Sei sulla pagina 1di 10

Capitolo I

DANTE ERETICO

Non tutti sanno che Dante si è dovuto presentare davanti al Tribunale dell’Inquisizione.
Alla sua morte «grande imprudenza fu quella del cardinale del Borghetto (Poggetto)!
Correre schiumoso di bile fino a Ravenna per fare dell’ancor caldo cadavere di Dante quel che poi
fu fatto al corpo del Pilingegno! 1 Quel bruciar le ossa del poeta sarebbe bastato a palesare la natura

1
G. Rossetti riporta che nel Dizionario degli uomini illustri sotto la voce Palingenio si legge che fu perseguitato
in vita e le sue ceneri vennero bruciate, perché la Santa Inquisizione non poté acciuffarlo vivo, avendo egli grancopia di
amici, perché aveva fatto una allegorica figura con la quale chiamava il Papa Lucifero e i suoi preti Demoni. La sua
opera si intitola Zodiaco della Vita e assomiglia straordinariamente alla raffigurazione che lo stesso Dante fa di Satana,
solo che l’allusione è molto più palese. Il Papa è rappresentato come una bestia enorme con le ali di pipistrello, ha una
cesta sul capo con 7 corna ed è accompagnato da una scorta (sacerdotes casti!).
Cecco d’Ascoli viene bruciato dall’Inquisitore dei Patarini a Firenze il 26.9.1327 ormai settuagenario. Parlava
di storia naturale nelle sue corrispondenze con Dante. «Poema che i critici posteriori tengono per cattolicum e
gl’inquisitori dichiarano per ereticole, sono nuove e autentiche prove alla dimostrazione che Roma e ‘l santuffizio
conoscessero quel gergo» dei Fedeli d’Amore. ROSSETTI Gabriele, Sullo Spirito Antipapale che produsse la Riforma e
sulla segreta influenza ch’esercitò nella letteratura d’Europa e specialmente in Italia some risulta da molti suoi
classici, massime da Dante, Petrarca, Boccaccio, Disquisizione di Gabriele Rossetti, Stampato dall’autore e venduto in
sua casa, 38 ChaiBotte Strett, Portland Place, Londra 1832, (Bibl. Naz. FI, 26.3.2.5); ristampato Bologna 1974, p. 370-
374,376.
Petrarca, caso notissimo, il cantor de’ casti amori, fu trattato da mago dal Papa in persona, e maghi furono
egualmente detti tutt’i poeti di quell’età, e i versi loro, senza distinzione, abominio infernale e fuoco diabolico. Il
cantore di Laura, vessato dal Santuffizio, poté, grazie al suo credito e alle molte protezioni che gli fecero scudo, uscirne
illeso, ma non senza gran travaglio, scriveva lo Squarzafico nella Vita di lui.
Volle l’inquisitore Fra Marco Piceno costituire come eretici tutt’i rimatori di quella età: molti in fatti ne
carcerò, molti ne scrutinò; e già la tortura crudele cominciava a trarre delle labbra de’ martirizzati quella confessione
che Roma temea cotanto. Ella li riseppe, accorse al riparo, mise in libertà gli arrestati, e cacciò via dal Santuffizio quel
frataccio imprudente, il quale ne rimase cuculista come un matto che sognava eresie, e come un ignorante che
perseguitava le lettere: e così il pericolo fu evitato un’altra volta.
Gerolamo Squarzafico nella sua Vita carissimi Viri Francisci Petrarchae, che è riprodotta in fronte alla
edizione veneziana del 1503 delle opere Latine del Petrarca, parla di un certo inquisitore Fra Marco Piceno di Solipodio
che tentò un processo contro non nullos di questi poeti erano considerati in quel tempo maghi, incantatori ed eretici, ma
qualcuno lo fece fermare per evitare «maxima scandale». Petrarca era uno degli imputati.
Tutto ciò conferma che la Chiesa ebbe sentore del contenuto eterodosso di questa poesia, si guardò bene dal
suscitare i maxima scandalia e cercò di dissimularlo o di negarlo nei limiti del possibile e questa tattica si è continuata
fino al secolo scorso quando il libro del Rossetti, che rilevava l’eterodossia di Dante, fu condannato e quello dell’Aroux,
dedicato al Papa, fu lasciato senza risposta e poi attaccato da tutti i cattolici ferocemente, mentre la Chiesa, divenuta
all’improvviso entusiasta dell’autore della Monarchia, favoriva da per tutto il formarsi di cattedre dantesche cattoliche e
di commenti cattolici, la intensissima attività dei quali ha avuto una notevole efficacia nel creare le opinioni correnti
oggi intorno a Dante». VALLI Luigi, Il Linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, ed. Optium, Roma 1928;
ed. Libreria Artigrafica Bretoni, ed. Multigrafica, Roma 1969, p. 420.
B. Cerchio riporta l’azione del cardinale Poggetto come vendetta nei confronti di Dante perché mago,
esoterico, alchimista e astrologo. «Della sua fama di mago sono due atti notarili (riportati da G.L. PASSERINI,
Giornale dantesco, anno IV, I della Nuova serie, Quad. III) conservati negli archivi vaticani e rogati il 9 febbraio e l’11
settembre 1320 da Gerardo di Salò, notaio in Avignone. Essi riguardano un processo per maleficio contro Giovanni
XXII, maleficio che sarebbe stato voluto da Matteo Visconti e richiesto a Bartolomeo Canolati; quest’ultimo attesta che
il Visconti avrebbe fatto venire presso di sé Dante Alighieri da Firenze, con i medesimi propositi. Se la deposizione va
accolta con beneficio d’inventario, è però rilevante che sentore di simili racconti avesse avuto quel famigerato cardinal
Bernardo del Poggetto, nipote proprio di Giovanni XXII, che bruciò pubblicamente il De Monarchia e altrettanto
ambiva fare con le spoglie mortali del Poeta». CERCHIO Bruno, L’Ermetismo di Dante, ed. Mediterranee, Roma 1988,
pp. 20,21.

Dante
Capitolo I

del poema. La rabbia fu a tempo raffrenata», e nel fuoco fu gettato per pretesto, come spregio il
libro De Monarchia2, nel quale non c’è nulla di eretico.3
Questo fermo della Corte di Roma, nei confronti del proprio legato apostolico, non si
spiegherebbe se il significato delle opere del padre della lingua italiana non fossero chiare al
Vaticano.
G. Rossetti, ripreso poi dall’abate E. Aroux, propone una lista di elementi che indicano
quanto il Poeta fosse considerato un eretico.
Dopo aver detto che P. Brezio considerava il suo poema come la bottega della maldicenza e
si deve credere a Dante come si crede a un calunniatore, che Denis Fabbri rimproverava il Poeta
d’osare «portare nel cielo una bocca temeraria e sacrilega», che Spontano lo segnala, nei suoi
Annali (Année 1314), come un fautore dei Templari, riporta che il suo biografo Filelfo c’informa
che fu per invidia accusato di eresia da molti, accusatus est ab invidi haereseos.4
Archimbaud, arcivescovo di Milano, aveva scritto il nome di Alighieri nel suo elenco degli
eretici. 5

Ottimo, l’amico sconosciuto di Dante «che aveva iniziato a commentare il suo poema, due
soli anni dopo la sua morte, s’esprime in questi termini a tale proposito: “Bisogna sapere che ciò
che spinse l’autore a trattare così specialmente dei punti della fede cristiana, fu l’invidia di
numerose e cattive lingue, morditori, che, non intendono il suo stile né la sua maniera poetica di
parlare, lo incolpavano di eresia in certi punti”. 6 Non lasciava tuttavia di segnalare Dante per
eretico riconoscendolo per ghibellino e dichiarando poi che “i ghibellini, sia apertamente sia in
segreto, erano tutti degli eretici”.7
Belisario Bulgarini ci afferma che il poeta fiorentino, quand’era ancora in vita, era
considerato come dannato, e a riprova di ciò cita questa strofa: “Messire Dante Alighieri, tu sei un
gran millantatore, gran chiacchierone; tu hai scritto un grosso libro sull’inferno dove tu non sei mai
andato; ma contaci bene che tu ci andrai”.
Poco tempo dopo la morte del poeta, il domenicano P. Vernani faceva chiaramente capire il
pensiero dell’Inquisizione sul suo conto e scriveva in questi termini al cancelliere dell’Università di
Bologna: “Sovente un vaso, il cui interno contiene una bevanda velenosa, espone all’esterno
seducenti figure ingannatrici, in modo da ingannare non solamente i semplici e gli ignoranti, ma
pure le persone più capaci e le più sapienti. E avviene così sovente anche nelle cose spirituali, e il
pericolo è più grand’ancora per coloro che si lasciano coinvolgere. In effetti questo cattivo spirito,
che è il padre della menzogna, ha dei vasi che, mentre sono decorati esternamente con figure
smaltate piacevolmente di colori sofisticati, che seducono l’onestà e la verità, essi contengono un
veleno tanto più crudele e pestilenziale che l’anima che ragiona ha la preminenza sul corpo
corruttibile. Fra questi vasi del demonio, ce né uno (Dante) che, sofista verboso, com’è, è
Qualche decennio dopo la morte di Dante, Wycliff, preriformatore in Inghilterra, veniva esumato, le sue
spoglie bruciate e le ceneri sparse nel fiume Swift, affluente dell’Avon, furono seme nelle terre raggiunte dalle acque
per il fiore della Riforma.
2
«Quel libro in pubblico, come cose eretiche contenente, dannò al fuoco, e ‘l somigliante si sforza di fare della
ossa dell’autore» scrive il Boccaccio, Vita di Dante, e così quel pericolo fu evitato.
3
G. Rossetti, Op. Cit., p. 358.
4
Filelfo, Vita di Dante, p. 118.
5
CANCELLIERI F., Dissertation sur la Vision du moine Albéric, p. 62
6
Preambolo del canto XXIV del Paradiso.
7
«Il famoso proverbio fiorentino “ghibellino patarino” (che voleva significare che tutti i ghibellini in quanto tali
erano eretici e viceversa) era in realtà una calunnia guelfa, anche se giustificata in qualche misura da alcuni fatti
oggettivi. A Firenze erano eretici alcuni Uberti ghibellini, ma anche alcuni Cavalcanti guelfi; e d’altronde le fonti erano
piene di esempi di ghibellini pii e buoni cristiani come di guelfi miscredenti. Sempre per quanto concerne i rapporti tra
le città e la Chiesa, si ricordano casi di comuni ghibellini appoggiati per un qualche motivo dal papa e di comuni guelfi
colpiti dall’interdetto. Un esempio classico da citare in proposito è quello di Parma: tradizionalmente ghibellina, passata
al guelfismo nel 1247, non esitò tuttavia a colpire i privilegi del clero». Guelfi e Ghibellini, in Enciclopedia Europea,
vol. 5, Garzanti, Milano 1977, p. 842.

Dante… 28
Dante Eretico

pervenuto, rimando fantasticamente molte cose, rendendosi gradevole a molta gente con le sue
parole esteriori. Introducendo nelle chiese Boezio e Seneca, questi uomini, ha unito ai suoi fantasmi
poetici il VERBO DELLA FILOSOFIA e non solamente conduce, con astuzia, alla morte della verità le
anime deboli, ma vi spinge, con il dolce canto delle sirene, gli spiriti più santi. Lasciando dunque da
parte, con disprezzo, le sue altre opere, io ho voluto esaminare un certo scritto che ha intitolato
Monarchia”.8 Il reverendo inquisitore segnala bene il vizio interno della Commedia. … Se bisogna
credere all’editore di questo libro, Dante sarebbe stato dichiarato eretico dopo la sua morte, “come
lo si vede nel Bartholo e in Daniel di Volterra”.
Ma pure quando era in vita sembra che Dante abbia avuto a che fare con l’Inquisizione. Si
legge in effetti in un manoscritto della biblioteca Riccardiana, a Firenze (sotto il numero 1011), un
breve avant-propos, di vecchissima data, al Credo di Dante, dove è detto che egli “fu accusato
d’eresia davanti all’Inquisizione, come un uomo che non credeva in Dio e non osservava per nulla
gli articoli della fede”. In effetti, viene aggiunto: “comparve davanti all’Inquisizione”.9
In un altro manoscritto della stessa biblioteca (numero 1154) questo Credo è preceduto dal
seguente titolo: “Discorsi, canciones, inviati da Dante Alighieri di Firenze, denunciato al papa come
eretico”.
Un terzo manoscritto, sotto il n. 1691, porta una indicazione più o meno simile.
Infine il gesuita P. Venturi menziona ancora, nella prima edizione del suo commento, due
altri manoscritti, l’uno portava queste parole in alto: “Certi versi fatti da Dante Alighieri quando fu
accusato di essere eretico”; l’altro: “Qui comincia il trattato della fede cattolica composto
dall’illustre e molto famoso dottore Dante Alighieri, poeta fiorentino, in risposta a messire
l’inquisitore di Firenze, su ciò che Dante credeva”».
L’abate E. Aroux concludendo afferma: «Noi possiamo dunque considerare come certo che
il poeta fiorentino fosse inquisito per le sue opinioni, sospettato con ragione; molti fatti storici non
si basano su delle testimonianze così precise e così concordanti».10
Scrive il dantologo A. Ricolfi nel Giornale Dantesco: «Ortodosso agli occhi dei moderni più
di molti frati spirituali del suo tempo, Dante era però un eretico agli occhi degl’Inquisitori e della
Curia romana; e ciò per molteplici ragioni: tra l’altro è da notarsi che, pur avendo egli dannato
all’Inferno gli eretici (ma specificando solo, tra essi, la categoria degli epicurei, e senza nominare
esplicitamente Catari, Valdesi ed Arnaldisti: la qual cosa può lasciar adito a commenti o sospetti), e
di conseguenza avendo posto in paradiso colui (San Domenico) che “negli sterpi eretici,
percosse”11, pose tuttavia nello stesso cielo di San Tommaso quel Gioachino, le cui dottrine la
Chiesa di Roma aveva, lui morto, condannate. Così dalle stesse labbra di San Tommaso Dante
vuole sia fatto l’elogio di un filosofo razionalista, Sigieri, avversato aspramente in vita dal Santo
d’Aquino e condannato come eretico dalla Chiesa che ne aveva affrettata la morte (“a ghiado il fe

8
GUIDONIS VERNINI F., De reprobatione Monarchiœ, ect. Bononiæ, 1746.
9
Saggio di rime di diversi buoni autori, Firenze 1825, prefazione.
10
AROUX Eugène, Dante l’hérètique, révolutionnaire et socialiste – Révélation d’un catholique sur le Moyen
Âge, Renonard, Paris 1854, ristampato 1976, pp. 85-87.
11
Paradiso, XII:100

29 Dante
Capitolo I

morir a gran dolore – nella corte di Roma, ad rbivieta”, scrive ser Durante nel Fiore), Dante lo
pone nel cielo dei sapienti12, e proprio accanto a Tommaso».13
L’Aroux scrive: «Quanto al sapere ciò che Dante credeva, si può vedere che era molto
difficile, pure ad un inquisitore, accertarsene, e ancora più penetrare ciò che pensava. Lasciamolo
parlare; il suo Credo comincia con queste parole: “Ho molte volte scritto sull’amore in rime, che ho
fatto anche dolci, belle e piacevoli che io ho saputo, e ho impiegato tutte le mie lime per levigarle.
Disilluso, i miei desideri prendono un’altra direzione, poiché io riconosco aver speso le mie fatiche
in vano, e che esse mi hanno riportato solamente un triste salario, mal pagato. Rinunciando ormai a
questo falso amore (tanto più falso che era simulato), io voglio non più parlare di lui nei miei scritti,
e discorrere di Dio come un cristiano” (non come un cattolico romano). Segue una professione di
fede nella quale il Simbolo degli apostoli, i sacramenti, il Decalogo, i peccati capitali, la preghiera
domenicale e l’Ave Maria sono parafrasati in versi. Ci vorrebbe un teologo, più abile di quanto io
possa lusingarmi di essere, per scoprire in questa opera ipocrita il pensiero che si nasconde con
cura sotto il pensiero ortodosso. Ma il preambolo è sufficiente perché ci si ponga in guardia, e
perché si sappia bene che il cantore d’un amore fittizio, che non ha ottenuto i risultati desiderati, e
che gli valgono almeno una citazione davanti all’inquisitore, si metta a parlare di Dio, nella
Commedia, come potrebbe farlo il più ortodosso cristiano. Ma non è tutto.
Questa concessione fatta alle circostanze, in presenza d’un pericolo imminente, senza
allontanarsi in nulla dai precetti e dalla regola di condotta dei suoi correligionari, bisogna istruirli di
ciò che è avvenuto e di ciò che si prepara. Dante vi provvede scrivendo anche un sonetto, mezzo di
corrispondenza abituale tra i fedeli d’amore; è il secondo del suo Canzoniere: “O dolci rime
d’amore (e il suo Credo comincia con: Le dolci rime d’amore ch’i’ solia), che andate a parlare della
mia nobile donna, vi succederà, se non è ancora avvenuto, qualcuno di cui voi direte, un che direte,
questo qui è un nostro fratello, io vi scongiuro di non ascoltarlo, nel nome di questo signore che
innamora le donne (la mente settaria che anima i ghibellini), poiché non si trova nella sua sentenza
la minima cosa che sia amica della verità”. Nulla di più eloquente, senza dubbio, che una simile
dichiarazione, quando ci si ricorda che indicava le sue produzioni sotto il nome comune di sorelle
(Parole mie… a guisa delle vostre ANTICHE SUORE, dice nel primo sonetto del Canzoniere), come
figlie d’uno stesso padre. Ciò che spiega, nel Convito, dicendo: “Nello stesso modo che si chiama
sorella colei che è generata da uno stesso padre, si può, per similitudine, chiamare sorella l’opera
prodotta da uno stesso autore, la nostra operazione essendo, in qualche modo, una generazione”. 14
Se dunque offre al suo Credo il nome di frate, al posto di quello di fratello, è perché il primo è
utilizzato per indicare un monaco, e che vuole fare capire che questo fratello ha avuto le sue ragioni
per vestirsi del saio monacale. Ma l’Inquisizione aveva ottenuto ciò che le interessava di strappare,
12
Paradiso, X:136. «Sigieri di Brabante, il più importante pensatore della corrente averroistica del secolo XIII.
Maestro a Parigi, ebbe parte nei contrasti di quell’università nel 1266 e nel 1275; le sue tesi rigidamente deterministiche
(negazione della creazione ex nihilo, dell’immortalità dell’anima, del libero arbitrio) gli procurarono numerosi e
accaniti avversari, nonostante che egli le ponesse al riparo della dottrina della doppia verità, per cui poteva come
credente rinnegare le teorie che difendeva risolutamente sul piano filosofico. Allorché molte sue proposizioni furono
condannate nel 1277 dal vescovo di Parigi, venne alla corte di Roma per scolparsi e ivi fu sottoposto a rigorosa
vigilanza. Morì ad Orvieto nel 1283, assassinato da un chierico suo segretario (da un passo del Fiore, XCII, sembra che
la voce pubblica attribuisse quest’uccisione alle trame dei suoi nemici). La presenza di Sigeri nella prima corona del
cielo dei sapienti e l’elogio di lui messo in bocca a San Tommaso costituiscono un problema non facile a risolversi per
gli studiosi moderni.- Parlando di “invidiosi veri” verso 1238, Dante può aver avuto in mente sia singole tesi dottrinali,
tra quelle condannate dal vescovo di Parigi nel 1277 e di cui alcune erano sostenute pur da San Tommaso. Sia anche la
parte presa dal brabantino nell’aspra polemica dei maestri parigini contro gli ordini mendicanti, motivo di odii tenaci
che alla fine lo travolsero. Sigeri e Boezio sono, in questo elenco di spiriti sapienti, le sole figure che si distacchino con
netto rilievo poetico: due uomini che, per amore del vero, seppero patire e morire, e nella cui sorte pertanto Dante si
riconosce e si esalta». SAPEGNO Natalino, La Divina Commedia, vol. I, Inferno, La Nuova Italia ed., Firenze 1966, pp.
136,137.
13
RICOLFI Alfonso, Influssi Gioachimiti su Dante e i “Fedeli d’Amore”, in Il Giornale dantesco, vol. XXXIII,
Nuova serie III, Annuario Dantesco 1930, Firenze 1932, p. 170.
14
Trattato III, cap. 9

Dante… 30
Dante Eretico

quando dovette rinunciare a convertire il peccatore, una ritrattazione solenne, ed essa s’astenne da
scrutare troppo profondamente sotto le pieghe dell’abito venerato di cui il poeta si era rivestito delle
circostanze.
(L’abate francese conclude) Si può dunque considerare come certo e come risultato di fatti,
il cui valore storico sarebbe difficilmente contestabile, che la corte di Roma non era per nulla
ingannata dal gergo amoroso o dogmatico dei settari; che se qualche volta ha chiuso gli occhi, è
perché la prudenza e la moderazione gli suggerirono di agire in quel modo; infine che l’opinione
contemporanea non si ingannasse oltre sull’essenza delle opere del poeta fiorentino e che essa non
esitava a riconoscervi, sotto le apparenze esteriori, il veleno nascosto dell’eresia».15
Roma evitò di avere con Dante uno scontro frontale perché «i capi della Chiesa
comprendevano che sarebbe stato ben più funesto rivelare alla folla dei credenti cosa certi scritti di
letteratura avevano nelle proprie pagine di ostilità contro i suoi dogmi che di lasciare circolare delle
finzioni, più o meno trasparenti per lei, che circolavano nel pubblico ristretto, finzioni delle quali
solamente qualcuno era in grado di andare oltre il velo, quando la maggioranza delle persone non vi
scorgevano che delle opere di immaginazione e un rilassamento per la mente.
In ogni tempo gli uomini furono di ghiaccio nei confronti della verità e di fuoco in favore
della menzogna.
Se Gerson e numerosi dignitari ecclesiastici – in Francia -, al posto di occuparsi a rispondere
agli scritti del Roman de la Rose, avessero proclamato che questo romanzo, che per molto tempo fu
al centro dell’attenzione, era non solamente una satira contro la corte pontificia, ma ancora
l’apoteosi dell’eresia, avrebbero raddoppiato, triplicato il numero dei lettori, che avrebbero cercato
di scoprire il veleno nascosto con cura e non avrebbero mancato di trovarlo. Se le bolle che
proibivano lo studio del provenzale, al posto di soffermarsi estesamente sulle traduzioni della
Bibbia e dei Vangeli, in quella lingua, avessero dichiarato che tutte quelle poesie amorose dei
trovatori non facevano altro che cantare l’eresia e spingere alla rovina la fede cattolica, avrebbero
prodotto un effetto diametralmente opposto a quello che ci si aspettava e che hanno ottenuto,
avrebbero studiato con più grande zelo l’idioma nemico.
Se i romanzi della cavalleria di tutti i Cicli (Roman de la Rose) fossero stati denunciati come
scritti e concepiti nello spirito d’ostilità contro l’organizzazione teocratica della società, alla quale si
voleva pretendere di sostituire una organizzazione monarchica, questo Carlo Magno bonaccione,
essendo la personificazione dell’Impero, destinato a trionfare dei miscredenti, degli infedeli e del
loro capo, designato sia sotto un nome, sia sotto un altro, ma figurante sempre il capo venerato della
cristianità, la stampa sarebbe forse stata inventata qualche secolo prima».16
Come spiega ancora l’abate Aroux, la soppressione dei Templari fu pronunciata con
l’autorità personale di Clemente V perché, conoscendo fin troppo bene in cosa consisteva il crimine
dell’Ordine o almeno quello dei suoi principali capi, sapeva che, per farli condannare dal Concilio,
bisognava rivelare tutto ciò che le informazioni segrete avevano prodotto di insegnamento sulle loro
dottrine e il loro scopo, dichiarare questo davanti alla cristianità significava gettare al vento i germi
che avrebbero potuto dare ben presto una messe funesta.
Una condotta prudente, saggia e altrettanto abile fu quella di aggirare tutti questi ostacoli.
Così il Roman de la Rose, ad esempio, è solamente conosciuto per il suo nome, la lingua provenzale
è morta e, con essa, le poesie sedicenti galanti dei trovatori. La stessa cosa è stata per i romanzi
della Chevallerie, e si discute ancora per sapere se i Trovatori fossero o no colpevoli.
Per Dante invece è stato diverso. Il suo poema domina ancora, è nella gloria, come lo fu
durante il Medio Evo. L’austriaco sacerdote cattolico R.L. John, professore di letterature romanze
all’Università di Vienna, definisce lo scritto di Dante «l’opera più eccelsa della letteratura

15
E. Aroux, Op Cit., pp. 87-88.
16
Idem, p. 83.

31 Dante
Capitolo I

mondiale».17 Quest’opera, a differenza di tante altre, ha beneficiato della tolleranza dei capi della
Chiesa per il magnifico uso che egli ha saputo far dei sublimi elementi allegorici, troppo sconosciuti
per la maggioranza della gente del suo tempo, grazie ai quali l’illusione è durata fino a noi. I
pontefici hanno creduto che la sua Commedia, come tanti altri scritti, concepiti nello stesso spirito,
con delle finzioni analoghe, con il tempo sarebbe caduta poco a poco nell’oblio. Poi, quando invece
videro che lo splendore cattolico dell’opera abbagliava gli occhi del lettore, il potere ecclesiastico
mantenne il silenzio, perché tranne pochi lettori, che non potevano e/o non osavano parlare, per le
conseguenze che potevano avere, e l’immensa maggioranza dei fedeli restava nell’ignoranza della
sua segreta essenza, al pericolo di propagare il male, nel segnalarlo, in un’epoca in cui l’istruzione
era poco estesa e la stampa non esisteva, preferì l’inconveniente di lasciare sussistere un errore
considerato inoffensivo. Ma alcuni fatti sono sufficienti per provare che i capi della Chiesa, pure
l’Inquisizione, non si sono per nulla ingannati sulla tendenza e le dottrine di Dante Alighieri.
Per dare una parvenza di ortodossia18 al poema dantesco, morto il Poeta, la Chiesa fece
nominare ufficialmente, nel 1373, dal governo di Firenze il Boccaccio, «qual terzo splendore de’
Toscani a leggere e spiegare nelle chiesa di Santo Stefano il divino poema. – Il Porticati riporta -
forse eccedendo che - erano ancora vivi gli amici e gl’inimici di Dante; e: Bianchi e i Neri, e i figli
de’ lodati e vituperati, si assidevano a quella lettura; e forse avevano al fianco le armi tinte di un
sangue non ancora placato».19
Il Boccaccio quale amico e consettario dell’Alighieri, quale espositore della Commedia,
diventava così il detentore della prima cattedra dantesca, rivestito dall’abito sacerdotale, fece di
quello scritto, dandone una spiegazione pubblica, «un sepolcro dealbato», scriveva il Rossetti.
Il commento era molto artificioso e sotto molti aspetti falso, verboso nelle cose che tutti
sapevano, lacunoso superficiale in quelle che si voleva conoscere. Il Valli scrive: «Naturalmente
egli si trovò in grave imbarazzo tra la necessità di spiegare Dante e quella di non dire che cosa
veramente contenesse la Divina Commedia. Fu cosi che egli riempì di digressioni, di sottigliezze,
diciamo francamente, di chiacchiere, una enorme quantità di fogli saltando con meravigliosa
maestria tutti i punti scabrosi.20 … Come ognuno può vedere rileggendo il suo Commento, tutto
disse in esso fuorché quello che un tale a noi sconosciuto, che era molto probabilmente un “Fedele
17
JOHN Robert L., Dante Templare, Hoepli, Milano 1987, p. 9.
18
Cosa non si è fatto per cercare di dare alla Divina Commedia una parvenza di ortodossia! Per spiegare che
colui “che fece per viltade il gran rifiuto” non era il papa Celestino V, diventato santo, lo si identificò con Esaù che
rinunciò alla primogenitura per un piatto di lenticchie o/e lo si è identificato con questo o quel fiorentino della casa dei
Cerchi.
Il Cardinale Bellarmino si è dato tanto da fare, usando un’espressione del Rossetti, «schiacchera carte», per
provare che Dante era sottomesso alla Chiesa per confutare i protestanti che citavano anche il Poeta a sostegno della tesi
che la Meretrice è la Chiesa cattolica.
Un devoto gesuita ristampò e commentò il poema, dedicandolo al Papa, aggiungendo all’edizione, per
dimostrare che l’Alighieri era un cattolico ortodosso, un Credo, i Salmi penitenziali di Dante e un Magnificat che non è
per niente del Poeta. Questo gesuita dice poi che Dante pentito dei peccati tradusse il Salterio e parla di un codice
prezioso in cui faceva professione di fede davanti alla Inquisizione: «Qui comincia el Tractato della Fede Cattolica,
composta dall’egregio e famosissimo Doctore Dante Alighieri, poeta fiorentino, secondo che detto Dante rispose a
Messer lo’ Inquisitor di Firenze di quella ch’esso credeva”; e di più “Alcuni versi che fece Dante Alighieri, quando gli
veniva apposto essere eretico”.
Un reverendo agostiniano scrive una dissertazione, per dimostrare che Dante sia un teologo meraviglioso, e
quasi santo padre della Latina Chiesa. P. Giannolenzo Berto, Dottrina Teologica contenuta nella Divina Commedia,
Comm. Dissertazione. Vedere ROSSETTI Gabriele, Sullo Spirito…, p. 359; Comento Analitico al Purgatorio di D.
Alighieri, opera inedita a cura di Pompeo Giannantonio, e Leo S. Olschki, Firenze 1967, p. 461.
Né mancò chi, non potendo storcere i sensi oscuri, prese a negare i fatti. E quanto non si sforzò Monsignor
Fontanini, per farci inghiottire quella sua frenesia, che i tre famosi sonetti del Petrarca contro Roma non sono del
Petrarca?….
19
Porticati, cit. G. Rossetti, Spirito…, p. 359
20
«Fu così che quando si trattava di dire chi era il Veltro e chi era la Lupa egli scivolava abilmente facendo,
come si suol dire, “il tonto”… (e) dopo aver esposto alcune interpretazioni della più strane finisce col dire: “Che dunque
più? Tenga di questo ciascuno quello che più credibile gli pare”» L. Valli, Op.Cit., p. 400,401.

Dante… 32
Dante Eretico

d’Amore”, gli rimproverò aspramente questa contaminazione21», tanto che alcuni anni dopo, lo
confesserà pentito in un sonetto nel quale spiega anche le ragione della sua condotta: impedire che
la Commedia venisse bruciata come il De Monarchia.
«Io ò messo in galea senza biscotto22
l’ingrato vulgo, et senza alcun piloto
lasciato l’ò in mar a lui non noto,
benché sen creda esser maestro et dotto;
Onde el di su spero veder di sotto
del debol legno et di santità voto;
né avverrà, perch’el sappia di nuoto,
che non rimanga il doglioso et rotto.
21
«Ma nei tre sonetti v’è un gioco di frasi che naturalmente dovevano sfuggire al volgo e per il quale essi
vengono a significare cosa alquanto diversa da quella che mostrano a prima vista. Si osservi bene il significato di queste
quartine: Se Dante piange dove ch’el si sia, / Che li concetti del suo alto ingegno / Aperti sieno stati al volgo indegno, /
Come tu di’, dalla lettura mia, Ciò mi dispiace molto, né mai fia / Ch’io non ne porti verso me disdegno: / Come
ch’alquanto pur me ne ritengo, / Perché d’altri, non mia, fu tal follia. (Rime, ed. Massera, CXXIII).
“Come tu di’” (non significa in realtà: “siamo stati rivelati come tu dici, al volgo”, ma “siamo stati rivelati al
volgo e in quella maniera falsata e corrotta) che tu dici”. E la conferma di questa interpretazione si ha in un quarto
sonetto nel quale il Boccaccio (senza però qui nominare Dante e la Commedia) confessa chiaramente a suo sollievo, a
suo discarico, a suo sfogo, di avere solennemente imbrogliato il prossimo con quel Commento». L. Valli, Op. Cit., p. 402
22
«La mirabile ingenuità della critica “positiva” crede ancora che queste parole così ardenti di sdegno e di odio,
questa compiacenza crudele di aver lasciato il vulgo “in galea senza biscotto” si possono riferire soltanto al fatto che il
Boccaccio aveva interrotto il Commento. Ma sedici canti, se commentati onestamente e seriamente, sarebbero stati più
che sufficienti a indirizzare alla vera conoscenza del Poema! Bisogna essere sordo nato come un critico “positivo” per
credere che questo sonetto sia stato scritto dal Boccaccio soltanto per celebrare l’interruzione del Commento: no, egli
celebra la solenne beffa che ha fatto a chi lo aveva costretto a parlare di Dante, celebra il fatto che ora il vulgo si crede
essere maestro e dotto della Commedia e invece del segreto di Dante non sa nulla, perché il Boccaccio ha solennemente
impasticciato il suo commento, e, fingendo di dire, non ha detto nulla e ha lasciato il vulgo in mare a lui non noto. -
A questo unico testimone, che dichiara di avere messo il vulgo in “galea senza biscotto”, il vulgo dei
commentatori crede quando crede alla realtà storica di Beatrice e alla sua identificazione con Beatrice Portinari; e non si
accorge nemmeno (tanto la cecità della critica “positiva” è profonda!) che il Boccaccio seguita a beffare solennemente il
vulgo anche nella Vita di Dante, specialmente con quella meravigliosa panzana del sogno della madre di Dante che,
come idea, è ricopiata da tutti i soliti sogni delle madri incinte di grandi uomini e nei suoi particolari è semplicemente
un racconto iniziatici in gergo, nel quale compaiono dei simboli evidentemente settari e poi è, in fine del libro, condito
con una di quelle maestrevoli chiacchierate dissimulatrici fatte apposta perché il “vulgo ingrato” non capisse nulla. -
Pareva alla gentil donna (la madre di Dante) nel suo sonno essere sotto uno altissimo albero, sopra uno verde
prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire un figliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi
solo dellorbache, le quali dell’alloro cadevano, e dell’onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e
s’ingegnasse a suo potere d’avere delle fronde dell’albero, il cui frutto l’aveva nutrito; e, a ciò sforzandosi, le parea
vederlo cadere, e nel rilevarsi, non uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. - Sappiamo bene che cosa sia questa
solita fontana all’ombra di un lauro, o di un faggio o di altre piante consimili, è la stessa fontana sotto il lauro che
tornerà stucchevolmente nella poesia del Petrarca, è l’antica fontana dell’insegnamento, la tradizione iniziatica, cu sui
cresce la pianta delle cui bacche infatti Dante fanciullo si è nutrito. La sua nascita presso questa fonte vuol dire
semplicemente che egli era stato nutrito nel seno della setta e della sua Sapienza e tutto il seguito vuol dire che egli era
diventato “pastore”, guida e maestro del “Fedeli d’Amore”, e che, caduto nella morte, viveva eternamente in gloria,
secondo il vecchio simbolo del pavone che significa appunto l’anima risorgente in gloria. Ma naturalmente il Boccaccio
questo non dice, egli consegna una lunga spiegazione riducendo semplicemente l’alloro a poesia, la fonte alla “ubertà
della filosofica dottrina morale e naturale; la quale sì come dalla ubertà nascosa nel ventre della terra procede”, il
divenire subitamente pastore “ne mostra la eccellenza del suo ingegno” per il quale divenne “datore di pastura agli altri
ingegni di ciò bisognosi”. E il Boccaccio spiega che era di quelli che “informano e l’anime e gli intelletti degli
ascoltanti o de’ leggenti”. L’esser divenuto paone significa che egli vive nella sua Commedia la quale è come il pavone
di penna angelica e in quella ha cento occhi, sozzi i piedi, voce orribile e carne odorifera e incorruttibile e così la
Commedia è semplice e immutabile verità, istoria tanto bella e pellegrina distinta in cento canti, con parlare volgare,
con orribili invettive.-
Lo spirito della critica recente tanto più si impigliava nelle rete tessuta per la “gente grossa” quanto più
appassionatamente si fissava nella lettera dei contemporanei di Dante. La sua tendenza alla precisione, alla quale
dobbiamo l’esame letterale preziosissimo di tanti codici, la inchiodava all’artificio della lettera e la sua venerazione per
l’autorità dei contemporanei di Dante la impigliava fatalmente nelle loro “dissimulazioni”». Idem., p. 402-404.

33 Dante
Capitolo I

Et io, di parte excelsa riguardando,


ridendo, in parte piglierò ristoro
del ricevuto scorno et dell’inganno;
et tal fiata, a lui rimproverando
l’avero seno, et il beffato alloro,
gli crescerò et la doglia et l’affanno».23
Così il Boccaccio mise “in galea senza biscotto” il vulgo ingrato, ma ci mise anche
involontariamente un altro vulgo, quello dei commentatori che non ha nemmeno sospettato la sua
atroce beffa ed ha continuato a citare le interpretazioni del Boccaccio come quelle di un
“competente” e sulla scorta di questi primi commentatori “Fedeli d’Amore”, per i quali il dichiarare
apertamente la Divina Commedia avrebbe significato il rogo per la Divina Commedia e per loro, va
ancora sviandosi dietro artificiosi commenti fatti per dissimulare la pericolosa verità del Poema, e
quindi di questa verità per sei secoli non ha compreso nulla “benché sen creda essere maestro e
dotto”.
Col tempo la Commedia era sempre più presentata nelle chiese come la Sacra Scrittura. Si
crearono in più città d’Italia cattedratici per interpretar Dante, e farne un campione fortissimo del
Laterano.
Molte furono le persone che negli otto secoli che seguirono alla morte del padre della lingua
italiana, si impegnarono per far dire a Dante cose contrarie al suo pensiero o diverse da quelle che
ha voluto dire.
E così grazie al suo linguaggio allegorico, la figura Dante è «ortodossa agli occhi dei
moderni più di molti monaci spirituali del suo tempo, Dante era tuttavia eretico agli occhi degli
inquisitori e della corte romana; e questo per numerose ragioni».24
Il titolo stesso della Commedia esprime chiaramente il significato allegorico del contenuto.
Orazio diceva che la Commedia è un mezzo «ad corrigendos mores – che serviva per correggere i
costumi».
Dante, a differenza di alcuni santi suoi contemporanei riconosciuti ed onorati dalla Chiesa,
non si limitò a inveire contro i Papi, chiamandone anche alcuni per nome, ma come era saputo,
volendo attaccare l’istituzione papale, cosa che non poteva fare apertamente senza incorrere nella
pena di morte, quale negatore dell’autorità dell’Ecclesia carnalis ha fatto il nome di alcuni
esponenti già defunti, facendo nominare i viventi tramite alcuni personaggi della mitologia pagana,
come Tiresia, Giasone, Pluto.
Da una parte dunque la mitologia per combattere il potere di Roma e dall’altra i riferimenti
alla Bibbia per identificare la Chiesa cattolica con la prostituta di Apocalisse XVII e fare del Papa
sulla terra la controfigura del principe dell’abisso, Satanno. Ma di questo parleremo in dettaglio nel
IV capitolo.
Tale linguaggio, scrive il Rossetti, e il suo vero «significato non dovette essere ignorato
dalla Curia Romana, contro cui in ultima analisi si appuntava, poiché l’Inquisizione e il clero hanno
avuto sempre tante risorse per conoscere e penetrare nella coscienza degli uomini; ed allora perché
non reagì? Buona norma della Chiesa è stata sempre quella di non fare scandali, ecco perché essa
tentava di distruggere le opere settarie e di punire i colpevoli senza pubblicità, la quale, viceversa, si
sarebbe risolta contro di essa».
Ancora il nostro esule londinese Rossetti, come Dante in esilio in Italia, per gli stessi ideali
politici, scriveva: «Gran prudenza fu quella della Corte Romana! Dissimula le proprie ingiurie per
farne smarrire ogni sentire! Finge di non conoscere le armi contro lei impugnate, per farle perdere
nella ruggine dell’età!.. L’alta politica di Roma non può abbastanza ammirarsi: ella dissimulò le
proprie ingiurie, per non farsi un male più serio. Ella vedeva altrove che gli oltraggi stessi a lei fatti,
23
G. Boccaccio, Rime, ed. Massera, sonetto CXXV, p. 174; vedere L. Valli, idem., pp. 403,265.
24
RICOLFI Alfonso, Giornale Dantesco, XXXIII Annuario Dantesco 1930, Firenze 1932, p. 170.

Dante… 34
Dante Eretico

parendo esternamente sinceri ossequj alla sua dottrina, contribuivano a tener vivo il suo credito
nella moltitudine. Nell’aver saputo cangiare le armi del nemico in sue, ed in carezze gli schiaffi,
non poté sdegnare che le fossero tributati come omaggi gli affronti. Col solo fingere di non
ravvisare le contumelie, diè loro valore di venerazioni e si rassicurò. Scorgeva chiaramente che la
grande complicazione del gergo, prodotta dalla paura, rendea quasi impossibile il colpirlo; e il fatto
mostra che non s’ingannò. La illusoria magia del senso letterale la liberava da qualunque
apprensione; e soprattutto la stranezza delle figure, sì remote dalle usuali, sì aliene dal comun
concepire, allontanava da lei ogni ombra di timore, riguardo ad un effetto pubblico. Paga di vedersi
curvi ai piedi i più fieri nemici, godea forse nel sentirsi odiata e riverita, quasi ad infliggerer pena
intollerabile ad avversarj impotenti. Gl’inchini eran visibili, i sentimenti no; e la folla riceveva
l’impressione da quelli e non da questi: che pretender altro? Lieta del presente non si curò di
guardar nel futuro; finché venne un tempo che le fé sentire l’effetto del tempo”».25
Il Valli, uno dei migliori studiosi moderni del pensiero dantesco, diceva: «Sappiamo che la
saggia tattica della Chiesa è stata ben diversa e che se essa ha bruciato la Monarchia, è stata ben
felice di trovare nella Commedia una superficie abbastanza ortodossa per adoperarsi con tutte le
forze a riaffermare la ortodossia del grande poeta, specie quando lo ha visto ormai vittorioso nei
tempi, e ad inquadrarlo tutto entro il tomismo che indiscutibilmente ricopre la superficie della
dottrina dantesca.
Prima della grande fioritura dell’amore per Dante, la Chiesa ufficialmente non era stata mai
molto tenera per il poema sacro. Basta pensare che la Divina Commedia non si poté stampare in
Roma fino al 1791. L’edizione del 1728, stampata a Roma, dové portare l’indicazione falsa di
Napoli e aveva il testo mutilato di alcune sue parti perché “disdicevoli” come dice la prefazione “a
scrittore religioso”».26
La Chiesa con ogni mezzo ha tentato di far tacere Dante durante la sua vita, ma non vi è
riuscita se non dopo la morte, quando ha istituito delle cattedre per fare insegnare, secondo la
propria ottica, una Commedia diventata Divina e che non aveva più nulla a che vedere con il
pensiero del Poeta. Prima messa al bando dalla Chiesa e, solo quando si perdettero i segreti del suo
linguaggio anfibologico27, la Chiesa accolse il suo poema come opera esaltante la sua religione.
«Perdute nella ruggine de’ secoli, le difficili chiavi che aprivano la dedalea macchina dantesca,
Roma, quasi respirando, si adoperò a tutto il potere di farne cosa di sua pertinenza; e la faccia
esterna di quel complicato disegno era fatta per favorire la mira. Quindi i preti e i frati de’ tempi
posteriori predicarono come cosa santa e cattolica ciò che i loro predecessori maledicevano come
diabolica ed ereticale».28
L’abate E. Aroux afferma che la santa Chiesa ha fatto un passo in più: « Roma aveva preso
il partito di credere all’ortodossia di Alighieri, colui che si sarebbe azzardato di rivelare la natura
segreta del poema avrebbe pagato caro il suo tradimento e subito lui stesso, come eretico, il castigo
che avrebbe creduto far subire all’altro. Ecco come Roma avrebbe contribuito da parte sua a
ispessire i veli di cui l’autore fiorentino aveva avvolto la sua creatura, come essa avrebbe aiutato

25
G. Rossetti, Spirito…, pp. 357-377; Purgatorio…, p. XXVI.
26
L. Valli, Op Cit., p. 419.
27
Doppio significato.
28
ROSSETTI Gabriele, Il Mistero dell’Amore Platonico del Medio Evo, vol. IV, p. 1065.
Ancora un pensiero di questo nostro esule poeta: «Tanto importava il far credere che Dante, Petrarca e i loro
pari fossero giusto il cuore della Cattolica Apostolica Santa Madre Chiesa Romana! E quel che di Dante e Petrarca si è
fatto, si fé, si fa e si farà di ogni altro celebrato intelletto, perché il far credere questo cotale alla Romana Chiesa
fedelissimo accresce credito alla Chiesa stessa. Come dunque potersi porsi apertamente nelle mani altrui quel paventato
grimaldello che chiudeva tanto abominio contro Roma?». Quando coloro (Dante, Petrarca, ecc.) che potevano smentire,
morivano, i loro «poemi furono poi studiati e commentati da eminenti e Reverendi, ed a’ Papi e Cardinali dedicati,
venivano maledetti dai loro predecessori, che ne conoscevano la natura e ne temevano gli effetti» G. Rossetti, Spirito…,
p. 359.

35 Dante
Capitolo I

Beatrice a passare agli occhi della folla per la personificazione della teologia cattolica, Francesca di
Rimini e la Pia, per delle tristi vittime dell’amore e d’una gelosia barbara».29
Anche se il pensiero del Foscolo (pure lui in esilio in Inghilterra è datato, riteniamo che sia
ancora oggi valido. Dopo aver chiamato arte incognita quella di Dante, aggiunge che, malgrado dei
tanti che hanno battuto le tracce dell’Alighieri attraverso le regioni ch’ei calcò, spaventevoli per
tenebre e labirinti, la strada è restata pur sempre la stessa; talché la più gran parte di questa
immensa foresta rimane dopo le fatiche di cinque secoli, involta nella piena oscurità.30
Il Papato, pur sapendo Dante oppositore del suo potere ma, per il prestigio del suo alto
ingegno, per la grandezza del suo intelletto e la sua elevata statura di poeta, che giganteggia nella
letteratura e nel pensiero d’Italia, non poteva dare questa figura, simbolo, al fronte avverso, perché
Dante, come riporta il Rossetti non è un uomo, ma tutta l’Italia in compendio. Può ben dirsi che ‘l
principe de’ poeti epici e ‘l principe de’ poeti allegorici, questo duplice deposito d’una speranza che
non fu mai interamente rivelata, è presentato da due obelischi venerandi, pieni di segni e figure che
attraverso il tempo testimoniano di un passato di forza.
«Roma non si lascia così di leggero strappare dalle mani un grand’uomo e un gran poema,
né soffrirà che sia volto contro lei ciò che sembra più a lei devota».31

29
E. Aroux, Op. Cit., p. 21.
30
FOSCOLO Ugo, Dante, in The Edimburgo Review, 1818,1819; cit. G. Rossetti, Spirito…, p. 30.
31
G. Rossetti, Idem, p. 578.

Dante… 36

Potrebbero piacerti anche