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Nel prologo dei Diversi linguaggi, «comedia del Sig. Vergilio Verucci
Gentil’huomo Romano» pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1609, l’autore
introduce dieci personaggi parlanti ciascuno un idioma diverso: Pantalone, veneziano,
ha una figlia fiorentina e un figlio romano, un servo bolognese e uno bergamasco; c’è
poi il francese Claudio con una figlia perugina e una serva amatriciana; chiudono
l’elenco un Pedante siciliano e un Capitano napoletano. Il «mostro a dieci lingue» 1 viene
giustificato con la «gran diversità di linguaggi» usati in quel «comun ricetto di tutte le
nazioni del mondo» che è Roma. Al tempo stesso il Verucci dichiara di non aver voluto
riprodurre con esattezza gli idiomi dei vari luoghi d’origine dei personaggi («Ma non vi
immaginate però di aver a sentire un Franzese, un Veneziano, un Bergamasco, un
Napolitano o un parlar fiorentino o matricciano o ceciliano o perugino o bolognese,
giusto giusto come è il parlare della lor patria»), sia perché si tratta in genere di «lingue
scabrose e difficili» per la maggioranza degli spettatori, sia perché «mentre uno di questi
tali che sia delli sopradetti paesi si trova fuori della sua patria, si sforza di pigliare il
parlar commune e più usitato di tutti gli altri, e insomma il più bello e dilettevole come è
questo romano»; anche se poi i forestieri «sempre ritengono li accenti e le pronunzie
delli paesi loro»2.
Si consideri che Li diversi linguaggi è una «commedia ridicolosa», appartiene cioè
a un filone di letteratura teatrale di consumo fiorita nella Roma del primo Seicento e
caratterizzata dalla ripresa di vari elementi dell’Improvvisa, a cominciare dalle
maschere canoniche e, appunto, dal plurilinguismo3. Dietro le argomentazioni del
Verucci c’è dunque la camaleontica realtà linguistica di Roma, una città della quale già
dal Cinquecento si poteva dire ciò che in effetti disse il fiorentino Francesco D’Ambra
nel prologo della commedia Il furto, ambientata appunto sulle sponde del Tevere:
«mistiata ha la lingua sua con tante barbare nazioni, che non solamente ha perduta la sua
bella e pregiata di prima, ma tale è venuta che non ha lingua che si possa dir proprio
sua»4.
Ma dietro quelle argomentazioni c’è anche - in una prospettiva più ampia - il
paradosso della lingua teatrale italiana, e non solo di quella teatrale: da una parte la
realtà viva e corposa di dialetti incomprensibili per la maggioranza degli spettatori;
dall’altra la realtà larvale e anguillesca di un «parlar commune» con inflessioni
regionali, assai difficile da tradurre in definito ed efficiente organismo drammaturgico.
Prendendo il toro per le corna, gli scrittori di teatro mettono in scena proprio «li diversi
linguaggi», su una linea di sfruttamento espressivo o decisamente comico dei contrasti
1
L. Mariti, Commedia ridicolosa. Comici di professione, dilettanti, editoria teatrale nel Seicento. Storia e
testi, Roma, Bulzoni, 1978, pp. CLXXIII-CLXXIV
2
V. Verucci, Li diversi linguaggi, ivi, p. 110.
3
Sulla «commedia ridicolosa» si veda il volume appena citato di Mariti.
4
Cfr. F. D’Ambra, Il Furto, in A. Borlenghi (a cura di), Commedie del Cinquecento, 2 voll., Milano,
Rizzoli, 1959, II, p. 4. Si caratterizza per il vivace intreccio di parlate diverse (bolognese, napoletano,
romanesco e giudeo-romanesco, italiano letterario, ecc.) un’altra commedia legata all’ambiente romano,
unica testimonianza rimastaci dell’attività drammaturgica del Bernini. L’opera è stata ritrovata e
pubblicata solo nel 1963: G. L. Bernini, Fontana di Trevi. Commedia inedita (1643-1644), a cura di C.
D’Onofrio, Roma, Staderini, 1963. Se ne veda ora la riproposta con diversa etichetta editoriale (il
manoscritto non reca titolo): Id., L’impresario, a cura di M. Ciavolella, Roma, Salerno Ed., 1992.
49
fra varietà geografiche, sociali e culturali che percorre del resto tutta la storia della
nostra letteratura, da Rambaldo di Vaqueiras a Gadda e ancora oltre.5 Il plurilinguismo
raggiunge i suoi massimi fastigi fra tardo medioevo, Rinascimento e barocco, quando
l’affermazione di una norma stimola la coscienza e il gusto dell’illegalità, e alla
grammatica dell’ordine costituito si contrappone il liberatorio linguaggio del caos6.
«Dal punto di vista della geografia culturale l’area di sviluppo primario e più
intenso e tenace del plurilinguismo teatrale è quella veneta. È anche il terreno
privilegiato della questione della lingua. I due fatti hanno radici lontane ma alimentate
dalla stessa humus»7. Folena ricorda le differenze dialettali e le tensioni
sociolinguistiche fra la metropoli lagunare e lo Stato di terraferma, complicate dalla
precoce penetrazione del toscano e dai molteplici flussi di un grande crocevia
economico-culturale. La Veniexiana e i capolavori di Ruzante emergono su una ricca
tradizione di esperienze espressive e spettacolari, sia demotiche sia aristocratiche, in cui
il veneziano dei cittadini interagisce con il pavano dei contadini o con il bergamasco dei
facchini, e gli intarsi fiorentineschi, latineschi, furbeschi e alloglotti (friulani,
grecheschi, dalmatici, tedeschi, ecc.) contribuiscono a dar vita ad una vera e propria
«commedia delle lingue». Un fatto da segnalare, perché indicativo di un contesto
linguistico e culturale, è che la Pastoral di Ruzante, trilingue (pavano, veneziano,
toscano), e la Veniexiana, anch’essa trilingue (veneziano, inserti di bergamasco e di
italiano settentrionale), sono conservate entrambe in un manoscritto veneziano della
prima metà del Cinquecento, insieme ad altri due testi teatrali anonimi: la Bulesca,
bilingue (veneziano, inserti di bergamasco) e l’Ardelia, monolingue, ma comunque
eccentrica (italiano settentrionale iperlatineggiante, di foggia quasi polifilesca) 8.
La commedia delle lingue celebra la sua apoteosi nelle opere di Andrea Calmo. La
Spagnolas, ad esempio, alterna veneziano, pavano, bergamasco, grechesco, dalmatico,
tedesco, italiano e alcune sottovarietà, come il bergamasco spagnoleggiante cui allude il
5
È una prospettiva che ha i suoi principali punti di riferimento nei noti saggi di G. Contini, Introduzione
a C. E. Gadda, La cognizione del dolore, Torino, Einaudi, 1963 (ora in Id., Varianti e altra linguistica.
Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 607-79); C. Segre, Polemica linguistica ed
espressionismo dialettale nella letteratura italiana, in Id., Lingua, stile e società, cit., pp. 397-426; Id., La
tradizione macaronica da Folengo a Gadda (e oltre), in Id., Semiotica filologica. Testo e modelli
culturali, Torino, Einaudi, 1979, pp. 169-83; A. Stussi, Lingua, dialetto e letteratura (1972), saggio
iniziale ed eponimo del volume di Id., Lingua, dialetto e letteratura, Torino, Einaudi, 1993; I.
Paccagnella, Plurilinguismo letterario: lingue, dialetti, linguaggi, in Letteratura italiana, diretta da A.
Asor Rosa, cit., II. Produzione e consumo (1983), pp. 103-67. Al plurilinguismo teatrale dedicano una
sezione delle loro recenti sintesi storiche V. Coletti, Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al
Novecento, Torino, Einaudi, 1993, pp. 155-62, e C. Marazzini, Il secondo Cinquecento e il Seicento, cit.,
pp. 72-75.
6
Cfr. Folena, Il linguaggio del caos, cit.
7
Id., Le lingue della commedia e la commedia delle lingue, cit., p. 127. Cfr. inoltre G. Padoan, La
commedia rinascimentale veneta (1433-1565), Vicenza, Neri Pozza, 1982; I. Paccagnella, M. A.
Cortelazzo, Il Veneto, in Bruni (a cura di), L’italiano nelle regioni, cit., pp. 249-53; A. Stussi, La
letteratura in dialetto nel Veneto, in Id., Lingua, dialetto e letteratura, cit., pp. 64-106 (alle pp. 74 sgg.).
Si ricorderà, in particolare, l’intensa attività teatrale delle compagnie della Calza, promotrici di feste e
spettacoli su cui ci informano con abbondanza di particolari i Diarii di Marin Sanudo.
8
Cfr. A. Beolco il Ruzante, La Pastoral. La prima Oratione. Una lettera giocosa, a cura di G. Padoan,
Padova, Antenore, 1978; B. M. Da Rif (a cura di), La letteratura «alla bulesca». Testi rinascimentali
veneti, Padova, Antenore, 1984; G. Padoan (a cura di), La Veniexiana, cit.; A. Agrati (a cura di), La
commedia «Ardelia», Pisa, Pacini, 1994. Su questo contesto linguistico e culturale si veda M. Cortelazzo,
Venezia, il Levante e il mare, Pisa, Pacini, 1989.
50
titolo9. «I diversi linguaggi sono qui sparati uno dopo l’altro, o l’uno insieme all’altro,
come mortaretti, razzi e girandole di uno spettacolo pirotecnico sulla laguna» 10. Il
plurilinguismo, usato da Ruzante come spia di dinamiche socioculturali, nel Calmo si
dilata ipertroficamente e al tempo stesso si riduce a virtuosistica policromia, tanto che
nella Rodiana11 anche un singolo personaggio può utilizzare parlate diverse, con
bizzarria funzionale all’abilità mimetica e trasformistica di attori del genere di
Domenico Taiacalze e di Zuan Polo12.
L’impiego di una e spesso di più parlate locali non è peraltro un’esclusiva del
teatro veneto, ma caratterizza nel corso del Cinquecento (e oltre) la produzione di zone e
ambienti disparati, dall’Opera jocunda dell’astigiano Giovan Giorgio Alione, che
mescola il suo idioma nativo con il francese e il “lombardo” 13, alla produzione rusticale
dei Rozzi senesi14 (s’intende che «il “rusticale” è la varietà toscana del “dialettale”» 15),
fino alle farse cavaiole del salernitano Vincenzo Braca16, in cui è presa di mira la parlata
paesana di Cava dei Tirreni, quasi un’emula meridionale della topica selvatichezza del
bergamasco17. Oltre che per la drammaturgia d’ispirazione specificamente vernacolare,
il discorso vale anche per testi come la Vedova del fiorentino acquisito Giovan Battista
Cini (di nascita era pisano), o le Stravaganze d’amore del romano Cristoforo
Castelletti18, o la Tabernaria del napoletano Giambattista Della Porta19, nei quali lo
sperimentalismo versipelle ruota attorno all’asse dell’italiano letterario.
La Commedia dell’Arte assolutizza e irrigidisce questo aspetto peculiare della
tradizione della nostra lingua teatrale. Alla fine del Seicento il massimo codificatore
9
Cfr. A. Calmo, La Spagnolas, a cura di L. Lazzerini, Milano, Bompiani, 1979. Nella Zingana del
rodigino Gigio Artemio Giancarli compaiono addirittura alcune battute in una sorta di pidgin arabo di tipo
mercantile: cfr. G. A. Giancarli, Commedie. La Capraria. La Zingana, a cura di L. Lazzerini, Padova,
Antenore, 1991; M. Mancini, L’esotismo nel lessico italiano, Viterbo, Università della Tuscia, 1992, pp.
91-96.
10
Folena, Le lingue della commedia, cit., p. 143.
11
A. Calmo, Rodiana, a cura di P. Vescovo, Padova, Antenore, 1985.
12
Cfr. Padoan, La commedia rinascimentale veneta, cit., pp. 56-60.
13
Si veda G. G. Alione, L’opera piacevole, a cura di E. Bottasso, Bologna, Palmaverde, 1953. Per
l’aspetto linguistico: C. Giacomino, La lingua dell’Alione, in «Archivio Glottologico Italiano», XV
(1901), pp. 403-48.
14
Cfr. R. Alonge, Il teatro dei Rozzi di Siena, cit. Sui «comici artigiani» senesi, tradizionalmente designati
con l’impropria etichetta di «pre-Rozzi», si veda C. Valenti, Comici artigiani. Mestiere e forme dello
spettacolo a Siena nella prima metà del Cinquecento, Modena, Panini, 1992.
15
B. Migliorini, Storia della lingua italiana (1960), Introduzione di G. Ghinassi, Milano, Bompiani,
1994, p. 397.
16
Cfr. A. Mango (a cura di), Farse cavaiole, 2 voll., Roma, Bulzoni, 1973.
17
Sull’uso letterario e teatrale del bergamasco cfr. C. Ciociola, Attestazioni del bergamasco letterario.
Disegno bibliografico, in «Rivista di letteratura italiana», IV (1986), pp. 141-74, e I. Paccagnella, «Insir
fuora de la so buona lengua». Il bergamasco di Ruzzante, in AA.VV., Ruzzante, a cura di G. Folena,
Padova, Editoriale Programma, 1988, pp. 107-39 (= «Filologia veneta», I).
18
Cfr., soprattutto per la lingua fortemente vernacolare della vecchia serva romanesca Perna, C. Merlo,
Vicende storiche della lingua di Roma. II. Le Stravaganze d’amore di Cr. Castelletti (sec. XVI), in Id.,
Saggi linguistici, Pisa, Pacini-Mariotti, 1959, pp. 63-85; P. Stoppelli, Nota sul dialetto romanesco, in C.
Castelletti, Stravaganze d’amore, cit., pp. 29-34; F. A. Ugolini, Per la storia del dialetto di Roma. La
«vecchia romanesca» ne «Le Stravaganze d’amore» di Cr. Castelletti (1587), in «Contributi di
dialettologia umbra», II (1982), pp. 73-203.
19
Cfr. G. Della Porta, Teatro, a cura di R. Sirri, 3 voll., Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1980. Sul
plurilinguismo dellaportiano si vedano R. Sirri, Sul teatro del Cinquecento, Napoli, Morano, 1988, e T.
Cirillo, Plurilinguismo in commedia, cit.
51
dell’Improvvisa, Andrea Perrucci, ribadisce una volta di più che «la diversità delle
lingue suole dare gran diletto nelle commedie», soffermandosi con dovizia di esempi
sull’articolata e, ormai, cristallizzata caratterizzazione idiomatica delle varie maschere 20.
Ciascun personaggio corrisponde a un determinato tipo socio-psicologico e a una
connessa funzione nel meccanismo scenico, all’interno di una rete di rapporti
rigorosamente codificati. Ludovico Zorzi ha potuto fissare in uno schema i rapporti tra i
tipi umani fissi e le combinazioni tra le loro funzioni sceniche 21; a questi tipi e a queste
funzioni si correlano non meno stabilmente specifici contrassegni linguistici:
Le più importanti maschere della Commedia dell’Arte - la cui parte teatrale fissa è quella
di «servo» o di «vecchio» -, prescindendo dalle evoluzioni ulteriori della seconda metà
del ’600 e dalle variazioni che poteva offrire ogni maschera a seconda delle compagnie in
cui la rielaborava l’attore che l’incarnava, sono rappresentate dallo Zanni (da cui
discenderanno Arlecchino e Brighella), che parla il bergamasco, da Pantalone che si
esprime in veneziano, dal Dottor Graziano che nel suo linguaggio mescola elementi del
dialetto bolognese, lombardismi ed elementi del linguaggio pedantesco di tipo fidenziano,
dalle maschere di Coviello, Pasquariello e Pulcinella che si esprimono in napoletano, e
dal Capitano che parla in spagnuolo (ma anche in italiano, in francese, napoletano,
calabrese e siciliano). Strettamente collegati a queste maschere sono i due Innamorati
dell’Arte, che parlano in toscano, e che, pur privi di maschera, hanno in comune con la
maschera la tipologia teatrale fissa, rappresentata dal loro ruolo di «amorosi» 22.
20
Per una rassegna delle parti comiche secondo la corrispondenza tra personaggio e lingua si veda A.
Perrucci, Dell’arte rappresentativa, cit., in particolare alle pp. 194-230. Sulle maschere in genere cfr. A.
Nicoll, The World of Harlequin, 1963 (trad. it. Il mondo di Arlecchino. Guida alla Commedia dell’Arte, a
cura di G. Davico Bonino, Milano, Bompiani, 1980); C. Molinari, La Commedia dell’Arte, Milano,
Mondadori, 1985. Sposta l’attenzione dalle maschere agli attori che le impersonarono il volume di S.
Ferrone, Attori mercanti corsari. La commedia dell’arte in Europa tra Cinque e Seicento, Torino, Einaudi,
1993.
21
Come spiega lo stesso Zorzi, il canovaccio della Commedia dell’Arte si fonda «sull’intreccio e sulla
combinazione simmetrica di otto parti fisse, alle quali si aggiungono saltuariamente alcune parti mobili: le
quattro parti comiche delle maschere (due vecchi e due zanni) e le quattro parti serie degli innamorati
(due coppie); più le parti della soubrette (della servetta), del capitano, del mago deus ex machina (o di
altri tipi affini); in più, comparse e oggetti (le «robbe per servire alla commedia», a volte anche oggetti
animati. […] I vettori orizzontali [dello schema] sanciscono un rapporto di simmetria tra le coppie di
personaggi (si tratta, come si è detto, di un codice binario), mentre i vettori trasversali indicano i rapporti
asimmetrici, ovvero le funzioni dei singoli personaggi» (L. Zorzi, Struttura fortuna della fiaba
gozziana (1974), in Id., L’attore, la Commedia, il drammaturgo, Torino, Einaudi, 1990, pp. 183-98, alle
pp. 195-96).
22
P. Spezzani, L’«Arte rappresentativa» di Andrea Perrucci e la lingua della Commedia dell’Arte, in
AA.VV., Lingua e strutture del teatro italiano, cit., pp. 355-438, a p. 392; poi in Id., Dalla commedia
dell’arte a Goldoni. Studi linguistici, Padova, Esedra, 1997, pp. 121-216.
52
sembrava che uscisse all’improvviso ciò che s’avevano da molto tempo premeditato» 23.
Lo zelo degli attori suscita, in un prologo di Domenico Bruni, la reazione spazientita di
Ricciolina, costretta a trasformarsi da semplice domestica in indaffarata distributrice di
libri:
53
compiuto testo drammatico di base - sostituito dal soggetto o canovaccio o scenario
(schema riassuntivo dell’azione), dai generici (discorsi topici di ciascuna parte) e dai
lazzi (numeri istrionici) - rafforza lo sperimentalismo espressivo e il relativismo
linguistico dei comici, stimola la loro capacità di aderire alle esigenze specifiche di ogni
rappresentazione. «L’arte vera del ben far le commedie, credo io che sia di chi ben le
rappresenta», ovvero «L’esperienza fa l’arte», teorizza Flaminio Scala, detto Flavio, nel
prologo del Finto marito (1618)28. E il suo fondamentale Teatro delle favole
rappresentative (1611), unica raccolta a stampa di scenari della Commedia dell’Arte 29, è
tutto informato a questa concezione tecnico-empirica dello spettacolo. Scala riporta per
esteso solo alcune battute chiave del dialogo, come, nel classico soggetto La pazzia di
Isabella, i farneticanti discorsi della protagonista:
Io mi ricordo l’anno non me lo ricordo, che un Arpicordo pose d’accordo una Pavaniglia
spagnola con una Gagliarda di Santin da Parma, per la qual cosa poi le lasagne, i
maccheroni e la polenta si vestirono a bruno, non potendo comportare che la gatta fura
fusse amica delle belle fanciulle d’Algieri; pure, come piacque al califfo d’Egitto, fu
concluso che domattina sarete tutti duo messi in berlina 30.
Si avverte un netto scarto fra il dialetto del Dottore da una parte, evidenziato solo sul
piano fonetico e morfologico e scarsamente caratterizzato nel lessico, e il veneziano di
Pantalone dall’altra, ricco di idiotismi lessicali oltre che morfologici e fonetici, e,
parallelamente, tra il dialetto bergamasco dello Zanni, incomparabilmente povero proprio
sotto il profilo del lessico, e il dialetto napoletano di Pulcinella e Coviello, infinitamente
più ricco, rispetto al bergamasco, di note idiomatiche soprattutto di tipo plebeo. Il che
dimostra che ci sono maschere che per esercitare una funzione interregionale rinunciano a
gran parte delle caratteristiche locali (ivi il Dottore in cui fin dalle origini la componente
parodica medico-giuridica è più importante dell’ambientazione dialettale), altre che
28
Si veda F. Scala, Il finto marito, in L. Falavolti (a cura di), Commedie dei comici dell’arte, Torino,
UTET, 1982.
29
F. Scala, Il teatro delle favole rappresentative, a cura di F. Marotti, 2 voll., Milano, Il Polifilo, 1976.
30
Ivi, II, p. 395.
31
G. B. Andreini, Lelio bandito, Combi, Venezia 1624, p. 9.
54
presentano legami ineliminabili e più intensi con la realtà locale e dialettale (Pantalone e
Pulcinella). Si tratta in quest’ultimo caso di strutture linguistiche più chiuse e compatte
che dimostrano il maggiore e più saldo prestigio letterario e culturale di certe tradizioni
nei confronti di altre32.
55
indicati; ecco appunto un passo in cui il richiamo all’onomastica mitologica e letteraria
è messo in caricatura mediante una serie di stravaganti neoformazioni verbali: «Oh
come m’incerbero, oh come m’inradamanto, oh come m’intensifono, oh come
m’inflegetonto, oh come m’insatanasso, oh come fatto sono il gran diavolo
dell’inferno!»40.
Il toscano elevato a potenza di tante opere date alle stampe dai comici di mestiere
nel corso dei secoli XVI e XVII è spesso il frutto di un ingenuo esibizionismo da neofiti
delle umane lettere, e può lasciare l’impressione di un pesante belletto passato su
lineamenti grossolani. Pier Maria Cecchini, impegnatissimo nella difesa del valore
morale e intellettuale del teatro, scrive La Flaminia schiava (1610) in una lingua tanto
aulica che i servi devono giustificare la raffinatezza del loro eloquio ricordando di
essere stati alle dipendenze di dottori41. Nei casi migliori - come L’inavertito di Niccolò
Barbieri detto Beltrame42 - si tratta peraltro di un consapevole uso “riflesso” dell’italiano
oltre che dei dialetti, quasi una mise en abîme della scrittura letteraria, ovvero una sorta
di teatro nel teatro sub specie linguistico-stilistica, ennesima ed esasperata variazione
sul tema barocco della moltiplicazione dei piani e dell’artificio illusionistico 43. La
consueta tirata altisonante della cerebrale Lavinia, appunto nell’Inavertito, non vale
certo per il suo significato letterale, ma in quanto esprime l’alienazione linguistica del
personaggio e, più in generale, la frattura tra il mondo delle cose e il mondo delle
parole:
Dite al signor Fulvio che gli ardenti miei sospiri, ancorché indistinti tra l’aria e ’1 fuoco,
che vanno alla determinata loro sfera, e che gli occhi miei bramosi di contemplar
l’oggetto della loro felicità, che sono quasi snervati, usciti dal loro concavo, e che quasi
dinotano un’oblivione di spiriti visivi, e che non tanta ambrosia e nettare consumano gli
Dei alle loro mense quante sono le dolcezze che in amando si provano, e che se ’1 cuore è
centro d’un amoroso petto, che l’amore è centro d’ogni cuore amante, e che sì come è
impossibile che il sole si parta dall’ecclitica, cosi è impossibile di far retrogrado d’un ben
radicato amore nel cielo dell’altrui voglie; però egli che spira tutta grazia e gentilezza, che
può co’ suoi vaghi portamenti bear un mondo intero, e che a sua signoria sta il dar salute a
chi tanto la brama (I, 8).
Sono discorsi palesemente artificiali e fittizi, chiari esempi di lingua che parla di
se stessa, di certi suoi vezzi inveterati - i sospiri ardenti, gli occhi bramosi, l’ambrosia -
e di tic più attuali: il paragone dell’attrazione amorosa con l’ecclitica solare è
un’immagine “galileiana” presente anche in Marino. L’esperto autore fa scaricare con
tempismo il potenziale di comicità fredda accumulato da Lavinia nell’ironia spontanea e
liberatrice dell’interlocutore Scappino, che aveva chiesto alla donna di esporre in forma
40
Andreini, Le due comedie in comedia, cit., III, 5.
41
Cfr. la Prefazione a P. M. Cecchini, Le commedie. Un commediante e il suo mestiere, a cura di C.
Molinari, Ferrara, Bovolenta, 1983, p. 41.
42
N. Barbieri, L’inavertito, in Ferrone (a cura di), Commedie dell’arte, cit., II, pp. 107 sgg.
43
Si pensi alla struttura doppiamente metateatrale di un’opera come Le due comedie in comedia, che in
realtà - precisa il prologo - «si può dir tre comedie in una» (G. P. Fabri, Prologo ad Andreini, Le due
comedie in comedia, cit., p. 22). Il motivo del teatro nel teatro, ricorrente nella drammaturgia secentesca,
da Shakespeare a Molière, è il sintomo di un’autonomia espressiva ormai così avanzata da consentire
l’elevazione dello stesso linguaggio scenico a oggetto di rappresentazione (cfr. Angelini, Il teatro
barocco, cit., p. 277).
56
più comprensibile i suoi sentimenti per Fulvio: «Oh, se vostra signoria m’avesse parlato
così alla prima, forsi l’avrei intesa manco di quello che ho fatto adesso».
Ma anche la battuta di Scappino non offre che uno sbiadito riflesso letterario della
lezione del vero teatro improvviso. La straordinaria capacità dei comici dell’arte di
stimolare e soddisfare le attese del pubblico s’indovina forse meglio dalla descrizione di
certi lazzi, come quello del «dialogo in terzo», che parte anch’esso dalla parodia del
linguaggio degli innamorati: «Il lazzo del dialogo in terzo è quando li innamorati sono
fra loro sdegnati e chiamano Pulcinella, e, per esempio, l’innamorato dice a Pulcinella:
“Di’ a colei che è un’ingrata”; Pulcinella va dalla donna e dice: “Cotello dice che te la
gratti”. Donna dice: “Di’ a colui che è un tiranno”; Pulcinella va dall’innamorato e dice:
“Ha detto ca te venga il malanno”». Infine, quando il gioco si è fatto ormai scontato, il
comico sfodera la battuta più piccante: «Omo dice: “Ella è tiranna stizzosa”. Pulcinella
dice alla donna che è un anno che la tiene pelosa»44.
57
«snaturalité» dialettale si oppone polemicamente al «fiorentinesco» dei letterati, che
peraltro conosce nella parabola teatrale ruzantiana una sua dinamica evolutiva: dalla
pura lingua aulica dei pastori arcadi della Pastoral si arriva, nella più tarda Vaccaria, a
un italiano di registro meno elevato, non alieno neppure dai modi colloquiali propri
della commedia cinquecentesca. Tra l’italiano e il dialetto c’è poi l’ibrido e velleitario
moscheto, con cui Ruzante si diverte a fare il verso al parlante “semicolto”,
stigmatizzando l’abuso di forme toscane come la desinenza di terza plurale -no («Chi
stano quano in questa casa?») o il pronome io, aggiunto anziché sostituito al veneto mi
(«Io mi son della Talia», cioè ‘dell’Italia’)48.
Sempre in area veneta, sede primaria di sperimentazioni plurilingui, un singolare
equilibrio di toni caratterizza la complessa tessitura vocale dell’anonima Veniexiana,
regolata da «una motivazione psicologica primaria, che però fa corpo con la situazione
sociale»49. In questa commedia, infatti, è totalmente realistico non solo il veneziano
sensuale delle donne («Quelle sporcarie che se dise in bordello, no sastu?», I) 50 ma
anche il bergamasco del facchino, che per una volta non va soggetto a stilizzazioni
macchiettistiche51. E appare senz’altro verosimile, pur nella sua intrinseca
convenzionalità, lo stesso eloquio di base settentrionale e di tendenza toscana del
giovane «zentilomo forrestieri»52 una sorta di “italiano itinerario” ad uso galante, lingua
di scambio e lingua di seduzione: «Che paroline d’oro!», commenta in estasi la servetta
Oria, di solito schiettamente dialettofona, ma indotta nel caso specifico a un languido
toscaneggiamento imitativo53.
Nell’ambito del teatro d’autore - e con la benedizione dell’Accademia dclla
Crusca e della Compagnia del Gesù, ovvero con tutti i crismi della letterarietà e
dell’ufficialità, dalla perizia tecnica della versificazione alle recite nel Collegio dei
Nobili - si colloca alla fine del Seicento il compiuto esperimento sociostilistico del
milanese Carlo Maria Maggi54. Questi, a partire soprattutto dal suo capolavoro I consigli
58
di Meneghino, supera il plurilinguismo orizzontale tipico della Commedia dell’Arte cui
rimaneva ancora legato nelle prove precedenti, «con un massimo di ingredienti nel
Barone di Birbanza: milanese, bolognese veneziano, genovese», più «un pizzico di
latino, di greco e di ebraico» 55. Approdato a un più incisivo plurilinguismo verticale, il
Maggi attribuisce l’italiano aulico o comunque letterario all’aristocrazia in genere,
l’ibrido e pretenzioso milanese italianizzato alle componenti più retrive della stessa
classe nobiliare, il milanese schietto alla buona e brava gente del popolo. A tale triplice
stratificazione, delineata con «un senso acuto delle sfumature linguistiche intermedie,
dei trapassi di piano, delle deviazioni dal registro fondamentale» 56 si riconduce ad
esempio l’alternanza funzionale di forme come il sostenuto genitore o il semplice padre
con pader o con il più caratterizzato pæder. Il plurilinguismo diviene così un sensibile
indicatore delle divisioni e delle tensioni presenti all’interno della società milanese, «nel
momento di trapasso da una mentalità neofeudale, sopravvissuta al tramontante sistema
politico-economico da cui era stata espressa, a una mentalità borghese»57.
È significativo che, a parte le frecciatine contro certo italiano pomposamente
melodrammatico, la satira dell’onesto conservatore non colpisca tanto la lingua
letteraria, insipida e convenzionale sì, ma in fondo rivolta per lo più ad un’accettabile
finalità di comunicazione elevata. Presa di mira è soprattutto la goffa affettazione di
«parlar finito» delle «damasse» Polissena e Donna Quinzia, esponenti di un’aristocrazia
boriosa e corrotta, cui si contrappone polemicamente la genuinità dialettale dei popolani
Meneghino e Beltramina, depositari di un antico patrimonio di saggezza e rettitudine.
Alla gerarchia dei livelli sociali e dei relativi livelli linguistici il pio Maggi
(probabilmente troppo pio per un autentico commediante) fa corrispondere cioè una
gerarchia di valori civili ed etici, indulgendo al moralismo sentenzioso: «Art, che no
iutta al ben, / o che ’l mæ non corresg, / l’è perdiment de temp, se no l’è pesg»58.
L’interesse per la dimensione sociolinguistica rimane invece piuttosto esteriore
nella commedia rusticale toscana e in particolare fiorentina, dalla Catrina del Berni
(1516 ca.) alla più rilevante Tancia di Buonarroti il Giovane (1611), lussureggiante
dispensa di ghiottonerie lessicali surgelate appena raccolte, non senza l’aggiunta di
qualche salsa e spezia, per la gioia dei futuri vocabolaristi. Nuoce alla genuinità
dell’operazione di recupero antropologico e alla profondità dello scavo critico nel
mondo subalterno la stessa impermeabile specializzazione letteraria di un genere come
quello nenciale, tradizionalmente incline all’edonismo linguaiolo, all’impiego cioè «di
un certo tipo di lingua preziosamente rustica [...], fino alla creazione artificiale e
parodistica su cliché contadinesco»59. Implicazioni di ordine politico e sociale, riflessi di
reali difficoltà economiche, umori di contestazione verso la cultura ufficiale si colgono
piuttosto nei prodotti di artigianato comico del teatro popolare senese. In questo
singolare laboratorio urbano di pratica recitativa, di parallela scrittura drammaturgica e
di annessa attività editoriale operarono fin dai primi anni del Cinquecento i cosiddetti
curatore, poi ripubblicata in D. Isella, I Lombardi in rivolta cit., con il titolo Il teatro milanese del Maggi
o la verità de dialetto, pp. 25-47).
55
Ivi, p. 36
56
P. V. Mengaldo, La «discoverta» del Maggi, in «Belfagor», XXI (1966), pp. 563-92, a p. 585.
57
D. Isella, Prefazione alla sua edizione di C. M. Maggi, I consigli di Meneghino, Torino, Einaudi, 1965,
p. 8.
58
C. M. Maggi, Concorso de’ Meneghini, vv. 213-15, in Id., Il teatro milanese, cit.
59
Cfr. T. Poggi Salani, Il lessico della «Tancia» di Michelangelo Buonarroti il Giovane, Firenze, La
Nuova Italia, 1969, p. 16.
59
pre-Rozzi, cui si aggiunsero poi i Rozzi veri e propri, riunitisi in Congrega dal 153160.
Nelle mani di attori-autori di estrazione piccolo/medio-borghese come Niccolò Campani
(lo Strascino) o come Salvestro Cartaio (il Fumoso), “primitivi”, arretrati e provinciali
un po’ per forza e un po’ per amore, le forme imbalsamate del codice poetico rusticale
acquistano nuova vigoria espressiva e una sia pur elementare efficienza comica61.
Alla varietà urbana del dialetto senese sono approssimativamente riconducibili
vari tratti locali di antica tradizione e di perdurante vitalità, attestati nei componimenti
teatrali senesi del primo Cinquecento con larga prevalenza statistica sui rispettivi
concorrenti fiorentini:
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Oltre ai citt. Alonge, Il teatro dei Rozzi di Siena, Borsellino, Rozzi e Intronati, e Valenti, Comici
artigiani, cfr. il classico C. Mazzi, La Congrega dei Rozzi di Siena nel secolo XVI, 2 voll., Firenze, Le
Monnier, 1882, M. Pieri, La scena boschereccia nel Rinascimento italiano, Padova, Liviana, 1983, R.
Braghieri, Il teatro a Siena nei primi anni del Cinquecento. L’esperienza teatrale dei Pre-rozzi, in
«Bullettino senese di storia patria», XCIII (1986), pp. 43-159.
61
Cfr. T. Poggi Salani, Motivi e lingua della poesia rusticale toscana. Appunti, in «Acme», XX (1967),
pp. 233-86; A. Mauriello, Modi del comico nel teatro dei Rozzi, in L. Giannelli, N. Maraschio, T. Poggi
Salani (a cura di), Lingua e letteratura a Siena dal ’500 al ’700, Atti del Convegno (Siena 1991), Siena-
Firenze, Università degli Studi di Siena-La Nuova Italia, 1994, pp. 205-27.
62
P. Trifone, La retorica del villano. Lingua e società nel teatro popolare senese, in Id., Rinascimento dal
basso. Il nuovo spazio del volgare tra Quattro e Cinquecento, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 165-84.
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