Sei sulla pagina 1di 9

LE PAROLACCE DI DANTE

IL DIVIN POETA DELLE PAROLACCE


Leggendo il saggio “Le parolacce di Dante” è importante non considerare le parolacce pensandole nel nostro
contesto. Sanguineti ci porta in un viaggio nelle parolacce di Dante secondo alcune direttrici tra le quali:
 la falsa antinomia parola\parolaccia
 intendimento del significato
 le parole delle donne
 l’agguato della blasfemia
La lingua poetica di Dante viene apprezzata e sentita nella sua bellezza anche da persone appartenenti al
proletariato, come indica una risposta di Petrarca a chi lo sospettava invidioso di Dante.
In quanto intellettuale di élite, Petrarca si sdegna al solo pensiero che qualcuno sospetti che possa nutrire invidia
di chi, come Dante, ottiene il plauso del proletariato la cui lode, a sentir suo, costituirebbe un’offesa.

1. CHI MESCOLA PAROLE E PAROLACCE


Si sa che Dante ha l’ambizione di presentarsi:
 Come toscano di “nobil patria natio” (Inf X 26), vale a dire originario di Firenze
 Come autore della canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, inserita nella Vita Nova e citata due volte
nel De vulgari eloquentia: la prima volta in quanto più che eccellente modello di stile sublime; la seconda
volta dopo “Donna me prega” essendo entrambe, sia quella di Cavalcanti che quella di Dante, canzoni di
soli endecasillabi
 Come colui il cui “soprannome” (oggi si direbbe nome) deriva da una donna, Alighiera, moglie di
Cacciaguida, nata in Val Padana
 Come costretto a liberarsi di ogni forma di proprietà priva, feudale o borghese, e a provare, a causa
dell’esilio, una riduzione alla condizione di proletario, profetizzata nel Poema come destino.

In breve, nel corso della sua esistenza, Dante acquista coscienza della sua classe di origine. La piccola nobiltà di
sangue è un abito da dismettere giacchè, necessitando continuamente di rattoppi, non ha futuro (Pd XI 7-9).
Questo concetto è illustrato anche nel Capitale di Marx: “La struttura economica della società capitalistica è
derivata dalla struttura economica della società feudale” ne consegue che coloro che si trovano sciolti dalla servitù
della gleba e dalla coercizione corporativa divengono “venditori di sé stessi soltanto dopo essere stati spogliati di
tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie offerte per la loro esistenza dalle antiche istituzioni feudali.
Per essere più chiari, occorre aggiungere che all’antagonismo fra nobiltà feudale e borghesia si accompagna quello
generale tra sfruttatori e sfruttati, tra ricchi oziosi e lavoratori poveri. Inoltre, come dice Engels nell’Introduzione
all’Anti-Duhring, “sebbene nel complesso la borghesia avesse il diritto di pretendere di rappresentare
contemporaneamente, nella lotta contro la nobiltà, gli interessi delle diverse classi lavoratrici dell’epoca, pure, in
ogni grande movimento borghese, scoppiavano dei moti autonomi dj quella classe che era la precorritrice più o
meno sviluppata del proletariato moderno.

A Firenze si ha, infatti:


 1343, la prima corporazione politica del proletariato in Corporazione d’arti e mestieri dei Tintori e dei
Farsettai
 1345, il primo sciopero generale organizzato da Brandini
 1378, la prima rivoluzione proletaria della storia capeggiata da Michele di Lando, il cosiddetto “Tumulto dei
Ciompi”

Riassumendo, nello svolgersi della vita di Dante, si possono individuare 3 momenti:


1. Il PRIMO nel quale il poeta, esponente della piccola nobiltà fiorentina, fa riferimento al maggior
rappresentante culturale dell’aristocrazia di Firenze, Cavalcanti (è il periodo in cui nascono i
componimenti de la Vita Nova)
2. Il SECONDO in cui, dopo la disfatta a Firenze dell’aristocrazia magnatizia e la vittoria della borghesia, il
poeta (che durante il priorato, 1300, aveva assunto una posizione politica avversa all’èlite finanziaria
filo-angioina alleata alla chiesa uscendone sconfitto) si relazione al più progressista intellettuale laico
del tempo Cino da Pistoia
3. Il TERZO quando, ormai decaduto il proletario, egli dedica alla storia universale un’opera unica dove,
come nella Bibbia, mescola parole e parolacce.

2. LE PAROLACCE DALLA BIBBIA IN POI


Alla base tanto del Poema i Dante come del Capitale di Marx, c’è la Bibbia, dove, per fare un paio di esempi, si
segnalano:
 Nel quarto libro dei Re, oloro che mangiano i propri escrementi
 In Sofonia, le viscere sparse come escrementi
Aggiungendo i libri non canonici nella tradizione ebraica e apocrifi per i protestanti, non mancano, per i cattolici e
ortodossi
 I caldi escrementi che accecano Tobia
 Il pigro ridotto a una palla di sterco animale
nell’Ecclesiastico.

Quanto a “puttana”, la frequenta nei testi sacri è impressionante.


Ricordiamo, per l’Antico Testamento:
 Nella Genesi, Tamar, che Giuda scambiò per una prostituta
 Nel Levitico la legge imposta ai sacerdoti, figli di Aronne, di non sposare mai una baldracca
 Nel Deuteronomio la raccomandazione di rifiutare in ogni caso la prostituzione e di non offrire il dono di
una prostituta in casa del Signore
 Nel secondo libro dei Maccabei, il tempio è occupato da lenoni e meretrici che lo trasformano in un
bordello
 Nei Proverbi, non solo le labbra della meretrice stillano miele, ma la meretrice stessa è una fosse profonda
e chi mantiene una baldracca perde il patrimonio
 Nel libro di Osea, gli uomini si dedicano alle meretrici.
Senza contare la meretrice dell’Apocalisse che Dante menziona una volta nell’Inferno (XIX 106-111) e due volte nel
Purgatorio (XXXII 149 e XXXII 160).

Venendo al Nuovo Testamento:


 Nel Vangelo di Luca, il figliol prodigo torna dopo aver divorato il patrimonio con le meretrici
 Nella prima epistola ai Corinzi, chi si unisce a una meretrice diviene un unico corpo con lei
 Infine, nella Lettere agli Ebrei (quella da cui Dante, Pd XXIV 64-65, ricava la definizione della fede come
sostanza di via per sentire proprie in anticipo le cose che speriamo, e conoscere ciò che non vediamo)
proprio per fede Raab non è morta con gli increduli ma, secondo quanto si precida nella lettera di
S.Giacomo (da cui si trae nella Monarchia la definizione di Dio come colui che a tutti dona in abbondanza e
senza rimprovero) solo per le opere la meretrice è giustificata perché la fede senza le opere è morta.

Alla luce dell’Antico e del Nuovo Testamento, Raab è collocata in pagine del Paradiso che si potrebbero per
antonomasia definire il canto di Beatrice che, loquace in ogni altro cielo, proprio in quello di Venere dove sarebbe
naturale manifestare il proprio amore, tace del tutto, data l’incapacità di Dante a tradurre in parole le parole di lei
ovverosia perché l’orgasmo, terreno o celeste, non è verbalizzabile.
A Beatrice non resta che un linguaggio non verbale, eroticamente espresso attraverso feticci come “catenella e
corona”, al pari di “donne contigiate” (Pd XV 100-101) con il “viso dipinto” (Pd XV 114)- prostituzione ufficiale e
non ufficiale della borghesia- ma con il farsi lei stessa “più bella” (Pd VIII 15).
Sullo sfondo di questo silenzio di Beatrice, Folco da Marsiglia denuncia la crescita della potenza finanziaria di
Firenze come causa della corruzione borghese della chiesa (Pd IX 127-35). Si tratta di terzine postillate nel
Manifesto del partito comuna (1848) di Marx e Engels, dove si legge che la borghesia “ha affogato nell’acqua
gelida del calcolo egoistico, i santi fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, della
sentimentalità piccolo-borghese”; e quindi, con riferimento a Dante in premessa all traduzione italiana (1893), che
“la prima nazione capitalista fu l’Italia”.
Con mezzo millennio di anticipo, nel Poema si condanna l’Italia borghese, bollandola non solo come “serva” e
“nave senza nocchiere” ma anche come “bordello” (Pg VI 76-78).

3. LE PAROLACCE PRIMA E DOPO DANTE


La presenza di “bordello” come forma linguistica che compare una sola volta nell'ambito del Poema non esclude
che la parolaccia sia attestata anche prima di Dante.
In Italia, si comincia con “ruffiano di bordello”, come Apugliese descrive se stesso, per passare a “chi disperde in
bordello” nel Tesoretto di Latini e arrivare ai “bordelai” e al “bordello” nel Fiore.

Quanto a “merda”, ricorrendo due volte nell’Inferno accanto a “merdose”, genera tra sostantivo e aggettivo una
sorta di trinità lessicale, non priva di significato, essendo il Poema intriso di giochi numerologici.
Non occorre insistere sulla presenza di “merda” in prosa: da “Discorso o dialogo sulla lingua” di Machiavelli alle
“Lettere” di Leopardi, fino a “I vecchi e i giovani” di Pirandello.

Quanto all’altra parolaccia, l’intero verso “non donna di province ma di bordello” si fa memorabile, dopo la morte
di Date, al punto di essere prelevato e inserito in un sonetto pubblicato nel 1862 da Carducci nel volume da lui
curato delle Rime di Cino da Pistoia, ma opera in realtà di Gian Galeazzo Visconti.
In quanto bordello, l’Italia borghese è un paese di merda, se è lecito dirlo con le parolacce del Poema, pur usate da
altri, prima e dopo.

4. LE PAROLE RIDOTTE A PAROLACCE


Nel 1576, vedendo la luce come editio princeps, la Vita Nova subisce una serie di interventi che, con licenza di
frate Francesco da Pisa, inquisitore generale dello stato di Firenze, ne rovesciano il significato:
 La parola “gloriosa” è mutata, di volta in volta, in “graziosa” “leggiadra” “unica”
 L’espressione “è uno de li bellissimi angeli del cielo” è censurata a favore di “è simile a uno de li bellissimi
angeli del cielo”
 L’espressione “Beatrice beata” è censurata semplificandola a favore di “Beatrice”
E si potrebbe continuare ma ciò è sufficiente a comprendere come l’amore per Beatrice, terreno e celeste al
tempo stesso, sia convertito dal censore in romanzo borghese privo di implicazioni teologiche.
Una volta censurate, le parole di Dante sono ridotte a parolacce.

5. POEMA DI PAROLE E PAROLACCE


Leggendo la Vita Nova senza censure, si scopre che in essa non c’è spazio per le parolacce. Fin dall’inizio Beatrice
appare “nobilissima” e, in quanto tale, in prospettiva della morte di lei, il Poeta va “per vedere lo corpo nel quale
era stata quella nobilissima e beata anima” e, ad un anno di distanza dalla scomparsa, nel sonetto “Era venuta ne
la mente mia” invoca il suo “nobile intelletto”.
Nel sonetto conclusivo “Oltre la spera che più larga gira”, Dante esprime l’auspicio di raggiungere la donna amata,
che in empireo appare beata a tal punto che il Poeta ammette che il suo desiderio è paradossalmente a lui stesso
incomprensibile e più che comprensibile.
La vittoria della borghesia pone sia Guido Cavalcanti sia Dante, di fronte a un’unica disfatta storica; ma, essendo
magnate il prima, non il secondo, la diversa condizione sociale determina una frattura irreparabile, per cui le loro
strade si divaricano:
 Cavalcanti sublima la perdita della sua proprietà immobiliare, affrontandola in chiave lirica come tragedia
del proprio io
 Dante, con la sconfitta dell’aristocrazia e la vittoria della borghesia imprenditoriale e finanziaria appoggiata
dalla Chiesa, vive il proprio lutto per la perdita di Beatrice elevandolo a tragedia collettiva coinvolgente
l’intera Firenze, città dolente, prefigurazione dell’Inferno stesso.
Per entrambi l’amore è un accidente, non una sostanza. Ma le diverse concezioni dei due portano con sé anche
strade differenti per la ricerca della beatitudine, in questa vita per Guido, nell’una non diversamente che nell’altra,
risponde Dante. Nell’una, in Beatrice terrena, come vogliono i filosofi, ma al tempo stesso per l’altra, in Beatrice
celeste, come vogliono i teologi: questa è la novità del “dolce stilnovo” (Pg XXIV 57).

6. L’INFERNO EGITTO DELLE PAROLACCE


Le parolacce restano fuori dalla poesia interna alla Vita Nova, al punto che il Poeta precisa di rivolgersi (con
“Donne ch’avete ‘ntelletto d’amore”) “non ad ogni donna, ma solamente a oloro che sono gentili e che non sono
pure femmine”. Più avanti, riguardo a “Tanto gentile e tanto onesta pare”, non esita a puntualizzare che Beatrice
“non è femina, anzi è uno delli bellissimi angeli del cielo”. Quest’ultima considerazione è talmente scandalosa da
esser censurata nell’editio princeps del 1576, dove, per volere del frate inquisitore Francesco da Pisa, viene
attenuata in “è simile a uno de li bellissimi angeli del cielo”.
In sintonia con la lettura borghese della poesia di Dante, pronta a separare la parola (poesia) e parolaccia (non
poesia), la censura ecclesiastica non tollera che- in quanto non donna angelicata, ma angelo con nome di donna-
Beatrice costituisca una novità teologica rispetto alla Bibbia stessa, giacchè Antico e Nuovo Testamento non
offrono che angeli con nomi maschili.
Grazie all’Inquisizione, la novità rispetto alla poesia di Guinizzelli scompare: Beatrice diventa equivalente a colei
che aveva sembianze d’angelo nella canzone Al cor gentil, citata nel De Vulgari Eloquentia e a cui alludono:
 Dante stesso, concludendo, nel sonetto “Amore e ‘l cor gentil sono una cosa” nella Vita Nova, con la parità
tra uomo e donna
 Francesca da Rimini, il cui fine è giustificarsi, essendo priva di quel fedel consiglio, come vittima del mito
libresco dell’amore fatale o colpo di fulmine

Sia nella lirica della raccolta dedicata a Beatrice, che in quella del volume intrapreso per la “donna gentile”, le
parolacce non hanno diritto di cittadinanza per il motivo chiarito nel trattato in cui il volgare è giudicato più nobile
del latino (De vulgari eloquentia) che però suona incompatibile con l’affermazione diametralmente opposta del
Convivio secondo cui il latino è più bello, più virtuoso e più nobile.
Ma, in fondo, l’egemonia del latino entra in crisi quando, come chiarito fin dalla Vita Nova, presentandosi il latino
inaccessibile a una donna, qualcuno si mosse a far intendere le sue parole a una donna la quale era malagevole
d’intendere i versi latini. Accade così che la superiorità del latino si ridimensioni dal momento in cui, in volgare
illustre, Dante affronta materia “più nobile” di ogni altra da lui stesso fino ad allora trattata.
A questo punto, il latino e il volgare sono entrambi nobili, in nobile gara: uno più nobile dell’altro.
Anche latino e volgare, come Papato e Impero, sono infatti due soli; e, a tal proposito, dal Convivio si apprende
che, con Dante, il volgare sarà sole nuova che sorgerà dove l’usato tramonterà e darà lume a coloro che sono in
tenebre e in oscurità a causa del vecchio sole che non le illuminava.
Nel De Vulgari Eloquentia, la parola come segno è soggetto al tempo stesso “sensuale” per il suono e “rationale”
per il significato. Se ne deduce che alcuni suoni siano più adatti di altri al nobile linguaggio della poesia in volgare
illustre, che non coincide affatto con il fiorentino municipale, giacchè l’autore riconosce che vi sono , al di là del
legame con il proprio paese natale, regioni e città più nobili della Toscana e di Firenze.
Ma il suono può essere talvolta ignobile e disadattato alla poesia, tale da ridurre a parolaccia la parola che lo
contiene: è il caso, poniamo, della lettera Z, onnipresente nella lingua dei genovesi, dal suono duro. Dante
ribadisce il proprio fastidio per la lettera Z dopo aver fornito un elenco lessicale di voci, dal punto di vista stilistico,
di basso registro, che, come femina, sono da evitare: dolciada e placevole, mate e pate etc. Ma alcuni dei vocaboli,
puerili per la loro ingenuità, sono presenti nel poema: mamma e babbo. Altrettanto quelli selvatici per ruvidezza
come “greggia” e così gli urbani sdrucciolevoli e ispidi come “femina” “corpo”.

Accogliendo queste parole che sono da evitare, il Poema si apre addirittura con parolacce: non soltanto perché il
tradizionale precetto retorico di evitare l’uso eccessivo di “i” “m” “l” è disatteso “neL Mezzo deL caMMIn dI nostra
vIta”; ma soprattutto perché, data la presenza di Z (meZZo) nel primo endecasillabo, l’incipit non può che suonare
cacofonico all’autore stesso.

Poiché non esistono taboo in un capolavoro come quello di Dante, appunto Poema di parole e parolacce, Beatrice,
quando si esprime facendo episodico uso di queste ultime, lo fa esclusivamente al fine di sottolineare la distanza
che separa la società borghese ( Inferno), attraverso la società di transizione (Purgatorio), da una società
comunista (Paradiso), dove la volgarità, venute meno le basi materiali che la rendono necessaria, non è che
poetico ricordo della prima nazione capitalista, l’Italia.

Accostato a schema biblico, questo esodo è un viaggio verso la Gerusalemme della parola da un Egitto di
parolacce.

7. PAROLACCE ALL’INIZIO DEL POEMA


Dante definisce la sua opera Comedìa: parola che non a caso, in accezione antica e cosiddetta medievale, implica
un legame, non importa se esplicito o implicito, con il verbo latino “comedere”.
I poeti comici si chiamano in tal modo alla luce di almeno una delle seguenti circostanze:
- Perché per le loro rappresentazioni vanno spostandosi di villaggio in villaggio
- Per l’uso di ascoltare una commedia dopo un convivio, in latino “commisatio”
Dante non può che identificarsi con entrambe queste situazioni:
- Come uomo politico condannato in patria alla pena di morte, trovandosi costretto da esule a spostarsi di
luogo in luogo
- Giacchè al Convivio interrotto fa seguito la Comedia, poema di parole e parolacce il cui primo verso appare
scandito in 3 momenti:
1. “MEZZO”, esito spontaneo in volgare fiorentino del latino “medium”, parola che suona, per la presenza
di Z, come una parolaccia (momento inizia che prefigura l’inferno)
2. “CAMMINO”, dal latino tardo “camminum”, gallicismo (momento intermedio che prefigura il
Purgatorio)
3. “NOSTRA VITA” espressione che in sé potrebbe essere tanto nobilmente volgare, quanto nobilmente
latina (momento conclusivo che prefigura il Paradiso).

Così, al v. 28, fa ingresso “corpo”, parolaccia che Dante nel De vulgari eloquentia raccomanda di evitare in poesia,
ma che egli stesso usa, prima del Poema, in un paio di occasioni.

8. PAROLACCE MASCHILI O FEMMINILI


Per Dante, nel Poema la donna amata fuori dal ogni vincolo matrimoniale borghese, cioè Beatrice, a cui spetta
comunque l’ultima parola, ha il governo su ogni cosa; per Alberti, viceversa, la moglie borghese, “sempre muta” in
quanto proprietà privata del marito, è destinata al governo delle cose minori. Mentre il poeta antiborghese pende
dalle labbra di lei, per l’ideologo borghese- data l’indole femminile, da lui considerata immutabile e comunque da
correggere- le donne, persino provocando i mariti a farsi beffe di loro, “insulse dicono parolacce”.

Dietro un’apparente identità di vedute morali rivolte al passato, l’ottica di dante e quella di Aliberti sono
inconciliabili. La differenza tra i due è radicale giacchè, con il sorgere del modo di produzione capitalistico, la
misoginia- inerente a ogni società patriarcale, antica e moderna- si inasprisce sempre più, coinvolgendo tutte le
sfere della vita.
Dante innalza Beatrice a guida suprema, intellettuale e morale, all’interno di una società ideale, quella del
Paradiso, dove la proprietà privata è abolita.
Alberti pretende che la donna- proprietà privata del marito- resti “sorda, muta e cieca”.

9. PAROLACCE CORRETTE DA BEATRICE


Grazie a uomini di Chiesa, a pochi anni di distanza dal De iciarchia di Alberti, la vita coniugale per la donna “serrata
in casa” e “sempre muta” si rivela peggiore di qualsiasi inferno. Nelle “Regole della vita matrimoniale” (1477) di
frate Cherubino, si spiega che, per ogni errore commesso dalla donna sposata, il compito di intervenire e
correggere, tramite punizioni corporali, spetta al marito. A questi va l’incarico di ricorrere alla violenza fisica,
giustificata a scopo educativo.
A giustificazione, si invoca la relazione sessuale tra i coniugi, sottolineando come, essendo la sessualità della
moglie proprietà privata del marito, a uno soltanto può spettare il compito di intervenire.
In conclusione, la moglie stia zitta, il marito usi la parola.
Il Paradiso è il luogo dove la donna amata da Dante parla più di chiunque altro, non ha da ascoltare in silenzio la
lezione di nessuno e in ogni campo del sapere ha qualcosa di nuovo da insegnare. Mentre nell’Eneide Virgiliana e
nelle Lettere paoline, dove non c’è posto per le parolacce, il femminile è subordinato al maschile, nel Poema il
femminile prevale sul maschile: dal Cielo della Luna fino al Primo Mobile, le parolacce di Dante- cioè tutte le
questioni mal poste in precedenza del Convivio, da quella delle macchie lunari fino a quella delle gerarchie
angeliche- sono corrette da Beatrice.

10.PAROLACCE E PAROLE PER CRISTINA


C’è da chiedersi se, nel corso dei secoli durante i quali è avvenuto il passaggio dal modo di produzione feudale a
quello capitalistico, con la conseguente trasformazione della società feudale in borghese, la donna benchè “serrata
in casa” e “sempre muta”, abbia letto Dante e che in pressioni, nel caso, ne avesse ricavato.

Nella monumentale “Storia della letteratura italiana” in 9 tomi, Tiraboschi dedica ampio spazio alle donne scrittrici,
come:
- Nosside da Locri
- Cristina da Pizzano
- Isabella Andreini (1560-1617)
- Lucrezia Marinella (1571-1617)
E molte altre
Ma cent’anni dopo, in un’altra “Storia della letteratura italiana” (1870), De Sanctis fa tabula rasa sia del mondo
antico che di quanto hanno operato nel corso dei secoli le scrittici, avviando un vero e proprio femminicidio
culturale.

Per dirla con Lacan, la donna non esiste o, più precisamente, ha solo due opzioni:
1. Restare “sempre muta”
2. Ripetere presunti canoni e valori ereditati e trasmessi dal passato, cioè il sapere maschile
borghesemente dominante

La realtà è tuttavia diversa dall’ideologia che si presenta istituzionalmente egemone, giacchè a riconoscere la
grandezza internazionale di Dante, in anticipo su chiunque altro, una donna, Cristina da Pizzano, di origine italiana
ma fin da giovane emigrata in Francia e pertanto nota all’estero come Christine de Pizan.
Nella storia universale, il suo nome si lega alla circostanza, fino ad allora senza precedenti, di essere una donna in
grado di condurre esistenza autonoma in virtù esclusivamente della propria vita intellettuale; inoltre, restando
all’Italia, è la prima scrittrice migrante, vissuta lontano dalla patria non meno di Dante e, al pari di quest’ultimo,
letta più all’estero che nel paese di origine.
A parere di Cristina, la migliore e più efficace descrizione dell’aldilà, in particolare di paradiso e inferno, in più
sottili termini, più altamente intrisa di teologia, più poeticamente e con più grande efficacia, si trova nel poema
dantesco, da cui si può trarre più vantaggio che dal romanzo francese.

Nel suo capolavoro “Le livre de la Citè des Dames” (1405), l’autrice si propone di celebrare, a nome di tutte le
donne, non soltanto A Room of One’sOwn (come farà mezzo millennio dopo Virginia Woolf) ma un’intera città per
sé. Derivando da Dante l’idea che è alla base stessa dell’opera vale a dire l’intervento salvifico di una trinità
femminile (dama Ragione, Rettitudine e Giustizia), l’autrice non esita, col proposito di correggere Dante, ad
assumere il ruolo svolto da Beatrice.
Pensiamo, per fare un esempio, alla questione relativa a Semiramide, colpevole agli occhi del poeta per aver fatto
della libido la sua legge, ma, secondo Cristina, innocente se si esamina il suo comportamento secondo i consumi
dell’epoca. Poiché al tempo dell’imperatrice ancora non esisteva una legge scritta e si viveva secondo legge di
Natura, sarebbe antistorico condannarla come incestuosa.

In ogni caso, a giudizio di Cristina, non le parole di Dante sono parolacce, ma quelle del Roman de la Rose.

13. PAROLACCE DANTESCHE E NON DANTESCHE


Curatrice del testo del Paradiso secondo il più antico codice di sicura fiorentinità, Eleonisia Mandola ha dimostrato
che “La Commedia secondo l’antica vulgata” curata da Giorgio Petrocchi nel 1966-67 è nel complesso inaffidabile.
A questa conclusione è giunta servendosi dell’albero genealogico utilizzato nella “Dantis Alagherii Comedia” del
2001 e basando la ricostruzione del testo su uno stemma così bipartito:
 Con sei codici, cioè:
1. Laurenziano di Santa Croce
2. Martini
3. Trivulziano 1080
4. Ashburnhamiano 828 (detto l’Antichissimo)
5. Hamilton 203
6. Braidense AG XII 2
 Con quattro codici, cioè:
1. Urbinate 366
2. Urbinate 365
3. Estense R 4 8
4. Florio

Tale edizione critica, in quanto ipotesi di lavoro, risulta significativa perché:


 Avvalora, in larga misura e in modo economico, il risultato a cui Petrocchi è giunto utilizzando un numero
tre volte superiore di testimoni
 Comprova la solidità dell’albero genealogico del 2001
 Ricostruisce la veste linguistica nel miglior modo oggi possibile

Sarebbe ridicolo non tener conto che sono ormai lontani i tempi in cui Mario Salmi si riferiva alla Commedia della
Biblioteca Trivulziana, datata 1337, definendola il più antico codice miniato che sia giunto a noi.
Trova conferma la seguente dichiarazione di Petrocchi “che Trivulziano 1080 ci tranquillizzi sulla coloritura e il
comportamento dell’archetipo, non si può proprio dire”.

Corretto nella sostanza il testo dell’Edizione Nazionale del 1966-67 in pochissimi luoghi, è possibile distinguere
oggi, meglio che in passato, le parolacce non dantesche, cioè gli errori di sostanza, introdotti dai copisti, dalle
autentiche parole e parolacce del Poema.
14. PAROLACCE APPARENTI NEL POEMA
Prendendo alla lettera il suggerimento dell’Ars Poetica di Orazio, che suggerisce come modello Omero, Dante inizia
il Poema in medias res “Nel mezzo…” e, di conseguenza, seguendo tale paradigma, mescola cose immaginate alle
vere.
Trova così fondamento:
- L’idea di allegoria come “verità nascosta sotto bella menzogna”, espressa nel Convivio
- La definizione di poesia come “finzione retorica verbale e musicale”, nel De vulgari eloquentia

Reincarnazione della Gerusalemme terrena che ha perso Cristo, Firenze ha perso la sua Beatrice, rediviva
immagine di Cristo al femminile.
Occorre sottolineare come- alla luce del vangelo di Luca e della relativa tradizione patristica e scolastica- la nozione
di poesia e quella di pellegrinaggio si leghino insieme. Si pensi al momento in cui, scambiato per pellegrino, Gesù
finge di procedere oltre o, come direbbe Dante, di andare “Oltre la spera”.
Gesù è, si direbbe oggi, fiction? Perché Gesù finge?
Per un cristiano, ci si trova di fronte al più paradossale dei pellegrinaggi, quello di Gesù che si presenta come
pellegrino da una Gerusalemme all’altra. A risolvere il problema, interviene Sant’Agostino che sostiene che non
tutto quello che si finge è menzogna, spiegando che solo nel caso in cui si finga una realtà senza significato si può
parlare si menzogna; ma quando la menzogna si riferisce a qualcosa di significativo, non si tratterà di menzogna,
bensì di qualche finzione che è figura della verità.
Come Cristo e come Beatrice, anche il Poema di Dante è, al contempo, finzione e Verità: di qui l’imbarazzo dei
copisti preoccupati di liberare il testo da tutto ciò che sembri parolaccia, persino quando parolaccia non è. Si
conoscono infatti numerosi esemplari del Poema in cui fin dalla prima cantica singoli versi (e talvolta intere
terzine) sono resi illeggibili perché deliberatamente omessi o coperti da inchiostro nero.
Ma persino la fonetica del Poema può essere censurata; e il verso dal suono sgradevole “Nel meZZo del cammin…”
è modificato, per ipercorrettismo, nell’Urbinate 366 in “Nel meggio del cammin…”.
Anche la morfologia non resta inalterata dal momento che, di fronte a “questa selva selvaggia…”, la forma
“questa” suonando banale, viene corretta in “esta”. Intervengono in tal senso non solo antichi amanuensi ma
persino moderni editori.
Quanto alla sostanza testuale, sempre per il primo canto del Poema, basti un unico esempio:
al verso 89 “aiutami da lei, famOSO E SAGGIO”, la congiuzione “e”, quasi fosse una parolaccia, viene espunta dai
copisti del ramo A (Martini, Trivulziano, Ashburnhamiano, Riccardiano), ma conservata sia nel Laurenziano di Santa
Croce che nel Riccardiano e in tutto il ramo B (Urbinate 366, Urbinate 365, Florio, Estense), per cui è legittimo
pensare che risalga al punto più alto della tradizione, il cosiddetto “archetipo”.

Già da questi esempi emerge come sia possibile risalire alla parola di Dante liberandola oggi, meglio che in
passato, da interventi di copisti ed editori inclini a sottrarre al Poema quelle che a prima vista sembrerebbero
parolacce- cioè banalizzazioni-, ma che tali non sono o, se mai lo fossero, risultano intenzionali.

POSCRITTO DOPO TANTE PAROLACCE


Morale della favola da trarre è che Dante, i borghesi l’hanno fatto diventare gran padre della patria, censurando il
pensiero del Poeta e scegliendo dei versi assai esemplari per inculcarli sui banchi di scuola.

Così De Sanctis scelse stereotipi come modelli a giovani borghesi e additò Francesca e Farinata: la prima come
donna in carne e ossa, peccatrice ma in fondo perdonabile, perché ogni donna agli occhi del borghese senz’altro è
peccatrice per natura.

Si, ciò va bene per le femminucce se sognan di esser bimbe assai romantiche: così il borghese adora la sua
femmina.
Ma il maschietto che sia tutto l’opposto: occorre che abbia inferno in gran dispitto e per amor di patria sia disposto
a morire. Ed ecco Farinata che vien fuori perfetto pedagogico modello.

Se poi non basta più il romanticismo, con il risorgimento ormai finito, nell’era nostra degli imperialismi, con le
guerre mondiali, i fascismi, la globalizzazione etc, il programma scolastico si cambia.
Non è più Farinata il gran modello ma l’Ulisse dantesco.
Ulisse, con il suo slogan favoloso “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”, è
superuomo per i nostri tempi: scende in campo con Penelope a casa che lo aspetta e lui avanti con gli altri maschi.
Non conosce confini, così conquista il mondo a modo suo, che importa se poi fa una brutta fine?
La scuola ci propina questo Ulisse ma Dante cosa c’entra lui che sogna di vedere Beatrice in paradiso, lui sconfitto
e cacciato da Firenze e in giro un po’ dovunque da migrante?
Dante ci invita per tanto a riflettere su come, precipitar si possa nell’Inferno. Lui certo si dispiace, cadendo “come
corpo morto cade”, ma condanna Francesca e pure Ulisse.

Il poema è l’uscita da ogni Egitto, da ogni schiavitù (borghese inclusa) per giungere in un mondo, finalmente, che
non conosce proprietà privata: il paradiso infatti è proprio questo.

Potrebbero piacerti anche