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In breve, nel corso della sua esistenza, Dante acquista coscienza della sua classe di origine. La piccola nobiltà di
sangue è un abito da dismettere giacchè, necessitando continuamente di rattoppi, non ha futuro (Pd XI 7-9).
Questo concetto è illustrato anche nel Capitale di Marx: “La struttura economica della società capitalistica è
derivata dalla struttura economica della società feudale” ne consegue che coloro che si trovano sciolti dalla servitù
della gleba e dalla coercizione corporativa divengono “venditori di sé stessi soltanto dopo essere stati spogliati di
tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie offerte per la loro esistenza dalle antiche istituzioni feudali.
Per essere più chiari, occorre aggiungere che all’antagonismo fra nobiltà feudale e borghesia si accompagna quello
generale tra sfruttatori e sfruttati, tra ricchi oziosi e lavoratori poveri. Inoltre, come dice Engels nell’Introduzione
all’Anti-Duhring, “sebbene nel complesso la borghesia avesse il diritto di pretendere di rappresentare
contemporaneamente, nella lotta contro la nobiltà, gli interessi delle diverse classi lavoratrici dell’epoca, pure, in
ogni grande movimento borghese, scoppiavano dei moti autonomi dj quella classe che era la precorritrice più o
meno sviluppata del proletariato moderno.
Alla luce dell’Antico e del Nuovo Testamento, Raab è collocata in pagine del Paradiso che si potrebbero per
antonomasia definire il canto di Beatrice che, loquace in ogni altro cielo, proprio in quello di Venere dove sarebbe
naturale manifestare il proprio amore, tace del tutto, data l’incapacità di Dante a tradurre in parole le parole di lei
ovverosia perché l’orgasmo, terreno o celeste, non è verbalizzabile.
A Beatrice non resta che un linguaggio non verbale, eroticamente espresso attraverso feticci come “catenella e
corona”, al pari di “donne contigiate” (Pd XV 100-101) con il “viso dipinto” (Pd XV 114)- prostituzione ufficiale e
non ufficiale della borghesia- ma con il farsi lei stessa “più bella” (Pd VIII 15).
Sullo sfondo di questo silenzio di Beatrice, Folco da Marsiglia denuncia la crescita della potenza finanziaria di
Firenze come causa della corruzione borghese della chiesa (Pd IX 127-35). Si tratta di terzine postillate nel
Manifesto del partito comuna (1848) di Marx e Engels, dove si legge che la borghesia “ha affogato nell’acqua
gelida del calcolo egoistico, i santi fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, della
sentimentalità piccolo-borghese”; e quindi, con riferimento a Dante in premessa all traduzione italiana (1893), che
“la prima nazione capitalista fu l’Italia”.
Con mezzo millennio di anticipo, nel Poema si condanna l’Italia borghese, bollandola non solo come “serva” e
“nave senza nocchiere” ma anche come “bordello” (Pg VI 76-78).
Quanto a “merda”, ricorrendo due volte nell’Inferno accanto a “merdose”, genera tra sostantivo e aggettivo una
sorta di trinità lessicale, non priva di significato, essendo il Poema intriso di giochi numerologici.
Non occorre insistere sulla presenza di “merda” in prosa: da “Discorso o dialogo sulla lingua” di Machiavelli alle
“Lettere” di Leopardi, fino a “I vecchi e i giovani” di Pirandello.
Quanto all’altra parolaccia, l’intero verso “non donna di province ma di bordello” si fa memorabile, dopo la morte
di Date, al punto di essere prelevato e inserito in un sonetto pubblicato nel 1862 da Carducci nel volume da lui
curato delle Rime di Cino da Pistoia, ma opera in realtà di Gian Galeazzo Visconti.
In quanto bordello, l’Italia borghese è un paese di merda, se è lecito dirlo con le parolacce del Poema, pur usate da
altri, prima e dopo.
Sia nella lirica della raccolta dedicata a Beatrice, che in quella del volume intrapreso per la “donna gentile”, le
parolacce non hanno diritto di cittadinanza per il motivo chiarito nel trattato in cui il volgare è giudicato più nobile
del latino (De vulgari eloquentia) che però suona incompatibile con l’affermazione diametralmente opposta del
Convivio secondo cui il latino è più bello, più virtuoso e più nobile.
Ma, in fondo, l’egemonia del latino entra in crisi quando, come chiarito fin dalla Vita Nova, presentandosi il latino
inaccessibile a una donna, qualcuno si mosse a far intendere le sue parole a una donna la quale era malagevole
d’intendere i versi latini. Accade così che la superiorità del latino si ridimensioni dal momento in cui, in volgare
illustre, Dante affronta materia “più nobile” di ogni altra da lui stesso fino ad allora trattata.
A questo punto, il latino e il volgare sono entrambi nobili, in nobile gara: uno più nobile dell’altro.
Anche latino e volgare, come Papato e Impero, sono infatti due soli; e, a tal proposito, dal Convivio si apprende
che, con Dante, il volgare sarà sole nuova che sorgerà dove l’usato tramonterà e darà lume a coloro che sono in
tenebre e in oscurità a causa del vecchio sole che non le illuminava.
Nel De Vulgari Eloquentia, la parola come segno è soggetto al tempo stesso “sensuale” per il suono e “rationale”
per il significato. Se ne deduce che alcuni suoni siano più adatti di altri al nobile linguaggio della poesia in volgare
illustre, che non coincide affatto con il fiorentino municipale, giacchè l’autore riconosce che vi sono , al di là del
legame con il proprio paese natale, regioni e città più nobili della Toscana e di Firenze.
Ma il suono può essere talvolta ignobile e disadattato alla poesia, tale da ridurre a parolaccia la parola che lo
contiene: è il caso, poniamo, della lettera Z, onnipresente nella lingua dei genovesi, dal suono duro. Dante
ribadisce il proprio fastidio per la lettera Z dopo aver fornito un elenco lessicale di voci, dal punto di vista stilistico,
di basso registro, che, come femina, sono da evitare: dolciada e placevole, mate e pate etc. Ma alcuni dei vocaboli,
puerili per la loro ingenuità, sono presenti nel poema: mamma e babbo. Altrettanto quelli selvatici per ruvidezza
come “greggia” e così gli urbani sdrucciolevoli e ispidi come “femina” “corpo”.
Accogliendo queste parole che sono da evitare, il Poema si apre addirittura con parolacce: non soltanto perché il
tradizionale precetto retorico di evitare l’uso eccessivo di “i” “m” “l” è disatteso “neL Mezzo deL caMMIn dI nostra
vIta”; ma soprattutto perché, data la presenza di Z (meZZo) nel primo endecasillabo, l’incipit non può che suonare
cacofonico all’autore stesso.
Poiché non esistono taboo in un capolavoro come quello di Dante, appunto Poema di parole e parolacce, Beatrice,
quando si esprime facendo episodico uso di queste ultime, lo fa esclusivamente al fine di sottolineare la distanza
che separa la società borghese ( Inferno), attraverso la società di transizione (Purgatorio), da una società
comunista (Paradiso), dove la volgarità, venute meno le basi materiali che la rendono necessaria, non è che
poetico ricordo della prima nazione capitalista, l’Italia.
Accostato a schema biblico, questo esodo è un viaggio verso la Gerusalemme della parola da un Egitto di
parolacce.
Così, al v. 28, fa ingresso “corpo”, parolaccia che Dante nel De vulgari eloquentia raccomanda di evitare in poesia,
ma che egli stesso usa, prima del Poema, in un paio di occasioni.
Dietro un’apparente identità di vedute morali rivolte al passato, l’ottica di dante e quella di Aliberti sono
inconciliabili. La differenza tra i due è radicale giacchè, con il sorgere del modo di produzione capitalistico, la
misoginia- inerente a ogni società patriarcale, antica e moderna- si inasprisce sempre più, coinvolgendo tutte le
sfere della vita.
Dante innalza Beatrice a guida suprema, intellettuale e morale, all’interno di una società ideale, quella del
Paradiso, dove la proprietà privata è abolita.
Alberti pretende che la donna- proprietà privata del marito- resti “sorda, muta e cieca”.
Nella monumentale “Storia della letteratura italiana” in 9 tomi, Tiraboschi dedica ampio spazio alle donne scrittrici,
come:
- Nosside da Locri
- Cristina da Pizzano
- Isabella Andreini (1560-1617)
- Lucrezia Marinella (1571-1617)
E molte altre
Ma cent’anni dopo, in un’altra “Storia della letteratura italiana” (1870), De Sanctis fa tabula rasa sia del mondo
antico che di quanto hanno operato nel corso dei secoli le scrittici, avviando un vero e proprio femminicidio
culturale.
Per dirla con Lacan, la donna non esiste o, più precisamente, ha solo due opzioni:
1. Restare “sempre muta”
2. Ripetere presunti canoni e valori ereditati e trasmessi dal passato, cioè il sapere maschile
borghesemente dominante
La realtà è tuttavia diversa dall’ideologia che si presenta istituzionalmente egemone, giacchè a riconoscere la
grandezza internazionale di Dante, in anticipo su chiunque altro, una donna, Cristina da Pizzano, di origine italiana
ma fin da giovane emigrata in Francia e pertanto nota all’estero come Christine de Pizan.
Nella storia universale, il suo nome si lega alla circostanza, fino ad allora senza precedenti, di essere una donna in
grado di condurre esistenza autonoma in virtù esclusivamente della propria vita intellettuale; inoltre, restando
all’Italia, è la prima scrittrice migrante, vissuta lontano dalla patria non meno di Dante e, al pari di quest’ultimo,
letta più all’estero che nel paese di origine.
A parere di Cristina, la migliore e più efficace descrizione dell’aldilà, in particolare di paradiso e inferno, in più
sottili termini, più altamente intrisa di teologia, più poeticamente e con più grande efficacia, si trova nel poema
dantesco, da cui si può trarre più vantaggio che dal romanzo francese.
Nel suo capolavoro “Le livre de la Citè des Dames” (1405), l’autrice si propone di celebrare, a nome di tutte le
donne, non soltanto A Room of One’sOwn (come farà mezzo millennio dopo Virginia Woolf) ma un’intera città per
sé. Derivando da Dante l’idea che è alla base stessa dell’opera vale a dire l’intervento salvifico di una trinità
femminile (dama Ragione, Rettitudine e Giustizia), l’autrice non esita, col proposito di correggere Dante, ad
assumere il ruolo svolto da Beatrice.
Pensiamo, per fare un esempio, alla questione relativa a Semiramide, colpevole agli occhi del poeta per aver fatto
della libido la sua legge, ma, secondo Cristina, innocente se si esamina il suo comportamento secondo i consumi
dell’epoca. Poiché al tempo dell’imperatrice ancora non esisteva una legge scritta e si viveva secondo legge di
Natura, sarebbe antistorico condannarla come incestuosa.
In ogni caso, a giudizio di Cristina, non le parole di Dante sono parolacce, ma quelle del Roman de la Rose.
Sarebbe ridicolo non tener conto che sono ormai lontani i tempi in cui Mario Salmi si riferiva alla Commedia della
Biblioteca Trivulziana, datata 1337, definendola il più antico codice miniato che sia giunto a noi.
Trova conferma la seguente dichiarazione di Petrocchi “che Trivulziano 1080 ci tranquillizzi sulla coloritura e il
comportamento dell’archetipo, non si può proprio dire”.
Corretto nella sostanza il testo dell’Edizione Nazionale del 1966-67 in pochissimi luoghi, è possibile distinguere
oggi, meglio che in passato, le parolacce non dantesche, cioè gli errori di sostanza, introdotti dai copisti, dalle
autentiche parole e parolacce del Poema.
14. PAROLACCE APPARENTI NEL POEMA
Prendendo alla lettera il suggerimento dell’Ars Poetica di Orazio, che suggerisce come modello Omero, Dante inizia
il Poema in medias res “Nel mezzo…” e, di conseguenza, seguendo tale paradigma, mescola cose immaginate alle
vere.
Trova così fondamento:
- L’idea di allegoria come “verità nascosta sotto bella menzogna”, espressa nel Convivio
- La definizione di poesia come “finzione retorica verbale e musicale”, nel De vulgari eloquentia
Reincarnazione della Gerusalemme terrena che ha perso Cristo, Firenze ha perso la sua Beatrice, rediviva
immagine di Cristo al femminile.
Occorre sottolineare come- alla luce del vangelo di Luca e della relativa tradizione patristica e scolastica- la nozione
di poesia e quella di pellegrinaggio si leghino insieme. Si pensi al momento in cui, scambiato per pellegrino, Gesù
finge di procedere oltre o, come direbbe Dante, di andare “Oltre la spera”.
Gesù è, si direbbe oggi, fiction? Perché Gesù finge?
Per un cristiano, ci si trova di fronte al più paradossale dei pellegrinaggi, quello di Gesù che si presenta come
pellegrino da una Gerusalemme all’altra. A risolvere il problema, interviene Sant’Agostino che sostiene che non
tutto quello che si finge è menzogna, spiegando che solo nel caso in cui si finga una realtà senza significato si può
parlare si menzogna; ma quando la menzogna si riferisce a qualcosa di significativo, non si tratterà di menzogna,
bensì di qualche finzione che è figura della verità.
Come Cristo e come Beatrice, anche il Poema di Dante è, al contempo, finzione e Verità: di qui l’imbarazzo dei
copisti preoccupati di liberare il testo da tutto ciò che sembri parolaccia, persino quando parolaccia non è. Si
conoscono infatti numerosi esemplari del Poema in cui fin dalla prima cantica singoli versi (e talvolta intere
terzine) sono resi illeggibili perché deliberatamente omessi o coperti da inchiostro nero.
Ma persino la fonetica del Poema può essere censurata; e il verso dal suono sgradevole “Nel meZZo del cammin…”
è modificato, per ipercorrettismo, nell’Urbinate 366 in “Nel meggio del cammin…”.
Anche la morfologia non resta inalterata dal momento che, di fronte a “questa selva selvaggia…”, la forma
“questa” suonando banale, viene corretta in “esta”. Intervengono in tal senso non solo antichi amanuensi ma
persino moderni editori.
Quanto alla sostanza testuale, sempre per il primo canto del Poema, basti un unico esempio:
al verso 89 “aiutami da lei, famOSO E SAGGIO”, la congiuzione “e”, quasi fosse una parolaccia, viene espunta dai
copisti del ramo A (Martini, Trivulziano, Ashburnhamiano, Riccardiano), ma conservata sia nel Laurenziano di Santa
Croce che nel Riccardiano e in tutto il ramo B (Urbinate 366, Urbinate 365, Florio, Estense), per cui è legittimo
pensare che risalga al punto più alto della tradizione, il cosiddetto “archetipo”.
Già da questi esempi emerge come sia possibile risalire alla parola di Dante liberandola oggi, meglio che in
passato, da interventi di copisti ed editori inclini a sottrarre al Poema quelle che a prima vista sembrerebbero
parolacce- cioè banalizzazioni-, ma che tali non sono o, se mai lo fossero, risultano intenzionali.
Così De Sanctis scelse stereotipi come modelli a giovani borghesi e additò Francesca e Farinata: la prima come
donna in carne e ossa, peccatrice ma in fondo perdonabile, perché ogni donna agli occhi del borghese senz’altro è
peccatrice per natura.
Si, ciò va bene per le femminucce se sognan di esser bimbe assai romantiche: così il borghese adora la sua
femmina.
Ma il maschietto che sia tutto l’opposto: occorre che abbia inferno in gran dispitto e per amor di patria sia disposto
a morire. Ed ecco Farinata che vien fuori perfetto pedagogico modello.
Se poi non basta più il romanticismo, con il risorgimento ormai finito, nell’era nostra degli imperialismi, con le
guerre mondiali, i fascismi, la globalizzazione etc, il programma scolastico si cambia.
Non è più Farinata il gran modello ma l’Ulisse dantesco.
Ulisse, con il suo slogan favoloso “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”, è
superuomo per i nostri tempi: scende in campo con Penelope a casa che lo aspetta e lui avanti con gli altri maschi.
Non conosce confini, così conquista il mondo a modo suo, che importa se poi fa una brutta fine?
La scuola ci propina questo Ulisse ma Dante cosa c’entra lui che sogna di vedere Beatrice in paradiso, lui sconfitto
e cacciato da Firenze e in giro un po’ dovunque da migrante?
Dante ci invita per tanto a riflettere su come, precipitar si possa nell’Inferno. Lui certo si dispiace, cadendo “come
corpo morto cade”, ma condanna Francesca e pure Ulisse.
Il poema è l’uscita da ogni Egitto, da ogni schiavitù (borghese inclusa) per giungere in un mondo, finalmente, che
non conosce proprietà privata: il paradiso infatti è proprio questo.