambattista
Gelli (mancano luogo data editore).
4
Edita però solo nel 1813: Ecuba. Tragedia di Euripide, tradotta in verso toscano da
Matteo Bandello, Roma, Stamperia de Romanis, 1813.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 37
OMBRA DI POLIDORO
Uscito fuori de‟ profondi e tristi
Cerchi d‟Inferno, e de l‟horrende porte
De la caliginosa notte eterna:
Nel bel seren di questa luce chiara,
Che cotanto ad altrui diletta e piace,
M‟appresento a vostr‟occhi ombra dolente
Del morto Polidor d‟Hecuba figlio.
E perché vi fia esempio la mia sorte,
E porga frutto a voi quel, ch‟a me nocque,
A l‟orecchie pietose de‟ mortali
Darò de‟ casi miei notitia intera. (vv. 1-11)7
5
Cfr. SENECA, Agamemnon e Thyestes.
6
Cfr. G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 227-315 (= Ombra di Selina) e S. SPERONI,
Canace, vv. 1-138 (= Ombra del figlio di Canace e Macareo). È comunque estremamente i-
struttivo sui modi compositivi di Dolce, il fatto che egli scelga dal repertorio classico, invece
di inventarle integralmente, quelle fabulae che gli sembrano più adeguate ai nuovi gusti del
pubblico: Hecuba e Thyeste rispondono evidentemente a queste mutate esigenze dei fruitori.
7
Si cita sempre, qualora non sia indicato diversamente, dalla edizione giolitina del 1560.
Per comodità si è provveduto a numerare i versi.
8
Cfr. EURIPIDE, Hekabe, vv. 1-15, in cui troviamo, per esempio, Κιζ ζ έως o Φρσγών
πόλιν (= Troia), che dovevano risultare preziosità a Dolce, il quale, avendo a cuore il proble-
ma della ricezione, le illimpidisce o le cassa nella traduzione; in ERASMO DA ROTTERDAM, He-
38 Venezia in coturno
cuba, vv. 1-22 (ora e sempre in IDEM, Tragedie di Euripide, cit.), piuttosto fedele
all‟originale, troviamo: Cisseide, Marte Graio (= esercito acheo), Phrygia moenia, Troico so-
lo, e così via. In Dolce queste parole e iuncturae subiscono una torsione nella direzione della
pura denotazione; con il che – va da sé – il poeta perde alcune significative opportunità e-
spressive, ma guadagna in chiarezza (sia che la fruizione della sua opera sia affidata alla lettu-
ra, sia che preveda, come sempre in Dolce, un consumo „visivo‟ a teatro).
9
Dove probabile è un‟eco dantesca: vd. Inferno, XXX, 16-20: «Ecuba trista, misera e cat-
tiva,/poscia che vide Polissena morta,/e del suo Polidoro in su la riva/del mar si fu la dolorosa
accorta,/forsennata latrò sì come cane».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 39
10
Anche il canto XXVI della riscrittura ovidiana di Dolce è tematicamente importante per
la vicenda di Ecuba, Polissena e Polinestore. Vd. L. DOLCE, Le Trasformationi, in questa
quinta Impressione da lui in molti luoghi ricorrette, Con privilegi, In Vinegia appresso Ga-
briel Giolito de‟ Ferrari, MDLVIII, pp. 266 ss..
11
Dove è avvertibile certamente una riflessione ciceroniana (Tusculanae disputationes, I,
31.75) e poi agostiniana (De ciuitate Dei, XII.21: «Si tamen uita ista dicenda est quae potius
mors est»), parzialmente mediata, tra gli altri, anche dal Petrarca di Triumphus Mortis, II, vv.
21-24. Con la presente considerazione Hecuba viene spinta nel perimetro post-umano e oltre-
mondano al quale già appartiene l‟Ombra di Polidoro.
40 Venezia in coturno
HECUBA
O meste del mio mal Donne Troiane,
Più, che del nostro istesso:
Donne, che già mi foste amiche Ancelle
Ne la tranquilla vita;
Hor compagne e sorelle
Ne la miseria mia sola e infinita:
Che far mi resta homai, che se n‟è gita
L‟hora felice: e son condotta a tale,
Ch‟invidio ogni mortale?
Lamenterommi, ahi lassa,
De l‟iniqua Fortuna, o de le Stelle?13
Questa fallace; e quelle
C‟hor versan bene, hor male;
Come a ciascun la Sorte è stabilita.
Dite, che far mi resta?
Se non squarciar; s‟io sarò tanto ardita,
Questa noiosa mia, lacera vesta.
12
Meno Polidoro e Polissena, nelle convinzioni della stessa Hecuba. Ma noi sappiamo fin
dalla prima scena della tragedia che Polidoro non c‟è più e che Polissena sarà sicuramente sa-
crificata sul tumulo di Achille (vd. i vv. 110 ss.: «I Greci vincitori a bada stanno/Però,
ch‟essendo già per dipartirsi/E volendo spiegar le vele in alto;/Veduta fu da l‟alta sepoltu-
ra/Del grande Achille uscir l‟ombra superba./Il qual la gente al lungo assedio stanca:/Ch‟ardea
di riveder l‟amate case,/Madri, padri, fratei, figliuoli, e spose;/Contra il comun desio, ritener
pote./Egli dimanda, che del caldo sangue/Di mia cara sorella Polissena/Si vegga inanzi a la
partita loro/La sepoltura sua bagnata e sparsa./Cotal ei chiede vittima; e per cer-
to/L‟ottenerà: ch‟i suoi più cari amici/Non vorran sostener, ch‟egli sia privo/De l‟inquo da
lui bramato honore»). E la personale tragedia della regina troiana consisterà proprio
nell‟aggiunta di questi due altri figli alla sua contabilità di morti.
13
Cfr. S. SPERONI, Canace, vv. 518-519: «La cagione io recava,/Sciocca, suso alle stelle e
alla fortuna».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 41
14
La prima occorrenza del motivo è in TEOGNIDE, Ελεγειων, A, vv. 425-28. Naturalmente
si tratta di sententia destinata a formidabile fortuna in ambito tragico: cfr. almeno SOFOCLE,
Oidipous epi Kolonoi, vv. 1224-1227. Per una declinazione romana del motivo vd. CICERONE,
Tusculanae disputationes, I 48.114: «Adfertur etiam de Sileno fabella quaedam; qui cum a
Mida captus esset, hoc ei muneris pro sua missione dedisse scribitur: docuisse regem non na-
sci homini longe optimum esse, proximum autem quam primum mori», cui segue, tra l‟altro,
una riformulazione dello stesso pensiero prelevata dal Cresfonte di Euripide. A mediare il
pensiero (che è anche biblico: cfr. Qohelet, IV, 2-3), per i poeti tragici del Cinquecento, è il
Petrarca.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 43
15
Notevole è la fortuna tragica del sogno profetico che prelude ad eventi futuri della
fabula: tra gli antichi, cfr. ESCHILO, Persai e Coephoroi e, va da sé, EURIPIDE, Hekabe. Nelle
tragedie del Cinquecento ritroviamo il sogno pre-albare, talvolta come mise-en-abîme
dell‟intera fabula, in G. G. TRISSINO, Sofonisba, vv. 101-17; G. RUCELLAI, Rosmunda, vv. 84-
103; A. PAZZI DE‟ MEDICI, Dido in Carthagine, p. 64; L. MARTELLI, Tullia, vv. 688 ss.; G. B.
GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 2622-55; S. SPERONI, Canace, vv. 387-438; P. ARETINO, Ora-
zia, vv. 559-624. Dolce, oltre che qui, usa il modulo onirico nella Medea, vv. 143-57. Per tale
motivo in ambito romanzo cfr. certamente DANTE, Inferno, XXVI, v. 7 e Purgatorio, IX, vv.
16 ss.; F. PETRARCA, Triumphus Mortis, II; A. POLIZIANO, Stanze, II, 27.
16
Per la cerva in Petrarca cfr. anche Rvf, 212, vv. 7-8 e Triumphus Pudicitie, v. 38.
44 Venezia in coturno
17
Il secondo sogno ha una piuttosto esplicita doppia articolazione: a una sezione allegori-
ca segue una assai tipica, quantunque superflua, sezione esplicativa che ha il compito di chia-
rire denotativamente quanto comunicato nella precedente sequenza di versi.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 45
HECUBA HECUBA
Voi; che ‟l tutto reggete O fulgur Iovis, o nox picea,
Santi celesti Dei; Ut quid ita sub nocte silenti
Onde ogn‟opra mortal quà giù discende: Terriculis visisque exagitor?
Se l‟orecchie porgete O sacra tellus,
A giusti preghi miei, Gignens atris somnia pennis,
E se de l‟altrui mal pietà vi prende; Sit precor irrita noctis imago
Poi, che mi si contende Quam de prole mea,
Lassa, ogn‟altra speranza; Quae servatur Thraces oris,
E sol morte m‟avanza Dulcique Polyxena sobole
Rimedio a le mie pene; Alto vidi mersa sopore:
Servate il mio figliuolo: a cui s‟attiene Nam terrificum vidi visum,
Il sostegno e ‟l riparo Didici, sensi.
Del nostro illustre sangue, O terrestria numina, gnatum
A me già corpo esangue Servate meum, qui iam solus
Più, che la vita e più, che l‟alma, caro. Generis superest ancora nostri,
Giunga il vostro favore Thraces habitans arva nivalis
A quel di Giove appresso Patrio commendatus amico.
Ne la gratia, ch‟io cheggio humilemente. Aderit iamiam quodcunque malum
Ciò fate: e parimente Luctumque novum luctibus addet.
Da sorte iniqua e ria Haud sic unquam mens mea certo
Servate insieme Polissena mia. Timuit, tremuit, tacta pavore.
Io già non mi difido Ubinam divina Helenum mente,
De la pietà di lui, Ubi Cassandram, Iliades, videam
Che vi fa quel, che sete. Ut mihi caeca insomnia pandant?
Ma s‟aggiungete i vostri a li miei preghi, (vv. 75-98)
Cosa poi non sarà, che a me si nieghi.
Notte; che l‟ombra oscura
Per riposo di noi ritorni e rendi:
18
ERASMO, Hecuba, v. 102.
46 Venezia in coturno
19
La prima stanza ha schema [abC.abC.cddeE.fggF]; la seconda [abC.cdDefg.HH]; la ter-
za ha addirittura [aBCdEFghaffIlM], etc.
20
In Euripide ed Erasmo prima c‟è la preghiera di Ecuba e poi ella chiarisce le coordinate
dei sogni prealbari compiuti (pur accennandovi già nella sequenza della preghiera); esatta-
mente il contrario in Dolce.
21
Cfr. EURIPIDE, Hekabe, vv. 70b-72 e ERASMO, Hecuba, vv. 78-80.
22
Si noti che in Euripide i due – accoppiati per i loro poteri profetici – sono invocati da
Ecuba ai vv. 87-88; in Erasmo li troviamo ai vv. 96-97. Come si vede, ancora una volta, Dol-
ce si sente pienamente legittimato a destrutturate i suoi testi di riferimento e a ricostruirli se-
condo sue proprie esigenze funzionali.
48 Venezia in coturno
CORO
Vano è ‟l temer de‟ sogni:
Che qual vegghiando noi, l‟humana mente
È ingombrata da noia o diletto,
Tal sogna parimente
Lieto o noioso effetto
L‟anima, poi che ‟l corpo s‟addormenta. (vv. 377-82)
A ciò Hecuba risponde che – nel suo caso – c‟è un precedente che,
purtroppo, depone a favore della assoluta veridicità dei sogni, specie
se infausti:
HECUBA
Vano non fu già quello;
Quando a me parve al partorir di Paris,
Di partorir una facella ardente,
Che crescendo copria tutto il mio Regno;
Non s‟ammorzando prima
Che Troia in polve e in cenere ridusse. (vv. 383-88)
23
Cfr. G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 2656-77; S. SPERONI, Canace, vv. 510-546;
con un rilievo eccezionale P. ARETINO, Orazia, vv. 562-76 e, con capacità rara di demistifica-
zione e svelamento, soprattutto i vv. 625-632; A. PAZZI DE‟ MEDICI, Dido in Cartagine, vv.
184-86 (con numerazione mia dei versi).
24
Cfr. EURIPIDE, Troades, vv. 919-22. Dove Elena, sollecitata a confrontarsi con Ecuba,
la accusa di essere la responsabile principale della distruzione di Troia per aver dato la luce a
colui – Paride – che effettivamente era stato, col rapimento della moglie di Menelao, la causa
prima della guerra.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 49
SERVA
E le navi fermò, ch‟alhora alhora
Erano già per dar le vele a i venti;
Queste formando, o simili parole
Con voce, che lontan si pote udire;
– Dove fuggite voi, lasciando o Greci
Le mie ceneri oscure senza honore? –. (vv. 426-31)
25
Ora e sempre si cita da Senecae Tragoediae, a c. di BENEDETTO RICCARDINI, Firenze,
Giunti, 1513.
50 Venezia in coturno
SERVA
Però, ch‟è di bisogno o di placare
L‟alte Divinità si, che non resti
Orba de la figliuola amata e cara:
O, che con gli occhi propri hoggi tu vegga
Nanzi al sepolchro del superbo Greco
Aprir il bianco petto; e horribilmente
L‟infelice cader sparsa di sangue. (vv. 495-501)
HECUBA
Misera, quali accenti
M‟usciranno del petto;
26
EURIPIDE, Hekabe, vv. 150-53 («vedrai la fanciulla dinanzi alla tomba/crollare, e arros-
sarsi di un fiotto di sangue/sul collo cerchiato/dall‟oro, fra neri barbagli»).
27
ERASMO, Hecuba, vv. 166-69.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 51
28
Con schema [abC.abC.cdeeD.ff].
52 Venezia in coturno
29
Secondo le coordinate di una precisa strategia patetizzante, confermata anche
dall‟esordio di Polissena.
30
Cfr. EURIPIDE, Hekabe, vv. 176-77: «ἰώ˙/μᾶτερ μᾶτερ ηί βοᾷς» ed ERASMO, Hecuba, vv.
195-96: «Ehem, mater, mater,/Quid clamas?».
31
Cfr. VIRGILIO, Aeneis, V, vv. 213-217; D. ALIGHIERI, Inferno, V, vv. 82-84; F. PETRAR-
CA, Triumphus Cupidinis III, vv. 89-90 e Rvf, 187, vv. 5-6; M. M. BOIARDO, Amorum libri, I,
Le tragedie di Lodovico Dolce II 53
POLISSENA
O tre volte infelice
Madre; infelice vecchia
Più di quante giamai saranno e furo.
Qual spirto de l‟Inferno
Pieno di rabbia e di veneno interno
Nuovo pianto apparecchia
A vostra vita trista;
Perché ‟l duol, che v‟attrista,
Sia quì solo nel mondo e sempiterno.
Duolmi di non potere;
Com‟io bramava, ahi lassa;
Esservi in questa età figlia e conserva:
Poi, ch‟io debbo morire
Lasciandovi in martire
Senza alcun, che v‟aiuti e vi consoli:
Dunque fra tanti duoli
Misera aspettarete,
Che da le mani altere
De‟ nostri empi nimici
Vi fia tolta di braccio; come Cerva
Dal suo natio ricetto? E vederete
L‟indegna morte mia?
Il che solo a me fia
Per me duro et acerbo
Pensando a vostre incomparabil pene;
Ch‟a me sarà contento,
E non doglia o tormento;
Rompendo i duri nodi e le catene;
50, 8; B. TASSO, Rime, I, 62, v. 1; G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, V, v. 2633. Si ricordi an-
che Matteo, X, 16: «estote prudentes sicut serpentes, et simplices sicut columbae».
32
Nel quale ultimo la scelta espressiva è motivata dalla ricerca di un vistoso effetto allitte-
rante, non privo di elementi di derivatio: «Sic me veluti volucrem tectis/Cogis trepidam pro-
volitare?» (vv. 197-98).
54 Venezia in coturno
33
La dittologia duro et acerbo (v. 606) è prelevata da Rvf, 305, v. 6; 360, v. 57, ma con
inversione.
34
Cfr. specialmente Triumphus Mortis, II, vv. 34-39.
35
L. DOLCE, Hecuba, vv. 614-21: «Coro: Veramente, Reina: (che Reina/Vi chiamerò mai
sempre;/Però, che la Fortuna non ha forza/Sopra la nobiltà degli alti cuori:/E ben, che v‟abbia
con ogn‟altro bene/Levato il Regno; e s‟apparecchi ancora/A nuovo vostro insopportabil ma-
le;/Non levarà l‟honor, che vi si deve)./Veramente Reina io vi conforto/A lagrimar».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 55
ULISSE ULYSSES
È lecito: e ‟l concedo: e vo piacerti Licet, roga; neque enim hoc tibi invideo
Di questo poco spatio, che trametti morae.
Nanzi a la morte de la tua figliuola. HECUBA
HECUBA Scin Ilium explorator ut subiveris
Penso, che di quel tempo vi ricordi; Pannosus atque squalidus? Genas tuas
Quando per ispiar le cose nostre Stillae obsidebant mortis oculis excitae.
Veniste in Troia in vili e tristi panni: ULYSSES
E, ch‟alhor vi stillavan per le guancie Memini. Haud enim haec res summa
Lagrime, qual si dice, de la morte. strinxit pectoris.
ULISSE HECUBA
Me ne ricordo: e questo fatto invero Ten‟ agnitum uni prodidit Helene mihi?
36
Cfr. Hekabe, vv. 216-17 ed Hecuba, 238-39: «Sed ecce Ulysses huc citus movet gra-
dum/Hecube, tibi aliquem nuntium ferens novum».
37
L. DOLCE, Hecuba, vv. 627-28.
56 Venezia in coturno
POLISSENA
Signor, io veggio, che la destra mano
Tenete sotto al Real manto ascosa,
E, che la faccia rivolgete a dietro:
Perch‟io con humiltà l‟una baciando,
E l‟altra discernendo nel mio volto
Alcun segno di pena e di dolore;
Non s‟accenda per me nel vostro petto
Di pietoso calor qualche favilla.
Ma v‟assecuro, ch‟a l‟impresa vostra:
Ch‟è di menarmi a destinata morte;
Ogni fatica fia levata e tolta.
Perch‟io son per seguirvi allegra e presta;
O perché a ciò necessità mi tiri
Del decreto fatal, che mal si fugge;
O perch‟io stessa di morir desio:
Ancor, ch‟essendo femina, ad altrui
Timida parer possa; e de la vita,
Sì come l‟altre, desiosa e vaga.
Però, che nulla a me cagion avanza
Per cui mi sia tra voi la vita cara:
Sì come quella, che figliuola io fui
Del gran Re de‟ Troiani. Ahi, che sol questo
M‟è principio d‟amara odiosa vita.
Era nudrita ne‟ dorati alberghi
De‟ palazzi Real fra li diletti,
Che pò dar ad altrui lieta Fortuna:
Con speme d‟esser poi felicemente
Di qualche Re beato altera sposa,
Tra molti, che bramavan d‟ottenere
Le mie superbe et honorate nozze.
Mi sentiva chiamar Donna e Reina;
Honor, che tanto a nostre orecchie aggrada,
E via sparisce poi, com‟ombra e fumo.
Era ancor di costumi e di bellezza
38
Certamente da tenere presente, per le riflessioni sulla morte, CICERONE, Tusculanae di-
sputationes, I.
58 Venezia in coturno
39
Tutta la sezione risente ancora del clima petrarchesco del Triumphus Mortis, I e II.
60 Venezia in coturno
E a la Pira d‟Achille;
A Dio luce del mondo: io mi diparto. (vv. 1121-29)
HECUBA
Oimè, che ‟l fil, che queste membra lega,
Romper mi sento e a tanto duol vien meno
La debil mente: e pur rimango viva.
Abbraccia o figlia la tua cara madre.
Teco la mena: porgi o figlia, porgi
La man: dallami o figlia.
Non mi lasciar senza di te figliuola.
Oimè che più non mi sostegno, amiche:
Ecco, ch‟io son caduta:
Volesse Dio, ch‟in questo stato acerbo,
Fra questi pianti istessi
Helena anco vedessi:
Che con caduco fior d‟alta bellezza
La superba città d‟Asia Reina,
E la mia prole indegnamente ha spento. (vv. 1130-44)
TALTIBIO
Se ‟l cielo a voglia mia mi concedesse
Elegger qui tra noi stato mortale,
Non l‟alto eleggerei, né ‟l basso e humile;
Che quel mi par che veramente sia
E felice, e beato che si gode
In modesta Fortuna, e non desia
Maggior altezza; e ‟l chiaro animo forte
Non turba di cader, sospetto o tema:
E se pur cade, la caduta è tale,
Che senza suo gran danno in pié ritorna.
Quel ch‟è in altezza, giù cadendo al basso,
Porta nel suo cader tanta ruina,
Che poi difficilmente al sommo s‟erge,
O con doppio martir perpetuo giace.
Senza che, posto a la Reale altezza,
Non può viver colui lieto e securo;
Perché spesso lo punge e lo spaventa
La sorte de‟ mortai; cui non è dato
Cosa stabile haver sotto la Luna:
Teme l‟odio de‟ popoli; e sovente
In mezo a le vivande atro veneno.
Quinci l‟ambition: quindi l‟ardente
40
Secondo il modulo [abC.abC.cdeff.gG].
41
Vd. soprattutto ORAZIO, Sermones, I.1; II.2 e almeno Carmina, II.10. Per la declinazio-
ne politica delle stesse tematiche cfr. senz‟altro SENECA, Thyestes, vv. 348-403; specialmente
446-70; 596-622; Agamemnon, vv. 57-107 e ancora Epistulae morales ad Lucilium, 84. 11-13
e 94. 58-61.
62 Venezia in coturno
TALTIBIO
Tu vuoi pur, ch‟io rinfreschi e rinovelli
A te Donna la doglia, et a me il pianto:
Che veramente (e ‟l rimembrar mi duole)
Fu sì fiero spettacol, ch‟io ne piansi,
In su quell‟hora dolorosa e mesta,
Che l‟alma uscio di quel bel corpo fuori.
Hor parimente converrà ch‟io pianga:
E tu insieme farai de gli occhi rivi,
Se ‟l soverchio dolor non si attraversa. (vv. 1312-20)
TALTIBIO 8.
Ella [Polissena scil.] che ciò comprese, – Spargi (diss‟ella con sicuro aspetto)
immantinente Il nobil sangue mio, che sol mi resta.
Queste formò parole e così disse: Eccomi pronta, o fora questo petto,
- O voi, c‟havete la cittade mia, O questa gola (e si levò la vesta)
Sì come piacque a Giove, arsa e disfatta: Che con sommo gioir la morte aspetto,
Deh per pietà mi concedete o Greci; Poi ch‟io posso fuggir solo per questa
Che questo corpo mio non tocchi alcuno. La servitù. M‟è dunque ella gradita,
Io volentieri moro: volentieri Da che libera passo a l‟altra vita.
Porgerò il collo al destinato ferro;
Né mi spaventa la vicina morte. 9. […]
Ma, perch‟io moia tal, qual si conviene
A l‟alto sangue, e a l‟honorata prole 10.
Di tanti miei progenitori illustri, E voi crudi Ministri, ch‟io discerno
Libera m‟occidete: che nel vero Pronti per far l‟ufficio vostro in vano,
Reina essendo e di tal padre figlia; Perch‟io libera io vada ne l‟Inferno,
Di morir, come serva, io mi disdegno -. Alcun sopra di me non ponga mano.
[…] Così ‟l mio sangue a chi nel lago Aver-
Ella, poi che si vide in libertade, no
Volgendo gli occhi in certo atto pietoso, Lo brama, o dov‟ei sia presso, o lonta-
Che alcun non fu, ch‟i suoi tenesse a- no,
sciutti; Sarà più caro, e via più accetto e grato,
La sottil vesta con le bianche mani Poi che del sangue mio solo è assetato.
Squarciò dal petto insino a l‟ombilico,
E ‟l suo candido sen dimostrò fuori. 11.
E quindi humil con le ginocchia a terra Appresso io già di Re figlia, hor di voi
Mosse queste parole amare et aspre: Vil prigioniera, prego, che senz‟oro
– Giovane, se t‟aggrada aprirmi il petto, Concediate il mio corpo a lei; dapoi
Eccolo pronto a la ferita e al ferro: Che co‟ figli ha perduto ogni thesoro –.
E se ti piace dipartir il collo
Da l‟infelice busto; eccolo ancora
Pronto al colpo mortal, che lo diparta.
Hor spenga la sua sete col mio sangue
L‟anima di colui, che l‟ha sì caro.
Non sarà morte la mia morte, s‟io
Andrò libero spirto a l‟altra vita –.
(vv. 1365-99)
43
A dimostrazione che la scrittura tragica dolciana è talvolta inerzialmente automatica, si
legga la sua traduzione delle Troades senecane, ove, ancora riferendosi a Polissena, leggiamo
ai vv. 2147-48: «Nondimeno le guancie/Tingea per tutto un bel color di rose». Inoltre cfr. Di-
done, vv. 1301-1305: «E dal suo viso insieme/È sparito il sereno./Le guancie tinte di color di
rose/Con nuova pallidezza/Son ritratto del cuore».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 65
44
Rileviamo la consonanza in innocente-fonte-mirabilmente (ribattuta dagli stilnovistici
gentil a v. 1404 e gentile a v. 1407 e da volando al v. 1408 che a sua volta ripropone materiale
di n‟andò), la ricca allitterazione della [v], fonema tematicamente importante perché contenu-
to nelle parole-chiave volto e vita, ai vv. 1408-12, etc
45
Non ci pare nemmeno da sottolineare il fatto che nella poesia pre-stilnovista e stilnovi-
sta (ma certo già in quella latina e mediolatina), l‟accostamento rosso~bianco (con figuranti di
volta in volta diversi) per descrivere il viso della donna amata è assolutamente tipico. Senza
nessuna pretesa di completezza, cfr. almeno G. GUINIZZELLI, Vedut‟ho la lucente stella diana,
v. 5; CINO DA PISTOIA, Oimè lasso, quelle trezze bionde, vv. 10-11. Poi naturalmente cfr. F.
PETRARCA, Rvf, 131, vv. 9-10: «et le rose vermiglie in fra la neve/mover da l‟òra, et discovrir
l‟avorio» e Rvf, 157, v. 12: «perle et rose vermiglie». Per la tenuta della tessera in ambito pe-
trarchistico vd. almeno, G. G. TRISSINO, Rime, LIX, vv. 42-45: «né gigli o neve han bianco sì
perfetto,/com‟ella ha ‟l viso e ‟l petto,/in cui qualche rossezza vi si posa,/che pare in latte una
vermiglia rosa». Va subito aggiunto che nel Petrarca lirico il ligustro non c‟è; è presente in
Triumphus Temporis, v. 101, in contesto, peraltro, lievemente decentrato e sollecitato verosi-
milmente dall‟illustre VIRGILIO, Bucolica, II, v. 18: «Alba ligustra cadunt, uaccinia nigra le-
guntur».
66 Venezia in coturno
46
G. BOCCACCIO, Decameron, IV, 6. 14: «e pareami che ella fosse più che la neve bian-
ca»; P. BEMBO, Asolani, II, 18:«Et ecco dal monte venir due colombe volando, bianchissime
più che neve»; G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, V, 2, v. 57: «una columba più che neve bian-
ca».
47
Su „pallido‟ cfr. M. PERI, Ma il quarto dov‟è? Indagine sul topos delle bellezze femmi-
nili, Pisa, ETS Edizioni, 2004, p. 95: «Come ha mostrato Feo [cfr. M. FEO,“Pallida no, ma
più che neve bianca”, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 152, 1975, pp. 321-
361], il latino pallidus (pallor, pallere) e anche l‟italiano pallido non designano primariamen-
te il bianco o un qualsivoglia colore sbiadito, ma il giallognolo o giallastro di un volto smorto
o incartapecorito o spento».
48
Il petrarchesco „capitolo della Morte‟ fu dotato nel secolo XVI di una precisa funzione
drammatica che ne autorizzava l‟uso come sinopia di sequenze tragiche: cfr. a questo proposi-
to G. B. GIRALDI CINZIO, Discorso intorno al comporre dei romanzi (Venezia, Giolito, 1554):
«E quando parlando della morte di Laura disse ne‟ Trionfi della morte: Morte bella parea nel
suo bel viso. E quantunque la voce bella accompagnata con la morte non pate con esso lei
quella manifesta contraddizione che fa amarissima con la dolcezza, è però contraria alla natu-
ra della cosa alla quale è aggiunta, perché non è cosa alcuna né più oscura agli uomini, né più
schifevole o brutta che la morte […] e nondimeno dicendo che ella nel viso della morta donna
pareva bella, mostra efficacissimamente la bellezza di lei, quando era viva» (si cita da G. B.
GIRALDI CINZIO, Scritti critici, a c. di C. GUERRIERI CROCETTI, Milano, Marzorati, 1973, pp.
152-53). Il motivo ha una certa fortuna, oltre che nella lirica cinquecentesca, anche nella tra-
gedia del secondo ‟500: cfr. A. VALERINI, Afrodite, Verona, Dalle Donne, 1578, p. 40: «e ver-
so il tempio andò, portando in braccia/la defunta regina, che pareva/da un breve sonno ad-
dormentata, e Morte/ridea nel suo bel viso». Dietro a Petrarca si intravvedono un certo plato-
nismo e vari luoghi ciceroniani: su tutti cfr. Tusculanae, I. 49, 117-19.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 67
tici e persuasivi tratti laurani e a porre l‟accento non tanto sui partico-
lari feroci e crudeli del sacrificio, quanto sul senso platonico/cristiano
del distacco dell‟anima dal corpo;49 il che implica, va da sé, una inter-
pretazione della morte come transitus dolce e sereno, passaggio a una
vita più piena e felice, a una vita~vita: in sostanza, il luogo petrarche-
sco è consapevolmente assunto e riarticolato come segnale e modulo
dotato di precise intenzionalità semiche e tematiche, a conferma di un
lavoro non scontato e non banale di ristrutturazione emulativa di alcu-
ni snodi decisivi della fabula scelta.50
Esaurita la pietosa rievocazione del sacrificio da parte di Taltibio, il
coro interviene con una riflessione ad alto gradiente gnomico, con ri-
me (fra cui anche una interna morte-sorte), dove è ancora avvertibile
l‟influsso petrarchesco, già recuperato dalla poesia tragica cinquecen-
tesca e sempre in contesto corale (anche se certo la tematica ricorre
frequentemente nella moralistica antica e moderna):
49
Questa rilettura laurana della protagonista femminile verrà riproposta da Cesare de‟ Ce-
sari nella sua Cleopatra (Venezia, Giovanni Griffio, 1552): cfr. M. P. MUSSINI SACCHI, Cleo-
patra altera Laura. La presenza di Petrarca in un personaggio del teatro tragico cinquecente-
sco, in I territori del petrarchismo. Frontiere e sconfinamenti, a c. di C. MONTAGNANI, Roma,
Bulzoni, 2005, pp. 209-29.
50
Mi sembra assai probabile la mediazione esercitata da Ariosto per la costituzione di
questa Polissena con tratti di Laura: in uno dei passi allegati (cfr. Orlando furioso, X, 96, vv.
5-8) Ariosto indulge a classici procedimenti di dissimulazione/allusione sul nome della Laura
petrarchesca. Il modulo verrà riproposto da un grande poeta tragico manierista: cfr. L. GROTO,
Adriana, I, 3, vv. 169 ss.: «In tanta morte andava scolorando/il già sì bello e colorito viso./E ‟l
colore, e ‟l calor venian mancando./Come purpureo fior, che ‟l curvo aratro/abbia passando
tronco, il qual perduto/le sue vaghezze, e ‟l bel colore smorto,/alfin venendo meno,/cada la
terra in seno». Naturalmente non si dovrà dimenticare che già Sofonisba e Rosmunda avevano
tratti di matrice laurana.
68 Venezia in coturno
51
Vd. OVIDIO, Metamorphoses, XIII, vv. 490-492: «…lacrimas in vulnera fun-
dit/osculaque ore tegit consuetaque pectora plangit/canitiemque suam concreto in sanguine
verrens».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 69
Hecuba, alla fine, sviene di nuovo (tratto che non troviamo in Euri-
pide ed Erasmo).
Il coro dell‟atto III52 presenta la tipica liquidazione della raffinata
onomastica dell‟originale. Atropos, Alexander, iubar Phoebi, civitati
Iliacae, Lacaena puella53 diventano rispettivamente: a) «Una de le tre
Dee (= le Parche);/Che fila il dolce e sì gradito stame/De la vita mor-
tale» (vv. 1558-60); b) «il troppo audace Pari» (v. 1561); c) sempli-
cemente: il Sole (v. 1568); d) cassato; e) «Qualche vecchia» (v. 1594).
Elemento di assoluto interesse mi pare poi il recupero preciso
dell‟immagine di Paride = fiaccola, che già aveva avuto un peso nel
sogno di Hecuba nel I atto, alla fine della prima strofa,54 altro autono-
mo spazio che Dolce ha ritagliato nel suo rifacimento:
52
Composto da due lunghe strofe rispettivamente con schema assai libero [A-
bca.DedE.fghHGiiLlmnO] e [abc.Bbd.deefghfIilmnmoppn].
53
ERASMO, Hecuba, vv. 679-99.
54
Cfr. L. DOLCE, Hecuba, vv. 383 ss..
70 Venezia in coturno
HECUBA
Dolor, sei tanto crudo,
Che doler non mi lassi
Quanto dovrei dolermi. Adunque questo
È Polidoro mio?
Anzi non Polidor; ch‟ei non è vivo:
Questo è il suo corpo morto.
[…]
Son questi figlio mio le rose e i gigli
Che dipingeano il volto,
U‟ si vedeva espressa
La vera imagin stessa
Del tuo padre infelice? È questa quella
Mano innocente e bella,
Che dovea vendicar le nostre offese?
Crudel man, crudel ferro,
Che aperse il bianco petto
D‟un semplice Agnelletto,
Che ancor non peccò mai. (vv. 1647-1681)
Le tragedie di Lodovico Dolce II 71
AGAMENNONE
In che ti pò giovar l‟opera mia?
HECUBA
In fatto assai lontan dal tuo pensiero.
Tu vedi il corpo morto: sopra ‟l quale
Spargo un fonte di pianto amaro et aspro?
AGAMENNONE
Veggo: e chi questo sia, m‟è ascoso ancora.
55
F. PETRARCA, Rvf, 37, vv. 98 e 116; 199, v. 1; 200, v. 1; 208, v. 12.
56
Cfr. L. DOLCE, Hecuba, vv. 1826-1827: «Ma possente è la man, possente il braccio/Del
sommo Dio, de la giustitia eterna». In una prospettiva segnata nel profondo dalla cultura cri-
stiana, non sarà la mano di Polidoro a vendicare Hecuba, bensì quella di Dio.
72 Venezia in coturno
HECUBA
Fu mio parto; e ‟l portai nel ventre mio.
AGAMENNONE
Forse è costui de i tuoi figliuoli alcuno?
HECUBA
È: non di quelli che periro in Troia.
AGAMENNONE
Adunque oltre a coloro altri n‟havevi?
HECUBA
N‟hebbi; ma inutilmente, come vedi.
AGAMENNONE
Quando prendemmo lei; questi dov‟era?
HECUBA
Per salvarlo, suo padre il mandò altrove.
AGAMENNONE
A qual luogo, partendolo da tutti?
HECUBA
In questo Regno, ov‟è trovato morto.
AGAMENNONE
In questo, dove Polinnesto regge?
HECUBA
A questo; con thesor, che gli fu amaro.
AGAMENNONE
Or chi l‟uccise, e di qual morte è spento?
HECUBA
Nessun‟altro, che quei, che gli dié albergo.
AGAMENNONE
Huomo crudel, sol per cagion de l‟oro?
HECUBA
Per quel, veduta la rovina nostra.
AGAMENNONE
Trovasti ‟l tu? O l‟ha portato alcuno?
HECUBA
Lui su ‟l lito del mar trovò costei.
AGAMENNONE
U‟ andò per questo, over per altro effetto?
HECUBA
Per acqua, ond‟io lavassi Polissena.
AGAMENNONE
Colui l‟uccise, e lo gettò nel mare?
HECUBA
Così fece ‟l crudel d‟un corpo humano.
AGAMENNONE
Ben sei sommersa in infiniti mali.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 73
HECUBA
Mal non mi resta più; ch‟io son già morta.
AGAMENNONE
Chi è quella infelice, ch‟ancor vive?
HECUBA
L‟ombra di me: o s‟ho pur corpo vivo
Questo Signore, è la miseria istessa. (vv. 1769-99)
HECUBA
Deh perché l‟huomo s‟affatica e suda
Ne l‟altre discipline honeste e degne
Di nobil sangue; e non impara l‟arte
Di persuader? La qual è de‟ mortali,
Si come piace a lei, Donna e Reina;
E ‟l tutto a voglia sua governa e regge?
Questa imparar si dee sopra ogni cosa;
E per acquistar lei riputar nulla
I diamanti, i rubin, le perle, e l‟oro;
Acciò l‟animo human lieto consegua
Quanto vuol, quanto pensa, e quanto brama.
Però, che la ragion senza costei;
È qual senza alma e senza vita corpo. (vv. 1846-58)
HECUBA
Deh perché queste mani e queste braccia,
57
Vd. ESCHILO, Coephoroi, v. 439 e SOFOCLE, Elektra, v. 445.
74 Venezia in coturno
58
Con schema [ABC.ABC.cDdEe.FF] e congedo [aBbCcDD], prelevato da F. PETRARCA,
Rerum vulgarium fragmenta, 207, con lieve variazione della fronte.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 75
HECUBA
Polidoro mio figlio; il qual ti fue
Raccomandato già dal vecchio padre;
E commesso a tua fe, quanto la vita;
Vive egli? Questo di saper desio:
E poi ragionerò d‟altrui secreti.
POLINNESTO
Vive; e da questa parte sei felice.
HECUBA
O, come tal parlar ti si conviene.
POLINNESTO
È altro che da me d‟intender brami?
HECUBA
S‟è de la madre sua scordato ancora?
POLINNESTO
Anzi a te di secreto venir volse.
HECUBA
L‟or, che seco recò, si trova salvo?
POLINNESTO
Questo è salvo e secur nel mio palazzo.
HECUBA
Di ciò fai ben, né dei bramar l‟altrui.
POLINNESTO
A me basta goder quel, ch‟io mi trovo.
HECUBA
Forse non sai ciò, ch‟io da te vorrei.
POLINNESTO
Non, s‟intender no ‟l fai con le parole.
HECUBA
Che l‟ami, sì com‟io t‟amo al presente.
POLINNESTO
Che accadeva voler meco i figliuoli?
HECUBA
Di Priamo è un gran thesor sotterra ascoso.
POLINNESTO
Vuoi, che di ciò s‟avisi il tuo figliuolo?
HECUBA
Voglio; e per te, che sei buono e fedele.
POLINNESTO
Che bisogna, che sian presenti i figli?
HECUBA
Se avien che muori, acciò che ‟l sappian questi.
POLINNESTO
Hai fatto bene, con prudentia molta.
76 Venezia in coturno
HECUBA
Sai dove in Troia era di Palla il Tempio?
POLINNESTO
Ivi è ‟l Thesoro? Hai tu segnato il luoco?
HECUBA
Vi puosi un negro et elevato sasso.
POLINNESTO
Seguita, s‟altra cosa a dir ti resta.
HECUBA
Questi danar vorrei, che tu serbassi.
POLINNESTO
Quali danar? Io non so veder nulla.
HECUBA
Ch‟io trassi a le ruine, e portai meco.
POLINNESTO
Gli hai sotto a panni, o pur altrove ascosi?
HECUBA
Dentro le Tende in molte spoglie involti.
POLINNESTO
Questi non son de‟ Greci alloggiamenti?
HECUBA
Son proprij de le femine prigioni.
POLINNESTO
Può esser, che non sia dentro alcun‟huomo.
HECUBA
Huomo non v‟è. Noi alloggiamo sole
Ma v‟entra tu: però, che d‟hora in hora
Son per partirsi i Greci: che gran tempo
Braman di riveder le lor contrade:
Acciò, che fatto quel, ch‟è di te degno,
Possi co‟ figli tuoi ritornar tosto
Là, dove il mio figliuol lieto t‟aspetta. (vv. 2122-64)
59
In questa scena Dolce segue da vicino Erasmo e come lui divide il coro in due semicori:
uno dentro la tenda a compiere materialmente il massacro dei figli e l‟accecamento del tiranno
(off-stage); l‟altro a svolgere la funzione di Nuntius on-stage.
60
L‟accecamento funziona ovviamente come punizione espiatoria che ritorna anche nel
mito di Edipo.
78 Venezia in coturno
POLINNESTO
Dove lasso n‟andro? Dove mi porta
Il pié? Verso a qual via debbo indrizzarmi?
A guisa d‟animal gir mi conviene
Senz‟occhi, ricercando con la mano
Lo smarrito camin solo a me stesso.
Ah, maledetto seme.
Donne spietate e rie,
Dove vi nascondete?
Febo, splendor del giorno;
De‟ nostri passi duce,
Concedimi la luce
Tanto, ch‟io sfoghi l‟ira,
61
EURIPIDE, Hekabe, vv. 1035-1037: «‟ώμοι, ησθ λοσμαι θέγγος ‟ομμάηον ηάλας/[…]/‟ώ-
μοι μάλ‟ασθις, ηέκνα, δσζ ηήνοσ ζ θαγης»; ERASMO, Hecuba, v. 1091-1093: «Oculum orbor
eheu luce et aspectu miser!/[…]/Heu rursus eheu, liberos necant meos!».
62
Dolce aveva trasformato già un lupo in orso al v. 284, come si ricorderà.
63
In Dolce vi è sempre maggiore concretezza rispetto ai suoi testi di riferimento: orso e
lupo sono sue invenzioni per conferire plasticità e realismo alla un po‟ generica definizione
dell‟ira di Polinnesto.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 79
POLINNESTO
Dov‟è questa nimica di pietade:
Ch‟io la voglio squarciar a brano a brano;
E ber quel sangue, che n‟ha sparso il mio.
[…]
Lasciami per l‟amor, che porti a i Dei:
Io le vo trar con le mie mani il cuore. (vv. 2313-18)65
64
Registriamo anafora di dove nei primi versi (con variatio sinonimica Verso a qual via);
reduplicatio ai vv. 2238-39 e con allotropia a 2251-52; geminatio e redditio al v. 2252; gemi-
nationes ai vv. 2261, 2266, 2282 (talvolta con redditio); addirittura epizeusi ai vv. 2268-69;
quasi epifora ai vv. 2273-74; anafora ai vv. 2278-79; epifrasi al v. 2285; allitterazione di [f]
al v. 2276, etc..
65
Il motivo del cuore (rubato e/o mangiato), del tutto assente nei modelli, è in verità asso-
lutamente medievale: per la tradizione italiana vd. comunque almeno DANTE, Vita Nova, I,
21-24: A ciascun‟alma presa e gentil core e Rime, Voi che savete ragionar d‟amore, vv. 2-4;
D. FRESCOBALDI, Voi che piangete nello stato amaro, vv. 55-58; F. PETRARCA, Rvf, 23, vv.
72-74 e 228, vv. 1-2; G. BOCCACCIO, Decameron, IV, 1.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 81
necessario, onde evitare altre contese fra greci e frigi. Nel racconto mi
pare ancora efficace la nuova rifunzionalizzazione dell‟immagine del-
la fiaccola ai vv. 2403-05, applicata qui però non a Paride (cui pure
Dolce evidentemente allude), bensì a Polidoro:
POLINNESTO
Io vinto da una femina cattiva
A peggiori di me son fatto esempio.
AGAMENNONE
Meritamente, havendo fatto il male.
POLINNESTO
Piango ah misero, i figli e gli occhi miei.
HECUBA
Duolti? E non pensi, ch‟a me dolga il figlio?
POLINNESTO
Tu t‟allegri crudel d‟havermi ucciso?
HECUBA
Non mi debbo allegrar di tal vendetta?
POLINNESTO
Non così forse alhor, che ‟l mar e l‟onde.
82 Venezia in coturno
HECUBA
Non sarò io condotta a i liti Greci?
POLINNESTO
Il mar ti coprirà, d‟alto cadendo.
HECUBA
Io non posso cader, se non ascendo.
POLINNESTO
La rabbia ti farà, voglia o non voglia.
HECUBA
Io non intendo quel, che mi minacci.
POLINNESTO
Forsennata latrar conversa in Cane.
HECUBA
Chi rivelato t‟ha questi secreti?
POLINNESTO
Uno indovin; cui molta fede io porgo.
HECUBA
E di questo tuo mal nulla predisse?
POLINNESTO
La fraude tua non m‟haverebbe aggiunto.
HECUBA
Morrò nel mar, o vi fia posta morta?
POLINNESTO
Morta: ma ben havrai sepolcro e nome.
HECUBA
Nome da la mutata mia persona?
POLINNESTO
Di Can sepolcro; a marinari segno.
HECUBA
Sia pur: poi, che di te preso ho vendetta.
POLINNESTO
Conven, che moia ancor la tua Cassandra.
HECUBA
Questo annuntio ritorni nel tuo capo.
POLINNESTO
L‟aspra di costui moglie uccideralla.
HECUBA
Già non fec‟io così de la cognata.
POLINNESTO
Occiderà anco lui miseramente.
HECUBA
Ragiona del tuo mal, che t‟è davanti.
AGAMENNONE
Costui ne sente molto e cerca peggio.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 83
POLINNESTO
Occidi me. Tu sara‟ occiso in Argo.
AGAMENNONE
Levatemi di quà quest‟huom bestiale.
POLINNESTO
Ti par la morte a udir terribil cosa.
AGAMENNONE
Chiudeteli la bocca; e via ‟l menate.
POLINNESTO
Chiudete. Quel, ch‟è detto, è suto detto.
AGAMENNONE
Fate voi ciò, quanto si pò più tosto. (vv. 2534-69)
CORO CHORUS
Ite Donne infelici, Ite ad portus agite et Graium
Ite al porto; e tornate Ad tentoria tendite saeva,
A le lasciate tende, Experturae posthac sortis
De‟ nostri alti nimici. Aerumnas servilis acerbas.
Ivi meste aspettate Nam sic urget nescia flecti et
Pene fiere et horrende Cogit dira necessitas. (vv. 1371-76)
Di servitù; che ci consuma e strugge,
Come neve talhor raggio di Sole;
Così comanda e vuole
Dura necessità, che mal si fugge.
(vv. 2581-90)67
66
Per il destino di Ecuba cfr. anche OVIDIO, Metamorfosi, XIII, vv. 558-575 e relativa se-
zione delle Trasformationi (XXVI, 24-26, p. 267) del Dolce. Ma soprattutto cfr. Inferno,
XXX, vv. 16-21.
67
Da registrare è ancora la significativa mediazione petrarchesca, almeno per il topos del-
la neve al sole: cfr. Rvf, 23, v. 115: «né già mai neve sotto al sol disparve»; 30, v. 21: «che mi
struggon così come ‟l sol neve»; 73, vv. 14-15: «anzi mi struggo al suon de le parole,/pur
com‟io fusse un huom di ghiaccio al sole». La dittologia consuma e strugge di v. 2587 ha an-
cora legalità petrarchesca: cfr. Rvf, 72, v. 39. È anche ripresa, tra gli altri, da A. POLIZIANO,
Stanze, I, 57, v. 3.
84 Venezia in coturno
2. Thyeste68
Egli si vede non rade volte avenire, nobilissimo M. Giacomo, che o per dif-
fetto della natura, liberale a pochissimi delle sue grazie, o di altro impedi-
mento che sia in noi, molti uomini prudenti et in qualche studio di lettere e-
sercitati, non possono i loro concetti, sì come essi gli hanno nell‟intelletto,
così di fuori con la lingua perfettamente esprimere. La qual cosa sì come è
compassionevole, così veramente è degna di scusa. Ma coloro i quali, da folle
licenzia mossi, hanno ardimento di mandare agli inchiostri le cogitazioni lo-
ro, senza saperle né disporre, né ornare, né con qualche piacevolezza dilettare
l‟animo di chi legge, sono sempre stati e debbono meritamente esser ripresi.
Il che se è difficile (che nel vero esser si vede), molto più è da credere che
difficile cosa sia lo esprimere o con parole o con inchiostri i concetti d‟altrui,
di maniera che non si offenda né l‟intelletto di chi legge, né le orecchie di chi
gli ascolta: perciò che fa di mestiero che noi quasi un‟altra lingua e quasi (se
far si può) un‟altra natura prendiamo. Non è adunque di sì poca importanza,
come alcuni istimano, l‟officio di tradurre un libro d‟una lingua in un‟altra, in
modo che si possa comportevolmente leggere. Percioché oltre che ogni lingua
ha certe particolarità che recata in un‟altra in gran parte le perde, aviene an-
cora che molte cose ci si vengono dette altrimenti di quello per aventura che
furono intese dal loro autore. Onde fa di bisogno che l‟interprete sia non pure
intendentissimo et accompagnato da un buono e perfetto giudicio, ma ornato
ed eloquente nel dire. Le quai cose trovandosi insieme aggiunte, non è dubbio
che a nostri dì non si potesse nella nostra lingua volgare rappresentar la can-
didezza e bellezza delle prose di Cicerone, e la maestà ed eleganza contenute
nei versi di Virgilio. Percioché i soggetti, o bene o male che si trasportino,
68
L. DOLCE, Thyeste. Tragedia, tratta da Seneca, Venezia, Gabriele Giolito de‟ Ferrari,
1543. Si è tenuto conto delle edizioni del 1547, del 1560 e specialmente del 1566. Ci permet-
tiamo, per ragioni di comodità, di citare il testo dalla nostra recente edizione: vd. L. DOLCE,
Tieste, a c. di S. GIAZZON, Torino, RES, 2010. Per una breve analisi cfr.ancora S. GIAZZON, Il
Thyeste (1543) di Lodovico Dolce, in La letteratura italiana a Congresso. Bilanci e prospet-
tive del decennale (1996-2006), a c. di R. CAVALLUZZI, W. DE NUNZIO, G. DISTASO, P. GUA-
RAGNELLA, Lecce, Pensa Multimedia, 2008, tomo II, pp. 325-333. Thyeste è il titolo delle pri-
me due edizioni. Poi Dolce regolarizza in Thieste.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 85
pure in gran parte sono compresi, ma i colori e le figure del dire e le grandez-
ze e purità degli stili del tutto si perdono, se da maestro e giudicioso ingegno
non vengono conosciuti e distesi. Questo, più che altri che si veggano a que-
sta età, avete fatto voi: il quale intendentissimo delle bellezze dei latini e vol-
gari componimenti, quelle così leggiadramente nella volgar lingua rapportate,
che per aventura il nostro mirabile Messer Tiziano (a cui solo la Natura è sta-
ta cortese di questo dono) non fece giamai ritratto che più la imagine del vero
e del vivo rappresentasse. E se non che V. S. è non meno virtuosa che mode-
sta, addurrei in questo il testimonio della orazione di Demostene, da lei così
felicemente tradotta. Per queste cagioni adunque ho voluto appagare il desi-
derio, ch‟era in me, di mandare a V. S. la presente tragedia di Seneca, acciò
che ella giudichi se alcuna parte è in lei che meriti d‟esser letta; quanto di bel-
lo per voi le si potrebbe aggiungere, qualunque volta vi degnate di limarla col
purgatissimo giudicio vostro. A V. S. inchinevolmente mi raccomando, in-
sieme con i suoi magnifici ed onoratissimi fratelli.
Di Padova,
il Primo di Agosto, MDXXXXIII
69
Dove si noterà la centralità delle categorie retoriche classiche di dispositio, ornatus, de-
lectare.
86 Venezia in coturno
70
Qualcosa di simile scriveva Pazzi de‟ Medici nella Prefatione alla Dido in Carthagine,
sostenendo la maggiore difficoltà della traduzione perché con essa il poeta si mette in gioco
rispetto a un testo di partenza che tutti conoscono e cui tutti possono accedere per compiere
confronti; cosa, questa, interdetta nel caso di un testo di pura invenzione, la cui autenticità o
meno risiede tutta, e solo, nell‟elaborazione concettuale dell‟autore, giocoforza non verificabi-
le, e nella successiva traduzione retorico-stilistica della medesima. Cfr. A. PAZZI DE‟ MEDICI,
Le tragedie metriche, a cura di A. SOLERTI, Bologna, Romagnoli dall‟Acqua, 1887, pp. 43-53.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 87
71
Secondo la più scoperta vulgata bembiana, Cicerone e Virgilio vengono qui convocati
per indicare la dimensione di afàn utópico che caratterizza organicamente la pratica tradutto-
ria.
72
Molto simili mi sembrano alcune considerazioni di Lodovico Castelvetro su questi stes-
si problemi nella Lettera del Traslatare.
88 Venezia in coturno
73
Vd. G. BENZONI, Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere nell‟Italia della Con-
troriforma e barocca, Milano, Feltrinelli, 1978.
74
S. FAUSTO DA LONGIANO, Dialogo del Fausto da Longiano del modo de lo tradurre
d‟una in altra lingua segondo le regole mostrate da Cicerone, a c. di B. GUTHMÜLLER, in
«Quaderni Veneti», 12, 1990, pp. 57-152.
75
Modello unico di riferimento, rispetto alla pluralità delle fonti che parlano in Hecuba, è
qui Seneca.
76
F. PETRARCA, Rvf, 125, per il primo e il terzo coro; Rvf, 29 per il secondo.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 89
TANTALO TANTALVS
Qual mi toglie furor? Qual empia forza Quis me furor nunc sede ab infausta ab-
Dal cieco regno de l‟eterno pianto? strahit,
Dove per doppio mal di tempo in tempo Auido fugaces ore captantem cibos?
Il desiato frutto e l‟acqua chiara Quis male deorum Tantalo uiuas domos
Da le mie labbra s‟allontana e fugge? Ostendit iterum? Peius inuentum est siti
Qual Dio, per crescer doglia al mio tor- Arente in undis, aliquid et peius fame
mento, Hiante semper. Sisyphi nunquid lapis
Di novo a riveder Tantalo adduce Gestandus humeris lubricus nostris ve-
I lieti alberghi de la gente viva? nit?
Deh, puossi qui trovar pena maggiore Aut membra celeri differens cursu rota?
Ch‟arder sempre nel cor di fame e sete? Aut poena Tityi semper accrescens ie-
Debbo forse portar sopra le spalle cur?
Il grave sasso ond‟è Sisifo iniquo Vulneribus atras pascit effossis aves,
In un medesmo tempo oppresso e stan- Et nocte reparans, quidquid admisit die,
co? Plenum recenti pabulum monstro iacet.
O por le membra a la dolente rota In quod malum transcribor? O quisquis
Che sempre volge tra gli acuti denti noua
Di fiere serpi, che gli stan d‟intorno, Supplicia functis durus umbrarum arbi-
L‟empio Isione in un veloce giro? ter
Debbo, sì come Tizio, eternamente Disponis, adde siquid ad poenas potes.
Pascer del cuor, ch‟a lui sempre rinasce, Quod ipse custos carceris diri horreat.
Il sanguinoso et affamato augello? Quod maestus Acheron paueat ad cuius
A qual mandato son nel mondo scem- metum
pio? Nos quoque tremamus, quare iam nostra
Se quel non basta ch‟io patisco ognora, subit,
O tu de l‟alme sciolte acerbo e fiero E stirpe turba, quae suum uincat genus,
Giudice, qual ti sei, ch‟a noi comparti Ac me innocentem faciat, et inausa au-
Uguali ai falli uman supplìci degni; deat?
Se aggiunger si pò male al mal ch‟io Regione quidquid impia cessat loci
sento, Complebo, nunquam stante Pelopeia
Giungilo: acciò, che tremi ne l‟inferno domo
Cerbero, che tremar tutto l‟abisso Minos uacabit. (vv. 1-23a) 77
Fa, mentre aprendo l‟orgogliose bocche
Di spaventosi gridi ingombra Averno.
77
Si cita sempre, quando non sia diversamente indicato, da Senecae Tragoediae, Giunti,
Firenze, 1513. La numerazione è ovviamente mia, riscontrata con l‟edizione critica oxonien-
se: L. ANNAEI SENECAE, Tragoediae. Incertorum auctorum Hercules [Oetaeus] Octavia, a c.
di O. ZWIERLEIN, Oxford University Press, Oxford, 1986.
90 Venezia in coturno
Inferno, IV, 13
Or discendiam qua giù nel cieco mondo
Inferno, IX, 44
de la regina de l‟etterno pianto.
Inferno, XXXIV, 61
Quell‟anima là su c‟ha maggior pena
Inferno, XXIX, 67
Qual sovra ‟l ventre e qual sovra le spalle
Inferno, X, 85
Ond‟io a lui: – Lo strazio e ‟l grande scempio
Purgatorio, XII, 55
Mostrava la ruina e ‟l crudo scempio
78
Per tutta la tessera dei peccatori avernali (Sisifo, Titio, Issione, Tantalo), Dolce ha uti-
lizzato come filtro la canzone grave Ben era assai, fanciul crudo e spietato di Bernardo Tasso
(= Rime, I, 22). Si vd. anche OVIDIO, Metamorfosi, IV, vv. 455-463 e L. DOLCE, Le Trasfor-
mationi, IX, 47-48.
79
La scioltezza della scrittura coturnata del Dolce è indiscutibile, quali che siano poi i rea-
li valori poetici della stessa. Assolutamente da non trascurare il sicuro influsso della scrittura
tragica speroniana per questi aspetti. Basti dire che solo il modello dell‟accademico patavino
poteva giustificare un uso così largo del settenario e della rima (in sostanziale contrasto sia col
modello trissiniano, sia con quello proposto da Giraldi).
80
Sul Manierismo in generale e/o come categoria letteraria rinvio ancora ai classici G. R.
HOCKE, Il manierismo nella letteratura, Milano, Il Saggiatore, 1965; T. KLANICZAY, La crisi
del Rinascimento e il Manierismo, Roma, Bulzoni, 1973; A. QUONDAM (a c. di), Problemi del
Manierismo, Napoli, Guida Editore, 1975. Sullo specifico teatrale cfr. M. ARIANI, Tra Classi-
cismo e Manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 93
MEGERA
Moviti crudel ombra,
Et i crudel palazzi
Empi di furia e di veneno acerbo!
Fa‟ che li duo fratelli,
A te nipoti degni,
Tingan nel sangue lor gli acuti ferri.
L‟ira mortal ogni termine avanzi.
Né la consumi il tempo,
Anzi prenda vigore:
Et al vecchio peccato nasca il nuovo,
E succeda vendetta a la vendetta,
Né senta alcun di loro
Ora dolce e tranquilla.
Siano da‟ Regni lor cacciati e spinti;
E l‟uno e l‟altro se ne vada errando
Per disusati luoghi, ermi e selvaggi.
Fia meschino il possente,
E possente il meschino.
E mentre or regi, ora di ospizio privi,
Non cessaran di far opre a crudeli
Crudeli e scelerate,
In odio di ciascuno
Tanto gli vegga il mondo,
Quanto odieran se stessi:
Il che fia senza fine.
Il fratello il fratello
Scacci, paventi e fugga.
Et il figliuolo il padre.
Gli innocenti fanciul vadan sotterra;
La moglie il suo consorte,
Altra conduca a morte
Arsa d‟incesto amore,
Altra il suo lasci, e segua
Pastor barbaro e vile;
Onde ne nasca poi
Lungo tempo battaglia
In straniere contrade e pellegrine.
Tra lor fia sempre guerra
E sia del sangue uman rossa la terra.
E perché ciò non basta
Mora ogni fede, ogni giustizia umana;
Né da cotanti mali
Si vegga intatto il cielo,
94 Venezia in coturno
81
Anche qui si sovrappone una pletora di fonti. La matrice può essere ancora petrarchesca
(Rvf, 176, v. 1: «Per mezz‟i boschi inhospiti e selvaggi»), ma il conio è al postutto ariostesco:
Orlando furioso, I, 33, vv. 1-2: «Fugge tra selve spaventose e scure,/per lochi inabitati ermi e
selvaggi»
96 Venezia in coturno
TANTALO TANTALVS
Lasciami ritornar giù ne l‟inferno Ad stagna, et amnes, et recedentes aquas
A cercar l‟acqua indarno e i frutti vaghi, Labrisque ab ipsis arboris plenae fugas,
Onde sempre patisco e fame e sete. Abire in atrum carceris liceat mei
E se par che minor la pena sia Cubile liceat (si parum uideor miser)
82
Cfr. ancora, specialmente per i vv. 71-77, una possibile eco petrarchesca da Rvf, 128,
vv. 17-22 e 49-51: «Voi cui Fortuna à posto in mano il freno/de le belle contrade,/di che nulla
pietà par che vi stringa,/che fan qui tante pellegrine spade?/perché ‟l verde terreno/del barba-
rico sangue si depinga?/[…]/Cesare taccio, che per ogni piaggia/fece l‟erbe sanguigne/di lor
vene».
83
Già in Hecuba, v. 2250, Medea (addirittura al plurale: Medee) era stata convocata dal
Dolce come topica ipostasi del furor bestiale contro natura.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 97
Di quel ch‟io merto, a me si cangi loco. Mutare ripas. Alueo medius tuo
Faccia l‟orrido re ch‟ardente letto Phlegeton relinquar, igneo cinctus freto.
Mi presti Flegetonte e queste membra Quicunque poenas lege fatorum datus
Ardano sempre con cocenti fiamme. Pati iuberis, quisquis exeso iaces
O tu, cui pende sopra ‟l capo il ferro Pauidus sub antro. Quisquis uenturi ti-
Ritenuto con molle e sottil filo, mes
Tu, che del monte la ruina temi, Montis ruinam. Quisquis auidorum feros
E voi, che ‟n mille e ‟n mille pene sete Rictus leonum, et dira furiarum agmina
Giù ne l‟eterno carcere dannati, Implicitus horres, quisquis immissas fa-
Statevi allegri de‟ tormenti vostri, ces
Ch‟a me pena è maggior l‟esser tra vivi, Semiustus abigis, Tantali uocem excipe
E parmi grazia ch‟io ritorni a voi. (vv. Properantis ad uos, credite experto mihi:
129-144) Amate poenas. Quando continget mihi
Effugere superos? (vv. 68-83a)
Inferno, XII, v. 73
Dintorno al fosso vanno a mille a mille
Inferno, XXX, v. 58
O voi che sanz‟alcuna pena siete
Purgatorio, I, v. 41
fuggita avete la pregione etterna?
84
Cfr. CICERONE, Tusculanae disputationes, V, 21,61-62. Dolce, con la scelta di Damo-
cle, dimostra di aver perfettamente colto la dimensione intertestuale e combinatoria della
scrittura tragica senecana andando oltre la lettera del Thyestes stesso e individuandone anche
alcuni nuclei strutturali profondi e vitali (la mensa come metafora del potere, la sua precarietà,
la violenza del potere assoluto del tiranno, il tragico della condizione umana…). Da notare poi
l‟analoga dinamica che lega, pur in contesti diversissimi, Damocle e Tantalo: come il primo
vuole andarsene dal ricchissimo palazzo di Dionisio dopo avere sperimentato il terrore della
continua minaccia della morte (= spada appesa sul suo capo), così Tantalo non ne vuole sape-
re di indugiare ancora nelle uiuas/uisas domos e preferisce il ritorno nell‟Ade, una volta che
ha compreso il motivo reale (la contaminazione della propria stirpe) della sua temporanea a-
scensione.
98 Venezia in coturno
MEGERA
Or entra, ch‟io ti seguo.
Così l‟un l‟altro s‟odî,
E l‟un l‟altro mai sempre
Sia del suo sangue istesso
Sitibondo et avaro.
Il palazzo ha sentita
La tua venuta grave,
Che subito tremor lo preme e scuote.
Or basti questo: riedi
Ai bassi regni ombrosi
E al tuo solito fonte,
Che tanto peso omai
Non può portar la terra:
Seccansi l‟acque e gli arboscelli e l‟erbe.
(vv . 175-188)87
85
P. BEMBO, Prose della volgar lingua-Gli Asolani-Rime, a c. di C. DIONISOTTI, Torino,
Utet, 1966, p. 360.
86
È contrappasso (già senecano) che il peccatore letteralmente divorato da sete e fame sia
anche siccus e provochi inaridimento della terra sulla quale ha appena sparso il suo funesto
contagio.
87
Sarà da notare in questa microsequenza la lodevole varietas nell‟assetto prosodico dei
versi come specimen di correnti strategie del Dolce: i settenari 177, 179, 180 e 185 hanno ac-
centi di 3^, spostato in avanti rispetto agli altri versi eptasillabici (che hanno più usuali accenti
Le tragedie di Lodovico Dolce II 99
MEGERA MEGAERA
Il mar gonfio, d‟intorno Et qui fluctibus
Risuona a molte miglia; Illinc propinquis Isthmos, atque illinc
Tornano i fiumi a le lor proprie fonti; fremit,
Fuggon gli uccelli e gli animai selvaggi Vicina gracili diuidens terra uada,
E ‟l cielo adombra oscuro orrido velo.88 Longe remotos latus exaudit sonos.
Febo sta in dubbio se ‟l camino usato Iam Lerna retrocessit, et Phoronides
Deve seguir o ritornar a dietro. Latuere uena, nec suas profert sacras
E io, ch‟altrui spavento, Alpheus undas, et Cithaeronis iuga
Sento tema e paura. (vv. 189-197) Stant parte nulla cana deposita niue,
Timentque ueterem nobiles Argi sitim.
En ipse Titan dubitat, an iubeat sequi,
Cogatque habenis ire periturum diem.
(vv. 111-21)
di 2^ e 4^). L‟ultimo verso sembra essere modulazione di DANTE, Purgatorio, XXVII, v. 134:
«vedi l‟erbette, i fiori e li arbuscelli». Vd. anche L. ARIOSTO, Orlando furioso, XII, 72, v. 3 e
B. TASSO, Rime, I, 58, v. 31.
88
Si noti il sorprendente prelievo da B. TASSO, Salmi, 9, v. 12, in punta di verso: «oscuro
orrido verno». Si ricorderà di questo verso del padre, mediato dal Dolce, T. TASSO in Gerusa-
lemme liberata, XII, 15, v. 1: «Ma già distendon l‟ombre orrido velo».
89
Con schema [abC.abC.cdeeD.ff] (= Rvf, 125). Locus criticus inemendabile e trasmesso
da tutti e quattro i testimoni a stampa è la penultima stanza: presenta una sirma espansa con
l‟aggiunta dei vv. 248-250, metricamente non pertinenti, e combinatio finale [xX] e non [xx].
90
Saranno sempre da notare, tra i fatti stilistici e retorici che più importano, la cospicua
semplificazione del complesso catalogo geografico dei primi versi (riassunti di fatto efficace-
mente al v. 200); i trikola ai vv. 201-202 e v. 205; le molte dittologie, tutte o quasi di legalità
dantesca e/o petrarchesca (almeno vv. 214, 215, 216, 226, 240, 245, 249, le epifrasi di vv.
231, 241); le moltissime parole-rima di origine dantesca.
100 Venezia in coturno
91
Va detto subito che Dolce usa una microsequenza lirica che viene abitualmente impie-
gata per parlare della terribilità delle pene d‟amore e della sofferenza cagionata dalla gelosia.
Citiamo, a riscontro, anche due testimoni quattrocenteschi, fra i tanti che sarebbero da allega-
re: LORENZO DE‟ MEDICI, Rime, 90, v. 11: «del cor che, come suo, consuma e rode» e B. CA-
RITEO, Rime, sonetto 134, v. 12 (ed. Pèrcopo): «Quest‟è ‟l pensier che sempre il cor mi rode».
Anche Petrarca indulge all‟uso di analoga tessera: vd. Rvf, 103, v. 7; 356, v. 8; 360, vv. 69-70.
102 Venezia in coturno
ATREO ATREVS
Ben è l‟animo tuo timido e vile Ignaue, iners, eneruis (et quod maxi-
Che dopo tante e così gravi offese mum
Del tuo iniquo fratel (se pur fratello Probrum tyranno rebus in summis reor),
Chiamar si dee chi t‟è nemico espresso) Inulte, post tot scelera, post fratris do-
Tra feminil lamenti indegni e vani los.
L‟ira consumi e ‟l giusto sdegno involvi. Fasque omne ruptum, questibus uanis
E quel, di cui non è biasmo maggiore agis
A ciascun ch‟ha d‟altrui corona e scettro, Iras, et Argos fremere iam totum tuis
Ancor puoi dimorar senza vendetta. Debebat armis, omnis et geminum mare
Ah, non dovrebbe Argo e Micena omai Innare classis, iam tuis flambi agros
Per tutto risonar d‟arme e di genti? Lucere, et urbes decuit, ac strictum un-
Non dovrebbe oggimai l‟un mare e l‟altro dique
Esser tutto ripien d‟armati legni? Micare ferrum, tota sub nostro sonet
Già di fiamme devrian splender d‟intorno Argolico tellus equite. non siluae tegant
Gli aperti campi e le città murate, Hostem, nec altis montium structae
E fulminar per ogni parte il ferro. iugis
Or dunque renda in spaventoso suono Arces relictis bellicum totus canat
Tutto il greco terren strepito d‟arme; Populus Mycenis, quisquis inuisum ca-
Et al rumor de‟ corni e al suon di trombe put
Ogni buon cavallier s‟armi a battaglia. Tegit, ac tuetur, clade funesta occidat.
E qual nel mondo fia principe o rege Haec ipsa pollens inclyti Pelopis domus
Ch‟osi occultar il mio nemico fiero Ruat uel in me, dummodo in fratre ruat.
Senta l‟alto poter de la mia mano. Age anime, fac quod nulla posteritas
E se ‟l giusto desio mi fia impedito probet,
Da fortuna o dal ciel, caggia e ruini Sed nulla taceat. aliquod audendum est
L‟alta casa real sovra il mio capo, nefas
Pur che con la mia morte parimente Atrox, cruentum, tale quod frater meus
L‟odiato mio fratel spenga di vita. Suum esse malit. scelera non ulcisceris,
Ma ciò poco sarebbe a tanto fallo Nisi uincis, et quod esse tam saeuum
E d‟altri, e non di me, bassa vendetta. potest
Le tragedie di Lodovico Dolce II 103
Facciano queste man cosa sì nuova Quod superet illum? nunquid abiectus
Che nulla etade la commende o lodi, iacet?
Né secolo futur la taccia mai. Nunquid secundis patitur in rebus mod-
Opra bisogna ordir cruda e spietata, um?
Animo vile, e sanguinosa, e fiera Fessis quietem? Noui ego ingenium viri
Tanto, ch‟al mio fratel dolga esser nato; Indocile, flecti non potest, frangi potest.
Che, se di crudeltà no ‟l lascio a dietro, Proinde antequam se firmet, aut uires
Già la vendetta mia non fia vendetta. paret,
Ma qual fia sì crudel che vinca lui? Petatur ultro, ne quiescentem petat.
Pensi che per vedersi esule e privo Aut perdet, aut peribit, in medio est sce-
Di corona e di scettro, ch‟ei non merta, lus
Abbia diposto giù l‟animo altero? Positum occupanti. (vv. 176-204a)
Ne le felicità non seppe mai
Modo trovar, e la Fortuna avversa
Non pò acquetar quell‟orgogliosa mente.
Ei non si pò piegar, ma romper puossi,
Come verga talor nodosa e secca.
Però, pria che si fermi o prenda forza,
Buon consiglio mi par d‟offender lui,
Avanti che ‟l crudel me stesso offenda,
Benché a l‟offese sue non resta loco.
Senta egli il mio furor! La somma è tale
Ch‟ei perir deve od io per le sue mani.
L‟opera scelerata è posta in mezzo:
E sarà di chi pria l‟occupa e prende. (vv.
266-320)
92
E a nulla servirà il fatto che Tieste si presenti con vesti lacere e sporchi capelli, in con-
dizioni spinte di mendicità: Atreo continua ad avvertirlo come una minaccia e perciò decide di
attivare i meccanismi della sua vendetta che è, si badi bene, largamente preventiva (oltre che
punitiva).
104 Venezia in coturno
ATREO ATREVS
Se pietà s‟annida Excede pietas, si modo in nostra domo
Dentro il palazzo mio, subito sgombri. Unquam fuisti. dira furiarum cohors,
Vengan le infernal Furie ad abitarvi, Discorsque Erynnis ueniant, et geminas
93
Una scena strutturalmente e attanzialmente molto simile si trova in Orbecche, III, 2,
dove Malecche cerca di dissuadere Sulmone dal compiere vendetta contro la figlia.
94
Un discreto repertorio di figurae dell‟adiectio e amplificatio, del quale è financo oziosa
una compiuta registrazione, caratterizza anche questa sequenza d‟atto. A puro titolo informa-
tivo, registriamo almeno la presenza delle consuete dittologie, sinonimiche e non (vd. vv. 266,
270, 290, 297, 299, 300, 312, 320, 321, 352), qualche polittoto, qua e là dei chiasmi, una dia-
fora al v. 303 (su vendetta), anafore, le solite geminationes e redditiones.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 105
Vistoso qui l‟effetto allitterante, con in più l‟uso di una tipica paro-
la aspra in punta di verso,96 nel tentativo di conseguire qualche tratto
di gravitas.
Sempre procedendo per specimina, mi pare di non scontata effica-
cia il v. 411, ricostruito sull‟originale v. 257 mediante la frantumazio-
ne ad antilabài dell‟endecasillabo, con aggiunta di una rima interna e
ripetizione del gruppo [-co-] a risarcire ancora sul versante dei signifi-
canti ciò che si perde su quello dei significati, o meglio, a riprodurre
in volgare alcuni procedimenti già senecani:
CONSIGLIERE SERVUS
Non basta il ferro? Ferrum?
95
Vd. anche OVIDIO, Metamorphoses, IV, vv. 449-456 cui assai significativamente segue
l‟inserimento della prima topica tessera dei peccatori avernali (Tizio, Tantalo, Sisifo, Issione,
le Danaidi). Vd. anche L. DOLCE, Le Trasformationi, IX, 46.
96
Cfr. almeno F. PETRARCA, Rvf, 70, vv. 29-30 e 206, v. 30.
106 Venezia in coturno
ATREO ATREVS
È poco. Parum est.
CONSIGLIERE SERVUS
Il foco? Quid ignis?
ATREO ATREVS
Ancora. Etiam nunc pa-
[rum est.
ATREO ATREVS
Sento nel petto un agghiacciante vermo Fateor: tumultus pectora attonitus qua-
Che d‟ogn‟intorno lo consuma e rode. tit,
Sento, sento tirarmi, e non so dove; Penitusque uoluit. rapior, et quo nescio,
E pur sento tirarmi. Aspri mugiti Sed rapior, imo mugit e fundo solum.
Rende la terra e l‟alto mio palazzo Tonat dies serenus, ac totis domus
Trema, come ruina il tutto mova. Vt fracta tectis crepuit, et moti lares
Sarà, sarà quel che temete, o Dei! Vertere uultum, fiat hoc, fiat nefas
(vv. 416-422) Quod dii timetis. (vv. 260-266a)
97
Su cui cfr. P. PASIANI, Attonitus nelle tragedie di Seneca, in A. TRAINA (a c. di), Sene-
ca. Letture critiche, Milano, Mursia, 1976, pp. 194-207.
98
Vd. Inferno, XXIX, v. 61: «che li animali, infino al picciol vermo». Non si dimentichi
che Lucifero viene definito vermo reo (Inferno, XXXIV, v. 108). Inoltre per una più comples-
sa immagine vd. Purgatorio, X, vv. 121-129. Già ai tempi di Dante questa desinenza in [-o]
poteva essere riguardata come tratto morfologico arcaizzante: il preciso recupero del Dolce è
certamente un indizio non trascurabile dell‟esigenza di dare alla pagina tragica un colore di
gravitas dantesca, l‟unica autenticamente disponibile in ambito romanzo.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 107
99
Su cui cfr. il giudizio di P. BEMBO, Prose della volgar lingua, II, 17, p. 168: «E per dire
ancora di questo medesimo acquisto di gravità più innanzi, dico che come che egli [Petrarca
scil.] adoperi e nelle prose e nelle altre parti del verso, pure egli molto più adopera e può nelle
rime; le quali maravigliosa gravità accrescono al poema, quando hanno la prima sillaba di più
consonanti ripiena, come hanno in questi versi: Mentre che ‟l cor dagli amorosi vermi».
108 Venezia in coturno
ATREO
Io non so ben ancor. Ma guardo e cerco
Sorte di nuovo mal tanta e sì fiera
Che tal non fero Antropofagi o Sciti.
Le mense di Tereo furon crudeli,
Confesso; e questo è già peccato antico.
Brama lo sdegno mio pena maggiore,
Cui simile giamai passata etade
Vista non abbia, né futura ascolti.
Insegnami tu, padre, e meco insieme
Movi la mano a l‟onorata impresa
E l‟animosa tua mente m‟inspiri.
Or qual esser può al fin cosa più grave
Che far ch‟ei mangi i suoi figliuoli istessi?
Questo fia assai, né si può gir più avanti.
Ponga dunque il crudel, non s‟accorgendo,
Ponga nel ventre suo le proprie carni.
Ma perché tanto tempo ingiusto e vile
Ho diferito far cosa sì degna? (vv. 424-441)100
100
I vv. 437-38 paiono un poco perissologici: ribadiscono quanto detto nei tre precedenti
versi e pongono la questione (superflua) dell‟incoscienza di Tieste rispetto al nefas di cui è, a
tutti gli effetti, principale strumento esecutivo. Tra gli altri elementi degni di nota vd. l‟uso
della coppia Antropofagi o Sciti (v. 426), a connotare crudeltà smisurata, prelevata essenzial-
mente dal perimetro romanzesco: cfr. L. ARIOSTO, Orlando furioso, XXXVI, 8-9. Altro dato
interessante è la nuova decodificazione esplicativa di Seneca che parla di infandas do-
mus/Odrysia mensas (vv. 272-273) e cita poi la Daulis (la regione nella quale si è svolta la
cupa vicenda di Progne, Iti, Filomela e Tereo, con risvolti cannibaleschi): Dolce ritiene oppor-
tuno ridurre questi esornativi e preziosi riferimenti al semplice mense di Tereo di v. 427 che
ha il pregio della sintetica efficacia.
101
Freudianamente saremmo tentati di dire che questo è un lapsus, del tutto superflua es-
sendo la precisazione fatta dal Consigliere/servus che, semmai, svela come – in un contesto ti-
rannico – sia solo la paura a determinare le azioni dei collaboratori del principe.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 109
102
Con schema [AbCDEFg].
103
Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi ha più propriamente schema [AbC(d3)EF(g5)Hi].
110 Venezia in coturno
TIESTE
Veggo de la mia patria amata e cara
I da me tanto desiati tetti.
Io veggo gli edifici alti e superbi,
Veggo le pompe e le ricchezze d‟Argo,
104
«Forse il più significativo non soltanto nell‟economia del Thyestes ma dell‟intero cor-
pus delle tragedie senecane», lo definisce R. MARINO, Osservazioni sul coro in Seneca tragi-
co: il Thyestes, in «Quaderni di Cultura e Tradizione Classica», X, 1992, p. 224Vd. R.
DEGL‟INNOCENTI PIERINI, „Aurea mediocritas‟. La morale oraziana nei cori delle tragedie di
Seneca, in «Quaderni di Cultura e Tradizione Classica», X, 1992, pp. 155-169 che mostra
quanto dietro a questo coro si percepiscano suggestioni oraziane, specie da Carmina, II.10.
105
L‟unico nome conservato è quello del fiume Tago. Sorprendente è poi la scelta di in-
trodurre nella settima stanza il riferimento ad Anteo, gigante figlio di Poseidone e Gea, ucciso
da Eracle, che è probabilmente prodotto di una qualche pressione interdiscorsiva e interna al
corpus delle tragedie senecane (vd. Hercules, 482 ss. e il secondo coro e Hercules Oetaeus,
24, 1788, 1899) e del personaggio dantesco (vd. Inferno, XXXI, 100 sgg.). Vd. inoltre OVI-
DIO, Metamorphoses, IX, vv. 183-184. Il secondo coro del Theystes ha molti elementi comuni
con il primo di Hercules furens, specialmente 159 ss., e con il primo di Agamemnon, ad indi-
care il valore tematico per così dire assoluto che queste questioni possiedono nell‟animus di
Seneca.
112 Venezia in coturno
106
Sempre abbastanza ricco lo spartito retorico: oltre alle molte dittologie, registriamo al-
meno il chiasmo al v. 614, il polittoto incrociato ai vv. 616-617 (porge~guardo), l‟eloquente
diafora di questo ai vv. 618-619 (con aggiunta del deittico quello), la rima al mezzo fratello-
quello ai vv. 618-619, e così via.
107
Si noti come a caratterizzare i luoghi nei quali Tieste vuol far ritorno sia mobilitata an-
cora una dittologia platealmente dantesca: aspri e selvaggi, da Inferno, I, v. 5.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 113
Certo non si può negare che vi sia qualche ambiguità nel personag-
gio:108 non del tutto risolto sembrerebbe il conflitto dialettico fra il
Tieste dolosus, adultero assetato di potere di un tempo, e il nuovo Tie-
ste, sapiens cinico-stoico. D‟altro canto la ratio, grazie alla quale è
stato possibile tollerare l‟esilio e liquidare le allettanti illecebre del po-
tere, si riappropria subito dell‟animus del personaggio, e non procra-
stinabile sembra essere per Tieste il ritorno alla vita nemorale, più au-
tentica e sicura: «Torna a dietro Tieste; a dietro torna!/Né ti fidar nel
don incerto e finto/Del tuo fratello e ti pentisca poi,/Allor che poco il
pentimento giova./Né povertade o esilio ti spaventi;/Gioviti d‟esser
misero e la vita/Apprezza, per la vita di costoro» (vv. 630-636).109
Nel rifacimento del Dolce, ciò che contraddistingue Filistene è il
fatto di essere – al di là della lettera senecana – ossessionato dal re-
gnum:
108
Perfettamente testimoniata dai successivi vv. 654-59: «Vorrei gir e non gir: e d‟una
parte,/Sì come vedi, il tardo pie‟ si move;/Da l‟altra il cuor contrario mi ritira./Così nave talor
diversi venti/Volgono a questa, ora a quell‟altra parte,/Contra la volontà del suo nocchiero».
Per la tessera, topicissima, della nave vd. in primis SENECA, Thyestes, vv. 438-439: «Sic con-
citatam remige, et uento ratem/Aestus resurgens remige, et uelo fert», ma certo ancora deter-
minante è il crivello romanzo (dantesco e petrarchesco): Inferno, V, v. 30: «che mugghia co-
me fa mar per tempesta/se da contrari venti è combattuto»; Rvf, 26, v. 2: «nave da l‟onde
combattuta e vinta»; 132, vv. 10-11: «Fra sì contrari venti in frale barca/mi trovo in alto mar
senza governo». Il motivo della nave come nucleo metaforico variamente declinato ha una
nobilissima tradizione classica (vd. almeno ALCEO, 64 D e ORAZIO, Carmina, I, 14 e II, 10) ed
ha una significativa consistenza anche nel corpus – tragico e no – di Seneca (cfr. Medea, vv.
939-42 e Agamemnon, vv. 138-140).
109
Corposa la redditio a specchio in apertura.
114 Venezia in coturno
[…]
Lasciar potrete il regno. (vv. 668-72a)
110
Anche Tieste, pur deresponsabilizzandosi, alla fine cede: «Io vi seguo figliuoli, e non
vi guido» (v. 733).
111
Così di fatto autorizzando a vederli come falsi oppositori.
112
Ecco un esempio di anticipazione esplicitante che toglie allusività e ambiguità al testo
primo: a quest‟altezza non si giustifica il riferimento alla paura per i figli, di cui il Tieste se-
necano parlerà più avanti. Questa è pertanto una precisa scelta del Dolce.
113
Retoricamente strutturatissimo: i due versi sono isocolici e presentano anafora di sen-
za, derivatio e polittoto paronomastico vivendo-vivere-vita, reduplicatio del pronome voi,
marcata allitterazione di [v].
Le tragedie di Lodovico Dolce II 115
curae che ineriscono all‟esercizio del potere e che suonano come risil-
labazione delle gnomiche argomentazioni del II coro:114
TIESTE
Credimi, figliuol mio, ch‟indegnamente
S‟apprezzano gli scettri e le corone,
E de le cose dure, umili e basse
Ci percuote e ci tien vana paura.
Mentre io sedea di questa altezza in cima,
Un sol giorno non fui senza sospetto.
Sempre temei che traditrice mano
Non mi togliesse in mezzo a‟ lieti giorni.
O quanto è sommo ben lasciar ch‟ognuno
A sua voglia si viva e umile in terra
Prender, lieto e tranquil, securo cibo.
Spesso a le regal mense, alte e sublimi,
Si beve dentro a l‟oro atro veneno.
Non teme picciol casa alta ruina.
E se pur non avrò di seta e d‟ostro
Ricchi e superbi letti, e ch‟a la sponda,
Mentre io chiudo le luci, altrui vegghiando
Mi faccia guardia a la paurosa vita;
S‟io non avrò di bianco avorio il tetto,
Le colonne di marmo e i travi d‟oro,
E mille servitor fallaci e ‟nfidi;
E ch‟ogni cosa, a chi s‟appressa intorno,
Spiri soave odor d‟Indi e Sabei,
Almen l‟animo avrò di tema sgombro.
Agevolmente si difende e serba
Picciolo albergo senza spada e lancia.
E sempre volentier benigno stanza
Dentro le basse case alto riposo.
Ed è gran regno a poter senza regno
Viver, tutti i suoi dì, vita tranquilla. (vv. 676-705)115
114
Come varie spie lessicali indicano inequivocabilmente.
115
I vari motivi qui proposti sono frequenti nel corpus tragico senecano: vd. almeno Her-
cules furens, vv. 159-201; Agamemnon, vv. 57-107; Phaedra, vv. 483-525; Hercules Oetaeus,
vv. 644-657. E hanno naturalmente molta consistenza anche nelle prose filosofiche e morali
dello scrittore. Dietro vi sono senza dubbio solide suggestioni oraziane: vd. per esempio Car-
mina, III, 29. La dittologia scettri e corone (v. 677) è prelievo da F. PETRARCA, Triumphus
Mortis, I, v. 83. La coppia Indi e Sabei (v. 698), topica per indicare il lusso, è probabile recu-
pero dall‟amicissimo P. ARETINO, Dialogo, II giornata: «che in bocca abbiate odor d‟Indi o
Sabei».
116 Venezia in coturno
ATREO ATREVS
Dentro le reti mie, tese d‟intorno, Plagis tenetur clausa dispositis fera.
Caduta è già la desiata preda Et ipsum, et una generis inuisi indolem
E col suo genitor l‟odiata stirpe. Iunctam parenti cerno, iam tuto in loco
Venuto è il giorno in cui sicuramente Versantur odia. uenit in nostras manus
Disfogar io potrò lo sdegno e l‟ira Tandem Thyestes, uenit et totus quidem.
Che sì forte mi preme ed ange il petto. Vix tempero animo, uix dolor frenos ca-
Ora è venuto ne le nostre mani pit.
Finalmente Tieste e la sua prole. Sic cum feras uestigat, et longo sagax
Temprar mi posso. A pena posso l‟ira Loro tenetur umber, ac presso uias
Frenar e riguardar l‟odiato aspetto Scrutatur ore, dum procul lento suem
Onde ho già tanti ricevuti oltraggi. Odore sentit, paret, et tacito locum
Così sagace can ne‟ boschi usato Rostro pererrat, praeda cum propior fuit
A fuggitiva fera dar la caccia, Ceruice tota pugnat, et gemitu uocat
Quando da sé lontan sente il cinghiale Dominum morantem, seque retinenti e-
116
Plateale è qui il rinvio a ORAZIO, Carmina, II.10, vv. 9-12, già recuperato da Seneca in
Agamemnon, vv. 92-96.
118 Venezia in coturno
ATREO
Fratel, quanto mi giova di vederti:
Per tenerezza mi si rompe il cuore
E la devuta carità fraterna
Ne l‟allegrezza a lagrimar m‟induce.
Or porgimi fratel, lascia ch‟io prenda
I desiati abbracciamenti cari,
Né si ricordin più passate offese.
Da qui inanzi l‟amor e la pietade
Sempre alberghi e dimori fra noi due,
E lontan se ne stian gli odi e li sdegni. (vv. 760-69)
117
Tieste e i figli non hanno assistito al secondo atto della tragedia e nulla sanno dei con-
tenuti dello stesso; lo spettatore/lettore è invece consapevole dei progetti (magari ancora par-
zialmente oscuri) di Atreo e riconosce nelle sue parole la maschera che egli ha deciso di in-
dossare.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 119
dente che, subito convinto dalle parole e dagli atti del fratello, fa nota-
re che la sua esistenza «non era più di viver degna» (v. 778), in singo-
lare contrasto con quanto sostenuto in precedenza.
Atreo invita Tieste e i nipoti ad abbracciarlo per sancire la piena ri-
conciliazione: la sequenza (vv. 788-810) è largamente amplificatoria
rispetto al modello e si configurano come autonoma innovazione iper-
testuale dolciana:
ATREO ATREVS
Non far fratello mio, ch‟io ciò non merto. A genibus manus
Ma con le braccia tue mi cingi il collo Aufer, meosque potius amplexus pete.
E insieme bacia me, com‟io te bacio. Vos quoque senum praesidia tot iuue-
Venite ancora voi nipoti cari: nes, meo
Sian benedette queste bocche e questi Pendete collo, squalidam uestem exue.
Occhi. Non sete voi del sangue mio? Oculisque nostris parce, et ornatus cape
Caro mio Filisten, mentre io ti veggo, Quales mei sunt, laetusque frater impe-
Veggo ne la tua faccia il padre tuo. rii
Questi son gli occhi suoi, questo è il suo Capesse partem, maior hoc laus est mea
volto; Fratri paternum reddere incolumi decus.
Questo il suo aspetto allor ch‟era fanciul- Habere regnum casus est, uirtus dare.
lo. (vv. 522b-29)
(Questi i capelli suoi ch‟assembran l‟oro
De quai più d‟una donna invidia n‟ebbe.
Ecco le rose e ‟l minio che solea
Dolcemente segnar le belle guance;
Ecco l‟avorio de le bianche carni.)118
Caro mio Filisten, un‟altra volta
Ti bacio, e mentre bacio questa bocca,
Bacio quella del padre. Or tu, fratello,
Spogliati questa vile indegna vesta,
E prendi il manto d‟oro, e prendi insieme
La corona e lo scettro: e tal t‟onori
La gente di Argo, qual me stesso onora.
E lasciando coi panni la tristezza
Aggiti la metà del Regno mio,
Però ch‟a me fia gloria a ritornare
Il paterno ornamento al mio fratello.
E sì come ventura i Regni porge,
Così è donarli altrui somma virtute.
118
I versi tra parentesi quadre sono presenti nella princeps del 1543 e nella ristampa del
1547; mancano nell‟edizione giolitina del 1560 e in quella del Farri del 1566.
120 Venezia in coturno
119
Per il ruolo decisivo che la deissi possiede nel testo teatrale cfr. M. DE MARINIS, Se-
miotica del teatro. L‟analisi testuale dello spettacolo, Milano, Bompiani, 1982 e K. ELAM,
Semiotica del teatro, Bologna, Il Mulino, 1988.
120
Si noti come la sequenza riveli, grazie alla semplice dialettica fra pronomi/aggettivi
prossimali (io, noi, mio, nostro) e distali (tu, tuo, te, suo, suoi, voi, vi, loro) l‟animus più au-
tentico di Atreo tra appropriazione dell‟oggetto coinvolto e suo distanziamento reale nel qua-
dro del progetto, a questa altezza non più revocabile in dubbio, di terrificante vendetta da
compiersi ai danni di Tieste. Vero e proprio snodo tematico il v. 793 («Non sete voi del san-
gue mio?») con rapidissimo passaggio prossimale/appropriativo che bene svela le autentiche
intenzioni di Atreo; poi i distali tua, tuo, suoi, suo, suo, suoi allontanano, sul piano emotivo e
psicologico, i nipoti dallo zio e focalizzano l‟attenzione su Tieste.
121
Vari i procedimenti mobilitati, dall‟allitterazione alla disseminazione alla consonanza
all‟assonanza alla riduzione timbrica: fratEllO-mErtO, FAR FRAtello, mio-ch‟io (rima inter-
na), fratello-collo, BrACCIA-BACIA (verticale), Venite-Voi, ancora-cari, Benedette-Bocche,
bOCCHe-OCCHi, Sete-Sangue, De quai più D‟uNa DoNNa iNviDia N‟ebbe, Ecco le rose e ‟l
minio che solea/Dolcemente segnar le belle guance, etc.
122
Cfr. APULEIO, Asinus aureus, IV.2: «rosarum mineus color renidebat».
123
Caro mio Filisten è integralmente ripreso a distanza di qualche verso; inoltre rileviamo
le anafore del presentativo ecco e del temporale mentre; poi, quella (addirittura triplice) del
verbo bacio nei versi conclusivi.
124
L‟insistenza – tutta e solo dolciana ovviamente – sull‟immagine del bacio non può non
rinviare sul piano simbolico alla scena evangelica del bacio di Giuda e ad una allusività com-
plessiva di significato cristologico.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 121
125
Per una descriptio puellae simile, ma in contesto romanzesco, vd. L. DOLCE, Dieci
canti di Sacripante, III, 17: «Era Selannio ben formato e bello/che trasse l‟elmo, et a nessun
s‟ascose/simile a l‟oro è ‟l biondo suo capello./S‟agguagliano le guance a latte, e a rose./Lun-
ghetto è ‟l viso, e pien di gratia: e in quello/Di dolce un non so che natura pose:/ch‟a qual si
voglia duro, et insensato/render lo potea sempre amico, e grato».
126
Sono versi che già Giovan Battista Giraldi Cinzio nel Giuditio sopra la tragedia di
Canace e Macareo, con molte utili considerationi circa l‟arte della tragedia e d‟altri poemi,
datato 1° luglio 1543 e pubblicato nel 1550 a Lucca da Busdrago, biasimava, ritenendoli del
tutto privi di decoro tragico. Dopo averli citati per esteso, Giraldi, fa dire al Fiorentino – uno
dei principali interlocutori del dialogo: «De‟ quai versi molte fiate mi sono meco medesimo
riso, veggendo che avea costui duce Seneca, grave e felicissimo in questa parte quanto in nis-
sun‟altra, e ha lasciato il suo dicevol modo di dire per accostarsi al vizioso, come anco ha fat-
to in molti altri luoghi e in questa Tragedia e in quella che trasse da Euripide». Si veda S.
SPERONI: Canace e scritti in sua difesa – G. B. GIRALDI CINZIO: Scritti contro la Canace. Giu-
ditio ed Epistola latina, a cura di C. ROAF, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982,
p. 148.
122 Venezia in coturno
samente inseguito una dictio improntata alla gravitas. Quali che siano
le reali motivazioni del percorso correttorio del Dolce, quelli poi can-
cellati sono versi suggestivi e significativi per descrivere alcune sfu-
mature della personalità di Atreo, che sembrerebbe parzialmente con-
figurarsi – nelle intenzioni del tragediografo veneziano – anche come
un maniaco che compie il proprio nefas spinto da una sorta di sadica
pulsione sessuale: ma forse questa è un‟iperinterpretazione.127
L‟atto si conclude con Tieste che accetta di condividere il potere
con il fratello. Agghiacciante nella sua allusività anfibologica 128 la ri-
sposta di Atreo:
ATREO
Tu te n‟andrai divoto al maggior tempio
E renderai ai Dei debito onore,
Fin che la real mensa s‟apparecchia.
Io sacrerò le vittime agli altari
E meco ne verran questi fanciulli
U‟ Menelao e Agamennon gli aspetta. (vv. 835-40)
127
Quasi che Dolce abbia perfettamente compreso il quadro psicopatologico che inerisce
la personalità di Atreo e lo abbia tematizzato. Su questo tratto della psicologia atreica ha insi-
stito peraltro, con risultati estremamente persuasivi, P. MANTOVANELLI, La metafora del Tie-
ste. Il nodo sadomasochistico nella tragedia senecana del potere tirannico, Verona, Libreria
Universitaria Editrice, 1984.
128
Tieste crede letteralmente a ciò che Atreo gli dice; il pubblico, che ha assistito al se-
condo atto e che ha capito cosa intende fare il tiranno, sa invece che queste parole hanno un
significato secondo terribile.
129
Su queste tematiche cfr. i l già citato C. DIONISOTTI, La guerra d‟Oriente nella lettera-
tura veneziana del Cinquecento, in IDEM, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino,
Einaudi, 1967, pp. 201-26: dopo la disfatta cambraica (1509) la letteratura veneziana fu parti-
colarmente sensibile alle tematiche pacifiste. A questo si dovrà aggiungere la persuasiva in-
fluenza della ricca produzione erasmiana su questi argomenti: in primis la Querela pacis. I-
Le tragedie di Lodovico Dolce II 123
CORO
Mi maraviglio io bene
Come tanto riposo
Di cotanto tumulto oggi sia nato.
Pur dianzi Argo e Micena
Insino al mare ondoso
Risuonavano d‟arme in ogni lato.
Del suo figliuolo amato,
Pallida e sbigottita,
Temea la madre, e ‟nsieme
Spargea querele estreme
Per il consorte suo, sposa gradita,
Che con la spada in mano
Sen gia da lei lontano.
Chi rinuova le mura
Ove debol le vede;
Chi ristora le torri, e chi le porte.
E l‟importuna cura
Che i cuor percuote e fiede
Facea del sonno altrui l‟ore più corte.
Trista e pallida Morte
Sen giva per le menti
Or di questo, or di quella;
Né si sentia favella
Ch‟altro formasse che dogliosi accenti;
Né si vedea per strade
Altro che lance e spade.
Or più non s‟ode il fiero
Suon di trombe e di corni
Ch‟a l‟arme invitar suol gli audaci cuori.
Lasciasi il fosco e nero,
E con abiti adorni
Par che ciascun la santa pace onori.
Coronate di fiori
Le vergini donzelle
In vestir bianchi e schietti
nolte cfr. R. CREMANTE, Appunti sul tema della guerra, ed in particolare della guerra
d‟Oriente, nella tragedia italiana del Cinquecento, in Guerre di religione sulla scena del
Cinquecento, a c. di M. CHIABÒ e F. DOGLIO, Roma, Torre d‟Orfeo, 2006, pp. 121-38 e ID.,
Aspetti della realtà contemporanea nella tragedia italiana del Cinquecento: appunti sul tema
della guerra, in La scena del mondo. Studi sul teatro per Franco Fido, a c. di L. PERTILE, R.
A. SYSKA-LAMPARSKA, A. OLDCORN, Ravenna, Longo, 2006, pp. 77-88.
124 Venezia in coturno
130
Al v. 897. Il paradosso della scrittura tragica di Dolce sta nel fatto che in lui convivono
1) una tendenza per la pura amplificazione orizzontale, expolitio e/o commoratio di esclusivo
sapore additivo ed esplicativo, e 2) una acuta sensibilità culturale che pragmaticamente lo
spinge a espungere dai modelli scelti tutto ciò che potrebbe essere di ostacolo alla retta intelli-
genza dello sviluppo drammatico o scenico o alla comprensione. Per questo motivo, quando
introduce una nuova immagine, Dolce tende a conferirle lo statuto di texture modulare, di tes-
sera sintagmatica e paradigmatica, da riutilizzare ogni volta che se ne presenti l‟opportunità,
in modo da evitare sforzi ermeneutici al suo pubblico.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 125
CORO
In qual prima di loro il ferro tinse?
NUNZIO
Quel che tra l‟uno e l‟altro era d‟etade
Percosse in prima, e acciò che tu non creda
Ch‟ei fosse di pietà del tutto ignudo,
Dedicò questo a l‟avo, ond‟ebbe il figlio
Del gran Giove e di Plote132 l‟ostia prima.
CORO
Con qual cuore il fanciullo, e con che aspetto,
S‟offerse a questa morte orrida e dura?
NUNZIO
Nol posso dir. Ed era a veder lui
Spaventoso spettacolo et orrendo.
Il re crudel lo prese nei capelli
Con l‟una man, con l‟altra il ferro spinse
Fin che nel petto suo tutto l‟ascose.
131
Le seguenti occorrenze si trovano ai vv. 935-1021, prima della descrizione dell‟eccidio
vero e proprio. La descrizione del luogo, davvero infernale, nel quale Atreo compie il massa-
cro dei nipoti può aver influenzato – la suggestione meriterebbe approfondimenti – il Torqua-
to Tasso della foresta di Saron (vd. Gerusalemme liberata, XIII, 1-50).
132
Assai palese anche qui l‟interferenza di fonti romanze con la lettera del testo senecano
che non nomina minimamente i genitori dell‟avo Tantalo, dal quale il primo nipote sacrificato
ha tratto il nome: vd. G. BOCCACCIO, Genealogie deorum gentilium, XII, 1 e il volgarizza-
mento di G. BETUSSI, Geneologia degli dei di M. Giovanni Boccaccio, XII, 1: «Tantalo, se-
condo Lattantio, fu figliuolo di Giove, et di Plote ninfa». La perifrasi è piuttosto una eccezio-
ne tra le strategie riscrittorie dolciane.
126 Venezia in coturno
Prima hostia è il mediano dei tre figli di Tieste, Tantalo per Dolce:
raccapricciante la notazione (che non si trova in Seneca) del sangue
Le tragedie di Lodovico Dolce II 127
della vittima che bagna Atreo: «E di sangue il tiran per tutto sparse»
(v. 1115).133 L‟articolazione delle varie fasi del nefas – concepito co-
me parodia infera del rito sacrificale – è assai perspicua nella riscrittu-
ra del Dolce.
Peraltro, il culmine mostruoso della perversa azione atreica non è
stato, come si sa, ancora toccato nel resoconto del Nunzio: dopo aver
compiuto una ieroscopia con gli exta dei nipoti, il tiranno ne squarta i
cadaveri e li cucina per imbandirli a Tieste:134
CORO CHORVS
Che puote ei far più scelerato e brutto? Quid ultra potuit? obiecit
Ha dato forse i corpi de‟ nipoti feris
A mangiar a le fere? Lanianda forsan corpora, atque igne ar-
NUNZIO cuit?
Dio volesse, NVNTIUS
Ch‟avesse fatto ciò, che stato fora, Vtinam arcuisset, ne tegat funto humus,
Di gran lunga, peccato assai men grave Ne soluat ignis auidus. epulandos licet
E ne la crudeltà qualche pietade. Ferisque triste pabulum saeuis trahat,
O gran scelerità! E tal che vera Votum est sub hoc, quod esse suppli-
Creder non la potran secoli et anni. cium solet,
Egli da‟ petti lor tremanti ancora, Pater in sepultos spectet. o nullo scelus
Ancor caldi, ancor vivi, trasse fuori Credibile in aeuo, quoque posteritas ne-
Gli interior con le sue proprie mani. get,
Ancor spiran le vene e parimente Erepta uiuis exta pectoribus tremunt,
Il cor pavido ancor saltella e trema. Spirantque uenae, corque adhuc paui-
Ma quei, con occhio fier, ricerca e tocca dum salit,
Le fibre et il futur riguarda in elle; At ille fibras tractat, ac fata inspicit.
E per dentro discorre, e segna, e nota. Et adhuc calentes uiscerum uenas notat,
Poi che gli piacquer l‟ostie, omai securo, Postquam hostiae placuere, securus ua-
S‟accinge a nova impresa e d‟esse pensa cat,
Apparecchiare al frate empie vivande. Iam fratris epulis, ipse diuisum secat
Così divide i corpi in molte membra, In membra corpus, amputat trunco tenus
E le membra in più parti: quivi è un Humeros patentes, et lacerto rum moras,
braccio, Denudat artus durus, atque ossa ampu-
Colà una gamba. Indi, di parte in parte, tat.
133
Per quanto in contesto diverso e con semantica simbolica differente, il particolare fa
forse pensare a SOFOCLE, Antigone, vv. 1238-39: «poi con un soffio [Emone] emette sulla
candida guancia [di Antigone morta] un violento fiotto di sangue»). Anche in quel caso è un
Nuntius a riportare le parole.
134
Senza pretendere di proporre una bibliografia appena sufficiente si rinvia, per le impli-
cazioni antropologiche e cultuali, almeno a M. DETIENNE, J.-P. VERNANT, La cucina del sacri-
ficio in terra greca, Torino, Bollati Boringhieri, 1982.
128 Venezia in coturno
Di qua le carni e di là l‟ossa stanno. Tantum ora seruat, et datas fidei manus.
Sol riserba le teste e quelle mani Haec ueribus haerent uiscera, et lentis
Che già in segno di fé date gli furo. data
Una parte arrostir, altra a le fiamme Stillant caminis. illa flammatus latex
Ei vuol che bolli. Al che tre volte il foco Querente aheno iactat, impositas dapes
S‟ammorzò per pietade et altretante Transiluit ignis, hincque trepidantes fo-
Egli con le sue mani empio l‟accese; cos
E così legno appresso legno aggiunse Bis, ter, regestus, et pati iussus moram
Che, stimolato, suo mal grado avampa. Inuitus ardet, stridet in ueribus iecur,
Stride il fegato ne‟ schidoni involto, Nec facile dicam, corpora, an flammae
Né so ben qual gemeo, la carne o ‟l foco. gemant.
La negra fiamma si converte in fumo Gemuere, piceus ignis in fumos abit
Ed esso tristo e come nebbia grave Et ipse fumus tristis, ac nebula grauis
Tutto n‟empié lo scelerato loco. Non rectus exit, seque in excelsum
O Febo, ancor che tu ritorni a dietro leuat.
E nel mezzo del dì rendi la notte, Ipsos penates nube deformi obsidet;
Tardo ascoso ti sei, tardo fuggito. O Phoebe patiens fugeris retro licet,
Ora il misero padre allegro a mensa, Medioque ruptum merseris caelo diem,
De la real corona ornato il capo, Sero occidisti, laniat gnatos pater,
Mangia de‟ figli suoi le proprie carni, Artusque mandit ore funesto suos.
Che poste in vasi d‟or, fumanti e calde, Nitet fluente madidus unguento coma,
Gli fa recar dinanzi il suo fratello. Grauisque uino saepe praeclusae cibum
Restò più volte ne le fauci il cibo Tenuere fauces, in malis hoc unum tuis
E più volte cercò d‟uscir di fuori. Bonum est Thyesta, quod mala ignoras
Oh, misero Tieste, hai ne‟ tuoi mali tua.
Questo di ben: che ancor non gli conosci! Sed et hoc peribit, uerterit cursus licet
Ma tosto ei perirà, quantunque, o chiara Sibi ipse Titan, obuium ducens iter
Luce del mondo, ritornando a dietro Tenebrisque facinus obruat tetrum
Lasci che si ricopra e che si veli nouis,
D‟inusitate tenebre la terra, Nox missa ab ortu tempore alieno
Pur tutto si vedrà chiaro e palese. grauis,
(vv. 1155-1207) Tamen uidendum est, tota patefient ma-
la.
(vv. 747b-788)
2.5. Il quinto atto è quello del trionfo di Atreo che esordisce assa-
porando il proprio successo: «Or ben son io felice, or ben avanzo/Di
gioia ogni mortale;/Or ben vo‟ eguale a Giove/E superbo le stelle ag-
giungo e tocco;/Or veramente del mio regno io tengo/La corona e lo
scettro/E l‟onorato seggio/Del mio onorato padre» (vv. 1300-1307).
Tieste risponde con una monumentale monodia (vv. 1396-1472),135
prevalentemente eptasillabica e altamente lirica, in cui a poco a poco
sembra disvelarsi l‟orrore di cui è stato inconsapevole vittima. Si
prendano, pars pro toto, i primi versi (nei quali si avverte forse qual-
cosa del Boccaccio mediatore senecano):
135
Nel testo latino è in dimetri anapestici.
130 Venezia in coturno
TIESTE
Già, pietoso fratel, sazio mi sento
Egualmente nel cuor di cibo e vino.
Se meco i figli miei fosser presenti,
Il colmo in me saria d‟ogni allegrezza.
ATREO
Credi ch‟ei siano in braccio di suo padre:
Teco sono e saranno eternamente,
E non temer che, sin che resti vivo,
De la tua stirpe ti si tolga parte.
Ben vedrai tosto i desiati volti.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 131
TIESTE
Io pur nel ventre mio per tutto sento
Insolito tremor che ‟l preme e scuote:
E dentro grave e non più usato peso.
Sì duole e geme acerbamente il petto,
E pur questo non è gemito mio.
Or venite miei figli: or già venite,
Dove vi chiama il vostro caro padre,
Che nel vedermi il vostro aspetto avanti,
Subito fuggirà tutta la doglia.
ATREO
Conosci queste teste e queste mani?
Questi son tuoi figliuoli: ora gli abbraccia,
Che questo è Filisten; questi son gli altri.
(vv. 1522-33)
TIESTE
Ohimei, ohimei, ohimei!
Or la cagione intendo
Del dì cangiato in notte.
Non han potuto i Dei
Veder tal crudeltade.
O celeste pietade
Dunque pòi consentir tanto peccato?
Ed io trovo parole
Da poter lamentarmi?
Or non devria il dolore,
La paura e l‟orrore
Tosto di vita trarmi?
Io veggo inanzi gli occhi
Le teste de‟ miei figli;
Veggo i visi sanguigni,
Veggo le care mani,
Che pur or m‟abbracciar sì dolcemente.
O secoli inumani!136
O scelerata etade!
Ohimè, quante fiate
Mi si serrò la bocca
Fuggendo di gustar cibi sì fieri!
Or le viscere tutte
Mi si rivolgon dentro:
Che ‟l pasto empio e crudele
De‟ miei figli pietosi
Vorrebbe uscir di fuori; e tuttavia
Va cercando la via.
Fratel, porgimi omai,
Porgimi quella spada,
Ch‟ha troppo del mio sangue.
Lascia che queste mani
Lor facciano la strada.
Se tal grazia mi neghi,
Non mi negar almeno
D‟uccider me, sì come hai quelli ucciso.
E sì come potesti
Rendermi de le carni
Sazio de‟ miei figliuoli,
Saziati de le mie,
Che, ciò facendo, avrai l‟un cibo e l‟altro!
136
Puntuale prelievo da S. SPERONI, Canace, v. 7.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 133
CORO
L‟almo Fattor del mondo,
Giusto e pietoso Dio,
Non lascierà giamai
Senza giusta vendetta
Questo peccato rio,
Ch‟ogni peccato altrui vince d‟assai.
Sia pur l‟empio tiran lieto e giocondo:
Degno castigo aspetta,
Se ben l‟ira del cielo
Non vien con molta fretta. (vv. 1723-32)
134 Venezia in coturno
137
3. Didone
137
Edizioni cinquecentesche di riferimento: L. DOLCE, Didone, tragedia di M. Lodovico
Dolce, con privilegio, Venezia, Aldo Manuzio, 1547; L. DOLCE, Tragedie di M. Lodovico
Dolce, cioè Giocasta, Didone, Thieste, Medea, Ifigenia, Hecuba, di nuovo ricorrette e ristam-
pate, Venezia, Gabriele Giolito de‟ Ferrari, 1560; L. DOLCE, Le Tragedie di M. Lodovico Dol-
ce, cioè Giocasta, Didone, Thieste, Medea, Ifigenia, Hecuba, di nuovo ricorrette et ristampa-
te, Venezia, Domenico Farri, 1566. Ci siamo attenuti largamente alla recente edizione di S.
TOMASSINI (a c. di), L. DOLCE, Didone, Parma, Archivio Barocco, Edizioni Zara, 1996, con
importante introduzione del curatore (L‟abbaino veneziano di un «operaio» senza fucina, pp.
IX-XLIV), da cui sempre si cita. Confessiamo subito, a scanso di equivoci, che in larghissima
parte siamo debitori del suo commento e del suo lavoro: qualora non esplicitamente dichiara-
to, si rinvia comunque al testo da lui approntato. Vd. inoltre R. H. TERPENING, From Imitation
to Emulation: Dolce‟s Classicism and the Fate of Infelix Dido in Cinquecento Tragedy, in
ID., Lodovico Dolce: Renaissance Man of Letters, cit., pp. 105-127 e A. NEUSCHÄFER, La Di-
done (1547), in EAD., Lodovico Dolce als dramatischer Autor im Veneidig des 16. Jahrhun-
derts, cit., pp. 420-48.
138
A. PAZZI DE‟ MEDICI, Dido in Carthagine, in ID., Le tragedie metriche, a c. di A. SO-
LERTI, Bologna, Romagnoli dall‟Acqua, 1887, pp. 55-136 e G. B. GIRALDI CINZIO, Didone, in
Le tragedie, Venezia, Giulio Cesare Cagnacini, 1583. Dedicato esplicitamente a queste que-
stioni è C. LUCAS, Didon. Trois réécritures tragique du livre IV de l‟Eneide dans le théâtre
italien du XVIe siècle, in Scritture di scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento, a c. di
G. MAZZACURATI e M. PLAISANCE, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 557-604.
139
CH. MARLOWE, The Tragedie of Dido, Queen of Carthage, London, Thomas Wood-
cocke, 1594. La fortuna della vicenda didonea è notevole anche in area francese dove si anno-
verano la Didon se sacrifiant (1555 ca.) di Etienne Jodelle e varie riprese seicentesche. Il per-
sonaggio di Didone arriva a Dolce già come topos strutturato di una significativa, ancorché
oscillante, tradizione romanza (vd. almeno DANTE, Inferno, V, vv. 61-62; F. PETRARCA,
Triumphus Pudicitie, vv. 10-12 e 154-160; G. BOCCACCIO, Genealogie deorum gentilium,
XIV, 13; G. G. TRISSINO, Sofonisba, vv. 22 ss..). Vd. inoltre, per la tenuta nel tempo della vi-
cenda didonea, Dido and Aeneas di Henry Purcell-Nahum Tate e la celeberrima Didone ab-
bandonata metastasiana. Sulla continuità della tradizione europea di Didone informa Énée et
Didon. Naissance, fonctionnement et survie d‟un mythe, a c. di R. MARTIN, Editions du Centre
National de la Recherche Scientifique, Paris, 1990.
140
Su cui vd. almeno L. BORSETTO, L‟Eneida tradotta. Riscritture poetiche del testo di
Virgilio nel XVI secolo, Milano, Unicopli, 1989.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 135
141
Come noto, i vari libri del poema virgiliano vengono pubblicati autonomamente nel
corso del secolo XVI: si pensi, pars pro toto, alle traduzioni del libro IV approntate da Nicolò
Liburnio nel 1534 (per Nicolini da Sabio) e da Bartolomeo Carli Piccolomini nel 1540 (per
Comin da Trino) o al celebre Secondo libro della Aeneide di Virgilio, tradotto in volgare da
Ippolito de‟ Medici e pubblicato nel 1539 a Venezia (presso lo Zoppino).
142
Cfr. P. ARETINO, Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa le poltronerie degli
uomini inverso le donne. Seconda giornata (Venezia, Marcolini, 1536). La mise-en-burlesque
della storia di Didone prevede che Enea sia un «barone romanesco, non romano, uscito per un
buco del sacco di Roma come escano i topi», che approda, in seguito a un naufragio, «al lito
di una gran cittade de la quale era padrona una signora che non si può dire il nome» (vd. P.
ARETINO, Sei Giornate, a c. di G. AQUILECCHIA, Bari, Laterza, 1969, p. 218). Acclarata (cfr.
L. BORSETTO, Traduzione e furto nel Cinquecento. In margine ai volgarizzamenti dell‟Eneide,
in EAD., Riscrivere gli Antichi, riscrivere i Moderni e altri studi di letteratura italiana e com-
parata tra Quattro e Cinquecento, Torino, Edizioni dell‟Orso, 2002, pp. 13-53) è la stretta a-
derenza dell‟Aretino alla versione procurata da Tommaso Cambiatore attorno al 1430 (Eneide
in terza rima) e pubblicata da Bernardino de‟ Vitali nel 1532.
143
Su cui insiste, opportunamente a mio avviso, Tomassini nell‟introduzione alla sua edi-
zione, ma di cui non si può tenere troppo conto in questa sede.
136 Venezia in coturno
144
Si vedano: vv. 4-8, 14-15, 19-20, 30-33-34, 38-39, 40-41, 43-45, 50-51, 65-66, 72-73,
75-76, 77-78, 79-80, etc..
145
Per altri significativi riscontri petrarcheschi vd. Rvf, 130, vv. 5-6: «Pasco „l cor di so-
spir‟, ch‟altro non chiede,/e di lagrime vivo a pianger nato»; 134, v. 12: «Pascomi di dolor,
piangendo rido»; 224, v. 11: «pascendosi di duol, d‟ira et d‟affanno»; 360, vv. 59-60: «[…]
non questo tiranno/che del mio duol si pasce, et del mio danno». Ma il motivo, topico, si ri-
verbera anche nella produzione di Bernardo Tasso, Della Casa e Guarini, per citare alcuni au-
torevoli interpreti della sensibilità manieristica: vd. B. TASSO, Rime, III. 21; G. DELLA CASA,
Rime extravaganti, 72, vv. 1-7; B. GUARINI, Il Pastor fido, I, vv. 531-533.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 137
P. BEMBO, Asolani, I, 11
Certissima cosa è adunque, o donne, che di tutte le turbazioni dell‟animo niu-
na è così noievole, così grave, niuna così forzevole e violenta, niuna che ci
commova e giri, come questa fa che noi Amore chiamiamo. […]. Senza fallo
esso Amore niuno è che piacevole il chiami, niun dolce […]: di crudele,
d‟acerbo di fiero tutte le carte son piene. […]. Per la qual cosa manifestamen-
te si vede Amore essere non solamente di sospiri e lacrime, né pur di morti
particolari, ma eziandio di ruine d‟antichi seggi e di potentissime città […]
cagione.
P. BEMBO, Asolani, I, 17
Egli [Amore scil.] così giuoca e, quello che a noi è d‟infinite lagrime e
d‟infiniti tormenti cagione, suoi scherzi sono e suoi risi, non altramente che
nostri dolori. E già in modo ha sé avezzo nel nostro sangue e delle nostre feri-
te invaghito il crudele, che di tutti i suoi miracoli quello è il più meraviglioso,
quando egli alcuno ne fa amare, il qual senta poco dolore.
P. BEMBO, Asolani, I, 18
Ma perciò che, fatto Idio dagli uomini Amore […] parve ad essi convenevole
dovergli alcuna forma dare, […] ignudo il dipinsero […]; fanciullo […]; ala-
to, non per altro rispetto se non perciò che gli amanti, dalle penne de‟ loro
stolti disideri sostentati, volan per l‟aere […]. Oltre acciò una face gli posero
in mano accesa. […]. Ma per dar fine alla imagine di questo Idio […] a tutte
queste cose, Lisa, che io t‟ho dette, l‟arco v‟aggiunsero e gli strali. 146
146
Si cita sempre dall‟ed. Dionisotti.
147
T. TASSO, Aminta, vv. 1-91 in ID., Teatro: Aminta - Il Re Torrismondo, a c. di M. GU-
GLIELMINETTI, Milano, Garzanti, 1983.
138 Venezia in coturno
148
Il prosieguo del prologo di Didone si incaricherà di autorizzare perfettamente questa
lettura. Cfr. i vv. 61-80 in cui Cupido intende (proprio come la Furia nel prologo del Thye-
stes/Tieste) trascinare del suo cerchio fuora l‟om-bra pallida e misera di Sicheo, in modo da
sconvolgere in sogno l‟equilibrio della regina cartaginese. Del resto, la dimensione avernale
di Cupido è esibita già al v. 7 del prologo (ed è un dato significativo anche nella Dido in Car-
thagine di Pazzi de‟ Medici). Per la questione vd. V. GALLO, Da Trissino a Giraldi, cit., pp.
162-163: «La centralizzazione di cui gode Didone si spiega non solo alla luce della sua
drammaticità, ma anche in quanto fulcro […] di un‟antropologia interessata alla messa a fuo-
co dell‟elemento passionale. La consolidata tradizione esegetica […] consegnava infatti al
primo Cinquecento l‟immagine della donna punica quale emblema dell‟amor-furor, del desi-
derio erotico che ottenebra la mente, della libidine ferina: Didone, nel suo duplice statuto di
regina-amante, assurgeva a exemplum morale della colpevole e autodistruttiva acquiescenza
all‟eros, nei suoi duplici risvolti politici e individuali». Va anche subito aggiunto che Dolce
conferisce al personaggio di Didone uno spessore politico non trascurabile.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 139
DIDONE
E già mi par veder la gloria nostra
Ascender sì, che toccherà le stelle,
Pur che non turbi il mio seren fortuna,
Né in tanto dolce qualche amaro metta.
Di che non temo già: ma certo sogno,
C‟ho fatto presso l‟alba, afflige il core,
E fra dubbii pensier‟ sospeso il tiene. (vv. 174-80)
150
Da notare qui la scelta, assai eloquente, di adoperare un hysteron proteron, a comuni-
care perfettamente ciò che prioritariamente importa a Didone: non l‟incontrollabile passione
erotica, ma la regolarizzazione (financo burocratica) della relazione con Enea occupa i suoi
pensieri, con evidenti implicazioni politiche.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 141
ANNA
Tale e sì fatto è il merto,
C‟havete nel Troiano,
Che s‟ei v‟abandonasse;
Sarebbe il più inhumano,
Il più ingrato e crudele,
Che mai produsse Antropofago, o Scitha. (vv. 189-94)
ANNA
Penso, che ancora abbiate
Talhor sentito, o letto,
Che son l‟imagin‟ false
De‟ fuggitivi sogni;
Che per desir, o tema
Di quel, c‟huom prezza od ode
Spesse volte si sogna.
E non si de‟ nel bene
Gir augurando il male. (vv. 211-19)152
151
G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 2656-2677; S. SPERONI, Canace, vv. 510-546; P.
ARETINO, Orazia, vv. 562-576 e vv. 625-632; A. PAZZI DE‟ MEDICI, Dido in Carthagine, vv.
184-186. In ogni caso, ad autorizzare questa decodificazione razionalistica del sogno è Euri-
pide (e prima ancora OMERO, Odissea, XIX, vv. 560-61).
152
Avvertibile forse una suggestione ariostesca: vd. L. ARIOSTO, Orlando furioso, VIII,
84, vv. 1-2: «Senza pensar che sian l‟imagin false/quando per tema o per disio si sogna».
142 Venezia in coturno
DIDONE
A me parea, ch‟io fossi
In un bel prato herboso,
Ove un fiume correa di puro argento.
E presso a me sedea
Questo mio core et alma,
Coronando i miei crini
D‟una ghirlanda verde,
Ch‟egli tessuto avea con le sue mani,
E meco compartia dolci parole
Con sì soavi accenti,
Ch‟acquetavano i venti;
Né menò Febo mai più chiaro giorno.
E mentre a me parea
Esser nel ciel di Giove,
Si mosse un nembo oscuro,
Che rese il giorno notte
Sì tenebrosa, ch‟io
Non vedeva più luce,
Sì come io fossi giù nel cieco Inferno.
Dapoi mostrossi un raggio,
Che fe‟ sereno intorno:
Ma per fisar la vista
Più non potei vedere
Il caro mio consorte.
Onde con viso di color di morte
Cercando ‟l gìa, ma non sapeva dove;
Quando a man destra aprir vidi una fossa,
Ch‟era piena di sangue:
Et una voce udìo
Dirmi: «Infelice Donna,
Donna mesta e dolente,
Entra costà: che ‟l tuo Sicheo t‟aspetta».
Alhor partissi il sonno; e mi trovai
Gli occhi di pianto, e ‟l sen bagnati e molli. (vv. 222-255)
153
Cfr. il classico E. R. CURTIUS, Il paesaggio ideale, in ID., Letteratura europea e Medio
Evo latino, a c. di R. ANTONELLI, Firenze, La Nuova Italia, 2006, pp. 207-226.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 143
DIDONE
Prima, che questo avenga,
Ch‟abandonata i‟ sia
Dal mio novello sposo,
Alcun Iddio pietoso
Tronchi subitamente
Lo stame, a cui s‟attien la vita mia. (vv. 262-67)157
154
Vd. Rvf, 283, v. 6, ma anche P. BEMBO, Asolani, III, 8, vv. 43-45: «E fiorir l‟erbe sotto
le sue piante,/E quetar tutti i venti/Al suon de‟ primi suoi beati accenti» e B. TASSO, Inni et
Ode, 42, vv. 97-8: «con sì soavi accenti/ch‟acqueteranno il mar irato e i venti», da rileggere
tutta per le varie riprese dolciane (certamente non casuali). Probabilmente prelevata da Ario-
sto è la giuntura in punta di v. 223: cfr. L. ARIOSTO, Orlando furioso, XXVIII, 95, v. 3.
155
Segnatamente della prosa XII dove si trova anche il motivo tematico della ghirlanda
verde (XII, 12, ed. Erspamer) recuperato precisamente dal Dolce.
156
Per il quale si vd. ancora B. TASSO, Inni et Ode, 42, vv. 1-5: «Dianzi il verno nevo-
so/d‟un folto oscuro nembo/coperto aveva de la terra il grembo,/e l‟aere tenebroso/il bel viso
del ciel teneva ascoso» e, in un contesto di vibrante polemica antibellicistica, Salmi, 18, v. 44:
«nembo oscuro e folto». Per la iunctura, usata in senso metaforico e in un contesto sentenzio-
so, si vd. L. ARIOSTO, Orlando furioso, X, 15, vv. 1-2: «Oh sommo Dio, come i giudicii uma-
ni/spesso offuscati son da un nembo oscuro!».
157
L‟immagine dell‟ultimo verso sembra speroniana (cfr. Canace, vv. 797-800: «Deh,
perché non troncate,/Anzi che ciò m‟avegna,/Lo stame a cui s‟attiene/Questa mia vita inde-
gna?»), anche se il punto di riferimento originario è ancora F. PETRARCA, Rvf, 37, vv. 1-2,
167, v. 13 e 296, v. 7.
144 Venezia in coturno
158
Lo schema è [abab. cdcd. effe. ghhid. lmlm. nnaa. oppo]. Nella terza strofa l‟ultimo
verso è endecasillabico (dunque: gG).
159
Si veda in questo capitolo il riferimento a Tieste, v. 1115, con relativa nota.
160
Nel prosieguo la dialettica cromatica bianco-rosso diventerà tematica.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 145
CUPIDO
Che in tanto io le porrò su ‟l bianco petto
Questo serpe sanguigno, horrido, e fiero
C‟ho divelto pur‟hora
Dal capo di Megera,
Il qual il cor di lei roda e consumi. (vv. 373-77)162
OMBRA DI SICHEO
Dio più ch‟altro possente;
Dio, che disprezzi le saette horrende
Del gran padre de i Dei;
Non lasciar d‟adempir l‟officio degno:
Ch‟io ti seguo, sì come
Rettor de‟ passi miei.
Tuo fui, mentre ch‟io vissi, e tuo son morto.
Fa‟, ch‟io vegga costei
Rubella d‟honestà, di fé, e d‟Amore: 163
Fa‟, ch‟io me le avicini;
161
Della giuntura si ricorderà, certo anche per effetto di una comune dipendenza da Virgi-
lio, Aeneis, I, 353-56, il Tasso della Gerusalemme: vd. IV, 49, vv. 1-2: «Spesso l‟ombra ma-
terna a me s‟offria,/pallida imago e dolorosa in atto».
162
Palese anche qui l‟allitterazione di [r]. Vd. per la dittologia verbale conclusiva L. DOL-
CE, Tieste, v. 417: «Che d‟ogn‟intorno lo consuma e rode», e ancora F. PETRARCA, Rvf, 38, v.
8; 72, v. 39; 103, v. 7 e Triumphus Cupidinis, III, v. 70.
163
Da rilevare il fatto, degno di nota, che con parole simili, Didone, molti versi dopo, a-
postroferà il proprio spergiuro amante Enea: cfr. Didone, v. 1240: «Nimico di pietà, di fé ru-
bello».
146 Venezia in coturno
ENEA
Oh quanto son diversi i pensier‟ nostri
Dal voler di colui, che ‟l tutto regge,
Quanti disegni se ne porta il vento.
Oh fallaci speranze, oh vita incerta
Lieve e mutabil più, ch‟al vento foglia:
Chi fia, che preveder possa il suo fine? (vv. 393-98)
164
CICERONE, De oratore, III, 1. 7: «O fallacem hominum spem fragilemque fortunam et
inanis nostras contentiones!». Ci sia permesso rinviare addirittura ad A. MUSSATO, Ecerinis,
vv. 432-435: «O fallax hominum premeditatio/Euentus dubii sortis et inscia/Venture! Instabi-
les nam uariat uices/Motus perpetue continuus rote». Va tenuto presente il fatto che Dolce a-
veva tradotto a questa altezza (e pubblicato presso Giolito nel 1547) proprio il De oratore ci-
ceroniano. Si veda L. DOLCE, Il dialogo dell‟oratore di Cicerone, tradotto, Venezia, Gabriele
Giolito de‟ Ferrari, 1547 e ID., Il dialogo dell‟oratore di Cicerone, tradotto da M. Lodovico
Dolce, e nuovamente da lui ricorretto, e ristampato con una utile espositione di quanto a più
piana intelligenza di tale opera s‟appartiene, Venezia, Gabriele Giolito de‟ Ferrari, 1554. Per
ragioni di maggiore accessibilità si cita peraltro dalla bellissima edizione I tre libri
dell‟Oratore di M. Tullio Cicerone, tradotti in volgare da M. Lodovico Dolce, e in questa
nuova edizione illustrati con una prefazione istorico-critica, Venezia, Pietro Bassaglia, 1745,
p. 160: «O fallaci speranze degli uomini! Volubile fortuna, e vani nostri disegni, i quali spesso
in mezzo il cammino ci sono interrotti; e prima si sommergono nell‟onde di questa vita morta-
le, che possano vedere il porto!».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 147
MERCURIO
“E i cui tardi nipoti, dopo molto
Girar di cielo, e lungo spazio d‟anni,
A un‟altra gran città daranno inizio,
Con più felice augurio, in mezo l‟acque.
Ove la pace sempre, ove l‟amore,
Ove virtude, ove ogni bel costume
Terranno il pregio in fin che duri il mondo.
Quivi la bella Astrea regnerà sempre
Coronata i bei crin‟ di bianca oliva:
Quivi ne‟ tempi torbidi et aversi
A‟ travagliati fia tranquillo porto”. (vv. 453-63)
165
Vd. G. B. GIRALDI CINZIO, Didone, p. 54: «In tal manier hor vinto è da Dido-
ne/Ch‟egli, come huomo effeminato e molle/Tutto è sotto l‟arbitrio di costei».
166
Con il che siamo autorizzati a pensare a Venezia come ipostasi storica dell‟aurea ae-
tas: cfr. ovviamente OVIDIO, Metamorfosi, I, vv. 149-150.
148 Venezia in coturno
ENEA
Da l‟altra poi l‟offesa, che partendo
Son per far a Didon, cui debbo tanto,
M‟induce a non voler, quel ch‟io vorrei:
E sto, sì come combattuta nave
In mezo l‟onde da diversi venti,
C‟hor da quel lato, hor da quest‟altro inchina.
D. ALIGHIERI, Inferno, V, v. 30
se da contrari venti è combattuto
167
Vd. S. TOMASSINI, a c. di, L. DOLCE, Didone, cit., nota 159, pp. 36-37: «l‟irrisolta in-
decisione di Enea […], assunta dal Dolce quasi come unico carattere distintivo del personag-
gio (sorta di monumento ideologico antiumanistico al „dubbio‟, eletto vero e proprio pro-
gramma dell‟agire [o del non agire, aggiungo io] del personaggio), muove dal testo virgiliano
in cui dimorava originariamente nell‟esile misura di una meteora passeggera (cfr. VIRGILIO,
Aeneis, IV, vv. 285-286) […]. Vale a dire che ciò che in Virgilio descrive solo uno stato
d‟animo di passaggio nel personaggio, il quale non può rimanere inerte agli eventi, e da subito
infatti reagirà, nella drammatizzazione tragica del Dolce questa descrizione viene assunta co-
me cifra di un più intimo sentire, di un più turbato stato psicologico, che pervade ogni livello
dell‟agire del personaggio, fino a decentrarlo nei confronti dei suoi „doveri eroici‟. La distra-
zione di Enea nei confronti della decisione di partire costituisce il nucleo drammatico selezio-
nato dal Dolce per ritrarre il personaggio in scena […]».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 149
ACATE
Non credo, che qua giù si trovi affanno
Tanto possente, che conduca donna
A darsi morte con la propria mano.
E, s‟ella poté rimaner in vita
Dopo l‟acerba morte di Sicheo,
Che di sì caldo amor le accese il petto,
Hor men, signor, s‟occiderà per voi.
Ma posto ancor che s‟occidesse; questo
Homicidio sarà de le sue mani. (vv. 593-601)
[…]
Se Dido la ragion torrà per guida,
Crudel mai non sarà contra se stessa:
Se a l‟ira ella darà la briglia in mano,
Del precipizio suo la colpa tutta
A lei sola verrà, non ad Enea. (vv. 607-11)
168
In cui è riformulata una notissima sententia tragica già reperita anche in Dolce: cfr.
Hecuba, vv. 229-31: «O felici coloro, e ben felici/Che moion nelle fasce;/Se per languir si
nasce». Inoltre cfr. F. PETRARCA, Triumphus Temporis, vv. 136-38; G. G. TRISSINO, Sophoni-
sba, vv. 308-9; G. RUCELLAI, Rosmunda, vv. 139-41; G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv.
630-33.
169
Cfr. ancora il prelievo petrarchesco da Rvf, 16, v. 1, già riproposto in ambito tragico da
G. G. TRISSINO, Sophonisba,, v. 1421 e da P. ARETINO, Orazia, prologo, v. 49.
170
E spiegabile soprattutto come pressione esercitata dal macrotesto delle suggestioni pre-
testuali e predrammatiche.
152 Venezia in coturno
BARCE
Poi che fece Didon quell‟empio sogno
Ch‟io penso, che fia noto a tutte voi
[…]
Ben finalmente dopo lungo pianto
Le lagrime cessar, ma non la doglia.
E lasciar non volendo il sacrificio,
Là se n‟andò, dov‟era acconcio il tutto:
Ma prima impose ad Anna, che mandasse
Un de‟ più fidi a ricercar d‟Enea.
Intanto con la vittima a l‟altare
In bianca vesta il Sacerdote venne.
La mesta Dido in man tenendo un vaso
Pien del liquor di Bacco, tra le corna
Lo sparse de la vittima: la quale
Era una bianca e ben formata Vacca.
Cosa io dirò da spaventarvi tutte:
Quel ch‟era puro vin cangiossi in sangue. 171
Si smarrì ‟l Sacerdote; e la Reina
Pallida venne, e chinò gli occhi a terra.
[…]
Tacito il Sacerdote il bianco collo
Traffisse de la vittima più volte
Fin ch‟ella cadde: e sì lontano il sangue
N‟andò, che ‟l drappo di candor di neve
De la Reina (e mi sgomento a dirlo)
In molte parti di vermiglio tinse.
Appresso gli esti riguardando bene
De l‟occiso animale il Sacerdote,
Per molto ricercar non trovò il core.
Ben si vide il fegato a destra parte
Tutto di negro fèl spumoso e brutto.
Lascio di dir, che gli odorati incensi
Reser, posti nel fuoco, d‟ogni intorno
Contra il costume lor noioso odore.
E dopo lungo spazio, assai penando
Con diversi color‟ la fiamma apparse,
Qual ceruleo, qual verde, e qual sanguigno.
La qual piegando in quella parte, dove
Era Didon, di subito s‟estinse;
E rimase per tutto oscuro fumo.
171
Si ricorderà di questo verso A. CARO, Eneide di Virgilio, IV, v. 703: «E ‟l puro vin
cangiarsi in tetro sangue».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 153
MANTO
Genitor, quid hoc est? non leui motu, ut solent,
agitata trepidant exta, sed totas manus
quatiunt nouusque prosilit uenis cruor.
cor marcet aegrum penitus ac mersum latet
liuentque uenae; magna pars fibris abest
et felle nigro tabidum spumat iecur. (vv. 353-58)
BARCE
Poscia che ‟l sacrificio fu finito,
L‟infelice Reina entrò nel tempio,
[…]
Dove, come sapete, in picciol vaso174
Le ceneri di lui [Sicheo scil.] rinchiuse stanno.
A pena ella toccò la prima soglia,
172
Cfr. SENECA, Oedipus, vv. 293-402.
173
Si cita qui dall‟edizione critica oxoniense: L. Annaei Senecae Tragoediae, incertorum
auctorum Hercules [Oetaeus] Octauia, a c. di O. ZWIERLEIN, Oxford, Oxford University
Press, 1986.
174
Vd. B. TASSO, Rime, IV, 34, v. 11.
154 Venezia in coturno
175
Vd. almeno G. STAMPA, Rime, 1, v. 2.
176
Cfr. ancora B. TASSO, Rime, I, 41, vv. 6-8: «[…] ove i men fieri orrori/son membra
sparte, e tinti e molli i fiori/veder di sangue umano d‟ora in ora».
177
Non vi sarà anche qui una interferenza aretiniana? Vd. P. ARETINO, Ragionamenti. Sei
giornate, a c. di R. MAR-RONE, Roma, Newton Compton, 1993, p. 154: «NANNA: - Perché di-
ce il canto figurato che Chi s‟alleva il serpe in seno/le intervien come al villano/come l‟ebbe
caldo e sano/lo pagò poi di veleno».
178
Il motivo è un‟autonoma innovazione di Dolce ed è prelevato verosimilmente da VIR-
GILIO, Aeneis, VII, vv. 346-53: «Huic dea caeruleis unum de crinibus anguem/conicit inque
sinum praecordia ad intuma subdit,/quo furibunda domum mostro permisceat omnem./Ille in-
ter veste set levia pectora lapsus/volvitur attactu nullo fallitque furentem,/vipeream inspirans
animam; fit tortile collo/aurum ingens coluber, fit longae taenia vittae/innectitque comas et
membris lubricus errat». Da notare che in questo caso è la furia Aletto a spargere il suo nefa-
sto influsso, mentre nella Didone è Cupido in persona.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 155
179
È un Nunzio che rappresenta perfettamente il popolo cartaginese, si assume il ruolo di
sentenzioso ideologo (vv. 875-876), critica apertamente l‟unione della sua regina con Enea e
arriva – cosa inaudita per un semplice messo – a minacciare Acate e i troiani tutti, rimprove-
rando anche il popolo di Cartagine per la sua eccessiva ospitalità. Come si capisce, mai prima
d‟ora un Nunzio aveva avuto un rilievo drammatico così cospicuo in una fabula tragica.
180
Si veda il nuovo prelievo petrarchesco da Rvf, 92, v. 8: «quanto bisogna a disfogare il
core».
156 Venezia in coturno
DIDONE
Maravigliomi ben, perfido, molto,
Che tanta crudeltà s‟avolga in voi,
Che mi vogliate far sì grave oltraggio,
E che speriate ancor di ricoprirlo.
Maravigliomi ben, ch‟aggiate speme
Di potervi partir da la mia terra,
Senza ch‟io ‟l sappia; e che vi soffra ‟l core
Di non pur dir a questa afflitta «a Dio»;
E non vi possa ritener l‟amore,
Che in me vedete, e conoscete a prova,
Né la data a me fé con questa mano:
[…]
Anzi (chi ‟l crederebbe? et è pur vero)
L‟odio che mi portate è tanto e tale,
C‟hora nel mezo al tempestoso verno
V‟apparecchiate a navigar per l‟onde,
Che son turbate da‟ più fieri venti.
[…]
Ma chi fuggite voi perfido Enea?
Forse son io colei, che nacque in Argo?
O armossi il padre mio con quei, che furo
In Aulide a tagliar le prime funi,
E distrussero il vostro almo paese?
Voi me fuggite, me; che dato in dono
V‟ho quanto al mondo avea di bello e caro,
L‟honestà, la città, la propria vita.
Ma se de l‟amor mio vi cal si poco:
Vi prego Enea per queste istesse amare
Lagrime, ch‟io qui spargo, e per cotesta,
181
Il dato reperibile in OVIDIO, Heroides, VII Dido Aeneae, vv. 165-166: «Non ego sum
Phthia magnisque oriunda Mycenis/nec steterunt in te virque paterque meus», viene stravolto
nella riscrittura del Dolce ai vv. 1141 ss.: Argo è la patria di Elena, causa prima della guerra
di Troia; Aulide è il promontorio in cui Agamennone fece scelleratamente sacrificare Ifigenia
pur di partire (ed è scena di un‟altra tragedia dolciana): la scelta è nella direzione di una mino-
re densità erudita e di una più agevole identificazione dei luoghi citati.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 157
182
Tutta la sequenza reca tracce vistose della messinscena: vd. il deittico questa mano (v.
1125) e i vv. 1149-51: «Vi prego Enea per queste istesse amare/Lagrime, ch‟io qui spargo, e
per cotesta,/C‟hor tocco, forte e vincitrice mano».
183
Si cita ancora dall‟edizione P. ARETINO, Ragionamenti. Sei giornate, cit., p. 155.
158 Venezia in coturno
ENEA
Io non nego, Reina, e non fia mai,
Che a voi né ad altri di negar pressumi,
Che gli oblighi, ch‟i‟ v‟ho, non siano tali
Ch‟io non v‟arrivo col pensiero a pena,
Non, ch‟io gli possa dir con le parole.
E mi ricorderò del vostro nome
Per fin che di me stesso mi ricordi,
E che lo spirto mio regga quest‟ossa.
Ma brevemente rispondendo i‟ dico,
Che mai non cadde in me sì vil pensiero
Di farvi alcuna offesa, o di fuggirmi,
Et occultar la mia fatal partita:
Né men tra noi fu matrimonio; et io
Qua venuto non son per tal cagione.
Ché se mi concedessero li fati
Di regger sotto il fren de‟ miei desiri
Lo spazio de la vita, che m‟avanza,
Vorrei tornar ad habitar ancora
L‟amato mio terreno, e i dolci campi;
E rifar Troia […]
[…]
Ma l‟oracol d‟Apollo espressamente
Mi comanda, ch‟io cerchi il ricco piano
D‟Italia, ov‟esser dé la patria mia.
[…]
Non cessa il padre mio ben mille volte
Appresentarsi, et ammonirmi in sogno:
Quando l‟oscuro vel la notte spiega,
E i suoi lucenti fochi accende il cielo,
Pietosamente ei m‟ammonisce e prega:
[…]
Giuro per questa e quella cara testa
Che pur dianzi è disceso giù dal cielo
L‟imbasciador di Giove, ed hammi imposto
Le tragedie di Lodovico Dolce II 159
In un veloce confronto [tra Aeneis, IV, vv. 333-61 e Didone] appare chiaro
che l‟attacco „lirico‟, disciolto poi in un periodo prosastico in tono minore,
nella versione del Dolce corre in una direzione di corruzione del carattere „e-
roico‟ del personaggio di Enea. Se nel testo virgiliano Enea parla e vive con
distanza gli eventi, perché abitato coscientemente da un destino superiore,
nella versione del Dolce l‟insicuro pio troiano, quasi preda del più lucido vo-
lere del dogmatico Acate, mente per viltà (vil pensiero) e incapacità di domi-
nare il proprio desiderio (il fren de‟ miei desiri), tra nostalgia e melanconia
del proprio milieu domestico (amato mio terreno …dolci campi). Per Dolce la
vocazione eroica del personaggio di Enea è quindi quella di sparire, a basso
regime, in un circolo vizioso di preoccupazioni “domestiche”. 185
184
Ibidem, p. 155.
185
Cfr. L. DOLCE, Didone, p. 75, n. 304.
160 Venezia in coturno
DIDONE
Nimico di pietà, di fé rubello,
Sciocco è chi crede, che vi fosse madre
La santa, e gentil Dea, madre d‟Amore,
E la paterna di voi stirpe scenda
Da Dardano; anzi in duri e freddi sassi
Caucaso istesso, od altro horrido monte
De la nevosa Scithia vi produsse,
E vi dieder le Tigri Hircane il latte;186
Poscia che i caldi affettuosi preghi
Di chi contra ragion v‟apprezza et ama
Non han potuto trar da gli occhi crudi
Una lagrima sola, e dentro il petto
Destar breve pietà del danno mio.
[…]
Ei [Giove scil.] non è giusto, come il mondo crede.
Ove si può trovar fede sicura?
Costui da tutti i mar sbattuto e spinto,
E discacciato ancor da tutti i lidi,
Povero, ignudo, e di speranza privo,
Con le misere genti a morte tolsi,
Ristorai la sua armata, e finalmente
L‟ho ricevuto del mio Regno a parte:
Ecco il premio, che acquisto, ecco l‟amore!
Oimè, ch‟io veggio le Infernal sorelle
Cingermi intorno, e minacciarmi morte;
Veggo le serpi oimè, veggo le faci
Ne i fochi accese del bollente Averno:
[…]
Hor l‟oracol d‟Apollo, hora di Giove
L‟alato messo al danno mio comanda
186
Per tutta l‟immagine si vd. G. B. GIRALDI CINZIO, Didone, IV, 1 (ed. Cagnacini): «Ahi
disleal, non ti fù madre mai/Venere Dea, né da Dardano venne/Mai la tua stirpe: ma de gli a-
spri sassi/Del Caucaso nascesti, e da le poppe/Havesti il latte de le Tigri Hircane». Cfr. poi
CH. MARLOWE, The Tragedy of Dido, Queen of Carthage, V, vv. 156-59: «Thy mother was
no goddess, perjur‟d man/Nor Dardanus the author of thy stock;/But thou art sprung from
Scythian Caucasus,/And tigers of Hyrcania gave thee suck».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 161
CORO
Oimè, sì come irata
In mezo a le parole
Da noi s‟invola e fugge!
E dal suo viso insieme
È sparito il sereno.
Le guancie tinte di color di rose
Con nuova pallidezza
Son ritratto del cuore,
Che ‟l duol fere, et occide. (vv. 1298-1306)
187
Vd. P. ARETINO, Ragionamenti. Sei giornate, cit., pp. 155-56.
188
Cfr. B. TASSO, Rime, I, 92, v. 5: «tu ne le guance di color di rose», ma anche L. ARIO-
STO, Orlando furioso, VII, 11, vv. 5-6.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 163
4. Il quarto atto si apre con la regina che, in parte placata, chiede al-
la sorella Anna di convincere Enea a rinviare la partenza, non a can-
cellarla:
DIDONE
Però vorrei, che tu [Anna] n‟andassi a lui,
E che tentassi con le tue parole
D‟impetrar al viaggio, ch‟aparecchia
Tanta dimora che trapassi ‟l verno,
Ond‟abbia al navigar venti migliori;
Acciò, ch‟in tanto a sofferir impari
La mia miseria in premio de l‟amore,
Ch‟io gli ho portato, e porterò in eterno.
Questa è l‟ultima grazia, ch‟io dimando.
Del matrimonio, poi ch‟ei non mi degna,
Bench‟ingannato m‟ha, più non mi cale:
[…]
Digli, ch‟io non mandai l‟armata Greca
A disfar Troia, o del suo padre Anchise
Ho le ceneri offese, e sparse al vento.
[…]
Vanne, sorella mia; ch‟effetto avranno
(Se non l‟ebbero i miei) forse i tuoi preghi.
Tu sai ben, come ei reverir soleva
Questa tua etade, e d‟ogni suo secreto
Fosti più volte Messaggera fida.
Vanne, sorella: e t‟affatica e sforza
Vincer con l‟humiltà l‟hoste superbo.
[…]
189
Cfr. Hecuba, v. 2250 e Tieste, v. 97.
164 Venezia in coturno
Partita Anna alla volta di Enea (ma con poche speranze), Didone
recita prima un pateticissimo addio alla vita secondo il modulo epico
della teichoskopìa e poi colloca sé stessa nel perimetro delle mitiche
190
Vd. P. ARETINO, Ragionamenti. Sei giornate, cit., pp. 156.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 165
DIDONE
Oh città cara, oh mie novelle mura:
Com‟io vi veggo, come
Quasi in sul cominciar giunte a l‟estremo.
Com‟è il tempo seren cangiato in fosco
In un girar di ciglia;
E di breve piacer qual doglia i‟ sento!
Misera me, che forse nacqui in terra
Per dar ad altre esempio,
Più che donna giamai, d‟aversa sorte.
Lassa, ch‟io mi credea gioir felice
Di novo sposo: e forse
Hor disperata e mesta
N‟andrò a trovar l‟antico entro l‟Inferno.
[…]
Oimè, che tra le donne, ch‟ingannate
Da‟ lor mariti foro,
È senza ugual l‟alta miseria mia.
Paris lasciò la sfortunata Enone,
E Demofonte Fille;
Tradì Theseo la figlia di Pasife.
Così ingrato Giason fu già a Medea.
Ma di queste giamai tanta, e sì giusta
Da dolersi, quant‟io di mia fortuna:
Ch‟al perfido d‟Enea
Donai la vita, e poi
L‟oro, lo stato, e la persona mia. (vv. 1455-82)
191
Tutti gli exempla sono prelevati da OVIDIO, Heroides: cfr. le epistole II, V, X, XII. As-
sai probabile è peraltro la mediazione del Boccaccio dell‟Elegia di madonna Fiammetta (spe-
cie il VI libro), vera sinopia per la compaginazione di scene monologiche ad alto gradiente di
patetismo nella tragedia del Cinquecento.
192
Il serpente essendo la causa della perdita della ragione di Didone.
166 Venezia in coturno
193
Vd. VIRGILIO, Bucolica, III, v. 93: «latet anguis in herba», ma poi ancora D. ALIGHIE-
RI, Inferno, VII, v. 84: «che è occulto come in erba l‟angue»; F. PETRARCA, Triumphus Cupi-
dinis, III, v. 157: «so come sta tra‟ fiori ascoso l‟an-gue» e Rvf, 99, v. 6: «che ‟l serpente tra‟
fiori e l‟erba giace»; A. POLIZIANO, Stanze, I, 15, v. 3 e II, 21, vv. 3-4.
194
Topos classico tra i più resistenti e significativi nella tragedia (specie dolciana) del
Cinquecento: cfr. VIRGILIO, Aeneis, VI, vv. 595-617; OVIDIO, Metamorphoses, IV, vv. 457-61
e X, vv. 41-44; SENECA, Hercules, vv. 750-759, Medea, vv. 744-749, Thyestes, vv. 1-12, Oc-
tauia, vv. 621-23, Hercules Oetaeus, vv. 940-46 e 1068-82. Cfr. anche G. B. GIRALDI CINZIO,
Orbecche, vv. 273-84 e lo stesso L. DOLCE, Tieste, vv. 1-20.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 167
Avrà fine il mio duol, ch‟in voi fia eter- nel mezzo di tutte le mondane delizie,
no. (vv. 1499-1513)195 con affettuoso appetito il mio amante de-
siderando, né potendolo avere, tal pena
sostengo quale egli, anzi maggiore, però
che egli con alcuna speranza delle vicine
onde e de‟ propinqui pomi pure si crede
alcuna volta potere saziare, ma io ora del
tutto disperata di ciò che a mia consola-
zione sperava, e più amando che mai co-
lui che nell‟altrui forza con suo volere è
ritenuto, tutta di sé m‟ha fatta di speranza
rimanere di fuori. E ancora il misero Is-
sione nella fiera ruota voltato non sente
doglia sì fatta, che alla mia si possa ag-
guagliare: io, in continuo movimento da
furiosa rabbia per gli avversarii fati rivol-
ta, patisco più pena di lui assai. E se le
figliuole di Danao ne‟ forati vasi con va-
na fatica continuo versano acque creden-
doli empiere, e io con gli occhi, tirate dal
tristo cuore, sempre lagrime verso. Per-
ché ad una ad una le infernal i pene io mi
fatico di raccontare? Con ciò sia cosa che
in me maggior pena tutta insieme si tro-
va, che quelle in diviso o congiunte non
sono».196
A questo punto torna Anna che ha cattive notizie: i troiani sono già
partiti. Didone – ormai in preda al delirio – alterna a velleitarie in-
giunzioni militari ai collaboratori (vv. 1536-39: «deh cittadin prende-
te/L‟arme, entrate ne i legni, e prestamente/Movete i remi; e con fuo-
chi e i ferri/Seguite pronti i nostri alti nimici»),197 fasi di temporanea
riacquisizione della lucidità (vv. 1540-41: «Che parlo? O dove sono?
E qual pazzia/L‟intelletto mi toglie e la ragione?»), accessi di delirio
sadico nei quali si pente di non aver ucciso Enea e Ascanio (vv. 1549-
195
Sarà da notare la conclusione improntata ad un cupio dissolvi di pretto sapore materia-
lista e assai poco connotato in senso cristiano.
196
G. BOCCACCIO, Elegia di madonna Fiammetta~Corbaccio, Milano, Garzanti, 1988, pp.
148-49.
197
Si noterà certo la frequenza delle inarcature.
168 Venezia in coturno
54: «Non potev‟io squarciar in molte parti/Il corpo suo, e poi gettarlo
in mare?/Tagliar a pezzi le sue genti; e quello/Quell‟Ascanio, cagion
d‟ogni mio male,/Svenar con le mie mani; e le sue carni/Porre a la
mensa, e farne cibo al padre?»).198 Irrinunciabile è ancora una volta il
riscontro con la prosa aretiniana:
DIDONE
Viver io voglio, se la vita mia
È, come dite, a beneficio vostro.
Ma impetratemi voi da le mie pene
Tanto di tregua (io non vo‟ dir di pace)
Ch‟ella sia forte a sostenerle tutte.
198
Nel delineare le coordinate di questa impossibile vendetta Didone usa i moduli dello
sparagmos (sul modello della Medea epica che così aveva ucciso il fratello Absirto) e del
banchetto cannibalico (sul modello del Thyestes senecano e del suo Tieste).
199
Cfr. P. ARETINO, Ragionamenti. Sei giornate, cit., pp. 157.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 169
DIDONE
Da l‟ultimo Occidente a questi giorni
Ne la città, forse per mia ventura,
È venuta un‟antica sacerdote.
[…]
Mi promette di far cose stupende:
Sanar a suo voler senza fatica
Le menti offese d‟amorose piaghe,
E le sane infettar d‟eterno amore;
Così contra le leggi di natura
Tornar sovente ogni pianeta a dietro.
Fa l‟alme gir fuor de‟ sepolcri errando,
E sotto a‟ piedi suoi trema la terra;
[…]
Giovimi adunque al gran bisogno mio
Di provar l‟arti Magiche, e mi sia
Lecito far, quanto costei m‟insegna.
Prima bisogna, ch‟apparecchi dentro
La più riposta e più secreta parte
Del gran palazzo una novella pira.
E su vi ponga quella istessa spada,
Che quel crudel, e del mio ben nemico,
Presso al letto commun lasciò sospesa:
E ‟l letto ancora, ove perì ‟l mio honore,
Con l‟imagine sua, con tutte quelle
Spoglie che fur di lui. (vv. 1660-86)
DIDONE
Profondo sonno, che d‟intorno vai
Nudrendo ancora, in questa parte e ‟n quella,
Ne‟ travagliati spirti alto riposo;
Poscia ch‟io solo a le mie pene desta
Trovar non posso homai pace né tregua,
È ben ragion, ch‟io mi lamenti, e dolga
Di fortuna, d‟Amore, e di me stessa.
Ah dolenti occhi miei dunque piangete,
Piangete oimè, ché rimanendo in vita
Io non debbo giamai vedervi asciutti.
Tu mesta, e sconsolata ombra infelice
Del mio caro Sicheo, che qui d‟intorno
Forse hora te ne vai misera errando
[…]
A le querele mie pietà ti fermi.
Io t‟ho offeso, e ‟l confesso: e questa mano
Tosto del fallo mio farà vendetta,
E m‟aprirà la via da seguitarti.
Così volesse Dio, che ‟l primo giorno,
Che nel carcer mortal le luci apersi,
Fosse stato per me quel giorno estremo,
Che gli occhi nostri eternamente chiude:
Ch‟io non avrei veduta la tua morte,
Né macchiato il tuo honore, e la mia fede.
Crudel amor, crudel amor, tu prima
Crudel fosti cagion d‟ogni mio male:
Tu m‟hai bendato gli occhi, e fatta cieca
Al mio honore, al mio bene, al mio riposo.
Ahi, c‟ho potuto oimè fuggir da l‟armi
Del mio crudo fratello, anzi nimico;
Ho potuto ingannar l‟astuto Iarba,
E città fabbricar nel suo terreno;
Le tragedie di Lodovico Dolce II 171
[…]
Ma già non ho potuto da‟ tuoi colpi
Coprirmi, né schermir, né far difesa.
E tu volubil Dea, che ‟l mondo giri
Calcando i buoni, e sollevando i rei:
Che t‟ho fatto io? Che invidia oimè t‟ha mosso
A ridurmi a lo stato, in ch‟io mi trovo?
Quanto mutata m‟hai da quel ch‟io fui,
Che in un sol punto m‟hai levato, e tolto
Tutto quel, che mi fea viver contenta:
Dico la castità, dico l‟honore,
Senza di cui non voglio, e più non debbo
Viver, acciò vivendo a l‟altre donne
Non sia qua giù d‟impudicizia essempio.
Ma indegnamente la fortuna incolpo,
Indegnamente amor: ch‟io sola errai;
Ch‟avea ragione, avea intelletto, e mai
Non dovea consentir a le losinghe
D‟Amor, ché non potea l‟empio sforzarmi.
Ben tu crudele Enea: ma lassa!, ch‟io,
Lassa, ch‟a ricordar solo tal nome
La lingua, e l‟alma oimè mancar mi sento.
Però è ben tempo di provar, s‟io posso
Finir le pene mie con questa mano.
Cara diletta luce ad altri porgi
Gioia, ch‟io tosto per lasciarti sono. (vv. 1743-1801)200
200
Cfr. M. T. HERRICK, Italian Tragedy in the Renaissance, cit., p. 169: «Dido‟s long soli-
loquy at the beginning of the Act 5, which owes much to Virgil, is perhaps the best poetry in
the play».
172 Venezia in coturno
bilità per la tragedia che l‟ha colpita. Causa della sua caduta è il fatto
di aver sottoposto la ragione al furor amoris, alla libido.
La breve seconda scena d‟atto (per noi una delle più sorprendente-
mente interessanti; vd. vv. 1819-76) è caratterizzata da una decisissi-
ma virata in direzione di tematiche prettamente politiche: un Prefetto e
un Consigliero dialogano, infarcendo le loro riflessioni di sententiae
prelevate dalla letteratura classica e che poi caratterizzeranno la tradu-
zione del Concejo e consejeros del Prìncipe (1559) di Fadrique Furiò
Ceriol compiuta dal Dolce nel 1560:202 il Prefetto, nel suo breve inter-
vento, distingue fra il Regno meritocratico che il destino aveva asse-
gnato ai fenici e la tirannide affermatasi con Pigmalione, fratello di
Didone: lui poi assieme ad altri aveva seguito in Africa.
Il dialogo fra i due viene interrotto dal nuovo ingresso del Nunzio,
il quale ha in mano una spada imbrattata di sangue, in una scena viva-
cemente connotata in senso scenico, grazie a una deissi assai articola-
ta:203
CONSIGLIERO
Ecco il servo e ministro di Didone
Con una spada sanguinosa in mano.
Certo nuovo dolor costui n‟apporta.
PREFETTO
Oimè, che spada è quella,
E di chi ‟l sangue ancor stillante, e caldo?
NUNZIO
Prefetto, questa è quella infame spada,
Che già portar solea
Il perfido, e crudel, ch‟è dipartito:
E questo, ahi lasso, è di Didone il sangue.
PREFETTO
202
Vd. Il Concilio, ovvero Consiglio, et i consiglieri del Prencipe, tradotta di Lingua
Spagnuola nella Volgare Italiana, per M. Lodovico Dolce, con privilegio, Venezia, Gabriele
Giolito de‟ Ferrari, 1560.
203
La spada insanguinata è senza dubbio il più economico ed efficace tra i veicoli segnici
ostensibili in questo contesto. Basta la spada portata dal Nunzio per fare capire allo spettatore
e al lettore tutto ciò che è accaduto. Il segno teatrale mostra in questo caso la sua fenomenale
potenza di significazione metonimica (spada+sangue = suicidio di Didone) e viene percepito
come assolutamente intenzionale dallo spettatore. Peccato che poi Dolce aggiunga troppe pa-
role che suonano come fatalmente digressive rispetto alla centrale eccezionalità dell‟esibizio-
ne scenica dello strumento con cui Didone si è inflitta la morte.
174 Venezia in coturno
NUNZIO
Così disse: e baciando il caro letto
E l‟imagin d‟Enea co i panni amati,
Seguì: «Dunque io morrò senza vendetta?
Morrò: così mi giovi andar a morte,
Et ei, che n‟è cagion, rimanga in vita.
Forse ne l‟alto mar veggendo il foco,
Indizio tristo de la morte mia,
Tingerà quel crudel di pianto il volto;
E manderà de l‟agghiacciato petto204
Per pietade di me qualche sospiro». (vv. 1994-2003)205
NUNZIO
Il palazzo fu pien d‟angoscia e pianto.
Correva inanzi a la dolente turba
Anna; e si percotea co mani il petto:
E lacerando ambe le guancie e ‟l crine, 206
Chiamava pur con imperfetti accenti
204
Cfr. L. DOLCE, Tieste, v. 416: «Sento nel petto un agghiacciante vermo».
205
Se tutta la scena ricalca abbastanza da vicino S. SPERONI, Canace, vv. 1728-1807, con
il Ministro che racconta a Macareo come è morta la sorella-amante, certo speroniano (ma an-
che trissiniano: cfr. Sophonisba, vv. 1634-38, a sua volta prelevato da EURIPIDE, Alkestis, vv.
177-188) è il motivo del letto che, peraltro, in Dolce non si concretizza in una vera e propria
apostrofe.
206
Recupero di un tipico modulo funebre tragico: cfr. ESCHILO, Coephoroi, vv. 22-31;
EURIPIDE, Hekabe, vv. 650-656 (già impiegato da Dolce in Hecuba, vv. 1591-1595: «Forse
avven che si lagne,/E si percota il petto,/Squarciando i bianchi crini,/Qualche vecchia ch‟è
priva/De‟ suoi figli meschini»); Hiketides, vv. 71-79; Helene, vv. 370-374.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 175
207
Ricalca probabilmente Speroni che fa morire anche la Nutrice assieme a Canace: cfr.
Canace, vv. 1772-73. Solo Christopher Marlowe, tra coloro che hanno ripreso il mito tragico
di Didone, evidentemente imitando Dolce, fa morire Anna (e per di più on-stage) alla fine del-
la fabula.
176 Venezia in coturno
NUNZIO
Misere, e che ci resta
Altro, che veder la città smarrita
Prender, e sacheggiar dal fero Iarba?
E quella crudeltà nel sangue nostro
Usar, ch‟a raccontar non fia creduta?
BIZIA
Indovino ben sei di queste pene:
Perché pur hora uno de‟ nostri è giunto,
Spettacol brutto, e a rimirar pietoso:
Tronche le mani avea, le orecchie, e ‟l naso,
E tutto rosso del suo stesso sangue,
N‟avisò che i Getuli ardon per tutto
I nostri campi, e occidono qualunque
Huomo, donna, fanciullo, o vecchio infermo
Trovan per le campagne, o ne le case.
E questo detto, dal dolor trafitto,
Cadde morto dinanzi a‟ nostri piedi.
Onde già la roina di Cartago,
E ‟l flagello di noi troppo è vicino. (vv. 2160-77)
ne umana agli dèi, con toni cupi e forse vagamente eterodossi: tutto è
predestinato ab origine, quindi occorre che l‟uomo ceda ai fati, che
non si affatichi vanamente nel tentativo di costruirsi un destino alter-
nativo, la qual cosa – si ribadisce – non ha alcun senso:
CORO
Quel dì, che ‟l miser huomo
Veste qua giuso l‟alma
Di questo corporal caduco velo,
Là su con lettre salde, e adamantine
È discritto il suo fine.
Però a i fati cedete
Voi, che felici, o sventurati sète:
Ch‟ogni cosa mortal governa il Cielo. (vv. 2180-87)
178 Venezia in coturno
4. Giocasta
209
Cfr. R. CREMANTE, Appunti sulla grammatica tragica di Ludovico Dolce, cit., p. 280.
210
L. DOLCE, La Giocasta di M. Lodovico Dolce, Venezia, Aldi Filii (= Paolo Manuzio),
1549. Verrà poi ripubblicata nelle edizioni complessive del teatro tragico dolciano (1560 e
1566) e nell‟edizione settecentesca del Savioli. Nel corso del presente lavoro si citerà dall‟edi-
zione giolitina del 1560; qualora ce ne discosteremo, lo motiveremo. Va ricordato che prima
della riscrittura del Dolce, le Phoinissai di Euripide erano state tradotte in volgare dal fioren-
tino Michelangelo Serafini, il quale però non pubblicò mai il suo lavoro, comunque collocabi-
le non prima del 1548. Se si tiene presente che la prima rappresentazione scenica di Giocasta
a Venezia è databile al 1548, si inferisce ipso facto che assai difficilmente Dolce poteva avere
contezza del lavoro del Serafini: la sua tragedia è pertanto autonoma. Per qualche approfon-
dimento cfr. A. PORRO, Volgarizzamenti e volgarizzatori di drammi euripidei a Firenze nel
Cinquecento, in «Aevum», LV, 1981, pp. 481-508. Per un‟introduzione alla tragedia cfr. P.
MONTORFANI, Giocasta, un volgarizzamento euripideo di Lodovico Dolce (1549), in «Ae-
vum», LXXX, settembre-dicembre 2006, pp. 717-39 e S. GIAZZON, La Giocasta di Lodovico
Dolce: note su una riscrittura euripidea, in «Chroniques Italiennes», XX, 2, 2011, pp. 47 (on-
line).
211
Ulteriore dimostrazione di una certa elasticità del Dolce, dei suoi editori e della cultura
veneziana in genere verso possibili alleati politici della Serenissima, se è vero che i dedicatari
delle opere mutano per ragioni eminentemente extra-letterarie e a causa della ridefinizione,
nel tempo, del quadro politico europeo. Naturalmente la dedicatoria cade nelle successive edi-
zioni della tragedia. Jean de Morville è indicato da S. SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia (1520-
1580), Torino, Bollati Boringhieri, 1987, p. 265, come uno dei più zelanti promotori politici
della causa francese in Italia.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 179
meno quella della humanità è tanta, che volendosi lodare quanto basta, sono
pochi gli inchiostri, et non se le trova comparatione. Questa fece che nel rap-
presentar di essa tragedia V. S. non pur si degnò di honorarla della sua pre-
sentia, insieme col dotto e molto Rever. Signor l‟Abate Loredano, ma me‟
della sua affabilità et cortesia. Onde essendole io per questa cagione obligato,
ho preso occasione di obligarmele molto più col publicar hora, sotto il suo
nome questa mia fatica, e pregandola a riceverla con la medesima humanità,
con che si degnò di ascoltarla. Né penso, che ella le sarà manco grata per es-
sere iscritta in Lingua Italiana, sapendo che non meno si diletta di leggere i
componimenti nostri, di quello che ella faccia i Francesi suoi proprij; et natij.
Et se la illustre memoria del glorioso Francesco, a questa età amatore arden-
tissimo delle virtù, ebbe in tanta istima i poemi italiani, che non solo volen-
tieri gli ascoltava, ma premiava etiandio et a sé chiamava cortesemente tutti
quelli che in essi avevano alchun nome: per che non debbo io credere, che V.
S., che è uno de‟ più chiari lumi della nobiltà et delle virtù francesi; gradisca
di veder nell‟istesso terreno Italiano ridotto il seme dell‟antico Euripide? Il
quale se avenuto fosse, che per difetto del mio ingegno, havesse in qualche
parte tralignato dalla sua primiera bontà: non debbo similmente sperare che
quella stessa humanità, che tanto V. S. adorna, iscusandomi, riguardi più al-
l‟animo che alle forze? Certo sì, et in ciò assicurandomi le porgo humilmente
così fatto dono; et a V. S. mi raccomando et inchino.
Di Vinegia, il dì primo de la
Quaresima, l‟anno 1549
212
Dolce è il primo autore europeo a operare questa scelta.
180 Venezia in coturno
1) madre-moglie di Edipo;
2) madre di Eteocle, Polinice, Antigone, Ismene;
3) sorella di Creonte;
4) zia di Meneceo ed Emone;
213
Euripidis Tragoediae XVIII per Dorotheum Camillum et Lati[n]o donatae, et in lucem
editae: Hecuba, Orestes, Phoenissae, Medea, Hippolytus, Alcestis, Andromache, Supplices,
Iphigenia in Aulide, Iphigenia in Tauris, Rhesus, Troades, Bacchae, Cyclops, Heraclidae, He-
lena, Ion, Hercules furens, Basilea, Robert Winter, 1541. Ogni tragedia è preceduta da un Ar-
gumentum ed è anche possibile che proprio utilizzando queste sezioni peritestuali, Dolce ab-
bia esemplato le sue tragedie euripidee. Ricordiamo che Doroteo Camillo (1499-1578), calvi-
nista, fu professore di greco presso l‟Università di Zurigo e ambasciatore presso la Repubblica
di Venezia e la corte francese.
214
È la prima tragedia dolciana in cui troviamo un prologo separato e autonomo rispetto
alla fabula. Sicura è, per questo particolare, l‟influenza giraldiana.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 181
215
Vd. G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 61-96.
216
Per l‟idea di Venezia nella storia cfr. sempre F. GAETA, L‟idea di Venezia, in „Storia
della Cultura Veneta‟, 3/III: Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, a c. di M. PASTO-
RE STOCCHI e G. ARNALDI, Vicenza, Neri Pozza, 1981, pp. 565-641.
217
Da notare la venezianizzazione cui Dolce sottopone il personaggio euripideo del Peda-
gogo che diventa un Bailo.
218
Cfr. A Tragedie written in Greeke by Euripides translated and digested into Acte by
George Gascoygne and Francis Kinwelmershe of Grayes Inne, and there by them presented,
1566.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 183
219
L‟elenco degli Interloquutors della Jocasta è totalmente mututato da quello del Dolce:
Jocasta, Servus, Bailo, Antygone, Chorus (= foure Thebane dames), Pollynices, Eteocles,
Creon, Meneceus,Tyresias, Manto, Sacerdos, Nuntii, Oedipus.
220
Nell‟ordine: le nozze con Laio; la sua curiositas riguardo al destino dei figli e la mo-
struosa profezia dell‟oracolo delfico; l‟esposizione del neonato Edipo, la sua casuale salvezza
ad opera di un pastore e la sua adozione da parte di Polibo e Merope; l‟attuazione della profe-
zia; l‟autoaccecamento edipico; lo scontro politico fra Eteocle e Polinice che ha portato
all‟attuale situazione: Tebe è assediata dalle truppe argive di Adrasto e di Polinice, che vuole
risolvere militarmente il conflitto (dinastico e politico) che lo oppone al fratello.
221
Tutta la scena è, in sostanza, una sorta di drammatizzazione narrativa con pura funzio-
ne informativo-espositiva della tragica vicenda di Edipo. Cfr. EURIPIDE, Phoinissai, vv. 1-77,
dove il prologo, affidato alla sola Giocasta, ha la consueta funzione riepilogativa che serve a
meglio precisare il momento nel quale l‟azione è avviata; in essa tragedia viene conferito un
maggiore rilievo al motivo della genealogia della famiglia reale tebana (con sfoggio di prezio-
sismi onomastici che Dolce, naturalmente, liquida) e, in più, vi è un ben diversamente calibra-
to rispetto dei tempi scenici, con qualche ellissi e maggiore economia informativa: Dolce ri-
tiene indispensabile – è un suo tratto caratterizzante – informare con puntualità su tutto ciò
che può essere non solo oggetto di equivoci o fonte di dubbi (sciogliendoli, se necessario), ma
anche causa di una non perfetta intelligenza dello sviluppo della tragedia da parte degli spetta-
tori; fatalmente, talvolta, ottiene questo risultato, sacrificando parzialmente coerenza ed effi-
cacia drammatica e dilungandosi pesantemente e quasi digressivamente.
184 Venezia in coturno
GIOCASTA
Ecco perché del mal concetto seme
Non si sentisse il miser cieco [Edipo scil.] allegro:
I due figliuol, da crudeltà sospinti,
A perpetua prigion dannaro il padre:
La ‟ve, in oscure tenebre sepolto,
Vive dolente e disperata vita,
Sempre maledicendo ambi i figliuoli,
E pregando le furie empie d‟Inferno
Che spirin tal velen ne i petti loro,
Che questo e quel contro sé stesso s‟armi;
E s‟aprano le vene, e del lor sangue
Tingano insieme le fraterne mani
Tanto, che morto l‟un e l‟altro cada.
E ne vadano a un tempo a i Regni stigi.(vv. 130-143)
SENECA, Phoenissae
OEDIPUS
Tumet animus ira, feruet immensum dolor.
Maiusque quod casus, et iuuenum furor
Conatur, aliquid cupio. non satis est adhuc
Ciuile bellum, frater in fratrem ruat.
Nec hoc sat est. quod debet ut fiat nefas
De more nostro, quod meos deceat toros,
Date arma patri. (vv. 356-62a)
SENECA, Thyestes
MEGAERA
Certetur omni scelere, et alterna uice
Stringantur enses, ne fit irarum modus,
Pudorue, mentes saecus instiget furor.
Rabies parentum duret, et longum nefas
Eat in nepotes. nec uacet cuiquam uetus
222
G. RUCELLAI, Rosmunda, v. 58: «La morte è fin de le miserie umane».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 185
L. DOLCE, Thyeste
MEGERA
Fa‟ che li duo fratelli,
A te nipoti degni,
Tingan nel sangue lor gli acuti ferri. (vv. 42-44)224
JOCASTA
Now to the ende this blinde outrageous fire
Should reape no joye of his unnaturall fruite,
His wretched sons, prickt foorth by furious spight.
Adjudge their father to perpetuall prison:
There, buried in the depthe of dungeon darke,
Alas! he leades his discontented life,
Accursing still his stony harted sonnes,
And wishing all th'infernall sprites of hell
To breathe suche poysned hate into their brestes
As eche with other fall to bloudy warres.
And so with pricking poynt of piercing blade
To rippe their bowels out, that eche of them
With others bloud might strayne his giltie hands,
And bothe at once, by stroke of speedie death,
Be foorthwith throwne into the Stigian lake. (I, 1, vv. 144-158)225
223
Sequenza che dipende a sua volta da OVIDIO, Metamorphoses, I, vv. 144 ss.
224
Citiamo sempre dalla nostra edizione: L. DOLCE, Tieste, a c. di S. GIAZZON, Torino,
RES Edizioni, 2010.
225
J. W. CUNLIFFE (a c.di), Supposes and Jocasta, two plays translated from the Italian,
the first by George Gascoygne, the second by George Gascoygne and Francis Kinwelmershe,
Boston and London, D.C. Heath & Co. Publishers, 1906, pp. 149-50.
226
Cfr. EURIPIDE, Phoinissai, vv. 66-68.
186 Venezia in coturno
co dei fratelli. L‟azione scenica vera e propria inizia solo dopo questa
francamente verbosa sezione analettica: Giocasta ha ottenuto dai figli
la promessa della tregua di un‟ora, nella quale Eteocle e Polinice si in-
contreranno per provare a comporre la contesa che li vede opposti:
GIOCASTA
Ho fatto sì con le preghiere mie,
Ch‟oggi, che si dovea dar la battaglia
A la cittade, o che le genti nostre
Uscissero di fuori a la campagna,
Tanto di tregua conceduto m‟hanno
I due fratelli, anzi nimici fieri,
Ch‟io tenti, pria che tra lor movan l‟armi,
S‟acquetar posso le discordie loro,
Assegnandomi a questo un‟ora sola. (vv. 177-185)
SERVO
Color, che i seggi e le reali altezze
Ammiran tanto, veggono con l‟occhio
L‟adombrato splendor, ch‟appar di fuori,
Scettri, gemme, corone aurati panni;
Ma non veggon dapoi con l‟intelletto
Le penose fatiche, e i gravi affanni,
Le cure, e le molestie a mille a mille,
Che di dentro celate e ascose stanno.
Non san, che come il vento e le saette
Percuoton sempre le maggiori altezze:
Così lo stral de la fortuna ingiusta
Fere più l‟huom, quanto più in alto il trova.
Ecco Edippo pur dianzi era Signore
Di noi Thebani, e di si bel domino
Stringea superbo, et allentava il freno,
Et era formidabile a ciascuno:
Le tragedie di Lodovico Dolce II 187
BAILO
Gentil figlia d‟Edippo, e pia sorella
De l‟infelice giovane, sbandito
Dal suo fratel de le paterne case:
A cui ne i puerili e tener‟anni
Fui (come saper dei) bailo e custode:
Esci, poi che ‟l concede la Reina;
E fa, ch‟io sappia la cagion, ch‟adduce
Così honesta fanciulla a porre il piede
Fuor de‟ secreti suoi più cari alberghi
Hor che per tutto la cittade è piena;
Di soldati e di bellici istrumenti;
Né viene a nostre orecchie altro concento,
Ch‟annitrir di cavalli, e suon di trombe:
Il qual par, che scorrendo in ogni parte
Formi con roche voci sangue e morti.
Non mostra il Sol quel lucido splendore,
Ch‟ e‟ suol mostrar, quando conduce il giorno;
227
I vari motivi qui proposti sono ricorrenti nel corpus tragico (ma non solo) di Seneca:
vd. Hercules furens, vv. 159-201, Agamemnon, vv. 57-107, Thyestes, vv. 339-403, 446-470,
596-622, Phaedra, vv. 483-525, Octauia, vv. 377-84 e 896-98, Hercules Oetaeus, vv. 644-
657. Il modello fondamentale è certamente e platealmente ORAZIO, Carmina, II. 10 e III. 29.
Fra i moderni vd. almeno F. PETRARCA, Triumphus Mortis, I, vv. 79-92 e G. B. GIRALDI CIN-
ZIO, Orbecche, vv. 611-25.
228
Bailo equivale a balio, ovvero colui che allevava e faceva crescere culturalmente un
fanciullo.
188 Venezia in coturno
ANTIGONE
Ambi son miei fratelli, et ambedoi
Gli amo, quanto più amar sorella deve.
Ma l‟ingiuria, c‟ha fatto a Polinice
Questo crudel, c‟ha effetto di Tiranno,
M‟induce ad amar più la vita e ‟l bene
Di Polinice, ch‟i non fo di lui:
Oltre, ch‟essendo Polinice in Thebe,
Mostrò sempre ver me più caldo amore,
Che non fec‟egli; a cui par ch‟io mi sia
Caduta in odio; anzi io mi sono accorta,
Che vorria non vedermi, e forse pensa
Tormi di vita: e lo farà, potendo.
Onde questa da me bramata nuova
M‟è cara pel desio, c‟ho di vederlo.
229
Inopinata, a questo punto della vicenda, l‟uscita di Antigone su Creonte, ma interessan-
te perché chiaro segnale della pressione interdiscorsiva che induce Dolce ad attivare, certo de-
sultoriamente, altre linee drammatiche, potenzialmente decettive per lo spettatore, ma capaci
anche di sollecitarne la cooperazione interpretativa in modi non banali. Nelle parole e nei
comportamenti di Antigone sembra esservi, per così dire, traccia della sua personale tragedia.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 189
ANTIGONE
Caro a me in questo mezo intender fora
L‟ordine de l‟esercito; e se questo
È tal, che basti ad espugnarne Thebe:
Che grado tiene il mio fratello, e dove
Trovato l‟hai, e quai parole ei disse
[…].
BAILO
Giunto, ch‟io fui nel campo, ritrovai
L‟esercito ordinato, e tutto in armi,
Come volesse alhor dar la battaglia
A la cittade. L‟ordine diviso
È in sette schiere; e di quelle ciascuna
È di buon Capitan posta in governo.
A ogn‟un de Capitani è dato cura
D‟espugnar una porta: che ben sai,
Che la nostra cittade ha sette porte. (vv. 346-75)231
230
Cfr. EURIPIDE, Phoinissai,vv. 117-181.
231
Da notare la superflua expolitio esplicativa dei due ultimi versi.
190 Venezia in coturno
ANTIGONE
Un ardente desio m‟infiamma ogn‟hora
Di veder Polinice: ond‟io ti prego,
Che in una de le Torri mi conduchi
Donde si veggon le nimiche squadre:
Che pur, ch‟io pasca alquanto gli occhi miei
De la vista del caro mio fratello;
S‟io ne morrò dapoi, morrò contenta.
BAILO
Real figliuola la pietà, che serbi
Verso il fratello, è d‟ogni lode degna.
Ma brami quel che non si può ottenere,
Per la distanza ch‟è dalla cittade
Al piano, ove l‟esercito è accampato.
Appresso non conven, ch‟una pulcella
Veder si lassi in luogo, ove fra tanti
Nuovi soldati et huomini da guerra
È il buon costume, e l‟honestà sbandita.
Ma rallegrati pur, che ‟l tuo desio
Contento fia tra poco spatio d‟hora
Senza disturbo alcun, senza fatica:
Però, che qui fia tosto Polinice. (vv. 267-86)
232
Al di là delle materiali condizioni teatrali in cui la tragedia fu rappresentata (che evi-
dentemente non agevolavano la realizzabilità di una scena di teichoskopìa credibile), qui av-
vertiamo anche l‟orrore di Dolce per le sequenze drammaticamente poco verosimili. In Euri-
pide, quali che siano la diversa altezza poetica della sua tragedia rispetto a quella del Dolce e
le profonde, sostanziali, giustificazioni culturali, letterarie e topiche che portano a inserire la
scena di teichoskopìa e il contestuale catalogo delle armi nemiche (riconducibili forse anche
alla pressione intertestuale esercitata dagli Hepta epì Thebas di Eschilo), questa sezione risul-
Le tragedie di Lodovico Dolce II 191
CORO
Da grave error fu circondato e cinto
Quei, che tranquilla vita
Pose nella volgar più bassa gente.
Quando la luce a chi regge è sparita,
A noi si asconde il giorno,
E sdegna il Sol mostrarsi in Oriente:
Né può sì leggermente
Il Principe patir ruina o scempio,
Che ‟l suddito meschin non senta il danno.
E di ciò d‟anno in anno
Scopre il viver human più d‟uno esempio.
Così delle pazzie de‟ Real petti
Ne portano il flagel sempre i soggetti. (vv. 432-444)
POLINICE
Questa è pur la città propria e natia:
Questo è il paterno mio diletto nido.
Ma bench‟io sia tra le mie stesse case,
E ‟nsieme securtà me ne habbia data
Colui, che gode le sostanze mie:
Non debbo caminar senza sospetto;
Poi, ch‟ove e ‟l mio fratello, ivi bisogna,
Ch‟io tema più, che fra nemiche genti.
È ver, che mentre ne la destra mano
Sostegno questa giusta e invitta spada,
S‟io morrò, non morrò senza vendetta.
Ma ecco il santo Asilo, ecco di Bacco
La veneranda Imago, ecco l‟altare,
La dove il sacro foco arde e risplende;
E dove nel passato al nostro Dio
Tante già di mia man vittime offersi.
Veggo dinanzi un honorato coro
Di Donne: e sono a punto de la corte
236
Qui vi è la riformulazione di alcuni motivi della pàrodo delle Phoinissai euripidee.
237
Scorgiamo analogie, dinamiche e attanziali, con la scena I del terzo atto del Tieste (vv.
596-626), in cui Tieste recupera la patria dopo l‟esilio. Naturalmente, se è legittimo vedere in
Polinice un nuovo Tieste, è perfettamente logico pensare a Eteocle come nuovo Atreo. Inoltre
vd. L. DOLCE, Tieste, v. 601: «Veggo il natio terren e i patrii Dei».
194 Venezia in coturno
ETEOCLE
Se quello, che ad alcun assembra honesto
Paresse honesto parimente a tutti,
Non nascerìa giamai contesa o guerra.
Ma quanti huomini son, tante veggiamo
Essere l‟openion; e quel, che stima
Altri ragion, ad altri è ingiuria e torto.
Dal parer di costui [Polinice scil.] lungo camino
Madre (per dire il vero) è il mio lontano.
Né vi voglia occultar, che s‟io potessi
Su nel cielo regnar, e giù in Inferno,
Non mi spaventeria fatica e affanno
Per ritrovar al mio desio la strada
Di gire in questo, o di salir in quello.
Onde non è da creder ch‟io commetta,
Che del dominio, ch‟io posseggo solo
Altri venga a occupar alcuna parte:
Ch‟egli è cosa da timido et da sciocco
Lasciar il molto per haver il poco.
Oltre di questo, ne verria gran biasmo
Al nome mio; se costui, ch‟è mosso
Con l‟armi per guastar i nostri campi,
Ottenesse da me quel che vorria.
243
Come esemplarmente chiarisce Giocasta appena entra in scena il figlio (vd. vv. 715
ss.): «Raffrena, figliuol mio, l‟impeto e l‟ira/Ch‟offuscano la mente di chi parla/In guisa, che
la lingua, a mover pronta/Di rado può formar parola honesta./Ma quando con lentezza e senza
sdegno/L‟huom discorrendo quel, che dir conviene,/Voto di passion la lingua scioglie,/Alhor
escono fuor sagge risposte,/E di prudenza ogni suo detto è pieno./Rasserena il turbato aspetto
o figlio,/E non drizzar in altra parte gli occhi,/Che qui non miri il volto di Medusa,/Ma si tro-
va presente il tuo fratello».
196 Venezia in coturno
[…]
Non di meno, s‟ei vuol ne la cittade
Habitar, come figlio di Giocasta,
Non come Re di Thebe, io gliel concedo.
Ma non istimi già che, mentre io posso
Comandar ad altrui, voglia esser servo.
Mova pur contra noi le genti armate,
E i fuochi e i ferri: ch‟io per me giamai
Non son per consentir, che meco regni. (vv. 790-827)
GIOCASTA
O misera Giocasta, ove si trova
Miseria, ch‟a la tua sen vada eguale?
Deh foss‟io priva di quest‟occhi, e priva
Di queste orecchie oimè, per non vedere,
Et udir quel, ch‟udir et veder temo.
Ma che mi resta più, se non pregare
Il dolor, che mi sia tanto cortese,
Che mi tolga di vita, avanti, ch‟io
Intenda nuova, ch‟a pensar mi strugge:
Donne restate fuor, pregate i Dei
Per la salute nostra: ch‟io fra tanto
Mi chiudo in parte, ove non vegga luce. (vv. 1040-53)
CORO
Fero e dannoso Dio;
244
Cfr. EURIPIDE, Phoinissai, vv. 690-783.
245
Formato da quattro stanze con schema [abC. abC. cdeeD. fF] e un congedo di tre versi,
modellato su F. PETRARCA, Rvf, 126.
198 Venezia in coturno
TIRESIA
Per cagion d‟Eteocle molti mesi
Chiudendo per timor la bocca ogn‟hora,
Rimasi in Thebe di predir il vero.
Ma poi che tu mi chiedi il gran bisogno,
Ch‟io t‟apra il vel de le celate cose,
A bene universal de la cittade,
Son contento di far, quanto ti piace.
Ma prima è di mestier, ch‟al vostro Dio
Hora si faccia sacrificio degno
246
Giocasta, vv. 1174-78: «Però vo che tu mandi il tuo figliuolo/Per Tiresia indovin, ch‟a
te ne venga;/Che ben so che venir per nome mio/Non vorebb‟egli, perché alcune vol-
te/Vituperai quest‟arte, e lo ripresi».
247
Cfr. EURIPIDE, Phoinissai, vv. 834-959.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 199
TIRESIA
Reca la salsa mola; e spargi d‟essa
Il collo de la bestia, il resto poni
Nel sacro foco; et ungi poi d‟intorno
Il coltel destinato al sacrificio.
[…]
SACERDOTE
Questo officio ho fornito.
TIRESIA
Il capro svena.
SACERDOTE
Tu figlia di Tiresia entro quel vaso
Con le vergini man ricevi il sangue:
Quinci divota l‟offerisci a Bacco.
MANTO
Santo di Thebe Dio, ch‟apprezzi ed ami
La pace, e sdegni di Bellona e Marte
I noiosi furor, le ingiurie, e l‟armi,
Dator d‟ogni salute, e d‟ogni gioia;
Gradisci o Bacco, e con pia man ricevi
Questo debito a te sacro olocausto:
E, come questa alma città t‟adora;
Così per te, che lo puoi far, respiri,
E da nimici oltraggi illesa resti.
248
Cfr. SENECA, Oedipus, vv. 291-402.
249
Medesima funzione attanziale e informativa mi pare avere Manto in Seneca, Oedipus,
vv. 303-383.
200 Venezia in coturno
SACERDOTE
Hor col tuo santo nome apro col ferro
La vittima.
TIRESIA
Mi di‟, sì come stanno
L‟interiora.
SACERDOTE
Ben formate e belle
Son per tutto. Il fegato è puro, e ‟l core
Senza difetto; è ver, ch‟egli non have
Più ch‟una fibra; appresso cui si vede
Un non so che, che par putrido e guasto:
Il qual levando, ogn‟intestino resta
Intatto e sano.
TIRESIA
Hor pon nel sacro foco
Gli odoriferi incensi: indi m‟avisa
Del color de le fiamme, e d‟altre cose
Convenienti a vaticinio vero.
SACERDOTE
Veggo la fiamma di color diversi,
Qual sanguigno, qual negro, e qual in parte
Bigio, qual perso, e qual del tutto verde. (vv. 1336-73)
Oedipus, v. 335
et sparge salsa colla taurorum mola
Thyestes, v. 688
tangensque salsa uictimam culter mola
Oedipus, v. 352
sede ede certas uiscerum nobis notas
250
Citiamo per comodità dall‟edizione critica di Otto Zwierlein.
251
Cfr. L. DOLCE, Didone, vv. 750-63.
252
D. ALIGHIERI, Inferno, VII, v. 104 e F. PETRARCA, Rvf, 29, v. 1 e Triumphus Cupidinis,
IV, v. 123.
202 Venezia in coturno
TIRESIA
Hor basti questo haver veduto e inteso.
Sappi Creonte, che la bella forma
De gli exti, appresso quel, che mi dimostra
Il Signor, ch‟ogni cosa intende e vede,
Dinota, come la città di Thebe
Contra gli Argivi vincitrice fia,
Se averrà, che consenti. Ma non voglio
Seguir più avanti.
CREONTE
Deh per cortesia
Segui Tiresia, e non haver rispetto
Ad huom, che viva, a raccontar il vero.
[…]
TIRESIA
Contra di quel, c‟ho detto, il fero incesto,
E ‟l mostruoso parto di Giocasta
Cotanto ha mosso in ciel l‟ira di Giove,
Che innonderà questa citta di sangue;
Correrà vincitor per tutto Marte
Con fochi, uccision, rapine, e morti:
Cadranno gli edifici alti e superbi,
E ‟n breve si dirà, qui fu già Thebe.
Solo una strada a la salute io veggio:
M‟a te non piacerà Creonte udirla,
Et a me forse il dir non fia sicuro.
Però mi parto. (vv. 1374-1400)
TIRESIA
Intenderai Creonte,
Che la via di salvar questa cittade
È tal: conven, che ‟l tuo figliuolo uccidi;
Conven, che per la patria del suo corpo
Vittima facci. Hor ecco quel, che cerchi
Di saper: e da poi, che m‟hai sforzato
A dirti cosa, ch‟io tacer volea,
S‟offeso t‟ho con le parole mie,
Di te ti duol, e de la tua fortuna. (vv. 1425b-33)
MENECEO
Sapete padre mio la vita nostra
Esser fragile e corta, e veramente
Non altro tutta, che travagli e pene:
E morte, ch‟ad alcun par tanto amara,
Porto tranquil de le miserie humane:
A la qual chi più tosto arriva, è giunto
Più tosto da gli affanni al suo riposo.
Ma posto che qua giù non si sentisse
Punto di noia, e non turbasse mai
Il bel nostro seren l‟empia fortuna:
Essendo io nato per morir, non fora
Opra di gloria e chiaro nome degna
A donar a la patria, ov‟io son nato
Per lungo bene un breve spazio d‟anni?
Io non credo, ch‟alcun questo mi neghi.
Hor se a vietar sì gloriosa impresa
Cagion sola di me padre vi move;
V‟aviso, che cercate di levarmi
Tutto il maggior honor, ch‟acquistar possa.
Se per vostra cagion, dovete meno:
Però, che quanto maggior parte havete
In Thebe, tanto più dovreste amarla.
A presso havete Hemon, ch‟in vece mia
Padre mio caro rimarrà con voi,
253
Giocasta, vv. 1484-86: «Anzi dovete consentir ch‟io mora,/Padre, da poi che ‟l mio
morir fia quello/Ch‟apporti a la città vittoria e pace».
254
Per alcune declinazioni del motivo vd. almeno CICERONE, Cato maior de senectute,
XIX, 71; SENECA, Epistulae morales ad Lucilium, II, 19. 2; D. ALIGHIERI, Convivio, IV, 28, 2-
3; F. PETRARCA, Rvf, 126, 20-26; 317, v. 1 ; 332, vv. 69-70; 365, vv. 9-10.
204 Venezia in coturno
CREONTE
Io non posso figliuol, se non biasmare
Questo, c‟hai di morir troppo desio
Che se de la tua vita non ti cale,
Ti dovrebbe doler di me tuo padre;
Il qual, quanto piu inanzi vo poggiando
Ne la vecchiezza, tanto ho piu bisogno
Della tua aita. Io già negar non voglio,
Che ‟l morir per la patria non apporti
A gentil cittadin gloria et honore:
M‟alhor, quando si muor con l‟arme in mano,
Non, come bestia, in sacrificio uccisa.
E se pur deve consentir alcuno
Per tal cagione a volontaria morte
Debbo esser io quell‟un; che essendo visso
Assai corso di tempo, è breve e poco
Quel che mi resta di fornir ancora:
Et utile maggior la patria nostra
Può sperar figliuol mio da la tua vita,
Che sei giovane e forte, che non puote
Sperar da un vecchio homai debole e stanco.
Vivi adunque figliuol; ch‟io morir voglio,
Come di te già di morir piu degno.
MENECEO
Degno non è si indegno cambio farsi.
CREONTE
Se in tal morir è gloria, a me la dona.
MENECEO
Non voi, me chiama a questa morte il cielo.
CREONTE
Ambi siamo un sol corpo, ambi una carne.
255
I versi in questione presentano una proliferazione del tutto eccezionale, e certo non ca-
suale, di vari lessemi riconducibili alla morte.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 205
MENECEO
Padre io debbo morir non voi.
CREONTE
Morendo
Tu, non pensar figliuol, ch‟io resti in vita.
Lassa adunque ch‟io mora, che in tal modo
Morrà figlio chi deve, e morrà un solo. (vv. 1516-45)
MENECEO
Ecco ch‟io parto.
Donne pregate voi pel mio ritorno.
Vedete ben, come malvagia stella
M‟induce a gir de la mia patria fuora:
E, s‟egli aviene, ch‟io finisca avante
Questa mia giovenil dolente vita,
Honoratemi voi del vostro pianto.
In tanto anch‟io per la salute vostra
Pregherò sempre, ov‟io men vada, i Dei. (vv. 1594-1602)
256
EURIPIDE, Phoinissai, vv. 991 ss..
257
Del progetto di morte di Meneceo siamo semmai informati nel suo dialogo col padre:
Dolce cerca di mantenere la tensione riguardo al destino di morte che incombe sul ragazzo.
Come noto, la vicenda di Creonte e Meneceo è tematicamente rilevante nello sviluppo di una
fabula programmaticamente poco coesa e policentrica quale Phoinissai.
258
Composto da cinque stanze di canzone con schema [AbC. ABC. dee. FF] e congedo.
259
Cfr. EURIPIDE, Phoinissai, vv. 1018-1066.
206 Venezia in coturno
CORO
Quando colei, ch‟in su la rota siede
Volge il torbido aspetto
A l‟huom, che ‟l suo seren godea felice:
Non cessa di girar l‟instabil piede
Fin, ch‟ad ogni miseria il fa soggetto:
E come pianta svelta da radice
Egli non più ritorna,
Onde l‟ha spinto quella
Del nostro ben rubella:
E se pur torna, non pò gir di paro
Il dolce suo col già gustato amaro.
Dura necessità ben pose il cielo
Sovra l‟humane cose:
Che per vedere il nostro male avanti
(Come bendasse gli occhi oscuro velo)
Perché non sian le voglie al ben ritrose,
Non possiamo trovar riparo a i pianti.
Onde la sorte ria
Chi contende, per forza
Tira; e chi a la sua forza
Cede, adduce in un punto a la ruina,
Che ‟l ciel per nostro mal spesso destina.
Saggio nocchier, s‟a gran periglio mira
Il combattuto legno
Hor quinci, hor quindi da contrari venti,
Là, ‟ve grave del ciel lo caccia l‟ira,
Solea l‟ondoso regno,
Quantunque del suo fin tremi e paventi:
Perché conosce e ‟ntende,
Ch‟a chi col ciel contrasta
Human saper non basta:
Ond‟ei ponendo in Dio tutto ‟l conforto,
Sovente arriva al desiato porto.
Sciocco è chi crede, che ‟l gran padre eterno,
Che là su tempra e move
Ad uno ad uno i bei lucenti giri,
Non habbia di qua giù tutto ‟l governo,
A tal, che non si trove
Poter che senza lui si stenda, o giri.
O noi ciechi del tutto
E miseri mortali
Soggetti a tanti mali:
Che per esser digiun di pene e guai,
Le tragedie di Lodovico Dolce II 207
260
F. PETRARCA, Triumphus Cupidinis, III, v. 178 e 186; Triumphus Mortis, I, v. 46-48, in
cui, fra l‟altro, l‟ultimo verso («nel vostro dolce qualche amaro metta»), viene riformulato da
Dolce al v. 1613. Inoltre vd. Rvf, 57, v. 12; 164, v. 10; 173, v. 5; Triumphus Cupidinis, III, v.
186. Per altri luoghi dolciani vd. Didone, vv. 176-177: «Pur che non turbi il mio seren fortu-
na/Né in tanto dolce qualche amaro metta» e vv. 676-679: «Ché quella, ch‟i mortai si prende a
giuoco,/Dal suo vaso distilla/Il dolce stilla a stilla,/M‟a guisa d‟onde suol versar l‟amaro».
208 Venezia in coturno
261
Va anche aggiunto che quasi tutti gli editori e gli interpreti di Euripide ritengono la
lunga sequenza frutto di interpolazioni posteriori: Dolce sembrerebbe quasi aver intuito la na-
tura spuria dei versi in questione, verosimilmente più per ragioni di coerenza drammatica, che
per precise intuizioni critico-testuali.
262
Vd. Giocasta, vv. 1835-1929. Solo sedici gli endecasillabi su 94 vv.. Qui rileviamo
almeno: varie dittologie (mestizia e pianto, paura et horrore, fiero e miserabil, affanno e duo-
lo…); geminatio e redditio al v. 1835; un‟assonanza ai vv. 1835-1836 (madre-formate); rime
ai vv. 1837, 1838, 1843 (accenti-dolenti-spenti), 1841-1842 (mio-Dio), 1861-1862, 1889-
1892 e 1894-1896; un polittoto al v. 1841; una geminatio composta al v. 1839 («Che vi mole-
sta, ohimè? Che vi molesta?»); l‟anafora dell‟esclamativo ohimè ai vv. 1844 e 1845 (con sim-
ploche nel primo dei due versi: «Ohimè, che dite, ohimè, che cosa dite?»); un perfetto chia-
smo con reduplicatio ai vv. 1850-1851 («Eteocle crudele:/O crudele Eteocle»), con puro valo-
re enfatico; la rima a distanza vivo-privo (vv. 1846 e 1856); un‟altra geminatio al v. 1858 (an-
diamo, andiamo: ripresa perfettamente al v. 1873, ma in punta di verso); l‟allitterazione della
[v] ai vv. 1859-1860 («Dove volete voi,/Madre, ch‟io venga?»); una rima interna, ma a di-
stanza ai vv. 1893-1897 (dolente-possente ); altra rima ai vv. 1902-1903 (dolore-core); una
nuova geminatio composta al v. 1907 («Io tremo, tutta, io tremo»); l‟allitterazione di [s] al v.
210 Venezia in coturno
NUNZIO
Sappiate signor mio, che ‟l vostro figlio
Venne inanzi a Eteocle, e disse a lui
Con alta voce, che ciascuno intese.
– Re la vittoria nostra, e la salute
De la città non è riposta in arme,
Ma consiste signor ne la mia morte:
Così ricerca, anzi commanda Giove.
Onde sapendo il beneficio, ch‟io
Posso far a la patria, ben sarei
Di sì degna cittade ingrato figlio,
Se al maggior uopo io ricusassi usarlo.
Qui pria vestei Signor la mortal gonna,
E qui honesto fia ben, ch‟io me ne spogli.
Però dapoi, che così piace a i Dei,
Uccido me, perché viviate voi.
Cortesi cittadin l‟officio vostro
Sarà poi d‟honorar il corpo mio
Di qualche sepoltura; ove si legga
Qui Meneceo per la sua patria giace –.
Così disse, e col fin de le parole
Trasse il pugnal, e se l‟ascose in petto. (vv. 1959-79)
1911 («Che sono un sangue istesso»); una rima interna ai vv. 1913-1914 e ancora una rima ai
vv. 1917-1919 (infelice-genitrice); per concludere con l‟epifora di morte (vv. 1920-1921), con
ripresa anaforica interna al v. 1923.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 211
CREONTE
Poiché ‟l mio sangue deve
Purgar l‟ira di Giove, et esser quello
Che solo pace a la cittade apporti;
È ben anco ragion, ch‟io sia signore
Di Thebe: e ne sarò forse col tempo
Per bontade o per forza. Questo è il nido
De le scelerità. La mia sorella
Sposò il figliuol, che prima uccise il padre
E di tal empio abominoso seme
Nacquero i due fratei, c‟hor son trascorsi
A l‟odio sì, ch‟o questo, o quel fia spento.
Ma perché tocca a me? Perché al mio sangue
Portar la pena de gli altrui peccati?
O felice quel nuntio, che mi dica,
– Creonte i tuoi nipoti ambi son morti –.
Vedrassi alhor, che differenza sia
Da signor a signor; e quanto nuoce
L‟haver servito a giovane alcun tempo.
Io vo di qui per far, ch‟al mio figliuolo
S‟apparecchin l‟esequie: che saranno
Debitamente accompagnate forse
Da l‟esequie del corpo d‟Eteocle. (vv. 1981b-2002)
Creonte dichiara il proprio progetto politico, anche alla luce del sa-
crificio sproporzionato che lui ha dovuto subire; durissima la requisi-
toria contre Tebe, sentina di «scelerità» inenarrabili, e contro i nipoti,
di cui lo zio si augura la contemporanea morte: che Creonte sia squas-
sato dal daimon della vendetta non deve sorprendere, data la sua situa-
zione emotiva; nondimeno, che venuto a conoscenza del terribile sui-
cidio di Meneceo, si trasformi ipso facto in un tiranno in pectore è
perlomeno curioso ed è probabile indizio, a mio avviso, della volontà
del Dolce di far sentire qualche suggestione sofoclea nel personaggio.
263
Tale sequenza, senza la culta allusione alla caverna del drago, è utilizzata da Dolce più
avanti (inizio dell‟atto V), con una dislocazione piuttosto tipica.
212 Venezia in coturno
CORO
Alma concordia; che prodotta in seno
Del gran Dio de gli Dei
Per riposo di noi scendesti in terra:
Tu sola cagion sei
Che si governi il ciel con giusto freno;
E che non sia tra gli elementi guerra.
In te si chiude e serra
Virtù tanto possente,
Che quei regge, e mantiene:
E da te sola viene
Tutto quel ben, che fa l‟humana gente
Gustar, quanto è giocondo
Questo, che da‟ mortali è detto mondo.
Tu pria da quel confuso antico stato,
Privo d‟ogni ornamento
Dividesti la Machina celeste.
Tu facesti contento
De l‟influsso e de l‟ordine a lui dato
Ogni Pianeta: e per te quelle e queste
A girar così preste
Stelle vaghe et erranti
Scoprono a gli occhi nostri
I lor bei lumi santi:
E tosto, che dal mar Febo si mostri,
Per te lieto et adorno
Risplende il ciel di luminoso giorno.
Tu sola sei cagion, ch‟a Primavera
Nascano herbette e fiori,
264
Sei stanze con schema [AbC.bAC.cdeeD.fF] e congedo.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 213
265
Cfr. G. G. TRISSINO, Sophonisba, vv. 596-681 e G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv.
320-83, ma anche vv. 2357-2439.
266
EURIPIDE, Phoinissai, v. 1310. Perfettamente adeguata al modello del Dolce è la resti-
tuzione di Gascoygne e Kinwelmershe, dove Creon esordisce nel V atto così: «Alas! what
shall I do?» (v. 1). Autenticamente tragica è la tensione che squassa il personaggio, che così
procede: «Pianger me stesso,/O la ruina de la patria?» (vv. 2084b-85a).
267
Senza alcuna pretesa di completezza, diamo conto qui di una serie di procedimenti sti-
listici: si va dalla replicazione anaforica su misero me con geminatio al v. 2121, all‟anafora di
quai e nuntio e quasi rima volte-morte con cui esordisce il Nunzio; dalla redditio di nuova con
reduplicatio al v. 2132, alle anafore di misero e miseria (vv. 2137-40), al perfetto chiasmo
trimembre dei vv. 2142-43, a suo modo memorabile («Piangete, Donne, oimè/Oimè, Donne,
piangete»), alle varie rime, etc..
Le tragedie di Lodovico Dolce II 215
NUNTIO
Al suon di tai lamenti il Signor nostro
Mandò con gran fatica fuor del petto
Un debole sospiro, e alzò la mano,
Quasi mostrando, di voler alquanto
Racconsolar la madre, e la sorella:
Ma in vece di parole fuor per gli occhi
Gli uscir alcune lagrime, e dapoi
Chiuse le mani, e abandonò la luce. (vv. 2267-74)
268
Questa seconda coppia è di legalità petrarchesca: vd. Rvf, 152, v. 1 e 283, v. 14.
216 Venezia in coturno
NUNTIO
Ma la madre vedendo ambi i figliuoli
Morti, vinta dal duol, tolse il pugnale
Di Polinice, e si passò la gola,
E cadde in mezo a i suoi figliuoli morta. (vv. 2296-99)
ANTIGONE
Madre, perduto io v‟ho, perduto insieme
Ho i miei cari fratelli.
O Polinice mio tu col tuo sangue
Hai posto fine a la crudel contesa
C‟havevi con colui,
Che già ti tolse il Regno:
E finalmente t‟ha la vita tolta.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 217
EDIPPO
Perché figliuola mia
Uscir fai questo cieco
Dal suo cieco et oscuro
Albergo di miserie e di lamenti
A quella luce chiara,
269
Vd. L. DOLCE, Tieste, vv. 1-8.
218 Venezia in coturno
ANTIGONE
Viva non sarò mai moglie di Hemone.
CREONTE
Ricusi d‟esser moglie al mio figliuolo?
ANTIGONE
Non voglio esser di lui, né d‟altri moglie.
CREONTE
Farò, che ci sarai, vogli, o non vogli.
270
Edippo risponde agli ordini di Creonte impiegando ancora una tessera petrarchesca da
Rvf, 216, v. 11, inserita nei vv. 2572-75: «O crudel mio destin ben fatto m‟hai/Nascer a le mi-
serie e a le fatiche/Di questa morte, che si chiama vita,/Più c‟huom mortal, che mai nascesse
in terra».
271
Tutta questa parte, spuria, anticipa diegeticamente lo scontro tra Creonte e Antigone.
272
Cfr. F. PETRARCA, Rvf, 90, v. 1; 143, v. 9 e Triumphus Cupidinis, III, v. 136.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 219
ANTIGONE
Ti pentirai d‟havermi usato forza.
CREONTE
E che potrai tu far, ond‟io mi penta?
ANTIGONE
Con un coltel reciderò quel nodo.
CREONTE
Pazza sarai, se te medesma uccidi.
ANTIGONE
Io seguirò lo stil d‟alcune accorte.
CREONTE
T‟intenderò, se tu più chiaro parli.
ANTIGONE
L‟ucciderò con questa mano ardita.
CREONTE
Temeraria e crudel ardisci questo?
ANTIGONE
Perché non debbo ardir sì bella impresa?
CREONTE
A che fin pazza queste nozze sprezzi?
ANTIGONE
Per seguir ne l‟esilio il padre mio.
CREONTE
Quel, ch‟in altri e grandezza, è in te pazzia. (vv. 2587-2602)
EDIPPO
N‟andrò figliuola, ove vorrà la sorte,
Riposando il meschin corpo dolente
Dovunque gli farà coperta il cielo.
Che in cambio di palagi e ricchi letti
Le selve, le spelunche, e gli antri oscuri,
Misero vecchio mi daranno albergo.
[…]
O madre, o moglie, misera egualmente:
Addolorata madre,
Addolorata moglie;
Oimè volesse Dio, volesse Iddio
Non fossi stata mai moglie né madre. (vv. 2613-32)
OEDIPUS
O wife, O mother, O both wofull names,
O wofull mother, and O wofull wyfe,
O woulde to God, alas, O would to God,
Thou nere had bene my mother nor my wife! (V, 5, vv. 163-66)
ANTIGONE
Padre mio, la giustitia non riguarda
Con diritt‟occhio i miseri; e non suole
Gastigar le pazzie di chi comanda. (vv. 2668-70)
F. PETRARCA, Rvf, 1, v. 4
quand‟era in parte altr‟uom da quel ch‟i‟ sono
Rvf, 28, v. 10
d‟un vento occidental dolce conforto
Rvf, 35, v. 4
Ove vestigio human la rena stampi
CORO
Con l‟esempio d‟Edippo
Impari, ogniun, che regge,
Come cangia fortuna ordine e stile:
Tal, che ‟l basso et humile
Siede in alto sovente;
E colui, che superbo
Hebbe già signoria di molta gente,
Spesso si trova in stato aspro et acerbo.
Onde, sì come di splendor al Sole
Cede la bianca Luna;
Così ingegno e virtù cede a Fortuna.
273
Chiaramente avvertibile l‟influsso del coro finale di G. RUCELLAI, Rosmunda, vv.
1226-1228: «Ciascun che regge, impari/Dal dispietato Re che morto iace/A non esser crudel,
che a Dio non piace».
222 Venezia in coturno
5. Ifigenia
274
L. DOLCE, Ifigenia, Venezia, Giolito de‟ Ferrari, 1551. Come le precedenti, anche que-
sta verrà citata nel testo fornito dalla ristampa giolitina del 1560.
275
Le fabulae su Ecuba e Ifigenia (in Aulide) sono le più note e pubblicate nel corso del
secolo XVI. Su 119 fra edizioni in greco, adattamenti e riscritture, traduzioni in latino o in
qualche lingua moderna europea di tragedie euripidee, si contano 59 stampe cinquecentesche
dedicate alle due tragedie.
276
ERASMO DA ROTTERDAM, Iphigenia in Aulide, in ID., Tragedie di Euripide, cit., pp. 73-
175.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 223
Nei primi versi (cfr. 1-14) Dolce fa un topico elogio dei patres del
Senato veneziano e del pubblico accorso alla rappresentazione della
tragedia. Molto significativi paioni invero i successivi versi, ove vi è
lo spazio e per una ricostruzione dell‟evoluzione storica del genere
tragico, e per la definizione di un vero e proprio canone della poesia
melpomenia cinquecentesca.277
277
Che sarà ripreso dal nostro – in maniera più sintetica – nella Marianna, Prologo I, vv.
40-46. Per una considerazione su questa sezione importantissima del prologo dolciano cfr. R.
CREMANTE, Appunti sulla grammatica tragica di Ludovico Dolce, cit., pp. 286-87: «Mentre
dunque si interroga sul significato delle rappresentazioni tragiche nella società contemporane-
a, il Dolce mostra di conoscere perfettamente l‟accidentato paesaggio storico della tragedia
cinquecentesca, illustrandone con notevole chiarezza e lucida coscienza critica, attraverso le
parole che la medesima Tragedia rivolge agli spettatori nel Prologo dell‟Ifigenia, il canone
Le tragedie di Lodovico Dolce II 225
e su nel mondo
I termini distinser le campagne (vv. 21-22)
e men trovando
Astrea, che n‟era già salita in ciel (vv. 24-25)
pressoché definitivo che comprende, nell‟ordine, gli esemplari del Trissino, dell‟Alamanni,
del Giraldi, del Rucellai, dello Speroni e dell‟Aretino (dall‟elenco prodotto più tardi nel primo
Prologo della Marianna saranno esclusi l‟Alamanni e l‟Aretino, morti entrambi nel 1556).
[…]. L‟eccellenza dei predecessori non impedisce tuttavia al Dolce, dalla sua specola di os-
servatore attento e sensibile dei problemi del consumo e dell‟industria culturale, di riconosce-
re con franchezza la complessiva insufficienza di quelle proposte, la loro generale inadegua-
tezza al paragone non soltanto degli archetipi greci e latini, ma anche dei più fortunati e popo-
lari generi letterari fiorenti alla metà del secolo».
278
Cfr. in particolare Metamorphoses, I, vv. 89-150, dove è descritto il passaggio dall‟au-
rea aetas alla ferrea aetas.
226 Venezia in coturno
1. Il primo atto comincia di notte: siamo nel campo acheo dove l‟e-
sercito è pronto a salpare per Troia dal promontorio dell‟Aulide, di-
nanzi alle coste dell‟Eubea. Agamennone è tormentato da cupi pensie-
ri, che vengono comunicati ad un fedele Servo: la battuta iniziale della
tragedia viene enfiata nella riscrittura del Dolce:
279
Allusione alla catarsi aristotelica, ma declinata secondo mutate coordinate ideologiche.
280
Definito, a scanso d‟equivoci e per neutralizzare qualunque possibile sorpresa,« finto
marito d‟Ifigenia», traduzione dell‟erasmiano Achilles dictus sponsus.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 227
AGAMENNONE
D‟ogni segreto mio ministro fido,
Che gli anni tuoi con la prudentia agguagli,
D‟animo via maggior, che di fortuna:
Se mai de l‟opra tua n‟havesti honore,
Hora è mestier, che nel maggior bisogno
La mia speranza, e la tua fede avanzi:
Che così forte, e si tenace nodo
D‟obligo mi porrai d‟intorno l‟alma,
Che non la potrà sciorre altro che morte. (vv. 1-9)
AGAMENNONE
Sappi, ch‟a la tua sorte invidia porto,
E sol felice e aventurato io chiamo
L‟huom, che in fortuna humil queto si vive,
Contento sol di quanto serve e basta
Al bisogno comun de la natura.
Però, ch‟a questo ambition d‟honori
Non arde il petto; e non gli rompe il sonno
Mordace cura: ma chi regge altrui
È sempre cinto di sospetti, e tema:
Che s‟ei tien ritta la giustitia in piede,
Gli huomini offende, et s‟ei la calca, i Dei. (vv. 26-36)282
281
Cfr. EURIPIDE, Iphigeneia, vv. 6-8; ERASMO, Iphigenia in Aulide, vv. 8-11.
282
Cfr. L. DOLCE, Tieste, vv. 676-705: «Credimi figliuol mio, ch‟indegnamente/S‟ap-
prezzano gli scettri e le corone/E de le cose dure, umili e basse/Ci percuote e ci tien vana pau-
ra./[…]/O quanto è sommo ben lasciar ch‟ognuno/A sua voglia si viva e umile in terra/Pren-
der, lieto e tranquil, securo cibo./[…]/Non teme picciol casa alta ruina./[…]/Agevolmente si
228 Venezia in coturno
AGAMENNONE
Ma quel, che solo ogni mia pace turba,
È, che Calcante, l‟indovin fallace,
Ha predetto a l‟esercito, che noi
Quindi non potrem mai scioglier le navi,
Se prima l‟innocente Ifigenia,
Mia figlia, in sacrificio non s‟uccida
A la pudica Dea figlia di Giove,
A cui questo terren d‟intorno è sacro;
E la cagione è così poca e lieve,
Ch‟io stesso a raccontarla mi vergogno.
difende e serba/Picciolo albergo senza spada e lancia./E sempre volentier benigno stanza/Den-
tro le basse case alto riposa./Ed è gran regno a poter senza regno/Viver, tutti i suoi dì, vita
tranquilla» e Giocasta, vv. 208-15: «Color che i seggi e le reali altezze/Ammiran tanto, veg-
gono con l‟occhio/L‟adombrato splendor ch‟appar di fuori,/Scettri, gemme, corone, aurati
panni;/Ma non veggon dapoi con l‟intelletto/Le penose fatiche, e i gravi affanni,/Le cure, e le
molestie, a mille a mille,/Che di dentro celate e ascose stanno». Naturalmente, il modulo è
molto presente in Seneca: cfr. almeno Hercules, vv. 159-201; Agamemnon, vv. 57-107; Thye-
stes, vv. 339-403, 446-70, 596-622.
283
Sono versi densamente strutturati. Cfr. F. PETRARCA, Triumphus Cupidinis, III, v. 178.
Per i vv. 39-40 con la topica coppia „assenzio e fiele‟ cfr. tra gli altri: G. STAMPA, Rime, 68, v.
33; B. TASSO, Inni et Ode, 25, v. 5; B. VARCHI, Rime, 88, v. 10; L. TANSILLO, Canzoniere,
canzone I dolci, leggiadretti, vv. 22-3.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 229
284
Il motivo della lettera, deltos, abbastanza frequente nel teatro greco e nel racconto, è
spesso strettamente legato al motivo dell‟inganno. La parola incisa sulla tavoletta, non smen-
tibile dall‟intonazione della voce, né dalla gestualità del corpo è quasi sempre un messaggio
depistante. Cfr. la celebre tavoletta scoperta sul corpo di Fedra impiccata nel terzo episodio
dell‟Hippolytos.
230 Venezia in coturno
CALCANTE
Re Agamennone è di gran lode degna
La cura, che voi tien vigile e desto
Per riposo comun di tutti noi.
E certo ben convien, se l‟huomo avanza
Gli altri di Stato, che gli avanzi ancora
Di sollecite cure, e di pensieri:
Che ‟l Signor valoroso accorto e saggio
Deve i sudditi amar, come figliuoli,
E in giovar loro dimostrarsi padre.
Onde non acquistò Principe honore
Per opra altera e di trionfo degna,
Che degnamente s‟appreggi a questa
Uscita dal cortese animo vostro,
Di ricovrar col sangue de la figlia
La gloria universal di tutti i Greci:
Perché vincendo il naturale affetto,
Vincete più; che, se vittoria havendo
Sopra a nimici, vi vedesse il mondo
Mille palme acquistar, mille trofei.
Appresso vi mostrate parimente
A la religion servo et amico,
Senza la qual non si ritrova Regno,
Che durar possa lungamente in piede.
Io certo alquanto spatio hebbi rispetto
Di far il santo Oracolo palese,
Veggendo, come a voi solo noceva.
Ma tornandomi a mente, quanto v‟era
Caro l‟util di tutti, hebbi certezza,
Le tragedie di Lodovico Dolce II 231
AGAMENNONE
Calcante né doler di te mi debbo,
Né de gli Dij: di te, che sei tenuto
A dire il vero: de gli Dij, che questi
Oprano sempre a beneficio nostro,
Né da lor mai procede effetto ingiusto.
E, se ben de la morte di mia figlia
Non posso non dolermi, essendo padre:
Nondimeno maggior è l‟allegrezza,
Ch‟io prendo di quel ben, che se n‟aspetta,
Che tristezza non ho del proprio danno. (vv. 229-38)
285
Nel discorso di Calcante vi è una temperatura retorica abbastanza alta: oltre alle solite
dittologie, abbiamo un trikolon al v. 206, il polittoto di „vincere‟ (vincendo…vincete) ai vv.
215-216, con derivatio del sostantivo vittoria nel secondo verso, una rima interna vincendo-
avendo (vv. 215-216) in consonanza con mondo (v. 217), l‟anafora di mille in parisosi a v.
218 («Mille palme acquistar, mille trofei»), etc..
286
Rispetto a premesse che hanno delineato una dialettica insanabile fra i due: vd. i vv.
110, 119-27, 160.
232 Venezia in coturno
287
Senza pretese e senza rischiare di fare una poco sensata apologia della statura europea
del Dolce, occorre però anche immediatamente registrare la straordinaria capacità di anticipa-
zione che alcuni tratti pertinenti della sua Ifigenia possiedono: in fin dei conti sarà proprio
nell‟alveo del Manierismo europeo che si porrà persuasivamente la questione della mutevo-
lezza dell‟Io: questo potente nucleo concettuale influenzerà il pensiero di Montaigne, ma an-
che di Tasso, Cervantes, Shakespeare, per non citare che i grandissimi. Va da sé che una arti-
colata riflessione su queste questioni esula dal perimetro della presente ricerca. Per una rico-
struzione delle dinamiche del Manierismo si rinvia sempre ai classici: A. HAUSER, Il Manieri-
smo. La crisi del Rinascimento e l‟origine dell‟arte moderna, Torino, Einaudi, 1965; G. R.
HOCKE, Il Manierismo nella letteratura. Alchimia verbale e arte combinatoria esoterica, Mi-
lano, Il Saggiatore, 1965; T. KLANICZAY, La crisi del Rinascimento e il Manierismo, Roma,
Bulzoni, 1973; A. QUONDAM (a c. di), Problemi del Manierismo, Napoli, Guida, 1975. Per la
questione da un punto di vista teatrale cfr. ancora M. ARIANI, Tra Classicismo e Manierismo.
Il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974, il quale peraltro decide di escludere
totalmente (e colpevolmente) Dolce tragico dalle sue riflessioni.
288
Succede talvolta con la traduzione del Dolce quel che accade con il Don Quixote tra-
dotto da Pierre Menard nel celeberrimo racconto borgesiano di Ficciones: financo la ripropo-
sizione delle stesse parole cervantine cambia di segno se il contesto di accoglimento muta.
Nel caso della versione del Dolce, il livello di innovazione ipertestuale è in funzione del di-
scorso culturale e antropologico (quanto consapevole non importa) che il tragediografo fa sul
presente, con reale, efficace capacità decostruttiva e con perfetta rappresentazione di varie i-
stanze della Stimmung manierista che si stava affermando.
289
Cfr. N. MACHIAVELLI, Il Principe, XV e XVIII.
290
Cfr. A. HAUSER, Il Manierismo, cit., passim.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 233
CALCANTE
E per giovar in quel, ch‟io posso, e debbo,
Quando il soave obblio tutt‟altri acqueta,
Osservando ne vò l‟erranti stelle,
Che destinan fra noi diversi effetti.
Acciò, che voi sapendo il bene e ‟l male,
Che scende di la sù, sappiate ancora
Se debbono avvenir qua giù dapoi,
Fortunate l‟imprese, od infelici.
[…]
Così a l‟incontro, se ‟l paterno amore
(Di che i‟ non temo) soverchiasse in voi
L‟honesto officio; i nostri alti nimici
Verriano in Grecia con armata mano,
Distruggendo le nostre alme cittadi,
I bei palagi, et i dorati Tempi:
Et i nostri figliuoli, e le mogliere
O de la scelerata audacia preda
Diverrian de‟ soldati empi e malvagi;
O che del sangue lor vermiglie e brutte
Del Barbarico stuol farian le spade;
Cosa, che solo a imaginarla io tremo (vv. 257-89)
291
Mi pare scoperta una complessiva derivazione di moduli e lessico da F. PETRARCA,
Rvf, 128. È forse possibile ravvisare in questa riflessione del sacerdote una traccia del dibatti-
to sul rapporto fra mondo occidentale e civiltà ottomana che era tra le più spinose questioni di
geopolitica del tempo, specie a Venezia. Un Calcante promotore della crociata antiturca? For-
se la lettura è un po‟ forzata, ma non va assolutamente sottovalutata l‟ipotesi di una rifrazione
di tematiche contemporanee nella poesia tragica del tempo.
234 Venezia in coturno
AGAMENNONE
L‟huom, che per tema di futuro male
Resta di porre il piè fuor del camino
De l‟honestà; che trapassar non deve;
È indegno d‟esser riputato buono.
Buono è colui, che fa quanto conviene
Di suo voler, e non da forza astretto.
Io son mosso Calcante (e creder dei)
Io son mosso ad aprir le proprie carni,
E versar il mio sangue, solamente
Pel natio desiderio, ond‟io son pieno,
Di sostener l‟honor, quanto più posso,
De‟ nostri Greci. […]
Dunque la verginità a mia figliuola,
De la qual attendea genero illustre,
E nipoti honorati in breve tempo,
Io non voglio, che più mia figlia sia,
Ma, qual bramate voi, vittima vostra. (vv. 290-312)
CALCANTE SOLO
Cosa non è, di cui si possa meno
Ritrar ferma certezza, che del cuore:
Ch‟a le parole, che la lingua forma,
È dissimil sovente; e rende vano
Il giudicio de l‟huomo: onde rimane
Ingannato talhor, che men sel crede.
Quel, c‟habbia Agamennon chiuso nel petto,
Sasselo quei, che solo intende e vede,
Ciò che non vede l‟intelletto humano.
Certo è raro colui, che ponga avanti
L‟utilità commune al proprio bene.
Ne pur io sol di qualche fraude temo;
Ma l‟istesso fratel, che tuttavia
Osserva, e fa osservar ogni camino,
Accio ch‟alcun de la città non parta
Le tragedie di Lodovico Dolce II 235
292
Costituito da sette stanze con schema [abb. Cdd. BC. EE] e congedo di quattro versi.
293
Cfr. L. DOLCE, Didone, vv. 10-12: «Né d‟ambrosia mi pasco,/Sì come gli altri Dei,/Ma
di sangue et di pianto». Il motivo ha una fortuna così eccezionale, che ci permette di evitare il
rinvio alla filiera delle fonti.
236 Venezia in coturno
CORO
Ma vinca pur, chi vuole
O ragione, o fortuna,
La qual sotto la Luna294
Ogni cosa mortal governa e regge:
Quanto ella ad altri suole
Di quel, che strugge e duole,
Apportar con la vista horrida e bruna; 295
Come par, che ricerchi ordine, e legge;
Sarà comune al vincitore e al vinto,
E fia il Greco, e ‟l Troian di sangue tinto.
Quante madre dolenti
Vedransi in su l‟Ilisso
Pregar, che ‟l negro abisso
S‟apra a finir il crudo affanno loro:
Quanti s‟udran lamenti,
Quanti dogliosi accenti
D‟afflitti padri; il cui destin è fisso,
Che i figli, cari più d‟ogni thesoro,
Dal ferro crudelmente uccisi e vinti
Ne i più verd‟anni lor restino estinti.
294
L‟immagine, di probabile origine biblica, ha una notevole fortuna: cfr. almeno F. PE-
TRARCA, Rvf, 229, v. 13; 237, v. 10; 360, v. 99.
295
La dittologia, invero originale, si può ritrovare nel canzoniere di Bernardo Tasso, uno
dei più notoriamente frequentati dal Dolce: cfr. B. TASSO, Rime, IV, 36, v. 13: «già spezza la
tempesta orrida e bruna».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 237
MENELAO
Re conoscete voi questo sigillo?
Conoscete la lettra, che contiene
Opra d‟una malvagia e torta mente?
AGAMENNONE
Ella è mia lettra, e haverla scritta affermo,
Con questa mano; e quanto è scritto in lei,
Vuò sostener, che con ragion è scritto.
Ma ritornala a me: che ciò facendo,
Ti fia d‟honore, ov‟hor t‟è di vergogna. (vv. 447-54)
296
Cfr. L. ARIOSTO, Orlando furioso, XLI, 63, v. 6: «col sospirato Ascanio e caro Xanto».
È questo uno dei pochi casi in cui Dolce indulga ad una notazione geografica erudita. Ma su-
bito occorre notare che la paternità ariostesca serve a neutralizzare in partenza qualunque ipo-
tesi di confusione nel pubblico medio.
238 Venezia in coturno
MENELAO
Questo fe adunque, che Calcante havendo,
Dopi i solenni sacrifici a Giove,
Predetto, che sarian propitij i venti
Per condur tante genti, e tante navi
A la città, la qual restando in piede,
I Greci sempre vitupero havranno,
Quando a Diana vittima facesse
Il sangue d‟Ifigenia vostra figlia:
Alhora dimostrando ne la fronte
Per questa nuova un‟allegrezza immensa,
Offriste al sacrificio la fanciulla
Di voler vostro (che negar non puossi)
E non, che alcun ve ne facesse forza.
[…]
[…]. Hora in un tratto,
A guisa di vil femina, mutando
Pensiero e voglie, a Clitennestra vanno
Altre lettere, altri messi, et altri avisi. (vv. 556-77)
MENELAO
Ma, quando fosse in poter mio concesso
Di dar il freno, et il governo in mano
Di cittade, o d‟esercito ad alcuno,
Contra l‟uso, che serbano gli sciocchi,
Le tragedie di Lodovico Dolce II 239
NUNTIO
Quanto venuto io sia correndo in fretta,
Per darvi tosto il desiato avviso
Magnanimo Signor, lo vi dimostra
Questo sudor, e ‟l non poter a pena
Per formar queste voci haver il fiato.
Saprete adunque, che la cara figlia
La moglie, e ‟nsieme il pargoletto Oreste
Venuti son (come imponeste) d‟Argo:
Ma stanchi dal camin per ristorarsi
Fermato s‟hanno a le fiorite sponde,
Che ‟l bel lucido Eurito irriga e bagna;
E in Aulide saran fra poco d‟hora. (vv. 702-13)
297
Qua è là si avvertono lacerti del pensiero politico rinascimentale, oltre che quasi sicure
influenze letterarie: cfr. per il v. 610 F. PETRARCA, Rvf, 261, v. 2: «di senno, di valor, di corte-
sia». Si tengano presenti, per una prospettiva diversa rispetto a quella qui esibita, i tanti capi-
toli del Principe del Machiavelli dedicati ad illustrare le qualità del buon principe.
240 Venezia in coturno
NUNTIO
Ora lasciando ciò, che non importa,
Vedete in questa Cesta due ghirlande
Di vaghe rose, e di be‟ fior conteste.
Una ne manda la Reina a voi,
E l‟altra a Menelao, perch‟ambedoi
Ve n‟orniate le tempie; com‟è degno
Di farsi in questo dì solenne e festo.
Il qual, sì come a la donzella fia
Lieto e felice; così questa casa
Dee risonar di canti e voci allegre:
Quinci l‟arme dipor Bellona e Marte,
Fin che Venere amica et Himeneo
Possano accompagnar felicemente
Al letto marital la bella sposa. (vv. 728-41)299
AGAMENNONE
O veramente in ciò troppo felici
Voi, ch‟in oscuro, e basso grado posti
Ne i molti affanni, onde la vita è piena,
Potete lagrimar, quanto vi cale.
298
Cfr. L. ARIOSTO, Orlando furioso, VII, 56, vv. 7-8.
299
La Cesta rinvia probabilmente a S. SPERONI, Canace, vv. 1166-67: «Con quella cesta
adunque e col fanciullo/Posto tra l‟erbe e‟ fiori». Cfr. anche T. TASSO, Gerusalemme liberata,
XII, 29, vv. 1-3: «Io piangendo ti presi, e in breve cesta/fuor ti portai, tra fiori e frondi asco-
sa/ti celai da ciascun».
Le tragedie di Lodovico Dolce II 241
MENELAO
Io giuro per l‟illustre nostro padre,
E per l‟ombra del grande Avolo antico,
Che, qual di dentro è il cor, tali saranno
Hor le parole mie senza menzogna.
Certo il veder di lagrime rigarvi
Gli occhi, e ‟l considerar, quanto v‟affanni
Hora il debito amor de la figliuola,
Di fraterna pietà m‟ha punto l‟alma.
Onde insieme ne piango, e finalmente
Ho cangiato desio, pensiero, e voglia.
Quinci conforto voi, che non vogliate
Consentir a la morte de la figlia,
Perché honesto non è, né si conviene,
Che ‟l diletto di me vi rechi affanno:
E che per mia cagion perisca alcuno
De‟ vostri figli, e i miei restino in vita. (vv. 788-803)
300
Ancora ripreso F. PETRARCA, Triumphus Mortis, I, v. 83.
242 Venezia in coturno
AGAMENNONE
Ti ringratio fratel, ch‟in te pietade
(Quel, ch‟io non aspettava) possa tanto,
Quanto ragion et honestà ricerca,
Ma questa non mi tol, che non s‟uccida
La mia figliuola, perché gita innanzi
La cosa è sì, ch‟ogni rimedio è vano. (vv. 832-37)
301
Con schema [abC. abC. cdEde. Ff] distribuito su tre stanze.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 243
302
Cfr. F. PETRARCA, Rvf, 278, v. 1; 315, v. 1; 336, v. 3; Triumphus Eternitatis, v. 133; B.
TASSO, Rime, II, 75, vv. 6-7: «cogliete, o giovenette, il vago fiore/de‟ vostri più dolci anni…»
303
Cfr. amata figlia (v. 941), tuo padre (v. 944), d‟Agamennon più tarda prole (v. 951),
festa/de la sorella (vv. 954-955, con indubbio valore anfibologico), Illustre Genitor (v. 959),
figlia (v. 960), Illustre Padre mio (v. 966), Dolcissima figliuola (v. 974), consorte (v. 974),
padre mio (v. 981), Figlia (v. 985), caro mio padre (v. 990), Figliuola (v. 994), Figlia (v.
999), Figlia (v. 1010), figli vostri (v. 1013), madre mia (v. 1014), figlia (v. 1027), figlia vo-
stra (v. 1033), Padre (v. 1034), Madre mia (v. 1037), Figlia (v. 1042), figli (v. 1047), Padre
(v. 1052), figlia mia (v. 1054), figlia (v. 1059), Padre/Paternamente (vv. 1062-1063), figlia
mia (v. 1065), cara figlia (v. 1069).
244 Venezia in coturno
Ma il linguaggio del corpo non lascia dubbi e Ifigenia non può esi-
mersi dal registrare questa scissura fra le parole, apparentemente ras-
sicuranti (eppure oscure al v. 1008), e la trasparenza delle emozioni:
IFIGENIA
Deh non sarete voi padre contento,
Ch‟a questo sacrificio anch‟io mi trovi?
AGAMENNONE
È mestier figlia mia, che tu ti trovi
Più che null‟altro.
IFIGENIA
Vi bisogna forse
L‟opera mia?
AGAMENNONE
Te più felice estimo
Di me, da poi che non intendi ancora
Del sacrificio la segreta forma. (vv. 1052-58)
Le tragedie di Lodovico Dolce II 245
CORO
O Miseria infinita,
Ch‟un Re, ch‟ad altri suole
Imponer leggi e freno;
Ne pur, quant‟egli deve
Ma ancor fa, quanto vuole;
Sia astretto a consentire,
Che la propria figliuola
Col ferro crudelmente esca di vita.
CLITENNESTRA
Poi che ‟l mio sposo è gito
Io non so dove, intento
A le future nozze,
Che senza me vorria
Troppo crudel, che fosser celebrate:
M‟è caduto nel core
Di trovar quell‟Achille,
A cui casto e legittimo Himeneo
Dee congiunger la mia
Amata Ifigenia;
Che insolito timore
Di non so che, non mi lascia godere
Quella gioia compita,
La qual sogliono havere
Ne le nozze de‟ cari
246 Venezia in coturno
ACHILLE
Perché la vita è fuggitiva e breve;
E non riman di noi dopo la morte
Altro, che ‟l bello et honorato nome
De l‟opre illustri, e di memoria degne;
Non è perdita alcuna, onde più debba
Dolersi l‟huom, che di lograr il tempo,
Danno, che non più mai si ricompensa. (vv. 1180-86)
304
Si noteranno anche le varie rime e altre figure di suono.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 247
(vv. 1254-60)
CLITENNESTRA
Ah di quante fur mai,
E di quante saranno,
La più misera figlia;
Et io di tutte ancora
La più misera madre;
Adunque io stessa, adunque
Io stessa t‟ho condotta
In questo luogo, in questo:
Dove lieta pensando
D‟esser di sposo tal Donna gradita;
Dei con misero fine
Terminar la tua vita?
Così tenero fiore
In un dì s‟apre e more.
Ma senza me tu non farai partita. (vv. 1359-73)
305
Davvero di sapore eufuistico sembrano i vv. 1244-45 pronunciati da Clitennestra: «Vi
scuso, che mostriate non sapere/Quel, che sapeste pria, ch‟io lo sapessi».
306
Sul piano retorico troviamo: anafora di quante ai vv. 1359-60, parisosi ai vv. 1361 e
1363, geminationes ai vv. 1364 e 1366, reduplicatio composta ai vv. 1364-65 (con forte rilie-
vo espressivo), ripresa ossessiva di misero, misera e miseria (vv. 1361, 1363, 1369, 1375,
1376). Tutto il passo è ricco di figure di suono; molte le rime.
248 Venezia in coturno
CORO
Più volte ho udito dir leggiadre Donne;
Che fra gli altri animai, che sono in terra,
Non è animal più misero de l‟huomo:
Però, che da quel dì, ch‟ei nasce in vita,
Fin a l‟estremo, che lo toglie morte,
Qua giù non gode mai tranquilla un‟hora.
E se pur ha dal ciel felice un‟hora,
Subitamente (e lo vedete Donne)
Al dolce stato suo s‟oppone morte,
E l‟incarco mortal torna a la terra;
O che si cangia la gioiosa vita:
307
Tale forma metrica, certamente esemplata sulle sue occorrenze nel macrotesto lirico
petrarchesco, ha una discreta fortuna nella tragedia del Cinquecento: cfr. G. RUCELLAI, Ro-
smunda, vv. 1124-62; G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 2025 63.
250 Venezia in coturno
AGAMENNONE
Hor tutto quel, ch‟a sacrificio accade,
È apparecchiato, i purgamenti, e i fochi,
Che da Vergine man trattar si denno.
308
Cfr. F. PETRARCA, Rvf, 22, per il tono complessivo. Sul piano microtestuale, sembra
degna di nota la presenza dantesca: il v. 1685 è certo modellato su Inferno, II, v. 2; il v. 1693
su Purgatorio, XI, v. 43. Dalla terza stanza si fa vistoso il rapporto con G. RUCELLAI, Ro-
smunda, vv. 307-39, e, soprattutto, con G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 885-913: «Non
Le tragedie di Lodovico Dolce II 251
IFIGENIA
Padre mio, caro padre:
Benché dovrei tacere
Questo nome di padre,
Poi che sotto tal nome
Si comprende pietade;
E voi verso la figlia
Sete solo ripieno
D‟odio e di crudeltade:
Pur dirò, caro padre,
Come trovar poss‟io
Principio a mie parole?
Come potrò dolermi
De le miserie mie?
Ditele voi per me; voi che non solo
Padre mio le sapete,
Ma ne sete cagione.
Io poi, ch‟altr‟arme, altro saper non trovo,
Che solo il lagrimar, piangerò tanto,
252 Venezia in coturno
CLITENNESTRA
Sappiate, ch‟ogni cosa m‟è palese;
E l‟opra ho inteso abominosa e cruda,
Che scelerato voi consorte e padre
Contra di me, contra la figlia ordite.
Quantunque assai me ‟l manifesti e approvi
Questo vostro tacer, questi sospiri.
Ond‟ei più non v‟accade usar fatica
In adombrar, quel ch‟è sì chiaro, in darno. (vv. 1821-28)
309
Da rilevare ancora l‟insistenza significativa sul lessico parentale.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 253
CLITENNESTRA
Oimè figliuola, oimè; che la tua morte
Mi toglie la mia vita.
Ecco, che ‟l tuo crudele
Padre, il tuo crudel padre,
Destinandoti a l‟empio
Fin, si diparte, e s‟allontana, e fugge.
Crudel padre, crudele
Stella, crudel me stessa,
Figlia, se col morir non t‟accompagno.
E crudel mano ancora,
Ch‟ardirà mai d‟aprire
Questo candido petto,
O dal collo partir la bella testa. (vv. 2129-41)
ACHILLE
È nato un gran rumor fra tutti i Greci.
CLITENNESTRA
Di che cosa Signor? Fate ch‟io ‟l sappia.
ACHILLE
Sopra la figlia vostra.
[…]
Ch‟è mestier, che s‟ancida.
CLITENNESTRA
E non è stato alcuno,
C‟habbia lor contradetto?
ACHILLE
Io, per far questo, sono
A gran risco venuto.
CLITENNESTRA
A qual riscro e periglio
Signor venuto sete?
ACHILLE
D‟esser, come nimico
Del Greco utile e honore
Lapidato, et ucciso.
CLITENNESTRA
Per cagion Signor mio
D‟haver voluto forse
Difender l‟innocente
Vita di mia figliuola?
ACHILLE
Veramente per questo.
CLITENNESTRA
E chi fia quel, ch‟ardisca
Signor di porre in voi
La temeraria mano?
ACHILLE
Insieme i Greci tutti. (vv. 2195-2218)
IFIGENIA
Hora le luci a me madre volgete:
Et ascoltate quel, che la mia lingua
Giusta cagione a favellar induce.
Che parole dirò molto diverse
Da quel, ch‟io dissi, e che per voi s‟aspetta;
Pensate, ch‟io sia tale a questo punto
310
Cfr. MONTAIGNE, Essais, II, 1.
256 Venezia in coturno
IFIGENIA
Dolce lume del ciel, lucente e bello,
Poi che destin m‟adduce,
Da te mi parto, e ad altro mondo i‟ passo,
Ove non splende luce.
Io mi parto, e tu resta
A portar a mortali
Di quelli, c‟ho havut‟io, più lieti giorni. (vv. 2556-62)
311
Cfr. L. DOLCE, Hecuba, vv. 1121-29: «O luce, a me pur giova/Di chiamar il tuo no-
me;/Perché non più mi sarà copia data/Di poterti goder, luce beata./Luce soave e grata,/Se non
quel poco spazio/Che fia di gir al ferro,/E a la pira d‟Achil-le:/Addio, luce del mondo, io mi
diparto».
312
Non ha corrispondenza in Euripide ed Erasmo. Composto di tre stanze di canzone e-
semplate sul modello petrarchesco di Rvf, 126, ovvero [abC. abC. cdeeD. fF] più un congedo
di tre versi.
313
Cfr. G. RUCELLAI, Rosmunda, vv. 307-339.
258 Venezia in coturno
CORO
Perché chiaro e divino
Sia l‟intelletto nostro,
E che talhor a Dio vegga nel seno,
Non può contra il destino,
Che vince il saper nostro
Et a l‟human poter pon briglia e freno.
Ei l‟incarco terreno
Regge, conduce, e sforza
Al fin da lui prescritto.
Quinci misero e afflitto
Si trova, e d‟aiutarsi non ha forza:
Quinci al voler suo fermo
È il consiglio mortal debile e infermo.
E pur‟ è chi sovente
Folle si vanta e crede
Di por la su nel ciel legge e governo:
Che di bei lumi ardente
Sopra di voi si vede
Girarsi ogn‟hor con movimento eterno:
Et hora apporta il verno
Che tutto secca e sfiora.
Hor state, hor primavera;
Et hor mattino, hor sera;
E quando avvien, ch‟un nasca, e quando mora
Onde al fatal decreto
Non val, che l‟huom s‟opponga, o fugga a drieto. (vv. 2563-88)314
VECCHIO DI CALCIDIA
De l‟iniqua città Donne fuggite,
314
Molto consistente ancora la presenza di suggestioni dantesche e petrarchesche (special-
mente cfr. Rvf, 72, vv. 13-15; 142, vv. 23-24; 265, vv. 5-6; 270, vv. 67-68).
Le tragedie di Lodovico Dolce II 259
CORO
È maraviglia ben, che ‟l forte Achille,
Che promesse di far, ch‟ella vivrebbe,
Habbia le sue promesse al vento sparse. (vv. 2646-48)
VECCHIO
Che si facciano i rei di vita cassi
È giusto officio: ma a versar il sangue
De gli innocenti, ogni impietade avanza.
E chi crede, che ciò gradisca a i Dei,
Toglie lor la bontà, la qual togliendo
Toglie lor similmente l‟esser Dei.
Che l‟ignorante, e sciocco vulgo sia
In questa cieca openione involto,
Non è d‟haverne maraviglia molta.
Ma bene è da stupir, che quei, che sono
Posti al governo de l‟humane genti,
A così fatta vil folle credenza
Volgan l‟animo in guisa, che ne danno
Le tragedie di Lodovico Dolce II 261
SERVO
Poi che fu l‟innocente al loco giunta
Sol di lei stessa al sacrificio eletto,
Dove i Greci facean larga corona,
Al nostro Re, come venir la vide,
(Benché fuori di tempo e troppo tardo)
Da paterna pietà gelossi il sangue;
315
Cfr. F. PETRARCA, Rvf, 51, v. 11: «pregiato poi dal vulgo avaro e scioccho». Per
l‟intera immagine dei vv. 2662-64, si tengano presente anche Triumphus Temporis, vv. 132-
134 e Triumphus Eternitatis, v. 49. L. DOLCE, Ifigenia, vv. 2656-2669.
316
Tra i vari particolari, sorprende che Achille, dopo le parole precedentemente pronun-
ciate, partecipi attivamente al rito, invocando l‟aiuto di Cinthia (cfr. vv. 2744b-56).
262 Venezia in coturno
SERVO
Io vinto dal dolor, gli occhi rivolsi
In altra parte, e mi ferì l‟orecchie
Di tutti i circonstanti un mesto grido.
Alhor tornando a la fanciulla, veggo
Qui l‟infelice testa, e colà il corpo,
Che divisi dal fer, di sangue brutti
Giaceano inanzi al dispietato altare. (vv. 2770-76)
317
Cfr. per questo particolare raccapricciante SENECA, Thyestes, 726 ss..
Le tragedie di Lodovico Dolce II 263
SERVO
È ver, ch‟alcuni affermano, che in vece
D‟Ifigenia, Diana a quello altare
Fe apparir una Cerva: e la fanciulla
Trasse a sé viva entro una nube oscura:
Ma creder non voglio io quel che non vidi. 318
Or tale è di colei, che vi fu figlia,
Il fine acerbo, misero, e crudele. (vv. 2793-99)
AGAMENNONE
Cara Consorte mia poscia, che quello,
Che piaciuto è a gli Iddij, sortito ha fine;
318
Siamo qui di fronte a una valorizzazione dell‟esperienza visiva che tanta parte avrà nel
Dialogo della Pittura, intitolato l‟Aretino (1557), nel quale Dolce scriverà che mentre l‟intel-
letto può sbagliare, l‟occhio difficilmente si inganna: ergo, tutti possono stabilire se un quadro
è bello o brutto. Nessuno può dunque revocare in dubbio, nonostante qualcuno dica il contra-
rio, che Ifigenia sia realmente morta, dal momento che a garanzia del fatto ci sono gli occhi di
un Servo che ha sì distolto lo sguardo nel momento della decapitazione, ma ha visto, senza
possibilità di smentita, il capo della fanciulla spiccato dal busto.
319
Non si deve dimenticare che l‟Inquisizione aveva cominciato a lavorare con fervore da
qualche anno.
264 Venezia in coturno
CORO
A che con tanti affanni egri mortali,320
Procacciate d‟haver corone, e regni,
Se con subite poi roine e mali
Nebbia, e polvere son nostri disegni?
O letitie di noi fugaci, e frali:
O altezza, che non hai che ti sostegni:
E quì, dove, si prova e caldo e gelo,
Stato felice alcun non lassa il cielo. (vv. 2886-93)321
320
L. DOLCE, Marianna, v. 3287: «Vedete, egri mortali», ma tutto l‟esodo di Ifigenia
sembra echeggiato in quello di Marianna.
321
Cfr. L. DOLCE, Marianna, v. 3287: «Vedete, egri mortali», ma tutto l‟esodo di Ifigenia
sembra echeggiato in quello di Marianna. Da notare, anche in questo caso, la sicura media-
zione del Petrarca dei Triumphi: cfr. Triumphus Eternitatis, vv. 52-54 e Triumphus Fame, I, v.
9.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 265
6. Medea322
322
L. DOLCE, La Medea. Tragedia di M. Lodovico Dolce, Venezia, Gabriele Giolito de‟
Ferrari, 1557, ristampata identica l‟anno seguente e poi compresa nella giolitina complessiva
della produzione tragica dolciana (1560); infine ripubblicata nel 1566 da Domenico Farri. Per
ragioni di comodità si legge la Medea nella recente edizione moderna: cfr. L. DOLCE, Medea,
a c. di O. SAVIANO, Torino, Edizioni RES, 2005. Tutte le citazioni si intendono prelevate da
tale edizione, di cui si è tenuto debitamente conto.
323
Di sicuro interesse è il fatto che la fabula di Medea stesse avendo, proprio in questi an-
ni, un significativo rilancio: si vedano la versione latina di Coriolano Martirano del 1556 e la
Medea di Maffeo Galladei (Venezia, Giovanni Griffio, 1558). Su quest‟ultima cfr. V. GALLO,
«Contro l‟ingiuria del tempo». La Medea di Maffeo Galladei, in Granteatro. Omaggio a
Franca Angelici, a c. di B. ALFONZETTI, D. QUARTA, M. SAULINI, Roma, Bulzoni, 2002, pp.
25-49.
266 Venezia in coturno
cendo molte opere di lingua spagnuola in italiana giova all‟una et all‟altra pa-
rimente, et è di lei affezionatissimo et obbligatissimo servitore. V. S., se ri-
guarderà alla qualità del dono, lo troverà picciolo, se al mio cuore, grandissi-
mo. E le bacio la mano.
Di Venezia,
a X di Ottobre, MDLVII
324
Cfr. ORAZIO, Ars poetica, vv. 1-10 e vv. 361-365. Si dovrà ricordare che Dolce aveva
tradotto l‟epistola oraziana nel 1535-36.
325
Propriamente Dialogo della Pittura di M. Lodovico Dolce, intitolato l‟Aretino. Nel
quale si ragiona della dignità di essa pittura, e di tutte le parti necessarie, che a perfetto pit-
tore si acconvengono: con esempi di pittori antichi, et moderni: e nel fine si fa mentione delle
virtù e delle opere del divin Titiano, Venezia, Gabriele Giolito de‟ Ferrari, 1557. Cfr.
l‟edizione di riferimento L. DOLCE, Dialogo della Pittura, intitolato l‟Aretino, in Trattati
d‟arte del Cinquecento. Fra Manierismo e Controriforma, vol. I, a c. di P. BAROCCHI, Bari,
Laterza, 1960, pp. 141-206.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 267
PROLOGO
Questa, che ‟l mondo imperiosa volge
Come a lei pare, e quinci e quindi aggira
Imperii, signorie, scettri, e corone,
A cui poser gli antichi altari e tempi
E la chiamar Fortuna, questa iniqua
Empia tiranna de le cose nostre,
Questa de‟ beni umani involatrice,
Porge spesse cagioni, ond‟altri scriva
Di morte, di dolor, di guerre e pianti;
E quindi avien che le Comedie sono
Tralasciate per tutto, e ‟n vece loro
Con mesto suon di lagrimosi versi
Vengono le Tragedie a farsi udire. (vv. 1-13)
326
Cfr. M. POZZI, L‟«ut pictura poësis» in un dialogo di Lodovico Dolce, in Lingua e Cul-
tura del Cinquecento, Quaderni del Circolo Filologico e Linguistico Padovano, 7, Padova, Li-
viana Editrice, 1975, pp. 1-22.
268 Venezia in coturno
Inferno, XIII, v. 72
ingiusto fece me contra me giusto.
327
Cfr. F. PETRARCA, Triumphus Cupidinis, IV, v. 88: «materia di coturni, e non di soc-
chi». Cfr. anche ORAZIO, Ars poetica, v. 80: «hunc socci cepere pedem grandesque cothurni».
328
Con la citazione, Dolce ci autorizza a compiere una parziale identificazione fra Medea
e Pier delle Vigne. Ciò che condanna entrambi i personaggi è la sproporzione fra scelus subito
e smisuratezza della vendetta compiuta.
329
Per l‟encomio di Venezia cfr. Didone, vv. 453-63; Giocasta, prologo, vv. 35-40; Ifige-
nia, prologo, vv. 1-5; Marianna, prologo I, vv. 76-93. In ambito non tragico cfr. L. DOLCE, Le
Trasformationi, XII, 4: «Ma tu, donna del Mar, tu patria mia/In cui l‟antico honor vivo ri-
splende/E fiorisce valor e cortesia/E virtù sempre ogni suo lume accende,/Tu sol da la com-
mune peste ria/Intatta sei, che ‟l ciel te ne difende,/In te sempre è colei più bella e chiara/Che
fu a Caton più che la vita cara»; XXIX, 8: «Ma che dirò di questa inclita e chiara/Republica
da Dio formata in terra,/In cui quanto da stella amica e cara/Piove bontà e virtù, tutto si ser-
ra?/Qui v‟abita la pace al mondo rara/E tien lunge da lei sempre ogni guerra/Giustitia ed Equi-
tà che con lei nacque/Quando al sommo Fattor fondarla piacque» (si cita da L. DOLCE, Le
Trasformationi di M. Lodovico Dolce, di nuovo ristampate, e da lui ricorrette, et in diversi
luoghi ampliate. Con la Tavola delle Favole. Con privilegi, Venezia, Gabriele Giolito de‟ Fer-
rari, 1553).
Le tragedie di Lodovico Dolce II 269
330
Sempre rilevante la mediazione petrarchesca (per il v. 72 cfr. Rvf, 146, v. 14: «ch‟Ap-
pennin parte, e ‟l mar circonda et l‟Alpe») e il filtro dantesco (per il v. 73 cfr. Purgatorio,
XXX, v. 31: «sovra candido vel cinto d‟uliva»).
331
Particolare, questo dello sparagmòs di Absirto, che viene taciuto per decorum dal Dol-
ce.
270 Venezia in coturno
NUDRICE DI MEDEA
Poi mi spaventa un sogno che dormendo
Fei questa notte, inanzi che l‟aurora
Di purpureo color spargesse il cielo,
Nel quale a me parea veder Vulcano
Tutto irato e cruccioso arder le mura
Del palazzo real, e in quelle fiamme
Periano insieme e la figliuola e ‟l padre.
Pianser dormendo similmente i figli
Di Medea e di Giasone, ond‟io chiedendo
La cagion di quel pianto, essi tremando
Risposer che veduto avean nel sonno
Un serpe che venia per divorarli,
Tal ch‟a gran pena discacciar la tema. (vv. 145-57)
332
Mi pare da ravvisarsi qui una qualche presenza di un celebre locus virgiliano: cfr. VIR-
GILIO, Aeneis, II, vv. 203 ss., in cui si descrive l‟orribile divoramento dei figli di Laocoonte da
parte di un gigantesco serpente marino.
333
Cfr. EURIPIDE, Medeia, vv. 84-88.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 271
BALIO
Grande è l‟amor de‟ figli, ma l‟avanza
Di gran lunga il desio caldo et ardente
Di vederci in istato alteri et grandi;
E molti son ch‟hanno i figliuoli uccisi
Per cagion di regnar senza sospetto.
Che se bene i Signor le leggi fanno,
Non vogliono però lor sottoporsi
Tanto, che quando l‟utile gl‟invita,
Non possano dispor come lor piace.
Né m‟affaticherò d‟addurti esempi,
Che ve ne son fra quanto vede il sole. (vv. 208-18)
334
Già la giurisprudenza medievale aveva elaborato svariate teorie sul concetto di sovra-
nità e si era arrovellata attorno all‟alternativa fra diverse architetture istituzionali e fra diverse
configurazioni dei rapporti fra potere e leggi (rex supra legem, rex sub lege, princeps legibus
solutus, princeps legibus alligatus…). Chi aveva egregiamente recuperato le fonti medievali
della questione, dando loro una moderna declinazione politica era stato Erasmo da Rotterdam,
specialmente nell‟adagio Aut regem aut fatuum nasci oportere: «[…] admonetur licere quic-
quid libet. Audit omnes omnium possessiones esse principis, principem esse superiorem legi-
bus, in pectore principis omnem legum et consiliorum mundum esse reconditum» (vd. ERA-
SMO DA ROTTERDAM, Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, a c. di S. SEIDEL MEN-
CHI, Torino, Einaudi, 1980, p. 22).
335
Anche Venezia. Senza andare troppo indietro, si pensi almeno alla celebre vicenda di
Pier Luigi Farnese ucciso nel 1547 e alla morte violenta, proprio a Venezia, di Lorenzino de‟
Medici (1548).
272 Venezia in coturno
BALIO
È cosa naturale amar se stesso
Più che null‟altro; e la corrotta usanza
Fa che comunemente è posto inanzi
Fra la più parte l‟utile a l‟onesto.
Non credo ch‟abbia in odio i suoi figliuoli
Giason, ma cred‟io ben che di Corinto
Ami più la corona che i figliuoli. (vv. 254-60)
MEDEA
Misera, che ‟l mio male è tale e tanto
Che vince di gran lunga il mio lamento,
Né la mia lingua, né il pensier l‟aguaglia.
O prodotti figliuoli
Di scelerato seme,
Voi per le crude mani
De la madre crudele
Ne morrete col vostro iniquo padre.
Così con egual scempio
Caderà di Creonte
L‟alta casa reale,
Tal che pietra non fia che resti salda. (vv. 296-307)
MEDEA
Deh, ché non piove omai celeste fiamma,
Che m‟arda tutta, e incenerisca e pera,
Poscia ch‟al mondo mai sorte gradita
Esser non pò, per cui brami la vita?
Deh, parti odiosa vita, parti omai:
A che pur meco stai?
Con quelle alberga, et accompagna quelle,
Che si godon qua giù felice stato.
A me non è più grato
(Sì come a‟ lieti suole)
Questo ciel, questa luce, e questo sole,
Ma pria ch‟io mora, è ben ragion ch‟io faccia
Morir quei che cagion son di mia morte. (vv. 315-27)
336
Per la precisione, registriamo in questa breve sequenza: la gradatio trimembre del v.
316; le rime gradita-vita (vv. 317-18, con rima interna vita al verso successivo), omai-stai
(vv. 319-20), stato-grato (vv. 322-23), suole-sole (vv. 324-25), fra l‟altro ricca e par onoma-
stica, quantunque banale; la geminatio di v. 319; la redditio di v. 320; un chiasmo con redditio
al v. 321; il trikolon con polittoto del deittico di v. 325; il polittoto (con derivatio) dei vv.
326-27, con anfibologica diafora e lieve ludus, poiché morte ha valore qui di „vita infelice‟.
274 Venezia in coturno
NUDRICE
Vedete come è ritornata dentro.
Suo core è quale un agitato mare
Dal più rabbioso vento
Che ‟l gonfia tutto, e lo solleva e gira.
E ben è ver che quando avien che donna,
Ch‟amò un tempo, disami,
Quanto già fu l‟amore,
Tanto l‟odio è maggiore
Che l‟alma offesa stimola e flagella. (vv. 366-74)
337
Cfr. SENECA, Thyestes, vv. 250-52: «dira Furiarum cohors/discorsque Erinys ueniat et
geminas faces/Megaera quatiens». Inoltre cfr. L. DOLCE, Tieste, vv. 400-02: «Vengan le in-
fernal Furie ad abitarvi,/Con le teste crinite di serpenti;/Ed entri il lor venen dentro il mio pet-
to».
338
Composto da quattro stanze di canzone con schema [abC. abC. cdeeD. ff] e congedo
(perfettamente equivalente a Rvf, 125).
Le tragedie di Lodovico Dolce II 275
2. Medea torna in scena all‟inizio del secondo, lungo, atto (vv. 446-
1078), continuando a ingiuriare Amore340 e riepilogando, con scelta
scenica debolissima, gli antefatti della vicenda sceneggiata.341
In questo mare di versi piattamente didascalici e riepilogativi, sa-
ranno degni di una mise-en-relief quelli che sembrano dotati di una ca-
ratura letteraria più alta:
MEDEA
Avendo ancor poter un‟altra volta
Ne‟ corpi ritornar l‟alme partite,
Pietosamente a questo reo donando
Il mio amore, il mio avere, e la mia vita,
Con mia perdita molta gl‟insegnai
I tori soggiogar, vincer gli armenti
Adormentare il drago, e finalmente
Del mirabil tesor farsi signore. (vv. 505-12)
339
Cfr. P. V. MENGALDO, Prima lezione di stilistica, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 30, che
esemplifica la sua mirabile analisi su Amorum libri, III, 129, v. 9.
340
Vi è qui una sospetta insistenza sul tema che non trova riscontri né in Euripide, né in
Seneca. Dolce, semmai, sembra guardare ad OVIDIO, Metamorphoses, VII, vv. 9-21.
341
Qui l‟ansia di perspicuitas travolge Dolce, che avrebbe benissimo potuto rinunciare al-
la spiegazione distesa delle vicende argonautiche che hanno coinvolto anche Medea. Inoltre,
già in precedenza la Nudrice si era soffermata sugli antefatti mitici della fabula: si capisce che
non vi è alcuna necessità di un indugio perissologico di tale portata.
276 Venezia in coturno
MEDEA
Ma che bisogna dir? Certo noi donne
Siam tutte assai più misere e infelici
Di qualunque animale alberga in terra:
Che primamente non possiam da noi
Regger lo stato nostro; indi conviene
Che col prezzo de l‟oro e de l‟argento
Compriamo il proprio male, e questo è il nostro
Marito, anzi per dirlo veramente
Il signor de la vita e de la morte,
Il qual non con dolcezza e con amore,
Ma con asprezza e crudeltà ci regge.
[…]
S‟aggiunge che non è lecito a noi
Rifiutare il tiran del nostro bene
E d‟ogni pace, e per viver con lui
Vita tranquilla, ci convien avere
Sofferenza ne l‟alma eternamente,
E far del suo voler leggi a noi stesse. (vv. 542-60)
MEDEA
O quanto differente è la mia sorte
Da la vostra! Voi sete ne la dolce
Patria natia, dove abondanza avete
Di facultà, di commodi, e d‟amici;
Io priva del mio caro amato Regno
342
Cfr. EURIPIDE, Medeia, vv. 230-66; G. RUCELLAI, Rosmunda, vv. 307-39 e G. B. GI-
RALDI CINZIO, Orbecche, vv. 885-913.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 277
MEDEA
Appresso non chiedendo altro ch‟un poco
D‟umil coperchio e di casetta vile,
Che me con la mia picciola famiglia
Da la pioggia e dal sol tenga difesi,
E tanto d‟alimento da Giasone,
Che co‟ suoi figli mi sostenga in vita. (vv. 660-65)
CREONTE
Dunque ti si concede questo giorno,
Nel cui termine so che non potrai
Far contra noi quel che veder mi pare
Che dentro l‟alma tua vai disegnando;
Or col tempo dispensa i tuoi bisogni. (vv. 764-68)
MEDEA
Certo che in ogni parte ov‟io mi volga
278 Venezia in coturno
MEDEA
Or non avesti tu da le mie mani
Il vello d‟oro? Non avesti ancora
Mia castitate, e la tua istessa vita?
E qual si può trovar dote maggiore,
E da tenersi più pregiata e cara?
O forse ch‟è costei di me più bella
E più giovane ancor? Già pur lodasti
(Qual io mi sia) questo mio aspetto, e pure
Fioriva allor mia verde etade, quando
Il bel fior virginal tu mi rapisti. (vv. 911-18)343
343
Qualche tarsia petrarchesca, magari variata, è riconoscibile: cfr. Rvf, 315, v. 1: «Tutta
la mia fiorita et verde etade»; Triumphus Mortis, II, v. 68: «ne l‟età mia più verde, a te più ca-
ra»; Triumphus Eternitatis, v. 133: «ne l‟età più fiorita e verde». Per il v. 918 rinvierei almeno
al celeberrimo L. ARIOSTO, Orlando furioso, I, 42-43, a sua volta emulativo rispetto a CATUL-
LO, Carmina, 62, vv. 39-47.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 279
Le varie accuse di Medea a Giasone culminano nei bei vv. 940 ss.:
MEDEA
Volesse Dio che la natura avesse
Fatta nel petto nostro una fenestra,
In cui mirando, si vedesse chiaro
La falsitate e la bontà de‟ cuori:
Ch‟or non sarei ne la miseria mia,
Né tu, ch‟indegno sei, saresti in vita. (vv. 940-45)
GIASONE
Poi non mi son congiunto con la figlia
Del Re Creonte perch‟odio ti porti,
O perch‟io tenga lei di te più degna,
Ma solo affin che per tal parentado
Io possa esser d‟aiuto a‟ miei figliuoli,
E render a te premio maggiormente
Del beneficio che da te conosco. (vv. 980-86)
CORO
Questa vita mortale
È veramente sì noiosa e grave
Ch‟io stimo meglio assai
Non esser nato mai,
Over, presa la gonna umile e frale,
Senza far più soggiorno,
Sentir il primo dì l‟ultimo giorno.
[…]
Il ricco è sempre afflitto e sconsolato,
E quanto egli più acquista,
Il desio d‟acquistar via più l‟attrista.
Cerca miglior fortuna
Il povero, e per tema
Di non perir, s‟affretta a l‟ora estrema.
Questa cura che noi
Sempre stimola, batte, e sferza, e punge,
Cura di viver lieti,
[…]
Nel nostro cor produce
Mill‟aspre pene, e spesso morte adduce. (vv. 1079-1105)
G. G. TRISSINO, Sofonisba, I, 1
ERMINIA
Questa vita mortale
344
Inevitabile per i vv. 1089-1105 il rinvio a ORAZIO, Sermones, I, 1. Ciò non vuol dire
che non vi siano molti versi di ascendenza petrarchesca: cfr. Rvf, 37, vv. 17-32; 312, vv. 12-
14; 349, vv. 9-14; Triumphus Temporis, vv. 133-38.
Le tragedie di Lodovico Dolce II 281
345
Cfr. TEOGNIDE, Δλεγειων, A, vv. 425-428 e SOFOCLE, Oidipous epi Kolonoi, vv. 1224-
1227. Come già detto vd. G. G. TRISSINO, Sofonisba, vv. 308-09; G. RUCELLAI, Rosmunda,
vv. 139-41; G. B. GIRALDI CINZIO, Orbecche, vv. 630-33 e 928-29; P. ARETINO, Orazia, vv.
437-41 e già L. DOLCE, Hecuba, vv. 229-31.
346
Del resto il coro dirà di Medea ai vv. 1269-70: «Altro la lingua parla,/Et altro forse è
nel suo petto ascoso».
282 Venezia in coturno
MEDEA
I pietosi consigli
Vostri ricevo: infin son madre, e sono
Di carne come voi; però vivranno
I miei figliuoli, e ne morrà colui
Che non merita già nome di padre. (vv. 1222b-26)
MEDEA
Questo io sperava, ma fortuna ingrata
Mi toglie il mio contento e la mia pace,
E vuol ch‟io speri sol pace e contento
Da bella, ardita, e generosa morte.
Lassa, che far debb‟io, debbo lasciarli
Ne le mani e in poter de‟ miei nimici?
O pur menarli meco? Ne le mani
Lasciarli de‟ nimici è cosa iniqua,
E comportar no ‟l voglio. Poi menarli
Meco agli affanni è un‟impietà. Che dunque,
Che debbo far? Non vo‟ che siano a parte
Le tragedie di Lodovico Dolce II 283
MEDEA
Ah misera Medea, già sento, sento
Le furie de l‟Inferno in mezzo il petto:
Sento i serpi crudei, sento il veleno,
Che discorre per l‟ossa, e a poco a poco
M‟ingombra di furor la mente e ‟l cuore. (vv. 1689-93)
NUNZIO
In lei non apparea più d‟occhi forma,
Né ‟l volto somigliava aspetto umano,
E da la testa distillava il sangue
Mescolato col foco, e le sue membra,
347
Cfr. SENECA, Medea, vv. 879-90, in cui il Nuntius racconta del fuoco divoratore che sta
distruggendo il palazzo e che viene alimentato e non spento dall‟acqua.
284 Venezia in coturno
348
Modellato sullo schema metrico di F. PETRARCA, Rvf, 126.
349
Vistosa la dipendenza dal capostipite della grammatica tragica cinquecentesca: G. G.
TRISSINO, Sofonisba, vv. 299-300: «O duro sogno,/Anzi più tosto vision che sogno!».
350
Cfr. P. ARETINO, Orazia, vv. 1951 ss..
Le tragedie di Lodovico Dolce II 285
351
Certo da notare questa sospensione quasi cinematografica che Dolce conferisce alla
sequenza: i fanciulli descrivono (innaturalmente o iperrealisticamente) nel dettaglio la loro
morte.
352
Nell‟ottica, quindi, dell‟analogia Medea-pestis che certo è delle più produttive per
l‟intera operazione dolciana.
353
Cfr. L. DOLCE, Medea, vv. 2261-72: «Che tu send‟io tua moglie, e quella moglie/Che ti
campò da morte, quella istessa/[…]/Che teco viveria moglie mai sempre/[…]/Perfido non do-
vevi abbandonarmi,/E prender nuova moglie; né dovea/Creonte, s‟era Re pietoso e giu-
sto,/Concederti per moglie la figliuola».
286 Venezia in coturno
CORO
Se l‟uom potesse a pieno
Antiveder i mali
Ch‟attristano la vita de‟ mortali,
Questo chiaro sereno,
Questa soave luce,
Non turbarla già mai contrario vento,
E sempre fora pieno
Il corso uman di gioia e di contento.
Ma la vista mortal non si conduce
Là dove più riluce
Il decreto del cielo, a noi celato,
Onde a quel fin n‟adduce
Che dan le stelle, e la fortuna, e ‟l fato. (vv. 2323-35)
1
Sul ruolo del Dolce come mediatore forte del codice tragico antico per Battista Guarini
insiste assai persuasivamente E. SELMI, ‘Classici e Moderni’ nell’officina del Pastor Fido, A-
lessandria, Edizioni dell’Orso, 2001.
Conclusione 291
coloro i quali, da folle licenzia mossi, hanno ardimento di mandare agli in-
chiostri le cogitazioni loro, senza saperle né disporre, né ornare, né con qual-
che piacevolezza dilettare l’animo di chi legge, sono sempre stati e debbono
meritamente esser ripresi.3
Ciò basta a farci riguardare il suo corpus come una sorta di chiave
di volta del codice tragico del nostro Cinquecento, capace di incidere
significativamente e in profondità tanto sullo sviluppo delle successive
forme sceniche italiane, quanto su quello di altre, più nobili, tradizioni
tragiche europee (Inghilterra, Spagna, Francia, Germania).
2
Cfr. C. DIONISOTTI, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1963, p.
213.
3
Cfr. L. DOLCE, Tieste, Lettera al Magnifico Giacomo Barbo, a c. di S. GIAZZON, Torino,
RES, 2010, p. 87.
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per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma