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GIACOMO DA LENTINI:

BIOGRAFIA: massimo rappresentante della Scuola poetica siciliana propugnatrice di una nuova lirica cortese in
volgare italiano e l’inventore della forma metrica del sonetto.
Jacopo, o Giacomo, nasce a Lentini, un piccolo borgo siciliano, intorno al 1210. Della sua vita si conosce molto
poco, da documenti d’archivio, datati 1233 e 1240, si desume che Jacopo da Lentini lavori come funzionario
presso la Corte imperiale di Federico II in qualità di Notaio imperiale, da qui l’appellativo di Notaro che Dante
gli attribuisce nella Divina Commedia (Purgatorio, Canto XXIV, v. 56).
I componenti della Scuola siciliana sono funzionari del governo imperiale o personaggi legati alla struttura
giuridica e amministrativa del Regno di Federico II di Svevia che vivono nel vivace ambiente culturale della corte
imperiale.
I modelli a cui fanno riferimento i poeti della scuola siciliana sono quelli della lirica cortese provenzale ma a
differenza di questa eliminano i riferimenti a vicende concrete, alla cronaca della vita cortigiana ed a persone
ben identificabili ed aspirano ad una tematica amorosa dai modi nobili ed elevati.
Con questi poeti la poesia amorosa si sposta su un piano più astratto e letterario, è una poesia intellettualistica.
La donna è cantata come la nobile signora e padrona da servire con dedizione. L’esperienza poetica si basa su
un repertorio di immagini richiamate dall’amore, che viene visto in tutte le sue manifestazioni, di gioia o di
pena, come un’esperienza nobilitante che rende il poeta socialmente degno.
Jacopo da Lentini è considerato l’iniziatore della Scuola poetica siciliana e figura preminente all’interno del
gruppo, tanto che Dante lo sceglie a rappresentare i Siciliani (vedi Divina Commedia, Purgatorio, Canto XXIV, vv.
55-57). La lingua utilizzata da Jacopo da Lentini, e dagli altri poeti siciliani, è il volgare italiano, che è
essenzialmente un siciliano colto depurato da ogni componente dialettale.
Sono una trentina i componimenti che possono essere sicuramente attribuiti a Jacopo da Lentini, tra canzoni,
canzonette e sonetti.
A Jacopo da Lentini si attribuisce l’invenzione della forma metrica del sonetto (piccolo suono), consistente in 4
strofe: 2 quartine e 2 terzine.
Nella sua poetica Jacopo da Lentini rivisita in lingua volgare i temi e le forme della poesia provenzale. Il tema
principale è quello amoroso in cui si richiama alla tradizione cortese in cui l’amore è visto come:
-Dedizione assoluta dell’innamorato alla donna amata (come un vassallo con il suo signore);
Ideale;
-Nobilitazione della donna, creatura inaccessibile ma che non può non ricambiare l’amore di chi la ama.
Jacopo da Lentini muore presumibilmente intorno al 1260.
(FONTE: https://www.atuttarte.it/autore/da-lentini-jacopo.html )

“MADONNA DIR VO VOGLIO”: https://campus.hubscuola.it/content/uploads/2019/08/c4_sto_lentini1.pdf


(analisi e commento)
TENZONE MOSTACCI-DA LENTINI-DELLE VIGNE:
https://online.scuola.zanichelli.it/letterautori-files/volume-1/pdf-online/focus_amore.pdf /
https://library.weschool.com/lezione/jacopo-da-lentini-provenza-4831.html
-> JACOPO MOSTACCI: Jacopo Mostacci (Messina o Pisa, prima del 1240 – dopo il 1262) è stato un poeta
italiano della Scuola siciliana. Varie ipotesi sono state formulate sulla sua origine: secondo la rubrica del
canzoniere Palatino Jacopo Mostacci sarebbe nato a Pisa, ma un'altra ipotesi, più accreditata, lo considera
nativo di Messina e successivamente esule in Abruzzo; Francesco Torraca avanzò l'ipotesi di un'origine leccese.
Falconiere ufficiale di Federico II di Svevia, nel 1240 fu mandato a Malta per catturare falchi e nel 1262, come
ambasciatore, in Aragona, per conto di Manfredi, per accompagnare la figlia di questi, Costanza II di Sicilia,
promessa sposa di Pietro III di Aragona. Risulta possessore di beni a Messina.
È autore di quattro canzoni di gusto arcaico e provenzaleggiante, conservate nel manoscritto Vaticano Latino
3793, tra le opere di Rinaldo d'Aquino e Cielo d'Alcamo; in esse dominano i motivi convenzionali del timore per
la perdita dell'amore e della necessità di nascondere il proprio sentimento.
Questi sono gli incipit:
-Amor ben veio che mi fa tenire
-A pena pare ch'io saccia cantare
-Umile core e fino e amoroso
-Mostrar vorria in parvenza
Partecipò anche ad una tenzone poetica sulla natura e origine di Amore con Giacomo da Lentini e Pier della
Vigna composta da:
-Sollicitando un poco meo savere di Jacopo Mostacci
-Però ch'amore non si pò vedere di Pier della Vigna
-Amore è uno desio che ven da' core di Iacopo da Lentini
(FONTE: WIKIPEDIA)
-> PIER DELLA VIGNA (o DELLE VIGNE): Uomo politico (n. Capua 1190 circa - m. presso Pisa 1249); di oscura
famiglia, compì gli studî a Bologna; presentato (1225) a Federico II da Bernardo arcivescovo di Palermo, divenne
notarius, poi giudice della magna curia fino al 1234, in seguito uno dei principali collaboratori dell'imperatore.
Svolse importanti missioni diplomatiche a Roma e in Inghilterra; divenuto protonotario e logoteta di Sicilia,
venne però coinvolto in una congiura ordita, si disse, per avvelenare Federico e fu arrestato a Cremona per
ordine sovrano; trasferito in catene di città in città per essere schernito da tutti, fu accecato con un ferro
rovente sotto accusa di lesa maestà. Sembra che non morisse subito, ma che si desse la morte ferendosi la
testa, presso Pisa; tra i cronisti che lo difesero dall'accusa di tradimento va ricordato fra Salimbene da Parma;
alla sua innocenza crede pienamente anche Dante, che ne esalta la figura nel canto XIII dell'Inferno. Dotto
giurista, politico impegnato nel problema della riforma della Chiesa (cfr. il suo Epistolario), occupa un posto
notevole anche nella storia letteraria quale poeta della scuola siciliana e maestro dell'ars dictandi.
(FONTE:
https://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-della-vigna/#:~:text=Uomo%20politico%20(n.,dei%20principali%2
0collaboratori%20dell'imperatore. )

BONAGIUNTA ORBICCIANI DA LUCCA:

BIOGRAFIA: Scarsi sono i dati biografici di questo poeta del XIII secolo. Definito «ser» nelle rubriche del
Vaticano latino 3793 e del Vaticano latino 3214, nonché nel commento quattrocentesco alla Commedia
dell’Anonimo fiorentino (Commento..., 1869, p. 389), è probabilmente da identificare con il notaio e giudice
che compare tra il 1242 e il 1257 in una dozzina di atti conservati negli Archivi di Lucca, in alcuni dei quali si
legge (una volta almeno di suo pugno) il signum notarile: «Ego Bonaiunta Urbicciani iudex et notarius» (Luiso,
1927; Guidi, 1929; Menichetti, 1978, p. 2). Figlio di un Perfetto (Guidi, 1929; Nuzzi, 1972, p. 9), Bonagiunta era
già notaio nel 1242 e per poter esercitare la professione doveva essere nato «al più tardi nel 1224»
(Menichetti, 2012, p. XIX).
Forse era ancora in vita agli inizi degli anni Novanta, quando veniva divulgata Donne ch’avete intelletto
d’amore, la canzone dantesca che nel XXIV canto del Purgatorio Dante immagina di porre sulle labbra del
personaggio di Bonagiunta. La testimonianza non ha di per sé valore documentario; Donne ch’avete ebbe
tuttavia una relativa diffusione manoscritta già prima della fine del secolo e Bonagiunta potrebbe quindi averla
conosciuta. La presenza nel Purgatorio potrebbe comunque indicare che fosse già morto nel 1300, anno della
visione dantesca.
È solo una debole congettura l’ipotesi di un esilio tra 1263 e 1266, quando Lucca passò sotto il governo
ghibellino (Nuzzi, 1972, p. 15). Si sa che fu in corrispondenza con Gonella degli Anterminelli, attestato tra 1270
e 1313 (Massèra, 1920, pp. 221-224), e con Guido Guinizzelli, che si tende ormai a considerare suo
contemporaneo (cfr. Antonelli, 2004, p. 80; Borsa, 2007). Menichetti (2012, pp. XXI s.), basandosi sul tono di
alcuni componimenti, sostiene che Bonagiunta fu «tutt’altro che distaccato di fronte alle vicende politiche della
sua città» e parla di un «impegno civile forte, per quanto immune da prese di posizione settarie riconducibili a
una precisa fazione». Assai incerta è la possibilità che il sonetto Con sicurtà dirò, po’ ch’i son vosso sia
indirizzato a Cavalcanti (come argomenta invece Menichetti: ibid., pp. 236 s.) e soprattutto che implichi un
rapporto con Una figura della Donna mia di Guido, datata abitualmente al 1292; se fosse così, si avrebbe prova
sia della longevità di Bonagiunta sia dei suoi contatti diretti con ambienti fiorentini (cfr. ibid., pp. XX s., XXX).
Certamente va distinto da ser Bonagiunta monaco della Badia di Firenze, rimatore in corrispondenza con il
fiorentino Guido Orlandi (cfr. Menichetti, 2008).
Prima di Contini (1960), Bonagiunta è stato descritto prevalentemente come un seguace di Guittone d’Arezzo
ma, poiché forse fu persino più anziano di questo, sembrerebbe collocabile in una tradizione parallela rispetto
al magistero poetico guittoniano (ma v. Picone, 2001, p. 714, che lo inserisce nella «scuola guittoniana»).
Giunta (1998) parla infatti di una «linea Bonagiunta-Guinizzelli» della poesia italiana del Duecento,
dimostrando innanzitutto l’affinità stilistica con Guido. Si può quindi delineare il ritratto di un poeta che fu
«l’autentico trapiantatore dei modi siciliani in Toscana» (Contini, 1960, p. 258), e certamente «il primo […] di
alto livello e porsi sulla scia dei rimatori federiciani» (Carrai, 1997, p. 26). Bonagiunta ebbe quindi un ruolo
centrale nella fase in cui la lirica d’arte cominciava ad affermarsi nelle città toscane. Dal punto di vista
cronologico e stilistico, risulta infatti estremamente prossimo ai poeti della Scuola siciliana (nel sonetto Di
penne di paone, di attribuzione incerta fra Chiaro Davanzati e Maestro Francesco, sembra accusato di plagio
nei confronti di Giacomo da Lentini); ebbe però il tempo di attraversare i mutamenti culturali e storico-politici e
di procedere in parallelo all’affermazione di Guinizzelli, forse aprendo con lui la strada agli stilnovisti
propriamente intesi e influenzando direttamente alcuni rimatori spesso considerati guittoniani, come Davanzati
(cfr. Menichetti, 2012, p. XXVI). Sembrerebbe quindi confermato il «ruolo di precorritore dello Stil Nuovo» (Id.,
1978, p. 12).
Si attribuiscono a Bonagiunta undici canzoni (compresa In quanto la natura, assegnatagli da Menichetti, 2002B;
Giunta, 1998, p. 140), due discordi, cinque ballate e una ventina di sonetti (più alcuni ritenuti dubbi). I
manoscritti principali delle rime sono i più antichi e autorevoli della poesia italiana (per un regesto completo
della tradizione manoscritta e a stampa, cfr. Menichetti, 2012, pp. XXXVIII-L), tra i quali vi sono il Vaticano latino
3793 (Biblioteca apost. Vaticana), Redi 9 (Firenze, Bibl. Medicea Laurenziana) e il Banco Rari 217 (Ibid., Bibl.
nazionale centrale), quest’ultimo caratterizzato dalla presenza di vari autori lucchesi (Bonagiunta, Inghilfredi e
altri) e forse copiato da una fonte anch’essa lucchese (Menichetti, 1988, p. 7; Concordanze, 1992, pp. 161-166;
Leonardi, 2002, p. 561).
Dal punto di vista metrico, Bonagiunta può essere collocato a metà strada fra i Siciliani e i Toscani: il discordo, in
Italia, è una forma prettamente siciliana, mentre la ballata, ignota ai poeti federiciani, è un’innovazione
continentale (Carrai, 1997, p. 27; Menichetti, 2011, p. 191). Dal punto di vista tematico, nelle rime d’amore
Bonagiunta è vicinissimo ai Siciliani: significativa la canzone Avegna che partensa, costruita sul ricorrere a ogni
strofa di una diversa comparazione naturalistica, come in alcuni testi trobadorici e poi nei Siciliani (Picone,
2001, pp. 711 s.; Menichetti, 2002A, pp. 89-103). Per alcuni componimenti di carattere etico-politico, nei quali
traspare un certo interesse per le questioni morali e per l’attualità politica, si distingue nettamente dai Siciliani
e si avvicina ai Toscani e a Guittone (Bruni, 1990, p. 290), pur rimanendo distante dalle tendenze militanti e
anti-cortesi dell’aretino, caratterizzandosi infatti per uno stile piano affine al trobar leu dei trovatori e ben
lontano dal trobar clus di Guittone (Pierantozzi, 1948; Giunta, 1998, passim; Rossi, 2005, p. 622). La canzone
detta ‘dell’onore’ (Similemente onore), che canta la lode della liberalità contro l’avarizia, è un esempio di poesia
civile che anticipa per alcuni tratti le rime dottrinali di Dante come Poscia ch’amore (Rime, LXXXIII; Menichetti,
1978, p. 11) e contiene forse riferimenti all’attualità. La ballata Molto si fa biasmare, un testo morale, un
‘insegnamento’ (come nel genere trobadorico dell’ensenhamen) sul tema della modestia, critica coloro che non
esercitano correttamente la giustizia (si è voluto vedere qui un accenno al governo ghibellino di Lucca: Nuzzi,
1972, p. 20).
Tra i testi più celebri vi è il sonetto Voi, ch’avete mutata la mainera, in tenzone con Omo ch’è saggio non corre
leggero di Guinizzelli, nel quale Bonagiunta rivendica, utilizzando strategie retoriche tipiche del gap (‘vanto’)
trobadorico, la superiorità della propria poesia (o della propria donna, come sostiene Rea, 2003); il testo ebbe
vasta diffusione manoscritta (Giunta, 1998, p. 82) e a esso principalmente si lega la sua fama, antica e
moderna. È infatti possibile che Dante abbia interpretato la tenzone come uno spartiacque tra vecchia e nuova
maniera e che possa aver utilizzato il presunto contrasto tra i due poeti per fondare il proprio canone
storiografico (ibid., pp. 105 s., 113 e passim). Su questo punto gli studiosi non sono tuttavia concordi: alcuni
considerano la tenzone una testimonianza di dissidio radicale tra Bonagiunta e Guinizzelli (Picone, 2001, pp.
713 s.), altri sottolineano i toni «tutto sommato piuttosto scherzosi» (Menichetti, 2012, p. 267) e astratti della
denuncia dell’oscurità e dell’intellettualismo di Guido.
Comunque sia, si tratta di una delle chiavi per comprendere le ragioni della presenza di Bonagiunta nella
Commedia, tra i golosi del Purgatorio, dove il personaggio del poeta lucchese pronuncia una celebre
auto-accusa finalizzata a caratterizzare i poeti che non seppero seguire il nuovo stile inaugurato da Dante
stesso: «“O frate, issa veggi’io”, diss’elli, “il nodo / ch ’l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil
novo ch’i’ odo!”» (Purg., XXIV, 55-57).
Bonagiunta viene quindi scelto da Alighieri per rappresentare i poeti che non seppero seguire il nuovo stile. A
partire da questo passo è stato elaborato in epoca moderna il concetto storiografico di stilnovismo; sono quindi
numerosi gli studi che cercano di delineare la natura – quasi certamente letteraria – del «nodo» che avrebbe
posto Bonagiunta, Giacomo da Lentini (il Notaro) e Guittone d’Arezzo al di fuori del dolce stil novo di Dante e
dei suoi sodali. Non vi è prova che Dante e Bonagiunta si siano conosciuti, sebbene gli antichi commentatori
della Commedia accennino ad alcuni sonetti di corrispondenza dei quali non v’è traccia nella tradizione
manoscritta. Il personaggio di Bonagiunta preannunzia inoltre a Dante l’incontro con una donna lucchese,
«Gentucca» (Purg., XXIV, 43-45), che si è cercato di identificare senza successo (v. Santagata, 2011, p. 380).
È impossibile dedurre dalla produzione poetica o dalle notizie biografiche in nostro possesso il motivo per cui
Dante colloca Bonagiunta tra i golosi (Contini, 1958, p. 53; Giunta, 1998, p. 47): forse aveva notizie di prima
mano ora inaccessibili (Menichetti, 2012, p. XVII). Più interessante risulta la caratterizzazione linguistica del
personaggio, al quale Alighieri fa pronunciare l’espressione settentrionale e lucchese issa (‘adesso’);
linguisticamente, il corpus di Bonagiunta è infatti «macchiato di tratti toscano-occidentali» (Tavoni, 2011, p.
1281; Menichetti, 2012, pp. LV s.). Dipenderà quindi anche da considerazioni linguistiche la collocazione di
Bonagiunta, nel De vulgari eloquentia, fra i toscani ‘municipali’ «qui propter amentiam suam infroniti titulum
sibi vulgaris illustris arrogare videntur» (I XIII 1: «i quali, ingordi nella loro dissennatezza, pretendono di
arrogarsi il titolo del volgare illustre»; ed. e trad. Tavoni, 2011, pp. 1278-1281). Si noti a questo proposito che
nell’edizione critica di riferimento Aldo Menichetti ha occasionalmente trasposto in lucchese la veste linguistica
dei testi «anche in alcuni casi in cui difetta la legittimazione dei codici» (2012, p. LV). L’episodio del Purgatorio,
al di là dal giudizio comunque severo di Dante, costituisce quindi una preziosa testimonianza della centralità
della produzione poetica di Bonagiunta nella storia letteraria del Duecento.
(FONTE: https://www.treccani.it/enciclopedia/bonagiunta-orbicciani_%28Dizionario-Biografico%29/ )

“VOI CH’AVETE MUTATA LA MAINERA”:


https://letteritaliana.weebly.com/voi-chavete-mutata-la-mainera.html (parafrasi e commento)
GUIDO GUINIZZELLI:

BIOGRAFIA: padre dello stilnovo, è il poeta che riattualizza la tradizione della lirica d’amore, sia sul piano delle
tematiche, sia su quello delle scelte linguistiche. Esercita un profondo influsso sulla nuova generazione di
rimatori in cui spiccano i fiorentini Cavalcanti e Dante che segneranno una svolta nella letteratura del
Duecento. Guido di Guinizello di Magnano, noto come Guido Guinizelli o Guinizzelli, nasce a Bologna intorno al
1240. La famiglia non è di antico e potente lignaggio ma appartiene alla piccola nobiltà felsinea e vanta
relazioni con importanti casati bolognesi.
Si conosce ben poco della biografia di Guinizzelli, fu probabilmente un uomo di legge e giudice. Si sposa con
Beatrice figlia di Gruamonte della Fratta, uno dei più potenti esponenti della aristocrazia bolognese.
Guinizelli prende parte attiva alla vita politica, schierandosi per la parte Ghibellina dei Lambertazzi, in lotta con
i guelfi Geremei, e viene condannato all’esilio a Monselice, vicino a Padova, dove presumibilmente Guinizzelli
muore, intorno al 1276.
Oltre che sulla vita di Guido Guinizzelli anche riguardo la sua produzione letteraria non si hanno conoscenze
certe, gli vengono attribuite 5 canzoni e quindici sonetti, oltre a due frammenti di canzoni. L’unico
componimento databile con una buona approssimazione è il sonetto: “Chi vedesse a Lucia un var capuzzo”
(ultimi mesi del 1268).
Guido Guinizzelli inizia la sua attività di rimatore in stile guittoniano, riconosce infatti in Guittone d’Arezzo il suo
maestro, come viene definito, dallo stesso Guinizzelli, al verso 11 del sonetto che il poeta gli dedica: "O caro
padre meo, de vostra laude".
Tuttavia, dopo i primi tempi in cui la produzione poetica risulta ancora legata a moduli siciliani e guittoniani,
Guinizzelli muta sensibilità e si indirizza verso uno stile “dolce”, ma ricco di tensione intellettuale: lo stilnovo.
Guido Guinizzelli è considerato l’ideatore e l’iniziatore del "Dolce stil novo", l’anticipatore dello Stilnovismo,
corrente letteraria fondamentale per la cultura italiana del XIII secolo; Dante lo considera suo Maestro e lo
celebra come tale nel Canto XXVI (vv.88-132) del Purgatorio.
Lo stile “dolce” di Guido Guinizzelli si inserisce nella disputa sulla nobiltà, questione sociale e politica di
scottante attualità all’epoca di Guinizzelli, che verte sulla natura e origine della nobiltà.
Guinizelli afferma che la nobiltà non si acquisisce per nascita ma per virtù personali e si identifica nella
gentilezza.
L’argomentazione dottrinale di Guinizzelli afferma lo stretto legame tra Amore e gentilezza. Queste due qualità,
amore e “cor gentil”, si uniscono ad alcune qualità naturali, determinate dalle influenze che i corpi celesti
esercitano sul mondo terreno. In base a ciò l’amore è prerogativa solo di alcuni cuori “gentili” predestinati dagli
influssi celesti. La nobiltà di sangue non comporta il dono del “cuor gentil” poiché chi non possiede autentiche
qualità d’animo derivate dagli influssi celesti, anche se discende da famiglia nobile, non vi può aspirare.
Nella canzone "Al cor gentil rempaira sempre Amor" Guido Guinizzelli traccia le linee essenziali di questa nuova
poetica e questa celebre canzone rappresenta una sorta di "manifesto" dell’amore stilnovista.
Il poeta esprime la più alta espressione dell’amore attraverso la lode della donna amata.
Nelle sue rime emerge il “valore” della donna e lo stupore per il suo apparire. La donna quando si mostra
spande intorno a sé luce e splendore che elimina ogni cattivo pensiero e diffonde una forza benefica. La donna
si rivolge verso l’esterno attraverso lo sguardo e il saluto.
Il Dolce Stil Novo è il nome dato da Dante alla corrente letteraria che nasce, ad opera di Guido Guinizzelli a
Bologna, alla fine del XIII secolo. È detto così per il poetare semplice con rime dolci e piane e per il suo
allontanarsi da un eccessivo formalismo stilistico. Il nuovo movimento poetico si trasferisce poi in Toscana, a
Firenze, dove trova i suoi massimi interpreti in Guido Cavalcanti e Dante giovane.
Lo Stilnovismo rappresenta una svolta significativa rispetto ai modi di fare poesia della "scuola siciliana" e dei
suoi primi imitatori toscani. Tra gli elementi innovativi si possono citare:
superamento degli schematismi che avevano caratterizzato la rappresentazione dell’amore nei provenzali e nei
siciliani;
approfondimento dell’analisi dei sentimenti che ispirano l’animo dell’innamorato.
Permangono anche elementi della lirica convenzionale, quali:
-la concezione della donna come "angelo";
-la nobiltà d’animo come condizione indispensabile per conoscere l’amore;
-l’amore come estasi contemplativa o come angosciante tormento.
Lo stilnovismo rappresenta una fase fondamentale nella storia della poesia perché dà il via ad un processo di
interiorizzazione dell’amore che sfocerà nella rivoluzione poetica di Francesco Petrarca.
Anche dal punto di vista stilistico il Dolce Stil Novo introduce importanti novità:
-un lessico basato su termini scelti per la loro lievità;
-una sintassi composta e armoniosa;
-l’utilizzo di immagini figurate che sublimano una realtà che è ritenuta inadatta ad una poesia di alto livello.
(FONTE: https://www.atuttarte.it/autore/guinizelli-guido.html )

“OMO CH’è SAGGIO NON CORRE LEGGERO”:


https://letteritaliana.weebly.com/omo-chegrave-saggio-non-corre-leggero.html (parafrasi e commento)
“PUR A PENSAR MI PAR GRAN MARAVIGLIA”:
Pur a pensar mi par gran meraviglia
come l'umana gent'è sì smarrita
che largamente questo mondo piglia
com' regnasse così senza finita,

5e 'n adagiarsi ciascun s'assottiglia


come non fusse mai più altra vita:
e poi vène la morte e lo scompiglia,
e tutta sua 'ntenzion li vèn fallita;

e sempre vede l'un l'altro morire


10e vede ch'ogni cosa muta stato,
e non si sa 'l meschin om rifrenire;

e però credo solo che 'l peccato


accieca l'omo e sì lo fa finire,
e vive come pecora nel prato.
“CHI VEDESSE A LUCIA UN VAR CAPUZZO”:
https://www.scuolissima.com/2015/12/chi-vedesse-lucia-un-var-capuzzo.html (parafrasi e commento)
“LO VOSTRO BEL SALUTO E ‘L GENTIL SGUARDO”:
https://www.atuttarte.it/poesie/guinizelli-guido/lo-vostro-bel-saluto.html (parafrasi e commento)
“AL COR GENTIL REMPAIRA SEMPRE AMORE”:
https://www.atuttarte.it/poesie/guinizelli-guido/al-cor-gentile-rempaira-sempre-amore.html (parafrasi e
commento)
GUIDO CAVALCANTI:

BIOGRAFIA: Poeta (Firenze intorno al 1258 - ivi 1300). Di famiglia guelfa (dice Giovanni Villani che era una
"delle più possenti case di genti, di possessione e di avere in Firenze"), figlio di Cavalcante, fu promesso in
matrimonio nel 1267 a Beatrice, figlia di Farinata degli Uberti, per la pacificazione delle parti avverse. Prese
parte alla vita pubblica di Firenze; e, nella divisione dei Guelfi, fu con i Cerchi (Bianchi) contro i Donati. Nel 1284
è, con Brunetto Latini e Dino Compagni, nel Consiglio generale del Comune. Il 10 maggio del 1300, in seguito a
tumulti, fu esiliato a Sarzana con gli altri capi delle due fazioni. Ammalatosi e richiamato in patria, morì alla fine
di agosto. Spirito aristocratico, abile dialettico ("cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio"
lo definisce il Compagni) dominò tra la gioventù intellettuale del suo tempo per la nobiltà del suo filosofare
(secondo motivi aristotelico-averroistici) e della sua arte. Il Villani dice che "era, come filosofo, virtudioso uomo
in più cose, se non ch'era troppo tenero e stizzoso", e il Boccaccio lo definisce "un de' miglior loici che avesse il
mondo ed ottimo filosofo naturale". Fu in sostanza il capo riconosciuto di quell'accolta di poeti raffinati che poi
è stata chiamata dello "stil nuovo". Nella canzone Donna me prega diede fondamenti filosofici alla teoria
dell'amante fedele d'Amore; ma oltre che per questa canzone e altre poche rime filosofiche, il C. è
modernamente ammirato anche per alcune soavi e malinconiche poesie, specialmente ballate, nelle quali
domina il tema della paura e della morte.
(FONTE: https://www.treccani.it/enciclopedia/guido-cavalcanti )
“DONNA ME PREGA”:
“TENZONE CON GUIDO ORLANDI”
“CHI è QUESTA CHE VEN CH’OGN’OM LA MIRA”:

“DEH SPIRITI MIEI QUANDO MI VEDETE”:


https://digilander.libero.it/maironidaponte/didattica_online/vita_nuova/pagine/analisi.html (commento)
https://www.skuola.net/forum/italiano/parafrasi-21700.html (parafrasi)
“L’ANIMA MIA VILMENT’è SBIGOTITA”:
“TU M’HAI SI PIENA DI DOLOR LA MENTE”:

“DA PIù A UNO FACE UN SOLLEGISMO”:


https://www.atuttascuola.it/guido-cavalcanti-a-frate-guittone-darezzo/
“S’IO FOSSE QUELLI CHE D’AMOR FU DEGNO”:
https://www.treccani.it/enciclopedia/s-io-fosse-quelli-che-d-amor-fu-degno_%28Enciclopedia-Dantesca%29
/
“I VEGNO IL GIORNO A TE INFINITE VOLTE”:
https://www.treccani.it/enciclopedia/i-vegno-il-giorno-a-te-infinite-volte_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

GUITTONE D’AREZZO:

BIOGRAFIA: Nacque in un anno imprecisabile tra il 1230 e il 1240 a Santa Firmina, un piccolo villaggio sulle
propaggini del monte Lignano, poco distante da Arezzo, presso il cui Comune il padre, Viva di Michele, svolgeva
l'ufficio di camerlengo. La famiglia, economicamente agiata, aveva origini più probabilmente borghesi che
nobiliari; della madre non sappiamo nulla, se non che G. fu forse il suo unico figlio.
Sono state formulate varie ipotesi attorno all'inconsueto nome "Guittone": esso potrebbe derivare o dal
vezzeggiativo Guittoncino, oppure da "guitto", che significa sporco, vile e spilorcio. A una quaestio circa il nome
sembrerebbero alludere, in effetti, alcuni componimenti, che ironicamente esaminano la congruenza tra res e
nomen: un certo mastro Bandino ricusa come non veritiero il riferimento a "guitto" per il "leal Guittone"
(sonetto 29, v. 1, ed. Egidi, p. 153); nell'invettiva contro il giudice Ubertino lo stesso G. si dice vero "guittone"
per aver dato troppo credito al giudice (sonetto 209, v. 2, ibid., p. 252); nella tenzone con un messer Onesto,
infine, G. ammette d'aver "guittoneggiato" e che il suo nome è "ontoso e vile" (sonetto 234, vv. 10, 13, ibid., p.
264).
Della prima formazione di G. nulla conosciamo di certo. In una lettera, databile prima del 1286 e indirizzata a
Marzucco Iscornigiano (degli Scornigiani), "assessore" (ossia giudice) del podestà di Arezzo nel 1249, G. ricorda
d'aver "picciul garzone" aiutato il padre nel suo lavoro (Lettere, n. XVIII, ed. Margueron, p. 200). L'espressione
non sembra riferirsi ai tempi, ma ai modi di tale servizio: designerebbe, infatti, l'ufficio di misero aiutante svolto
da G., piuttosto che la giovane età. Dalla stessa lettera e dalla menzione dell'assessorato di Iscornigiano,
inoltre, taluni ritengono necessario spingere la data di nascita di G. fino al 1240.
Durante tutta la giovinezza G. viaggiò spesso: sicuramente fu a Pistoia, presso la corte dei conti Guidi di
Romena, dove scambiò alcuni versi con il giullare Guidaloste, a proposito del quale, inoltre, ebbe modo di
indirizzare un'epistola al conte Guido Guidi (Guido Pace). Nessun documento testimonia la sua frequenza di un
corso di studi universitari; altrettanto ignoto è il nome di un eventuale maestro, ruolo che il padre non sembra
abbia potuto assolvere; G. si accostò dunque probabilmente come autodidatta ai classici e alle letterature
romanze.
Egli, del resto, poteva trovare in Arezzo un centro di assoluta preminenza culturale nella Toscana del tempo: la
città, infatti, disponeva di uno Studium generale, i cui ordinamenti, tra i più antichi d'Europa, risalivano al 16
febbr. 1255, ma è verosimile che già all'epoca Arezzo godesse di un prestigio culturale adeguato. Punto di
riferimento ineludibile per chi volesse intraprendere gli studi umanistici era il maestro di retorica Bonfiglio, la
cui attività ad Arezzo è attestata con sicurezza tra il 1258 e il 1259; presso di lui, come altri della sua
generazione, G. potrebbe aver appreso i fondamenti tecnici della poesia, saldando quel vincolo tra
sperimentazione letteraria e perfezionamento retorico e metrico che sarebbe approdato a una personale
ricerca stilistica.
A partire dagli anni Quaranta fino alla metà degli anni Sessanta G. si dedicò alla stesura di sonetti erotici, nei
quali dominano stilemi e lessico dall'evidente ascendenza provenzale, elaborati in prevalenza secondo la
tecnica del trobar clus, che egli trapiantò in Toscana non senza il tramite delle sperimentazioni attive alla corte
siciliana di Federico II, imponendosi ben presto come l'erede toscano delle due tradizioni: l'assolutezza
d'Amore, la devozione incondizionata alla donna, la fedeltà al sentimento sono i motivi dell'amor cortese
ricorrenti nei suoi versi, su cui permane la tonalità scura della sofferenza d'amore.
Gli 86 sonetti del codice Laurenziano, pubblicati da L. Leonardi, costituiscono il nucleo della poetica cortese
assimilata da G., tanto da delinearsi come i momenti lirici di un vero e proprio canzoniere, che egli, forse
sull'esempio delle razos e delle vidas provenzali, volle organizzare in forma di racconto. Nel canzoniere si
distinguono momenti narrativi diversi, che sono altrettante occasioni per rinnovare la tradizione provenzale. Il
sentimento d'amore procede tra speranza e disperazione, soggetto alle varie reazioni della donna, che riceve il
senhal "gioia". L'imprevisto esito felice della relazione dà luogo al distacco contemplativo dell'amante dal suo
oggetto, producendo un canto di lontananza; chiude il canzoniere la tenzone con la donna che, divenuta
villana, stabilisce, consumato lo scambio di qualche sonetto, di non più corrispondere.
Nell'ideare questo itinerario G. intendeva mostrarne piuttosto l'esemplarità che la veridicità, ma un tale
progetto, di matrice trobadorica, ingenerava una diffrazione del punto di vista, attraverso cui rielaborare,
innovandolo profondamente, il rituale cortese, già disseminato, del resto, di esperienze paradigmatiche e
refrattario all'autobiografismo. Pur nell'assenza di riferimenti autobiografici, l'io lirico assume con G. una più
riconoscibile individualità e si cala in una realtà sociale e politica già ampiamente trasformata dall'avvento della
borghesia: nella rappresentazione scompaiono, così, i tratti aristocratici che erano propri del modello.
Le canzoni d'amore per così dire "extravaganti" sembrano soggiacere in modo più consistente al modello
cortese della fin'amor, senza che questo implichi, tuttavia, la rinuncia al carattere intrinsecamente sperimentale
dell'esperienza poetica guittoniana. I momenti centrali dell'itinerario spirituale più tipico del trovatore, al
contrario, sono ripresi all'interno di una consapevole operazione di riuso, elaborata in chiave retorica e
comunicativa. L'architettura prosegue senza soste lungo queste direttrici, fino a strutturarsi in un decalogo
dell'amor cortese, destinato a chi aspiri a divenire "fino" amante e a ripararsi dalla follia d'amore: l'aspetto
didattico diviene così comunicazione di un'essenziale filosofia pratica.
Quanto agli aspetti formali, è stato attribuito a G. il merito d'avere stabilito anche in Italia l'uso provenzale della
tornata, o commiato. Tra i generi provenzali più rivisitati da G. spiccano l'enueg (casistica delle "noie"), il plazer
(casistica dei "piaceri"), il devinalh (concatenazione di affermazioni contraddittorie), il planh (compianto
funebre).
Si fa risalire alla morte del padre un cambiamento radicale nella vita di G., anche se ormai si esclude che egli sia
stato costretto a sostituire il genitore nell'ufficio di camerlengo. Della sua ultima giovinezza conosciamo pochi
altri momenti salienti: tra i 25 e i 30 anni sposò una donna di Arezzo, dalla quale ebbe tre figli, i quali erano
ancora in tenera età nel 1265, essendo l'ultimogenito, Dano, nato intorno al 1260.
Pur non pervenendo a incarichi pubblici, G. si dedicò ancor giovane alla politica: conservando una posizione
autonoma, egli scelse la parte dei guelfi, dove militava probabilmente anche il padre.
L'impegno politico cadeva in un periodo difficile per Arezzo, città dal territorio vastissimo, la cui influenza
politica era tuttavia da tempo declinante. Nel decennio 1230-40 i magistrati aretini al governo della città
avevano perduto l'appoggio imperiale, senza riuscire a procurarsi la protezione della Chiesa. La nomina del
vescovo nel 1248 aggravò ulteriormente la situazione: il nuovo titolare della diocesi, Guglielmino degli Ubertini,
membro di una nobile famiglia ghibellina, mirava all'alleanza con Firenze, città dalla quale i ghibellini, sostenuti
da Federico II, avevano intanto bandito gli avversari. Morto Federico, costoro furono richiamati e, dopo un
breve periodo di pace, bandirono a loro volta dalla città le principali famiglie ghibelline. Nel 1256 Arezzo, infine,
si alleò con Firenze, ma già tre anni più tardi, nel 1259, l'alleanza s'incrinò.
Arezzo preparava, infatti, un attacco contro Cortona, cui G. si oppose strenuamente, prevedendone pericolosi
riflessi sull'alleanza con Firenze. Egli si proclamava risolutamente contrario all'iniziativa militare e fautore, per
contro, di un ritorno alla pace, anzitutto entro le mura cittadine. Con il suo dissenso G. riuscì però solo a
inimicarsi i concittadini, che vedevano l'azione, al contrario, come un'occasione di riscatto. Arezzo, dunque,
attaccò nottetempo Cortona, avendone immediatamente la meglio. La reazione di Firenze non si fece
attendere: sentendosi indirettamente minacciata, nel febbraio dello stesso 1259 assalì il castello di Gressa,
possedimento del vescovo di Arezzo.
I fatti avevano perciò ampiamente confermato le più infauste previsioni di G.: l'offensiva contro Cortona s'era
rivelata addirittura rovinosa per Arezzo. Nella città nulla era rimasto come prima e non vennero a mancare per
G. ulteriori motivi di delusione e risentimento verso i concittadini. La decadenza morale sia nella vita pubblica
sia in quella privata, il venir meno dell'ideale di giustizia, il dilagare della corruzione che avevano costituito, nel
progresso degli anni, le ragioni del distacco dalla comunità cittadina furono aggravate dalle conseguenze di
quell'inutile assalto. Egli scelse dunque volontariamente la via dell'esilio.
G. affidò a una canzone-sirventese, Gente noiosa e villana (XV, ed. Egidi, pp. 31-35), il resoconto delle ragioni
personali di quella risoluzione, sistemate in una minuta cronaca storico-politica. Dal congedo si ricava che suo
primo rifugio fu una località sita fuori della Toscana. Con accenti nostalgici, Arezzo è raffigurata in preda alla
guerra; vi regnano villania e ingiustizia ma nondimeno, ristabilite ragione e pace, G. dichiara di desiderare il
ritorno. Contro la sua città non pronunciò mai parole di definitiva condanna, conservando, al contrario, un
profondo affetto per essa e per i suoi abitanti (si veda per esempio la lettera XXVII, ed. Margueron, p. 281).
Nel 1260 culminò la tensione tra le fazioni in lotta per il predominio sulla Toscana; anche Arezzo venne
coinvolta. I ghibellini fuorusciti da Firenze, riunitisi a Siena, chiesero aiuto a Manfredi, il figlio di Federico II, che
inviò, sotto il comando del conte Giordano, 900 cavalieri tedeschi. Lo scontro con Firenze si svolse il 4 sett. 1260
a Montaperti: qui i ghibellini riportarono il loro più grande successo militare e i maggiori centri toscani
entrarono così sotto il loro controllo. Due anni più tardi, divenne podestà di Firenze Guido Guidi (Guido
Novello), cognato di Manfredi. Tutta l'anomalia della posizione aretina emerse all'indomani della battaglia,
quando il vescovo si ritrovò tra i vincitori ghibellini in una città che era stata alleata della sconfitta Firenze;
divisa al suo interno, Arezzo si avviò alla decadenza.
La notizia della disfatta guelfa raggiunse G. lontano da Arezzo, ma già rientrato in Toscana: per un periodo egli
soggiornò a Pisa, dove poteva contare sull'aiuto di numerosi conoscenti, tra i quali il già ricordato Guido
Novello. La loro amicizia era destinata a consolidarsi nel tempo: proprio sul finire del 1266 G. gli avrebbe
indirizzato una canzone con cui si offriva nella veste di consigliere e lo incoraggiava a ripagare con la stessa
moneta un torto ricevuto.
Dopo Montaperti G. compose un altro sirventese, Ahi lasso! or è stagion de doler tanto (XIX, ed. Egidi, pp. 41
s.), in cui deplorava come dramma irreversibile la sconfitta della potente Firenze, baluardo del partito guelfo. La
personificazione della città si reduplica in combinazioni foniche dominate da figure etimologiche, contribuendo
ad amplificare lo stile tragico: l'"alta Fior sempre granata" (v. 5) d'apertura diventa "sfiorata Fiore" (v. 16); in
chiusa, G. pronuncia un malinconico auspicio di rinascita, "Fiorenza, fior che sempre rinovella" (v. 93). Di poco
posteriore alla canzone è la celebre epistola agli Infatuati miseri Fiorentini sul medesimo tema, nella quale,
peraltro, i Fiorentini non sono più tali, "ma desfiorati e desfogliati" (XIV, ed. Margueron, p. 158).
Quanto ad Arezzo, egli ne raffigurò la decadenza morale in una delle sue più celebri canzoni politiche, Ahi,
dolce terra aretina, composta, secondo Pellizzari e Tartaro, prima della morte di Manfredi, tra il 1262 e il 1265,
secondo Margueron tra il 1285 e il 1288. Con questi versi G. individuava la causa della rovina nel
comportamento degli stessi Aretini, che avevano consegnato a un "non stante e strano", ossia a uno straniero,
le sorti della città (XXXIII, v. 131, ed. Egidi, p. 93). L'incertezza sulla data di composizione è oggettiva: le amare
conclusioni sull'incapacità di Arezzo di trovare pace e alleanze sicure caratterizzarono tutto il ventennio
successivo a Montaperti, segnato dall'ambigua politica del vescovo. Questi, morto Carlo d'Angiò nel 1285,
appoggiò i ghibellini e, dopo aver riportato un'iniziale vittoria contro i guelfi fiorentini al Toppo, condusse
Arezzo al più grande disastro politico e militare nella storia della città: nella battaglia di Campaldino del 1289,
cui prese parte anche Dante, Arezzo venne duramente sconfitta dall'alleanza tra Firenze e Siena.
In seguito al rivolgimento dell'assetto politico aretino dopo Montaperti maturò in G. la scelta di aderire, intorno
al 1265, all'Ordine dei cavalieri di S. Maria gloriosa ("milites beatae Virginis Mariae", o Milizia della Vergine).
Fino in tempi recentissimi, si è imposta l'idea che G. fosse stato protagonista di una vera e propria conversione,
cui riconnettere, quanto a questioni di poetica, la bipartizione dell'opera guittoniana in rime amorose e rime
ascetiche e morali, tramandata dal canzoniere Rediano (Firenze, Biblioteca Laurenziana, Rediano, 9), la
principale silloge manoscritta delle sue rime pervenutaci.
Invero, l'eclissarsi del tema erotico a vantaggio dell'impegno didattico-morale appare tratto distintivo di un
numero cospicuo di rime, molte delle quali presumibilmente tarde, come pure dell'epistolario. Ciò, tuttavia,
potrebbe non essere una consapevole elezione tematica imposta dai rigori di un ascetismo che lo stato di
"miles beatae Virginis Mariae" non comportava necessariamente; piuttosto, potrebbe riflettere un rinnovato,
forse più incisivo, impegno sociale. Elementi politici, morali e religiosi, del resto, convivevano nello stile di
impianto didattico che G. aveva coltivato fin dagli esordi.
L'Ordine prescelto da G., religioso e cavalleresco insieme, ebbe carattere laicale e un'accentuata propensione
politica, lontana dal fervore mistico contemporaneo: G. non divenne clericus, ma uno dei "crestian cavaleri"
(XL, v. 32, ed. Egidi, p. 109). Allo stato degli studi i "milites beatae Virginis Mariae" costituivano una pia
confraternita, i cui membri agivano, anche ricorrendo alle armi, in difesa della fede cattolica.
La sua organizzazione era analoga a quella della Milizia di Gesù Cristo, sorta, per iniziativa di un domenicano,
qualche anno avanti a Parma, con l'intento di estirpare l'eresia dai Comuni. Era stata allestita così una crociata
di tipo nuovo, adatta a un territorio, quale l'Italia settentrionale, dove la nobiltà terriera non esercitava grande
influenza, mentre il patriziato urbano, avverso alla parte popolare, poteva trovare in Federico II un potente
alleato contro la Chiesa; il rischio, naturalmente, preoccupava la S. Sede, già impegnata a contrastare il dilagare
dell'eresia. Anche i "milites beatae Virginis Mariae" sorsero, dopo la scomparsa della Milizia di Gesù Cristo, con
l'intento di arginare la diffusione dell'eresia nelle città e, inoltre, di promuovere tra i laici la spiritualità militante
di francescani e domenicani, ai quali ultimi apparvero fin da subito particolarmente legati. Prioritaria missione
cittadina, la nuova milizia si concentrava nell'opera di pacificare le fazioni in lotta, mirando sempre a tutelare gli
interessi ecclesiastici e opponendosi alle iniziative comunali, specie se ghibelline.
Tale opera di pacificazione aveva una rilevanza anche politica: contribuiva a serrare le fila del ceto nobiliare
urbano, che si stava disgregando per la faziosità guelfo-ghibellina delle famiglie e per il prevalere delle forze
popolari nell'ambito comunale. Non ininfluente sulla creazione del nuovo Ordine militare fu, inoltre, il
costituirsi del movimento dei disciplinati, prevalentemente borghese e antimagnatizio.
I "milites beatae Virginis Mariae" nacquero nel 1260, per iniziativa di alcuni nobili emiliani, tra cui il bolognese
Loderengo Andalò; la regola, stilata da fra Rufino Gorgone di Piacenza, ottenne, probabilmente con alcune
rettifiche che miravano ad accentuarne il carattere di istituzione religiosa, l'approvazione di papa Urbano IV il
23 dic. 1261. Potevano aderirvi solo i nobili che avessero anche la dignità di cavalieri, condizione, questa, che
doveva essere sempre osservata: chi non era cavaliere doveva essere insignito del titolo da un confratello. Di
fatto, l'Ordine raccolse i membri dei nascenti patriziati cittadini e non li trasformò in sacerdoti, ma in "milites"
al servizio dell'ortodossia.
La posizione sociale di G. era dunque compatibile con tali requisiti; non costituiva impedimento, inoltre, il suo
stato civile: potevano entrare tra i "milites beatae Virginis Mariae", infatti, anche i coniugati, cui era riservato il
diritto di risiedere nel proprio domicilio. Come ai conventuali - erano così denominati i confratelli, chierici e
laici, non coniugati che invece dimoravano in convento - anche a costoro era imposto, oltre a qualche pratica
ascetica, di astenersi dal ricoprire cariche pubbliche e di preservarsi immuni da eresia e usura. Con la loro
promissio facevano voto di obbedienza e castità coniugale ed erano tenuti a recarsi in convento mensilmente e
a partecipare ai capitoli, generali e provinciali. L'Ordine militare era suddiviso in province, amministrate da un
priore provinciale. Se si deve prestar fede all'erudito settecentesco D.M. Federici, già nel 1267 G. aveva
acquistato la dignità di provinciale, verosimilmente per la provincia di Toscana: ciò comportava compiti di
direzione e controllo sulle articolazioni territoriali, come i conventi, le chiese e le case, aperti sin dai primordi
nelle principali città, prime fra tutte Firenze e Pisa. Ad Arezzo, l'Ordine possedeva un monastero fuori le mura,
in una località denominata Fonte Veneziana, mentre Pisa era sede dei novizi.
Molta parte dell'epistolario di G. testimonia una fase di vera e propria propaganda per l'Ordine (sicuramente
perseguono questo scopo le epistole XIII, che prende spunto dalla vestizione di alcuni novizi, e XV, dedicata a
un non meglio identificato Simone). Al tempo in cui G. divenne cavaliere cristiano sono fatti risalire tutti i
componimenti che abbiano temi diversi dall'amore carnale; si tratta di sonetti e canzoni dai quali emergono
molti dei temi propri alla Milizia: la condanna dell'eresia; il compiacimento per aver abbandonato il "secol
malvagio" (XLIV, v. 2, ed. Egidi, p. 116) e il "mondano piacer" (sonetto 174, ibid., p. 234); la centralità della
pace; l'elogio della castità.
Ancora all'ambito morale rinviano i componimenti in cui G. rimpiange il tempo trascorso tra i vizi ed esorta gli
amici a perseguire il bene. La celebrazione del vero amore contro l'amore carnale, coltivato in gioventù,
culmina nel Trattato d'amore, una sequenza di 11 componimenti brevi, quasi tutti sonetti, con i quali G. dipinge
la follia d'amore, "dogliosa morte" (sonetto 242, v. 1). Appartengono al gruppo, inoltre, una corona di sonetti
dedicata alle virtù e ai vizi e le canzoni dedicate a Gesù, a Maria e ai fondatori degli ordini mendicanti. Valida
come documento della missione del cavaliere cristiano secondo G. è la canzone O ver virtù, vero amore (XXIX).
La condotta immorale di molti confratelli finì col deludere le aspettative di un autentico rinnovamento. La
consuetudine con il lusso e, più in generale, la prevalenza delle cure terrene sull'originaria missione resero i
membri dell'Ordine invisi a tutta la comunità di fedeli, come palesa l'appellativo ben noto di frati gaudenti,
diffuso sin dagli esordi.
Quanto alla fama di ipocriti, attestata nel canto XXIII dell'Inferno di Dante, essa derivò dall'opera di pacieri che
Loderengo Andalò e il confratello Catalano di Guido di donna Ostia furono chiamati dal papa ad assolvere, nelle
vesti di rettori di Firenze. Nel 1266 i due rettori, che avevano assunto comportamenti ambigui, furono
allontanati dalla città lasciando nei Fiorentini un ricordo funesto, di persone inaffidabili e, appunto, ipocrite. In
quella circostanza G. manifestò a Loderengo stima e devozione, dedicandogli la canzone Padre dei padri miei e
mio messere (XL, ed. Egidi, pp. 108-110): nell'esprimere profonda solidarietà G. lo supplicava di volergli ancora
prestare opera paterna.
Se, dunque, G. poteva contare sull'affettuosa protezione di Loderengo, la canzone O cari frati miei (XXXII, ibid.,
pp. 83-89), composta nello stesso 1266, mostra invece chiari segni di un'improvvisa crisi. Egli rimprovera ai
confratelli d'aver perduto di vista il vero bene e di "gaudere / ov'è gran despiacere" (vv. 93-94) e tenta di
difendersi dalle accuse e dalle ingiurie che ne ha ricevuto: rivendica come giusta la decisione di abbandonare i
tre figli ancora piccoli (v. 92) e insieme con essi tutte le dolcezze della vita mondana, per dedicarsi interamente
a Dio; scelta che i confratelli giudicavano folle. Dai toni e dai contenuti della canzone si può ipotizzare che solo
in un secondo tempo G., spinto dalle delusioni, scegliesse una vita religiosa più radicale: quando abbandonò
moglie e figli, egli presumibilmente divenne conventuale rimanendo laico.
Testimoni della crisi appaiono anche alcune lettere, nelle quali G. riversa l'appassionata predicazione dei doveri
di ogni buon frate: perseguire l'unico bene dimorante in Dio, abbandonare i transitori beni mondani.
Composto per la maggior parte in questi anni, l'epistolario di G., uno dei massimi esempi di prosa letteraria di
questo genere, offre poche altre informazioni biografiche: i nomi dei corrispondenti e i toni con i quali G. si
rivolge loro consentono a malapena di tracciare un quadro delle relazioni intrattenute con i contemporanei, ma
poco si prestano a precisarne i tempi e le circostanze meno occasionali. Oscuri permangono inoltre i destinatari
di alcune missive: o perché ai nomi non corrispondono profili a noi noti, o perché lo stesso G. volle lasciarli
celati dietro sigle. Non è escluso che, in questi ultimi casi, egli volesse produrre modelli di lettere, utili a fini
didattici e rigorosamente scanditi secondo la ripartizione tradizionale: salutatio, exordium, narratio, petitio,
conclusio.
Le lettere si prestano a scopi didattici sia per quanto concerne l'impianto retorico e metrico (ars dictandi,
cursus) sia per la scelta dei temi, per lo più di carattere morale. La prima, in particolare, indirizzata a un certo
Gianni Bentivegna, che gli chiedeva ammaestramenti di vita, sintetizza la personale filosofia morale di G.,
segnata da una forte vena religiosa. Scopo delle Scritture e di ogni scienza naturale e morale è fuggire il male e
seguire il bene, ma è necessario saperli riconoscere. La vita, secondo G., è un interminabile perfezionamento
morale, nel quale si può progredire attenendosi ai precetti cristiani.
Le questioni attorno alle quali insorge l'esigenza d'una lettera sono spesso indicate in modo sommario nella
salutatio, dove G. inserisce anche qualche informazione circa i rapporti con il destinatario. Dalla sintetica
enunciazione si passa in breve all'esposizione dell'argomento: G., accantonando ogni forma di prosa intimistica,
predilige la trattazione di stampo sillogistico, sorretta opportunamente dalle auctoritates più accreditate,
classiche e cristiane (tra cui Aristotele, Cicerone, Seneca, Agostino, Boezio). Il motivo occasionale lascia il posto,
così, a un serrato argomentare dottrinario e morale, tanto che molte delle epistole prendono l'aspetto di
sermoni, dove una lingua concreta e realistica modella sentenze astratte dal colore metafisico (Segre). Il solido
impianto retorico è funzionale al docere e al movere: la persuasione prevale così sulle concatenazioni logiche
del discorso. Quanto agli argomenti trattati, si distinguono lettere consolatorie, epidittiche, deliberative,
politiche. Non manca, infine, qualche missiva di circostanza che, pur priva di intenti didattici, ricorre a citazioni
colte.
La "sottiglianza" delle rime, l'essere insieme nei contenuti ardue e gravi e nella forma ricercate fino all'oscurità,
torna, fatta qualche eccezione, anche nell'epistolario, commisto, forse senza un progetto nitidamente
delineato, di prosa e versi. Nel costruire il periodo, G. si richiama alla prosa rimata volgare, che a sua volta
discendeva dalla latina, per far proprio un ideale di simmetria e tradurlo in una sorta di musicalità ricercata per
mezzo della tecnica retorica e timbrica insieme. Parallelismi, antitesi e altri costrutti logici e retorici
compongono un virtuosistico gioco di forme, ritmicamente scandito in clausola.
Lo stile prosastico guittoniano ebbe qualche imitatore: Meo Abbracciavacca, Dotto Reali e un certo Teperto
(Tiberto Galliziani); il suo modello fu, infine, non ininfluente anche sulle scelte retoriche della generazione
successiva, dove ancor vivo è il ricorso alla prosa ritmica, pur snellita nel corredo retorico.
Sappiamo da alcuni atti che nel 1285 G. si trovava nei dintorni di Bologna, a Ronzano, per trascorrervi un
periodo non breve. Qui Loderengo, subito dopo l'esilio da Firenze, si era ritirato in un convento, nei cui pressi,
in zona Genestre, il 3 apr. 1285 G. acquistava una vigna. A legare G. alla locale comunità di frati è il testamento
di suor Iulitta, moglie di frate Bonaventura da Savignano, rogato il 23 maggio 1285: G. compare, insieme con il
figlio Dano, come testimone. Sul finire di luglio un'altra vigna nei dintorni veniva ceduta dallo stesso
Bonaventura da Savignano a Loderengo: nell'atto G. viene menzionato come acquirente precedente.
Qualche anno più tardi il nome di G. ricompare in terra toscana. Al 7 sett. 1293 risale, infatti, l'atto rogato nel
chiostro di S. Michele dell'Ordine camaldolese in Arezzo da un notar Bonavia, con il quale G. definiva l'entità e
la destinazione di un cospicuo donativo a favore dei camaldolesi. Le 200 libbre pisane che egli intendeva
elargire a partire dal 1° genn. 1294, e che costituivano solo parte del suo patrimonio, dovevano servire per la
fondazione del monastero ed eremo di S. Maria degli Angeli di Firenze; a loro volta, i camaldolesi si
impegnavano a corrispondere a G. un vitalizio annuo per un ammontare di 8 libbre pisane, pena l'esborso di
100 libbre per ogni eventuale inadempienza.
L'atto riveste un particolare significato per la vita di G.: ai camaldolesi, infatti, i gaudenti avevano sottratto il
possesso di un'abbazia, il cui trasferimento venne confermato da un processo. Con quell'atto, dunque, G.
attestava la sua autonomia dalle posizioni dell'Ordine.
Dopo quella data non ci è rimasta altra notizia di G., che probabilmente non sopravvisse per più d'un anno alla
donazione. Una lettera (VIII, a frate Alamanno) ci informa sullo stato di salute precario di G., colpito a più
riprese da una "infermitade" (ed. Margueron, p. 103).
Federici deduce da un necrologio stilato nel convento camaldolese di S. Cristina (poi Beata Lucia), nei pressi di
Bologna, la data presunta della morte di G., il 21 ag. 1294 (Annales Camaldulenses, 45), sulla cui attendibilità
permane qualche dubbio; resta ignoto il luogo del decesso, tradizionalmente identificato in Firenze.
La sua fortuna nei secoli è in gran parte debitrice del verdetto dantesco, che lo relegò al di là del dolce stil novo,
alfiere di una poesia municipale, ancorché aperta allo sperimentalismo di marca provenzale.
Era soprattutto nella lingua che Dante identificava il maggior ostacolo all'elezione di G. tra i maestri della
generazione precedente: egli, infatti, "numquam se ad curiale vulgare direxit" (De vulgari eloquentia, I, xiii, 1),
non seguiva cioè la "librata regula", la misura nel dire, e, quanto a lessico e costrutto, persisteva nel
"plebescere" (ibid., II, vi, 8); per il linguaggio plebeo e lo stile smodato, dunque, G. poteva esser venerato solo
dagli ignoranti. Le accuse mosse da Dante nel Purgatorio (XXIV, vv. 55-62) per bocca di Bonagiunta Orbicciani da
Lucca vanno ben oltre la questione stilistica: G., insieme con Giacomo da Lentini e lo stesso Bonagiunta, non
aveva attinto ispirazione dal sentimento d'amore, inteso come esperienza assoluta, spirituale e intellettuale.
Prima dell'affermarsi dello stil novo, il magistero guittoniano, nondimeno, fece scuola. Dante stesso, attraverso
il personaggio di Guido Guinizzelli, dovette riconoscere che molti antichi avevano apprezzato G., "di grido in
grido pur lui dando pregio" (Purgatorio, XXVI, v. 125), finché non vinse il vero affermato da più persone, ossia
l'uso poetico moderno: G., in questo caso, veniva relegato tra gli antichi. Ma anche gli stilnovisti si nutrirono
degli insegnamenti guittoniani, e Dante fu tra questi. A recargli omaggio tra i nuovi poeti fu proprio Guido
Guinizzelli: dedicandogli il sonetto Caro padre meo, certamente non senza una retorica formularità, esprimeva
l'alta considerazione del sapere e della disciplina morale del maestro, cui si rivolgeva per riceverne consigli di
tecnica poetica. Con il sonetto Da più a uno face un sollegismo (XLVII) un altro grande moderno, Guido
Cavalcanti, mosse a G. l'accusa di poca originalità e di eccessi nell'uso retorico. Tra i guittoniani di maggior
rilievo e di professata fedeltà spiccano i nomi di Dante da Maiano, uno dei corrispondenti delle tenzoni
dantesche, di Monte Andrea e di Chiaro Davanzati.

“AMOR M’HA PRISO E INCARNATO TUTTO”:


https://laspada.altervista.org/wp-content/uploads/2016/01/Guittone-dArezzo-Amor-ma-priso-e-incarnato-t
utto.pdf
“SI COMO CIASCUN QUASI ENFINGITORE”

“AI DEO CHI VIDDE DONNA VIZIATA”

“OR SON MAESTRA DI VILLAN PARLARE”

https://www.studenti.it/guittone-d-arezzo-biografia-e-poesie.html#:~:text=Il%20finale%20della%20tenzone
%20spetta,acume%20e%20di%20comicit%C3%A0%20urbana%C2%BB.

DANTE ALIGHIERI:
BIOGRAFIA: La vita di Dante Alighieri è strettamente legata agli avvenimenti della vita politica fiorentina. Alla
sua nascita, Firenze era in procinto di diventare la città più potente dell’Italia centrale. A partire dal 1250, un
governo comunale composto da borghesi e artigiani aveva messo fine alla supremazia della nobiltà e due anni
più tardi vennero coniati i primi fiorini d’oro che sarebbero diventati i “dollari” dell’Europa mercantile. Il
conflitto tra guelfi, fedeli all’autorità temporale dei papi, e ghibellini, difensori del primato politico degli
imperatori, divenne sempre più una guerra tra nobili e borghesi simile alle guerre di supremazia tra città vicine
o rivali. Alla nascita di Dante, dopo la cacciata dei guelfi, la città era ormai da più di cinque anni nelle mani dei
ghibellini. Nel 1266, Firenze ritornò nelle mani dei guelfi e i ghibellini vennero espulsi a loro volta. A questo
punto, il partito dei guelfi, si divise in due fazioni: bianchi e neri.
Dante Alighieri nacque il 29 maggio 1265 a Firenze da una famiglia della piccola nobiltà. Nel 1274, secondo la
Vita Nuova, vide per la prima volta Beatrice (Bice di Folco Portinari) della quale si innamorò subito e
perdutamente. Quando morì sua madre Gabriella, la «madre bella», Dante aveva circa dieci anni. A 17, nel
1283, quando anche suo padre Alighiero di Bellincione, commerciante, morì a sua volta, Dante divenne il
capofamiglia.

Il giovane Alighieri seguì gli insegnamenti filosofici e teologici delle scuole francescana (Santa Croce) e
domenicana (Santa Maria Novella). In questo periodo strinse amicizie e iniziò una corrispondenza con i giovani
poeti che si facevano chiamare «stilnovisti». Nelle Rime si trova l'insieme dell'opera poetica di Dante, dagli anni
della gioventù fiorentina, lungo in corso della sua carriera letteraria, che non risultano inseriti in alcun'altra
opera. È nell’ambito di questo insieme che possiamo trovare le tracce del distacco consapevole che è seguito
alla prima stesura del Inferno e del Purgatorio, che avrebbe condotto Dante verso false concezioni filosofiche,
tentazioni della carne e piaceri volgari.

A 20 anni sposa Gemma Di Manetto Donati, appartenente a un ramo secondario di una grande famiglia nobile,
dalla quale avrà quattro figli, Jacopo, Pietro, Giovanni e Antonia.

Due anni dopo la morte di Beatrice, nel 1292, comincia a scrivere la Vita Nuova. Dante si consacra così molto
presto completamente alla poesia studiando filosofia e teologia, in particolare Aristotele e San Tommaso.

Nelle Rime petrose (1296 circa), forse dedicate ad una madonne Petra, bella e insensibile, si nota come
l'originalità di Dante Alighieri si concreti nella corrispondenza tra materia e rappresentazione. Alla violenza
della passione e alla crudeltà dell'amata corrisponde uno stile realistico, pieno di rimandi brutali.

Rimarrà affascinato dalla lotta politica caratteristica di quel periodo e costruirà tutta la sua opera attorno alla
figura dell’Imperatore, mito di un’impossibile unità. Nel 1293, tuttavia, in seguito a un decreto che escludeva i
nobili dalla vita politica fiorentina, il giovane Dante dovette attenersi alla cura dei suoi interessi intellettuali.

Nel 1295 infine, un'ordinanza decretò che i nobili riottenessero i diritti civici, purché appartenessero a una
corporazione. Dante si iscrisse a quella dei medici e dei farmacisti, che era la stessa dei bibliotecari, con la
menzione di «poeta». Quando la lotta tra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri si fece più aspra, Dante si schierò col
partito dei Bianchi che cercavano di difendere l’indipendenza della città opponendosi alle tendenze
egemoniche di Bonifacio VIII Caetani, che fu Papa dal dicembre 1294 al 1303.

Nel 1300, Dante venne eletto tra i sei «Priori» — custodi del potere esecutivo, i più alti magistrati del governo
che componeva la Signoria — che, per attenuare la faziosità della lotta politica, presero la difficile decisione di
fare arrestare i più scalmanati tra i leader dei due schieramenti. Ma nel 1301, proprio mentre a Firenze arrivava
Charles de Valois e il partito dei Neri, sostenuto dal papato, prendeva il sopravvento, Dante fu chiamato a Roma
alla corte di Bonifacio VIII. Quando iniziarono i processi politici, accusato di corruzione, fu sospeso dai pubblici
uffici e condannato al pagamento di una pesante ammenda. Poiché non si abbassò, al pari dei suoi amici, a
presentarsi davanti ai giudici, Dante fu condannato alla confisca dei beni e «al boia» se si fosse fatto trovare sul
territorio del Comune di Firenze. Fu così costretto a lasciare Firenze con la coscienza di essere stato beffato da
Bonifacio VIII, che l’aveva trattenuto a Roma mentre i Neri prendevano il potere a Firenze e che fu sempre suo
feroce avversario, guadagnandosi un posto di rilievo nei gironi dell’Inferno della Divina Commedia.

A partire dal 1304, inizia per Dante il lungo esilio, nel corso del quale viene sempre accolto con favore: Verona,
Lucca, forse anche Parigi… Dalla morte di Beatrice agli anni dell’esilio, si è dedicato allo studio della filosofia
(per lui l’insieme delle scienze profane) e ha composto liriche d’amore dove lo stile della lode così come il
ricordo di Beatrice sono assenti. Il centro del discorso non è più Beatrice ma «la donna gentile», descrizione
allegorica della filosofia, che traccia l’itinerario interiore di Dante verso la saggezza. Redige il Convivio
(1304-1307), il trattato incompiuto composto in lingua volgare che diventa una summa enciclopedica di sapere
pratico. Quest’opera, è una sintesi di saggi, destinati a coloro che, a causa della loro formazione o della
condizione sociale, non hanno direttamente accesso al sapere. Vagherà per città e Corti secondo le opportunità
che gli si offriranno e non cesserà di approfondire la sua cultura attraverso le differenti esperienze che vive.

Nel 1306 intraprende la redazione della Divina Commedia alla quale lavorerà per tutta la vita. Quando inizia «a
far parte per se stesso», rinunciando ai tentativi di rientrare con la forza a Firenze con i suoi amici, prende
coscienza della propria solitudine e si stacca dalla realtà contemporanea che ritiene dominata da vizio,
ingiustizia, corruzione e ineguaglianza. Nel 1308, in latino, compone un trattato sulla lingua e lo stile: il De
vulgari eloquentia, nel quale passa in revisione i differenti dialetti della lingua italiana e proclama di non aver
trovato «l’odorante pantera dei bestiari» del Medioevo che cercava, ivi compresi il fiorentino e le sue
imperfezioni. Pensa di aver captato «l’insaziabile belva in quel volgare che in ogni città esala il suo odore e in
nessuna trova la sua tana». Fonda la teoria di una lingua volgare che chiama «illustre», che non può essere uno
dei dialetti locali italiani ma una lingua frutto del lavoro di pulizia portato avanti collettivamente dagli scrittori
italiani. È il primo manifesto per la creazione di una lingua letteraria nazionale italiana.

Nel 1310, con l’arrivo in Italia di Enrico VII di Lussemburgo, Imperatore romano, Dante spera nella restaurazione
del potere imperiale, il che gli permetterebbe di rientrare a Firenze, ma Enrico muore. Dante compone allora La
Monarchia, scritto in latino, dove dichiara che la monarchia universale è essenziale alla felicità terrestre degli
uomini e che il potere imperiale non deve essere sottomesso alla Chiesa. Dibatte anche sui rapporti tra Papato
e Impero: al Papa il potere spirituale, all’Imperatore quello temporale. Verso il 1315, gli venne offerto di
ritornare a Firenze ma a condizioni che il suo orgoglio ritenne troppo umilianti. Rifiutò con delle parole che
rimangono una testimonianza della sua dignità umana: «Non è questa, padre mio, la via del mio ritorno in
patria, ma se prima da voi e poi da altri non se ne trovi un'altra che non deroghi all’onore e alla dignità di
Dante, l’accetterò a passi non lenti e se per nessuna siffatta s’entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. Né
certo mancherà il pane».

Nel 1319, fu invitato a Ravenna da Guido Novello da Polenta, Signore della città che, due anni più tardi, lo inviò
a Venezia come ambasciatore. Rientrando da questa ambasciata, Dante venne colpito da un attacco di malaria
e morì a Ravenna a 56 anni nella notte tra il 23 e 24 settembre 1321, dove si trova la sua tomba.

(FONTE:
https://www.italialibri.net/autori/alighierid.html#:~:text=Dante%20Alighieri%20nacque%20il%2029,Dante%20
aveva%20circa%20dieci%20anni. )

“LO DIO D’AMOR CON SU ARCO MI TRASSE” (FIORE I)

“PE’ PIù VOLTE FALLì A LUI FICCARE” (FIORE 230)

“A CIASCUN ALMA PRESA” (VITA NOVA, 1): https://letteritaliana.weebly.com/a-ciascunalma-presa.html


“DONNE CH’AVETE INTELLETTO D’AMORE” (VITA NOVA XIX):
https://letteritaliana.weebly.com/donne-chavete-intelletto-damore.html
“NE LI OCCHI PORTA LA MIA DONNA AMORE” (VITA NOVA XXI):
https://letteritaliana.weebly.com/ne-li-occhi-porta-la-mia-donna-amore.html
“IO MI SENTì SVEGLIAR DENTRO A LO CORE” (XXIV):
https://www.treccani.it/enciclopedia/io-mi-senti-svegliar-dentro-a-lo-core_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

“DEH PEREGRINI CHE PENSOSI ANDATE”:


https://www.treccani.it/enciclopedia/deh-peregrini-che-pensosi-andate_%28Enciclopedia-Dantesca%29/
(analisi/commento)

PARAFRASI:

Vi prego, oh pellegrini, che procedete pensierosi

forse a causa di qualche cosa lontana,

venite forse voi da popolazioni così remote,

come appare a guardarvi,

da non piangere mentre attraversate

la città in lutto (Firenze, che ha perso Beatrice),

come persone che sembrano non conoscere

affatto la sua afflizione?

Se vi fermate per desiderio di ascoltare (la causa del dolore),

certo il cuore sospirando mi dice

che ve ne andreste in lacrime.

La città ha perso colei che portava la beatitudine

e le parole che si possono dire

sul suo conto hanno il potere si far piangere le persone.


“OLTRE LA SPERA CHE PIù LARGA GIRA”: https://letteritaliana.weebly.com/oltre-la-spera.html

“TANTO GENTILE E TANTO ONESTA PARE” (XXVI):


https://www.atuttarte.it/poesie/dante/tanto-gentile-e-tanto-onesta-pare.html
“VEDE PERFETTAMENTE ONNE SALUTE”:
“COSì NEL MIO PARLAR VOGLIO ESSER ASPRO”:
https://www.atuttarte.it/poesie/dante/cosi-nel-mio-parlar-voglio-essere-aspro.html
EUGENIO MONTALE:

BIOGRAFIA: Nato a Genova nel 1896 da un’agiata famiglia della media borghesia.
Sempre indeciso sull’indirizzo da dare alla propria vita “pratica”, il poeta arriva fino ai 30 anni senza un lavoro
fisso; nel 1927 finalmente venne assunto come redattore presso la casa editrice fiorentina Bemporad.
Dovette quindi trasferirsi a Firenze, dove nel 1929 venne nominato direttore della Biblioteca del Gabinetto
Vieusseux fino al 1938, quando fu allontanato dall’incarico perché si era sempre rifiutato di prendere la tessera
del Partito fascista.
Questi anni sono caratterizzati da una straordinaria intensità di rapporti umani e culturali. In questo periodo si
situa anche l’inizio del rapporto affettivo con Drusilla Tanzi, che sarebbe divenuta ben presto la compagna e poi
la moglie di Montale.
Dopo la Liberazione Montale partecipò (per gli affari culturali) al Comitato di liberazione nazionale e aderì, ma
per poco, al Partito d’azione (unica e breve partecipazione attiva alla vita politica).
Nel 1948 si trasferisce a Milano, dove lavora come redattore del “Corriere della Sera”; l’attività giornalistica
continua quasi fino alla morte, sopraggiunta nel 1981.
Gli ultimi anni sono prodighi di riconoscimenti nazionali (per esempio la nomina a senatore a vita nel 1967) e
internazionali (ricordiamo, fra tutti, il premio Nobel assegnatogli nel 1975).

- LE OPERE: L’itinerario poetico di Montale è segnato da un’evoluzione che dal sublime della prima stagione
giunge all’abbassamento comico-prosastico dell’ultima fase.
Con una schematizzazione estrema possiamo individuare il tema fondamentale della poesia montaliana
nell’insanabile crisi del rapporto fra l’uomo contemporaneo e il reale.
Il disagio, il “male di vivere”, è dunque il filo rosso che unisce, pur attraverso varietà di modi, toni, situazioni
poetiche, la prima stagione, che ha inizio con la raccolta “Ossi di seppia”, all’ultima stagione.
- “OSSI DI SEPPIA”: la raccolta comprende testi elaborati tra il 1920 e il 1925 (con la sola eccezione di
“Meriggiare pallido e assorto”, che risale al 1916), in parte già apparsi in rivista.
Questa la struttura della raccolta: fra la poesia di apertura (In Limine, “sulla soglia”, in latino) e quella di
chiusura (Riviere) si collocano quattro sezioni intitolate Movimenti (tredici componimenti), Ossi di seppia
(ventidue), Mediterraneo (un poemetto in nove parti), Meriggi e Ombre (quindici componimenti).
La poesia degli Ossi è una poesia anti-eloquente e in negativo: non ha nessuna verità o certezza da rivelare, ma
si limita a registrare la profonda angoscia del poeta, la sua “disarmonia” con il mondo, il suo “male di vivere”,
appunto, che trova espressione in celebri metafore, quali camminare lungo un muro” che ha in cima cocci
aguzzi di bottiglia”, essere imprigionati in una rete, essere legati da una catena; talvolta si intravede una
possibilità di salvezza. Ma è una possibilità suggerita, vaga.
Montale non vuole e non può darci la formula risolutiva; nessuna certezza positiva, ma solo “ciò che non siamo,
ciò che non vogliamo”.
Gli Ossi di seppia che danno il titolo alla raccolta, e cioè le conchiglie di certi molluschi, presenze inaridite e
ridotte al minimo, appaiono emblematici di questa poetica dello “scabro ed essenziale”.
I motivi che attraversano la raccolta sono:
-il paesaggio
-l’amore
-l’evasione, la fuga
Se la realtà osservata si rivela frantumata e sfuggente, il linguaggio poetico è al contrario, preciso ed esatto.
Ogni oggetto poetico è designato dalla parola con assoluta precisione, legato a un solo significato.
Essenziale e non ridondante è il lessico, e a tal fine Montale ricorre sia a termini tecnici che dialettali, che aulici.
La caratteristica preminente della lingua degli Ossi è la ricchezza lessicale: sono molti i vocaboli con un numero
di occorrenze basso, talora veri e propri Hapax (cioè vocaboli che si presentano nell’opera una sola volta).
Fondamentale è stato il contributo di D’Annunzio al costituirsi della tecnica metrica montaliana, soprattutto per
l’uso degli sdruccioli, la rima ipermetra, l’assonanza. La metrica degli Ossi non è una metrica rivoluzionaria. I
metri tradizionali sono frequenti, settenari, novenari, endecasillabi.
Oltre che della lezione dannunziana, gli Ossi risentono anche di altre molteplici letture:
-Il Dante della Commedia e quello delle rime petrose.
-Da Pascoli, Montale eredita non pochi usi a livello metrico e lessicale: motivi quali la presenza dei morti e
l’ostilità della natura.
-Ma tracce lasciano nella sua poesia anche i simbolisti francesi, soprattutto Verlaine.

- “LE OCCASIONI”: Permane il motivo fondamentale della “disarmonia” e del dolore esistenziale, ma cambiano
alcuni elementi: il paesaggio non solo non è più ligure ma toscano (il poeta si è trasferito nel frattempo a
Firenze).
Se negli Ossi il poeta dialogava solo con il mare (tema principale della prima raccolta) o con un generico Tu, ora
cerca interlocutori reali, concreti (ma per lo più fisicamente assenti); l’interlocutrice prediletta è una figura
femminile.
Nell’opera di Montale la prima fase è negativa e distruttiva: egli non ritrova un oggetto nella cui realtà possa
aver fiducia. La seconda fase è relativamente positiva.
Gli Ossi esprimono la consapevolezza del “male di vivere”, mentre nelle Occasioni domina la ricerca di ciò che
può costituire un’eccezione alla negatività, all’assurdo del reale: la ricerca, insomma, del “fantasma che ti
salva”, che è qui un “fantasma” femminile, quello di Clizia.
La valenza simbolica degli oggetti si accentua e si assolutizza.

-”LA BUFERA E ALTRO”: La situazione storica, esterna, che fa da sfondo alla nuova produzione poetica si è fatta
intanto, e si va facendo, sempre più cupa: il regime dittatoriale si è inasprito e all’orizzonte si addensano
minacciose nuvole di guerra, le stesse che dominano la terza raccolta.
A differenza degli Ossi e delle Occasioni, La bufera e altro appare una raccolta non unitaria ma varia per tempi
di composizione, temi e intonazione poetica.
Il nucleo più unitario è certo il primo, quello di Finisterre: sono quindici poesie fortemente influenzate dalla
congiuntura bellica.
Per la prima volta la storia entra con tragica violenza nella poesia montaliana: la Seconda guerra mondiale
diventa cupo sottofondo delle liriche di Finisterre.
La guerra non provoca una nuova visione della realtà da parte del poeta, ma semplicemente conferma e
accentua il rapporto critico e disarmonico con la realtà, concepita come “assurda, irrazionale e
ininterpretabile”.
Il tema dei morti, di parziale ascendenza pascoliana, ha grande spazio nella raccolta.
L’attenzione poetica di Montale rimane dunque legata saldamente alla permanente condizione umana, prima e
più che agli eventi storici.
L’ispiratrice delle poesie di Finisterre è ancora Clizia, che riprende e accentua la sua connotazione metafisica
orientata in senso religioso (si è detta” Cristofora”, “portatrice di Cristo”, cioè colei che si fa mediatrice tra terra
e cielo).
Nel dopoguerra compare un’altra figura femminile, assai diversa, che Montale stesso definisce” molto
terrestre” e immanente: è la Volpe, nella quale dobbiamo identificare la poetessa Maria Luisa Spaziani (con cui
Montale ebbe una relazione).
In lei non è più riconoscibile alcuna salvezza è piuttosto una sorta di “anti beatrice”.

-PRODUZIONE DEGLI ULTIMI DECENNI DEL POETA: Gli anni Sessanta e Settanta, costituiscono lo sfondo della
seconda stagione poetica montaliana.
Dopo la Seconda guerra mondiale e i primi difficili tempi della ricostruzione, lo sviluppo capitalistico e il
progresso tecnologico danno vita a una società di massa a cui Montale guarda con un distacco aristocratico e
nostalgico.
In questa crisi ideologica, il poeta, nel rimpianto dei vecchi valori che appaiono ormai irrimediabilmente
perduti, rivolge alla sottocultura dominante uno sguardo scettico.
Il mondo che incontriamo in Satura è ormai ridotto a detriti, a scorie, e il negativo è ancor più forte in quanto
ormai dilagante.
Il titolo Satura, per ammissione dello stesso Montale, ha più significati:
-allude alla vena satirica che percorre la raccolta;
-al sintagma latino satura lanx, che stava a indicare prima “un piatto pieno di cibi diversi”;
-ad un genere letterario caratterizzato dalla varietà di metri e di temi.
Delle quattro sezioni che comprendono la raccolta (Xenia I. Xenia II, Satura I, Satura II), le prime due
costituiscono un piccolo canzoniere scritto in occasione della morte della moglie.
Il poeta rende omaggio alla moglie: compagna affezionata e discreta, rimasta finora quasi completamente
assente. Xenia è termine latino che indica i doni fatti a un ospite nel momento in cui lascia la casa che lo ha
ospitato.
In questa nuova stagione poetica il linguaggio di Montale si trasforma, lo stile viene rovesciato: il lessico tende
al basso, al prosastico, e può essere definito grosso modo un lessico quotidiano.
Lo stile si fa quello della conversazione quotidiana, antilirico.
All’abbassamento tematico e lessicale si oppone una gabbia metrica e ritmica tradizionale, raffinata,
sorvegliatissima, con una predilezione per le forme estreme; i versi tendono ad essere o molto brevi o superiori
all’endecasillabo.
(FONTE: http://www.parafrasando.it/BIOGRAFIE/Montale_Eugenio.html )

“IL BALCONE”: https://www.studenti.it/pareva-facile-giuoco-testo-e-commento-poesia-montale.html /


http://tuttopoesia-it.over-blog.it/article-montale-e-le-occasioni-analisi-della-poesia-il-balcone-80501619.ht
ml
“LO SAI DEBBO RIPERDERTI E NON POSSO”:
https://www.ilgiornaleletterario.it/2021/06/09/uno-sguardo-intenso-su-lo-sai-debbo-riperderti-e-non-poss
o-di-eugenio-montale/
“IL RAMARRO, SE SCOCCA”: https://amaitriteparole.wordpress.com/2015/05/15/18/
“TI LIBERO LA FRONTE DAI GHIACCIOLI”:
https://www.fareletteratura.it/2014/08/21/analisi-del-testo-e-parafrasi-ti-libero-la-fronte-dai-ghiaccioli-mo
ntale/

“NON RECIDERE FORBICE, QUEL VOLTO”:


https://www.studenti.it/non-recidere-forbice-quel-volto-testo-e-commento-poesia-montale.html#:~:text=Il
%20testo%20si%20gioca%20su,mia%20nebbia%20di%20sempre%C2%BB

+ MOTTETTI IV-VII (con commento di Isella) e MOTTETTI XIX-XX


XIX MOTTETTO “LA CANNA CHE DISPIUMA”
XX MOTTETTO

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