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La storia dell’italiano deriva dal latino volgare, un latino che si poneva al di sotto di quello classico, venendo utilizzato

nei contesti d’uso più informali e anche dai ceti più colti. Il volgare si differenziava anche dalle varie regioni nel
mondo romano in cui veniva parlato. La differenza linguistica, di questo territorio chiamato Romagna, è all’origine
delle differenze riscontrabili nelle lingue cosiddette romanze o neolatine. E’ all’origine anche dei dialetti parlati nel
territorio italiano.

La Romagna è l’area in cui si sono sviluppate le lingue romanze, ovvero lingue sorelle. Questa parentela è possibile
notarla anche attraverso qualche parola. Dal latino fùmu(m), Italiano fumo; fumèe in francese, spagnolo humo ed in
portoghese fumo. La disciplina che studia la formazione della lingua con speciale riferimento alle trasformazioni dal
latino all’italiano italiano ed altre lingue romanze, è la grammatica storica.

La grammatica storica consta che le lingue non cambiano a caso nella storia, ma bensì, nel rispetto tendenziale di
regole. La grammatica storica dell’italiano ci dice che il nesso latino, consonante più l in italiano vada al nesso
consonante più i. Ad esempio dal Latino Flore si trasforma in Fiore e planum in piano.

Se il latino volgare è essere considerato come lingua di ponte tra il latino e le lingue romanze.

L’italiano non nasce dal nulla ma attraverso delle lente trasformazioni quasi impercettibili. Ha trascorso un forte
periodo di incubazione. Tra l’800 e il 900 a.c emergono le prime manifestazioni dell’italiano volgare, e queste si
concretano in alcuni testi detti intermedi.

Intermedi perchè in essi coesiste il latino volgare e l’italiano volgare senza riuscire a discenderne l’uno dall’altro. Si
tratta di scritture occasionali, come graffiti. Il graffito nella diapositiva risale alla prima metà dell’800 a.c e si trova
vicino ad un affresco.

La trascrizione “non dicere ille secrita abboce” letteralmente significa non dire le preghiere segrete ad alta voce; il
testo presenta delle caratteristiche linguistiche interessanti ed ibride. In parte sono riconducibili all’italiano ed in
parte al latino volgare. E’ ibrido perché la frase presenta una negazione + infinito (imperativo negativo), in latino
classico la frase sarebbe iniziata con Ne+ congiuntivo imperfetto (ne diceas). Ille potrebbe mostrare un dimostrativo,
come in latino, ma gli studiosi sono più propensi ad interpretarlo come articolo determinativo; infine molto
interessante è la parte finale, “abboce”. Si verifica il fenomeno di betacismo: la v viene pronunciata come b. L’altro
fenomeno è il raddoppiamento fonosintattico che consiste nel limitare nello scritto una dizione parlata. La seconda b
è scritta in minuscolo e potrebbe far pensare che la seconda b sia stata scritta in un secondo momento.

Nelle scritture occasionali è difficile distinguere le differenze e i confini tra latino e italiano.

Il vero atto di nascita della lingua italiana viene considerato il placito capuano (960 d.c) dove i due codici linguistici
compaiono nettamente distinti. E un documento notarile, in cui dei testimoni confermavano attraverso una formula
le proprietà di terre contese all’abbazia di Montecassino. La pergamena complessivamente è scritta in latino, con
qualche punto in troviamo delle formule in volgare scritta dai testimoni.

“Ille autem, tenens in manum memoratam abbreviaturan, et tetigit eam cum alia manu, et textificando dixit: sao ko
kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti benedicti” la traduzione letterale è “se
quelle terre entro quei confini che qui sono descritti per 30 anni le possedette il patrimonio di S. Benedetto”.
Innanzitutto nella sintassi vediamo una dislocazione a sinistra in quel “Kelle terre” sono il tema anticipato e poi preso
anaforicamente, quel Le è un pronome anaforico che richiama il tema messo in prima posizione. Nella morfosintassi
“santi benedicti” richiama e sottende il caso genitivo del latino, il cui il sintagma indicherebbe la parte del monastero
di S. benedetto. Il sintagma ci fa notare anche la grafia ancora conservativa che richiama il latino, ovvero la grafia del
CT “sanCTi”. In italiano il nesso subirà un fenomeno di assimilazione (da ct a tt).

Il volgare italiano prosegue il suo percorso fino ad approdare a testi letterali. Si accenna alla stagione poetica
consumatesi presso la Magna Curia di Federico 2 attorno al 200 d.c.

Questa poesia pian piano risalirà lo stivale fino ad arrivare agli stilnovisti ed a Dante.
E’ frequente sentir parlare di Dante come padre della lingua italiana. Dante è stato il primo storico e il primo a
riflettere sulla lingua italiana. Questa riflessione si è esplicitata in due trattati, entrambi incompleti e redatti attorno il
300. Questi trattati sono il convivium, dove Dante utilizza questa nuova lingua per farsi capire da molte più persone e
per il suo amore verso la sua lingua e Devulgari Eloquentia, un trattato linguistico, scritto in latino per convincere i
dotti dell’importanza del volgare italiano.

In questa opera Dante traccia un profilo delle lingue e da uomo cristiano e da uomo medievale parte dal racconto
biblico, specialmente dall’episodio della torre di Babele, in cui aveva affiancate delle persone che parlavano lingue
diverse e che avevano avuto una maledizione per cui non potevano più comprendersi l’un l’altro.

A porre rimedio a questa maledizione secondo Dante era stato creato dai Dotti, in latino, una porta di Idioma, che
consentiva un codice super linguistico che permetteva la comunicazione.

Dante in questa opera mostra un grande spirito di osservazione e traccia il profilo delle lingue esistenti, che allora si
conoscevano. Questo profilo parte da una situazione globale e via via si ristringe fino ad arrivare alla nostra penisola,
dove Dante riconosce una serie di varietà dialettali diverse. Queste varietà dialettali vengono passate in rassegna allo
scopo di trovare il volgare illustre, un volgare che fosse degno della poesia elevate ma purtroppo questa rassegna ha
esito negativo perché Dante boccia tutti i volgari dialettali parlati al suo tempo, bocciando anche il fiorentino.

Per questo motivo Dante lascia il trattato incompiuto, gli studiosi non escludono che questa sospensione si spiegasse
con il fatto che dante avesse imboccato una strada poetica diversa da quella utilizzata nel “De vulgari Eloquentia”.
Questa strada era quella della commedia, la cui ricchezza tematica, stilistica e linguistica di per sé bastò a dimostrare
l’enorme potenzialità del volgare, al di là di qualsiasi pronunciamento teorico.

Sulla lingua della commedia ci sarebbe molto di cui parlare, intanto cominciamo a dire che l’enorme ed immediato
successo della commedia funse da cavallo di troia per il successo del volgare, a base Tosco-Fiorentina, in cui la
commedia era stata scritta.

A partire da Dante, poi grazie a Petrarca ed a Bocaccio, il tosco-fiorentino ha iniziato a diffondersi latente per tutta la
Penisola e questo successo della commedia porta alla proliferazione di tantissimi manoscritti, più di 800 manoscritti
per l’esattezza oltre a tutti quelli andati dispersi.

Questa proliferazione rende difficile stabilire quale fosse l’effettiva e precisa veste linguistica che Dante aveva dato
alla commedia.

Le prime terzine della Commedia, riprodotte nell’edizione critica curata da Luchi (?), porta a testo nel corpo
maggiore, le varianti che i filologi ritengono plausibilmente più vicine all’originale, la parola di dante diciamo e nota
invece le varianti riportate dai manoscritti considerati più autorevoli, per esempio il verso uno: a testo abbiamo “nel
mezzo” mentre in nota notiamo “in meggio” questo vuol dire che questo codice urbinate scriveva nel “Meggio del
cammin di nostra vita” e questo accade anche per i versi successivi.
La commedia ha dimostrato nei fatti le potenzialità del volgare, in grado di reggere le forti escursioni tematiche e
stilistiche presenti nel poema, dove si va nei bassi fondi dell’inferno fino alle porte paradisiache. In larga parte Dante
ha dovuto inventare, nel vero senso della parola, questa lingua e per incrementarne il patrimonio la fonte
privilegiata fu la lingua dei classici e in particolare il latino. Proprio la presenza di latinismi è uno dei tratti che più
differenzia la lingua della commedia rispetto alla precedente lirica dantesca e anche rispetto alla poesia tocoure (?).

Il latinismo di Dante li perviene da canali diversi, dalla filosofia, dalla scienza, dalle sacre scritture ma soprattutto
dalla letteratura classica.

Nel sesto canto del paradiso, Dante si riferisce a come Cleopatra si fece avvelenare da un serpente e scrive:
“Dal colubro la morte prese subitana e atra” un passo molto significativo perché fitto di latinismi.

Colubro = serpente  è stata una parola utilizzata dalla prima volta in Italiano da Dante, e deriva dal latino “Coluber”
La morte prese subitana = la morte improvvisa  subitana deriva dal latino “subitaneum” che vuol dire improvviso,
ed anche in questo caso si tratta di una creazione dantesca, utilizzata in Italiano per la prima volta da Dante.

Infine anche “Atra” ha una riminiscenza latina perché ricorda l’espressione “Atra dies” utilizzata da Virgilio
nell’Eneide, oppure anche “Atrum venenum” utilizzato da Orazio nelle Odi  anche in questo caso si tratta di una
creazione dantesca.

La commedia è anche nota per essere un’opera multilinguistica. Il plurilinguismo di dante si sostanzia di vari
ingredienti perché oltre ai latinismi ci sono delle parole straniere e interi inserti in latino, in provenzale ma ci sono
anche termini plebei, parole toscane, parole dialettali e parole di registro molto basso, in genere a connotare i
personaggi.

Il poema nel suo complesso, nonostante questo multilinguismo, si presenta come un’opera fiorentina e questa
fiorentinità, a sua volta, non significa che Dante si sia appiattito su una selezione di forme fiorentine, anzi, nella
commedia Dante si sente libero di inserire tratti morfologici del fiorentino che al suo tempo erano coesistenti.

Plurilinguismo e polimorfismo di Dante:


- alternanze morfologiche: serocchia/suora/sorella  sinonimi che Dante utilizza indifferentemente per
ragioni di metrica e di rima
- alternanza dittongo/monottongo: cuore/core, fuoco/foco  che alterna pure loro per ragioni di metrica e di
rima
- alternanza i/e in protonia: virtù/vertù
- alternanza a/e, a/i in protonia: danari/denari, giovanetto/giovinetto
- ancora polimorfica può essere la morfologia verbale come per esempio le forme del condizionale:
vorria/vorrei, avria/avrei, diria/direi

Questo polimorfismo dantesco ha prodotto a sua volta una tendenza alla polimorfia nella lingua italiana, una libertà
nell’utilizzo di forme concorrenti.

In parte questa polimorfia è stata arginata da Petrarca e dal suo monolinguismo poetico e lirico, per cui Petrarca fa
più una attenta selezione delle forme che poi avrà molto successo soprattutto nella tradizione poetica italiana.

La storia della lingua dal 400 all’opera di Bembo.

Dante, Petrarca e Boccaccio con le loro opere nel 300 avevano mostrato le loro notevoli potenzialità espressive del
volgare, nel secolo successivo nel 400 i grandi appassionati della letteratura classica, il volgare riscuote uno scarso
successo. Nel secolo successivo, le opere di dante e Petrarca per gli umanisti sono solo delle canzoncine di poco peso
e per loro sarebbero state meglio se composte in latino. In volgare andavano a perdere importanza con il tempo.

Petrarca anche lui si aspettava maggior gloria dalle sue opere in latino piuttosto che in volgare, aveva dato al suo
canzoniere un titolo dismesso, ovvero il titolo di “Rerum volgarium fragmenta”, ovvero di cose volgare.

Nel 400 il volgare si ritira dagli usi letterari ma si continua ad usare nei campi pratici, epistolari e burocratici. Le
lingue di Koinè(?) sono lingue di basi toscana con forti tratti regionali e locali che venivano usati all’interno delle
corti;

Un esempio illustre è l’Orlando innamorato del Boiardo.

Interrogandosi sulle cause della fine della mirata civiltà classica gli umanisti si trovarono a discutere sull’origine della
lingua volgare: due furono le principali tesi proposte quelle degli umanisti Flavio Biondo e Francesco Bruni, entrambi
emersi in una discussione del 1435. Flavio Biondo riteneva che il latino classico fosse una lingua omogena e di uso
comune per tutti, senza varietà e differenze sociali mentre il volgare sarebbe nato dalla corruzione di questa lingua a
seguito delle invasioni barbariche.

Secondo Bruni nel latino esisteva quella che noi oggi chiameremmo una variazione socio-linguistica, ovvero una
differenza tra il latino dei dotti e il latino degli illetterati e proprio da questa ultima varietà, per una naturale
evoluzione linguistica, per il Bruni sarebbe nato il volgare.

Le idee di Bruni furono mal interpretate come se avesse parlato della presenza in origine non di due varietà di latino,
ma di due lingue differenti e la sua tesi ebbe quindi poca fortuna. Quella ad affermarsi invece fu la tesi di Biondo, una
tesi in cui il volgare si presentava come un prodotto disprezzabile perché prodotto di una corruzione e di un
imbarbarimento violento del latino.

Un atteggiamento favorevole verso l’uso del volgare in campo letterario si può trovare anche tra alcuni umanisti,
come Leon Battista Albert che era convinto che il volgare si potesse riscattare attraverso un suo uso da parte dei
letterati e non solo scrive parte delle sue opere in volgare ma compone anche una prima grammatica del volgare
modellata sul fiorentino vivo. Questo per dimostrare che il volgare ha una sua regolarità grammaticale alla pari del
latino.

La promozione più convinta della lingua volgare si ebbe nell’ambiente fiorentino, in particolare nella corte di Lorenzo
il Magnifico, del resto a Firenze le opere delle tre corone erano viste come una gloria locale e la promozione della
lingua toscana poteva servire a quella promozione politica del ruolo della città che era negli intenti della signoria dei
medici.

Un esempio di questa politica attiva, di questa promozione e celebrazione del volgare toscano è per esempio il dono
mandato da Lorenzo dei Medici a Federico di Aragona, figlio del re di Napoli. Questo dono era la Silloge Aragonese,
una antologia di rime toscane dal 200 al 400, comprese alcune liriche di Lorenzo stesso accompagnate da una lettera
di mano del Poliziano in cui si esaltava la continuità della poesia toscana della tradizione contemporanea e con essa
anche la ricchezza e la dignità della sua lingua.

E’ italiana la prima capitale dell’industria tipografica europea. Nel 400 in Europa non c’è città più adatta di Venezia a
far espandere, far propria e a far prosperare questa nuova attività; a Venezia ci sono infatti letterati, capitali, capacità
imprenditoriali e le comprovate solide reti commerciali forniscono canali di distribuzione e di vendita di questi
prodotti. Tra il 1526 e il 1550, grazie a tutto questo, Venezia arriva a pubblicare quasi tre quarti delle edizioni
stampate in Italia e la metà di tutte quelle prodotte nel continente.

Il legame che intercorre tra la stampa e la evoluzione della lingua italiana: la stampa pubblica e diffonde testi, non
solo testi letterari che possono funzionare come modello stilistico e di lingua ma la stampa diffonde anche testi di
carattere prescrittivo e normativo, ovvero delle grammatiche. Gli stampatori quando stampano hanno bisogno di
avere delle norme da seguire, delle norme grafiche interpuntorie e quindi con i loro bisogni industriali incoraggiano
la proposta di norme linguistiche che siano il più possibile condivise. Per questo stampa, lingua e norma si
intrecciano e si influenzano vicendevolmente.

La stampa attua anche un’imposizione di un modello linguistico fondato sulla scrittura e non sulla oralità. Questo
elemento sarà determinante per la fisionomia della lingua italiana fino al 1800; la lingua italiana che abbiamo fino a
quel secolo è, infatti, una lingua scritta, letteraria la cui norma non si fa su un uso parlato ma sull’uso
scritto/letterario.

Se parliamo di stampa veneziana tra il 1400 e il 1500 non possiamo fare a meno di citare la figura di Aldo Manuzio,
un umanista e stampatore ma anche, secondo alcuni studiosi, un vero e proprio editore, poiché non solo si limita a
stampare le opere composte da altri ma ha un ben preciso progetto culturale. Aldo, infatti, scriveva delle lettere ai
suoi lettori per spiegare alcune caratteristiche riguardanti l’opera spesso con il suo celebre marchio, ovvero
un’ancora con avvolto un delfino.

Le edizioni di Aldo sono celebri per essere molto belle e molto curate ma anche per alcune innovazioni dello
stampatore. Una di queste innovazioni è il formato in ottavo, ovvero un formato tascabile; precedentemente, invece,
i libri erano molto grandi e per essere letti richiedevano l’utilizzo di un leggio. Manuzio ha la concezione della lettura
diversa da quella di semplice attività fatta per istruirsi ed introduce l’idea di una lettura fatta per piacere e che quindi
richiede uno strumento dal formato maneggevole, ecco così che vengono introdotti i libri in ottavo.

Altre innovazioni possono essere:

-l’introduzione di un carattere tondo, facile da leggere e da comprendere, simile al carattere “Garamond” che fino ad
oggi continuiamo ad utilizzare.

-tutti i segni interpuntori e diacritici introdotti da Aldo nelle sue edizioni: il punto, la virgola, l’apostrofo, il punto e
virgola.

Altra curiosa invenzione è il carattere corsivo, che venne commissionato da Manuzio ad un orafo di nome Francesco
Griffo con un intento di economicità delle stampe, infatti il carattere essendo inclinato permette di stringere gli spazi
e quindi di poter stampare un’opera in un numero minore di pagine, rendendola più economica.

Dobbiamo ricordare la figura di Aldo Manuzio anche per il suo sodalizio con una figura centrale nella storia della
lingua del 1500, ovvero il letterato Pietro Bembo. La loro collaborazione si esplica in vari modi: Manuzio pubblica
alcune opere di Bembo, a parte il “De Aetna” del 1426 e “Gli Asolani” del 1505, ma Pietro Bembo è anche un
collaboratore editoriale di Manuzio.
Bembo cura due edizioni per Manuzio, e le due edizioni curate sono quelle del canzoniere di Petrarca chiamate
“Cose Volgari” del 1501 e un’edizione della commedia di Dante del 1502. Entrambe le edizioni sono in carattere
corsivo precedentemente accennato.

L’edizione di Petrarca di Bembo è molto importante anche per la cura filologica da lui attuata per il testo; Bembo,
infatti, aveva a disposizione per questa edizione un manoscritto originale del Petrarca, il codice vaticano latino 3195,
quindi in grado di dare un testo il quanto più possibile vicino a quello originariamente uscito dalle mani dell’autore.

Queste due edizioni sono importanti per la storia della lingua italiana perché è su questi due autori, e poi anche su
Boccaccio, che Bembo modellerà la sua teoria linguistica, la sua proposta di una norma per la lingua letteraria
italiana.

Con la figura di Pietro Bembo entriamo nel pieno nella questione della lingua:

«Sotto il nome di ‟questione della lingua” si indicano, nella tradizione culturale italiana, tutte le discussioni e le
polemiche, svoltesi nell’arco di diversi secoli, da Dante ai nostri tempi, relative alla norma linguistica e ai temi ad essa
connessi. Questi temi, pur nella sostanziale analogia, non furono uguali in tutti i periodi storici» Claudio Marazzini

Nel medioevo in età umanistica la questione della lingua si concentra soprattutto sul paragone tra dignità o meno del
volgare e la dignità accertata del latino. Nel medioevo, il “De Vulagari Eloquentia” di Dante aveva segnato per noi un
punto importante di riflessione sul volgare ma l’opera rimane pressoché sconosciuta e quindi non comporta un
dibattito tra i letterati. Nel periodo umanistico, invece, il dibattito è concentrato soprattutto sul latino e soltanto
collateralmente sul volgare. Nel 500 invece si discute effettivamente sulla lingua volgare e in particolare sul nome da
assegnare alla lingua letteraria  Quale deve essere? Toscano? Fiorentino? Lingua comune? Lingua italiana?

Non è in realtà una questione soltanto di nome, non è una questione oziosa: il nome da dare alla lingua letteraria
corrisponde alla norma da proporre e quindi anche al canone di autori da seguire come modello.

Nella questione della lingua del 500 la posizione che ebbe conseguenze più numerose, profonde e più significative
sull’evoluzione della lingua italiana fu sicuramente quella di Pietro Bembo, con l’opera “Prose della volgar lingua”
pubblicata a Venezia nel 1525. L’inizio di redazione dell’opera è però molto anteriore: l’opera si compone di tre libri
ed è un trattato di forma dialogica, come era comune nel 500, con i primi due libri probabilmente pronti già prima
del 1512.

Questo avrebbe permesso a Bembo di guadagnarsi il primato di autore della prima grammatica del volgare a stampa,
ma questo primato gli venne sottratto da Fortunio, che nel 1516 pubblica effettivamente la prima grammatica
stampata del volgare “Regole della volgar lengua”, esemplata sul modello del 300.

Per recuperare in qualche modo su Fortunio, Bembo adotta un escamotage, ovvero l’opera è stata pubblicata nel
1525 ma il dialogo al suo interno è ambientato nel 1502. Le due opere sono molto differenti e si distinguono per
impostazione: l’opera di Fortunio è un vero e proprio manuale mentre l’opera di Bembo è più un dialogo. Questo fa
sì che la grammatica di Fortunio sia facilmente consultabile mentre quella di Bembo un po’ meno.

In secondo luogo, la parte grammaticale occupa solo il terzo libro delle “Prose della volgar lengua” mentre i primi
due sono dedicati a una discussione teorica, a una discussione dei fondamenti della norma proposta dal Bembo e
anche alla confutazione delle posizioni diverse dalla sua.

Quindi abbiamo delle differenze anche per quanto riguarda i destinatari dell’opera: per Bembo i destinatari sono altri
letterati, mentre per Fortunio sono degli scriventi non toscani che hanno bisogno di imparare una lingua non loro.

Una pagina tratta del terzo libro delle “Regole della volgar lengua” ci fa riflettere sull’impostazione del testo: la
grammatica non è come ce la aspetteremmo, non contiene regole facilmente individuabili, non contiene schemi e
paradigmi. E’ appunto un dialogo in cui la parte in grassetto sottolineata nel testo ci indica il momento di passaggio
tra i due interlocutori, il Magnifico e M. Federigo.
Abbiamo 4 protagonisti del dialogo delle prose bembiane: Giuliano de’Medici (figlio di Lorenzo), Federigo Fregoso,
Ercole Strozzi e Carlo Bembo. Ognuno di questi personaggi è rappresentativo di un’idea sulla lingua:

-Guliano de’Medici è portavoce dell’idea dell’umanesimo volgare, ossia è favorevole all’impiego del volgare per gli
usi letterari;

-Federigo Fregoso è il personaggio a cui spetta il compito di esporre le tesi storiche all’interno dell’opera;

-Ercole Strozzi, un’umanista italatino, si fa portatore di quell’umanesimo latino che vedeva con disprezzo il volgare
per gli usi letterari;

-Carlo Bembo, fratello di Pietro, che è il portavoce dell’idea dell’autore.

Come abbiamo già detto Federigo espone tesi storiche perché le prime due parti dell’opera contengono un’escursus
storico sul volgare: si prende la teoria di Flavio Biondo, si concepisce quindi il volgare come nato dalla
contaminazione del latino ad opera dei barbari, ma si afferma che il volgare può essere nobilitato attraverso l’opera
degli scrittori. Quindi si riprende in qualche modo la posizione dell’Alberti e della Silloge Aragonese e un esempio di
questa capacità di nobilitazione del volgare è opera degli autori toscani della tradizione.

In questa pagina del testo si nota inoltre si vede la differenza di norma proposta per la prosa e per la poesia.

Questa differenza di usi linguistici tra prosa e poesia andrà avanti nell’italiano fino almeno il 1800, tant’è vero che
possiamo parlare per la poesia di una vera e propria grammatica a parte rispetto alla prosa. Sottolineati troviamo poi
i nomi delle tre corone (Dante, Petrarca e Boccaccio) che vengono proposte nel testo come esempi di norma, di
esempi da discutere e da chiarire.

Sintetizzando possiamo dire che quella bembiana è una posizione classicista, fiorentinista e arcaizzante.

Classicista perché prevede l’imitazione di un modello ritenuto migliore, un modello per la prosa ed uno per la poesia.
Il modello per la prosa è quello del “Decameron” di Boccaccio, soprattutto nelle parti più alte, ovvero quelle
dell’introduzione e quelle delle novelle tragiche. Il modello ritenuto migliore invece per la poesia è il “Canzoniere”
Petrarchesco, mentre Dante con il suo plurilinguismo viene un po' scartato da Bembo.

Fiorentinista perché il modello proposto è quello del volgare fiorentino proposto da Petrarca e da Boccaccio.

Arcaizzante perché il modello di lingua non è quello coevo ma quello trecentesco. La proposta di questa lingua di 200
anni prima vale la pena di soffermarsi un po' e di chiarire diversi punti:

-il primo punto è che per Bembo, quando si parla di lingua, si intende la lingua scritta che è superiore alla lingua
parlata;

-il secondo punto è che Bembo cerca un modello linguistico che possa parlare sia agli antichi che ai posteri, un
modello di lingua che non diventi obsoleto nel giro di pochi anni. Per poter fare questo è necessario, secondo lui,
staccarsi dalla lingua viva che come tale è mutevole ed inoltre popolare. Soltanto questo distacco garantisce la
letterarietà e quindi la continuità nel tempo.
Altre posizione linguistiche del 500, che fanno da sfondo al discorso teorico delle prose bembiane, sono:

-Cortigiana comune, sostenuta da autori quali: Vincenzo Colli, Mario Equicola, Baldassar Castiglione (autore del
“Cortegiano” del 1528)

Secondo questi autori la lingua da proporre come modello era una lingua di base toscana ma modellata
sull’esperienza reale delle corti del 500: questo però è il punto debole di questa teoria, perché propone una lingua di
base parlata e non scritta e quindi molto più difficile da definire rispetto a quella lingua proposta da Bembo con
modelli molto precisi.

-La seconda teoria è quella Italiana Comune di Gian Giorgio Trissino, che fu lo scopritore e l’editore in traduzione del
“De Vulagri Eloquentia” di Dante nel 1529. L’opera dantesca fu però un po’ equivocata da Trissino, perché Trissino
concepì il concetto di volgare illustre dantesco come quello di una lingua mista composita ricavata dalle forme
migliore di tutti i volgari di Italia. Ritenne, inoltre, che la lingua di Dante nella commedia fosse proprio questo volgare
illustre e non il fiorentino.

-La terza teoria è quella Fiorentinista, sostenuta da Niccolò Machiavelli; secondo questo autore il fiorentino è una
lingua naturalmente bella e superiore agli altri volgari e quindi degna di essere utilizzata da tutti i letterati. Questa
posizione di Machiavelli è espressa in maniera molto divertente in una piccola opera chiamata “Discorso o dialogo
intorno alla nostra lingua”, rimasta sconosciuta fino al ‘700.

L’opera ha una impostazione molto scenografica, perché è un vero e proprio dialogo tra Machiavelli e Dante: Dante
afferma di aver scritto la propria commedia in una lingua curiale, cioè non in fiorentino ma prendendo forme dei vari
volgari italiani. L’intento di Machiavelli è quello di sgannare Dante e fargli ammettere che la lingua della sua
commedia è invece il fiorentino; ovviamente l’operazione riesce e Machiavelli conclude l’opera affermando la
superiorità e la bellezza della propria lingua.

La lingua utilizzata da Machiavelli era il fiorentino, ma il fiorentino da lui proposto era quello del 500 (fiorentino
argenteo), non quello del 300 (fiorentino aureo).

Tra le varie proposte linguistiche del 500 quella che ebbe più seguito fu quella Bembiana perché era una proposta
molto chiara, molto certa, che offriva un punto di riferimento sicuro a tutti, sia agli scriventi che agli stampatori. Le
conseguenze di questa scelta furono essenzialmente tre:

-il fiorentino trecentesco divenne la base della lingua italiana;

-la lingua italiana si definì innanzitutto come lingua scritta e letteraria;

-i letterati, piano piano, continuarono sempre più ad adeguarsi al canone Bembiano.

Su questo ultimo punto abbiamo due esempi molto importanti: “l’Orlando furioso” di Ariosto e il “Cortegiano” di
Castiglione.

Ariosto fece varie revisioni del suo testo, che pubblicò in tre edizioni (1516, 1521, 1532). Nell’ultima edizione viene
nominato anche Bembo: in effetti Ariosto aveva rivisto il testo in una direzione sempre più Bembiana, ovvero
modificando e cancellando i termini più regionali per andare nella direzione del modello trecentesco.

Castiglione invece si poneva all’interno della proposta cortigiana, ma quando il suo testo viene pubblicato nel 1528
passa attraverso l’edizione del nobile veneziano Giovan Francesco Valerio, che modifica il testo in direzione
toscanizzante, verso il fiorentino aureo, contraddicendo la sua teoria linguistica a sua insaputa.

IL 700
700 illuminista.

Questa Polemica ha come protagonista Dominique Bouhours, un padre gesuita francese che esprime delle
valutazioni sulla lingua francese ponendola a confronto con altre lingue come l’italiano e lo spagnolo. Bouhours dice
che i francesi “parlano”, gli spagnoli “declamano” e gli italiani “sospirano”.

Per Bouhours solo la lingua francese è razionale ed in grado di comunicare dei contenuti. E’ utilizzata per la scienza,
per la comunicazione elevata. Il francese per Bouhours deve aspirare ad essere una lingua internazionale capace di
sostituire anche il latino. Il francese, per lui, è la lingua che meglio delle altre è capace di esprimere la razionalità del
pensiero umano. Lo spagnolo per Bouhours è magniloquente (declamano qualsiasi cosa dicono). L’italiano invece, è
una lingua inadatta a vincolare contenuti razionali. E’ considerata una lingua da utilizzare solo per le poesie, per il
melodramma. E’ una lingua arcaizzata, sdolcinata.

Quindi per Bouhours le lingue hanno delle caratteristiche innate che le rendono razionali (come la lingua francese) o
poetiche come nel caso dell’Italiano.

Gli intellettuali italiani risponderanno a Bouhours ma solo nei primi decenni del secolo successivo (800),
condividendone le premesse. Lo contestano dicendo che il francese non è che ha tutte queste caratteristiche innate;
queste caratteristiche auspicabili potrebbero anche riguardare l’italiano, ma dipende tutto dall’uso della lingua. Se
l’italiano fino ad allora era utilizzato per la poesia, non lo si deve all’italiano in sé ma all’uso che si è fatto dell’italiano
fino a quel momento.

Prima di considerare le idee che l’età illuminista ha implicato, c’è da considerare la condizione della lingua francese
nel ‘700. Il francese era la lingua più prestigiosa in ambito culturale nel corso del 18 secolo. Era una lingua che gli
intellettuali dovevano conoscere (Goldoni per esempio, la padroneggiava. Il memoir è scritto in francese). Molti
intellettuali italiani scrivono addirittura appunti personali in francese.

Il francese era così noto per lo sviluppo della cultura illuminista. Questo successo difatti lo si deve a filosofi come
Voltaire, Russeu e a studiosi come Diderot e d’Alambert che per primi scrivono l’enciclopedie. Questa cultura si
espande in tutta Europa con il veicolo della lingua francese.

Definiamo Gallomania, la penetrazione in Italia di moltissime parole francesi. Intanto il rapporto tra francese e
l’italiano e la penetrazione di modi di esprimersi francesi nel vocabolario italiano è molto più antico (anche prima del
700). Interessa la nostra lingua sin dalle sue origini. Ancora prima del Petrarca, ai tempi della scuola Siciliana,
troviamo parole entrate nella nostra tradizione liriche e poetica dalle poesie provenzali. Si parte dal 1200 circa.
Tuttavia, nel corso del ‘700 illuminista, tale influenza raggiunge livelli mai prima riscontrati.

• Esempi di francesismi precedenti al ‘700: Fracassea (l. gastronomico) nel ‘500 (uno dei pochissimi francesismi
entrato nel Vocabolario della Crusca del 1612).

• ‘600: gabinetto (stipo, una specie di magazzino); voliera (gabbia di uccelli); lunette (lenti del cannocchiale).
Lingerie (in un’opera del Buonarroti) è un prestito non adatto, ed il termine non viene modificato morfologicamente.
Ragù (dal francese ragoût, der. di ragoûter - stuzzicare l’appetito)

Gallomania  eccessiva passione per stranierismi che nel 700 esplode in maniera eclatante. Il termine si deve a
Frugoni: «ma che dire di certi pappagalli che vogliono far da galli non solo alle piume, ai colori, alla zuppa, ma anco
alla voce?»

Settori più esposti alla penetrazione: abbigliamento, cucina, vita militare, successivamente (livelli alti) filosofia,
scienza… Erano settori in cui si seguiva la Francia come modello. Seguivano la Francia anche nella lingua (una
tendenza quasi eccessiva secondo Frugoni)

Tutti i codici legati al sapere di ascendenza illuminista erano importati dal modello francese.

Il termine “Moda” è un francesismo che significa tela; batista, cravatta e stoffa sono anche loro termini francesi. Non
soltanto parole ma anche calchi sintattici come “andare a” “venire di”.
Altri prestiti non adattati sono “toilette” e “coiffure”.

Nelle parole come “Volatilizzare”, “caratterizzare” il francesismo lo si trova nel suffisso -izzare, che viene usato in
parole italiano creando delle neo-derivazioni.

Ancora, nella chimica tutte le parole che hanno il suffisso -ico derivano da -ique.

Non solo troviamo dei francesismi ma anche dei grecismi che entrarono nella lingua italiana attraverso il francese e
l’età dei lumi. Sono quasi tutte parole scientifiche di matrice illuminista (ossigeno, epidemico..) elettrico (eletrique
dal francese).

E’ interessante notare quanto queste parole siano vitali; una volta entrati nel vocabolo italiano creano a loro volta
dei neologismi come “elettrizzare gli spiriti”.

Gli Ideali linguistici che maturano nel corso del ‘700 si riassumono in questo motto “una lingua di cose non di
parole”. Secondo gli illuministi la lingua doveva esprimere contenuti, idee, scienza, i progressi scientifici, la
razionalità… doveva essere una lingua concreta che aderiva al progresso scientifico e tecnologico del periodo. Non
doveva essere una lingua di parole cioè una lingua inutilmente retorica, poetizzante e arcaica.

La lingua era considerata come lo strumento della razionalità. Più una lingua è semplice più la lingua è preferibile.
Vengono rifiutati tutti gli artifici retorici e le soluzioni arcaizzanti come la tradizione cruscante e poetica che era
prevalsa in Italia fino a quel periodo. Molti illuministi milanesi, difatti, rinunceranno al vocabolario della crusca.

Una lingua razionale, deve anche rispettare l’andamento del pensiero; deve seguire e esprimere il modo in cui il
pensiero si articola.

In ambito macro-sintattico l’ideale di razionalità si realizzava attraverso periodi che fossero i più lineali possibili. La
paratassi quindi, doveva prevalere sull’ipotassi quindi, veniva rifiutata la sintassi complessa del periodo e si favoriva
lo stile spezzato ovvero dei periodi mono-proposizionali e giustapposti.

In ambito micro-sintattico l’aderenza della lingua al lume della ragione si realizza tramite l’ideale dell’ordre naturel
(l’ordine naturale) si poneva come modello un ordine razionale che implicava che il pensiero si articolasse in questa
sequenza SVO+CI (Soggetto, verbo, oggetto + complementi indiretti) la lingua doveva rispettare questo fluire
dell’idea. Nello scrivere si doveva rispettare questa successione. Affermando ed utilizzando questo schema, venivano
rifiutati di conseguenza tutte le inversioni, gli iperbati, gli accidentali ecc.. tutto ciò che in Italia venne utilizzato prima
di quel periodo storico.

ILLUMINISMO MILANESE

Le idee che accomunano l’approccio illuminista francese a quello italiano. A Milano venne a formarsi un gruppo di
illuministi favorito da un regime soprattutto monarchico.

Il regime era illuminato a concedere alcuni diritti civili e migliorie nel vivere comune (come il catasto) e gestito da
Maria Teresa d’Austria. Sebbene si trovasse sotto una monarchia, questa era illuminata e concedeva alla popolazione
qualche diritto fondamentale. Questi intellettuali si raccolgono attorno alla figura di Pietro e Alessandro Verri e la
data cardine è il 1764.

Nello stesso anno Beccaria fa uscire il suo romanzo “dei diritti e delle pene” su cui egli ragiona sulla giusta
proporzione che ci dovrebbe essere tra il delitto e la punizione, concedendo quindi ai carcerati una condizione
umana al non essere torturati; è una conquista all’avanguardia in quel momento storico e che vede il carcere come
un’occasione per rieducare. (Il carcere minorile di Milano è titolato a Beccaria).

Altre figure illuministe importanti all’epoca: Verri, Algarotti, Bettinelli.


Sempre nel 1764 viene fondata una rivista di nome “il caffè”, dai fratelli verdi, che diventa l’organo di stampa tramite
cui gli illuministi milanesi facevano uscire le proprie idee. L’illuminismo Lombardo prende una forma autonoma
rispetto a quello francese e si fa promotore in modo anche attivo di soluzioni originali.

Il caffè come titolo perché si erano diffuse delle botteghe di caffè, non solo per occasioni di ristoro ma come locali
che diventarono presto dei centri di aggregazione, occasioni di scambio, condivisone e di circolazione delle idee. E’
proprio da queste locande che la rivista prende il nome de “Il caffè”. Questi locali andarono a sostituire quella che
era la vecchia corte rinascimentale, ed erano centri di aggregazioni aperti a tutti non soltanto ai nobili.

Dal punto di vista linguistico gli illuministi italiani si esprimono con grande chiarezza e soprattutto attraverso il caffè.
Gli illuministi italiani avevano gli stessi ideali francesi ovvero anche loro optavano per una lingua lineare e semplice,
però si discordavano dal pensiero del Padre gesuita per quanto riguardava l’italiano; secondo gli illuministi, l’italiano,
come codice e come potenzialità, poteva tranquillamente raggiungere gli ideali illuministi.

Gli ideali di fondo erano molto simili alle soluzioni francesi.

Attraverso il caffè ed altre riviste come Frusta Letteraria e Lettere Virgiliane, gli illuministi italiani affermano ideali
moderni e del tutto paragonabili a quelli francesi. C’è il rifiuto della prosa arcaizzante e di una lingua ricca di
inversioni e arcaizzante in benificio di una lingua lineare che trasmetta con chiarezza il progresso delle idee. Ciò si
afferma con un atto ecclatante operato da Alessandro Verri sulla rivista “Il caffè”.

In un articolo del giornale nel 1764, scrive, “Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca”. Non si rifiuta il
vocabolario come oggetto ma bensì la lingua che nel vocabolario era codificata e sancita. Si rifiuta l’idea arcaizzante
della lingua e l’idea che ci si debba riferire ad una fase perfetta della lingua italiana che si trova nel fiorentino del
‘300.

Verri afferma la rinuncia tramite rivendicazioni;

1. come hanno avuto la possibilità il Petrarca e il Boccaccio di creare neologismi, anche noi vogliamo la
possibilità di creare neologismi. Non volevano riferirsi solo al numero ristretto di parole prese dal 300. Con l’avanzare
del progresso della tecnologia e della vita servivano parole nuove che esprimevano cose nuove.

2. La negazione della perfezione della lingua. La lingua segue il progresso delle idee ed è in continua evoluzione.
Non ha mai raggiunto la perfezione.

3. La possibilità all’adozione di stranierismi. Un’apertura di natura moderna. Il progresso in Francia era


all’avanguardia quindi le parole che venivano cognate in Francia potevano essere inserite nel sistema lessicale
italiano dell’epoca.

“Se dipendesse dai grammatici, sapremmo che «carrozza» si scrive con due r, ma continueremmo ad andare a piedi”
in altre parole, un conto è l’appunto sulla lingua e sugli ideali linguistici da adottare, e un conto è una lingua che
segua il progresso e che vada dietro al progresso delle idee, della scienza, della tecnologia e della filosofia.

La realtà rispetto a queste affermazioni è un po’ discordante. Da un lato gli illuministi si pronunciano con netta
decisione in beneficio di queste idee moderne e illuministe, e dall’altro lato invece, se analizziamo le opere dei vari
intellettuali illuministi possiamo notare che la pratica non è corrispondete alle affermazioni teoriche.

Es. Notti romane di Verri. La lingua nella sua opera ha ancora un forte grado di subordinazione, subisce ancora forti
inversioni, iperbadi…. Un conto quindi è l’affermazione di un ideale e un conto è la pratica linguistica; le due non
sempre corrispondono e non sono necessariamente legati da un rapporto cause ed effetto.

Accademia della crusca

Importanza delle accademie nel 500


La soluzione bembiana si afferma molto rapidamente nel 500. Un esempio eclatante è l’esempio di Ludovico Ariosto
che pubblica la terza ed ultima edizione del suo poema Orlando il Furioso nel 1532 seguendo i dettami delle prose
della …lingua (?) e in particolare il suo terzo libro risulta essere quello più grammaticale dell’opera del Bembo.

La reazione degli intellettuali fiorentini è molto diffidente all’inizio, nei confronti delle teorie del Bembo, anche a
confronto delle diverse grammatiche bembiane che escono in quel periodo. Firenze non si sente più come il centro
politico, culturale e linguistico come prima ormai sembra essere emarginata.

I Fiorentini non avvertivano la necessità di utilizzare regole bembiane siccome deviati dal fiorentino argentio,
impuro.

Bembo ritiene che fosse un problema essere nati a Firenze se si voleva mettere in pratica la lingua delle tre corone.

Firenze per motivi politici e culturali per riprendere la centralità nel magistero delle lingue si riattiva per ritornare ad
essere il centro del discorso. Cosimo de Medici richiede quindi, all’accademia fiorentina una stabilizzazione ufficiale
della lingua fiorentina, un atto politico e culturale. Questa accademia, dopo molti dibattiti non giunse a una decisione
definitiva e non accolse la richiesta di Cosimo de Medici.

Uno strumento normativo come la grammatica non fosse adeguata a una lingua che non poteva essere fermata nella
sua libera crescita. Gelli quindi, si sfila dal progetto perché convinto che una lingua viva come il fiorentino non
potesse essere fermata nella sua «Libera crescita».

Dall’accademia fiorentina esce solo un lavoro individuale, una grammatica, a titolo personale di Giambullari nel 1552
chiamato “de la lingua che si parla e si scrive in Firenze” a differenza del Bembo si insiste sul parlato e sullo scritto. Il
tempo è presente, ovvero si insiste sulla lingua parlata e scritta di adesso quindi anche ad un riferimento e
un’apertura alla Firenze moderna.

Questa grammatica fa da introduzione a un’opera di Gelli: “la difficoltà di mettere in regole la nostra lingua”; è
impossibile che la lingua viva e ingabbiata in una soluzione troppo normativa. L’accademia fiorentina non influisce in
nessun modo sulla situazione del 500, ed era interessata più che altro a riportare a Firenze il primato del magistrato
della lingua. L’accademia fallisce e a portare a termine questo lavoro sarà l’Accademia della Crusca.

L’Accademia della Crusca viene fondata nel 1582. Era un’accademia privata e non patrocinata come l’Accademia di
Firenze, da Cosimo de Medici, e quindi dal signore di Firenze. Era più che altro formata da un gruppo di Intellettuali.

Nel 1583 entra a far parte dell’accademia Lionardo Salviati che presto ne diventerà leader e l’ispiratore e colui che
detta agli accademici le idee linguistiche fondamentali. Prima dell’ingresso nell’accademia Salviati aveva avuto uno
scambio epistolare molto polemico e critico con T. Tasso sulla lingua da adottare nella GL.

Salviati critica molte delle soluzione linguistiche adottate nell’opera de “Gerusalemme Liberata” e scrive anche gli
avvertimenti della lingua sopra “il Decameron” 1584-86. Alludono a una rassettatura che voleva essere una sorta di
censura linguistica commissionata dal granduca Francesco di Toscana.

Da un lato si voleva affermare il magistero di Bembo nella sua grandezza letteraria, stile, lingua ecc, dall’altro lo si
voleva depurare dalle parti più basse, irrealistiche e immorali.

I simboli e i motti dei cruscanti è l’iconografia che scelgono di autoassegnarsi. Salviati e la “la brigata dei crusconi”
selezionavano la parte migliore della lingua italiana (identificata con il fiorentino del 300) e la separavano da tutte le
impurità successive; un po’ come “si separa il fiore di farina dalla crusca”.

Il simbolo ufficiale degli accademici quindi, è il frullone, un macchinario che separa il fiore della farina dalla crusca.
Il motto degli accademici rimanda ad una metafora contadina” il più bel fiore ne coglie” ovvero, cogliere la lingua più
pura scartando tutte le parti ritenute impure. Ogni accademico adottava una pala e su questa veniva dipinta
un’immagine; ciascuno accademico sceglieva un’immagine, un proprio motto e adottava anche un nome in codice
(es. Salviati si nominò l’infarinato, il suo motto era “grufolando” e la sua immagine ritraeva un animale).

Vocabolario della crusca. E’ un’attività lessicografica che parte dal 1591 con il canone di autori modellato quasi
interamente sulle idee e decisione di Salviati e concluso uno spoglio linguistico sugli autori, gli accademici si
autofinanziarono per pagare le stampe del vocabolario e questa decisione garantì loro una libertà dal potere politico,
e anche la possibilità di adottare un estremo rigore nel metodo lessicografico e le scelte operate.

Non tutti aderirono a questo autofinanziamento; L’accademico Romolo Riccardi per esempio, un mercante
fiorentino, rifiutò di partecipare al finanziamento sulla grossa incertezza di successo di questo vocabolario. La prima
edizione del Vocabolario uscì stampato a Venezia nel 1612, Salviati era già morto.

Nell’immagine possiamo vedere la copertina della prima edizione stampata a Venezia; in piccolo si riesce a
distinguere il simbolo degli accademici, il frullone. L’attività lessicografica dell’edizione del vocabolario non era
ispirata in modo ortodosso ai criteri bembiani. Sebbene la soluzione fosse quella arcaizzante e la lingua di spoglio
fosse la lingua del fiorentino del 300, il vocabolario non si limitava alla lingua delle 3 corone come Bembo aveva
descritto, ma i cruscanti volgono l’attenzione al 300 per se’ stesso.

Quasi a dire che il primato della lingua non era giunto in virtù dell’attività del singolo autore ma l’eccellenza della
lingua appartiene alla fiorentinità, al fiorentino del 300. Quindi si toglieva il primato a grandi autori come Boccaccio,
Dante e Petrarca e lo si assegnava a chiunque appartenesse alla fiorentinità/ fiorentino del 300. Tutta la lingua
praticata da chiunque era ritenuta eccellente.

Il primato della fiorentinità in se’ piuttosto che il primato di un singolo autore. Le fonti a rimarcare questa scelta a
rimarcare la scelta utilizzata degli accademici non erano solo opere letterarie ma anche manoscritti, opere letterarie
di autori minori, marginali, inedite, scripte non esplicitamente letterarie ecc… tutto ciò sottolineava l’importanza
della fiorentinità della lingua scritta del ‘300 e non più la grandezza dei noti autori.

• Alcuni fiorentinismi: brobbio (vergogna), serqua (dozzina), ricadia (molestia), uguanno (quest’anno –
Decameron e Novellino) (Vitale, 1986)

Nel vocabolario sono presenti autori fiorentini trecenteschi e si nota l’eclatante esclusione di T. Tasso. Altri letterari
prestigiosi vengono inseriti anche non facendo parte dell’epoca 300escha ma il Tasso no. Un’esclusione molto
pesante. Non incluso per la polemica avuta con Salviati per quanto riguarda “Gerusalemme Liberata”. La lingua
utilizzata nella GL era una lingua percepita irregolare, ricca di latinismi e scarsamente aderente al criterio Salvatiano.

La seconda edizione del vocabolario uscì nel 1623 con pochissime modifiche rispetto alla prima. Il lavoro era a cura di
Bastiano de Rossi.

Una novità che vediamo tra gli autori, è l’entrata di Galileo. Galileo porta con se’ un’apertura alla lingua scientifica,
alla lingua più moderna. Con le sue opere Galileo, rinnova notevolmente il linguaggio scientifico adottando delle
soluzioni in volgare che rispetto al latino, la lingua della scienza era una grossa novità.

Galileo piuttosto che usare grecisimi o latinismi, innova, introduce dei neologisimi totalmente volgari. (es.
cannocchiale, Grecismo Telescopio, galileo lo battezza con Cannocchiale tra Cannone e occhiale).

Redi e Magalotti (seguaci di Galileo), collaboreranno alla terza edizione

La terza edizione esce nel 1691, stampata a Firenze ed è la prima edizione che viene stampata in tre volumi e non più
in uno. Si notano diverse novità: per la prima volta vengono inseriti autori non toscani come Castiglione e Sannazzaro
e inoltre, vi è l’inserimento del T. Tasso nel vocabolario.

Le voci antiche non più usate venivano contrassegnate da v.a “voce antica”, ovvero non sono più esempio da
imitare, ma si registrano solo per una semplice documentazione.
L’Ottocento: Manzoni
L’Ottocento con Manzoni è stata l’ultima tappa che ha portato all’affermazione del fiorentino come variante base
per la formazione e la costruzione di una vera e propria lingua nazionale.

Prima di addentrarci nel pensiero linguistico di Manzoni, dobbiamo dare una contestualizzazione sul periodo storico
preso in esame, in particolare relativa al panorama culturale, intellettuale nel quale si trovò ad emergere la
riflessione manzoniana.

All’inizio del 800 le posizioni linguistiche principali erano: il purismo, il classicismo e il romanticismo.
Partendo dal purismo possiamo dire che, secondo i puristi, il modello linguistico al quale auspicare, facendo
riferimento alla scrittura e quindi ad una lingua di uso scritto-letterario, era sicuramente il modello linguistico del
tosco-fiorentino trecentesco. Il purismo propone quindi ancora una volta un trecentismo arcaizzante e l’immagine
del Trecento come secolo d’oro.

Il canone bembiano e poi anche quello di Salviati, che aveva ispirato la Crusca, viene modificato e reso ancor più
ancorato al secolo dai puristi. Infatti, nella loro concezione non bisognava guardare solo alla produzione scritta dei
grandi autori del Trecento (come per esempio le tre corone) ma tutti gli autori, anche quelli minori, del Trecento
erano passibili di spoglio, ovvero potevano essere presi in considerazione come modelli linguistici poiché nel
Trecento tutti gli scrittori possedevano una buona lingua.

Tra i massimi esponenti dei puristi va ricordato Antonio Cesari, che è noto soprattutto per la sua massima impresa,
ovvero “La crusca veronese” che consiste in una revisione della quarta edizione del vocabolario della Crusca, in
direzione toscanizzante e trecentista. I puristi furono fervi di avversari dei dialetti e oppositori anche dei
forestierismi, e sono noti i loro repertori appunto con liste di proscrizione, liste di parole da evitare, prevalentemente
quindi dialettismi e forestierismi.
Altro esponente del Purismo è anche Basilio Puoti, fondatore della scuola Napoletana nel 1825.

I classicisti hanno, invece, una posizione diversa da quella dei puristi. Condividono con i puristi una vigorosa
polemica antifrancese ma al contempo propongono una apertura del canone oltre gli autori del ‘300, in particolare
per loro non era tanto rilevante il secolo nel quale si era scritto, ma la qualità della scrittura per questo i più
importanti esponenti del classicismo, tra i quali figura anche Giacomo Leopardi, prediligono gli autori del ‘500
piuttosto che quelli del ‘300.

Altro esponente rilevante, diciamo il principale esponente del classicismo è Vincenzo Monti, autore di una proposta
di correzioni, poi aggiunte al vocabolario della Crusca, il quale criticò l’impostazione arcaizzante del vocabolario e
anche l’assenza di termini scientifici di una certa vitalità a inizio ‘800, come botanica, chimica, quindi termini che
andavano a designare le singole discipline.

Infine, abbiamo la posizione romantica; i romantici sono oppositori soprattutto dei puristi e rivalutano i dialetti che
considerano come manifestazione linguistica viva. I romantici riscoprono l’uso del dialetto come codice linguistico
più genuino e spontaneo e contemporaneamente sono alla ricerca di una lingua comune, non soltanto da un punto
di vista letterario ma come vero e proprio strumento sociale.

Manzoni muove dalle posizioni romantiche ma darà vita ad una riflessione linguistica del tutto autonoma ma intrisa
di elementi di originalità.

Le riflessioni linguistiche di Manzoni sono contenute in diversi scritti di varia natura, alcuni editi mentre altri inediti. Il
primo che possiamo citare e divenuto celebre è la lettera all’amico storico e critico letterario Claude Fauriel nel 1806.
In questa lettera, Manzoni, molto precocemente mette in evidenza in maniera molto netta il problema linguistico
dell’Italia come si può capire leggendo il seguente passo:
«lo stato d’Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l’ignoranza quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua
parlata e la scritta, che questa può dirsi quasi una lingua morta».

E’ quindi subito sottolineata la discrepanza tipica della nostra storia linguistica, tra l’oralità dominata dal dialetto, e
una lingua scritta talmente arcaizzante, letteraria e distante dal parlato da poter essere definita effettivamente una
lingua morta. Gli scritti poi precipuamente linguistici del Manzoni, prima dell’importante relazione del 1868, sono il
“Sentir Messa” collocabile tra il 1835 e 1836, e il trattato rimasto incompiuto “Della lingua italiana” avviato circa nel
1830 ma continuamente rimaneggiato da Manzoni nel corso della sua esistenza, al punto che poi lui definì “l’eterno
lavoro”.

Infatti, per più di 30 anni cercò di rivedere, aggiustare e ampliare questo trattato che conosce ben 5 redazioni,
questo per testimoniare l’importanza attribuita da Manzoni al problema linguistico e la sua ricerca di una teoria e
una filosofia che potesse effettivamente risolvere il problema italiano.

Il pensiero intorno alla lingua di Manzoni è determinato e continuamente alimentato dal lavoro sul suo romanzo: I
promessi sposi.
“I promessi sposi” costituiscono, infatti, un uniqum della nostra storia letteraria; prima di questo romanzo non
c’erano stati esempi significativa di una produzione romanzesca, che mettesse in scena anche personaggi di
estrazione bassa, dei popolani come sono per esempio Renzo e Lucia, ed è per questo che Manzoni, di fronte a
questa sua opera, incontra il problema della lingua da adoperare per restituire anche la viva oralità di questi
personaggi.

I promessi sposi conoscono 3 versioni e 2 edizioni. La prima versione nota, diciamo l’abbozzo, è il “Fermo e Lucia”
(1821-1823), un abbozzo che non soddisfa le esigenze e il gusto stilistico di Manzoni, che definirà poi come un
“composto indigesto”, per una ragione puramente linguistica.

Manzoni constata all’interno di questo suo scritto una lingua troppo ibrida, per cui su una patina toscaneggiante, del
tutto omologa alla prosa risorgimentale del suo tempo con tanti lombardismi e francesismi che rendevano
effettivamente la lingua di questa versione eccessivamente composita e poco omogenea.

Per questa ragione Manzoni comincia a rimaneggiare la veste linguistica del romanzo arrivando alla elaborazione dei
“Promessi sposi” che vengono pubblicati nella prima edizione tra il 1825 e il 1827. Questa edizione è nota con il
termine “Ventisettana”.

Il lavoro correttorio del Manzoni è un lavoro che si riconduce alla fase Toscano-Milanese, cioè la fase in cui Manzoni
cerca di avvicinare la lingua del romanzo al tosco-fiorentino, ricercando corrispondenze fra il toscano e il milanese.
Lo fa per via libresca, ovvero attraverso lo spoglio degli autori della tradizione comica toscana del ‘500 e prendendo
in considerazione i vocabolari, postillandone alcuni tra cui il vocabolario della Crusca e il vocabolario Milanese
Italiano di Francesco Cherovini del 1814.

Neppure la Ventisettana tuttavia soddisfa l’autore. Manzoni, infatti, avvicinandosi al fiorentino per via libresca non
riesce ad individuare una lingua che possa riprodurre le parti dialogate ossia le parti del parlato tra i vari personaggi,
che risultavano effettivamente esprimersi in un tosco-fiorentino troppo affettato e troppo letterario; per questo
abbiamo l’ultima edizione del romanzo che condurrà all’edizione definitiva, la cosiddetta Quarantana poiché
pubblicata tra il 1840 e il 1842.

In questa ultima versione Manzoni approda all’uso del Fiorentino vivo, dell’uso colto. L’approdo a questa soluzione
linguistica è determinato da un’esperienza paradigmatica per Manzoni, ovvero il viaggio a Firenze del 1827.
Immergendosi nella viva quotidianità di Firenze si rende conto di quanto il fiorentino vivo fosse distante da quello
appreso attraverso i libri, e pertanto ritenne necessario appropriarsi di quel codice vivo per poter stendere il
romanzo nella forma linguistica più degna e più giusta.

Per questo Manzoni effettua la famosissima risciacquatura dei panni in Arno, si avvicina a questo fiorentino vivo,
dell’uso colto e lo fa attraverso delle vere e proprie inchieste dialettali, richiedendo consulenza linguistica ad amici e
conoscenti fiorentini. Queste inchieste avvenivano spesso anche in forma epistolare ed è appunto nota la
corrispondenza con Giovanni Battista Niccolini, Gaetano Cioni e soprattutto l’istitutrice Emilia Luti che aiuteranno
Manzoni a trovare i corrispondenti fiorentini dell’uso vivo da poter inserire nel suo romanzo.

L’intervento correttorio di Manzoni dalla Ventisettana alla Quarantana tocca diversi aspetti:
-In primo luogo Manzoni procede ancora in direzione dell’eliminazione di lombardismi, che risultavano ancora
presenti nella Ventisettana, per cui ad esempio una voce schiettamente milanese come “tosa” diventa “ragazza”
nella Quarantana.
-Manzoni introduce inoltre proprio delle forme fiorentine dell’uso vivo, e anche questo è un intervento che riguarda
più piani linguistici, quindi sia la fonetica, che la morfosintassi e il lessico. In campo fonetico Manzoni opera in
direzione del monottongamento, quindi forme che presentavano nel Ventisettana il dittongamento vengono
corrette e monottongate come: muove = move
-Questo intervento non è però sistematico da parte di Manzoni ed alcune volte il dittongo viene lasciato ma invece
elimina proprio in maniera più perentoria il dittongo dopo un suono palatale, per cui per esempio la voce “giuoco” è
modificata in “gioco”.
-Al contempo riduce il gradiente di letterarietà di questo romanzo, abbassando il tono letterario in tutti i campi e per
esempio è molto massiccio l’intervento sulla sintassi che viene resa più snella, più ipotattica e più aperta anche a
fenomeni dell’oralità.

Un esempio morfologico: i pronomi personali, che nella Ventisettana potevano ancora essere quelli più ricercati della
prosa letteraria del tempo, vengono mutati con l’introduzione delle forme “lui, lei, loro”, che erano delle forme
bandite dalla letteratura e dalle “prose della volgar lingua” del Bembo. Oppure, sempre rimanendo in campo
lessicale, una voce come “pargoli” ricercata e sostenuta, viene trasformata nella più semplice “bambini”. Quindi,
quello che Manzoni ricerca è sicuramente una lingua più viva, meno letteraria e con uno stile più semplice.

-Manzoni procede anche all’eliminazione degli allotropi, per un suo personale gusto e per l’omogeneità. Gli allotropi
sono forme concorrenti per esprimere uno stesso significato. Nel ‘800, ad esempio, si alternavano sia la forma
“questione” che la forma “quistione”; Manzoni, quindi, nella sua revisione del romanzo propende per il tipo con “e”
che poi in effetti è quello che poi è sopravvissuto fino ad oggi.

Dopo l’unificazione nazionale del 1861 Manzoni sarà chiamato dalle istituzioni a esporre in maniera sistematica una
sua teoria per la creazione di una lingua nazionale che a conti fatti non esisteva essendo la maggior parte del paese
largamente dialettofono; per tanto Manzoni invierà al ministro dell’istruzione Emilio Broglio una “relazione sull’unità
della lingua e i mezzi per diffonderla” del 1868.

La relazione è lo scritto linguistico edito più importante di Manzoni, nel quale convogliano tutte le sue riflessioni
legate alle revisioni dei “Promessi sposi” e tutte le teorie linguistiche che aveva esposto nel “Sentir Messa” e nel
trattato della lingua italiana. In particolare, nella relazione, Manzoni propone come lingua da adottare per la nuova
nazione appena nata il fiorentino dell’uso vivo, proposto come lingua modello. Questa sua proposta poggia su alcuni
concetti basilari, in particolare l‘autorità dell’uso, ossia la lingua che doveva essere estesa alla nazione doveva essere
una lingua usata, già fatta e non da farsi, dotata di un suo sistema nettamente funzionante.

Infine, questa sua teoria si basava sulla concezione che ogni idioma, quindi anche il dialetto, fosse uno strumento
neutro di comunicazione; per questo anche un dialetto, come quello fiorentino, era degno di essere utilizzato come
lingua estendibile a tutta la nazione.

Il principio secondo il quale il fiorentino poteva essere esteso a tutta la nazione, era il principio di sostituzione: tutti i
dialetti di Italia dovevano quindi essere sostituiti con il fiorentino vivo e in questo modo in Italia si sarebbe diffusa
una lingua nazionale così come in Francia si era diffusa una lingua nazionale a partire da un unico centro propulsore,
ossia Parigi.

Nella sua relazione Manzoni indicava anche alcuni strumenti utili per propagare il fiorentino vivo all’intera nazione e
tra questi strumenti avevano un’importanza rilevante i vocabolari, quindi i vocabolari dialettali e anche quelli
dell’uso di Firenze. Uno dei più importanti vocabolari di ispirazione Manzoniana è stato il “Novo vocabolario della
lingua italiana secondo l’uso di Firenze” edito tra il 1870 e il 1897 e realizzato da Broglio e Giorgini, genero di
Manzoni. In questo vocabolario si pone come modello linguistico il fiorentino vivo, dell’uso.

Come mai “Novo”?


Come abbiamo già visto Manzoni aveva scelto di modificare molte forme dittongate con il monottongo, questo
perché nel fiorentino moderno era avvenuto questo fenomeno detto rimonottongamento, quindi questo vocabolario
si adegua a questa tendenza del fiorentino e si apre, sin dal titolo, con questa dichiarazione implicita di assoluta
adesione alla lingua fiorentina viva.

Manzoni, inoltre, attribuisce un’importanza rilevante alla scuola nel processo di unificazione linguistica della
penisola, per questo come strumento di diffusione del fiorentino in tutta Italia Manzoni proponeva l’invio di
insegnanti fiorentini nelle scuole o anche il soggiorno per insegnanti non fiorentini a Firenze o in Toscana, in modo
tale che anche loro contribuissero a diffondere nelle scuole il modello linguistico del fiorentino vivo.

Sempre rimanendo in contesto scolastico secondo Manzoni era necessario anche far circolare manuali, grammatiche
e soprattutto libri di lettura per le scuole in fiorentino, in modo tale da propagare in maniera più sistematica e
radicale il nuovo strumento linguistico. Si assiste quindi, nella seconda metà dell’800, ad una vera e propria
proliferazione di letteratura per l’infanzia e manuali didattici con veste linguistica improntata alla lezione
manzoniana

Tra i testi di narrativa per bambini e ragazzi che circolavano ai tempi vediamo “Le avventure di Pinocchio” del 1883 di
Carlo Collodi e “Cuore” del 1886 di Edmondo De Amicis. In entrambi i testi il modello linguistico proposto è
improntato alla viva toscanità e pullulano di proverbi, dommatismi toscani, voci fiorentine e sono testi nel quale si
ricerca uno stile più colloquiale, uno stile tendente all’oralità in linea al criterio della lingua dell’uso.

Tra i testi narrativi per l’infanzia troviamo anche “Le memorie di un pulcino” di Ida Baccini, che era effettivamente un
testo che concorreva con Pinocchio per il numero di edizione e il successo ottenuto.

Bisogna ricordare, tuttavia, che l’adesione al modello Manzoniano non fu univoca e Manzoni conobbe diversi
oppositori tra cui il dialettologo Graziadio Isaia Ascoli, fondatore della rivista “Proemio all’Archivio glottologico
italiano” del 1873. Nel proemio Ascoli prende le distanze dalla proposta manzoniana e mette in primo piano
l’arretratezza culturale dell’Italia e il suo dilagante analfabetismo che avrebbe reso l’imposizione di un modello
linguistico molto difficile e poco concretizzabile.

Partendo da considerazione legate alla situazione socio-culturale dell’Italia, Ascoli critica il paragone con la Francia e
Parigi fatto da Manzoni; secondo lui le due nazioni non erano assolutamente paragonabili proprio perché si
trovavano in condizioni socio-politiche e socio-economiche molto diverse e l’ignoranza e l’arretratezza culturale di
molte regioni italiane la rendevano poco avvicinabile al modello francese.

Nel proemio viene inoltre criticata la modalità con la quale Manzoni pensava di poter diffondere una lingua
nazionale, viene criticata l’imposizione dall’alto e secondo lui la lingua comune avrebbe dovuto sorgere in modo più
naturale e spontaneo, e per poterlo fare era in primo luogo necessario far circolare di più la cultura; solo attraverso
una maggiore circolazione della cultura, una lotta endemica all’analfabetismo, la circolazione di informazioni e i
contatti tra le persone sarebbe stato possibile procedere verso una vera unificazione linguistica del paese.

Ascoli inizia la sua critica proprio partendo dal titolo del vocabolario preso in considerazione da Manzoni; trova che
questa imposizione di una forma monottongata in tutta Italia, laddove invece si era soliti utilizzare il dittongo, fosse
un chiaro esempio di come l’imposizione dall’alto e un atteggiamento prescrittivo come quello messo in atto da
Manzoni e dai suoi seguaci, potesse creare delle situazioni paradossali e risultare inapplicabile, dato che la lingua
scaturisce dall’uso e non da direttive normative.

Nella lettura del passo di Giuseppe Polimeni, viene data ragione ad Ascoli e si ritiene paradossale l’abolizione del
dittongo e paradossale negare le variazioni diatopiche e diacroniche che sono tipiche di ogni lingua storico-naturale.

Tuttavia, nonostante i principi della critica Ascoliana fossero largamente condivisibili, alla fine fu la teoria
Manzoniana a prevalere. Facendo un parallelo a quanto successo nel ‘500, possiamo dire che la ragione di questa
“vittoria” della proposta manzoniana è analoga a quella che portò a far prevalere la teoria del Bembo sulle altre
teorie cinquecentesche.

Sia la teoria del Bembo che quella Manzoniana sono teorie che forniscono degli strumenti operativi più applicabili,
sono teorie che oltre poggiare su solide motivazioni teoriche, forniscono anche delle indicazioni delle linee guida
applicabili.

Tuttavia, passò lungo tempo prima che si arrivasse ad una diffusione panitaliana/nazionale del modello linguistico
fiorentino, e questo per diverse ragioni: si può prendere d’esempio le drammatiche che circolavano nelle scuole, che
non si adeguarono alle proposte Manzoniane e continuavano a proporre una lingua per certi versi bembiana, con
alcuni tratti arcaici e letterari.

Quindi era facile che nelle grammatiche della seconda metà dell’800 continuassero ad essere proposte forme
pronominali come “eglino” ed “elleno” per “loro”, oppure che non venissero indicati i pronomi “lui, lei, loro” in
funzione di soggetto oppure che fossero anche presenti delle forme come “Io aveva” in un imperfetto etimologico
che era quello indicato e suggerito dal Bembo nelle “Prose della volgar lingua” e che invece poi Manzoni aveva
sostituito con il più corrente “Io avevo”.

Naturalmente il passaggio all’italofonia e quindi anche la conseguente riduzione della dialettofonia sono dei
traguardi che si raggiungono in maniera molto lenta e graduale. Lungo tutta la seconda metà del ‘800 i dialetti
continuano ad essere vitali nell’oralità e anche nella letteratura realistica con soggetti popolari, continuando così ad
essere una risorsa linguistica adoperata  per esempio “Piccolo Mondo Antico” di Antonio Fogazzaro, in cui il
dialetto Veneto e Valsoldese sono massicciamente presenti e visti come strumenti di evasione dalla tradizione.

Si deve aspettare il ‘900, il 20esmio secolo perché si arrivi ad un conguaglio linguistico più sistematico su scala
nazionale e si deve dire che l’unificazione linguistica venne favorita da più fattori, soprattutto di natura socio-
economica. Innanzitutto, il miglioramento del sistema scolastico e le riforme governative e istituzionali legate al
mondo della scuola, che comportarono alla crescita di alfabetizzazione  da un grado di analfabetismo del 60% nel
1861, si passò al 40% nel 1911.

Inoltre anche il processo legato alle migrazioni interne, legato alla nuova industrializzazione, all’urbanizzazione ossia
lo spostamento dei cittadini dalla campagna alla città, che favorirono i contatti linguistici e l’abbandono del dialetto
d’origine per l’appropriazione di un codice linguistico unico che consentisse la comunicazione e favorisse gli scambi
comunicativi.

Non bisogna dimenticare anche il ruolo dell’amministrazione e della burocrazia; la centralizzazione dell’impianto
burocratico e la sua creazione su scala nazionale ha favorito la diffusione di un italiano burocratico, di un registro
abbastanza elevato e formale a tutta la nazione.

Il servizio militare obbligatorio ha avuto anche esso una importanza determinate perché favoriva i contatti tra i
differenti militari provenienti da aree linguistiche e diatopiche molte diverse.

L’ultimo fattore di unificazione è sicuramente il fenomeno della stampa e la diffusione di informazioni giornalistiche,
inizialmente cartacee e successivamente l’avvento dei nuovi mass media, partendo dalla radio ed arrivando infine
alla televisione, ad internet e poi ai social media.

Questi fattori hanno portato da una situazione di monolinguismo dialettale, che era quella predominante al
momento dell’unificazione nazionale, ad una situazione di bilinguismo con diglossia, ovvero una situazione in cui i
parlanti possiedono entrambe le varietà, ovvero l’italiano e un proprio dialetto che usano con modalità e in situazioni
diverse. Questa situazione di bilinguismo con diglossia oggi è sicuramente da rivedere dal momento che sono diversi
gli studi che segnano una perdita progressiva della competenza dialettale da parte degli utenti della lingua italiana.

DAL SECONDO ‘800 AL PRIMO ‘900

Nella lezione precedente, si sono visti i fattori scolastici ed extrascolastici che, a partire dall’unificazione politica
del nostro paese, hanno concorso alla diffusione dell’italofonia. A questi può aggiungersi, ancora una volta, il
fattore letterario, fondamentale per la diffusione di un’italofonia a base fiorentina. Insieme al successo de “I
Promessi Sposi”, che possiamo ricordare ebbero piu di settanta ristampe tra il 1827 e 1840 e circa 60/70 mila
copie vendute (cifre di tutto rispetto per il mercato editoriale di oggi e soprattutto per
quello ottocentesco) e che possono considerarsi il primo “best seller” della letteratura italiana, ci furono altre
opere esemplate su modello manzoniano, che ebbero enorme successo e che condussero questo stesso
modello ai quattro angoli del paese.

Le opere più rappresentative di questo filone manzoniano sono:

o “Cuore”, pubblicato nel 1886 da Edmondo de Amicis, scrittore ligure, nato in provincia di Imperia.
 Era uno scrittore di stretta osservanza manzoniana.

 “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, pubblicato nel 1891 da Pellegrino Artuosi,
ripubblicato più volte fino alla 14esima edizione nel 1910.

 Usa un linguaggio nuovo, che rompe la tradizione bisecolare fondata su francesismo.


 Ottiene il grande merito di uniformare, chiarificare e razionalizzare il lessico della cucina. Adotta la lingua
di Firenze nella freschezza del suo tono medio, nella ricchezza e vitalità della tradizione parlata, che però
si affianca a quella scritta e letteraria.

o “Le avventure di pinocchio”, pubblicate nel 1883 da Carlo Collodi.

-Scrittore fiorentino, pubblica quest’opera esemplandola in una lingua fiorentina viva di tono medio, equidistante
sia dal livello letterario che da quello ultrapopolare. Allo stesso tempo una lingua viva per le continue incursioni nel
registro parlato più o meno famigliare.

o Es: Capitolo 6: compaiono numerose voci tosco-fiorentine, anche perché si tratta di un capitolo in cui agiscono
solo Pinocchio e Geppetto (sono chiusi nel loro ambiente e usano linguaggio familiare).

[slide 2, vedi testo: in rosso le parole tosco-fiorentine, in blu le voci più popolari].

Molti sono i toscanismi penetrati nella lingua comune che risalgono a queste opere di grande diffusione.

I. Es: sono toscanismi espressioni come “un sacco” e “un’asporta”, “come dire al muro”, “parlare come
un libro stampato”

Il modello manzoniano, che era ispirato all’uso vivo, diventò subito qualcosa che si poteva imparare
attraverso l’imitazione di un modello scritto.

Nelle lezioni precedenti si è visto come in Italia, dopo l’unità politica, diversi furono i fattori che
concorsero a una progressiva unità linguistica. A quelli visti se ne può aggiungere un ulteriore: si
tratta nella fattispecie di un evento tragico, quale fu la prima Guerra mondiale (1915-18). Il conflitto
obbligò uomini provenienti da parti diverse d’Italia, a vivere per lunghi periodi di tempo gli uni
accanto agli altri, e impose delle nuove urgenti necessità comunicative. Queste avevano riguardato
un numero davvero importante di persone: furono mandati al fronte circa più di cinque milioni di
uomini, dalle capacità linguistiche prevalentemente limitate (come per esempio contadini). Questi
uomini si trovavano ammassati in poche centinaia di km, sentivano la necessità di comunicare tra di
loro, ma anche con chi era rimasto a casa. Sotto quest’ultimo rispetto, si stima che in quattro anni e
mezzo, furono spedite quattro miliardi e mezzo di lettere e cartoline, sia dal fronte verso le varie
parti d’Italia, che viceversa.

1. Slide n°3: Abbiamo un esempio di queste lettere. A scrivere è un soldato del trentino, prigioniero di
guerra, che scrive alla moglie.

Si tratta di una scrittura trascurata, con interferenze dialettali, appartiene al “corpus” di italiano
popolare.

Possiamo notare come manchi la punteggiatura, gli accenti (riga 4), è frequente l’agglutinazione
delle parole “laltro” o “apensare” (riga 8), ci sono poche subordinate.
Per quanto riguarda la fonologia, ci sono scempiamenti consonantici, tipici delle varietà
settentrionali (“coltelate”), ma anche viceversa degli ipercorrettismi compiuti per volontà di
scostarsi dall’errore “passatti” (riga 7).

Il problema della norma linguistica torna alla ribalta durante il periodo fascista (1922-43). Non si
tratta più, come in passato, di dibattiti ma di politica linguistica. Quindi a indirizzi e normative che
sono mirate a modificare gli usi linguistici della collettività, per uniformarli su modelli dominanti che
sono italofoni.
Questa politica non è inizialmente coerente, ma lo diventa con la metà degli anni ’30.

In che cosa consisteva? Fondamentalmente aveva due obiettivi:

1. Controllare gli usi linguistici spontanei, quindi in primis i dialetti, attraverso la scolarizzazione e la
lotta all’analfabetismo. Collegati a questi obiettivi c’erano gli interventi contro i diritti delle
minoranze linguistiche, che vivevano e vivono sul nostro territorio.

1. A queste non era concessa la possibilità di uno statuto particolare.

1. Regolamentare l’afflusso di parole straniere, in primis negli usi pubblici, quindi sulla stampa, nelle
insegne commerciali ecc., ma anche nelle terminologie tecnico-settoriali.

Per quanto riguarda la lotta contro gli usi stilistici spontanei, o dialetti fondamentalmente, si puntò
molto sull’istruzione scolastica: con la “Riforma Gentile” del 1923, l’obbligo scolastico diventò più
rigido e si ripescò un metodo di insegnamento cosiddetto “Dal dialetto alla lingua”, per cui appunto
l’utilizzo dell’italiano avveniva a partire dalla base dialettale, cosi come facciamo noi oggi quando
impariamo le lingue straniere.

Le strutture dell’italiano

La lezione di oggi sarà la lezione con la quale introdurremo le strutture dell’italiano a partire dalla fonetica.

La prima importante distinzione da fare è quella tra fono e fonema che determina anche la distinzione, tra le due
discipline, ossia la fonetica e la fonologia. Possiamo definire il suono come la minima entità fonica di una lingua,
quindi Sostanzialmente i foni sono i suoni di una lingua. Pensiamo ad esempio alla pronuncia della parola Rana, la
parola rana può essere pronuncia normalmente con r alveolare, oppure per alcuni parlanti, che abbiano come
propria inclinazione la pronuncia uvulare, rana potrebbe essere pronunciata in maniera strana con la cosiddetta r alla
francese. Ma questi sono due poli della lingua italiana e il significato della parola assolutamente non muta. Quando
parliamo, invece di fonema, intendiamo la minima entità linguistica della lingua. Ossia, il fonema corrisponde sempre
suono e abbia però valore distintivo, ossia, il fonema è in grado di avere due parole di significato diverso: è quello
che succede è aperta o è chiusa per cui la pésca frutto mentre la pèsca è l'attività del pescare. Anche nelle parole
polli e colli sostanzialmente la P e la C sono due fonemi che permettono di distinguere le due parole parole la
fonologia invece riguarda più strettamente i fonemi

Siccome abbiamo detto i fonemi hanno come proprietà principale la proprietà distintiva, possiamo dire che i fonemi
hanno il compito di individuare delle coppie minime di parole. Le coppie minime sono appunto quelle parole che si
distinguono per un unico fonema, quindi alcuni degli esempi che vedete in questa slide: molla e colla due parole che
si distinguono per senso, significato, esclusivamente per un fonema. La m e la c, rapa rana costo posto fine mine,
tutte queste sono coppie minime.

C'è anche un altro modo di definire i fonemi, un modo che si legga alla teoria della doppia articolazione di André
Martinée, secondo Questa teoria le parole possono essere analizzate su due livelli che lui Chiama appunto prima e
seconda articolazione. Prendiamo ad esempio la parola gatto: in un primo livello di analisi quindi di prima
articolazione la parola può essere scomposta in monemi o meglio morfemi termine è stato da Bloomfield per cui
avremo il morfema gatt che è il morfema lessicale per quello che rimanda all'idea del referente, del felino che noi
tutti conosciamo. E poi andiamo la o che invece è un morfema grammaticale perché ci dà indicazioni legate al genere
e al numero della parola. Cioè sappiamo che gatto è di genere maschile e numero singolare. Utilizzando termini più
comuni gatt-, è la radice della parola e -o è la sua desinenza. In linguistica, i termini più specifici sono appunto
morfema lessicale e morfema grammaticale. Invece continuando a scomporre la parola gatto e arrivando a un livello
di seconda articolazione, possiamo ottenere i fonemi di questa parola quindi g-a-t-t-o, quindi a questo punto
possiamo dire che i fonemi sono anche le unità linguistiche di seconda articolazione.

Dalla teoria della doppia articolazione di André Martinée derivano due principi importanti della lingua ossia,
l'economicità linguistica è il principio di combinatorietà, infatti possiamo dire che a partire dalle unità di seconda
articolazione che sono i fonemi e che come Appunto vedremo sono pochi non sono tanti. Possiamo arrivare
attraverso di combinazione, cioè combinando assieme i fonemi, possiamo arrivare ad elaborare tante unità minime
di prima articolazione che sono i morfemi. A loro volta, unendo i morfemi, possiamo arrivare a comporre, a
combinare tantissime parole che unite insieme in catene sintattiche, possono arrivare a formare illimitate frasi.
Quindi da un inventario chiuso di segni, cioè i fonemi possiamo arrivare ad un inventario aperto di frasi. e questi
principi di economicità della lingua. Perché di fatto si serve di unità minime di seconda articolazione che sono poche
e dal principio di combinatorietà di queste unità linguistiche, arriveremo appunto a una possibilità di espressione
illimitata che è appunto caratteristica del linguaggio umano.

Allora, passando alla classificazione dei fonemi dell’italiano, abbiamo innanzitutto la distinzione fra fonemi vocalici e
fonemi consonantici, i fonemi vocalici sono quelli che vengono circolati senza alcuna ostruzione del canale orale, e
possono essere appunto rappresentati con un triangolo ribaltato, il triangolo vocalico. Al vertice del triangolo c’è la
vocale A che è una vocale centrale perché la lingua sta in posizione appunto centrale, è una vocale aperta e le labbra
sono completamente aperte per la pronuncia delle altre vocali, le vocali dell’italiano si distinguono in anteriori o
palatali e posteriori o velari, sono quelle che per essere pronunciate comportano un arretramento della lingua
contro il cosiddetto velo palatino, e sono anche delle vocali che possono essere definite “arrotondate” perché nella
loro pronuncia, progressivamente dalla O alla U le labbra si arrotondano sempre di più, le palatali invece vengono
pronunciate con una progressione in avanti della lingua, come la è, la e e la I che portano a un progressivo
restringimento del canale orale, quindi le vocali toniche sono 7 e sono a, è, e, i, o, ò, u. Quelli che vedete cerchiati
nella slide, sono i simboli dell’alfabeto fonetico internazionale per indicare la è e la e, aperte e chiuse (slide 6)

In latino le vocali erano 10 perché si distingueva la quantità vocalica, per cui le vocali che vedete raffigurate con un
trattino lungo sopra in latino erano pronunciate come lunghe, mentre invece quelle che avevano un archetto
ribaltato sopra erano vocali pronunciate come brevi. La quantità vocalica nel passaggio dal latino all'italiano si è
persa ed è mutata in realtà in una qualità vocalica, per cui sostanzialmente si è distinto tra la e chiusa e la è aperta e
la o chiusa e la ò aperta. Guardate. Fateci caso dalla è breve Latina e dalla o breve, Latina sono derivati anche i
cosiddetti dittonghi chi je, wo sui quali adesso ci soffermiamo

Dalle vocali brevi latine cioè ripeto per chi non avesse fatto latino quelle con L'Archetto ribaltato sopra, sono in
sillaba libera e accentata sono derivati in italiano dei dittonghi, per cui da pedem latino abbiamo avuto piede da
bonum latino, abbiamo avuto buono eccetera. Questo fenomeno Si chiama dittongamento toscano, il fenomeno per
cui in sillaba libera le vocali toniche quindi e e o derivate da è breve e da o breve sono dittongate è un fenomeno
tipico dei dialetti toscani e in particolare del Fiorentino, per cui è una spia fonetica questo fenomeno della
fiorentinità della nostra lingua tant'è che in alcuni dialetti da Pedem ma non si è avuto Piede. Pensate ad esempio al
napoletano dove il piede è o’pere senza dittongo.

I fonemi consonantici dell'italiano che vedete rappresentati nella tabella in questa slide si possono classificare in
base a più criteri, noi dobbiamo Infatti considerare il modo di articolazione che nella tabella è rappresentato dalla
colonna di sinistra. Dobbiamo considerare poi il luogo di articolazione che in questa tabella è rappresentato dalla
colonna orizzontale quindi abbiamo le bilabiali, le labiodentali, le dentali, le alveolari, le palatali e le velari e poi va
Considerato anche il carattere di sonorità e sordità in particolare, partendo da quest’ultimo, se le vocali sono dei
fonemi sonori.

Perché quando vengono pronunciate le corde vocali vibrano, invece le consonanti possono essere sia sorde che
sonore. Quanto al modo di articolazione le consonanti possono essere occlusive, cioè pronunciate con una
occlusione del canale orale e poi una sua brusca riapertura, tant’è che queste consonanti possono essere dette
anche esplosive. Sentiamo semplicemente alla p e alla B che appunto vengono prodotte. Con una esplosione,
abbiamo poi le consonanti nasali che vengono pronunciate con l'aria che esce dalle cavità nasali e possono essere
prolungate invece come come suoni, quindi abbiamo la M, la N. Le laterali sono invece incrociate con l'aria che
fuoriesce ai lati della bocca, abbiamo poi le vibranti.

Cioè in particolare la R che viene pronunciata facendo vibrare la lingua contro il palato e poi abbiamo le fricative che
vengono pronunciate facendo fuoriuscire l'aria appunto dalle labbra con i denti che poggiano contro il labbro
inferiore quindi abbiamo la F, la v che si è pronunciata unendo diciamo i denti facendo fuoriuscire l'aria dai denti, le
affricate sono delle consonanti miste, diciamo che vengono pronunciate in una comunione di una consonante
occlusiva e una fricativa per cui abbiamo la s, la z e per quanto riguarda le palatali, la c e la g, di fatto quindi ogni
consonante italiana potrebbe essere classificata con un nome ben preciso, facciamo soltanto qualche esempio: la p e
la b sono due consonanti occlusive, bilabiali perché le labbra si toccano quando vengono pronunciate

La P è Sorda perché le corde vocali non vibrano la b è sonora Perché invece le corde vocali vibrano. Oppure
prendiamo ad esempio le le affricate alveolari perché la lingua tocca gli alveoli dei denti sorda Ia z sorda e la dz
sonora. È importante subito chiarire che i simboli che vedete adoperati per indicare i fonemi sono simboli stabiliti
dall' alfabeto fonetico internazionale.

Nella tabella della slide precedete c'erano anche i fonemi W e j che sono rappresentati con i simboli j e w che erano
definite approssimanti nella tabella precedente; in effetti questi sono vicini alle vocali i e u, ma di durata più breve
che si possono trovare in dittonghi ascendenti, per esempio quello di piede o quello di uomo perché l'accento cade
sulla vocale successiva a j e W oppure si trovano in dittonghi discendenti come Faida o Feudo, dove l'accento invece
cade sulla vocale che precede questi due Fonemi se J e W si trovano in dittonghi ascendenti sono detti
semiconsonanti se si trovano in dittonghi discendenti sono dette semivocali. Sono effettivamente approssimanti
perché hanno un valore a metà strada tra quello vocalico e quello consonantico.

Sempre a proposito della fiorentinità va anche detto che se il dittongamento Toscano è una palese dimostrazione
della fiorentinità della nostra lingua ci sono però alcuni tratti fonetici del Fiorentino appunto che non sono mai stati
accolti dallo standard, uno di questi è quello in vignetta in cui abbiamo questo parlante Toscano, Batman, che viene
un po' preso in giro da Robin che dice, “allora sei di Firenze? Mi dici la hoha-hola hon”. Ecco in questo Balloon è
rappresentato il fenomeno della Gorgia Cioè la spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche, per cui Ad
esempio la parola Coca viene pronunciata la hoha quando la c si trova in posizione intervocalica. Inoltre un altro
tratto Toscano, ovviamente Fiorentino che non è passata l'italiano è anche la pronuncia fricativa delle Affricate
intervocaliche per cui i Fiorentini pronunciano pace ma pasce non pronunciano ragione ma rajone.

In questa slide potete vedere alcuni esempi di trascrizione fonetica. Infatti per poter trascrivere foneticamente una
parola, non si fa riferimento ovviamente al sistema grafico tradizionale, si fa riferimento alla alfabeto fonetico
internazionale. La parola inoltre viene generalmente posta tra parentesi quadre per indicare il fatto che si tratta di
una trascrizione fonetica; poi le sillabe vengono individuate con dei punti bassi, mentre l'apostrofo viene posto,
diciamo all'inizio della sillaba accentata. In più, per esempio la terza parola dall'alto Presenta i due punti all'interno
della sua trascrizione è, la parola piscina, i due punti vengono usati per indicare un suono che viene pronunciato
lungo pisciiina, se ci fate caso effettivamente la i viene pronunciata prolungando un po' il suo suono.

Allora in italiano Esistono delle incongruenze fra il sistema fonetico e il sistema grafico, cioè il modo nel quale
vengono rappresentati i fonemi nella scrittura, pensiamoci: può succedere che uno stesso grafema venga utilizzato
per rappresentare fonemi diversi, per esempio nelle voci strano e sberla, la stessa lettera, cioè lo stesso grafema è
utilizzato nella sibilante sorda di strano e la sibilante sonora di sberla. Cosi come, abbiamo fatto l’esempio di coppia
minima tra le parole pésca e pèsca Tuttavia è anche vero che della grafia la e aperta e e chiusa non vengono
segnalate e si usa il medesimo grafema per rappresentare i due fonemi.

Così come c’è uno stesso grafema per rappresentare il fonema gola, quindi l’occlusiva velare sonora “gola” e la g,
quindi la affricata palatale sonora di gelo. Altre volte abbiamo il problema opposto cioè grafemi diversi sono usati
per rappresentare lo stesso fonema, pensiamo alla c che può essere usata per rappresentare ch oppure con la
semplice c in calo. Oppure ancora quando abbiamo il suono c seguito dalla vocale u possiamo averlo rappresentato
con la c di cuore ma anche con la q di quota; oppure un altro problema che si può avere è l'esistenza di un grafema
che in realtà non ha una rispondenza fonologica, cioè non ha un suo grafema di riferimento, pensiamo alla h, Le
parole hanno e anno che vedete in questa slide distinte soltanto per la h. Non rappresenta nessun fonema si dice che
ha soltanto un valore diacritico, cioè serve effettivamente a distinguere due parole. Altro problema è che a volte
vengono utilizzate coppie di grafemi, coppie di lettere dunque per rappresentare un solo fonema, un altro problema
è quello della gn, la nasale palatale, ad esempio nella parola bisogno e rappresentata da due grafemi g ed n che
prendono il nome di digramma.

Aspetti fonetici da approfondire

Rispetto a quanto detto finora della fonetica ci sono alcuni aspetti, alcuni punti da approfondire e lo faremo in
questa seconda parte della lezione, cercheremo infatti di precisare alcune cose relative al dittongamento Toscano e
al monottongamento sempre Toscano. Considereremo alcuni sistemi vocalici alternativi a quello Fiorentino che
presenta, abbiamo detto sette vocali toniche, e considereremo anche il possibile Annullamento di alcune distinzioni
fonologiche dovuto sostanzialmente a variazioni diatopiche di pronuncia, non così regolamentate da corretta grafia
fonetica. E prenderemo in considerazione il caso delle della pronuncia di “e” e di “s” all'interno della penisola.

Allora innanzitutto abbiamo detto che il dittongamento Toscano ricordiamolo brevemente il fenomeno per il quale
da pedem latino, abbiamo piede; da bonum latino, abbiamo buono è appunto una spia fonetica importante della
fiorentinità della nostra lingua, ma vi ricordate il titolo del Giorgini Broglio? del vocabolario di ispirazione
Manzoniana per antonomasia “Novo vocabolario della lingua italiana”, secondo l'uso di Firenze, quel novo proprio
quel novo aveva fatto innescare una polemica. Tutto da Graziadio Isaia Ascoli. Ma perché non usare nuovo se il
dittongo uo in sillaba libera e accentata è appunto tipicamente Toscano? Dobbiamo ricordarci che il Giorgini Broglio
è stato pubblicato nella seconda metà dell'800 come adeguamento al criterio del Fiorentino, vivo, dell’uso colto
proposto da Manzoni; e dobbiamo ricordare che intorno al 6-700 in Toscana e a Firenze, era venuto il fenomeno
opposto al dittongamento, cioè il monottongamento da uo a o per la quale ancora oggi i Fiorentini non dicono uovo,
ma ovo non dicono buono, ma bono e non dicono nuovo, ma Novo per cui il dittongamento toscano è un Fenomeno
che ha avuto origine a Firenze in tempi molto precoci si pensa addirittura intorno all'ottavo secolo dopo Cristo, ma
molto più tardi tra sei e Settecento Firenze ha vissuto il fenomeno opposto.

Restiamo Sempre nell'ambito del dittongo e del monottongo perché avevamo detto parlando della revisione
linguistica dei Promessi sposi da parte di manzoni, che Manzoni aveva cercato di monottongare il più possibile le
forme che presentavano uo per adeguarsi al Fiorentino vivo dell’uso colto e questo intervento di Manzoni era stato
sistematico, soprattutto nelle parole terminavano uolo e nella parola Giuoco, quando c'è il dittongo uo avveniva
dopo suono palatale. Ora, se già Manzoni nella quarantana scriveva “gioco” c'è da dire però che il tipo originario,
quello quindi che si era originato a Firenze prima del Monottongamento avvenuto tra sei e Settecento, ossia il tipo
giuoco sopravvive ancora oggi e soprattutto nel regolamento del Giuoco del calcio ancora Appunto nel regolamento
calcistico, troviamo molto spesso, appunto la forma di giuoco e anche alcuni giornalisti sportivi continuano a fare uso
di questa parola. Questo per dire quanto effettivamente il lessico e la lingua in generale di testi regolativi e anche
burocratici lo vedremo porta mantenere dei caratteri tradizionali.

Abbiamo detto come il sistema vocalico dell'italiano derivi da quello Fiorentino e, è un sistema composto da sette
vocali toniche che possono essere rappresentate nel cosiddetto triangolo vocalico, va detto che chiaramente
esistono diverse destinazioni diatopiche in Italia e quindi esistono anche sistemi vocalici alternativi al Fiorentino, tra
questi occorre sicuramente ricordare perché fortemente contrapposte al Fiorentino e particolarmente rilevanti per
estensione diatopica: il vocalismo tonico del sardo e del siciliano in particolare da questo schema il sistema vocalico
del sardo non presenta L'opposizione qualitativa tra e ho Vocali aperte e chiuse gli anteriori che invece posteriori ma
presenta soltanto la è e o ò quindi tra vocali aperte e chiuse, quindi un sistema sia ad anteriori che a posteriori,
presenta soltanto la è e la o chiuse è un sistema a cinque vocali toniche, non è esclusivo della Sardegna perché
riguarda anche la cosiddetta area Lausberg dal nome appunto del tedesco che la proprio individuata nel 1939 è
diciamo un'area che si estende dalla Lucania alla Calabria e comprende principalmente la Lucania meridionale e la
Calabria settentrionale oltre a punto chiaramente alla Sardegna.

Anche il sistema vocalico del siciliano presenta cinque vocali in posizione tonica e non sette in questo caso
scompaiono la e e la o chiuse, mentre abbiamo soltanto è aperta e o aperta.
Non abbiamo parlato del vocalismo atono, cioè dei fonemi vocalici in posizione non accentata. Bene, diciamo che il
fiorentino ha cinque vocali in posizione atona. Cioè non accentata, che sono quelle che vedete rappresentate in
questa tabella che fa sempre vedere, mostra l'affiliazione dal sistema vocalico latino per cui abbiamo a-e-i-o-u,
invece il siciliano si contrappone fortemente a questo vocalismo atono perché in posizione non accentata presente
esclusivamente le vocali a i u.

Differenze diatopiche (pronuncia delle E e della S)

Abbiamo detto come esistono diverse congruenze fra il sistema fonologico dell'italiano e il suo sistema grafico, non
c'è sempre una corrispondenza tra fonema e grafema usato per rappresentarlo. Nella slide ci sono degli esempi di E
aperta in italiano standard laddove italiano standard nella pronuncia si intende un italiano di matrice prettamente
fiorentina. Secondo italiano standard, per esempio, dobbiamo leggere con E aperta le parole con dittongo come ieri,
piede, miele, dietro; con la desinenza del gerundio che finiscono con -endo.

Anche in questa slide abbiamo altre voci secondo la pronuncia tosco-fiorentina con la E aperta come le parole in -
efico (benefico, malefico); le parole sdrucciole (telefono, medico); parole isolate (vengo, tengo, poeta, poema →
parole che possono far storcere il naso ad un parlante settentrionale).

Nelle due slide che seguono abbiamo invece esempi di E chiusa sempre in italiano standard di matrice tosco
fiorentina. Vanno pronunciate con E chiusa le desinenze dell'imperfetto congiuntivo (volesse, volessi, volessimo) e le
parole con -esco (principesco, pazzesco, tresca, fresca).

Ciascuno di voi si sarà reso conto di non pronunciare correttamente (o in maniera standard) le parole che erano
presenti nelle slide precedenti. Effettivamente la E viene pronunciata in maniera diversa a livello diatopico: possono
essere individuate delle macro differenze di pronuncia tra il nord e il sud d'Italia. Al nord la E viene pronunciata
aperta in sillaba chiusa (frèddo) ma davanti a una nasale viene pronunciata come chiusa (vénti, préndi), questa
pronuncia però non è rispettata in Lombardia orientale (dove si dice vènti). Al nord la E viene pronunciata aperta
anche nelle parole tronche come perchè; la E è invece chiusa in sillaba libera (béne, tréno, ciélo). Al sud le distinzioni
sono più nette tra le diverse regioni ma sempre procedendo per grandi approssimazioni possiamo dire che in
Campania e il Molise viene pronunciata una E chiusa nel dittongo (tiéne, viéne) mentre le parole in -mente vengono
pronunciate con la E aperta (solamènte, veramènte); se consideiamo la Sicilia più parte della Calabria e del Salento
possiamo notare come la E chiusa sia assente (come anche la O chiusa); infine in Sardegna e nell'area Lausberg la e
aperta viene a mancare 8come anche la O aperta).

Il grande divario della pronuncia della E dipende, e viene accentato, dal fatto che nella grafia non vengono usati degli
strumenti o simboli per differenziare la E aperta da quella chiusa. L'accento contribuisce a far comprendere se la E è
aperta o chiusa, tuttavia l'accento viene messo solo nelle parole tronche non all'interno di parola, dunque facciamo
riferimento al nostro parlare regionale senza sapere spesso qual è la pronuncia standard. Questa situazione è anche
più evidente con l'uso della S (sibilante): se al nord la sibilante viene realizzata come sonora (z), al sud la S è spesso
sorda (s). Nell'italiano standard tra la S sonora e quella sorda esiste una distinzione fonologica, sono due fonemi
dell'italiano in grado anche di individuare delle coppie minime. In questa slide trovate le regole per utilizzare la S
sorda e quella sonorizzante. Facciamo un solo esempio: le parole che presentano -es+a devono essere pronunciare z
(esatto [ezatto]); le parole che terminano in -eso-oso hanno invece una S sorda (fastidioso, chiesi).

Una coppia minima che può mostrarci il valore fonologico della s sibilante e di quella sorda è: chiese (passato
remoto) e chiese (plurale di chiesa). Dobbiamo però notare che la prevaricazione di alcune varietà diatopiche
(settentrionali) sta annullando queste opposizioni: la diffusione di una pronuncia schiettamente settentrionale anche
fuori dal contesto settentrionale può portare alla prevaricazione dei tipi pesca (con e aperta) e chiese (con s sonora)

Altro elemento di variazione diatopica: raddoppiamento fonosintattico

A dimostrazione del fatto che la fonetica è un ambito fortemente marcato in senso diatopico possiamo analizzare
anche un altro elemento che varia nella nostra penisola: si tratta del raddoppiamento fonosintattico che non
riguarda la fonetica di parola ma di frase. Si parla di raddoppiamento fonosintattico quando si fa una pronuncia
rafforzata della consonante iniziale di parola, un raddoppiamento che ha di fronte ad altre parole, ad esempio nel
caso di monosillabi (a te che spesso si pronuncia 'atte'; che fai che diventa 'cheffai'); nel caso di parole tronche (andò
via – andovvia); nel caso di alcune parole piane (ogni tanto – ognittanto). Ricordiamo che questo è un elemento
fonetico non grafico tranne nel caso di alcune parole: davvero, daccapo, soprattutto (in cui si registra un
raddoppiamento fonosintattico grafico)

Il raddoppiamento è un fenomeno che fa parte dell'italiano standard di matrice fiorentina ma non avviene in tutta
Italia: nel nord d'Italia non si realizza (un settentrionale non pronunciare mai andòvvia ma semplicemente andò-via)
mentre per quanto riguarda il centro-sud si può dire che il raddoppiamento avviene anche se con alcune divergenze
→ DA provoca raddoppiamento solo in Toscana, OGNI provoca raddoppiamento ovunque tranne che in Toscana.

Dai pochi e significativi esempi visti fin ora si può capire che sostanzialmente l'italiano standard parlato non esiste.
Esiste un forte divario diatopico da un punto di vista ortoepico e oggi queste variazioni di pronuncia sono ancora più
accentuate poiché i media odierni non curano la pronuncia standard, oggi la pronuncia standard è risoettata in pochi
contesti, uno fra i pochi è il teatro dove gli attori sono obbligati a studiare l' (?). ricordiamo però che in passato la
pronuncia è stata oggetto di attenzione anche da parte del governo, basti ricordare il “prontuario di pronunzia e di
ortografia” di Bertoni e Ugolini pubblicato nel 1939, anno dell'asse Roma-Berlino. Il prontuario riprende il termine
asse (quindi alleanza) e propone l'asse Roma-Firenze: il modello a cui far riferimento era un modello che fosse sì di
impronta fiorentina ma che guardasse anche alla pronuncia romana (facendo riferimento al mito di Roma che era
imprescindibile nella politica e ottica fascista)
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La Morfologia

In questa lezione proseguiamo l’analisi delle strutture della lingua italiana.

Nella lezione precedente è stata affrontata la fonetica, in questa ci occupiamo della morfologia.

Il termine morfologia è un composto di origine greca, che significa studio “logia” della forma “morfo”. Più nello
specifico la morfologia è quel settore della linguistica che si occupa di analizzare il modo in cui le lingue modificano la
forma delle parole per comunicare significati.

La prospettiva della analisi morfologica può essere di due tipi:

 morfologia flessionale
 morfologia derivativa

La prima si occupa della flessione, cioè della modificazione della parola in relazione ai tratti grammaticali

La seconda invece si occupa dei meccanismi di derivazione delle parole a partire da basi lessicali. Per fare un esempio
semplice, le trasformazioni della parola gatto, in gatta – femminili e gatti – plurale, sono oggetto di studio della
morfologia flessionale

I cambiamenti della parola forno in fornaio o sfornare o fornetto, sono oggetto di studio della morfologia derivativa.

Ovviamente le strutture di una lingua non sono compartimenti stagni e impermeabili, ma sono tutte interconnesse
tra di loro. Quindi nel momento in cui andremo ad affrontare le unità fondamentali della morfologia, dovremmo
anche soffermarci su alcuni concetti del lessico, perché sia la morfologia che il lessico si occupano della parola, ma
faremo anche dei collegamenti con la sintassi, perché esistono dei fenomeni che sono proprio a cavallo tra la
morfologia e la sintassi.

Tanto è vero che si chiama morfosintassi quel settore della linguistica che si occupa proprio della relazione tra la
forma di una parola e la sua funzione sintattica.

Se analizziamo come l’italiano crea il tempo dell’imperfetto indicativo tramite l’inserzione del suono “V” ci
occupiamo di un fenomeno propriamente morfologico, ma se analizziamo come il tempo imperfetto indicativo possa
assumere anche dei valori di modo, simili a quello del condizionale, allora stiamo analizzando un fenomeno
morfosintattico.
Quando parliamo di morfologia probabilmente ci vengono alla mente dei ricordi scolastici legati all’analisi
grammaticale, ovvero alla descrizione minuziosa di ogni aspetto grammaticale delle parole.

In questa lezione noi non affronteremo nel dettaglio l’analisi grammaticale, cercheremo invece di fare innanzitutto
una panoramica delle principali nozioni morfologiche e cercheremo di darne una definizione quanto più possibile
precisa.

Poi cercheremo di guardare la morfologia italiana in una prospettiva diacronica per grandi tappe e quindi
recupereremo nozioni già in parte viste nel modulo storie della lingua. In fine ci occuperemo di alcune questioni
significative o controverse della morfologia flessiva e derivativa.

Prima di addentrarci nella definizione dei termini e delle unità propriamente morfologiche, facciamo una nozione di
“parola”, perché il termine “parola” può essere utilizzato con molteplici significati. Anzitutto la nozione di parola si
sovrappone alla nozione di segno. Un segno è un collegamento stabile tra un elemento segnaletico e un elemento
concettuale. Nella linguistica strutturalista l’elemento segnaletico viene chiamato significante e l’elemento
concettuale viene chiamato significato. Facciamo un esempio prendendo la parola “gatto”: l’elemento segnaletico
della parola è la sua sequenza dei suoni, o meglio, la sua sequenza di fonemi quindi g-a-t-t-o. nella lingua italiana,
questa sequenza di fonemi, è stabilmente associata, da tutti i parlanti, ad preciso elemento concettuale, ad un
significato, quello di felino, animale domestico ecc., quindi c’è un collegamento stabile, codificato tra una sequenza
di fonemi, cioè un elemento segnaletico, un significate e un significato. Noi ci occupiamo di lingue, e quindi di segni
linguistici, verbali ma esistono anche segni non verbali, pensiamo ai cartelli stradali (abbiamo il cartello tondo, con il
bordo rosso che è stabilmente associato ad un preciso significato, divieto di transito). Sono segni non verbali anche
alcuni gesti codificati, noi parlanti italiani, sappiamo bene che possiamo accompagnare il nostro colloquio con gesti, il
cui significato è condiviso sia da chi parla che da chi ascolta. Oltre che alla nozione di segno, la nozione di parola è
legata a quella di lessema. Il lessema è l’unità base del lessico ed è un’unità astratta che può essere rappresenta in
diverse forme flesso: amica, amico, amiche, amici sono forme flesse di un unico lessema, che è amico. I lessemi che
formano le proprie forme flesse nello stesso modo, sono raggruppabili in classi di flessione. Sono classi di flessione
per esempio, la declinazione del nome in latino o le coniugazioni dei verbi anche in italiano. I lessemi possono essere
raggruppati anche nelle così dette parti del discorso, che sono gruppi di parole, individuate sulla base di criteri
grammaticali, morfologici, semantici e sintattici. La grammatica italiana ha ereditato questa classificazione dalle
lingue classiche e considera nove parti del discorso: il verbo, il nome, l’aggettivo, l’articolo, il pronome, l’avverbio, la
preposizione, la congiunzione e l’interiezione. Se consideriamo il criterio morfologico possiamo distinguere le parti
del discorso sulla base della flessione e delle categorie morfologiche che esprimono, quindi per esempio possiamo
dividere parti del discorso che prevedono la flessione da parti del discorso che non la prevedono. Su base semantica
possiamo distinguere le parti del discorso in base al contenuto che esprimono: per esempio il nome indica persone,
cose, concetti e il verbo indica azioni o stati. Su base sintattica possiamo distinguere le parti del discorso che
permettono collegamenti come le congiunzioni o le preposizioni, oppure distinguere le parti che si collocano in
prossimità di altre come l’avverbio che si colloca in prossimità del verbo. È però facile intuire che tutti questi criteri
sono piuttosto disomogenei e sono stati soggetti a critiche e revisioni dalla linguistica del Novecento, però
continuano ad essere utilizzati per esigenze di chiarezza e anche di condivisione di una terminologia comune e la
stessa cosa faremo noi.

Precisazioni terminologiche

Le entità morfologiche si riconoscono scomponendo ad un primo livello, ad una prima articolazione, le parole. Nella
slide avete l’esempio sulla parola libreria. Se vado a scomporre la parola riconosco delle unità che sono libr-eri-a,
queste sono unità morfologiche. Nella teoria della doppia articolazione di Martinè, a cui stiamo facendo riferimento,
queste unità morfologiche vengono chiamate monemi. Questo però non è il termine maggiormente diffuso tra i
linguisti, bensì utilizzano “morfemi”, che è stato proposto da Blumfield, il capo-scuola dello strutturalismo nord-
americano. I morfemi sono dei veri e propri segni linguistici, perché hanno un significante e un significato sempre
associati che rimangono inalterati al variare delle parole. Esempio con la parola libreria: il primo morfema che
incontriamo è libr-, morfema che è associato al significato di libro, questo morfema, in questa forma e con questo
significato, lo ritroviamo anche in parole diverse da libreria, a partire dalla parola libro per arrivare, ad esempio, sino
alla parola librario. Il morfema -eri- ha il significato di luogo, negozio in cui si vendono oggetti o si svolgono attività, in
questa forma e significato, il morfema -eri-, lo troviamo anche in parole diverse da libreria come pizzeria, pasticceria
o fonderia. Il morfema -a-, ha invece associato il significato di nome di genere grammaticale femminile e di numero
singolare e, con questa forma e con questa funzione, lo ritroviamo anche in altre parole come ad esempio, maestra,
gatta o sedia. Quindi i morfemi sono dei veri e propri segni linguistici e sono definiti segni linguistici minimi, perché
non sono ulteriormente scomponibili in ulteriori segni linguisti. Come sappiamo dalla lezione di fonetica, se
scompongo ulteriormente, ad un secondo livello, ad una seconda articolazione, i morfemi, trovo i fonemi, che sono
delle unità linguistiche non dotate di significato, ma dotate di valore distintivo, cioè della capacità di distinguere due
segni. Esempi: la parola italiana “matto” e” gatto” si distinguono per un solo suono “m” e “g”, questi due suoni non
hanno significato, ma hanno la funzione distintiva di due segni, quindi questa funzione li rende dei fonemi. I morfemi
sono divisibili in varie categorie, la suddivisone principale è quella tra morfemi lessicali e grammaticali. I morfemi
lessicali, tradizionalmente chiamati radici, sono quelli più numerosi nelle lingue, e sono quegli elementi che
veicolano il significato di un’entità linguistica di una parola. Nell’esempio della parola “libreria” il morfema lessicale è
libr-. I morfemi grammaticali sono quei morfemi che danno informazioni sulle caratteristiche grammaticali delle
parole e possono essere divisi in due grandi categorie: quella dei morfemi flessioni e quella dei morfemi derivativi. I
morfemi flessionali consento la flessone delle parole, quindi agganciandosi a un morfema lessicale, consentono di
creare le forme flesse. Il morfema flessionale in “libreria è a, morfema che ci dà informazioni sui tratti morfosintattici
obbligatori della categoria a cui appartiene la nostra parola, cioè quella del nome, e ci dà informazioni su genere e
numero della nostra parola. I morfemi derivativi, chiamati anche affissi, mentre i morfemi flessionali sono chiamati
anche desinenze, permettono di creare parole nuove a partire da una base lessicale. Per esempio, nel nostro
esempio “libreria”, il morfema -eri- ci permette di partire dal significato di libro ed arrivare ad un significato diverso,
quindi non più significato di oggetto ma di luogo. I morfemi derivativi sono diversi da quelli flessionali anche se
appartengono entrambi alla categoria dei morfemi grammaticali, perché il significato dei morfemi derivativi non è
così generale e così puramente grammaticale come quello dei morfemi flessionali, ma può avvicinarsi al significato
più specifico dei morfemi lessicali.

La morfologia

La distinzione tra morfemi lessicali e grammaticale, non è sempre possibile con tutte le parole, prediamo ad
esempio la parola blu: riconosciamo il morfema lessicale, ma non possiamo trovare alcun morfema grammaticale.
Oppure prendiamo intere categorie di parole della lingua italiana, come gli avverbi, in “sempre” riconosciamo un
morfema lessicale ma non riconosciamo morfemi grammaticali perché non c’è la flessione, queste sono parole così
dette invariabili. Esistono parole come il pronome “che”, che hanno delle forme flesse, da “che”  “cui”, ma in cui
non riconosciamo un morfema lessicale, con un significato così pieno come in altri casi, queste sono le così dette
parole vuote che si differenziano da quelle piene, poiché quest’ultime hanno un contenuto semantico significativo,
mentre le parole vuote, più che un contenuto semantico significativo, hanno un contenuto semantico debole e
piuttosto la funzione di collegare o completare altre parole piene.

Morfo /morfema

Come in fonetica esiste la coppia fonema (unità astratta del sistema) e fono (realizzazione del fonema), cosi in
morfologia esiste la coppia morfema, unità astratta e morfo, realizzazione concreta del significato di un morfema.
Quest’ultimo generalmente, è espresso con un unico significante, un’unica forma ma esistono anche casi di
allomorfia, cioè casi in cui il significato di un morfema è realizzato in forme, cioè morfi, differenti. Nella slide abbiamo
due esempi, uno di allomorfia di un morfema lessicale e uno di allomorfia di un morfema grammaticale derivativo. Il
lessema lessicale scuol-, si realizza nella forma scuol-, in una parola come scuola, ma si realizza in maniera differente,
scol-, nella parola scolaro. Nel secondo esempio, il morfema derivativo in-, si realizza nella forma in-, in una parola
come incomprensibile, ma si realizza in forma differente come ir-, nella parola irregolare, nella forma il-, nelle parole
illegittimo e nella forma im-, nella parola impossibile. Dobbiamo quindi specificare, ampliare, quello che abbiamo
detto nelle slide precedenti, cioè che il morfema è un segno linguistico perché è un’unione stabile tra un significante
e un significato. L’allomorfia richiede di aggiungere che un morfema può essere un’associazione stabile tra un
significato e una classe di significanti, quindi il rapporto tra significato e significante di un morfema può anche essere
piuttosto complesso e rende evidente, questa complessità, il fatto che il morfema è un’entità astratta.

La morfologia come parametro di classificazione delle lingue

La morfologia e il rapporto tra parola e morfo possono essere utilizzati come parametri di classificazioni delle lingue.
Secondo questi parametri possiamo riconoscere lingue isolanti, agglutinanti e lingue flessive dette anche flessionali o
fusive. Le lingue isolanti hanno poca o nulla morfologia perché ogni parola è espressa da un solo morfo, quindi non
possiamo riconoscere nella parola un morfo lessicale e uno o più morfi grammaticali. Un esempio di lingue isolante è
il vietnamita. Le lingue agglutinanti, invece, hanno parole composte da più morfi, ben identificabili, e ogni morfo
esprime soltanto un significato grammaticale. Un esempio di lingua agglutinante è il turco. Le lingue flessive sono
invece le lingue che hanno una morfologia articolata e parole costituite da più morfi, generalmente almeno un morfo
lessicale e un morfo grammaticale. La differenza con le lingue agglutinanti è che i morfi grammaticali delle lingue
flessive cumulano più significati grammaticali. Esempio di lingua flessiva è il latino. L’italiano deriva dal latino, ma
rispetto a quest’ultima, è solo parzialmente flessiva, perché affida ai morfi grammaticali soltanto alcuni significati,
mentre ne affida altri a elementi esterni alla parola. Pesiamo alla categoria del nome, il morfo flessivo di un nome di
solito cumula informazioni relative al genere e numero, mentre quelle relative alla funzione della parola sono
affidate ad elementi quali la posizione della parola nella frase, l’articolo o la preposizione. Ma questa è solo una delle
differenze o meglio delle evoluzioni, della morfologia dell’italiano rispetto alla morfologia del latino, le altre le
vediamo nelle prossime slide.

I cambiamenti morfologici in diacronia: le origini

In questa diapositiva facciamo una veloce panoramica delle principali innovazioni morfologiche dell’italiano rispetto
al latino, concentrandoci in particolare sulle categorie e sui tratti morfologici e tralasciando invece i cambiamenti
delle singole forme morfologiche, quindi senza entrare nel dettaglio, per esempio, come si è passati dalla forma
“Summa latina” alla forma italiana “Io sono”. Abbiamo già detto nella slide precedente che l’italiano riduce la
morfologia flessiva del latino. Questa cosa la possiamo vedere nella categoria del nome, in cui si passa dalle cinque
declinazioni latine alle tre declinazioni italiane: quella dei nomi in A, E, O. Sempre nell’ambito nominale, un’altra
innovazione nell’italiano è la scomparsa del genere neutro, che invece era presente nel latino. Nell’ambio del
sistema verbale abbiamo una riduzione della flessione all’interno delle coniugazioni, perché passano dalle quattro
latine alle tre italiane: la coniugazione in ARE, ERE e IRE. Ma sicuramente il fenomeno più importante di riduzione
della flessione è quello della scomparsa dei casi. L’abbiamo già detto, l’italiano non esprime attraverso il morfo
flessivo la funzione di una parola, masi affida invece a una rigidità nell’ordine delle parole all’interno della frase
(anche questa è un’innovazione sintattica). Si affida all’uso di preposizioni e si affida gli articoli. Ecco gli articoli sono
una nuova categoria di parole, che in latino non esisteva. Per quanto riguarda le altre innovazioni del sistema
verbale, oltre alla riduzione delle coniugazioni, possiamo citare la creazione in italiano dei tempi del passato remoto,
del passato prossimo e del trapassato prossimo, che coprono le funzioni che in latino invece erano di un unico
tempo, quello perfetto. Un’altra innovazione dell’italiano è la creazione dei tempi composti, mentre in latino erano
solo forme sintetiche, quindi senza l’uso di ausiliari. Un’altra innovazione del sistema verbale italiano è la creazione
del modo condizionale.

Le prove morfologiche della fiorentinità dell’italiano

Si è visto nelle lezioni di “Storia della lingua” che tra i volgari italiani, quello che ha fatto carriera e si è imposto come
modello per la lingua nazionale è stato il Fiorentino. La morfologia dell’italiano, così come la fonetica porta traccia di
questa originaria “Fiorentinità” e in questa slide cerchiamo di vederne degli esempi. Il primo esempio è la desinenza
verbale di prima persona plurale dell’indicativo per tutte le coniugazioni in -IAMO, quindi tipo “Amiamo”, “Vediamo”
e “Sentiamo”. La forma originaria etimologica, cioè derivata in maniera lineare da quella latina sarebbe invece del
tipo “Amamo”, “Vedemo” e “Sentimo”. Forme che ritroviamo ancora oggi nei dialetti non toscani; si pensi al romano
“Annamo”, “Vedemo” e “Sentemo”. Già nel Duecento, però Firenze aveva introdotto la forma analogica -IAMO. E
così, con l’accoglimento del modello del fiorentino trecentesco da parte di Bembo, la forma è poi passata nella
morfologia della lingua nazionale. Un secondo tratto che denuncia la fiorentinità della nostra lingua a livello
morfologico è il condizionale di tipo “Amerei”. In questa forma, in realtà ci sono due spie di fiorentinità; non solo una
morfologica, ma anche una fonetica. Infatti, l’esito originario della forma non era “Amerei” in -ER ma “Amarei” in -
AR. Il passaggio fonetico da -AR a -ER è tipico del fiorentino e lo ritroviamo anche altrove, per esempio nei futuri
“Amerò”, “Comprerò” e in alcune parole come “Margherita” contro l’originario “Margarita”, o in alcuni suffissati, per
esempio in quelli con il suffisso latino -ARELLI per cui abbiamo le forme fiorentine “Fatterello”, “Acquerello”.
Tuttavia, abbiamo forme in italiano come “Mozzarella”, in cui il suono -AR e non -ER denuncia l’origine dialettale non
toscana, ma in questo caso meridionale. Tornando alla spia morfologica, il tipo di condizionale “Amerei” è tipico
della toscana e si contrappone, invece al tipo di condizionale meridionale. Probabilmente non originario, ma derivato
da un modello provenzale in -IA, cioè del tipo “Amaria”. Questo condizionale, in -IA era molto usato dai poeti della
Scuola Siciliana e da qui è passato nella lingua poetica toscana e Stilnovista e quindi da qui ha avuto legittimazione
per permanere nella poesia fino all’Ottocento. Per esempio, troviamo la forma “Saria” accanto a “Sarebbe” ancora
nella poesia di Leopardi o anche in quel di Manzoni, che tanto ha rinnovato e modernizzato la lingua della prosa
narrativa. A proposito di Manzoni, si deve proprio a lui e alle sue correzioni nell’edizione definitiva de “I Promessi
Sposi”, quella del 1840, l’accoglimento in italiano della forma di prima persona singolare dell’imperfetto indicativo in
-O, quindi del tipo “Io amavo”. La forma più diffusa della lingua letteraria fino all’Ottocento era invece quella
originaria in -A, quindi del tipo “Io amava”. La forma in -O si sviluppa nel fiorentino solo nel Quattrocento-
Cinquecento, in quello che viene chiamato “Fiorentino Argenteo”, perché successivo a quello “Aureo” del Trecento.
Essendosi diffuso solo in quel tempo, questa forma non è stata accolta dalla codificazione grammaticale del
Rinascimento, che faceva riferimento al modello linguistico trecentesco. Manzoni, però accogliendo nell’edizione
quarantana del romanzo le forme del fiorentino vivo a lui più coevo, introduce la forma in -O “Io amavo” e dopo il
suo esempio, questa forma viene accolta nella morfologia della lingua nazionale. Un ultimo esempio di fiorentinità di
un elemento morfologico dell’italiano riguarda l’esito del suffisso latino -ARUM. In toscana infatti questo suffisso si
sviluppa nella forma -AIO con la caduta della “R”, quindi dal latino “Notarum” si ha l’esito “Notaio” e quindi anche di
“Fornaio”, “Macellaio”, “Giornalaio” etc.…Nelle altre zone d’Italia, invece l’esito del suffisso latino -ARUM è -ARO,
quindi con il mantenimento della consonante. Perciò da “Notarum”, nel meridione e nel settentrione abbiamo
“Notaro”. Tra l’altro questa forma “Notaro” è diventata famosa per una correzione dell’articolo del Caffè “Sulla
rinunzia avanti notaio” nell’edizione definitiva dell’articolo, ma originariamente “Nodaro”. E possiamo pensare anche
alla scuola poetica Siciliana e a tutti i “Notaro” che ci sono stati come Giacomo Da Lentini o Stefano Protonotaro.
Altre parole che sono diffuse nell’italiano e mantengono il suffisso -ARO sono per esempio “Calamaro”, che è
meridionale o anche i più recenti “Paninaro”, che è di origine settentrionale, o “Borgataro”, di origine romana.

I cambiamenti morfologici in diacronia: l’età moderna

Continuando a lunghi passi il nostro percorso storico, possiamo osservare che fenomeni quali la straordinaria varietà
di volgari italiani, la disponibilità costante del latino quale serbatoio di forme linguistiche e anche la codificazione
della lingua, anzitutto nella varietà scritta e letteraria, fanno si che una caratteristica della morfologia dei secoli
passati, almeno fino all’Ottocento inoltrato, sia quella di una straordinaria ricchezza di forme concorrenti, quelle che
chiamiamo “Allomorfi”. Per fare un esempio di questa ricchezza ho inserito nella slide il dettaglio di una pagina del
vocabolario degli Accademici della Crusca della terza edizione, quella del 1691. Se osserviamo il quarto lemma
dell’immagine, notiamo che esso è doppio, riportando per l’appunto due allomorfi di un pronome indefinito:
“Nevno” e “Nivno”. Proseguendo la lettura del lemma possiamo vedere che il dizionario, in realtà, precisa che le due
forme sono lo stesso interamente che “Nessuno” e “Nissuno”, quindi il dizionario riporta ben quattro forme
concorrenti per lo stesso pronome. Questa ricchezza di forme è anche determinata dal fatto che fin dalla
codificazione bembiana e per almeno tre secoli, la lingua della prosa e la lingua della poesia, tendano a selezionare
forme diverse. Per esempio, nel nostro caso, la forma “Nivno” è più tipica della prosa, mentre la forma “Nessuno” è
tipica della prosa. L’italiano contemporaneo ha ridotto molto questa allomorfia mantenendo solo la forma
“Nessuno”. Un altro esempio di allomorfia, si ha nel lemma subito sotto a “Nevno”, in cui abbiamo un’allomorfia del
morfema derivativo. A lemma troviamo infatti “Nevosità”, “Nevositade” e “Nevositate “, quindi con tre forme
concorrenti del suffisso -ITA’. Anche in questo caso l’italiano contemporaneo ha ridotto le forme per mantenerne
soltanto una, “Nevosità”, ma vediamo che la tendenza a ridurre la complessità della morfologia e a semplificare i
paradigmi è una caratteristica dell’italiano contemporaneo, che si manifesta anche in molti altri casi.
I cambiamenti morfologici in diacronia: l’italiano contemporaneo

Come si è potuto intuire nella slide precedente, l’italiano contemporaneo tende a ridurre molto la complessità e la
ricchezza della morfologia ereditata dalla tradizione. Possiamo dire che sono due le tendenze principali della
morfologia dell’italiano contemporaneo. La prima è la selezione da parte dell’uso orale della lingua di una parte
ridotta delle possibilità previste dal sistema. Facciamo un esempio: nell’ambito delle congiunzioni si utilizza soltanto
una parte di quelle a disposizione. Per esempio, nelle congiunzioni causali sono usate nell’orale prevalentemente
forme come “Perché” o “Dato che”, mentre si lascia allo scritto e anche quindi in misura molto ridotta forme come
“Giacché” o “Poiché”. Una seconda tendenza è la semplificazione dei paradigmi, per cui singole forme vengono usate
in una gamma di significati più ampia di quella prevista dalla norma tradizionale a scapito di altre che scompaiono o
sopravvivono solo negli usi più formali e sorvegliati della lingua. Facciamo anche qui una serie di esempi: nel sistema
pronominale le forme “Lui”, “Lei” e “Loro”, che la tradizione riservava soltanto ai casi indiretti, si sono espanse a
coprire anche la funzione di soggetto, che doveva essere propria delle forme “Egli”, “Ella e “Essi”, che sono quasi
scomparse per lo meno nell’italiano orale. Allo stesso modo la forma dativale “Gli”, che la tradizione prevede
soltanto per il maschile, quindi per “A lui” si è espansa ed è oggi accettata anche per il plurale al posto di “A loro”. Il
“Che” pronome e congiunzione si è espanso a scapito di forme declinate e di altre congiunzioni, quindi per esempio
nella frase: “La penna me la riporti la prossima volta che ci vediamo”, quel “Che” indeclinato è utilizzato al posto
della forma flessa “In cui. Anche nelle frasi che vi ho messo ad esempio: “Aspetta che ti aiuto” o “Sono ore che ti
aspetto”, il “Che” è utilizzato al posto di altre congiunzioni. Nella prima frase “Aspetta che ti aiuto” potrebbe essere
sostituito da un “Aspetta cosicché ti aiuto”. Nel sistema verbale possiamo notare un uso espanso di alcuni tempi
verbali a scapito di altri tempi, per acquisire quello che si chiama “Valore modale”, cioè il valore che sarebbe proprio
non di un tempo, ma di un vero proprio modo verbale. Il presente nell’italiano contemporaneo è molto usato anche
come futuro, soprattutto quando l’azione del futuro è certa o programmata. Quindi è del tutto accettabile, oggi una
frase come: “La prossima estate andiamo in vacanza alle Maldive” al posto di dire “La prossima estate andremo in
vacanza alle Maldive”. Il futuro, d’altro canto acquisisce nuove funzioni come quelle di indicare delle congetture,
delle supposizioni. Pensiamo a una frase come: “Ma secondo te, quanti anni avrò quella persona?” “Mah, secondo
me ne avrà cinquanta”. Quei due “Avrà” futuro sono utilizzati con un valore in realtà modale e non temporale. Un
tempo che ha acquisito molti valori modali è il tempo “Imperfetto”. Molto diffuso è infatti l’imperfetto di cortesia,
cioè un imperfetto che serve a dare una frase come “Buongiorno, volevo fare delle domande sulla lezione di ieri”
quel “Volevo” è utilizzato per cortesia e al posto di un condizionale “Buongiorno, vorrei farle alcune domande”.
L’imperfetto può essere usato anche con valore ipotetico. Nell’orale meno sorvegliato, più colloquiale è per esempio
diffuso l’imperfetto nelle frasi ipotetiche. Esempio: “Ah, se sapevo che stasera uscivi, mi aggregavo anche io”. Ma
l’imperfetto può anche avere valore ipotetico in frasi come “Ah, oggi dovevo andare in biblioteca, ma ho preferito
rimandare”, quel “Dovevo andare” indica un’ipotesi che si è fatta e che poi è diventata irreale. Quindi anche questo è
un uso modale dell’imperfetto. Questa panoramica delle innovazioni morfologiche e delle tendenze di sviluppo della
morfologia dell’italiano contemporaneo è stata un po’ breve e riassunta, perché per tutte si riprenderanno trattando
di una varietà sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, che è il cosiddetto “Italiano neo standard”.

forme grammaticali e sessismo linguistico

Una questione morfologica che nell’italiano contemporaneo registra un’interessante evoluzione di usi, di forme ma
anche accesi dibatti è quella che riguarda l’espressione del tratto morfologico di genere femminile, una questione
che rientra, nella questione più generale del sessismo linguistico. Con sessismo linguistico indichiamo quegli usi
linguistici discriminanti in base al sesso. Di sessismo linguistico, si è iniziato a parlare, in Italia, in particolare negli
anni 80, nel 1984 è stata istituita presso la presidenza del Consiglio dei ministri, la commissione nazionale per la
realizzazione della Parità tra uomo e donna. Proprio con il patrocino di questa commissione, nel 1987, Alma Sabatini,
ha pubblicato il testo fondamentale della discussione di questa questione in Italia, il titolo del testo è “Il sessismo
nella lingua italiana”: contiene una parte di analisi degli elementi discriminanti che la studiosa ha rintracciato nei
media del tempo, nei quotidiani e nelle riviste, e poi contiene una parte di raccomandazioni per un uso non sessista
della lingua italiana. Nella parte di analisi, Alma Sabatini, mette in evidenza l’esistenza di una duplice disparità tra
uomo e donna per quanto riguarda gli usi linguistici, e chiama queste disparità, dissimmetrie. Le dissimmetrie che
Alba Sabatini riconosce sono di tipo semantico e di tipo grammaticale. Le dissimmetrie semantiche sono quelle
legate al significato delle parole, alle immagini, al tono del discorso, un esempio è l’insistere quando si parla di una
donna, su come è vestita, pettinata o nell’uso di aggettivi e nomi alterati che rimandano a cose carine e gentili. Le
dissimmetrie grammaticali sono quelle legate all’uso della grammatica (in particolare all’uso del genere
grammaticale). Ovviamente sarà proprio su queste dissimmetrie che ci concentreremo nelle side successive.

Dissimmetrie grammaticali: Maschile non marcato

Il primo elemento morfologico che Sabatini descrive discriminante è quello del maschile non marcato, in entrambi i
casi i cui è previsto come possibilità dalla grammatica italiana. Il primo è quello dell’uomo, maschile per indicare
l’insieme degli uomini e delle donne, gli italiani per indicare l’insieme degli uomini e delle donne italiani oppure i
fratelli per indicare l’insieme di fratelli e sorelle, questo è un uso del maschile in senso inclusivo, per far riferimento
ad entrambi i sessi. Nelle sue raccomandazioni Sabati propone di evitare l’suo universale del maschile, anche se è
ancora in uso (vedi esempio medici infermieri nelle slide): su questo però ci sono stati sviluppi nella lingua italiana e
si cerca oggi di includere anche il genere femminile dove è possibile (vedi articolo nelle slide “migliaia di lavoratori e
lavoratrici”, evita l’uso del maschile universale inclusivo). Il secondo tipo in cui si può usare il maschile non marcato è
quello delle concordanze di una serie di nomi di sesso diverso al maschile, Marco e Lucia sono andati a casa, i padri e
le madri sono stanchi. Su questo punto Sabatini propone di poter fare l’accordo del participio passato o degli
aggettivi, con il genere maggioritario o con l’ultimo sostantivo di una serie e non soltanto al maschile. Questa
proposta però ha trovato poca accoglienza, è un caso piuttosto spinoso molto più del caso l’uomo, gli italiani e i
fratelli, e oggi la regola grammaticale viene pedissequamente seguita, si continua a fare l’accordo al maschile per i
partici e gli aggettivi che si riferiscono a duna serie di nomi di genere diverso.

Dissimmetrie grammaticali: Il femminile dei nomi agentivi

Se proviamo a riprendere uno degli esempi tratti dai quotidiani delle slide precedenti, quello che con il titolo “Il virus
dilaga tra medici e infermieri” e ci chiedessimo come potere evitare l’uso del maschile non marcato in questa
espressione dando anche l’equivalente di genere femminile, potremmo trovarci un po’ in difficoltà, non tanto sul
femminile di infermiere, che è notoriamente “Infermiera”, quanto sul femminile della parola “Medico”. Qual è infatti
il femminile di medico? Medica? Medichessa? Su queste varianti possiamo avere parecchi dubbi. Questo è appunto
uno di quei casi discriminanti analizzati da Sabatino. Cioè il fatto che non sia diffusa tra i parlandi una forma
femminile per molti nomi agentivi per nomi che indicano delle professioni. Non è tanto un problema di natura
grammaticale, perché la lingua italiana ha dei consolidati meccanismi di formazione del femminile; per esempio per i
nomi in “O” il femminile è generalmente in “A”, quindi maestro>maestra come corrispettivo o da “Sarto” a “Sarta”,
“Fioraio” a “Fioraia”. I nomi in “E” forma il femminile o sempre attraverso la desinenza “A”, come nel caso
infermiere>infermiera, oppure semplicemente cambiando l’articolo, come nel caso il docente>la docente. In alcuni
casi il femminile può essere realizzato mediante un morfema derivativo come nel caso della parola “Professore”, che
ha l’equivalente in “Professoressa” o “Dottore” in “Dottoressa”. Anche se l’uso di questo morfema derivativo è stato
in parte condannato, perché in passato, ma anche in parte oggi, questo suffisso può avere valore dispregiativo. Si
pensi ad espressioni quali “Vigile” e “Vigilessa”. Nonostante queste possibilità offerte dal sistema della grammatica
mancano all’appello dei nomi femminili. Per esempio, il femminile di “Avvocato” è “Avvocata”? Quello di “Chirurgo”
è “Chirurga”? Quello di “Ingegnere” qual è? “Ingenera” o “Ingegnere”? Queste mancano soprattutto per motivi
culturali. Innanzitutto, perché la donna, in determinati settori lavorativi è arrivata molto tardi ad occupare certi ruoli
e quindi, di conseguenza, le forme femminili per certi lavori non si sono diffuse, non sono familiari presso i parlanti.
Per cui si ha molti dubbi e poche occorrenze che si vedono. Le forme femminili che ovviamente Sabatini, nelle sue
raccomandazioni invita a creare e utilizzare proprio per evitare una discriminazione, si affermano quando si
affermano le donne in quei ruoli. Basti pensare alla parola “Sindaca” o alla parola “Ministra”, che si sono affermate
recentemente, con appunto figure di sindache e ministre nei nostri ordinamenti politici. Un altro esempio è quello
che vedete nella slide, della parola “Capitana”, che è diventata di uso molto comune quando c’è stato il caso della
capitana Carola Rackete, nell’estate scorsa. Quindi le raccomandazioni di Alma Sabatini sono state abbastanza
accolte nella società, ma il processo non si è ancora compiuto del tutto. Guardate sempre l’esempio, sempre tratto
da un quotidiano dell’estate duemiladiciannove nella slide, il titolo è “Carola Rackete libera. Ecco perché non ci sarà
l’espulsione immediata. Il gip scagiona la capitana della Sea Watch”. Quindi Carola Rackete è indicata nella sua
professione con il femminile “La capitana”. Tuttavia, c’è “Il gip”, il giudice per le indagini preliminari, ma se vedete il
titolo sotto il giudice è una donna,
Alessandra Vella. Eppure, non viene indicata come “La gip”, ma come “Il gip”. Eccome come, appunto vi dicevo, il
processo che porterà sempre di più a usare forme femminili è ancora un processo in corso.

Dissimmetrie grammaticali: uso di nomi e cognomi

Il terzo tipo di dissimmetria grammaticale, che alma sabatini rileva nel suo studio, è quello dell’uso dissimmetrico di
nomi e cognomi. In particolare, Sabatini rilevava una certa familiarità con cui ci si riferiva alle donne, una familiarità
eccessiva, inopportuna e altrettanto non riservata agli uomini. Per fare un esempio contemporaneo, possiamo
richiamare il caso che abbiamo precedentemente nelle altre slide, della capitana della Sea Watch nell’estate del
duemiladiciannove e possiamo pensare a tutte quelle volte in cui sui media, nei quotidiani e nelle riviste, la capitana
è stata indicata non attraverso il suo nome e cognome, o solo cognome, o attraverso l’indicazione del suo ruolo
professionale, quindi “Comandante” o “Capitana”, ma attraverso il semplice uso del nome “Carola”. Un altro uso
prescritto nelle grammatiche, ma che Sabatini interpreta negativamente come discriminante, perché dissimmetrico è
quello dell’articolo determinativo davanti ai cognomi soltanto femminili, ma non maschili. Per esempio, abbiamo
tutti sentito l’espressione “La Merkel”, “La May” o “La Boschi”, ma probabilmente mai espressioni come “L’Obama”,
“Il Johnson” o “Il Mattarella. Questa riflessione di Sabatini su quest’uso dissimmetrico è stata accolta abbastanza dai
media. Se vedete gli esempi che vi ho messo nelle slides, che sono tratte dai quotidiani di questi giorni o dei mesi
precedenti, vedete che sono facili da trovare casi di indicazione di una figura femminile attraverso il cognome non
preceduto dall’articolo. Si trovano però casi con l’uso dell’articolo. Possiamo quindi dire che siamo in una fase di
transizione, ancora di oscillazione, ma sicuramente si evidenzia la tendenza all’abolizione di questo uso
dissimmetrico.

Morfemi derivativi

Concludiamo la nostra lezione sulla morfologia con qualche informazione in più sui morfemi derivativi. Sappiamo già
che i morfemi derivativi si uniscono ad un morfema lessicale, per formare parole nuove. Questa unione può avvenire
collocando il morfema derivativo o davanti o in coda al morfema lessicale. I morfemi derivativi che si collocano
davanti al morfema lessicale prendono il nome di “Prefissi”, come nell’esempio della slide della parola “IN-deciso”.
Quando invece i morfemi derivativi vengono collocati in coda al morfema lessicale prendono il nome di “Suffissi”,
come nella parola “Ver-ITA’”. Le parole create attraverso l’uso dei prefissi vengono chiamate “Prefissati”. Le parole
che invece vengono create mediante l’uso di suffissi sono definite “Suffissati”. Esistono anche parole che contengono
sia un prefisso che un suffisso. Si pensi, ad esempio, alla parola “Introvabile”, che aggiunge alla base lessicale
“Trov-“il prefisso “In” e anche il suffisso aggettivale “Abile”. Parole di questo tipo, che presentano sia suffissi che
prefissi, vengono chiamate parole “Parasintetiche”.

Accumuli e transcategorizzazione

Tra il meccanismo di derivazione per prefissazione, quindi tramite prefissi e per suffissazione, quindi tramite suffissi,
esistono delle interessanti differenze. Innanzitutto, il meccanismo di derivazione attraverso suffissi è molto più
comune di quella attraverso i prefissi. Questo non solo in italiano, ma in generale nelle lingue romanze. Quindi in
italiano possiamo trovare molti più suffissi che prefissi. Un’altra interessante e importante differenza è che il
meccanismo di suffissazione, prevede la “Transcategorizzazione”, ovvero il passaggio tra categorie grammaticali.
Osserviamo la parte della slide con gli esempi di prefissi; si può notare che si ottengono sempre parole della stessa
categoria grammaticale di quelle di partenza. Quindi dal verbo “Fare” per prefissazione ottengo un altro come “RI-
fare”, dall’aggettivo “Sociale” il prefisso -A mi crea un altro aggettivo, “Asociale”, dal nome “Vendita” il prefisso -PRE
mi crea sempre un nuovo nome “Prevendita”. Se guardiamo invece gli esempi della slide relativa ai suffissi, vediamo
che la categoria cambia nel suffissato rispetto a quella di partenza. Per cui dal verbo “Informare” la suffissazione mi
può dare il nome “Informazione” o l’aggettivo “Informativo”. Dal nome “Danno” la suffissazione può creare un verbo
come “Danneggiare” o un aggettivo come “Dannoso”. Dall’aggettivo “Facile” la suffissazione può creare il verbo
“Facilitare”. Una caratteristica propria dei suffissi e non dei prefissi è la possibilità di cumulare più suffissi. Per
esempio, da “Danno” posso creare il verbo “Danneggiare”, ma posso anche creare, con un cumulo di suffissi,
l’aggettivo “Danneggiabile”. I prefissi prevedono molto poco questa possibilità; sono pochissimi i prefissati che
hanno più di un prefisso, massimo due. La maggioranza dei prefissati italiani prevedono uno e un solo suffisso.

Prefissi e suffissi particolari

Esistono particolari suffissi e prefissi che sono dotati di un significato più preciso e autonomo rispetto ai prefissi e ai
suffissi normali. Possiamo dire che hanno un contenuto semantico più pesante e più significativo, tant’è vero che
alcuni studiosi considerano le parole create attraverso questo uso di particolari suffissi e prefissi un po’ a metà tra i
derivati e i composti. La composizione è quel meccanismo di formazione di parole che prevede non l’unione di una
base a un morfema grammaticale, bensì l’unione di due basi. Questi particolari prefissi e suffissi, del resto sono in
gran parte derivati dalle lingue classiche, dal latino e dal greco, che costituivano delle vere e proprie basi lessicali.
Questi particolari suffissi e prefissi prendono il nome di “Prefissoidi” e “Suffissoidi” e sono particolarmente diffusi e
numerosi nelle lingue speciali, o anche dette “Sottocodici” (se ne parlerà poi nelle lezioni di sociolinguistica di queste
varietà dell’italiano). Qui, per così capire, diciamo che le lingue speciali sono le lingue proprie di un settore. Quindi
questi prefissoidi e suffissoidi li troviamo, per esempio, di frequente nella lingua della medicina. Facciamo alcuni
esempi guardando quelli inseriti nella slide. Tra i prefissoidi possiamo citare AUTO-, TELE- e MICRO-, mentre tra i
suffissoidi possiamo citare -METRO, -CIDA e -LOGIA.

SINTASSI

Iniziamo chiarendo alcuni concetti base della sintassi della lingua partendo dalla definizione stessa di Frase che è
elemento sintattico minimo. Il termine frase deriva dalla radice indoeuropea *fer/*fr che significa portare. Quindi il
concetto di frase è in un insieme di parole che ha la funzione di portare/veicolare dei concetti da un emittente a un
destinatario, è in questo l’elemento base della comunicazione.

Elementi strutturali di minore portata rispetto alla frase che si possono individuare nei sintagmi o nei fonemi
esistono e sono definibili ma presi da soli non hanno la funzione di comunicare un significato completo/autonomo.
Ad esempio, la parola, il fonema, il fono, la sillaba ecc. Tutte queste entità che sono riscontrabili all’interno del
sistema linguistico/morfosintattico da soli non bastano a veicolare un significato.

Quali sono gli elementi costitutivi di una frase? Gli elementi ineliminabili e altri invece opportunamente presenti:
Soggetto, Predicato e Complementi diretti/indiretti. Questo secondo l’approccio tradizionale alla sintassi della frase.
Tra questi l’unico ineliminabile nella sintassi della lingua italiana è il PREDICATO. Non ci sono, non possono esistere
frasi senza predicato, perlomeno, vedremo le eccezioni delle frasi nominali ma è un’eccezione solo parziale.

Ci sono frasi senza soggetto, sono frasi con verbi impersonali e ovviamente a maggior ragione ci sonofrasi senza
complementi. Vediamo alcuni esempi: la frase “Piove” è una frase con un verbo impersonale in cui manca il soggetto,
non è che il cielo piova o il tempo piova, non c’è un soggetto, piove è quindi un verbo impersonale. Altri verbi
possono essere usati impersonalmente: “Si dice”, “Si pensa”, “Si ritiene”, anche qui non c’è un soggetto definito, non
è che qualcuno dica, pensi o ritenga semplicemente ciò avviene impersonalmente.

La frase senza complementi “Marco cammina”, è una semplice frase minima con soggetto e predicato. Certamente
poi si potrebbero essere alcuni elementi che completano il significato del predicato, quindi ad esempio “cammina
per la strada, insieme a Maria” ma l’elemento minimo possibile per veicolare un significato minimo è costituito in
questo caso nella frase “Marco cammina” da soggetto + predicato.

Vediamo alcune tipologie di frase rimanendo sempre agli elementi rudimentali della sintassi: frase semplice, frase
composta e frase complessa.

Frase semplice: È l’elemento minore, è una frase con un unico predicato (ricordiamo il predicato è il centro,
elemento ineliminabile della frase semplice).

Frase composta: È una frase che ha al suo interno più di un predicato e questi predicati vengono giustapposti
(accostati) tra di loro, sono in un legame di paratassi (il collegamento di coordinazione tra frasi semplici vale a dire
diverse frasi semplici che sono giustapposte una con l’altra senza che ci sia tra loro un rapporto di dipendenza, di
subalternità/sub ordinanza).

Frase complessa: È quella che vede diversi predicati/diverse frasi semplici in un legame anche di subordinazione.

Vediamo alcuni casi particolari rispetto a questi elementi visti prima: uno è quello relativo al soggetto sottinteso (il
soggetto c’è ma manca).

Quando si può sottintendere un soggetto? In tutti i casi in cui nel contesto pragmatico/comunicativo sia chiaro. Nella
lingua italiana a differenza ad esempio di quella inglese si sottintende il soggetto ogni volta che si può. Non c’è
l’obbligo, non c’è la prassi di rimarcarlo continuamente quindi se già nella frase precedente abbiamo già esplicitato il
soggetto lo si può sottintendere. Un altro caso sono i verbi impersonali citati già prima.

Poi abbiamo il caso delle frasi nominali: sono frequenti nella pratica ad esempio nei titoli di giornale o negli slogan
pubblicitari soprattutto ma anche nell’italiano quotidiano/colloquiale. Frasi in cui apparentemente non ci sono
predicati. Faccio l’esempio di un titolo di giornale: “Venti morti sulla A4”. Certamente non c’è il predicato, di solito
questa ellissi del predicato si realizza per economia linguistica, per esigenze di brevità, ebbene in realtà non è che
manchi un predicato ma il predicato in un certo modo lo si sottintende: “ci sono stati venti morti sulla A4”.

C’è sempre un predicato: a volte il verbo essere, a volte è il predicato della frase precedente che non viene
nuovamente esplicitato: “A me piace la pizza”, risposta “A me no” (in questa frase è sottinteso il verbo piacere
perché è già stato nominato nella frase prima).

Tutte queste sono frasi nominali in cui apparentemente non è esplicitato il predicato ma in realtà lo si può
desumere, è un qualche modo sottinteso.

Accenniamo in questa fase un approccio diverso rispetto a quello tradizionale, rispetto alla sintassi tradizionale per
quanto riguarda la sintassi della frase semplice che si afferisce, che si rifà alla linguistica strutturalista. In particolare,
Tesniere, definisce il verbo come nucleo della frase, è qui in realtà ritorna questo concetto, il verbo è l’elemento
ineliminabile, è il centro, il perno attorno a cui sintatticamente girano tutti gli altri elementi. Il resto sono argomenti.
Tesniere colloca le relazioni tra il nucleo della frase (il verbo) e gli altri argomenti con un lessico preso dalla chimica
quindi il legame tra il verbo e gli argomenti è definito “Valenza”. Ci sono verbi “zerovalenziali” (un po’ come avviene
per le molecole e per gli atomi che le compongono). Questi sono dei verbi che non sono collegati a nessun altro
elemento, non hanno alcuna valenza, non sono correlati a nessun altro argomento. Un esempio è il verbo “Piove”,
non c’è un soggetto, non ci sono complementi indiretti perlomeno in una frase minima poi si potrebbero anche
aggiungere in altre frasi diverse, per esempio “Piove abbondantemente”, “piove leggermente” ecc, però la frase
minima “piove” ha un unico verbo che è zerovalenziale, non è corredato da alcuna valenza e non è completato da
nessun argomento).

Ci sono altri verbi, “monovalenziali”, quindi che hanno un’unica valenza e possono essere completati da un unico
argomento che frequentemente è il soggetto. Esempio: Luca esce.

Verbi “bivalenziali”, esempio: “Luca mangia una mela”, inquesto caso il verbo mangia è corredato da due argomenti,
uno è il soggetto e uno è l’oggetto diretto e quindi si ha una doppia valenza.

Ovviamente lo stesso verbo, prendiamo ad esempio il verbo “mangiare”, potrebbe essere corredato da un numero
diverso di argomenti e quindi potrebbe avere diverse valenze a seconda della frase in cui è usato. Nella frase
precedente “Luca mangia una mela” era bivalenziale, ma potrebbe esserci “Luca mangia una mela con Maria al
ristorante” e qui le valenze si moltiplicano, si aggiungono, insomma in ogni frase un unico verbo può essere
corredato da valenze diverse.

Accenniamo anche un diverso approccio, quello che proviene dalla linguistica pragmatica e testuale e che definisce
l’andamento della sintassi come una successione/un’alternanza tra tema e rema.

Cosa significano queste due parole? Il tema sarebbe l’elemento noto, l’elemento che l’emittente e il destinatario
condividono, l’elemento che già conoscono, non è l’elemento di cui si aggiunge un’informazione che l’emittente
veicola al destinatario ma è il patrimonio di conoscenza che in quella singola frase l’emittente e il destinatario già
condividono alla quale si aggiungerà un elemento nuovo che sarà l’oggetto della comunicazione stessa. Può anche
essere chiamato dato o topic.

A questo elemento noto condiviso sia dall’emittente sia dal destinatario si aggiunge un elemento

nuovo: il rema (anche detto comment). È l’elemento aggiunto a ciò che già si sa. È evidente che per definire, per
decidere, per stabilire, per individuare quale sia il tema e quale sia il rema nell’andamento sintattico di ogni singola
frase o meglio di ogni singolo testo bisogna riferirsi alla situazione pragmatica, bisogna riferirsi alla dimensione
linguistica, testuale ed extralinguistica che l’emittente e il destinatario condividono o nella quale l’emittente e il
destinatario sono inseriti.

Bisogna andare oltre all’aspetto verbale e considerare tutti gli aspetti pragmatici della comunicazione.

Facciamo alcuni esempi per chiarire questo concetto: nella gran parte dei casi il soggetto coincide con il tema. Se io
dico “Giovanni ha comprato i giornali” in questa frase immaginando un dialogo con qualcuno, Giovanni è la persona
che l’emittente e il destinatario già conoscono, non c’è bisogno di spiegare chi Giovanni sia perché questo è
l’elemento noto, è il topic, ciò di cui si parla appunto è il soggetto della frase. L’elemento nuovo che si dice a
proposito di Giovanni è che lui ha comprato i giornali. Se ci immaginiamo questa frase inserita in un contesto
pragmatico dovrebbe essere normale questa caratterizzazione. Giovanni è il tema e il fatto che abbia comprato i
giornali è l’elemento nuovo e quindi il rema.

A volte questa identificazione tra soggetto e tema non è così scontata, immaginiamocela però sempre inserita in un
contesto pragmatico, cioè in una situazione reale. Se c’è qualcuno che chiede: “Ha telefonato qualcuno?” la risposta
potrebbe essere “Ha telefonato Luigi”. Prendiamo in esame questa seconda frase, la risposta alla domanda
precedente: Luigi è il soggetto della frase, è il soggetto del predicato “ha telefonato” ma in questa situazione
pragmatica il concetto di telefonare era l’elemento noto che l’emittente e il destinatario condividono perché è già
stato anticipato, è già stato messo in atto nella frase precedente. In questa risposta “ha telefonato Luigi” è Luigi
l’elemento nuovo perché già si stava parlando nella frase precedente del concetto di telefonare, del predicato
telefonare. Già si era introdotto come elemento il concetto che qualcuno oggi abbia o avrebbe potuto telefonare.
L’elemento nuovo è che è stato proprio Luigi a telefonare, quindi in questa situazione pragmatica dato questo
scambio di battute tra emittente e destinatario, è più facile considerare Luigi come l’elemento nuovo, il rema,
nonostante sia il soggetto della frase. In questo approccio non si considera la frase semplice “ha telefonato Luigi”
come soggetto + predicato, ma si considera la frase semplice inserita in una dimensione testuale e meglio ancora
pragmatica cioè che consideri tutta la realizzazione pratica della comunicazione.

Passiamo dunque ad analizzare la sintassi della frase semplice (quella con un unico predicato). Esisterebbe un ordine
basico della lingua italiana, attenzione chiariamo subito che questo ordine non è una regola, la codificazione di
questo ordine non ha certamente intenti normativi. Non è che se si trasgredisce a questo ordine per forza si
compiano degli errori. È un ordine prevalente, è un ordine che frequentemente avviene ed è quello contraddistinto
dall’andamento soggetto, verbo, oggetto diretto oppure dove ci sono soggetto, verbo, oggetto diretto e poi gli
oggetti indiretti (in pratica tutti gli altri complementi). Come dicevo non è una regola ma è una prassi, una prassi che
facciamo derivare nel mutamento/nella transizione tra latino e volgare, senza riprendere i concetti che già
conosciamo di storia della lingua, ma in latino la collocazione sintattica, la posizione delle parole all’interno della
frase era molto più libera perché la loro funzione logica era chiarita dalla desinenza che ci faceva capire il caso e
quindi la funzione logica all’interno della frase. Si è perso nel passaggio all’italiano il sistema dei casi, la desinenza in
italiano chiarisce soltanto per esempio nei sostantivi il maschile, il femminile, il singolare e il plurale, nei verbi la
persona ma certamente nei sostantivi non chiarisce se quella parola è soggetto, complemento oggetto o altri
complementi. Per cui si è dovuta cristallizzare una funzione logica per cui l’elemento convenzionalmente che
precede il verbo è il soggetto, l’elemento che lo segue è convenzionalmente l’oggetto. Ripetiamo che è solo una
prassi. Facciamo un esempio: se io dico “Marco ama Lucia” e poi dico “Lucia ama Marco” certamente le parole sono
identiche ma la posizione delle parole nelle due frasi fa si che io
abbia detto due frasi diverse, abbia detto due frasi che veicolano un significato diverso. Nella prima frase “Marco
ama Lucia” è Marco il soggetto della frase, invece nella seconda frase il soggetto è Lucia. E che cosa mi fa capire che
ciò sia vero? Semplicemente la posizione delle parole.

Convenzionalmente la posizione della parola che viene prima del verbo lascia intendere che questa parola in quella
frase sia il soggetto però sono possibili molti cambiamenti che noi definiamo come sintassi marcata.

Vediamo alcuni esempi di sintassi marcata, marcata significa una sintassi che preveda lo spostamento di alcune
parole, di alcuni elementi della frase rispetto all’ordine basico SVO (soggetto verbo oggetto) con lo scopo di marcare,
di sottolineare un elemento in particolare all’interno della frase. Il primo costrutto di sintassi marcata è il soggetto
posposto: nella frase “è venuto Giovanni” è evidente che il soggetto Giovanni del verbo “è venuto” non è nella
posizione che vedrebbe l’ordine basico ma è posposto, messo dopo il verbo, “ è venuto Giovanni, non Mario” ad
esempio.

Proviamo a immaginare per capire l’effetto comunicativo di questa frase, proviamola ad immaginarcela in un
contesto pragmatico: se io dico “Giovanni è venuto” esprimo semplicemente un andamento classico tra tema che
sarebbe Giovanni e rema cioè l’elemento nuovo (è venuto). Se invece io pospongo l’oggetto intendo che
l’informazione nuova è Giovanni: “è venuto Giovanni” intendo che è venuto proprio lui, non è venuta un’altra
persona che magari ci si aspettava. In questo caso che qualcuno sia venuto è l’elemento dato, è il tema, è il topic.
L’elemento nuovo è che a compiere questa azione sia proprio stato Giovanni e nessun altro. Quindi in questo caso si
pospone il soggetto per marcare il soggetto che diventa l’elemento nuovo, che diventa il rema della frase e quindi
assume una posizione di preminenza.

Un altro esempio di sintassi marcata è la dislocazione a sinistra, come funziona? Si pone sulla sinistra, nell’ordine di
scrittura o del parlato quindi all’inizio della frase, un elemento cambiando così l’ordine basico per marcare, per
sottolineare un aspetto comunicativo.

L’elemento dislocato viene all’interno della frase ripreso da un pronome con “funzione anaforica” che significa che
quel pronome si riferisce a un elemento che è già stato nominato prima all’interno della frase. Facciamo un esempio,
spero più chiaro che non la semplice definizione: “Il giornale mio marito lo legge alla sera, io lo leggo alla mattina”. In
questo caso l’ordine basico sarebbe “mio marito legge il giornale alla sera”, mio marito soggetto, legge verbo, il
giornale complemento oggetto e quando alla sera. In questo caso io ho dislocato il complemento oggetto a sinistra
facendolo riprendere con il pronome “lo” con funzione anaforica per porre il giornale in posizione di tema,
immaginiamo ovviamente questa frase inserita in un contesto pragmatico altrimenti tutto ciò non si comprende.
Vedere l’analisi della singola frase ha poco senso, dovremmo immaginarla inserita in una situazione comunicativa. In
questa occasione il giornale è l’elemento che già condivido con l’altro mio interlocutore, magari mi è stato chiesto
“ma quando leggete il giornale voi in famiglia?” il giornale che è l’elemento noto, il tema, il topic: “mio marito lo
legge alla sera”. In questo caso l’elemento nuovo, l’elemento che si dà come informazione aggiuntiva è che viene
letto alla sera. Un’altra risposta potrebbe essere: “Io lo leggo alla mattina” e si rispetta questo andamento tema/
rema ma marcando il complemento oggetto mettendolo in posizione di tema.

Del tutto speculare alla dislocazione a sinistra abbiamo la dislocazione a destra: ha finalità molto simili cioè quelle di
tematizzare l’elemento dislocato cioè metterlo in questo caso ancora più a destra di dove sarebbe stato.

La frase con costrutto base sarebbe, “io ho già salutato tua sorella”, in questo caso si vuole dislocare a destra il
complemento oggetto “tua sorella” che è già alla fine della frase ma lo si pone ancora più alla fine perché lo si fa
anticipare da un pronome con “funzione cataforica”, che significa che anticipa un elemento che deve ancora essere
nominato all’interno della frase.

La virgola che separa l’elemento dislocato rispetto al resto della frase ci può essere come pausa oppure può anche
mancare. L’essenziale che non può mancare è il pronome. Quindi in questo caso “tua sorella” sarebbe l’elemento
tematizzato, è l’elemento noto. “L’ho già salutata tua sorella” perciò sappiamo che parliamo di tua sorella e
l’elemento nuovo che dico è “l’ho già salutata”.

Ovviamente ce lo immaginiamo sempre all’interno di una situazione pragmatica.


Sia a destra sia a sinistra, quali sono gli elementi della frase che possono essere dislocati? (Cioè, posti in una
posizione nuova, marcata rispetto all’ordine basico SVO della lingua italiana)

Questi sono tutti esempi di dislocazione a sinistra ma potremmo dislocare gli stessi elementi a destra. Vediamoli: Si
può dislocare a volte l’oggetto indiretto: “A mio padre, gli ho già parlato” in questo caso il complemento di termine
messo in posizione di tema viene ripreso dal pronome indiretto “gli”. Questa è substandard cioè se da un lato la
dislocazione del complemento oggetto diretto è accettabile nel parlato, non lo è quella degli elementi indiretti
perché ancora percepiti come troppo pesanti. Sappiamo tutti che non si può dire “a me mi” ecco adesso capiamo
perché non si può dire: l’elemento dislocato sarebbe un complemento indiretto quindi “a me mi piace il gelato” pur
essendo ancora percepito come un errore, come sotto il livello standard della lingua è una dislocazione a sinistra. Il
predicativo: “Avvocato, non lo diventerò mai” anche qui c’è la ripresa pronominale, il partitivo: “Di torta, ne ho
mangiate due fette” e infine il complemento di argomento “Di questo, ne parleremo domani”

Approfitto per dire una cosa importante tutti questi esempi, tutti gli esempi di sintassi marcata o meglio soprattutto
quelli di dislocazione a sinistra/destra sono costrutti accettabili nell’italiano colloquiale/parlato e vengono usati in
questa varietà dell’italiano anche frequentemente. Forse la dislocazione dell’oggetto indiretto è l’unica non
accettabile nemmeno nell’italiano parlato. Ma tutti questi esempi, tutte queste costruzioni, tutti questi costrutti non
sono accettabili nell’italiano scritto, perlomeno nell’italiano scritto formale, sono ancora substandard.

Vediamo altri esempi di sintassi marcata. Innanzitutto il tema libero o sospeso, che consiste nel mettere in posizione
di tema un elemento che poi però non viene ripreso in modo coerente dal punto di vista morfosintattico all’interno
della frase. “Gli asparagi” è l’elemento tematizzato ma nella frase “Gli asparagi adesso non è stagione” non c’è un
accordo grammaticale, un accordo morfosintattico tra il soggetto, quello che sembra essere il soggetto cioè gli
asparagi (è in posizione di tema e parrebbe essere soggetto) e il predicato. Il soggetto sarebbe plurale e il predicato
sarebbe singolare. In realtà la frase standard non marcata sarebbe “Adesso non è la stagione degli asparagi” quindi
viene tematizzato, messo in posizione di tema un elemento che è diverso dal soggetto e non lo si fa collegare da un
legame morfosintattico con il predicato. È un costrutto tipico, frequente nel parlato. Noi lo realizziamo
frequentemente perché abbiamo un bassissimo tempo di programmazione linguistica quando parliamo cioè il tempo
che separa il pensiero dalla parola è necessariamente molto breve o comunque molto più breve che lo scritto.
Quando scriviamo abbiamo il tempo di fermarci, riflettere, se è necessario autocorreggersi e riformulare la frase
scritta. Mentre parliamo questa possibilità non ce l’abbiamo o meglio le autocorrezioni sono possibili mentre la frase
si sta realizzando, si sta componendo quindi a volte iniziamo la frase con un tema che poi però durante la frase ci
rendiamo conto di non collegare adeguatamente con il rema, un soggetto che non colleghiamo adeguatamente con
un predicato. Anche gli scritti che simulano il parlato possono manifestare simili costrutti che comunque rimangono
tra il substandard e lo standard, non sono pienamente lingua standard, non sono accettabili a un livello di scritto
medio.

Altro fenomeno, la frase scissa: “è a te che penso in continuazione” . La frase in ordine basico sarebbe: “Io penso in
continuazione a te” quindi si prende l’elemento nuovo, il rema e lo si mette in posizione di tema quindi “è a te che
penso in continuazione” nel fare questo si scinde un’unica

frase, quella di partenza (in ordine basico) in questa maniera: l’elemento tematizzato, l’elemento posto in posizione
di tema è introdotto dal verbo essere alla terza persona singolare e tutto il resto è introdotto da un pronome relativo
che è quindi una pseudo relativa. In questo caso si mette in posizione rilevante l’elemento nuovo, il rema che viene
messo in posizione di tema che viene

tematizzato. Si parla in questo caso di frase scissa.

Poi abbiamo la pseudoscissa: questa è affine alla frase scissa. “Ciò che vediamo è che l’agricoltura si sviluppa con
mezzi differenti” Qui si tratta di una frase non semplice, ci sono già due predicati ma comunque noi vediamo che
l’agricoltura si sviluppa con mezzi differenti. La parte introdotta dal verbo “essere” è già ciò che vediamo come
elemento tematico, rimane in posizione di tema ciò che anche nella frase ordine basico era un tema quindi qui non
c’è una tematizzazione del rema per marcarlo, per quello si chiama pseudoscissa. La struttura è identica a quella
della scissa cioè una parte introdotta dal verbo essere e un “che” pseudo relativo che introduce appunto una pseudo
relativa. Ma non si muta l’andamento tema/rema, ciò che era tema nella frase non marcata rimane tema nella frase
marcata. D’altro canto, anche ciò che era rema continua ad essere rema. “L’agricoltura si sviluppa con mezzi
differenti” non c’è un elemento marcato che viene posto in posizione differente.

Il “c’è PRESENTATIVO”: è un costrutto affine a quello della frase scissa soltanto che anziché l’elemento con il verbo
essere si usa il C’E’, “C’è Giovanni che vuole entrare” per il resto, la pseudo relativa rimane.
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IL LESSICO

In questa lezione offriremo una panoramica generale sul lessico dell’italiano, considerandone gli aspetti principali.
Approfondimenti su aspetti specifici come per esempio il lessico tecnico specialistico o i dialettismi verranno fatti
nelle prossime lezioni.

Che cos'è il lessico?

Il lessico può essere definito come l'insieme delle parole e delle locuzioni di una lingua a cui vengono associate
informazioni di vario tipo. Il lessico di una lingua comprende un numero notevole di unità che vengono dette
lessemi. Attraverso quest’ultimi una comunità di parlarti cerca di catalogare in modo esaustivo l'universo materiale e
immateriale in cui vive. Dato che una non piccola parte del lessico viene continuamente modificandosi per adattarsi
alle esigenze mutevoli della società, i lessemi di una lingua costituiscono una classe aperta. Questo significa anche
che non è facile formulare stime quantitative sull'estensione del lessico di una lingua, dell'italiano in particolare; su
questo terreno non ci aiutano più di tanto neanche dizionari che anche qualora si prefiggano la massima
completezza, risultano sempre selettivi. Le cifre di questo computo possono cambiare a seconda dei criteri adottati,
cioè se nel lessico comprendiamo le varianti gli alterati, come diminutivi e accrescitivi, termini tecnico specialistici,
parole regionali e dialettali, forestierismi. Gli studiosi convergono su una cifra che è quella delle duecentomila unità
che dovrebbero costruire il patrimonio lessicale di una lingua di culture, quindi anche dell’italiano. Questa cifra può
anche aumentare molto se si includono anche i termini tecnico-specialistici di discipline come la chimica o la
medicina.

Più interessante valutare la quantità di parole utilizzate da un singolo individuo, per esempio uno scrittore o da
gruppi di parlanti. In questo senso potremmo distinguere fra vocabolario attivo (si intende l’insieme delle parole che
un individuo o un gruppo è in grado di usare) e vocabolario passivo (si intendono quelle parole che vengono
comprese ma che vengono utilizzate direttamente dal parlante o scrivente). Per tutti noi il vocabolario passivo è più
esteso di quello attivo; questo si capisce, noi siamo in grado di comprendere più parole rispetto a quelle che usiamo
attivamente. Anche i confini di questi due domini non possono essere determinati esattamente, perché variano da
persona a persona, da certo sociale a ceto sociale, e si va da poche migliaia di parole nei vocabolari lessicalmente più
poveri, a circa 20mila/30mila parole per gli scrittori lessicalmente più ricchi. Sul fronte della povertà lessicale spicca
quella che è stata chiamata la “generazione 20 parole”: si tratta di una generazione di giovani, che secondo alcune
ricerche fatte in particolare tra adolescenti del Regno Unito, secondo queste ricerche i giovani quando parlano fra di
loro usano 800 parole diverse e in un terzo delle loro conversazioni le parole ricorrenti sarebbero solo 20, da qui la
denominazione “generazione 20 parole”. Anche se si può avere qualche dubbio sui numeri, la sostanza rimane la
stessa, anche gli studiosi di lingua italiani concordo nel denunciare questa povertà lessicale soprattutto fra i più
giovani, ma non solo perché si legge molto spesso sui giornali di iniziative a favore di parole da salvare o si possono
trovare anche in libreria dei libri che hanno come obiettivo quello di salvare parole ormai desuete che si usano
sempre meno.

Nella slide (1) vediamo due esempi: nel primo caso abbiamo un volume chiamato “Il dimenticatoio” compilato dalle
relatrici dalla casa editrice Franco Cesati nel 2016 e il secondo caso il volume di Arcangeli “Senza parole”.
Quest’ultimo volume propone un percorso fra 50 parole dimenticate o rischio di estinzione trattate in maniera
discorsiva, mentre “il dimenticatoio” che è stato pubblicato nel 2016 e compie una vera e propria operazione di
archeologia verbale, perché propone a modi di dizionario circa 2000 parole di basso uso e parole di archeologia
verbale perché sono parole curiose, dalle prime lettere troviamo parole abbacone, abento, accaffare, voci che
difficilmente rientreranno in circolo, però la lingua è imprevedibile per cui non è certo che siano parole morte. Un
esempio di questa tipologia di parole che ritornano, che si chiamano neologismi di ritorno, la offre una parola
comune, la parola “calcio”. Questa parola venne riesumata alla fine dell’Ottocento per sostituire l'inglese football e
questa parola era una parola arcaica che una indicava un gioco del calcio fiorentino cinquecentesco. Si decise di
sostituire questo anglismo, dapprima con la locuzione palla al calcio e poi con la parola calcio, quindi per l'epoca era
proprio un neologismo di ritorno.

Le ricerche sui diversi vocabolari permettono di individuare con una buona approssimazione qual è la competenza
lessicale media che è utile per circoscrivere il lessico di base rappresentato da quel nucleo centrale di vocabolari
attivi e passivi di tutti i parlanti, costituito da parole che ricorrono con più frequenza nella lingua e che sono
maggiormente disponibili. Oltre alla frequenza vi sono anche altri tratti del lessico che contribuiscono a stabilirne la
fisionomia e a differenziarlo al suo interno a seconda dei suoi molteplici impieghi. Tutti noi sappiamo distinguere le
parole d’uso comune da quelle riservate a determinate occasioni, specialmente quelle più formali; sapremo
distinguere tra parole che useremmo solo nel parlato da quelle tipicamente scritte. Le parole più correnti, anche
scontate, da quelle più obsolete, quindi con una forte differenziazione interna. Qui arriviamo al punto perché
potremmo immaginare il lessico come una sorta di magazzino dalla struttura complessa diviso in reparti o in
sottoinsiemi ed esteso su più livelli. Questi sottoinsiemi e questi livelli sono comunicanti tra di loro: pensiamo per
esempio agli interscambi sempre più frequenti fra il lessico comune della lingua comune e lessico tecnico
specialistico. Si tratta anche di un magazzino costantemente in progress, cioè un magazzino in cui continuamente
arrivano parole, ma escono anche molte parole. La struttura di questo magazzino è determinata non solo dai
rapporti di significato e di forma fra le parole che imparentano fra di loro le parole ma anche nei loro ambiti d'uso
quindi abbiamo tipicamente le parole dei vari settori tecnico specialistici ma è un magazzino differenziato anche in
base alla coloritura regionale o dialettale delle parole, dalla loro origine, dalla novità e della loro entrata in
circolazione.

Bisogna fare un discorso a parte quando si parla non del lessico di una lingua generale, ma del lessico di uno
scrittore, al proposito abbiamo già fatto cenno al ricco lessico di Dante che conta circa 17mila vocaboli diversi, lessico
ricco se pensiamo al fatto che si colloca nei primi anni di vita dell'italiano e al fatto che tante parole sono proprio
nate con lui. Ricordiamo anche un altro autore Gabriele D'Annunzio, se già un'analisi impressionistica dei suoi scritti
ne fa emerge la grande ricchezza lessicale e il suo attingere ai serbatoi più disparati, prevalentemente antichi, gli
studi ci dicono che D’Annunzio ricorre a 40mila vocaboli diversi e molto spesso si tratta di parole arcaiche o arcaismi
risalenti al 3 e al 400. Gli arcaismi vengono impiegati da D'Annunzio per dare alla sua pagina quel tipico sapore di
ricercatezza anticata e sono attinti da D’Annunzio non solo dalle fonti dirette, per l'appunto la letteratura 3 e
4centesca, ma dai vocabolari storici, cioè quei vocabolari che si prefiggono di registrare la tradizione letteraria
attraverso la citazione di esempi di autore. Un caso storico è quello del vocabolario degli accademici della Crusca. Per
quanto riguarda sempre d’Annunzio, le ricerche sui suoi testi hanno rilevato come la sua fonte privilegiata fosse il
dizionario della lingua italiana di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini. Proprio dal Tommaseo Bellini, D’Annunzio
aveva ripescato molti degli arcaismi, che erano stati dimenticati, con i quali l'autore intendeva stupire i propri lettori.

La disciplina della linguistica che si occupa dello studio sistematico del lessico si chiama lessicologia, che fa
riferimento alla struttura del lessico, soprattutto in riferimento al significato delle parole, alla formazione del lessico
e la sua evoluzione storica. La lessicologia studia il lessico di una lingua allo scopo di individuare le proprietà delle
parole e illustrare il modo in cui queste sono in relazione tra di loro e possono combinarsi. Si avvale anche del
contributo di altri settori come la semantica (che ha a che fare con lo studio del significato) e la sintassi. Dalla
lessicologia che è lo studio del lessico, si distingue la lessicografia che ha come scopo principale la compilazione delle
fonti lessicografiche, cioè dei vocabolari, glossari, database.

Rispetto alla lessicologia, la lessicografia ha uno statuto applicativo, perché si occupa di individuare le modalità
ottimali per descrivere i significati, le proprietà grammaticali, gli usi delle parole all'interno di un vocabolario e in
relazione a variabili come il tipo di vocabolario (che può essere storico, dell’uso, dei sinonimi, specialistico) e del suo
utente. Gli strumenti lessicografici sono opera di persone, che sono i lessicografi che hanno come professione quella
di compilare vocabolari. Questo può farci soffermare un’istante contro uno stereotipo per cui il vocabolario sarebbe
un oggetto magico, calato dall'alto in cui viene depositata una verità. In realtà il vocabolario è opera di persone,
quindi persone anche fallibili che hanno anche le proprie opinioni. Questa caratteristica della personalità dei
vocabolari è evidente se ne percorriamo la storia. L’esempio più classico riguarda il dizionario della lingua italiana di
Tommaseo e Bellini, pubblicato in 20 volumi tra il 1861-1879. Quest’opera è l’opera lessicografica più importante
dell’Ottocento, detto “il secolo dei vocabolari” perché vi furono pubblicati numerosi vocabolari di diverso impianto:
vocabolari storici, dialettali, puristici, dei sinonimi, delle terminologie specialistiche, dell'uso.
Questo vocabolario che si chiama comunemente Tommaseo-Bellini è particolarmente importante per il suo carattere
di vocabolario personale, perché essendo un'opera per cui gli autori si erano vantaggiati dell'aiuto di molti
collaboratori, anche di specialisti di singole discipline, personale perché il Tommaseo rivedeva tutte le schede prima
di inviarle in tipografia e le arricchiva di aggiunte e di osservazioni talvolta anche molto personali.

È il caso di questa voce che vedete nella slide molto famosa, la voce “procombere” questa voce viene preceduta dalla
doppia croce ed era un simbolo che contrassegnava il forestierume e la barbarie, quindi le voci da evitare perché
straniere o inadeguate. Poi tra parentesi quadre c’è quella “T” puntata che era quella sigla che contrassegnava le
voci di mano del Tommaseo stesso. All'interno dell'articolo si legge per “procombere”: «Cadere dinnanzi o cader per,
dal lat. pretto, l’adopera un verseggiatore moderno, che per la patria diceva di voler incontrare la morte.
Procombrerò: Non avend’egli dato saggio di saper neanco sostenere virilmente i dolori, la bravata appare non essere
che rellorica pedaniera». Quindi fa riferimento a un verseggiatore che aveva utilizzato quest’espressione, che però
diceva che alto tasso di acredine che questa era una semplice retorica pedanteria. Chi era questo verseggiatore? Era
Giacomo Leopardi che nel canto “All’Italia” aveva usato questa espressione dicendo che avrebbe fatto di tutto pur di
salvare la sua Italia caduta da tanta altezza in così basso loco.

Nella slide 5 troviamo un altro esempio di incursione del lessicografo all'interno dell’opera lessicografica si tratta
nello specifico del dizionario della lingua italiana pubblicato nel 1936 da Enrico Mestica e dedicato a Benito
Mussolini. Questo ci dà già un indizio dell’impostazione ideologica filofascista di questo dizionario in cui si
prospettava la superiorità della lingua italiana contrapponendola al francese. Questa impostazione ideologica si
legge anche in alcune voci di stampo politico, come nazionalista; in questa voce “Nazionalista” si fa un elogio di
questa ideologia politica del nazionalismo e alla fine dice: «il Popolo d'Italia è oggi tutto un Fascio Nazionale; opera
maravigliosa di Benito Mussulini, restauratore delle glorie e delle fortune d’Italia.

Possiamo parlare di lessema e dilemma. Da un lato, il lessema, cui abbiamo già fatto cenno come unità base del
lessico, in lessicologia indica l'unità del lessico assunta come forma base alla quale sono ricondotte le forme flesse,
quindi lessema indica l'unità del lessico considerata in astratto. Dall'altro lato, e sul fronte della lessicografia,
troviamo il lemma o entrata lessicale, che corrisponde alla singola voce di un dizionario e che costituisce la
controparte lessicografica del lessema. Il lemma o entrata lessicale è quella parolina in neretto e ordinata
alfabeticamente che cerchiamo quando sfogliamo il vocabolario. La parte del vocabolario che spiega il lemma è
invece chiamata articolo o voce. L'insieme dei lemmi di un vocabolario è detto lemmario. Potrò dire che il lemmario
dello Zingarelli 2020 ammonta a 145mila lemmi o 145mila entrate.

Che cosa sono i vocabolari? I vocabolari sono quelle opere che registrano e spiegano il lessico di una lingua. I
vocabolari possono anche essere supportati da un CD room o da chiavetta o anche dalla sola rete Internet, ma in
ogni caso la loro funzione non cambia, che è quella di registrare e spiegare il lessico. La mole dei vocabolari non è
determinata tanto da fattori obiettivi come le parole o le locuzioni di una lingua, che abbiamo detto essere difficili,
impossibili, da censire nella loro varietà di impieghi, nella loro stratificazione diacronica, senza contare che l'italiano
è una lingua flessionale con coniugazioni, flessioni per maschile, femminile, singolare plurale, possibilità di alterare le
parole con diminuitivi e accrescitivi; quindi per questa caratteristica di essere una lingua flessionale, fa si che le
parole dell’italiano siano molte di più rispetto quelli censite dai vocabolari per i quali appunto la forma di riferimento
è stabilita per convenzione, per cui abbiamo l'infinito per il verbo, il maschile singolare per il nome e per l’aggettivo e
così via.

La mole dei vocabolari non è determinata da fattori obbiettivi, quanto piuttosto dagli scopi che si pone il lessicografo,
che può decidere di compilare un vocabolario dell'uso vivo, un vocabolario storico che abbracci la nostra tradizione
letteraria, un vocabolario di base per giovanissimi, pensiamo ai vocabolari dello Zanichelli. In base allo scopo del
vocabolario il computo delle parole può variare anche sensibilmente; abbiamo detto che i linguisti considerano che il
lessico dell'italiano si aggiri sulle 200 mila unità e su questa cifra si aggirano anche le parole che vengono registrate
dal vocabolario italiano dell'uso probabilmente più noto e diffuso, “Lo Zingarelli”. Nell'edizione 2020 Lo Zingarelli
include 145mila lemmi e 380 mila significati: quest’ultimi sono molti di più dei lemmi, perché le parole sono spesso
polisemiche, vuol dire che una stessa parola può avere più significati.

Ogni anno questo vocabolario viene pubblicato via via aggiornandolo e nella slide (6) vediamo in particolare i
neologismi introdotti negli ultimi anni. Si tratta di locuzioni come “bolla di filtraggio”, derivati e composti come
“carnettista” e “ciclofattorino” o anche di parole straniere che entrano nella nostra lingua. Il neologismo è un
concetto relativo, questo vuol dire che una parola è nuova relativamente a un determinato momento storico, per
esempio parole molto comuni oggi come “selfie” e “weeding planner” erano registrate per la prima volta nel 2015
nello Zingarelli e quindi avevano più spiccato valore neologico qualche anno fa, mentre oggi sicuramente sono più
comuni. Vorrei anche far notare fra i nuovi ingressi del 2018 un'altra parola testimone dell'epoca che è “Brexit”, che
è stata usata poi come modello alla fine del 2019-2020 per un altro neologismo che ancora non è stato incluso nel
vocabolario Zingarelli, che è “Megxis” a indicare lo strappo dalla casa reale inglese dovuto alla duchessa Meghan
Markle.

Appare interessante soffermarsi anche su un’altra fonte lessico-grafica, la più importante di cui al momento
disponiamo in Italia: si tratta del “grande dizionario italiano dell’uso” noto anche come GRADIT, con un acronimo,
ideato e diretto da Tullio de Mauro e pubblicato fra il 1999 e il 2007 in otto ponderosi volumi: sei volumi più due
volumi, con integrazione di parole nuove e nuove accezioni. Il GRADIT consta di 250.000 lemmi, quindi ben 100.000
in più rispetto allo Zingarelli ed è soprattutto incentrato sull’uso del ‘900, cioè il suo scopo è quello di fotografare
l’uso novecentesco. Sulla base di questo uso viene adottato un sistema di marche, detto appunto marche d’uso, che
qualificano i lemmi. Allora vediamo quali sono queste marche che vedete nella slide della colonna di destra: queste
marche sono FO, che sta per fondamentale e che indica 2000 lemmi di altissima frequenza, come per esempio le
parole grammaticali (articoli, pronomi, congiunzioni, eccetera) ma anche parole che noi usiamo abitualmente e
quotidianamente, come per esempio parole come mano, gamba, gatto, pane, lago. Ci sono poi parole di alto uso, AU,
sono circa 2500 e indicano parole un po’ meno frequenti, ma di cui comunque non possiamo fare a meno.
Scendendo abbiamo AD, di alta disponibilità, e sono circa 1900 i lemmi di alta disponibilità che si riferiscono a parole
che designano oggetti ed azioni quotidiani, ma che noi usiamo relativamente poco quando parliamo e quando
scriviamo, per esempio la parola “alluce” tutti sappiamo che cos’è l’alluce, però quotidianamente perlomeno non
parliamo di alluci. Queste tre categorie, “fondamentali”, “di alto uso” e “di alta disponibilità” costituiscono il nucleo
fondamentale della nostra lingua e il cosiddetto “vocabolario di base”, che quindi consta di circa 6.400 parole.
Accanto a questo nucleo del vocabolario di base, c’è anche un altro nucleo ben più ampio che conta 47.000 lemmi è
quello delle parole comuni, CO. Come si legge nell’introduzione del vocabolario con questa marca vengono indicati i
vocaboli che sono usati e compresi indipendentemente dalla professione o mestiere che esercitiamo o dalla
collocazione regionale, e che sono generalmente noti a chiunque abbia un livello medio-superiore di istruzione. Le
altre marche sono quelle che vedete in slide, su cui non mi soffermo più di tanto. È più interessante vedere e
constatare come i termini marcati con TS, termini di uso tecnico-specialistico, rappresentino un contingente molto
significativo, perché sono 107.000. Ancora è interessante, insieme alle parole letterarie, regionali, dialettali, di basso
uso e obsolete, soffermarsi un attimo su quelle ES, esotiche, che sono rappresentate da quelle parole fomo-
morfologicamente non adattate, quindi integrali e che il parlante e scrivente sente e percepisce come non
appartenenti alla lingua italiana. Infine in questa slide vi ho riportato un esempio con il lemma “terrone”: vedete il
lemma viene suddiviso in sillabe, viene indicato l’accento, poi c’è lo statuto grammaticale SM, sostantivo maschile, la
marca d’uso CO, cioè è una parola comune ed è una parola comune di tipo stereotipico e spregiativo, c’è la
definizione: “appellativo con cui sono disegnati gli italiani del sud” e quindi la data di prima attestazione nella nostra
lingua e che è il 1950 (questo è l’anno in cui è stato attestato per la prima volta questo lemma) e poi una etimologia,
una spiegazione dell'origine di questa parola, cioè derivato di terra con il suffisso -one.

Vediamo ora più da vicino come è composto il lessico. In prima approssimazione possiamo individuare tre principali
macroaree: abbiamo il lessico ereditario di derivazione latina, abbiamo l’apporto interno che è fornito dai processi di
derivazione e composizione, e abbiamo l’apporto esterno in base al quale il lessico italiano si arricchisce attraverso i
prestiti. Si tratta di una suddivisione a maglie larghe su cui torneremo nelle prossime slide. A queste tre principali
macroaree se ne possono aggiungere anche altre che hanno minore importanza quantitativa, minor peso
quantitativo: abbiamo le parole costruite attraverso la progressiva fissazione dei rapporti semantici e sintattici tra
due o più parole semplici che concorrono frequentemente, ad esempio da degli antichi “pur” “troppo” e “in” “vece”
si sono create queste due parole “purtroppo” e “invece” che vedete in slide. Il lessico si arricchisce anche grazie alle
onomatopee “bla-bla”, “chiacchiericcio” e altri esempi che vedete, attraverso sigle e acronimi che spesso non
riconosciamo come tali: per esempio la parola “laser” è dai più individuata e riconosciuta come un forestierismo ma
in realtà è una sigla e deriva da “light amplification by stimulated emission of radiation” e lo stesso vale per altri: TAC
“tomografia assiale computerizzata” e altri esempi che vedete in slide. Un altro modo attraverso cui la lingua si
arricchisce è la creazione dal nulla, qui ci sono tre esempi di parole inventate che risalgono a un film cult del 2004
che si chiama “Mean Girls”: una dei personaggi inventa delle parole e queste sono le parole che compaiono nella
versione italiana sono “frico”, “sghicio” e “strilonza”, che questo personaggio si inventa sperando che poi prendano il
volo e che vengano usate anche dai suoi amici. Un altro modo di creazione dal nulla è il nome commerciale:queste
parole che vedete (aspirina, borotalco, nutella, nylon) nascono appunto come nomi di marca, e poi in virtù del loro
grande successo, del loro uso diffuso sono diventati dei nomi comuni.

Dunque, tornando alle tre principali macroaree di cui si compone il lessico italiano, la prima che vediamo è quella del
lessico ereditario in cui compaiono le parole di origine latina che ci sono giunte dal latino, in particolare dal latino
volgare, per tradizione ininterrotta. Per l’italiano è più facile riconoscere la base latina rispetto ad altre lingue
romanze come per esempio il francese, il portoghese, lo spagnolo. Lo si vede bene dalla slide, dove c’è la parola
latina “Aqua” che continua “acqua”, che sostanzialmente dal punto di vista fonetico rimane inalterata (è una parola
antica attestata in italiano nel 1224), mentre le altre lingue sono maggiormente interferite, sono modificate nel
tempo. Nel GRADIT che abbiamo citato queste parole ereditarie ammontano al 14% sul totale, ma salgono al 52% se
consideriamo solo il vocabolario di base e quindi le voci fondamentali di alto uso e di alta disponibilità. Questo
contingente del lessico ereditario va tenuto distinto e separato dai cosiddetti prestiti colti o cultismi, parole come
“deficit” o “alibi”, vedete in slide, che non ci giungono direttamente dal latino per trafila in interrotta, per tradizione
ininterrotta, ma ci giungono in italiano come dei veri e propri e prestiti: “deficit” risale al 1783 e noi fra l’altro
l’abbiamo preso dal francese dove compariva molto prima e “alibi” che in latino significa altrove, compare italiano
nel 1723. Quindi sono anche prestiti relativamente recenti. Se prendiamo per fare un altro esempio un titolo
giornalistico come “referendum” e “sfida sul quorum”, vediamo che appunto si tratta di prestiti. Referendum
attestato nel 1892 e qualche anno prima anche in francese e quorum addirittura nel 1500. In questi casi il latino
funziona come serbatoio per italiano quindi come una qualsiasi altra lingua straniera.

Nella seconda macroarea vengono sfruttate le regole di formazione tipiche della lingua. La lingua cioè ricorre a
meccanismi suoi propri, meccanismi interni, per arricchirsi e non a caso si parla anche di apporto endogeno, cioè
dall’interno. Per l’italiano queste regole consistono nella derivazione mediante affissi (prefissi e suffissi) e nella
composizione. La derivazione produce parole nuove a partire da una parola base con l’aggiunta di morfemi derivativi
che non sono lessicalmente autonomi, detti affissi. I più comuni sono i suffissi, che sono morfemi che si pongono di
seguito alla parola base, per cui abbiamo per esempio il suffisso -ale, che posposto alla parola emergenza dà
“emergenziale”, abbiamo il suffisso -oso, che posposto a petalo dà il famigerato “petaloso”.

Abbiamo anche i prefissi, che sono morfemi che si premettono alla base per cui il prefisso dis-, premesso ad abile dà
“disabile”, post- premesso a moderno dà “postmoderno”. I processi di derivazione, e lo stesso avverrà poi per i
processi di composizione, comportano non solo un mutamento formale della parola, bensì anche un mutamento
semantico di significato. In molti casi avviene anche un passaggio di categoria grammaticale, quella che si chiama una
transcategorizzazione.

Un esempio può essere dato da quei suffissali che derivano da un nome e che attraverso il suffisso -are creano dei
verbi. Questa classe dei verbi in -are è particolarmente produttiva e ha dato recentemente voci nuove come
staffettare, nomadare, che è una parola d’autore che si deve a Giorgia Meloni, ma anche dei verbi che derivano da
basi straniere, in particolare inglesi: pensiamo a verbi derivati come “friendzonare”, “shippare”, “blastare”, eccetera.
Se diamo un’occhiata al nostro solito GRADIT, vediamo che i derivati che si sono registrati sono in totale 93.000
(poco più di 93.000), ma se guardiamo anche agli ultimi secoli in cui vengono attestati vedete che c’è una vera e
propria impennata nel ‘900 e questo ci dice di una grande e recente produttività di questo meccanismo nell’italiano.
Abbiamo poi il comparto della composizione, che è invece un tipo di formazione che associa due parole distinte e
autonome in una nuova entità, per esempio dalle parole “chiaro” e “scuro” abbiamo la parola “chiaroscuro”, da
“vagone” e “bestiame” “vagonebestiame”. Ma possiamo anche avere delle locuzioni o sintagmi in cui le due parole
rimangono formalmente distinte:

pensiamo a parole e locuzioni recentissime come “smart working”, “lavoro agile”, “distanza sociale”. Anche per
quanto riguarda la composizione il GRADIT testimonia una impennata novecentesca, se possibile ancora maggiore
rispetto a quella dei derivati; infatti su un totale di 35.000 composti ben 27.900, quasi 28.000, sono novecenteschi.
Accanto a questi due meccanismi fondamentali della derivazione della composizione sempre nell’ambito della
formazione delle parole e quindi degli apporti interni, vanno almeno ricordati anche se sono meno produttivi i
processi di transcategorizzazione, quindi senza mutamenti formali della parola e siamo per esempio all’aggettivo
“sommerso” che è passato indicare il lavoro sommerso oppure l’aggettivo “nero” indicante il lavoro in nero. Ancora
gli accorciamenti, “bici” e “tele” da bicicletta e televisione, o ancora per finire, i tamponamenti di parola o parole-
macedonia, costruite a partire da pezzetti di parole che vengono variamente combinate. Esempi di parole macedonia
recenti sono: apericena, i vari aperisushi, aperibau, e anche più recentemente aperivirus, che è un aperitivo che in
tempi di coprifuoco da coronavirus andava consumato prima delle 18.00 quando c’era il coprifuoco, oppure ancora
aperivideo, un aperitivo da fare virtualmente con i propri amici connessi da remoto.

Come per le altre macroaree anche per l’apporto del lessico prestato all’italiano da altre lingue ci limiteremo a
qualche notazione sintetica, per lo più circoscritta ad alcune precisazioni terminologiche che ci serviranno nelle
prossime lezioni. Partiamo dal termine “prestito”, che come è stato notato è un termine ambiguo perché nell’italiano
corrente un prestito presuppone una restituzione, mentre nel prestito linguistico questa restituzione non avviene.
L’italiano quando prende una voce dal francese non gliela restituisce in genere. Ci sono però alcuni casi rari in cui
questo avviene, e un caso è quello di “pantalone”. Questa parola che è attestata in italiano dal 1561 nella forma
“pantalon” dal veneziano, indicava una celebre maschera della commedia dell’arte. Il pantalon dall’italiano passa al
francese nel 1585, e qui un secolo dopo nel 1651, si specializza nel significato di calzoni che noi conosciamo. Con
questo significato la voce pantalon si diffonde in Italia, pantalone, ma anche in diverse lingue del mondo. Quando noi
parliamo generalmente di prestito, intendiamo il prestito da lingue straniere, il prestito esterno, detto anche
forrestierismo o meno spesso stranierismo. Ci sono però anche i prestiti interni, cioè quelle parole ed espressioni che
l’italiano nella fattispecie prende dai dialetti e dagli italiani regionali; ci sono anche i prestiti colti o cultismi che
consistono nel riesumare parole antiche morte e sepolte facendole tornare in circolo. La differenza canonica che si fa
nell’ambito dei prestiti è quella che si fa tra prestiti integrali e prestiti adattati. La differenza fra i due tipi sta
unicamente nella fedeltà nella approssimazione con cui viene riprodotta la voce straniera. Nel senso che la
riproduzione nel prestito integrale è più fedele, in quella adattata no. Nella slide vedete alcuni esempi di prestiti
integrali: flop, pole-position, webcam, prestiti secondo novecenteschi. Quella che vedete tra parentesi è la data di
prima attestazione di queste parole nell’italiano. Poi ci sono prestiti adattati o adattamenti come lanzichenecco,
corsetto, ingaggiare, che noi riconosciamo come prestiti semplicemente e unicamente grazie all’etimologia. Come
risulta guardando alle date di attestazione di queste ultime parole l’adattamento era tipico di fasi antiche della
lingua, mentre più recentemente, all’incirca dal secondo novecento viene preferito il prestito integrale, e quindi una
maggiore conservatività. Questa maggiore conservatività riguarda non solo la forma grafica dei prestiti ma anche
quella fonetica relativa alla pronuncia. Quadrate ancora in slide queste parole primo novecentesche, “bus” e “spray”,
che noi pronunciamo secondo la fonetica italiana, mentre altre più recenti come “optional” “beauty-case” “news”
eccetera sono invece pronunciate dagli italiani secondo il modello inglese, quindi più rispettose e conservative. Lo
stesso accade per i nomi di marca, nel senso che le marche entrate nel nostro mercato da più tempo come la
candeggina Ace, Colgate, Clear, Carefree, vengono pronunciate e pubblicizzate all’italiana, mentre altre marche di
più recente circolazione come Dove e Sunsilk sono invece rispettose del modello di origine che nella fattispecie è
inglese.

All’interno della categoria dei prestiti si trovano anche i calchi, che in prima approssimazione possiamo distinguere in
calchi strutturali e calchi semantici. I primi si verificano quando nella lingua che presta, mettiamo l’inglese, c’è un
derivato o un composto che viene analizzato come tale nella lingua che prende, per esempio l’italiano, quindi
riprodotto con materiali propri. Chiariamo con un esempio: la parola minigonna è un calco sull’inglese miniskirt,
perché l’italiano ha preso la parola inglese miniskirt, l’ha analizzata e l’ha tradotta pezzettino per pezzettino. Lo
stesso che fa l’italiano, lo fanno anche il francese, il tedesco e lo spagnolo rispetto a miniskirt. Nel calcio semantico
invece il significato di una parola della lingua che prende, prendiamo ancora l’italiano come esempio, il significato di
questa parola viene esteso o sostituito per influenza della lingua che presta. In questo caso facciamo un esempio con
il francese: la parola aperitivo era nota e circolante in italiano già dal medioevo nel significato di “ciò che apre”, poi
questa parola è attestata nel significato moderno nel 1905, che come tutti sappiamo è quello di “bevanda che
stimola l’appetito” e che spesso lo sazia, possiamo aggiungere, ma questo è un’altra storia.

Poi possiamo distinguere fra prestito di necessità e prestito di lusso. I prestiti di necessità servono a denominare
oggetti o concetti di origine straniera di cui una lingua, l’italiano nella fattispecie, non ha un equivalente, come per
esempio come vedete nella slide le parole “ananas”, “cacao”, “jet”, che sono prestiti di necessità perché l’italiano
non possiede un equivalente indigeno. Viceversa, nei prestiti di lusso prevalgono le ragioni di prestigio o di moda, nel
senso che la lingua possiede (l’italiano possiede) un equivalente per questi prestiti ma preferisce ricorrere alla parola
straniera perché di maggiore prestigio, come nei casi che vedete di “chef”, “défilé”, “babysitter”, ma ce ne sono
moltissimi altri.

Nelle lezioni precedenti e in particolare in quelle di storia della lingua, abbiamo più volte accennato al vario e
persistente influsso delle lingue straniere sull’italiano. Ora vediamo brevemente sempre grazie al GRADIT qual è la
situazione fotografata nel Novecento. Nel GRADIT sono testimoniate più di 250 lingue straniere, un numero molto
elevato, anche se solo 16 di queste contano più di 50 lemmi. Nella slide vedete quelle che sono le lingue più
rappresentate, sia rispetto agli adattamenti, sia rispetto ai prestiti integrali, poi c’è appunto una voce che fa il totale
fra le due tipologie. Fra i prestiti non adattati o integrali spicca l’inglese con 4.303 prestiti integrali, seguito a grande
distanza dal francese che comunque mantiene una sua vitalità negli apporti.

Per quanto riguarda i prestiti adattati, invece hanno la meglio il greco, che mostra una vitalità soprattutto nelle
terminologie tecnico-specialistiche in particolare la medicina, e poi ancora il francese che è la lingua da cui l’italiano
è storicamente e quantitativamente più debitore. Per concludere possiamo notare come la fenomenologia del
prestito è del tutto naturale nelle lingue, per esempio pensiamo all’inglese in cui circa tre quarti delle parole è
prestato, e si tratta soprattutto di latinismi. Possiamo dire che l’inglese è la lingua più latinizzata del mondo non
neolatino, e gli esempi si sprecano, pensate a parole come “family” che deriva dal latino “familiam” o la parola
“school” che deriva dal latino “scholam” a sua volta dal latino “scholé” che pensate un po’ significa riposo, tempo
libero.

Elementi di testualità
Ecco io inizierei questa rassegna sugli elementi di testualità proponendovi due esempi di elementi linguistici il primo
è tratto dal romanzo ‘Ulysses’ di Joyce, il secondo è un cartello che possiamo trovare negli edifici pubblici, ma non
solo.
Partiamo da questo secondo che raffigura un’immagine simbolica di una sigaretta accesa, e il simbolo che
convenzionalmente si utilizza per dire divieto e ci sono poi due parole: ‘Vietato fumare’

Torniamo al primo, leggiamone insieme una parte: ‘’e quelle buggerate su Mr Riordan qua e Mr Riordan là io dico è
stato felice di levarsela di torno e il suo cane che mi odorava la pelliccia e cercava d’infilarmisi tra le sottane
specialmente quando eppure questo mi piace in lui così gentile con le vecchie e i camerieri e anche i poveri non è
orgoglioso di nulla proprio ma non sempre ma se mai gli capita qualcosa di grave è meglio che vadano all’ospedale
dove tutto è pulito ma io dico mi ci vorrebbe un mese per cacciarglielo in testa sì e poi ci sarebbe subito
un’infermiera tra i piedi e lui ci metterebbe le radici finché non lo butta fuori o una monaca forse come quella di
quella fotografia schifosa che ha che è una monaca come lo sono io sì perché sono casi deboli e piagnucolosi quando
son malati ci vuole una donna per farli guarire’’ questa parte si tratta del flusso di coscienza, dello stream of
consciousness di Molly Bloom che prima di riaddormentarsi ripensa alla sua giornata e vaga nei suoi pensieri, da un
episodio all’altro, da una persona all’altra.
Se io vi domandassi, visti questi due esempi di atto linguistico quale tra i due è un testo e quale no, mi piacerebbe
ascoltare le vostre risposte.

Ebbene, Il secondo è di sicuro un testo, perché l’ immagine e le parole sono ridondanti e alludono allo stesso
contenuto, ma nella situazione in cui compare io che lo leggo e lo guardo, sono in grado di capire l’idea che mi sta
comunicando, sebbene a livello verbale vi sia solo un verbo all’infinito etc. è sicuramente un testo di pochissime
parole, tuttavia necessarie per comunicare un’idea.
Il primo testo che ho letto è un ‘non testo’ non corrisponderebbe a un testo vero e proprio, non sarebbe un testo,
intendiamoci, non è una critica all’autore, è un esempio di straordinaria letteratura, tra l’altro è voluta questa
caratteristica.

Se io considero le frasi che fanno parte di questo atto linguistico, sono pienamente comprensibili prese da sole, sono
grammaticali abbiamo concordanza soggetto predicato, insomma, non sono frasi agrammaticali, ciascuna delle
singole parole che l’autore ha usato è pienamente comprensibile.
Il problema è che queste frasi giustapposte l’una all’altra, non tessute insieme, fanno si che io pur leggendole
insieme, pur capendo ciascuna delle singole frasi e delle singole parole prese da sole, messe insieme non mi
comunicano un’idea, faccio a fatica a districarmi nelle pagine e pagine in cui Molly pensa in questa maniera io mi ci
perdo, di fatto non riesco a recepire il messaggio che l’autore ha voluto, ma ripeto , era l’intento stesso dell’autore
per riprodurre il fluire del pensiero, ma così facendo viene fuori qualcosa che non è un testo, manca la parte
fondamentale, cioè una tessitura, un accordo tra tutti gli elementi che fanno parte di questo atto linguistico
finalizzati a comunicare.

Vediamo quindi una prima valutazione e definizione di testo:


Un testo è tale se possiede coerenza e coesione, se ha una precisa funzione comunicativa. Esso è necessariamente
interattivo, quindi possiamo dire che il testo è anche «unità fondamentale dell’attività linguistica, dotata dei caratteri
di unità e completezza per rispondere a una precisa volontà comunicativa». Il testo è un messaggio che assume un
senso, solo se collocato in una situazione comunicativa.
Certamente le frasi che ne fanno parte dovranno avere collegamenti grammaticali, ma questo non basta, lo abbiamo
visto nel primo esempio, le singole frasi erano grammaticalmente corrette, ma la loro giustapposizione inserito in
una situazione comunicativa, non comunicava un’idea autonoma.
È necessario per capire la potenzialità comunicativa di un testo non soltanto analizzare la sua struttura lingusitica,
ma anche, insieme a quella gli elementi extralinguistici.
Si capisce allora come la parola testo derivi dal latino textus, ovvero intessuto, il testo è un insieme di elementi che
per funzionare devono essere tessuti insiemi, collegati l’uno all’altro e questo deve essere finalizzato a un’intenzione
comunicativa e a una funzionalità comunicativa.
I principi costitutivi del testo
Il primo elemento che costituisce il testo che prendiamo in considerazione è la coesione, che è il collegamento
grammaticale di tutti gli elementi linguistici che compongono il testo come l’accordo tra soggetto e predicato,
l’accordo tra il genere e il nome, articolo e sostantivo.
Tutti questi elementi creano coesione in un enunciato, ma non solo questi, ci sono anche elementi coesivi che
agiscono non soltanto all’interno della frase semplice, ma che rendono tutti il testo coeso, si parla proprio di coesivi
e li possiamo distinguere in due categorie: forme sostituenti e segnali discorsivi.

1. Forme sostituenti, ovvero tutti quegli elementi che sostituiscono un nome o qualunque altra parte del discorso
che è gia stata nominata negli enunciati precedenti, che noi sentiamo il bisogno di non dover ripetere, proprio
dotando il testo di un’unità:
i pronomi sono l’esempio più scontato, in quanto il pronome sostituisce un nome che si è gia nominato prima o
che si deve ancora nominare e distinguiamo quindi la funzione anaforica, da quella cataforica.
Il pronome può riferirsi a un elemento già stato detto prima, quindi ha funzione anaforica, oppure può anticipare un
elemento che verrà esplicitato nell’enunciato seguente, quindi ha funzione cataforica
aggettivi si può sostituire un nome con un aggettivo;
perifrasi, si può sostituire con un’intera frase o insieme di parole
con altri nomi che possono essere sinonimi, cioè un nome che ha lo stesso significato del nome precedente;
iperonimo o iponimi: iperonimo è un nome che fa riferimento a una categoria semantica più ampia, nella quale si
trova il nome che intendiamo sostituire.
Ad esempio se io devo sostituire il nome gatto, posso sostituirlo creando coesione con il termine felino, che è un
termine che include gatti, leoni, etc. cioè il termine felino è un iperonimo del termine gatto, perché identifica una
categoria più generica, più generale, iper significa sopra, quindi all’interno del concetto di felino ci può essere gatto
ma anche altre tipologie di felino.
Invece iponimo è un termine che sostituisce un altro termine, ma indicando una categoria più piccola, inferiore.
Ad esempio prendendo sempre il termine gatto, posso ad sostituirlo con un nome tipo soriano, cioè diverse razze di
gatto, che sono in qualche modo di una categoria più ristretta, rispetto al nome che sto sostituendo.

Ovviamente un nome può contemporaneamente essere iperonimo di un altro nome e\o iponimo di un altro ancora:
se io dico la parola gatto, è certamente iperonimo di soriamo, ma iponimo di felino, se dico la parola felino è
certamente iperonimo della parola gatto, ma iponimo di mammifero.
Ogni parola in rapporto di un’altra potrebbe essere o sinonimo, cioè avere un significato uguale, o iperonimo cioè un
nome di una categoria più generica o iponimo cioè un nome di una categoria più ristretta, rispetto al nome che io
devo sostituire.
 Anche l’ellissi può essere un coesivo, cioè io posso scegliere, ad esempio, di non ribadire continuamente il
soggetto in enunciati contigui quando il soggetto è lo stesso, posso decidere di eliderlo, realizzando il soggetto
sottinteso.
Il fatto che un enunciato pur non dovendo ribadire il soggetto sia comprensibile è proprio per la coesione con
l’enunciato precedente.

Vediamo questo breve articolo di un giornale sportivo che parla di Messi:


Essere Leo Messi non deve essere poi così semplice. Quando sei il migliore (o uno dei migliori, dipende dal pensiero
sulla querelle con CR7), i riflettori sono sempre puntati su di te. Figurarsi in un momento in cui in casa Barcellona le
cose non vanno come dovrebbero. Contro il Betis, i blaugrana si salvano e rimangono in scia al Real per la Liga, ma la
vittoria calma solo momentaneamente le acque. Gli scontri interni ci sono e, strano ma vero, persino la Pulce è in
crisi. E poco importa che (Messi) abbia fornito tutti e tre gli assist per i gol di De Jong, Busquets. I Catalani devono
riflettere. L’attaccante è troppo importante per loro. La sua è un’astinenza che può pesare.

Ho sottolineato in verde Leo Messi, più avanti, sempre in verde, vedete che questo termine viene sostituito in diversi
modi: uno è la Pulce, Messi= Pulce, in questo caso è un sostantivo, nel gergo dei tifosi è l’appellativo che si dà a
Messi, quindi all’interno di questo gergo abbiamo un nome che può essere considerato un nome, ovviamente non si
intende la pulce animale, ma è da intendersi con la P maiuscola all’interno del gergo dei tifosi.
Successivamente l’attaccante, qui non ho un termine che vale solo per messi, ho sostituito la parola Messi con la
parola attaccante che è un iperonimo di Messi, cioè sono tanti gli attaccanti, quindi attaccante è un nome che
corrisponde a una categoria più generica, di cui Leo messi fa parte.
Però è chiaro che in questo testo se io dico l’attaccante, non intendo un attaccante a caso, mi riferisco a Messi
stesso, per cui ho sostituito messi per non doverlo ripetere.
È chiaro che se io dico l’attaccante è troppo importante per loro, intendo quell’attaccante in particolare, cioè Messi
in particolare.
La riga sopra ho messo io Messi tra parantesi sempre in verde, proprio per fare capire che il nome Messi qui è stato
eliso, poco importa che abbia fornito ‘tutti e tre gli assist per i gol’, chi ha fornito gli assist? Ovviamente, sempre la
stessa persona di cui stiamo parlando, il soggetto è sottinteso, si elide solo perché lo si è già nominato negli enunciati
precedenti, tutto ciò crea coesione tra questa frase e quelle precedenti, quindi anche l’elisione è un coesivo.
In ultimo ‘la sua è un’astinenza che può pesare’, sua è un pronome, ovviamente, l’astisnenza di Messi è un’astinenza
che può pesare, quindi si sostituisce sempre Messi, in questo caso con un pronome possessivo.
In rosso ‘Il Barcellona’, viene sostituito con Blaugrana, qui è un aggettivo in lingua spagnola, che corrisponde agli
italiani, che ne so, i rossoneri per dire Milan, i bianconeri per dire Juventus , i blucerchiati e così via, tutti aggettivi che
si riferiscono ai colori delle maglie.
In questo caso anche l’aggettivo può essere un coesivo, ancora in rosso ‘I catalani’, in questo caso è un iperonimo,
che non è da intendersi come tutti gli abitanti della Catalogna, ma i catalani fa riferimento alla squadra del
Barcellona, si intende quello, si sostituisce Barcellona con la zona geografica dove risiede sia la città, sia la squadra di
calcio del Barcellona .
2. Segnali discorsivi come dunque, cioè, allora, ebbene, come dire, sono solo alcuni esempi e sono tutti elementi
linguistici di diverse categorie grammaticali, che perdono il loro significato originario e perdono anche la loro
funzione grammaticale originaria e assumono nel testo la funzione di articolarlo meglio.
Ad esempio il verbo guardare in alcuni enunciati ha la funzione di guardare ‘guarda l’alba che bella’, mentre se io
dico: ‘’guarda, volevo dirti una cosa domani parto presto’’ quel guarda, non vuol più dire l’azione del guardare, perde
il suo significato originario di verbo guardare, mi serve soltanto a richiamare l’attenzione del mio interlocutore, vale a
dire ti sto dicendo una cosa importante, cioè che domani partirò in anticipo, così come dunque, allora, cioè, ebbene
 questi elementi all’interno di un testo possono creare coesione, perché articolano meglio le parti di un testo.
Abbiamo qui un esempio tratto dal romanzo ‘’La chiave a stella’’ di Primo Levi, in cui parla un operaio, in questo caso
è anche chiara la mimesi del linguaggio orale:
’’beh, è roba da non crederci: lo capisco che queste cose le è venuto voglia di scriverle. Sì, qualche cosa ne sapevo
anch’io’’
Sia quel beh che serve per prendere la parola, sia quel Sì servono a confermare quanto detto prima.
Questo segnale discorsivo Sì ha perso la sua funzione affermativa, è solo utilizzato per collegare la seconda frase alla
prima, e in questo è un elemento coesivo.
Slide 4 e 5
Oltre alla coesione quindi all'accordo grammaticale linguistico tra le parti di un testo, un altro elemento costitutivo è
quello della coerenza cioè il collegamento logico semantico di tutti i suoi contenuti che non devono solo essere
accordati dal punto di vista grammaticale e strutturale ma che devono avere a che fare con dei significati che tra di
loro abbiano una logica consequenzialità un logico collegamento una continuità semantica. Qui mi rendo conto di
scrivere una frase un esempio limite ma per far capire il concetto
‘’oggi è piovoso, dunque mi vesto di verde’’ se guardiamo questa questo testo, questo enunciato da un punto di
vista soltanto grammaticale quindi se guardiamo la coesione del testo questa frase è correttissima e non c'è niente
da dire le varie parti sono collegate l'una all'altra ci sono i dovuti i corretti collegamenti grammaticali c’è un segno di
punteggiatura insomma va tutto bene, è una frase pienamente grammatica.
Però se mi fermo un attimo a considera il collegamento logico referenziale semantico delle due proposizioni semplici
la prima è il clima piovoso e la seconda è il colore del vestito mi rendo conto che non c’è alcuna attinenza tra le due
quindi quella parola dunque che strutturalmente dovrebbe comunicarmi un rapporto di conseguenza, causa
conseguenza, in questo caso è totalmente smentita dal significato delle parole per cui questa frase a coesione
grammaticale ma non a coerenza testuale. Allora se ricordate anche l’esempio iniziale da cui siamo partiti, forse si
può scrivere a questa categoria il flusso di coscienza di Molly Bloom aveva certamente una coerenza testuale ma
all'interno del fluire di Molly Bloom, non era strutturato e quindi per il lettore era totalmente perso non si riusciva
bene a capire quale fosse la progressione tematica di quel flusso di coscienza.
Abbiamo già accennato nella lezione sulla sintassi che la linguistica testuale identifica la coerenza testuale la
progressione dell'enunciato in una successione tra tema e rema.
Il tema è l'elemento che già conosciamo nell’atto comunicativo, cioè l'elemento già condiviso da emittente e
destinatario.
Il rema è l'elemento nuovo l'elemento che si aggiunge in più rispetto a ciò che era già noto, è elemento che viene
aggiunto proprio con l'atto comunicativo è la informazione nuova che l'emittente passa al destinatario, ecco la
coerenza testuale è gestita è garantita proprio da una progressione tematica da tema a rema in tutto l'arco del testo.
Esistono diversi tipi di progressione tematica esiste una progressione tematica lineare quando il rema di un
enunciato diventa il tema dell'enunciato seguente. Esempio:
«Ernesto vuole giocare con suo fratello Bartolomeo. Questi, invece, preferisce leggere»
Allora nel primo enunciato il tema era Ernesto e il rema era la cosa nuova che si diceva di Ernesto, cioè che lui
volesse giocare con il fratello di nome Bartolomeo. Nel secondo enunciato il fratello Bartolomeo che faceva parte del
rema dell’ enunciato precedente si utilizza in questo caso come tema, si dice che il fratello Bartolomeo ormai questa
è un'informazione che da questo punto in poi già condividiamo, lui invece preferisce leggere questo è un rema nuovo
così e così via si può proseguire, diciamo all'infinito facendo diventare il rema dell'enunciato facendolo diventare
tema di quello successivo è una progressione tematica cosiddetta lineare.
Seconda tipologia di progressione tematica a tema costante cioè il tema che viene nel primo enunciato rimane
invariato in tutti gli enunciati successivi. Esempio:
‘’Caterina è una bambina strana. Ama i vestiti rosa. Si ferma davanti alle vetrine estasiata’’ il tema di tutti questi
enunciati è Caterina sempre Caterina quindi il tema del primo enunciato rimane costante anche negli enunciati
seguiti.
Altra tipologia di progressione tematica a temi derivati da un ipertema
«la città sembrava disabitata: i quartieri erano immersi nel silenzio; le strade erano deserte, ecc»
Viene enunciato inizialmente un ipertema un tema generico generale e poi questo tema non è che cambi rimane il
tema della città ma viene declinato per così dire in altri temi più specifici, i quartieri sono sempre evidentemente i
quartieri della città, le strade sono sempre della città, quindi si parla sempre della città vengono aggiunti nuovi remi
ma vengono tematizzati degli elementi più specifici che certamente fanno parte del primo ipertema che in questo
caso era la città.
Altra tipologia di progressione tematica con sviluppo di un tema dissociato, esempio:
«Giovanna andrà al cinema con Luca e Maria: Luca vorrebbe vedere una commedia, Maria un film d’amore»
In questo caso si prende il rema dell’enunciato precedente Luca e Maria, ma li si dissocia in due temi differenti Luca
vorrebbe fare una certa cosa e Maria un'altra. Quindi erano entrambi il rema dell’enunciato precedente diventano
tema di quello successivo e qui sembrerebbe una progressione tematica lineare, ma lì si dissocia in due enunciati
messi in alternativa mentre Luca vorrebbe fare una certa cosa Maria ne vuole fare un'altra quindi un tema dissociato
in due.
Ultima tipologia di progressione tematica a salti, esempio:
«un cane attraversava il bosco; gli alberi erano spogli; il freddo aveva ghiacciato lo stagno; …»
tutti questi enunciati il cane che attraversa il bosco, gli alberi che sono spogli, freddo ghiacciato lo stadio fanno tutti
riferimento a una situazione unica, sono tanti temi diversi appunto quasi si saltasse da un tema all'altro per
raccontare di un'unica situazione.
Ecco altri principi costitutivi e anche altri elementi che costituiscono un testo sono:
-L’intenzionalità, cioè è atteggiamento del parlante o dello scrivente di emettere un testo tanto coerente e coeso
quanto basti per farsi capire, a volte i testi che mettiamo qui, siamo soprattutto alla lingua parlata e a quel tipo di
parlato con scarsissimi tempi di programmazione. Ecco spesso. E mettiamo tutti noi nella nostra vita quotidiana, chi
più chi meno testi non sono magari del tutto coesi e anche la coerenza semantica non è formalmente perfetta però
sono tanto efficienti quanto basta da farci capire gli esempi possono essere innumerevoli, non so in una situazione
improvvisa
‘’ allora dov'è che, ehm cioè volevo dire a quale fermata scendi? ‘’ ecco questo testo coerente è coerente rispetto
alla sua funzione ovviamente non è certamente coeso ci siamo fermati abbiamo ripreso, Insomma però la nostra
intenzione di comunicare qualcosa ha fatto sì che questo testo comunque sia fosse comprensibile.
-L’accettabilità è l'atteggiamento del destinatario di riconoscere interpretare il testo ricevuto tanto coerente e coeso
quanto necessario per essere capito.
Per rendere accettabile un testo e quindi comprensibile dal punto di vista del suo destinatario dobbiamo riferirci non
soltanto ai suoi significati e alle sue parole e la sua struttura linguistica, ma anche agli elementi extralinguistici, cioè
alla situazione extralinguistica nella quale il testo vien ricevuto. Pensate a tutte le volte in cui utilizziamo dei deittici
qui, la, sopra, sotto se quel testo non compare in una certa situazione alle parole sopra, sotto, qui, lì, vicino, lontano,
a destra, a sinistra non hanno alcun significato ancora meglio si pensi a tutte le inferenze che il destinatario fa o deve
fare per decodificare un testo, inferenze che può fare chi appartiene una certa cultura e magari non è in grado di
fare chi appartiene a un’altra, il testo rimane uguale ma l'accettabilità del testo è diversa pensate anche qui faccio un
esempio pratico a tutti i gesti che accompagnano con atto linguistico, l'atto linguistico rimane lo stesso, ma l'aspetto
gestuale che fa parte anche se non è un elemento linguistico nel mento paralinguistico fa parte della situazione in cui
quel testo viene ricevuto e i gesti non hanno un significato universale.
Lo stesso gesto a un certo significato a seconda della cultura in cui viene usato, faccio un esempio: il gesto di unire
l’indice e il pollice e di mantenere distese le altre dita, che noi utilizziamo per dire OKEY tutto bene, in Giappone
viene utilizzato per dire dammi del denaro per richiedere denaro e così via.
I fraintendimenti che possono influenzare l’accettabilità di un testo a livello extralinguistico sono molti.

- L’informatività è il grado di informazione veicolata da un testo, un testo può dare un'informazione del tutto nuovo
essere già parzialmente conosciuto pure dire qualcosa di scontato, qui si fa riferimento proprio alla portata
semantica del singolo testo.

- La situazionalità dipende forse anche qui ne abbiamo già accennato come anche l’accettabilità ancora di più la
situazionalità è la dipendenza più o meno stretta che un testo a rispetto alla situazione in cui compare, rispetto agli
elementi extralinguistici proprio pneumatici in cui testo compare. La frase: ‘’È pericoloso sporgersi dal finestrino ‘’ è
evidente che a valore o a quel valore soltanto su un finestrino di un treno o in contesti simili o di un autobus
eccetera. Abbiamo visto anche prima Vietato fumare, ecco quel testo a una situazionalità ristretta molto precisa che
fa sì che sia valido soltanto in alcuno contesti e in alcune situazioni, se io appendessi quel cartello “vietato fumare”
nella cucina di casa mia ecco si lo potrei fare però non avrebbe con la stessa valenza perché potrei io potrei proibire,
visto che mi trovo in casa mia di fumare a qualcuno, ma sarebbe più che altro un invito non è obbligo di legge nelle
case private non è vietato fumare quindi quel cartello potrebbe sì comparire ironicamente ma certamente non
avrebbe lo stesso significato rispetto alla situazione normale in cui lo troviamo.

- L'intertestualità, cioè la dipendenza, il rapporto di un testo da un altro testo faccio l'esempio: ‘’da questo momento
ci si può slacciare le cinture’’ la situazionalità è evidente quella a bordo di un aeroplano nelle fasi successive al
decollo, a questo testo ha un rapporto intertestuale molto stretto evidentemente con un testo precedentemente
detto cioè che è vietato slacciare le cinture di sicurezza, se quel primo testo non ci fosse non ci spiegheremo molto
meno l'esistenza di questo secondo testo. Il legame tra i due l’intertestualità da un valore maggiore al secondo. Così
anche per l’intertestualità si possono intuire caratteristiche simili tra testi che appartengono a tipologie analoghe. Ad
esempio, se mi accingo a leggere una poesia per la prima volta non conoscendo magari né l'autore né l’epoca
eccetera però il fatto stesso che io mi renda conto che si tratta di un testo poetico fa sì che io mi accosti ad esso
adesso con un accettabilità e che è che mi faccia presupporre in quel testo degli elementi che ricorrono al testo
poetico ad esempio la scrittura in versi, un certo ritmo, la possibile presenza di figure retoriche eccetera, Tutti
questi elementi li posso presupporre soltanto per intertestualità, cioè perché raffronto il testo in molti altri testi che
ho letto precedentemente e che appartenevano a quella certa tipologia.
Slide 6 e 7
Oltre ai principi costitutivi di un testo, ci sono anche i principi regolativi del testo, vale a dire: non sono
caratteristiche che il testo deve avere necessariamente per essere considerato tale ma sono elementi che ne
regolano la funzionalità e l'efficacia.
Sono tre:

1-L'efficienza di un testo

È il grado di impegno necessario per comporre, per emettere e per interpretare un testo. Ovviamente,
maggiore è l'impegno necessario per produrre un testo e maggiore è l’impegno necessario per
capirlo/riceverlo in maniera appropriata, minore è l’efficienza. Un testo molto efficiente è un testo che si
produce con pochissimo sforzo e che viene recepito/compreso con pochissimo sforzo.
2-L’efficacia di un testo

È, invece, la capacità di un testo di fissarsi nella memoria del destinatario e di raggiungere gli scopi per cui è
stato prodotto.
Attenzione: non necessariamente un testo efficace è anche un testo efficiente. Facciamo l’esempio, per dire,
dello slogan pubblicitario. La funzione di uno slogan è quella di imprimersi nella memoria del destinatario
per raggiungere lo scopo che è quello, ovviamente, di invitare il destinatario a comprare quel certo prodotto.
Ebbene, per produrre uno slogan, che sia tale da fissarsi veramente nella memoria, è necessario un grande
impegno: il testo che ne esce è un testo, in genere, elaborato, ci saranno figure retoriche, assonanze ecc.
Quindi, raramente un testo efficace è contemporaneamente anche molto efficiente. Al contrario, testi molto
efficienti sono anche molto banali: “vietato fumare” è un testo molto efficiente, sì, rimane nella memoria
perché è molto scarno ma non è quella capacità di fissarsi nella memoria per raggiungere quello scopo.
3-L’appropriatezza di un testo

È l’accordo tra i contenuti di un testo e l’impostazione testuale, il contesto in cui compare, la situazione,
l’interlocutore a cui è destinato. Ad esempio, se si tiene una conferenza di fisica è inappropriato spiegare agli
specialisti di questa disciplina ogni singolo termine tecnico, perché in quella situazione, con
quell’interlocutore, in quella dimensione ed impostazione testuale si dà per scontato che la conoscenza dei
termini base sia acquisita dal proprio destinatario. Viceversa, per la stessa conferenza, se gli stessi contenuti
fossero veicolati a una classe di terza elementare sarebbe inappropriato un testo che non spieghi i termini
base, posto che sia appropriata la presenza stessa di quel testo in quella situazione, ovviamente.

Eccoci, infine, a esaminare le diverse tipologie di testo, per lo meno dando conto di due approcci, di due differenti
categorizzazioni. (Werlich e Sabatini)
La prima, forse più tradizionale, in ambito moderno la si deve a Werlich, ma, in realtà, è sin dall’antichità che si erano
individuate più o meno queste categorie.
Ecco, questo primo approccio fa capo ai contenuti, cioè è basato sui contenuti. Si tratta di un approccio al testo che
istituisce diverse categorie in relazione al “che cosa”, all’oggetto di comunicazione che quel testo veicola. Per cui, in
base a questo, poi diversi studiosi danno magari un nome differente per una categoria o l’altra, una in più o una in
meno, però, grossomodo, potremmo identificarle come segue:
a- testo narrativo, che ha come oggetto il racconto, la narrazione di azioni che si svolgono nel corso del tempo.
b- testo descrittivo, che invece, in maniera statica, descrive un oggetto, un’entità, un sentimento (eccetera) ma non
raccontandone il suo sviluppo nel tempo, semplicemente descrivendo come è. C’è da dire che raramente il testo
descrittivo compare autonomamente, più spesso si trova inserito all’interno di un più ampio contesto narrativo. Ci
possono quindi essere sequenze prevalentemente descrittive all’interno, ad esempio, di un romanzo. Però, in alcuni
casi, è anche autonomo: pensiamo ai cataloghi di una mostra, che descrivono i quadri/le opere d’arte, o al catalogo
di un’asta, dove vengono battuti degli oggetti che i clienti desiderano comprare; ecco, ci sono dei cataloghi che
descrivono quegli oggetti in maniera autonoma. In quel caso, la descrizione non è inserita all’interno di nessun altro
tipo di testo ma è, appunto, autonoma.
c- testo espositivo, che è finalizzato all’organizzazione e alla trasmissione di concetti, conoscenze ecc. È quello della
manualistica, dei manuali, dei saggi critici e altri testi di questo tipo.
d- testo regolativo, che ha lo scopo, ovviamente, di indicare regole, di dare istruzioni, per orientare e per vincolare il
destinatario a osservare una serie di azioni al fine di raggiungere un obiettivo.
Ad esempio: le ricette di cucina, le istruzioni per il montaggio di un mobile, le istruzioni per le opzioni di un televisore
eccetera.
e- testo argomentativo. Si tratta di sostenere una tesi, un punto di vista personale, fornendo delle argomentazioni e
dei dati oggettivi a sostegno di quella tesi. Nel contempo, si nega un’antitesi fornendo delle prove, delle
argomentazioni oggettive con cui smentire l’opinione avversa alla propria tesi (l’antitesi).
Come dicevo, questo è solo uno degli approcci alla categorizzazione del testo. Ce n’è uno molto diverso, che si deve
al linguista Sabatini, non tanto basato sull’oggetto, sul contenuto dei vari testi, ma sul vincolo interpretativo che
l’emittente del testo pone al destinatario. Cioè, l’emittente emette un testo con l’intenzione che il destinatario possa
liberamente o non liberamente interpretarlo. Sulla base di questa maggiore o minore libertà d’interpretazione è
strutturata la categorizzazione di Sabatini.

Distinguiamo con Sabatini tre gruppi:

1- Gruppo A
Contiene testi in cui il vincolo è massimo: la libertà d’interpretazione del destinatario è ridotta al minimo, per
non dire che è, in alcuni casi, del tutto assente.
Un esempio sono i testi di legge: l’emittente (quindi lo Stato o il legislatore) che emette una legge ha la
necessità che ci sia la massima oggettività nell’interpretazione, non si lascia al destinatario (per lo meno, non
si dovrebbe) alcun margine discrezionale nell’interpretazione delle regole. Tutti quanti, in qualunque
circostanza, dovrebbero interpretare la stessa legge nello stesso modo. Non è prevista alcuna soggettività di
giudizio.
2- Gruppo B
Contiene testi con un vincolo intermedio: l’emittente emette un testo lasciando una certa libertà di
interpretazione al destinatario che, però, non è totale.
Un esempio sono gli articoli di giornale e i saggi critici. L’emittente comunica qualcosa di oggettivo e quindi di
vincolante: se c’è una notizia di cronaca quello che è successo è quello, non si può, su questo, lasciare una
totale libertà al destinatario.
D’altro canto, c’è, per esempio, la consapevolezza che ciò che si comunica può essere controvertibile,
opinabile: il destinatario, all’interno dei vincoli che l’emittente gli pone, potrebbe anche dire “io non sono
d’accordo” e proporre quindi un testo alternativo.
3- Gruppo C
Contiene testi in cui da parte dell’emittente non si mette alcuna rigidità, non si pone alcun vincolo nel
messaggio.
È il caso dei testi letterati, che lasciano un’ampia libertà interpretativa al destinatario (sia testi di prosa che di
poesia). Il destinatario in certa misura può costruirsi una propria interpretazione nel momento in cui fruisce
dell’opera d’arte.

In questa slide, trovate tutti gli attributi e le caratteristiche che sono consustanziali al concetto di lingua standard: per
poter infatti essere definita standard, una lingua deve essere codificata, dunque deve essere normata all’interno di
una grammatica, e deve anche possedere un canone di testi di riferimento. La lingua deve essere anche prestigiosa,
riconosciuta come una varietà superiore alle altre. Inoltre, una lingua standard riveste una funzione unificatrice,
perché consente gli scambi comunicativi all’interno di un territorio ampio come quello che può essere quello di una
nazione. Strettamente legata alla funzione unificatrice, c’è anche la proprietà della sovraregionalità: una lingua si
dice standard quando ha una portata sovraregionale, quindi esce dai contorni di una regione e dal contesto diatopico
limitato da confini regionali.
Una lingua standard è poi una lingua che possiamo definire elaborata, perché gode di un certo grado di complessità.
Di queste proprietà che abbiamo elencato, pare essere essenziale e quindi proprio necessaria alla determinazione
del concetto di standard, sicuramente la codificazione, per cui s’intende l’esistenza di un corpo acclarato di testi di
riferimento, quindi opere letterarie, un canone anche di tipo grammaticale, dizionari che appunto diffondono la
lingua, e inoltre un insieme di regole normative appoggiate anche dalle istituzioni e da membri prestigiosi della
comunità linguistica, quindi riconosciute dalla comunità che parla quella determinata lingua.
Quando diciamo che lo standard deve essere anche elaborato, intendiamo che deve possedere tutte le risorse
linguistiche, (vocabolario, strutture grammaticali e testuali), per adempiere soddisfacentemente a tutti gli usi e in
tutti i domini, anche quelli culturali e tecnico-scientifici più alti e complessi. Quindi, una lingua standard è quella che
consente anche di realizzare testi di alta complessità e di un alto grado di astrazione. L’essere proprio dei ceti
socialmente alti, con elevato grado di istruzione, risponde alla constatazione che lo standard nasce ed è impiegato in
primo luogo presso fasce socio-culturalmente privilegiate della popolazione; è appannaggio quindi dei ceti più alti,
ed è anche per questa ragione che gode di prestigio sociale, oltre chiaramente al fatto di avere un canone di opere
letterarie di riferimento che accresce sempre il grado di prestigio.
Il concetto di lingua standard si oppone dunque a quello di dialetto: la lingua standard ha prestigio, è normata, è
quindi il modo di usare la lingua degno di imitazione. I dialetti invece, non hanno prestigio, perlomeno nel senso
esplicito del termine, anche se comunque è stato detto e dimostrato che possono avere un certo prestigio nascosto,
ed essere riconosciute come varietà dotate di un grado di spontaneità e di tutela del folclore locale e regionale, che
comunque le rende apprezzabili. Rispetto ai caratteri dello standard, i dialetti sono poco o per nulla codificati, hanno
un dominio regionale o locale, e in genere sono scarsamente elaborati, sono quindi parlati da ceti non egemoni in
una società. Hanno inoltre un’alta variabilità e sono impiegati prevalentemente nell’oralità. Queste sono delle
generalizzazioni, perché in realtà abbiamo anche visto, parlando della storia della lingua italiana, quanto i dialetti
siano stati usati in contesto letterario. Vedremo come oggi comunque si è tornati a riapprezzare le varietà dialettali
anche a fini artistici, specie nella lingua della canzone, però in linea di massima valgono le precisazioni fatte adesso e
che consentono di distinguere nettamente il concetto di una lingua standard da quello di dialetto. Di fatto, nel
territorio e nella comunità in cui è presente una lingua standard, quindi una varietà standard, questa è di solito
appunto sovrapposta o comunque è contrapposta a vari dialetti e ad altre varietà.

DIAPOSITIVA 3

Anche l’italiano standard rispetta tutte le caratteristiche che abbiamo appena elencato, in particolare possiamo
leggere la definizione che ne da Andrea Masini, che parla dell’italiano standard come della lingua ereditata da una
secolare tradizione letteraria, codificata nelle grammatiche e insegnata nelle scuole e agli stranieri. L’italiano
standard si pone non solo come la varietà di maggior prestigio, ma anche come l’ineliminabile punto di riferimento,
la pietra di paragone per capire anche le altre multiformi manifestazioni nelle quali appunto si manifesta la nostra
lingua. In questa definizione di Masini troviamo implicitamente tutti gli attributi del concetto di standard che
abbiamo nella slide precedente commentato. Di fatto, è successo nella storia di più lingue che uno dei dialetti in cui
era articolato un certo spazio linguistico sia diventato lingua standard, e questo accade quando uno dei dialetti, per
varie ragioni che si accumulano (per esempio, il fatto di essere parlato dalla classe dominante, il fatto di dare luogo a
una vasta e consolidata produzione letteraria, e anche l’essere espressione di una comunità all’avanguardia
nell’economia, nella tecnica, nella cultura ecc..) Per queste ragioni può capitare che un dialetto cominci ad acquistare
prestigio, guadagnare uno status migliore, ampliare e affinare le sue strutture, estendere le sue funzioni, fino a
diventare una lingua pienamente elaborata, e quindi accade un fenomeno di promozione, il dialetto in questione
viene promosso e diventa modello linguistico in cui si riconosce la società.
È chiaro che questo è quanto accaduto anche all’italiano, perché abbiamo detto che il toscano fiorentino era uno dei
tanti volgari parlati in Italia dopo il Mille, in quella condizione di policentrismo che si era venuta a creare a seguito
del crollo dell’impero romano, e successivamente fino al dodicesimo secolo. Ma poi il toscano fiorentino è divenuto
base dello standard, si è qualificato nel corso dei secoli come standard, mentre gli altri volgari italiani sono di fatto
diventati dialetti. Dunque, quando diciamo che l’italiano standard è lingua ereditata da una secolare tradizione
letteraria, intendiamo proprio che la varietà standard di italiano è basata sul volgare fiorentino del 300, che grazie al
prestigio letterario delle tre corone fiorentine e alla supremazia economica e culturale raggiunta al tempo da Firenze,
e che si è incrementata nel ‘400 e via via nell’età dell’umanesimo e del rinascimento, di fatto il fiorentino ha goduto
di lingua letteraria di elezione, presentandosi come il principale candidato a rispondere all’esigenza di una lingua
unitaria almeno per quanto riguarda lo scritto, e soprattutto per quanto riguarda la lingua letteraria. Poi, il
coronamento di questo processo si ha nella prima metà del ‘500 con la fioritura di grammatiche del volgare, che
diffondono un modello fiorentino come lingua letteraria (scritta) in tutta Italia. Chiaramente, il nome da fare in
riferimento a quest’opera di standardizzazione dell’italiano letterario sulla base del tosco fiorentino trecentesco è
quello di Pietro Bembo, con le “Prose della volgar lingua” del 1525. Poi abbiamo detto che le altre tappe importanti
sono state la pubblicazione nel 1612 del vocabolario degli accademici della crusca, e poi successivamente nel corso
dei secoli si arriva fino a Manzoni, che propone ancora come modello linguistico ancora il fiorentino, ma un
fiorentino vivo, parlato dalla classe colta di Firenze. È su questa varietà che si consolida l’italiano standard. Non tutte
le caratteristiche del fiorentino sono state accolte dallo standard, perché l’italiano standard non ha mai, fin dalla
codificazione cinquecentesca, coinciso totalmente con il fiorentino. E poi, sin dal ‘600, ha accolto innovazioni di varia
provenienza. La particolare storia dell’italiano standard si manifesta anche nel fatto che è una varietà che dovrebbe
essere uniforme, ma che in realtà ospita diversi fenomeni di difformità. Si hanno infatti diversi allotropi nell’italiano
proprio standard, per esempio mere varianti di pronuncia (pensiamo al verbo pronunciare, che potrebbe essere
anche scritto e pronunciato “pronunziare”, per quanto oggi questa variante risulti arcaica).
Abbiamo anche parlato di fenomeni di allomorfia in italiano: possiamo fare riferimento al verbo “dovere”, che ospita
nel suo paradigma anche varianti con la bilabiale, quindi accanto a “devo” possiamo avere anche “debbo”. Abbiamo
anche varianti di tipo ortografico, come quelle dei plurali di termini che finiscono in cia e gia, che preceduti da vocali,
vorrebbero la i, quindi camicie, ciliegie, anche se oggi si stanno diffondendo anche grafie senza la i. L’italiano
standard non ha mai coinciso con una varietà singola, anche se trae la sua linfa nel fiorentino normato dalla
codificazione cinquecentesca, che si basa appunto sul prestigio letterario delle tre corone del fiorentino trecentesco,
che poi ha anche attinto dall’opera dei vocabolari, di Manzoni, ma non ha mai coinciso pienamente con questa
varietà, e ha sempre accolto lo standard delle spinte un po' difformi. Il concetto di uniformità nello standard non è
mai stato rispettato totalmente.

DIAPOSITIVA 4

Il risultato del processo che ha condotto storicamente alla codificazione dell’italiano standard e che quindi è
tramandato dalle grammatiche, dai vocabolari, e viene insegnato a scuola, risulta una lingua per certi versi artificiale,
e soprattutto senza nessun reale equivalente in nessuna varietà effettivamente parlata da una concreta comunità
linguistica.
Guardiamo infatti la collocazione dell’italiano standard lungo gli assi di variazione linguistica: abbiamo detto che
l’italiano standard è utilizzato dai ceti più istruiti, più colti, e quindi socialmente ed economicamente d’élite della
società, e infatti si trova lungo il polo più alto della varietà diastratica. L’italiano standard poi è principalmente
adoperato in contesti di elevato grado di formalità, quindi lungo il piano della diafasia vediamo che è spostato verso
il polo dell’italiano formale. Ma ciò che più colpisce è che l’italiano standard si trovi praticamente per intero nel
quadrante dell’italiano scritto. Dice sempre Andrea Masini che “guardando alla dimensione diamesica essenziale,
quella parlata, occorre ammettere che per la grandissima maggioranza degli italiani lo standard è un’entità del tutto
virtuale”. Nel parlato l’italiano standard è una sorta di chimera, non realmente concretizzata.
L’uso tipicamente scritto, infatti, è quello che definisce la caratterizzazione diamesica principale dello standard;
questo è un dato prevedibile, perché parlando di come si è originato lo standard nei secoli addietro, è chiaro che per
lunghissimo tempo questa lingua codificata e che godeva di grande prestigio culturale e originatasi dal volgare
fiorentino è stata una lingua scritta. Soltanto a partire da Manzoni c’è stata un’apertura nei confronti di una viva
oralità, pur sempre colta e pur sempre fiorentina. Per queste ragioni storiche, si può affermare che nell’oralità non
esista uno standard a tutti gli effetti, e questo perché vi sono sensibili diversità di pronuncia nell’ambito nazionale,
ma anche diversità di usi morfosintattici e lessicali. Possiamo citare qualche esempio di difformità evidenti nell’uso
dell’italiano orale relative alla fonologia, si hanno nel territorio nazionale distribuzioni alternative di alcuni fonemi,
per esempio laddove sono accettate oggi sia una pronuncia di trafila fiorentina che una di trafila romana (pensiamo
alla pronuncia di una parola come “lettera”, che ha E aperta in molte parti del nostro territorio nazionale, ma può
anche essere pronunciata con E chiusa). Inoltre, abbiamo detto come hanno preso piede pronunce settentrionali,
come nel caso della sibilante sonora intervocalica, che ha di fatto scalzato spesso la sibilante sorda di origine toscana.
Se nel parlato l’italiano standard dovrebbe avere una pronuncia legata ad un fiorentino emendato, quindi a volte
corretto guardando alla varietà romana, in realtà questo tipo di realizzazione ortoepica nel parlato non esiste. Forse
gli unici contesti che oggi ancora conservano un parlato standard da un punto di vista ortoepico, quindi di pronuncia,
e anche da un punto di vista morfosintattico e lessicale, potrebbero essere gli ambienti teatrali, cioè quelli nei quali
ancora gli utenti della lingua, quindi gli attori, che sono tenuti a studiare dizione e a adoperare quindi un italiano
molto vicino allo standard. Mentre in altri contesti, si assiste a un insieme di realizzazioni ortoepiche diverse, e quindi
si ha uno standard tutt’altro che uniforme. Nel parlato questo italiano standard è pressoché inesistente.

DIAPOSITIVA 5

Abbiamo più volte ribadito nel corso di tutte le lezioni di linguistica italiana il concetto della fiorentinità dell’italiano,
in particolare proprio dell’italiano standard, quello che è stato consacrato dalla tradizione letteraria, dalle
grammatiche, dai vocabolari, e insegnato ancora nelle scuole. Tuttavia, va detto che almeno dal secondo
dopoguerra, il centro linguistico d'Italia non è più Firenze, ma è situato nelle varietà settentrionali, e quindi nel
territorio delimitato dal triangolo economico, in quanto le metropoli settentrionali che si sono appunto
industrializzate, che hanno raggiunto una grande affermazione sul piano economico durante il boom del dopoguerra,
sono state anche interpretate e viste come città dotate di maggior prestigio di tipo culturale, e dunque anche
linguistico, anche a seguito del boom dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, dei nuovi media, le cui sedi, a parte
Roma, risiedono spesso in territorio settentrionale. Negli anni 70 e 80 del ‘900, fu anche avanzata da più linguisti, e
con argomenti solidi e strutturali, la proposta di adottare come modello da insegnare agli stranieri non tanto una
pronuncia fiorentina, bensì una pronuncia di tipo settentrionale. Anche Pasolini si sofferma sulla constatazione per la
quale il centro propulsore dell’innovazione linguistica e della norma linguistica non sia più il centro Italia ma il nord
Italia, e lo afferma in maniera chiara nell’intervista rilasciata nel 1968, in cui Pasolini, parlando del concetto di
“tecnolingua” e di italiano tecnologico, pone l’accento su questa variazione diatopica dell’italiano standard, nato e
originato a partire dal volgare fiorentino, ma negli ultimi tempi, a partire dal secondo dopoguerra, c’è un nuovo
centro di irradiazione e innovazione, situato nelle varietà settentrionali.

ITALIANO NEOSTANDARD.
Prima slide:

A seguito dei grandi mutamenti subiti dall’italiano, a partire dal secondo dopo guerra, e poi negli anni 60’ e ‘70,
anche in buona parte dovuti alla nascita e alla diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, i linguisti hanno
sentito l’esigenza di coniare una nuova etichetta accanto a quella di ‘standard’. Questa etichetta è quella di italiano
“neostandard” proposta da Berruto nel 1987, non è l’unica definizione, però, che è stata elaborata, in quanto già
Sabatini, nel 1985, per la medesima varietà di italiano, distinta dallo standard, ha parlato di “ italiano dell’uso
medio”. Che cosa si intende con queste due definizioni, con questi 2 termini? Si intende un italiano caratterizzato da
una serie di tratti che precedentemente, nei secoli e nei periodi precedenti, erano esclusi dallo standard, non erano
quindi accettati dalle grammatiche, dai vocabolari, dal canone autoriale sul quale si fondava lo standard; mentre,
successivamente sono stati diffusi talmente tanto nell’italiano dapprima parlato, quindi sono arrivati ad essere
accettati dalla totalità dei parlanti, e si sono propagati lentamente anche nello scritto. Quindi, nella definizione di
Berruto di italiano neostandard si pone l’accento sul carattere di innovazione di questo italiano: cioè i fenomeni che
iniziano ad essere accolti nell’italiano parlato, e poi anche nello scritto, sono fenomeni che vengono interpretati
come delle innovazioni subite dallo standard, che hanno portato poi all’individuazione di una varietà che dallo
standard poi si è proprio distaccata; mentre, nella definizione di Sabatini, italiano dell’uso medio, si pone di più
l’accento sulla riduzione della forbice tra scritto e parlato che ha determinato l’evoluzione dell’italiano a partire dagli
anni ‘50 in avanti, in quanto molto fenomeni che precedentemente erano solo orali si sono diffusi anche nella lingua
scritta, e quindi il tono, se vogliamo usare un termine generico, però ampiamente comprensibile, dell’italiano da alto
si è spostato verso un piano di medietá.

Seconda slide:

In questa slide trovate un’ampia carrellata di fenomeni che per lungo tempo sono stati esclusi dalla norma
dell’italiano e, quindi, non sono appartenuti all’italiano standard, e che hanno conosciuto una diffusione talmente
ampia nel parlato da riuscire anche a propagarsi all’interno dello scritto e, dunque, sono dei tratti che sono stati
riconosciuti come propri di questa nuova varietà di italiano, definita come italiano neostandard o dell’uso medio. Va
subito precisato che non tutti i fenomeni che vedete qui elencati, che sono esemplificativi perché l’elenco è tutt’altro
che completo, godono della medesima accettazione da parte delle grammatiche e da parte, quindi, della scrittura più
sorvegliata.

- Sintassi: partendo proprio dalla sintassi possiamo capire meglio questo discorso, in quanto, ad esempio,
nell’italiano neostandard vengono tendenzialmente accettate alcune strutture marcate che, invece, l’italiano
standard tendeva a rifuggire in toto. In particolare direi che, tra tutte le strutture di sintassi marcata che
abbiamo elencato nelle lezioni dedicate alle strutture dell’italiano, è la dislocazione a sinistra ad essere
quella più ampiamente riconosciuta anche nell’italiano neostandard, e che quindi possiamo incontrare in
scritti di un certo grado di formalità. Anche la frase scissa è una struttura che, per il suo forte potere di messa
a fuoco, ritroviamo frequentemente nelle scritture giornalistiche, ma anche in scritture di ambito scientifico.
Altre strutture marcate vengono etichettate come non appartenenti al neostandard, ma appartenenti ad una
varietà di italiano diafasicamente e diastricamente più bassa, quindi di italiano sub-standard, un italiano
dotato di un certo grado di irregolarità; sto parlando per esempio del ‘c’è’ presentativo, del tema sospeso e
di altri costrutti anacolutici che comunque sono marcati ancora come errori di sintassi. Anche il ‘ che’
polivalente, che nell’italiano standard veniva respinto in tutte le sue manifestazioni, inizia ad essere in un
certo senso più diffuso e ammesso anche nello scritto. Diciamo però che nell’italiano neostandard rientra
soprattutto l’uso temporale del che polivalente, e non, invece, le sue altre sfumature. Sicuramente, da un
punto di vista sintattico, le caratteristiche più tipiche dell’italiano neostandard sono gli articoli partitivi, in
frasi come: “ho visto delle persone”, “ho pranzato con degli amici”, dove delle e degli potrebbero essere
tranquillamente sostituiti con alcune persone o con qualche amico, come l’italiano standard chiedeva di fare,
nell’italiano standard l’articolo partitivo non era ammesso. Poi, tipico del neostandard, è l’uso rafforzativo di
qui e qua con i dimostrativi, in espressioni come: “questo ragazzo qui”, “questa storia qua”, anche in questo
caso possiamo dire che questo è un tratto di neostandard che, tuttavia, ancora tende ad essere utilizzato con
riluttanza negli scritti di tipo più formale.
- Morfosintassi: per quanto riguarda la morfosintassi, c’è si sicuramente da considerare l’impiego con valore
aspettuale o modale di alcuni verbi; in particolare possiamo dire che nell’italiano neostandard si è diffuso
l’impiego del presente pro futuro, quindi il presente sostituisce il più corretto futuro, soprattutto quando è
presente e visibile in maniera esplicita l’avverbio di tempo, in una frase come “parto domani” l’idea del
futuro viene relegata completamente nell’avverbio e quindi si rinuncia ad impiegare il verbo al futuro, cosa
che invece avrebbe richiesto di fare tassativamente l’italiano standard. Sono incrementati notevolmente
nella morfosintassi gli impieghi dell’imperfetto che trascende il suo valore tradizionale per acquisirne di
nuovi; in particolare si può usare l’imperfetto, nel neostandard, con valore ludico, cioè è il caso
dell’imperfetto impiegato nei giochi tra bambini, in espressioni del tipo: “facciamo che tu eri la mamma e io
la figlia”. Interessante, per la sua maggior portata e diffusione, l’imperfetto di cortesia, quello utilizzato per
attenuare e rendere, appunto, più cortesi alcune richieste, per esempio in frasi come: “cercavo un cappotto”,
“volevo un panino”, che si può tranquillamente sentir pronunciare facendo acquisti. Invece, abbiamo poi
l’imperfetto nel periodo ipotetico, quindi il doppio imperfetto nel periodo ipotetico, come: “se voleva,
veniva”, che nell’italiano standard non sarebbe stato ammesso, in quanto la struttura più corretta sarebbe
stata: “se avesse voluto, sarebbe venuto”.
- Morfologia: in ambito prettamente morfologico abbiamo, forse, gli elementi più caratteristici dell’italiano
neostandard, che è l’italiano che ha accolto le forme ‘lui’, ’lei’ e ‘loro’ in funzione di soggetto, abbiamo detto
che queste forme non sono nuove per l’italiano perché venivano usate anche da autori trecenteschi, tuttavia
era stato il Bembo, sulla base dell’osservazione degli usi delle tre corone, a definire come errati questi
pronomi in posizione di soggetto, e dal Bembo in avanti questi pronomi non erano stati più adoperati,
effettivamente, con tale funzione (solo con Manzoni c’era stata la riabilitazione dei tipi ‘lui’, ‘lei’, ‘loro’ in
funzione di soggetto, facendo riferimento all’uso del fiorentino vivo.
Un altro uso pronominale che incontriamo nel neostandard e che non apparteneva, invece, all’italiano
standard, è l’uso del pronome ‘gli’ per il complemento di termine, per il caso dativo per far riferimento al
latino. Quindi ‘gli’ con il significato di ‘a loro’, laddove l’italiano standard avrebbe voluto soltanto ‘loro’. È,
poi, un tratto tipico del neostandard l’uso rafforzativo di ‘ci’, in verbi che divengono pronominali, soprattutto
con il verbo avere ed entrare, in espressioni come: “ci ho fame” o anche nel senso di essere attinente per
quanto riguarda entrarci, quindi “non c’entra nulla!”. Strettamente legato all’uso di ‘ci’, ma con valore
locativo, è il fatto che nell’italiano neostandard è prevalso il ‘ci’ locativo al posto del più, diciamo anche
arcaico, letterario, ma più tipico dello standard, ‘vi’. Quindi “c’è un bel ristorante in quel paese”, e non vi è.

Terza slide:

Come vi ho già detto, non tutti i tratti che abbiamo considerato vengono anche riconosciuti dalle grammatiche, però
buona parte di questi si, quindi è normale oggi trovare nelle grammatiche di italiano alcuni usi, come ad esempio
quelli che vedete riportati in questa slide, quindi l’uso di ‘gli’ per ‘a loro’, o anche gli articoli partitivi. Dovete pensare
che l’articolo partitivo, soprattutto nell’800, veniva fortemente combattuto dai repertori puristici, che lo ritenevano,
come effettivamente è, un costrutto di origine francese, mediato dal francese, quindi nell’ambito della lotta al
forestierismo che contraddistingue il purismo ottocentesco, c’era stata anche una forte stigmatizzazione dell’articolo
partitivo. Eppure, l’articolo partitivo si è talmente diffuso nell’oralità, nel parlato, che a partire dagli anni ’60, ’70, ‘80
del ‘900, ha iniziato proprio a diffondersi in maniera capillare anche nello scritto, al punto che oggi lo troviamo
esposto nelle grammatiche, sia rivolte agli italiani che rivolte agli stranieri. Tuttavia, è bene anche dire che, ancora
oggi gli articoli partitivi accettati dal neostandard vengono marcati come un po’ troppo colloquiali, e quindi
diafasicamente bassi se uniti alle preposizioni; quindi, sarebbero ancora da evitare forme come: “con delle amiche”
“con degli amici” “ho scritto a delle persone”, ecco, questi costrutti in cui il partitivo è unito ad una preposizione
sono riconosciuti ancora come standard, quindi marcati diafasicamente, ma anche diastraticamente, come più bassi,
e a volte nelle grammatiche questa puntualizzazione viene fatta.

Quarta slide:

In questo schema, che riflette l’architettura dell’italiano contemporaneo e delle sue maggiori varietà, e che è
adattato dallo schema proposto da Berruto nella sua sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, vedete proprio
come l’italiano neostandard sia un italiano, come ci siamo detti, in cui si riduce la forbice tra scritto e parlato, perché
se l’italiano standard è totalmente collocato nel quadrante dello scritto, invece l’italiano neostandard si spinge di più
anche verso l’oralità, quindi ha accolto al suo interno anche fenomeni principalmente orali. Inoltre, è un italiano
definito anche “dell’uso medio”, tant’è che si abbassa un po’ di più verso l’informalità, seppur comunque non arriva
proprio nel secondo quadrante di questo schema, quello che è più spostato verso l’italiano informale. Anche da un
punto di vista della diastratia si nota un abbassamento rispetto all’italiano standard, perché effettivamente l’italiano
neostandard o dell’uso medio amplia il suo raggio di utilizzo, coinvolgendo anche parlanti dotati di una cultura
media, non per forza quindi con un livello di istruzione che arriva a suoi massimi gradi.

VERSO UNA LINGUA DI PLASTICA?


QUALCHE TENDENZA DELL’ITALIANO POST 2000

Adesso vorrei soffermarmi brevemente e senza alcuna presunzione di essere esaustiva, ma soltanto fornendo degli
spunti di riflessione su qualche tendenza dell’italiano più contemporaneo, dell’ultimo ventennio. Sottolineo che
queste sono tendenze e non corrispondono nè a norme nè a tratti che appartengono allo standard o al neo standard;
sono dei fenomeni che si stanno diffondendo ultimamente con una certa rapidità e che vengono monitorati da
linguisti e storici della lingua per vedere se effettivamente possono arrivare ad attecchire pienamente in italiano.

Partiamo da alcuni fenomeni che interessano la grafia:

si stanno estendendo, soprattutto grazie al potere detonatore dei nuovi mezzi di comunicazione di messa, tra cui
spiccano i social, grafie non corrette seguendo comunque la grammatica tradizionale dell’italiano come provincie,
ciliege, o forme in cui al trigramma ‘gni’ per indicare la nasale palatale ‘gn’ viene sostituito il digramma, quindi
spegnamo, accompagnamo senza i.

la diffusione di queste grafie si lega al fatto che oggi la scrittura viene largamente impiegata da utenti della lingua che
hanno grado d’istruzione e formazione scolastica non così alto e che commettono degli errori, soprattutto in alcuni
contesti nei quali la grafia non ha una rispondenza nella fonetica: la i, nei casi appena visti, è puramente scritta, ha
valore che non è anche fonetico; noi non pronunciamo la ‘i’ in parole come ciliegie o spegniamo con la i, quindi
laddove lo scrivente non abbia grande dimestichezza dell’italiano scritto o che abbia grado di istruzione non
altissimo, è chiaro poter incappare in questi errori; ma utilizzando la scrittura in contesti con forte diffusione, come i
social, effettivamente potrebbe arrivare a propagare questo uso.

Altro contesto in cui queste grafie si stanno diffondendo rapidamente è quello dei giornali online: perché a volte può
capitare che, dati i tempi velocissimi di pubblicazione che richiede il giornalismo online, non sia sempre possibile
correggere questi refusi e queste grafie iniziano ad essere interpretate come corrette da chi fruisce di questi giornali
e riviste online.

Altro uso che si sta diffondendo è quello dell’accento su alcuni monosillabi, come dò, nel senso di prima persona
singolare del verbo dare, o in altri casi si ha la situazione opposta: vengono cancellati accenti in composti che
richiederebbero l’accento, come ventitrè e doposcì.

Ricordiamo che si capisce bene che la grafia non standard si sta diffondendo perché anche qui il valore dell’accento è
un valore che si capisce esclusivamente con una grande conoscenza dell’italiano scritto: effettivamente il verbo dare
ha alcune irregolarità nell’uso dell’accento: egli dà richiede accento e per analogia, uno scrivente con un grado di
istruzione non particolarmente alto, potrebbe essere propenso ad usare l’accento anche per la prima persona
singolare.

Andando oltre l’argomento della grafia, possiamo dire che italiano tendenziale dell’ultimo ventennio sta conoscendo
grande sviluppo di composti giustapposti che sono sicuramente frutto di imitazione di composti inglesi: bancadati,
bagnoschiuma, partito-azienda, effetto-serra, allarme inquinamento, tassozero. Oppure possiamo avere dei
composti ibridi in cui l’elemento italiano si mischia con quello straniero.

Sono tendenze che hanno una larga diffusione, così come stanno avendo nel contesto lessicale e anche morfologico
un discreto successo alcune alternative eufemistiche: l’italiano contemporanea privilegia espressioni eufemistiche a
espressioni più puntuali ma con una carica connotativa percepita come eccessiva e talvolta offensiva. Ad alcune
forme riconosciute nell’italiano passato come mondezzaio o spazzino si preferisce il termine eufemistico operatore
ecologico.

Così come nell’identificazione di alcune disabilità l’espressione eufemistica sta scalzando quella più concreta, più
diretta che esisteva in precedenza. Alla parola cieco si preferisce non vedente o non udente. Alla parola nero si
preferisce l’espressione di colore.
Il ‘tu’ confidenziale sta prendendo il sopravvento e per cui si espande il suo impiego e anche della forma di saluto
‘ciao’ anche in contesti in cui l’italiano standard e neo standard privilegiavano l’utilizzo del ‘lei’ di cortesia. Oggi è
usuale salutare in maniera informale camerieri e baristi laddove l’italiano normato, ma anche neo standard,
suggeriscono di utilizzare il lei come formula di cortesia.

Inoltre molto diffuso oggi, specialmente in contesto giovanile ma non solo, è l’uso di ‘tipo’ con valore avverbiale in
espressioni come: ‘lui pensa tipo che’ dove ‘tipo’ sta sostituendo altre forme come ‘ad esempio’.

Sono alcune caratteristiche di un italiano tendenziale dell’ultimo ventennio che non appartiene allo standard e al neo
standard ma stanno prendendo piede e la domanda si questa slide ‘verso una lingua di plastica?’ si rifa’ ad una
definizione ‘lingua di plastica’ data da Ornella Castellani Pollidori.

Ornella Castellani Pollidori, infatti, aveva da tempo insinuato un sospetto, ossia che all’italiano standard e
neostandard si potrebbe affiancare una terza etichetta, ossia ‘lingua di plastica: è il titolo di un volume pubblicato
dalla Castellani Pollidori nel 1995, il cui sottotitolo emblematico è ‘vezzi e mal vezzi dell’italiano contemporaneo’. In
questo volume, la Pollidori individua una serie di fenomeni in grande espansione, già sul finire degli anni 90, che
definisce come ‘plastismi’: sono tutte quelle parole e espressioni che si diffondono a ondate, prima nella lingua
parlata, talvolta infiltrandosi anche nella lingua scritta meno controllata, fino a diventare dei propri tic linguistici,
ossia tormentoni che marcano periodi di storia linguistica.

La Castellani Pollidori consiglia di fare attenzione verso queste formule per non abusarne

Citazione della stessa Castellani Pollidori: tutti i plastismi hanno una caratteristica preoccupante, quella di far terra
bruciata intorno a se’ nel senso che a furia di usare sempre le stesse formule pre confezionate si disimpara a cercare
di volta in volta la soluzione lessicale più adeguata a rendere una particolare accezione o sfumatura, in pratica si
disimpara la lingua si lascia che questa sfruttata cosi poco e male appaia impoverita e desolatamente gregaria’.

Sicuramente in questo elenco di plastismi nella slide e che riprendo da un volumetto che è uscito negli anni 2016,
unito a ‘la repubblica’, ossia ‘l’italiano-bada a come scrivi’. È il primo di una serie di 14 volumetti che
accompagnavano il quotidiano nazionale. In questo elenco di plastismi potremmo riconoscere molte espressioni che
noi tutti usiamo anche nella quotidianità.

Per la Castellani Pollidori, un plastismo è l’impiego di ‘attimino’ non con valore temporale ma con valore di tipo
qualitativo modale: quando attimino può essere sostituito da ‘un po’’ come in frasi ‘sono un attimino stanco’. È un
tic linguistico anche espressione ‘ma anche no’ che era comune nella lingua standard nel caso di rettifiche parziali in
casi come ‘ in una rapina, poteva andarmi bene ma anche no’ dove qui l’avverbio non sostituisce un’intera frase; solo
che questo diventa un plastismo quando è impiegato come una sequenza isolata in risposta a proposte, inviti e
eventualità non allettanti e viene usato esclusivamente nel parlato ma con grande diffusione. Quando viene usato
‘ma anche no’ nelle risposte, l’espressione tende a voler comunicare in maniera attenuata un rifiuto o più spesso,
viene usata per rendere ironico ancora di più il nostro rifiuto, come per dire ‘neanche per sogno’.

È particolarmente diffuso in molti contesti e per la Castellani Pollidori può essere assunto a una specie di tic
linguistico.

Per non elencare tutti i plastismi riportati, mi soffermerei su uno dei più pericolosi: utilizzo di ‘piuttosto che’ al posto
della disgiuntiva ‘o’ o ‘oppure’. È diffuso questo utilizzo di ‘piuttosto che ‘ soprattutto tra i giovani; pare addirittura
che siano stati i giovani del ceto medio alto torinese a impiegare questo utilizzo nel parlato ma poi la tv e la radio
hanno diffuso moltissimo l’impiego di piuttosto che con valore disgiuntivo.
Questo tipo di plastismo è piuttosto pericoloso perché può indurre dei fraintendimenti di senso: in italiano standard
‘piuttosto che ‘ serve a indicare una preferenza tra due alternative: andrò al mare piuttosto che in montagna 
significa che preferisco andare al mare, non che posso andare posso nei due luoghi indifferentemente.

L’utilizzo di ‘piuttosto che ‘ con senso disgiuntivo crea ambiguità in un contesto come il ristorante: se io dovessi dire ‘
vorrei un’insalata piuttosto che verdure grigliate’ in italiano significa che io preferisco l’insalata, ma spesso viene
usato per porre due alternative assolutamente equiparabili.

Ribadendo che questi tic linguistici, questi tormentoni linguistici, sono in ampia diffusione anche grazie a nuovi mezzi
di comunicazione, chiudo questa lezione in cui si è parlato di standard e neo standard ma anche di un italiano
tendenziale che nell’ultimo ventennio conosce espansione di fenomeni che non erano diffusi in precedenza, con
breve elenco di alcuni tra quelli che potremmo considerare tic linguistici più diffusi del ‘giovanilese’, lingua parlata
dai giovani sulla quale ci soffermeremo nelle prossime lezioni.

Vi pongo in maniera interrogativa questa domanda: secondo voi questi elencati nella slide possono essere
considerati dei tic linguistici tra i giovani? Mi riferisco agli aggettivi ‘devastante’ per indicare qualcosa di bello,
divertente e viene usato in contesti differenti e potrebbe essere sostituito da aggettivi tutti molto diversi tra di loro a
seconda del contesto e in generale indica tra i giovani qualcosa di molto apprezzato.

Abbiamo anche l’espressione ‘top’ o anche ‘essere al top’ anche qui multiuso e sostituibile con aggettivi o formule
anche diverse e più precise per indicare la sensazione suggerita dal ‘top’.

Aggettivo che ha un discreto successo tra i giovani sempre per indicare grande consenso e approvazione è ‘epico’ e
per ultimo citerei l’espressione ‘essere a 100’ per indicare una condizione di pieno benessere sia fisico che emotivo.

Secondo voi, domando, sperando di poter suscitare una riflessione e anche un dibattito mediatico su teams, se sono
questi i tic linguistici che ci interessano?

Pensate, come la Castellani Pollidori, che queste espressioni, come i plastismi, impoveriscano la lingua? e se si,
perché? Vi invito a commentare durante l’ora di lezione.

LA DIATOPIA PARTE 1: I DIALETTI

Diatopia  variazione linguistica legata al fattore spaziale. È quel fenomeno per la quale persone che vivono in
luoghi diversi si esprimono attraverso lingue o varietà di lingue diverse.

Questa variazione è originata per fenomeni di contatto e di interferenza tra le lingue. I fenomeni sono i meccanismi
di sostrato e di superstrato.

Il meccanismo di sostrato è un meccanismo dove la lingua che si afferma in un territorio subisce una influenza di una
lingua dominante in precedenza in quello stesso territorio. La lingua precedente è detta lingua di sostrato, mentre la
nuova lingua viene chiamata di superstrato.

Quando il latino volgare ha cominciato a diffondersi, i popoli che parlavano lingue diverse hanno dovuto apprendere
l’idioma dei conquistatori e quindi il latino volgare. La loro lingua originaria però ha influenzato la loro pronuncia del
latino, il lessico e le strutture e tutto ciò l’ha reso diverso dal latino parlato dai conquistatori. (Esempio la vocale U
che era pronunciata come una U turbata, derivata dalle lingue celtiche e etrusche.)

Nel corso del tempo, il latino ha dovuto fare i conti con il sopraggiungersi di lingue nuove e di superstato come le
lingue gotiche, longobarde e arabe. Queste lingue non sono diventate lingue dominanti ma hanno modificato il latino
parlato, anche solo dal punto di vista lessicale. Per esempio, la parola schiena che viene dal longobardo è presente
solo nelle aree italiane e non nelle aree romanze.

Con la fine dell’Impero Romano, tutte le differenze linguistiche delle varie aree si sono accentuate fino ad arrivare a
una vera e propria frammentazione linguistica e quindi alla creazione di tante nuove lingue chiamate lingue
neolatine o romanze. Questa frammentazione si è avuta sia in larga scala che in piccola scala. Già Dante nel “De
Vulgari Eloquentia” aveva osservato che vi erano differenze linguistiche tra grande aree regionali, tra città e città e
anche tra quartiere e quartiere. Queste lingue locali vengono definite con il termine “volgari”.

Quando poi viene diffusa la lingua nazionale si determinano due nuovi fenomeni.

Primo, i volgari assumono una posizione di subalternità di uso e di prestigio rispetto alla lingua nazionale; non
vengono più chiamati volgari ma dialetti.

Secondo, si creano dei nuovi meccanismi di interferenza tra la nuova lingua italiana nazionale, ovvero di superstato e
le lingue dominanti in precedenza, i dialetti, ovvero lingue di sostrato.

Il termine dialetto inizia ad essere usato solo in correlazione della lingua. Innannzitutto i dialetti non sono dialetti
italiani ovvero non derivano dall’italiano ma sono piuttosto varietà geografiche, parallele e consorelle dal dialetto da
cui si è sviluppata la nostra lingua standard ovvero il fiorentino.

Una lingua e un dialetto non sono distinguibili solo in base delle loro caratteristiche linguistiche. La loro distinzione si
basa soprattutto su criteri storici, criteri socio-linguistici (geografico-sociale-funzionale) e sul criterio gerarchico.

Un dialetto è un sistema linguistico divenuto secondario rispetto ad uno dominante. Con secondario non s’intende
inferiore ma subordinato ad una lingua standard dotato di diverso prestigio e ruolo. Rispetto ad una lingua standard
il dialetto si caratterizza a livello geografico perché usato in aree circoscritte e si definisce socialmente perché usato
in ambito sociale e funzionalmente perché non utilizzato in ambito ufficiale o tecnico scientifico.

Il dialetto è un sistema linguistico definito diatopico, tipico di una certa regione o località e con una differenza di
raggio funzionale, sociale e comunicativo rispetto ad una lingua standard nazionale.

Carta della suddivisione dei dialetti italiani di Giovanbattista Pellegrini, 1975.

Per Pellegrini è possibile suddividere i dialetti italiani in 5 grandi aree; quella settentrionale in giallo, quella Toscana
in verde, quella centrale e meridionale in rosa, quella sarda in marroncino e quella friulana in arancio. Dobbiamo fare
una precisazione: il sardo e il friulano non sono più considerati dei dialetti perché hanno fenomeni propri da
configurarsi come vere e proprie lingue. Sono inserite dalla legge 482 del 15 dicembre del 1999 come le lingue di
minoranza da tutelare.

Oltre alle aree individuate da Pellegrini possiamo notare ulteriori sottogruppi dialettali. Nell’area settentrionale
distinguiamo i dialetti gallo-italici che comprendono il lombardo, il piemontese, il ligure e l’emiliano romagnolo
colorati in giallo più carico rispetto ai dialetti veneti in giallo più chiaro.

Nell’area centrale distinguiamo i dialetti mediani in rosa chiaro che comprendono il laziale settentrionale, l’umbro
centro-settentrionale e il marchigiano centrale poi distinguiamo i dialetti meridionali in rosa scuro e i meridionali
estremi in viola che sono il calabrese centro-meridionale, salentino e siciliano.

Le grandi aree dialettali italiani sono delimitate da due confini linguistici noti dai nomi linea alla spezza-rimini e
roma-ancona. La linea alla spezza-rimini corrisponde alla catena di appennini tosco-emiliani e fa da confine tra i
dialetti settentrionali e quelli centrali e la linea Roma-Ancona che in parte coincide con il corso del Tevere fa da
confine tra i dialetti centrali e quelli meridionali. Queste linee sono costituite da fasci di linee chiamate isoglosse.
Un’isoglossa è una linea immaginaria con il quale si uniscono i punti estremi di un’area geografica caratterizzata dalla
presenza di uno stesso fenomeno linguistico.
Una linea isoglossa quindi, distingue un territorio in cui si realizza un determinato fenomeno linguistico da un
territorio contiguo in cui quel fenomeno non si realizza o si realizza in maniera differente.

Due esempi: Per la linea alla spezza rimini scegliamo un’isoglossa fonetica quella che individua il limite meridionale
della lenizione ovvero del passaggio da sorda a sonora dell’occlusive intervocaliche (?); al di sopra della linea la
consonante dentale T sorda della parola latina fratellum, diventa la sonora D come nel lombardo Fradel. Al di sotto
di questa linea, la consonante rimane sorda nell’italiano di matrice fiorentina vediamo infatti FraTello.

Per la linea roma-ancona scegliamo invece un’isoglossa lessicale quella che delimita la distribuzione dell’essema
fratello tipico della zona settentrionale toscana rispetto a invece di frate, la variante della zona meridionale.

Le linee isoglosse sono state individuate grazie agli studi dei dati e delle carte degli atlanti linguistici. Gli atlanti
linguistici sono delle carte ordinate che riportano in trascrizione fonetica i diversi modi in cui viene espresso un
concetto in determinati territori. Questi dati vengono raccolti e ricavati su inchiesta dei vari raccoglitori che hanno
intervistato delle persone, informatori di diverse aree geografiche.

Per l’Italia i principali Atlanti linguistici sono due; il primo in ordine cronologico è l’AIS atlante italiano e della svizzera
meridionale, il secondo invece è l’ALI ovvero atlante linguistico italiano.

Tra i tratti caratteristici di tutta l’area dialettale settentrionale, si trovano la lenizione e la sonorizzazione, ovvero il
passaggio da sorda a sonora delle occlusive intervocaliche, quindi la consonante T diventa D (come in emiliano
Fradel per dire Fratello), la Ch diventa Gh (come in Ortiga per dire Ortica) e la P tende ad indebolirsi ulteriormente e
a trasformarsi non in B ma in V (come in Nivoda per dire Nipote in emiliano). La P può addirittura scomparire, come
accade nel dialetto milanese  esempio: Neud = nipote

Il secondo tratto tipico di tutta l’area settentrionale è lo scempiamento, ovvero la riduzione delle consonanti doppie,
come nono per dire nonno e Madona per dire Madonna, nel piemontese e nel veneto.

Il terzo tratto è l’avanzamento delle consonanti affricate C e G, che dalla zona di articolazione palatale si spostano
verso quella dentale.
Nel video avete sentito il Cosìn e il Cosèn per dire cugino nel milanese ed emiliano. Sempre nel video la signora
veneta dice che si chiamano potenetti i bambini dai quattro agli undizi anni, non undici e in un altro pezzo sentiremo
una signora veneta dire me piase invece di mi piace.

Il quarto tratto è l’abbondanza dei pronomi clitici usati anche in funzione di soggetto, soggetto che tra l’altro in
questi dialetti è obbligatoriamente espresso. I pronomi clitici sono i pronomi atoni ossia privi di un accento proprio.
All’inizio del video abbiamo sentito un signore piemontese dire “la cita a le la figlia” non semplicemente “è la figlia”,
e “a le regiunal” non semplicemente “è regionale”. La signora veneta dice che “la sposa le la moglie del figlio”, ecco
quel “le” è proprio un pronome clitico sovrabbondante.

Tratti tipici dei soli dialetti gallo italici e non anche di quelli veneti, sono invece:
-Le vocali turbate /ö/ e /ü/
-La caduta delle vocali finali fatta eccezione della -A  Fradel = Fratello, Sorela = Sorella in emiliano e milanese.

Molti tratti tipici dei dialetti della toscana, sono:


-Il dittongamento così detto toscano, ossia il dittongamento di E ed O aperte toniche in sillaba libera, che diventano
IE e UO  esempio: piede, buono
-A Firenze a partire dall’800 troviamo il monottongamento, come il monottongamento di UO in O  esempio:
buono = bono, nuovo = novo
-Passaggio del nesso rj in j, come nella parola fornaio
-Desinenza -iamo per la prima persona plurale, come in andiamo, vediamo e sentiamo
-La Gorgia, quindi la pronuncia tipica fiorentina di parole come la Hasa invece di Casa
-La pronuncia delle affricate palatali C e G con la Perdita dell’elemento occlusivo  per esempio la parola Ceci
diventa Ceshi
-Infine la Anafonesi, che è la chiusura della E chiusa tonica in I davanti ai suoni palatali GL e GN provenienti dai nessi
latini /lj/ e /nj/  per esempio: dal latino “familja”, poi etimologicamente abbiamo “famelja”, mentre nel dialetto
fiorentino troviamo “famiglia”
Un secondo caso di Anafonesi prevede la chiusura di E ed O toniche davanti a una consonante nasale come la N,
seguita da una consonante velare; per cui dal latino abbiamo la parola “linguam”, etimologicamente “lengua” che
troviamo in alcuni dialetti italiani, mentre in toscana la chiusura della E in I fa sì che la parola “lengua” si trasformi in
“lingua”.

Stando a sud della linea Roma-Ancona i caratteri comuni ai dialetti centro-meridionali sono questi:
-Metafonesi, ossia la trasformazione di E ed O toniche quando la parola latina terminava in –U o –I.
In queste condizioni se la E e la O sono chiuse generalmente si chiudono ulteriormente in I e U, se invece sono
aperte (E’ e O’) dittongano in IE e UO. Per esempio, nel video avete sentito dire ad un ragazzo campano che nel suo
dialetto si chiama giovanotto un “uajone che diventa gruosso”. Gruosso non è altro che l’esito meridionale di
“grosso”, con un dittongamento metafonetico. Per la metafonesi, per concludere, possiamo pensare a un cognome
molto diffuso in Italia che al nord troviamo nella variante “Rossi”, mentre al sud nella variante “Russo”, con una U
metafonetica.
-Il Betacismo, ossia il passaggio di una V latina ad una B  per esempio nella catacomba di Commodilla il graffito
diceva “non dicere ille secrita a bboce”, appunto con il passaggio da V di Voce a B di Boce.
Ci sono però anche esempi del passaggio contrario, ossia da B a V, come per esempio in dialetto napoletano Bocca
diventa Vocca.
-L’assimilazione progressiva dei nessi “nd” e “mb” che diventano rispettivamente “nn” e “mm”, per cui la parola
“mondo” diventa “monno”.
-L’enclesi del possessivo con i nomi di parentela, ossia la posposizione del possessivo rispetto al nome. Nel video
avete sentito dire “nipute mo” per dire “mio nipote” e la “nura me” per dire “mia nuora”.
-L’uso del verbo tenere per sostituire il verbo avere non ausiliare, come “tengo fame, tengo sonno” per dire “ho
fame, ho sonno”.
-A livello lessicale, possiamo poi ricordare alcuni passaggi dal tipo “donna” della zona toscana e settentrionale al tipo
“femmina” di quella centro-meridionale, e dal tipo “fratello” al tipo “frate”.

Rispetto ai dialetti mediani, quelli centrali e estremi, i dialetti alto meridionali si distinguono per un trattamento
diverso delle vocali finali non accentuate; quindi se nei dialetti mediani e estremi queste vocali finali rimangono
abbastanza solide, nei dialetti alto meridionali tendono a scomparire e a diventare un suono indistinto, che viene
chiamato “Scuà” (in trascrizione fonetica: /ǝ/). Per un esempio basti pensare al video e alla signora che riferiva che
la parola per “bambino” in napoletano era “criaturǝ”, con una vocale finale dal suono abbastanza indistinto.

Per quanto riguarda i dialetti meridionali estremi, questi si caratterizzano per un sistema vocalico particolare con 5
vocali toniche e 3 vocali atone, al posto di 7 vocali toniche e 5 atone come nel resto dell’Italia, esclusa la Sardegna.
Un'altra caratteristica che possiamo citare per i dialetti meridionali estremi è la così detta pronuncia retroflessa,
ovvero con la lingua puntata sugli incisivi in alcuni nessi consonantici, per esempio il nesso “tr”; per cui la parola
“padre” in alcuni dialetti meridionali estremi diventa “patri”.

Passiamo adesso ad analizzare l’uso dei dialetti in Italia, con uno sguardo sulla sincronia ma anche alla diacronia. Nel
video si nota bene come nella regione veneto ancora verso la fine degli anni ’60, il dialetto possedesse una grande
vitalità tanto da essere utilizzato in un contesto pubblico come l’ufficio postale, in cui ci aspetteremmo invece
l’utilizzo dell’Italiano.

Questa presenza significativa del dialetto si deve soprattutto a vari fattori storici, non da ultimo l’alto tasso di
analfabetismo che ha contraddistinto a lungo ila regione veneto e le principalmente le sue campagne.

Nel video si vede la testimonianza di due donne di generazioni diverse che riflettono non solo un uso diverso di
lingua e dialetto ma anche una diversità di valutazione dei due sistemi linguistici. La donna anziana usa il dialetto alla
posta con l’impiegato incoraggiata anche dal fatto che lo stesso impiegato non usa l’italiano, questo lascerebbe
ipotizzare che la signora sia una dialettofona esclusiva che usa il dialetto in tutti i contesti perché non ha pieno
possesso di un altro codice.

Alla domanda dell’intervistatore afferma però che è in grado di parlare anche in italiano, ma quando lo fa ci
rendiamo conto che è molto interferito con il dialetto, un italiano che viene chiamato italiano popolare. La signora
non esprime un pregiudizio esplicito nei confronti dell’uso del dialetto, però è degna di nota la velocità con cui si
affretta ad assicurare che al bisogno sa usare anche l’italiano. La signora fa anche un'altra annotazione importante,
ossia che l’italiano in passato era solamente diffuso in città e non nelle campagne, mentre adesso è ben presente
anche lì.

L’altra signora del video, quella più giovane, sposata con un parlante di un'altra regione, ha invece non solo una
evidente e maggiore consuetudine con l’italiano e una maggiore competenza ma anche un atteggiamento molto
diverso nei confronti del dialetto; lo ritiene un sistema linguistico che andrebbe estromesso un codice e abolito dai
contesti più officiali, quindi lo ritiene un codice poco prestigioso.

Il commento della signora è di rilievo perché il prestigio è un concetto socio-linguistico fondamentale ed è di fatto
quello che definisce la correlazione tra dialetto e lingua. Il prestigio di un sistema linguistico è determinato in gran
parte dalle possibilità di avanzamento sociale che il sistema linguistico offre. La nostra giovane signora dice
chiaramente che ai figli non viene trasmessa, né da lei, né dal marito, alcuna competenza dialettale perché entrambi
la ritengono dannosa per il successo della istruzione e quindi per ottenere una posizione sociale vantaggiosa. I figli
quindi della signora cresceranno come italofoni esclusivi, cioè useranno il solo italiano in tutti i contesti di vita,
anche quelli famigliari.

Questo video allora descrive bene i motivi del declino del dialetto, siccome non più insegnato in ambito famigliare,
estromesso dalla scuola e stigmatizzato dagli stessi parlanti in quanto indice di bassa scolarizzazione e prestigio
sociale.

Tendenze evidenziate dalle indagini auto-valutative di Doxa e Istat (dati dal 1974 al 2015)
Le rilevazioni effettuate sono delle indagini auto-valutative ovvero i dati non sono frutto di una osservazione diretta
del comportamento linguistico da parte di uno studioso, ma sono piuttosto le risposte date da un campione di
persone a dei questionari o interviste, per cui non sono dati del tutto oggettivi. Per esempio la risposta di una
persona alla domanda “usi più il dialetto o l’italiano per parlare con gli amici” potrebbe riflettere più che il suo
comportamento linguistico effettivo, magari le sue convinzioni, ciò che ritiene socialmente accettabile più che vero,
poi c’è da considerare anche il problema che non sempre le persone sono in grado di distinguere tra il dialetto e la
lingua.

Le indagini comunque ci danno un quadro generale abbastanza indicativo del cambiamento nel tempo degli usi
linguistici italiani, ma anche della situazione attuale. Queste indagini ci consentono di vedere nel tempo in termini
percentuali:
-una costante diminuzione dei dialettofoni e un parallelo aumento degli italofoni. I dati ci dicono che nel 1974, più
o meno negli stessi anni del programma della rai sui dialetti, il 30% circa della popolazione italiana si dichiarava
dialettofona esclusiva; all’ultima rilevazione del 2015 lo dichiara solo il 4%. Questo dato va significativamente di pari
passo con le percentuali di analfabetismo, mostrando quindi uno stretto legame con dialettofonia esclusiva e
mancanza di istruzione.
-una correlazione tra istruzione e usi linguistici: minore è l’istruzione, maggiore è l’uso del dialetto:
I parlanti che oggi dichiarano di parlare dialetto anche con estranei, quindi dialettofoni esclusivi, sono per lo più in
possesso della sola licenza elementare e sono anche in gran parte anziani, dai 65 anni in su. Quindi anche l’età
insieme all’istruzione va considerata una variabile importante per l’uso del dialetto come codice esclusivo.
-una correlazione tra età e comportamenti linguistici: l’uso del dialetto è maggiore tra gli anziani
-una correlazione tra luoghi e usi linguistici: il dialetto è maggiormente vitale in alcune regioni dove i dialettofoni
esclusivi superano significativamente il 4%, ovvero la percentuale media nazionale  Veneto e alcune regioni del
Sud, come Campania, Basilicata, Sicilia e Calabria.
-Una correlazione tra contesti e usi linguistici: il dialetto è vitale, come codice esclusivo o combinato, soprattutto in
famiglia e con gli amici, mentre è molto ridotto nei contesti più officiali come in comunicazione con gli estranei o sul
luogo di studio e lavoro.

-Italofonia costante al 46%: la maggioranza relativa degli italiani è bilingue  fino ad ora abbiamo parlato molto
spesso della dialettofonia pura, notando come sia regredita nel tempo e nel passaggio delle generazioni. Però
dialetto e lingua non sono necessariamente due codici esclusivi, nel senso che si escludono a vicenda; metà della
popolazione italiana infatti non si dichiara monolingue, ma dichiara di usare sia l’italiano che il dialetto.
A questo punto non è più quanti italiani usano la lingua e quanti il dialetto, piuttosto dobbiamo chiederci quali siano
le caratteristiche del bilinguismo italiano, quali siano i concetti che ci permettano di descriverlo meglio e quali siano i
modi con i quali gli italiani alternano e mescolano i due codici.

Con il termine bilinguismo intendiamo la compresenza nel repertorio del parlante o di una comunità di due sistemi
linguistici diversi. Il bilinguismo può essere con o senza diglossia. Con diglossia quando le varietà o le lingue
coopresenti presentano diverso prestigio e specializzazioni di funzioni. Troviamo una varietà alta di maggiore
prestigio e una varietà bassa di minore prestigio impiegate in domini e contesti d’uso differenti. Il bilinguismo italiano
dialetto è stato a lungo un bilinguismo con diglossia. L’italiano era la varietà alta usata nei contesti ufficiali, con gli
estranei, mentre il dialetto era la varietà bassa, riservata ai contesti famigliari o amicali. Un elemento fondante della
diglossia è che le due varietà non possono essere scambiate nei rispettivi domini d’uso. Nel caso italiano non era
accettabile usare il dialetto nei contesti ufficiali e non era accettabile neanche utilizzare l’italiano nei contesti
famigliari.

Oggi giorno il bilinguismo italiano-dialetto non si considera più un bilinguismo con diglossia ma un bilinguismo con
dilalia, ovvero, un bilinguismo con la compresenza di due sistemi linguistici con status diversi in cui la varietà alta è
diffusa e considerata accettabile anche nei domini famigliari.

Nel contesto italiano contemporaneo la lingua italiana è ampiamente usata anche nel contesto famigliare e amicale
senza una netta separazione dei due codici e senza considerare l’uso dell’italiano come un qualcosa di anomalo e
inaccettabile.

L’elemento fondamentale per capire l’alternanza da parte dei parlanti del codice italiano o del codice dialetto è
quella dei domini e delle situazioni d’uso. Con il termine dominio si intende una classe di situazioni che
appartengono allo stesso campo di esperienza e hanno alcune caratteristiche in comune. L’elenco dei domini è
piuttosto aperto e anche empirico e comprende generalmente famiglia, lavoro, scuola, vicinato, religione, ufficio,
vita militare ecc…

Gli usi linguistici sono stati raggruppati in quattro domini differenti:

1. Famigliare
2. Amicale
3. Interazione con gli estranei
4. Luogo di lavoro e di istruzione

Con questi dati possiamo ricavare due osservazioni importanti; la prima è una maggioranza di italiani (1/3) che
dichiara di utilizzare in modo combinato l’italiano e dialetto soprattutto in contesti privati. Minore ma non certo
minimo invece, è il numero degli italiani che utilizza i due codici anche sul luogo di lavoro e istruzione (15% della
popolazione). Gli italiani non solo combinano ma alternano i due codici a seconda del domino.

Si parla di alternanza di codice quando il parlante sceglie un codice o un altro in relazione del dominio. Per esempio
chi usa il dialetto in famiglia e l’italiano a lavoro. Si parla invece di cambio di codice quando una conversazione è
avviata in un codice e passa ad un altro. Il motivo del passaggio sono vari: arriva un nuovo interlocutore, un italofono
esclusivo, un anziano solo dialettofano oppure si vuole negare la comprensione e quindi si passa ad un codice che il
terzo soggetto non conosce. Si può passare anche da una discussione seria in italiano ad una più scherzosa in cui si
preferisce l’espressività dialettale.

Vediamo tre modalità di cambio di codice:

 Code-switching: passaggio da un codice a un altro all'interno della stessa situazione comunicativa. Avviene
sempre al confine tra una frase e un'altra (è interfrasale). Quindi si fa una frase in dialetto e poi si fa una
frase in italiano.
 Code-mixing: commistione di due codici a tutti i livelli d'analisi: fonologico, morfologico e sintattico. Si
verifica all'interno della frase (è intrafrasale). Ad esempio una frase inizia in italiano e finisce in dialetto.
 Prestito: passaggio di una parola da un codice a un altro, limitatamente al livello lessicale.

«Risorgenze dialettali»: recentemente si registra una ripresa del dialetto dovuta ad una nuova percezione collettiva.
Si usa il dialetto nell’insegna dei negozi, nel linguaggio giovanile, sui giornali, radio, media, televisione, canzoni,
web….

Tutti questi usi devono essere distinti tra quelli spontanei e tra quelli consapevoli e ad uso artistico, chiamati ad uso
riflesso. Questo uso del dialetto è dovuto a vari motivi: il dialetto assume un valore simbolico-idealogico, diventa
espressione di un’identità o di un’autenticità. Oppure il dialetto ha un valore ludico espressivo recepito come
maggiore rispetto quello dell’italiano, per esempio si può pensare a come è diffusa la comicità in dialetto.

Il dialetto non è più una marca di inferiorità socioculturale ma è diventata una consapevole opzione per esprimere
determinati bisogni comunicativi.

LA DIATOPIA PARTE 2: GLI ITALIANI REGIONALI

L’Asse diatopico (slide 2)

La lingua italiana e i dialetti non vanno considerati come sistemi chiusi, cioè sistemi che vivono in modo totalmente
indipendente tra di loro, l’italiano e i dialetti sono piuttosto sistemi in comunicazione osmotica e formano quello che
si definisce un continuum ininterrotto di varietà. Questo continuum può essere immaginato come un asse ai cui poli,
agli estremi, si dispongono da una parte il dialetto, dall’altra la lingua e nel mezzo si collocano invece delle varietà
intermedie che possono essere più vicine alla lingua e quindi sono varietà della lingua o sono invece più vicine al
dialetto e sono quindi varietà del dialetto.

Attenzione a non concepire queste varietà come ben separate tra loro (per usare una metafora: come fossero i pioli
di una scala) perché queste varietà vanno concepite piuttosto come delle realtà contigue, in parte sovrapposte,
proprio in continuità, in continuum.

Sui quali e quante siano effettivamente queste varietà intermedie tra lingua e dialetto non c’è un accordo totale tra
gli studiosi anche perché la marcatezza diatopica, ovvero la presenza di tratti che si caratterizzano come regionali o
locali, si insinua in gran parte delle varietà dell’italiano.

Nella diapositiva vi ho riportato, rielaborandolo un po', uno schema degli assi di variazione, dei parametri di
variazione della lingua.

I A
D O
T A
PI
Questo schema che è stato proposto dallo studioso Gaetano Berruto che vi ha collocato anche le varietà da lui
riconosciute di italiano ed è noto come architettura dell’italiano. (Nel nostro caso ho tolto l’indicazione delle varietà
perché al momento non ci interessano). Guardiamo invece un po' meglio gli assi, i parametri di variazione della
lingua:

Nello schema, come vedete, non è riportato un asse diatopico vero e proprio, ma la diatopia fa da sfondo allo
schema perché costituisce, secondo le parole dello studioso, l’elemento principale di variabilità della lingua e sempre
secondo Berruto, almeno nell’uso orale, quest’asse si sovrappone a tutti gli assi di variazione della lingua.

Nella mia rielaborazione l’intensità del colore dello sfondo, che è il colore appunto assegnato alla diatopia, è
variabile perché ci sono punti del sistema in cui la marcatezza diatopica, è più presente, è più forte, mentre altri in
cui la marcatezza lo è molto meno.

La diatopia è molto più forte nel parlato che nello scritto, è molto più forte nei contesti informali che in quelli
formali, ed è molto più forte negli strati socio-culturali bassi che quelli colti.

Tornando al nostro asse diatopico dunque, è chiaro che quest’asse si interseca con tutti gli altri quindi con molte
variabili e quindi con molte varietà della lingua. Nel contesto della nostra lezione però, ci concentreremo solo su
quelle varietà che sono definite in modo preminente dal fattore geografico, lasciando tutte le altre varietà alle
prossime lezioni in cui saranno trattati gli altri parametri di variazione dell’italiano. Nel nostro continuum diatopico
quindi, nel nostro asse ci limitiamo a segnare due tasselli: quello dei dialetti italianizzati e quello degli italiani
regionali.

I dialetti italianizzati (slide 3)

I dialetti italianizzati sono quelle varietà di dialetto che nascono dall’influenza che il dialetto subisce dall’italiano cioè
dalla lingua di superstrato.

Questa influenza dell’italiano sul dialetto si esercita soprattutto a livello lessicale, cioè con l’introduzione di parole
nuove che hanno una fonetica e una morfologia dialettale, ma che sono appunto di origine dell’italiano. Questo
ingresso di parole nuove può essere motivato da due fattori: il primo può essere la necessità di designare nuovi
referenti che nella lingua dialettale non esistevano, per esempio nel dialetto siciliano si registra una nuova parola
‘’televisiuoni” che è nata a partire dalla parola italiana, ma con una fonetica dialettale per indicare un nuovo
concetto.

Oppure gli ingressi possono essere motivati da una sorta di usura della parola dialettale che era in pratica avviata a
scomparire, per esempio nel dialetto milanese accanto all’originario magiustra, si è affiancata una nuova parola che
indica lo stesso referente, ma con una forma più vicina all’italiano cioè ‘’fragula’’.

Italiani regionali (slide 4)

Con l’espressione “italiani regionali” intendiamo quelle varietà di italiano che mostrano a tutti i livelli del codice e
quindi: fonetico, morfologico sintattico e lessicale, delle caratteristiche peculiari di un’area geografica.

Gli italiani regionali sono nati dall’incontro tra la lingua nazionale e i vari dialetti che hanno agito come lingue di
sostrato, succedeva in pratica che un parlante dialettofono imparava l’italiano e portava in questa sua nuova lingua
delle caratteristiche, cioè delle intonazioni, dei suoni, delle parole e dei costrutti, che erano propri della sua parlata
materna. Si realizzava così una lingua che risentiva del sostato dialettale e ne risentiva tanto più quanto minore era
l’istruzione del parlante.

Sono nate così delle varietà con forti caratterizzazioni regionali che sono state poi trasmesse di generazione in
generazione.

Gli Italiani Regionali sono dunque nati da un meccanismo di sostrato, dall’influenza dei dialetti sulla lingua, però
dobbiamo fare una precisazione perché oggi le varietà regionali non si differenziano tra loro solo per tratti che
trovano un’immediata corrispondenza nei dialetti dell’area, ma ci sono delle differenze che non trovano
corrispondenza e che sono nate indipendentemente dai dialetti.
Quando usiamo l’espressione italiano regionale dobbiamo fare attenzione a come concepiamo questo aggettivo
“regionale”, in particolare dobbiamo fare attenzione che non c’è una corrispondenza biunivoca tra varietà regionale
e regione amministrativa cioè i confini delle varietà regionali non corrispondo ai confini amministrativi delle regioni.

Per quanto riguarda l’elenco delle varietà regionali dell’italiano, possiamo raggruppare le varietà in quattro insiemi:

1)Abbiamo varietà le Settentrionali che comprendono l’italiano Regionale Piemontese, quello Ligure, quello
Lombardo, quello Veneto-Friulano e quello Emiliano-Romagnolo.

2)Poi abbiamo le varietà regionali Centrali che comprendono la varietà Toscana, quella Mediana e a parte la varietà
Romana.

3)Poi abbiamo gli italiani regionali meridionali in cui distinguiamo quelli Campani, Abruzzesi-Molisani, Pugliesi da una
parte e quelli Meridionali estremi dall’altra che come nel caso dei dialetti comprendono il Salentino, Calabrese e
Siciliano.

4)Infine a parte abbiamo infine abbiamo la varietà regionale Sarda.

Regionalismi lessicali (slide 5)

Abbiamo detto che le varietà regionali dell’italiano si differenziano per la presenza di varianti che sono distribuite in
tutti i livelli del codice linguistico, sono quindi varianti fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali. Tuttavia non
tutti i livelli linguistici presentano una uguale frequenza di tratti, le varianti fonetiche e le varianti lessicali sono molto
più frequenti, molto più diffuse di quelle morfologiche e sintattiche e sono anche quelle che permettono a qualsiasi
parlante di riconoscere più o meno immediatamente la provenienza geografica del proprio interlocutore.

Quando parliamo di forme lessicali che sono legate ad una precisa e circoscritta area geografica però, dobbiamo
stare attenti a non confondere i regionalismi e dialettismi o dialettalismi.

I DIALETTISMI sono essenzialmente dei prestiti del dialetto cioè delle parole che hanno origine dialettale, ma sono
entrate in Italiano, in lingua e sono quindi diffuse su tutto il territorio nazionale. Nelle slide successive ho messo degli
esempi, anche numerosi, ma ne vediamo già uno ora. Le parole “pesto’’, “grissini”, “risotto”, “tiramisù” o
“tortellini” sono ormai parole conosciute e usate in tutta Italia, ma originariamente erano parole usate in aree molto
circoscritte, perché erano parole proprie di specifici dialetti. La parola “pesto” era del dialetto Ligure, la parola
“grissini” era del dialetto Piemontese, la parola “risotto” del dialetto Lombardo, la parola “tiramisù” del dialetto
Veneto e la parola “tortellini” del dialetto Emiliano. Quindi proprie di quei dialetti erano usate solo nelle aree di
diffusione del dialetto.

I REGIONALISMI invece sono dei lessemi non diffusi sull’intero territorio nazionale, ma presenti soltanto nelle varietà
parlate di Italiano di alcune regioni o di alcune sotto aree regionali. Tra i regionalismi sono molto interessanti i
geosinonimi che sono dei sinonimi a distribuzione geografica, cioè sono parole che troviamo con lo stesso significato,
ma forma diversa in aree diverse. Anche dei geosinonimi vi ho messo degli esempi nelle slide successive e questi
esempi sono tratti dal primo studio proprio sui geosinonimi. Uno studio che è stato condotto da uno studioso
Svizzero Robert Ruegg nel 1956.

Questo studioso all’epoca aveva sottoposto a 124 persone provenienti da 50 province d’Italia un elenco di 242
nozioni comuni dell’Italiano parlato e aveva chiesto ad ogni intervistato di elencare i termini che conosceva e/o
usava per ogni nozione. I risultati di questa ricerca erano stati che soltanto una delle nozioni era stata indicata da
tutti gli intervistati con lo stesso termine ed era la nozione di “caffè forte al bar” che era stata indicata da tutti con il
termine di “espresso”. Ben l’88% delle nozioni presentava invece più di due sinonimi, addirittura ci sono nozioni che
arrivano ad un massimo di 13 sinonimi, ma per 46 nozioni lo studioso aveva notato che c’erano varianti lessicali
conosciute in una sola regione che erano invece sconosciute nel resto d’Italia, ecco, queste varianti conosciute solo
in una regione e sconosciute al resto sono proprio i geosinonimi. Facciamo un esempio tratto proprio dalla ricerca di
Ruegg: Per quanto riguarda la nozione del frutto rosso che si mangia prevalentemente in estate, l’area Settentrionale
preferisce usare il termine “anguria”, invece in area Toscana si usa prevalentemente il termine “cocomero”, mentre
negli Italiani regionali del Sud si usa prevalentemente “melone” o “melone d’acqua”. Gli esempi poi possono essere
numerosi, per esempio: l’insetto nero può essere chiamato “scarafaggio”, “piattola”, “blatta”. L’atto del non
frequentare la scuola senza una giustifica nel linguaggio giovanile può essere indicato come “bigiare” al Nord, come
“far filone al sud” e poi le varianti sono ancora molte.

I tratti delle varietà (slide 8)

Dedichiamo l’ultima parte della nostra lezione sulla Diatopia a analizzare alcuni tratti caratteristici delle varietà
regionali. Per ogni varietà metterò poi in slide a parte, commentate solo per iscritto, dei rimandi a dei video in modo
da poter sentire le varietà da parlanti nativi e appunto in azione, diciamo così. Non mi soffermerò, tra l’altro, sui
tratti che sono già stati visti in abbondanza nelle lezioni precedenti, prima fra tutte quella sulla fonetica o sui tratti
che abbiamo già approfondito perché hanno una corrispondenza nei dialetti. Mi soffermerò di più soltanto su quei
tratti che risultano nuovi per le nostre lezioni.

Per quanto riguarda la varietà Settentrionale, tratti caratteristici a livello fonetico sono:

 Una diversa distribuzione rispetto all’italiano standard delle vocali aperte e chiuse “e-é” e “o-ò”
 Una mancanza del raddoppiamento fonosintattico
 La pronuncia sempre sonora della sibilante intervocalica del tipo: “rosa”,“casa” contro “ròsa” e “càsa”
 La pronuncia di nuovo sempre sonora della fricata dentale iniziale del tipo: “zio, zaino” contro “zìo, zàino” o
“zucchero” contro “zùcchero”
 Per quanto riguarda i tratti morfosintattici, possiamo citare l’uso sistematico del passato prossimo anche per
avvenimenti per il quale la lingua prescriverebbe piuttosto il passato remoto del tipo: “3 anni fa sono andato in
vacanza alle Maldive” contro “tre anni fa andai in vacanza alle Maldive”
 Un altro tratto tipico della varietà Settentrionale è l’uso dell’articolo davanti ai nomi propri di persona del tipo
“La Sara”, “La Franci” o “Il Carlo”.
 Il rafforzamento della negazione con “mica”, “non ci crederai mica anche tu”, che può anche essere realizzata
questa frase senza il “non”, quindi:” ci crederai mica anche tu”
 Tra i tratti lessicali Possiamo citare vari sinonimi, come per esempio la parola “bigiare” che abbiamo già detto
prima, tipica del lessico giovanile, o la parola “cornetti” che in area Settentrionale si riferisce specificatamente ai
fagiolini e non soltanto alle brioches a forma appunto di mezzaluna, di cornetto.

Per quanto riguarda invece la varietà Meridionale:

 A livello fonetico anche qui abbiamo una diversa distribuzione delle vocali aperte e chiuse “e-é”, “o-ò”
ovviamente tenendo conto che tra le varietà Meridionali ci sono anche quelle estreme che risentono di un
sistema vocalico dialettale molto diverso perché a cinque vocali toniche e tre atone e non a sette toniche e
cinque atone.
 Viene sempre dai dialetti anche la tendenza a realizzare come indistinta la vocale atona finale, questo tratto
diventato celebre anche per una parte di un famoso film : “Benvenuti al sud” in cui dei parlanti Meridionali
cercavano di insegnare al protagonista Bisio come parlare in modo Meridionale e dicevano che basta togliere la
vocale finale, per cui, da “forchetta” a “forchett”, da “bicchiere” a “bicchier” e così via e in effetti questo tratto
è veramente un tratto caratteristico della varietà Meridionale.
 A livello morfologico abbiamo un impiego transitivo dei verbi intransitivi, anche qui un tratto ormai divenuto
celebre a partire dalla frase che a molti parlanti pare sgrammaticata, ma in effetti ha semplicemente un tratto
regionale: “scendimi il cane” o “scendimi” qualcosa in generale.
 Un altro tratto è l’uso dell’imperfetto congiuntivo al posto del presente quindi il tipo “venisse pure” al posto di
“venga pure”.
 Un tratto pragmatico è invece l’uso tipico Meridionale del “Voi” come pronome di cortesia, mentre nel resto
delle varietà regionali si preferisce usare il “Lei” come pronome di cortesia.
 A livello lessicale possiamo citare il verbo “tenere” usato al posto di “avere” che viene sempre dal dialetto,
quindi, “tengo casa al mare” invece di avere casa al mare, o il verbo “stare” per essere, quindi: “sto a casa”, “sto
stanco”, al posto di: “sono a casa” o “sono stanco “.
 Geosinonimi che trovate qui elencati li abbiamo visti anche nella slide precedente, per esempio “melone” o “far
filone”.

I tratti della varietà (slide 9)


Per quanto riguarda la varietà Toscana ritroviamo nell’Italiano regionale quei tratti fonetici tipici del dialetto
Toscano, quindi:

 La gorgia
 La pronuncia del tipo “diƐʃi , Pariʒi,” delle parole “dieci, Parigi”.
 Soprattutto a Firenze e nel parlato la monottongazione del tipo ova anche se non è sempre realizzata.
 A livello morfologico, possiamo citare il sistema tripartito dei dimostrativi, quindi l’uso di “questo, codesto e
quello” mentre invece nelle altre aree d’Italia “codesto” è sparito nelle realizzazioni parlate orali, rimane nello
scritto, soprattutto burocratico.
 Un altro tratto caratterizzante della varietà regionale Toscana è la realizzazione della prima persona plurale con
una forma impersonale, quindi tipo “noi si va” contro l’esito standard “noi andiamo”.
 A livello lessicale vi ho messo nella slide tre i geosinonimi che sono: “rena” che vuol dire “sabbia”, “sciocco”
intendendo “insipido” e “babbo” che è la variante regionale per “papà”.

Per quanto riguarda invece la varietà Romana possiamo citare questi fenomeni fonetici:

 La realizzazione della “s” come “ts” quando preceduta dalle consonanti “R, N, L” quindi “bortsa” invece che
“borsa” o “pentsare” al posto che “pensare”.
 Poi abbiamo il rafforzamento della “B” e della “dʒ” intervocalica quindi il tipo “ciclabbile” al posto di “ciclabile”
o “robba” o disaggio, quindi con le consonanti rafforzate.
 Abbiamo poi in rottacismo, quindi la trasformazione della laterale “l” in “r” per esempio nella parola: “cortello”
al posto di “coltello” oppure “arzare” al posto di “alzare”.
 Tra i geosinonimi vi ho messo come esempio il termine “caciara”.

Trascrizione lezione di Linguistica italiana (gruppo H-P) del 22/04/20

“Diamesìa”

Eccoci alla lezione sulla diamesìa, sulle varietà diamèsiche della lingua italiana. Per introdurci alla questione in misura
del tutto preliminare, vi propongo la fruizione di due testi:

• il primo lo potrete ascoltare e guardare cliccando sul link Youtube: https://www.youtube.com/watch?


v=ARWQ0STXCO8
• Il secondo è qui trascritto (e presuppone una vostra lettura autonoma):

In quegli anni, tra il 1925 e il 1933, le leggi del Maradagàl, che è paese di non molte risorse, davano facoltà ai
proprietari di campagna d’aderire o di non aderire alle associazioni provinciali di vigilanza per la notte (Ni stitúos
provinciales de vigilancia para la noche); e ciò in considerazione del fatto che essi già sottostavano a balzelli ed erano
obbligati a contributi molteplici, il cui globale ammontare, in alcuni casi, raggiungeva e financo superava il valsente
del poco banzavóis che la proprietà rustica arriva a fruttare, Cerere e Pale assenziendo, ogni anno bisestile: cioè
nell’anno su quattro in cui non si sia verificata siccità, non pioggia persistente alle semine ed ai raccolti, e non abbi
avuto passo tutta la carovana delle malattie. Paventata, più che ogni altra, la ineluttabile « Peronospera banzavoisi »
del Cattaneo: essa opera, nella misera pianta, a un disseccamento e sfarinamento delle radicine e del fusto, proprio
nei mesi dello sviluppo: e lascia ai disperati e agli affamati, invece del granone, un tritume simile a quello che lascia
dietro di sé il tarlo, o il succhiello, in un trave di rovere. In talune plaghe bisogna poi fare i conti anche con la
grandine. A quest’altro flagello, in verità, non è particolarmente esposta la involuta pannocchia del banzavóis, ch’è
una specie di granoturco dolciastro proprio a quel clima. Clima o cielo, in certe regioni, altrettanto grandinifero che il
cielo incombente su alcune mezze pertiche della nostra indimenticabile Brianza: terra, se mai altra, meticolosamente
perticata.
Vi introduco la tipologia di testi che vi propongo: il primo è una registrazione audio e video diremmo di un “tranche
de vie”, di ciò che accade settimanalmente nei mercati cittadini di, direi ogni città e ogni paese italiano.

Il secondo è l’incipit, l’inizio, del romanzo di Gadda, “La cognizione del dolore”.

Vi rimando al termine della lettura e dell’ascolto per tirare un po' le somme dal confronto e dall’iniziale fruizione di
questi due testi.

Benissimo, avrete sicuramente visto, ascoltato e/o letto i due testi proposti e, anche senza un'analisi puntuale dal
punto di vista linguistico, ci siamo resi conto che si tratta di due testi molto diversi, due testi che si pongono in
qualche modo ai due estremi, e sono delle varietà dell’italiano, e sono due testi molto diversi per più di una varietà.
Sicuramente si pongono in registri molto diversi, quindi sull'asse diafasico hanno una differenza eclatante: il primo a
un livello basso della lingua, il secondo a un livello linguistico alto con ambizioni letterarie. Certamente la pragmatica
del testo è anche molto diversa: il primo è una dimensione quotidiana, quella di un mercato rionale, il secondo è un
testo letterario. quindi con altre ambizioni. Però oggi vorrei sottoporre alla vostra attenzione, vorrei analizzare le
differenze, e sono molte, che separano i due testi, che fanno capo al mezzo di comunicazione con cui questi due testi
vengono espressi. In altre parole, il primo è un testo sicuramente parlato, di un parlato spontaneo, in una situazione,
appunto, quella del mercato rionale nella quale i due interlocutori, due o più interlocutori, sono necessariamente
presenti contemporaneamente e i loro enunciati si giustappongono e a volte si sovrappongono, e invece il secondo
testo che è veicolato sulla pagina scritta, quindi il mezzo di comunicazione è quello scritto, di uno scritto letterario,
aggiungiamo, e quindi che vede un narratore prendere la parola e introdurre la situazione, l'ambientazione e anche
qualche personaggio che poi svilupperà nel corso del romanzo. Quindi le differenze tra questi due testi, che sono
molte a vari livelli, esistono anche poiché i due testi vengono veicolati da due mezzi di comunicazione diversa.
Andiamo quindi a definire cosa significa asse diamesico e quali sono le principali varietà che si possono riconoscere
su questo asse immaginario.
Bene, definiamo dunque il concetto di diamesia,

• Diamesia – (dal greco «mesos» - mezzo) è l’insieme delle varietà della lingua italiana che dipendono dal
mezzo/canale di comunicazione con cui vengono emesse da un emittente, evidentemente, a un destinatario.

Quindi l’asse diamesico è necessariamente quell’asse immaginario su cui si collocano tutte queste varietà.
Individuiamo anche i due estremi sull’asse diamesico, cioè lo scritto e il parlato (vedremo poi che ci sono delle
varietà intermedie, non sono soltanto queste due, ma è utile intanto per focalizzare alcune caratteristiche
linguistiche che fanno capo a queste varietà, è utile dicevo, identificare i due estremi:

Scritto Parlato

La prima caratteristica linguistica che differenzia scritto e parlato è relativa ai tempi di programmazione:

lo scritto ha lunghi tempi di programmazione; quando ci si accinge a scrivere servirà molto più tempo per riflettere,
per calibrare il proprio messaggio, per adeguarlo alle proprie intenzioni comunicative, all’interlocutore e quindi per
poi stendere ed emettere un messaggio che sia ben ponderato.

Di più, i tempi di programmazione permettono anche di potere, nel caso il messaggio che sia uscito abbia qualche
scorrettezza, fermarsi, correggerlo e prima di emetterlo revisionarlo e appunto riformularlo nella maniera migliore.

Il parlato invece implica brevi, e a volte brevissimi, tempi di programmazione, e soprattutto nel caso del parlato
spontaneo, come quello di cui abbiamo visto il video su Youtube e che vuol dire che l’atto linguistico che esce è
immediato: tra la sua elaborazione “nella mente dell’emittente” e la sua effettiva articolazione ed emissione, i tempi
sono molto stretti; sono dunque frequenti (qui ho segnato alcune caratteristiche linguistiche):

-temi sospesi (quando si inizia con un tema ma poi ci si rende conto di avere sbagliato, non si può certamente
cancellare quel tema, quindi rimane “sospeso”; tocca riformulare la frase con una mancanza di accordo
grammaticale tra il tema e il rema, o tra il soggetto e il predicato),
-frequentissimi i casi di autocorrezioni, a differenza che nello scritto, nel caso in cui l’emittente si renda conto che il
proprio parlato ha delle scorrettezze, certamente può autocorreggersi, ma non può a differenza dello scritto,
cancellare quanto già emesso, dati i brevissimi tempi di programmazione linguistica, e quindi deve correggersi man
mano che il parlato continua a fluire. Ma sono evidenti quindi le autocorrezioni, le riformulazioni;

-ancora: selezioni di parole generiche; non si ha il tempo di selezionare magari l’iponimo o la parola tecnica e ci si
accontenta di utilizzare un lessico molto generico, poiché più immediato, più familiare, è quello che “viene fuori
prima” in brevissimi tempi di programmazione. Questo è molto evidente nella lettura, nella differenza tra l’ascolto
del brano iniziale su Youtube al mercato rionale e nella lettura dei romanzi di Gadda. Quello che vi ho segnato era
soltanto l’incipit, ma la ricerca del lessico nella narrativa gaddiana è molto preziosa, a volte ci sono cultismi, latinismi,
quindi: ciò è dovuto al fatto che lo scritto permette all’autore in questo caso letter? (3:59 slide 4?), ma anche a
ciascuno di noi, di selezionare un lessico molto più specifico che non invece quando parliamo e ci manca questo
tempo.

La sintassi è tendenzialmente più semplice nel parlato: prevale la paratassi sulla ipotassi, mentre nello scritto,
soprattutto nello scritto di ambito letterario, oppure di livelli diastratici, diafasici più elevati, si può anche arrivare al
secondo, terzo e a volte gradi di subordinazione anche più elevati.

Bene, altre differenze agiscono nel parlato e sono queste:

• Alcuni tratti prosodici e paralinguistici che nello scritto è molto difficile rappresentare, vengono in qualche modo
rappresentati ma senza l’efficacia certamente che hanno nel parlato e invece nel parlato influenzano radicalmente
il nostro enunciato. Sono tratti non strettamente verbali, non strettamente linguistici, ma che accompagnano e
modificano l'enunciazione verbale che facciamo.
• Tratti prosodici quindi che hanno a che fare con il ritmo e con l'intonazione della voce, quindi le pause che noi
frapponiamo all'interno del nostro enunciato tra una parola e l’altra, tra un sintagma e l’altro, tra una proposizione
e l’altra, la velocità stessa che può comunicare concitazione, fretta, allarme oppure calma, tranquillità, serenità e
anche l'intonazione che noi mettiamo nelle nostre parole. Qui ho segnato una parola che scritta così può voler dire
due cose opposte. Vediamo “Bravo!”. Immaginiamoci la situazione di un insegnante che giri tra i banchi della sua
classe e veda un compito ben svolto da un alunno e dica “Bravo!” col punto esclamativo, scritto col punto
esclamativo, un'esclamazione che certamente denota un'approvazione dell'insegnante nei confronti dello
studente. La stessa situazione, ma opposta: l'insegnante che vede un compito particolarmente mal riuscito e
pronuncia la stessa identica parola che verrebbe scritta anche qui col punto esclamativo, ma con un'intonazione
sarcastica, del tutto diversa, una cosa tipo “Bravo!”. Ebbene l'intonazione della voce in questo caso, che può
passare necessariamente solo attraverso il parlato, non si può riprodurre nello scritto, comunica un significato
addirittura opposto nei due casi. Nello scritto si deve proprio verbalizzare che l’insegnante esclamò “Bravo!” con
tono sarcastico, ma se non viene riprodotto in questa maniera è impossibile comprendere la differenza.
• Ancora ci sono tratti paralinguistici che agiscono effettivamente solo nel parlato: la nostra gestualità, i gesti con cui
noi accompagniamo le parole. Ecco tratti paralinguistici vuol dire che non sono tratti strettamente linguistici,
strettamente verbali, che riguardano il codice della lingua italiana. Sono tratti, elementi di codici differenti, quindi il
codice gestuale, il codice dell'espressioni del volto, il codice prossemico, ognuno dei quali ha una sua portata
semantica che però influenza il significato delle parole che noi diciamo accompagnandole nelle varie situazioni,
quindi accompagniamo con un particolare gesto o con una particolare espressione del volto oppure la prossemica
significa la distanza che separa l’emittente dal destinatario. Ecco tutti questi veicolano dei significati che
modificano, si sommano e interagiscono col significato verbale. Nello scritto tutti questi tratti si perdono.
• Le differenze tra scritto e parlato, finora abbiamo visto differenze che riguardano l’emittente, l’emittente che può
utilizzare una certa tonalità, che può utilizzare alcuni gesti e che può parlare con un certo ritmo. Vediamo le
differenze che agiscono sul destinatario e quindi sulla fruizione del messaggio.
• Anche qui scritto e parlato pongono due condizioni molto diverse al destinatario. Lo scritto si può rileggere, si può
ripercorrere a ritroso, si può analizzare, a volte, pensate a quando si studia, si può sottolineare, si può
schematizzare in un altro testo, si può glossare con degli appunti a fianco. Il parlato, invece, è evanescente, non è
durevole come lo scritto, una volta che è stato articolato subito si perde. La sua fruizione è per forza lineare, cioè il
destinatario non può ripercorrere l'atto linguistico a ritroso, oppure riascoltarlo tante volte: una volta che lo ha
ascoltato si è perso. A volte la fruizione e l’emissione sono anche disturbate da interferenze, nel caso che i due
interlocutori, dati i tempi di programmazione linguistica molto stretti prendono, la parola nello stesso tempo. In
quel caso entrambi riformuleranno il proprio atto linguistico in modo da superare quella empasse. Certamente
devo dire che queste ultime osservazioni valgono nel caso in cui, il caso più normale, il parlato non venga
registrato. Ecco in questo caso io non approfondisco qui le particolarità di questo, che comunque è una delle
varietà diamesiche. Ci sarà una lezione apposta sul parlato trasmesso e anche alcuni accenni li vedremo in seguito.
Qui mi riferisco al cosiddetto parlato-parlato, vedremo poi cosa significa, cioè a quella varietà del parlato classico,
totalmente svincolato dallo scritto e non registrato in nessun mezzo tecnologico.

Ecco, vediamo adesso un esempio delle caratteristiche che abbiamo accennato prima relative al parlato. Faccio solo
una premessa: questo esempio consiste in una trascrizione di un dialogo che è avvenuta in seguito a una sua
registrazione, nello studio di una psicologa. La situazione, come potete leggere, è quella di una famiglia, un padre,
una madre, Amalia (una bambina di 6 anni) la loro figlia e una psicologa.

Il contesto è quello in cui il padre ha appena riferito del momento in cui, dopo essere stato a lungo fuori per un
impiego in Marina Militare, è tornato a lavorare a casa.

Ebbene, io vi propongo questa trascrizione affinché voi abbiate sotto gli occhi, scritto diciamo, ciò che è avvenuto nel
dialogo vero e proprio. Non ho purtroppo trovato (non è stato possibile) il filmato di questa interazione. Però ecco, la
trascrizione ci è utile per vederli “fermi” questi fenomeni; però immaginiamoci questo dialogo è avvenuto nella sua
reale dimensione, che era quella del parlato “parlato”. La trascrizione è utile a noi per vedere i fenomeni, ma non è
un testo scritto, ce lo dobbiamo immaginare come sarebbe, anzi come è avvenuto nella sua realtà, nella sua
situazione pragmatica reale.

Inizia la psicologa e dice: “e le bambine? sorprese e meravigliate di avere questo papà di nuovo con loro? come si
sono – (qui pausa, e anzi autocorrezione) come hanno reagito a questa…

Allora, Intanto “come si sono...” poi la psicologa evidentemente dati i brevissimi tempi di programmazione
linguistica, come dicevamo, si è resa conto che questo inizio di frase non andava bene o non riusciva a continuarla,
allora si è fermata, si è autocorretta, ma ovviamente non ha più potuto cancellare l’esordio “come si sono...”, si è
autocorretta in “come hanno reagito”; poi a questa, eh, qui lascia in sospeso la frase “come hanno reagito a
questa…” e sta indugiando nel frattempo, pensa a come proseguire la frase.

Non è necessario, perché il padre sospira leggermente, ecco: questo sospiro che qui è stato verbalizzato nella
trascrizione, in realtà nello scritto non potrebbe comparire, se non appunto dicendo che “il padre sospira”, ma il
sospiro è uno di quei tratti paralinguistici, che attengono al linguaggio gestuale, nel prossemico, e che comunicano
certamente un significato, direi qui preverbale , non certamente verbale, indicano perplessità, indugio, forse un
certo disagio, e che però si possono percepire soltanto vedendoli e ascoltandoli nella situazione parlata.

Allora riprende, anzi la madre anche si registra nella trascrizione *volge lo sguardo al padre*: anche questo è un
elemento prossemico legato alla posizione del corpo e anche in parte alla gestualità (bisogna vedere com’era quello
sguardo, che significato veicolava) però è certamente una cosa che nello scritto non si può percepire, a meno di non
dire che la madre stava guardando il padre, ma il gesto in sé del guardare è un gesto, è un atto NON verbale, quindi
NON possibile da leggere, si deve fruirlo nella situazione parlata.

Ancora la psicologa silenziosamente, una risata, ride; ecco, quella frase in parentesi quadra significa che le due frasi
precedente e successiva (pure quella in parentesi quadra), vengono pronunciate nello stesso momento, quindi
mentre la psicologa silenziosamente ride, il padre: “ehh”; ecco, questi intercalari, questi segnali discorsivi servono a
prendere la comunicazione, ma avvengono contemporaneamente all’atto linguistico, che è semplicemente una
risata di un altro interlocutore, quindi c’è un’interferenza o una sovrapposizione. “Sì (pausa) ma più che altro…” (e
anche qui la frase viene lasciata in sospeso). “Lei (fa cenno con la mano ad Amalia, altro dettaglio relativo alla
gestualità e anche alla prossemica) la psicologa interviene: “eh”; interviene la madre: “lei piano piano, si è dovuta
un po’…(pausa) riabituare”.

E poi padre e madre insieme (tra parentesi quadra) [una vo– una= [volta– autocorrezione, forse per l’emozione o
per l’indugio del momento e madre: “lei era un tipo molto…” e poi va avanti.

Vedete quindi tra temi lasciati sospesi, frasi iniziate poi autocorrette, segnali discorsivi, indugi, frasi che vengono
pronunciate nello stesso momento rispetto a un altro interlocutore della situazione, ebbene tutto ciò (gesti,
espressioni del volto) rendono il parlato, parlato particolare, molto diverso dal linguaggio scritto.

Finora abbiamo parlato delle differenze tra scritto e parlato e abbiamo già accennato al fatto che lo scritto e il parlato
sono solo i due estremi che si pongono sull'asse diamesico, ma non è tutto lì, non sono le uniche due varietà, sono
quelle più riconoscibili, sono quelle che abbiamo visto hanno molte caratteristiche diverse l'una dall’altra, ma
abbiamo una serie di varietà intermedie che possono avere alcuni elementi del parlato e altri dello scritto. Vi
propongo, sempre attraverso un link di YouTube, di vedere questo esempio che definiamo parlato-recitato.
Un’avvertenza preliminare prima che vuoi guardiate il testo: è tratto da uno spettacolo, da una trasmissione della
RAI, però è un filmato di una performance teatrale. Ebbene noi immaginiamoci di averlo visto, di vederlo a teatro
nella situazione più naturale in cui quel monologo avrebbe dovuto comparire. Il fatto poi che la RAI abbia girato un
filmato e lo si possa oggi continuare a rivedere, analizzare e rivedere una seconda, terza, quarta volta è per noi ora
del tutto irrilevante. Quello è l’esempio di lingua trasmessa, ma ci sarà una una lezione apposta sul parlato
trasmesso, per cui a noi interessa che sia una performance teatrale di parlato-recitato volatile, che una volta che
l'attore l’ha proferita sparisce, immaginiamo che non sia stata firmata dalla Rai, quindi non si può riascoltare. Noi
siamo, immaginiamoci, degli spettatori teatrali in palcoscenico che ascoltiamo questo monologo. Necessariamente,
io vi ho messo il link a una trasmissione registrata, che per comodità di esposizione, per farvela vedere, per farvi
vedere qualcosa di molto simile, però bisognerebbe prendere e andare a teatro per vederne l'effettiva realtà. Si
tratta, ultima premessa, di Sei personaggi in cerca d'autore e l'attore che fa questo questo breve monologo è Romolo
Valli. Vi chiedo di guardarlo e poi di notare alcune parti che qui anticipo, vi consiglierei questo sul piano pratico,
stoppate l’audio della mia lezione, andate a vedere su YouTube e poi tornate, se vi è possibile, a riascoltare.
Insomma vedete voi.

Ecco Romolo Valli, non si può negare, che utilizzi il parlato, non soltanto per le tonalità della voce, ma anche per le
pause che mette durante il suo monologo. Utilizza anche degli strumenti paralinguistici: la prossemica, inizia molto
vicino all'altro personaggio, che sarebbe il regista “umano” nella commedia di Pirandello, gli appoggia una mano
sulla spalla, poi si allontana e gli gira intorno. Tutti questi gesti fanno sì che le frasi che sta dicendo assumano un
significato in parte diverso. Le espressioni del volto che accompagnano le frasi, l’intonazione: ecco tutti questi, più
bravo è l'attore più sa utilizzare questi strumenti diciamo paraverbali, paralinguistici, di natura prossemica, gestuale,
l’intonazione della voce, eccetera, e Romolo Valli è un attore eccellente, ebbene tutto ciò appartiene al parlato. Però
notiamo anche che non ci sono scambi di battute, mentre Romolo Valli parla può tenere la parola per un tempo
molto lungo, fino alla fine del monologo, l'altro interlocutore non lo interrompe, non ci sono interferenze,
certamente non ci sono frasi sospese, autocorrezioni, di solito se succede, agli attori scarsi molto più scarsi di Romolo
Valli, è per un errore, a teatro può capitare, a quel punto l'attore si riprende, si autocorregge, ma è appunto un
errore, non è la normale performance teatrale. Quindi Romolo Valli mantiene la parola per molto tempo senza
essere interrotto dal suo interlocutore, dal destinatario che prenderà il suo turno di parola soltanto alla fine. Segnali
discorsivi sono pressoché assenti. La selezione lessicale è invece molto più accurata che nel normale parlato
spontaneo. Ancora, la sintassi non è così semplice come nel parlato spontaneo, come nel parlato-parlato. è una
sintassi che ha un grado di subordinazione superiore, si arriva al terzo grado senza far fatica, ci sono delle
subordinate implicite che invece nel parlato- parlato, parlato spontaneo, non ci sono.

Insomma tutti questi elementi sembrerebbero afferire alla varietà scritta, quindi è certamente un parlato quello, il
parlato-recitato, ma ha molti tratti del parlato e anche alcuni tratti dello scritto che interagiscono a definire una
varietà intermedia tra parlato, certamente poi si tratterà di vedere nei vari scritti teatrali se è più vicina al parlato o
se è più vicina allo scritto, magari se si va a vedere una commedia con simulazione di parlato spontaneo sarà più
vicina al parlato, se si va a vedere una tragedia o un teatro di prosa alto come Pirandello, sarà più vicina allo scritto.
In ogni caso queste due varietà estreme possono anche interagire a definire varietà intermedie sull'asse diamesico,
ovviamente ciò dipende dal fatto che questa performance, questo parlato a monte risente di un testo scritto, ok il
copione, in questo caso quello composto e scritto da Pirandello.

Un altro esempio è invece, diciamo, inverso. Lo scritto che noi usiamo nelle chat di WhatsApp o di altri social media,
ecco non quei mezzi di comunicazione di massa, lì va sotto la definizione di lingua trasmessa. Se vogliamo che questa
è trasmessa da uno strumento tecnico, quindi l'accenno solamente, avrà uno sviluppo in una lezione successiva, però
è questo linguaggio, quello che utilizziamo nei forum, nelle chat è un linguaggio certamente scritto, in quello noi non
possiamo far sentire il tono della nostra voce, non possiamo accompagnare con gesti, non possiamo fare delle pause,
che non siano evidenziate dai normali segni di punteggiatura. Insomma è a tutti gli effetti uno scritto, però è uno
scritto molto semplice sintatticamente con parole, in genere, molto generiche e soprattutto intervallato da,
chiamiamolo così, un botta e risposta col nostro interlocutore che a volte dà luogo a sovrapposizioni, dà luogo a
scambi di battuta molto ravvicinati, per cui la programmazione linguistica è breve come quella del parlato, anche qui
abbiamo una varietà intermedia tra lo scritto-scritto, che é uno dei due poli, e il parlato- parlato che è l'altro polo,
una varietà che ha alcune caratteristiche del parlato e altre caratteristiche dello scritto.

TRASMESSO ppt

Accanto al parlato tipico e allo scritto tipico che, come si è visto nella lezione precedente, costituiscono i due poli
principali dell'asse diamesico, negli studi è diventato canonico considerare un terzo polo, quello del trasmesso. Si
tratta di una dimensione comunicativa fissatasi con il telefono, la radio, il cinema, i social network e via dicendo e
con cui si indicano tutti quei messaggi che necessitano di un apparato tecnico di produzione e di ricezione per essere
codificati e decodificati. Questa utile e fortunata etichetta di trasmesso è stata introdotta da Francesco Sabatini
all'inizio degli anni Novanta e con essa e Sabatini indicava proprio una nuova modalità di comunicazione che si era
sviluppata con l'avvento di questi mezzi di comunicazione per l'appunto. Mezzi di comunicazione sia alfabetici, che
quindi usavano l'alfabeto, pensiamo internet, la posta elettronica, gli sms (in questo caso si parla di scritto
trasmesso), sia mezzi non alfabetici cioè che non usavano l'alfabeto scritto. In questo caso pensiamo a telefono,
radio, televisione, cinema, potendosi parlare in questo caso di parlato trasmesso. In ogni caso, sia in quello dello
scritto trasmesso che del parlato trasmesso, si tratta di modalità di comunicazione che sono in grado di condividere
alcuni caratteri con lo scritto e altri con il parlato. Più che una varietà di lingua con caratteristiche sue proprie, il
trasmesso va dunque inteso come una nuova atipica situazione comunicativa. Lo stesso Sabatini nel descrivere il
trasmesso parte dal modello delle distanze comunicative che vedete in slide e rileva come il trasmesso condivida
alcune modalità con il polo della vicinanza, altre con quello della distanza che nella slide sono rappresentate
rispettivamente dal primo e dal secondo termine di ogni stringa che vedete elencata. Per fare un esempio, questo
significa che una comunicazione trasmessa, pensiamo a un talk show televisivo, un talk show potrà essere,
guardando alla prima stringa della slide, pubblica perché trasmesso appunto pubblicamente, ma
contemporaneamente di tipo familiare, quindi unire nello stesso messaggio caratteristiche della lontananza, cioè la
pubblicità della comunicazione e caratteristiche della vicinanza, cioè la familiarità e comunanza di conoscenze
specifiche fra gli interlocutori. Dunque, inquadrato a grandissime linee il trasmesso passiamo ad alcuni
approfondimenti sulla lingua della radio, sulla lingua della canzone e sulla lingua del fumetto.

IL PARLATO TRASMESSO: LA RADIO

INTRODUZIONE

Nel considerare il parlato trasmesso della radio veicolato attraverso il mezzo delle onde radiofoniche, iniziamo come
introduzione a evidenziare alcuni tratti che accomunano il parlato radiofonico con in generale e tutti gli altri esempi
di trasmesso.

Intanto essendo parlato trasmesso è per sua natura un ibrido, fai il “parlato- parlato” e lo “scritto-scritto”, cioè tra i
due vertici estremi alle due estremità dell'asse diamesico, quindi avranno alcuni elementi in comune con il parlato e
altri elementi in comune con lo scritto, questo è un po' la caratteristica comune a tutti i parlati trasmessi.

Nel caso della radio, vediamo quali sono:

(PARLATO-VOCE)

1. un comune con il parlato, ovviamente c'è che si utilizza la voce, quindi il messaggio viene veicolato da un
emittente al destinatario o ai destinatari attraverso la voce, quindi assumono un'influenza, un importanza
nella trasmissione del messaggio nella comunicazione, tratti prosodici quali il ritmo, la velocità, il volume
della voce che si tiene, o il cambiamento di volume all'interno della stessa comunicazione, il tono di voce che
può essere un tono neutro, tono concitato, tono ironico, tono sarcastico, quindi elementi, diremo
soprasegmentali paralinguistici che tuttavia sono percepibili attraverso l’udito e modificano il messaggio
inviato da un emittente a un destinatario. In questo il parlato radiofonico, è comune a tutti gli esempi di
parlato.
2. Altro elemento in comune con il parlato e la fruizione lineare da parte del destinatario, a differenza che nello
scritto il destinatario tramite l'udito sente il messaggio dal suo inizio alla fine, non può (come può fare invece
nello scritto) saltare subito alla fine poi ritornare all'inizio, poi ripercorrere avanti e indietro, il testo lo ascolta
in maniera lineare.
3. Ci possono essere, anche qui elemento comune al parlato, autocorrezioni, anche se sono rare (sicuramente
numericamente inferiori rispetto al parlato spontaneo) anche nelle trasmissioni radiofoniche in diretta lo
speaker, il conduttore può sbagliare e allora deve lasciare in sospeso l'atto linguistico, l'enunciato che ha
cominciato erroneamente essendosi reso conto di aver commesso un errore e riiniziare da capo a
riformulare. Non è possibile, a differenza che nello scritto autocorreggersi cancellando quanto erroneamente
già emesso. Ovviamente questo vale per le trasmissioni in diretta, nelle trasmissioni registrate si può fermare
la registrazione riprenderla e cancellare l’errore e questo è un elemento in comune con lo scritto. Però nelle
trasmissioni in diretta che sono anche frequenti nel parlato radiofonico italiano ciò non è possibile.

(SCRITTO)

Invece elementi che interessano il parlato radiofonico che sono in comune con lo scritto allo stesso modo che tutti
gli altri atti linguistici della lingua trasmessa, come dicevamo.

Innanzitutto il messaggio a differenza del parlato tradizionale (del “parlato-parlato”) può essere registrato, anzi
attualmente è sempre registrato, vengono pubblicati sui siti internet di tutte le stazioni radiofoniche i podcast: file
Audio che ripropongono al pubblico esattamente la registrazione delle trasmissioni radiofoniche andate in onda in
quella certa giornata, e quindi, una volta che ci si registra, che si scarica il podcast, si può riascoltare quell’atto
linguistico, quella trasmissione, quella comunicazione quante volte si vuole, esattamente come lo scritto lo si può
rileggere tante volte.

1. ancora in comune con lo scritto, cioè che la comunicazione radiofonica è unidirezionale, cioè è a una sola
direzione dall’ emittente al destinatario. Anche se qui c'è da fare una distinzione che poi approfondiremo in
seguito, l'emittente è colui che trasmette dai microfoni radiofonici, il destinatario è colui che ascolta
dall'apparecchio radiofonico nelle sue varie forme da casa, a volte accade che gli emittenti siano più di uno e
dialoghino tra loro, quindi gli atti linguistici (lo vedremo) sono trasmissioni con più di un conduttore, e in
quel caso c'è una simulazione di parlato che sembrerebbe spontaneo. In ogni caso quella comunicazione
non è una comunicazione a sé stante, il conduttore A non parla col conduttore B e basta, entrambi hanno la
consapevolezza che il loro parlato viene trasmesso al vero destinatario che è lo spettatore da casa. Quindi
quelli sono gli emittenti e può tra loro intercorre una comunicazione, quindi entrambi si scambiano il ruolo
di emittente destinatario, quello fa parte, diciamo così della finzione scenica della trasmissione in sé, il vero
destinatario è da considerare il pubblico a casa in questo senso è unidirezionale, non lo è tra conduttore A e
conduttore B, ma lo è tra conduttori e ascoltatore a casa. L'unica eccezione con cui si possa considerare una
rottura di questa unidirezionalità è quando il pubblico da casa può telefonare alla stazione radiofonica,
entrare nella diretta radiofonica per partecipare a trasmissioni di varietà, a volte a giochi a premi, in quel
caso si entra un po' nel gioco, si diventa in qualche modo emittenti si varca la soglia, si entra nella
trasmissione radiofonica e in quel caso siamo noi stessi che telefoniamo alla radio parte degli emittenti e ci
ascolteranno tutti altri membri del pubblico.
2. Altra prerogativa del parlato radiofonico che lo accomuna al testo scritto è che il mittente e il destinatario
sono in due luoghi diversi non sono entrambi inseriti all'interno della stessa dimensione pragmatica, sono
separati e con tutte le conseguenze linguistiche e pragmatiche del caso. Ultima: si comunica a un elevato
numero di destinatari questo è un altro elemento tradizionalmente collegabile allo scritto di solito il parlato
ha un numero ristretto di persone che vi prendono parte.

Chiarito che si tratta tutti gli effetti di un parlato trasmesso E che condivide con tutte le lingue trasmesse quanto
abbiamo detto poco fa, vediamo adesso le specificità e i tratti specifici del parlato radiofonico all'interno della
categoria del parlato trasmesso, delle altre lingue trasmesse, con altri mezzi di comunicazione:

- Intanto attraverso la radio può passare la voce ma evidentemente non l’immagine. Questo sembra un’
informazione scontata però ha precise conseguenze linguistiche, quindi il messaggio è influenzato nella
trasmissione da emittente a destinatario come abbiamo detto da elementi percepibili con
l'udito( ovviamente al di là delle parole e del loro significato certamente abbiamo già detto la prosodia, il
tono, la velocità, le tonalità, il volume della voce, eccetera) ma non passano attraverso il mezzo radiofonico i
tratti paralinguistici, diremmo soprasegmentali, percepibili perché quel mezzo non lo permette, quindi viene
escluso dalla comunicazione. Viene esclusa l'influenza ad esempio del linguaggio gestuale, noi immaginiamo
che il conduttore radiofonico possa accompagnare il proprio parlato con la gestualità, ma non possiamo
vederlo e quindi è del tutto ininfluente rispetto alla trasmissione del messaggio. Anche la prossemica vale,
soprattutto per le trasmissioni radiofoniche a più conduttori, non riusciamo a immaginare a che distanza
sono l'uno dall'altro, se sono seduti, in piedi che si toccano, se non si toccano, eccetera.. le espressioni del
volto non possono far passare ad esempio l’ironia e sarcasmo, ci si deve affidare a tutti esclusivamente e
tutti elementi di natura sonora.

In questo è molto diverso da altri linguaggi trasmessi, si pensi al cinema in cui evidentemente ascoltiamo sia la voce,
ma vediamo anche l'immagine, alle trasmissioni televisive e anche anche la stessa canzone di interpretazione del
cantante che non si tratti di un video o un semplice ascolto, interpretazione del cantante che veicola il messaggio
perché anche lui gesticola, ha delle espressioni che che lo aiutano a recitare in qualche modo il testo della canzone,
ecco tutto ciò il mezzo radiofonico lui esclude.

- Spesso altro elemento specifico del mezzo radiofonico e che influenza linguisticamente il parlato trasmesso
dalla radio è l'ascolto non esclusivo. può essere svolto mentre l’emittente fa altre attività: si può cucinare
con in sottofondo la radio, si può guidare, è il caso più frequente la gran parte degli ascoltatori radiofonici
abituali lo fa da dentro mentre sta guidando, quindi l’attenzione del destinatario non è rivolta
esclusivamente al mezzo e al messaggio, ma è divisa con un’altra attività che contemporaneamente si sta
svolgendo, è una peculiarità della radio che non è condivisa da altri mezzi, se io vado al cinema, nel
frattempo non dovrei chattare con il cellulare e parlare con il vicino, se lo faccio, faccio qualcosa che non è
previsto né dalla buona educazione e nemmeno dalla corretta fruizione del film e posso essere rimproverato
dagli altri, la stessa cosa a teatro o ad un concerto.
- Viceversa la rado è pensata per fare compagnia all’ascoltatore in maniera non esclusiva, vuole dire che le
scelte linguistiche che stanno alla base devono avere un ritmo, una sintassi, un’efficacia comunicativa che
prendano atto di ciò. Le frasi devono essere brevi, la sintassi semplice, il linguaggio lineare. Ci deve essere
una continua tematizzazione, una continua ridondanza del tema di cui si sta parlando, una semplificazione
delle strutture comunicative, eccetera, proprio perché si presuppone che l’ascolto da parte del destinatario
non sia esclusivo, e l’attenzione del destinatario non si concentra al 100% su quello che l0emittente sta
dicendo.

DIVERSE TIPOLOGIE

Chiarite le caratteristiche del parlato radiofonico in generale all’interno del sistema complesso della lingua
trasmessa, vediamo diverse tipologie, non possiamo nemmeno affermare che il parlato radiofonico sia unico, abbia
ovunque e per tutte le trasmissioni identiche caratteristiche. All’interno del parlato radiofonico con quei tratti
specifici che abbiamo poco fa elencato e con i tratti in comune con gli altri parlanti trasmessi, comunque esiste una
certa varietà, immaginiamo di collocare tutte queste varietà intermedie, comuni al parlato trasmesso via radio, in
una scala di improvvisazione linguistica, quindi in una scala che parta da un livello di minor improvvisazione
impossibile e via via arrivi a trasmissioni radiofoniche con livello di improvvisazione massimo.

1- Al minor grado di improvvisazione possiamo collocare i radio notiziari brevi, li distinguiamo da quelli lunghi,
proprio perché quelli brevi sono sostanzialmente testi scritti, letti a voce dal giornalista per radio, non c'è una
improvvisazione è semplicemente la lettura, a volte è la semplice lettura dei testi delle notizie di agenzia.
Quindi sono testi molto brevi, la sintassi è molto semplice molto lineare, rarissime sono le costruzioni di
sintassi marcata, il tema è spesso ridondante, c'è una ricchezza di frasi nominali per brevità, non solo nei
titoli, ma a volte anche proprio nel porgere la notizia, i toni della voce e sono tendenzialmente monocordi
adeguati a una lettura puramente referenziale che si dà alla notizia senza dare ad essa una coloritura
soggettiva.

questo minor grado di improvvisazione proprio le notizie brevi, ovviamente colloca il parlato radiofonico più vicino
allo scritto proprio per questo minimo spazio di improvvisazione che si da al parlato.
2- Notiziari lunghi invece sono sempre fortemente debitori di un testo scritto, che viene letto (questo non
cambia, quindi siamo sempre vicino al polo dello scritto) ma c'è uno spazio maggiore di improvvisazioni, i
testi si fanno più articolati, ci sono degli inserti che vanno al di là della semplice lettura da parte del
conduttore della notizia, ci possono essere brani registrati di interviste con i vari protagonisti coinvolti dalla
notizia del giorno, a volte ci possono essere delle telefonate in diretta con esperti di economia,  di politica
eccetera, e a volte avviene addirittura un passaggio di turno comunicativo ad altri conduttori, o ad altri
interlocutori: il caso classico è quello del corrispondente che si trova nel luogo in cui avuto la notizia,
pensiamo soprattutto a casi di cronaca, a volte di cronaca nera e quindi c'è il passaggio di turno comunicativo
tra il conduttore in studio che passa la linea al giornalista corrispondente dal luogo in cui la notizia si è
verificata e qui possono esserci incertezze possono esserci vuoti autocorrezioni segnali discorsivi, a volte
temi pendenti, in qualche caso lo spazio all'improvvisazione e non semplice lettura, ma lo spazio al parlato,
non dico spontaneo ma quasi è maggiore.
3- A un livello invece in cui il peso dell'improvvisazione è molto maggiore, e quindi ci si avvicina di più al polo
del “parlato-parlato” per così dire, a volte si fa una una vera e propria mimesi del parlato spontaneo, sono i
programmi cosiddetti contenitori, programmi che contengono al interno una varietà di contenuti diversi:
dal brano musicale, alla chiacchera tra uno o (più spesso) diversi e conduttori, all'intervista a questo o a quel
personaggio noto, al gioco a premi. Diversi momenti che fanno parte certamente di una scaletta
programmata ma che poi nella loro realizzazione sembrano lasciare spazio al parlato, a volte addirittura al
parlato spontaneo (quale sia poi il reale grado di scrittura che c'è alle spalle nel simulare, nella mimesi del
parlato-parlato noi non lo sappiamo) a volte si lascia intendere che ci sia una scaletta rigida alle spalle e che
quindi i momenti siano così calcolati, i vari contenuti collegati l'uno all'altro. Altre volte e in altre
trasmissioni, sembra che sia lasciato al conduttore, un po’ in maniera un po' più istintiva lo spazio ad
improvvisazioni.

Ci sono le caratteristiche linguistiche che in realtà sono in comune, cambia la loro intensità. Gli elementi
paralinguistici si fanno più rilevanti rispetto ai notiziari, assume una maggiore importanza il tono di voce, ci sono
maggiori oscillazioni del tono di voce mentre nella lettura del notiziario abbiamo visto che è uniforme, maggiore
importanza alla prosodia alla velocità al l'intonazione con cui si enuncia, ai vari passaggi di turno comunicativo tra i
vari protagonisti o conduttori o ospiti delle trasmissioni radiofoniche, a volte il passaggio di turno comunicativo con
la telefonata da parte del pubblico o di altri personaggi intervistati che rompe il dialogo degli emittenti.

è molto più frequente l'utilizzo di interiezioni di segnali discorsivi, di autocorrezioni eccetera. Insomma tutti quei
fenomeni che noi solitamente afferiamo al parlato, qui sono molto più alti rispetto ai notiziari.

Facciamo una distinzione interna

3.a ci sono trasmissioni in cui comunque sembra esserci il testo scritto anche se poi viene attuato tramite una mimesi
del parlato quotidiano, del parlato spontaneo, però diciamo che il testo si sente, è uno scritto per essere così
interpretato radiofonicamente, qui vi ho messo un link della trasmissione di Radio Uno “Un giorno da pecora” una
trasmissione satirica di argomento politico, ma poi la politica lascia spazio a diverse altre tematiche affrontate da due
conduttori che tra l’altro risiedono in due studi radiofonici diversi e che quindi dialogano non vedendosi
reciprocamente.

Dialogano sulla base di un testo scritto ce rendiamo conto soprattutto dall'inizio se voi ascoltate una qualunque delle
puntate, l'inizio è sempre uguale, quindi l'inizio di tutte le puntate che quotidianamente vengono messe in onda in
questo programma è il medesimo, quindi c'è per forza un testo scritto alle spalle: il conduttore maschile che è
Giorgio Lauro recita ogni giorno la stessa formula, interviene con le stesse parole la conduttrice femminile che è
Geppi Cucciari, c’è da dire certo che ogni giorno si aggiorna la data a quella giornata, ma la struttura del testo è la
medesima. certamente quando viene presentato l'ospite (e quindi quando si procede all'intervista) il peso del testo
scritto diventa minore. Però sicuramente all’inizio c’è un testo scritto e quindi c'è, tra l'altro, una uniformità nelle
varie puntate quotidiane.

3.b Invece distinguiamo una seconda sottocategoria in cui i programmi sembrano pure improvvisazioni, ripeto,
probabilmente non lo sono, ma si dà l'impressione che lo siano, si dà l'impressione che i conduttori e gli interlocutori
che a vario titolo prendono parte alla trasmissione agiscono in base all’impulso e alla spontaneità del momento,
probabilmente avranno una loro scaletta di tematiche alle quali riferirsi, delle cose da dire, però nel momento in cui
il loro parlato prende forma non si può prevedere agevolmente che strada prenderà, sembra (questo è l’elemento di
simulazione) del tutto improvvisato.

Vi ho messo anche qui due link: uno è il programma “Deejay Chiama Italia” di Radio Deejay condotto da Linus di
solito insieme a una seconda voce, e l’altro il livello maggiore forse di improvvisazione anche se qui diciamo di
simulazione dell'improvvisazione, come avevo detto che lo Zoo di 105 ecco a questo punto tutti gli elementi che
abbiamo visto: interiezioni, segnali discorsivi, anche una selezione lessicale più semplice, addirittura in questo
esempio dello zoo di 105 si assiste a veri fenomeni non solo di parlato spontaneo, ma anche fenomeni linguistici
substandard e nella selezione lessicale che a volte tocca la trivialità e nelle scelte morfosintattiche che a volte
recepiscono tratti dell'italiano Popolare o di varietà regionali della lingua italiana.

inventario

TRATTI DI SIMULAZIONE DEL PARLATO

A questo punto un breve inventario dei tratti più frequenti di simulazione del parlato che compaiono nel parlato
radiofonico (ovviamente trattandosi di simulazioni del parlato faccia a faccia) cioè del parlato spontaneo, il peso che
questi tratti hanno è diverso a seconda della tipologia di trasmissione, quindi un peso inferiore nei notiziari e sarà un
peso molto importante nelle trasmissioni di contenitori o di varietà, come abbiamo visto.

però in tutte le trasmissioni radiofoniche (ed è un tratto tipico del parlato trasmesso radiofonico) agiscono in vario
modo:

- intanto una sintassi semplice, abbiamo visto che su questo sia le trasmissioni radiofoniche contenitori, sia i
notiziari (tanto i brevi quanto i lunghi anche per motivi diversi) tutte queste varietà intermedie utilizzano una
sintassi semplice. Il che significa un andamento periodale tendenzialmente basato sull'ordine naturale, le
dislocazioni e tutti i casi di sintassi marcata sono molto più frequenti invece nei programmi contenitori.
- Certamente in tutti prevale la paratassi sull’ipotassi, è raro nel parlato radiofonico a tutti i livelli (e questo è un
elemento che riproduce pienamente il “parlato-parlato”) trovare alti gradi di subordinazione, la subordinata tra
la più frequenti tra l'altro è la relativa (e anche questo è un tratto caratteristico con parlato oppure scritti che
simulano il parlato
- c'è un'abbondanza di frasi nominali questo sia nei titoli sia nelle notizie e sia a volte anche nel parlato
spontaneo delle trasmissioni contenitori
- pronunce regionali. Ecco dovrebbero essere il più possibile e limitate o comunque non evidenziate nella lettura
di radiogiornali. Invece dovrebbero essere a volte addirittura esasperate e sottolineate ad arte nelle trasmissioni
contenitore ovviamente a fini comici (tradizionalmente gli annunciatori rai dovevano studiare la ortoepia della
corretta pronuncia dai manuali) attualmente non c'è questo vincolo così stringente così che per per l'ascoltatore
è possibile ascoltando anche un annunciatore radiofonico di capire più o meno da quale parte viene.

Certamente nelle trasmissioni di varietà, nelle trasmissioni di contenitore, le pronunce regionali, ed i tratti anche
morfosintattici dell’italiano vengono a volte sottolineati e soprattutto quando si mettono in scena scenette comiche e
quindi la parlata regionale serve a strappare un sorriso una risata però non è tanto un uso mimetico, quanto un uso
esornativo, comico ad espedienti comici, anche se vogliamo tipico della commedia. in ogni caso ecco le pronunce
regionali compaiono a livelli diversi e diverse sottolineature un po' in tutte le trasmissioni radiofoniche.

- soprattutto nelle ultime, in quelle con simulazione del palato più alta lo abbiamo già accennato comprare una
sovrapposizione dei turni comunicativi. A volte gli interlocutori si danno sulla voce, parlano
contemporaneamente, si interrompono, ci sono frasi interrotte, cambi di programmazione sintattiche, quindi
riformulazioni e autocorrezioni
- è frequentissimo l'uso di interiezioni di segnali discorsivi. A volte anche nelle trasmissioni apparentemente
meno vincoli ad un testo scritto jurons e trivialità lessicali.
L'ITALIANO PER LE CANZONI ppt

A partire dagli anni 2000 sono proliferati gli studi della lingua della canzone. Di sicuro la premessa di base, per
considerare la lingua di un testo musicale, è che si tratta di uno scritto per essere cantato che è ben diverso da uno
scritto che viene realizzato per essere letto o detto. Questa diversità risiede in fattori neurologici. È questa una
diversità evidente se si pensa che un afasico, una persona con disturbi del linguaggio e conseguenti problemi di
lettura e dettato, può tuttavia riuscire a cantare. Oliver Sacks, medico e dcoente di neurobiologia, è giunto nel secolo
scorso attraverso lo studio clinico di casi di afasia alla determinazione, di grande peso terapeutico, dell'esistenza di
vie neuronali diversificate per la pronunica per le parole che sin cantano e di quelle che si dicono.

La perdita delle capacità linguistiche, ha dimostrato Sacks, non implica quella delle capacità canore: decifrare un
messaggio detto e uno cantato sono azioni che si affidano a vie nueronali diverse. A volte, per persone afasiche, la
musica può infatti essere terapeutica.

- Fondamentale è anche l'assoluta interconnessione tra testo e musica che contraddistingue la canzone: la
mascherina (= impianto metrico di ciascuna canzone) influenza le scelte linguistiche degli autori (Parolieri). Gli autori
infatti devono assecondare le esigemze di ritmo. Possiamo citare, per es., l'abitudine (dilagata con l'avvento della
neometrica degli anni 60) di infrangere le norme di accentazione di parole piegandole all'accentazione musicale →
non c'è più per forza coincidenza tra accenti linguistici e battiti musicali. Questo porta a cantare alcune parole con un
accento non corretto dal punto di vista metrico. Un esempio lo troviamo nella canzone di Tiziano Ferro, Rosso
Relativo → “«Canterà dentro di te/ per la gran solitùdiné […] non ti diverte perché vuoi qualcosa di più fàcilé»
(Tiziano Ferro, Rosso relativo, 2002)”. Le parole in grassetto sembrano avere una sorta di doppia accentazione.

- Inoltre, sempre legata a motivazioni ritmiche, è la propensione di chiudere il verso con parole tronche. Già Sacchi,
compositore, nel 700 scriveva “il perfetto finimento della musica sempre si fa in battere”: un verso è ben compiuto
se accentato alla fine. Per questo è storicamente famoso, nella musica italiana, il ricorso ad espedienti linguistici che
possano favorire l'accentazione finale del testo, es.: “C'è chi dice no” di Vasco Rossi: «c’è chi dice qua/ c’è chi dice
là/io non ci sono».

- Vediamo poi una discreta tendenza a parlare al futuro, che permette di mettere a fine verso delle parole accentate.
Questo è presente anche nelle canzoni d'autore (= in cui le scelte linguistiche appaiono pù ricercate) come dimostra
il testo de “La donna cannone” di Battiato: “Quando la donna cannone d'oro e d'argento diventerà, senza passare
dalla stazione l'ultimo treno prenderà. E in faccia ai maligni e ai superbi il mio nome scintillerà, dalle porte della notte
il giorno si bloccherà”.

DIAPOSITIVA 2

La canzone ha conosciuto un'evoluzione diacronica importante in Italia. Se originariamente la canzone aveva un


imprinting tradizionale, a partire dagli anni 80 e 90, ma soprattutto nell'ultimo 20eenio, la canzone italiana si è
aperta a influenze internazionali. Si è conosciuta una proliferazione di generi che di fatto rende eterogenee le scelte
liguistiche operate da cantautori e parolieri.

Per effettuare una sintetica, ma esemplificativa, rassegna, prenderemo in considerazione alcuni generi e categorie
musicali che hanno maggiormante influenzato la storia linguistica della canzone italiana.
L'esperienza di Sanremo → per la lingua della canzone di Sanremo sono stati coniati dei neologismi: “Sanremese” e
“canzonettese”. Come spesso accade per i neologismi che terminano in “-ese”, c'è anche in questo caso una vena
itonica e spregiativa nel definire questa varietà linguistica. Innanzitutto va detto che Sanremo è il più tradizionale
palcoscenisco del made in italy dal 1951 e va detto che, però, dal punto di vista dell'interesse linguistico, il momento
più determiante nella tradizione della canzone di Saremo sia con la 7a edizione (1958) quando Domenco Modugno
presentò “Il Blu dipinto di blu”, che è diventata simbolo della canzone italiana nel mondo. Il testo di Modugno
infrangeva una consuetudine, almeno 30ennale, che voleva la lingua della canzone convenzionalmente legata al
modello del melodramma italiano. Modugno, invece, si cala più vicino alla vita di ogni giorno, cerca di spostare la
lingua della canzone su un piano di maggiore colloquialità e immediatezza (una tendenza che poi sarebbe risultata
irreversibile per Sanremo).

«Una campana di vetro che tende a scollegare le parole dal contesto extralinguistico e a ridisegnarle in termini di una
certa costante vaghezza, parole poco connotate in abbinamenti molto scontati, per convogliare l’attenzione sulla
melodia, nel rispetto dell’egemonia del testo musicale su quello verbale» (Gabriella Cartago, La lingua della canzone,
in La lingua italiana e i mass media, ristampa 2016, p. 265)

L'immagine di Modugno è significativa perché anche nella sua gestualità canora c'è una sorta di rivoluzione: lui apre
le braccia, non è più immobile con sguardo fisso come voleva la tradizione precedente. C'è una ricerca di
colloquialità anche nella mimica del cantante.

DIAPOSITIVA 3

Abbiamo detto che nei termini sanremese e canzonettese ci sono delle sfumature di negatività, di dispregiativo e
questo è probabilmente dovuto a due generiche tendenze:

1. Prevedibilità → nei temi: l'amore è il tema dominante e all'amore si possono legare un'altra serie di sentimenti
legati alle emozioni personali; prevedibili sono anche tutte le metafore e similitudini che sono presenti nella canzone
di Sanremo.

2. Fissità → Sono prevedibili e ripetitive le soluzioni linguistiche scelte: medietà e colloquialità (non sono presenti
neologismi, vocaboli specialistici, ecc.).Anche la sintassi non ricerca alti gradi di subordinazione, ma predilige il
meccanismo della ripetizione e della coordinazione. Per molti anni, e lo è tutt'ora, è stata importante la rima (quella
baciata in particolare). Va anche detto che la canzone di Sanremo tendeva e tende a mantenere dei tratti legati alla
nostra tradizione poetica (es.: Verso di Grande Amore, vincitrice 2015, de Il Volo: inversione → “Chiudo gli occhi e
penso a lei/ il profumo dolce della pelle sua”). L'esempio ddel volo non è casuale perché vuole dimostrare che l
aprevedibilità di cui abbiamo parlato e la fissità di soluzioni linguistiche sia una caratteristica che è presente anche
nelle recenti edizioni di Sanremo.

Altri esepmi utili: “Dammi tre parole, sole cuore amore” + «Come saprei capire l'uomo che sei come saprei scoprire
poi le fantasie che vuoi io ci arrivere nel profondo dentro te nei silenzi tuoi emozionando sempre più» - Giorgia,
Come saprei, 1995.

DIAPOSITIVA 4

Le canzoni d'autore → in un suo studio dedicato alla lingua dei cantautori, Cortelazzo notava che gli inizi degli anni
60 segnano svolta, anche linguistica, per la canzone italiana. I rappresentanti emblematici di questa svolta sono
proprio i cantautori. In effetti, nella produzione dei primi cantautori (fine anni 50) ci sono punte di straordinaria
modernità, autentiche fughe dallo spirito linguistico delle canzoni del tempo, fuga dalla canzone stereotipata
sarnremese. Questa fuga viene svolta attraverso la maggior attenzione al testo → la melodia diventa meno
importante della parola (che viene invece caricata di una straordinaria potenza). Caratteristica proprio importante
delle prime canzoni d'autore è la ricerca di una maggiore espressività, perciò puntano:

1. Alla ricerca di toni aulici, riferimenti letterari ecc. (infatti sono molti gli studiosi che tendono a identificare la
canzone d'autore quasi come una poesia. In questa riflessione il poeta Fernando Bambini è arrivato a scrivere la
definizione di canzone come “lingua poetica di consumo”. In effetti la storia della canz di autore è piena di
collaborazioni tra poeti e musicisti (Roversi e Dalla, es.);
2. Evitamento di alcune soluzioni linguistiche e metriche che sono molto presenti nella canzone, per esempio le rime.
Il caso più clamoroso è quello del “Cielo in una Stanza” di Gino Paoli: nesusna rima, nessun troncamento, nessuna
inversione nell'ordine delle parole.

Un'altro esempio della canzone d'autore è “La Cura” di Franco Battiato → abbandono rima baciata e ricorso a un
lessico più ricercato, tecnicismi per esempio; parole straniere; metafore ardite e imprevedibili.

Abbiamo, quindi, una maggiore attenzione al testo e si trova più un accordo tra melodia e parola.

DIAPOSITIVA 5

Il rap → se è la canzone d'autore degli anni 60 che riporta in equilibrio il rapporto l'equilibrio tra musica parola, è un
genere importato in italia nel 90 (il rap) che matura il rovesciamento di prospettiva tradizionale: la parola diviene più
importante della musica (è il testo che ha la maggiore responsabilità comunicativa). La lingua del rap sovverte
radicalmente gli assunti tradizionali della lingua della canzone italiana → innanzitutto per il suo messaggio di
denuncia politica e sociale proveniente dalle periferie metropolitane. Il rap ha favorito l'ingresso nella lingua della
musica del parlato più spontaneo e informale: volgarismi, per esempio.

Jovanotti = uno dei primi rapper italiani: “Date al diavolo un bambino per cena”, 2002

Si apre anche a dialettismi, che prima non erano presenti nella lingua della canzone. Nel lessico si apre anche a
quello che era stato definito “collage massmediale” = la lingua della canzone attinge anche da tecnicismi derivati da
altre forme di comunicazione: dai fumetti, dalla lingua della tv o dell'economia. Altre due caratteristiche
rivoluzionarie sono la presenza di metafore particolarmente insolite, la ricerca di figure retoriche che spesso
combacia anche con riflessioni metalinguistiche. In particolare, infatti, spesso all'interno della canzone rap ci sono
riflessioni sulla ricerca di una lingua particolarmente forzata e caricata al punto da ironizzarli (es.: Armata delle
Tecniche, Murubutu, 2010 – inserisce all'interno delle sue canzoni la sua cultura di classicista). Un tratto tipico della
lingua del rap è, infine, la presenza di tecnicismi legati proprio a questo genere musicale: beat, flow, ecc.

DIAPOSITIVA 6

Non solo il rap però sente e subisce il fascino del dialetto, infatti è vero che se nell'Ita deglin anni 70 - 80 si registrava
una costante tendenza all'abbandono del dialetto, negli ultimi 20 anni si è sentita una tendenza opposta, riscoperta
nel dialetto anche nell'ambiente musicale. Il dialetto viene caricato di estrema potenzialità espressiva perché:
antagonista della lingua nazionale e quindi laddove si voglia criticare il potere, il ricorso al dialetto diventa un'arma
espresiva più efficace. Il dialetto è inoltre considerato come custode di un patrimonio di identità collettiva, possiede
doti di immediatezza e inoltre, nel genere rap per esepmio, è chiaro che alcuni dialetti offrono potenzialità ritmiche
maggiori rispetto alla lingua nazionale (vd. Napoletano – Rocco Hunt).

In realtà già sul finire degli anni 80 si iniziano a riscprire i dialetti: genovese – De André; sardo – Tazenda (Spunta la
luna dal monte – 1991). Da quel momento in poi, anche Sanremo apre le sue porte al dialetto. Un altro esempio è
Davide Van des Froos nel 2011.

Va anche segnalata l'apertura alla componente straniera → non è possibile non citare la trap.

Per restare in contesto Sanremese – Mahmood, Soldi → oltre all'ingresso della lingua madre del cantante (egiziano)
va registrata la convivenza delle due culture, oltre che delle due lingue, che è esempio di un altro fenomeno → l'uso
dell'italiano da parte di stranieri naturalizzati / giovani che sono nati in Italia, ma origine non italiana.
FUMETTO ppt

In questa nostra breve lezione ci concentreremo sulla lingua del fumetto intesa come lingua del fumetto in generale,
cioè lingua di un particolare medium comunicativo con una propria posizione nel continuo mondiamesico da cui
derivano delle caratteristiche linguistiche specifiche. Faccio questa precisazione perché è bene ricordare che ogni
fumetto può essere inteso come un testo individuale con delle proprie specificità linguistiche. Specificità linguistiche
che derivano dalle caratteristiche di quel particolare testo a fumetti, per esempio dallo stile del suo autore, oppure
dalla macrostruttura o formula editoriale a cui appartiene. Faccio riferimento, per esempio al fatto che il testo sia
una striscia quotidiana oppure il volume di una serie oppure una grafic novel e quindi una narrazione lunga e chiusa
in sé stessa e poi possiamo prendere in considerazione anche l'appartenenza di quel particolare testo a fumetti ad un
determinato genere narrativo, quindi per esempio il fantasy il comico o il reportage giornalistico, ma ce ne sarebbero
anche altre. Quindi per intenderci un numero di Tex Willer che è un fumetto che appartiene ad una serie di lunga
durata con personaggi dalle caratteristiche molto spiccate e molto stabili nel tempo e con un’ambientazione
Western in un Texas popolato di cowboys, sceriffi messicani e indiani ha una lingua molto diversa, per esempio da
quella delle strisce comiche satiriche oppure dalle narrazioni lunghe per bambini o per adulti. Ecco di tutto quello che
sto citando vi ho messo un esempio, anche se breve, a slide da cui si può capire bene la differenza fra vari testi a
fumetti, per esempio anche solo a un livello lessicale. Detto questo quindi torno a ripetere che la nostra breve
lezione si concentrerà sulla lingua del fumetto in generale, sulla lingua di un medium comunicativo con una
particolare posizione sull'asse diamesico. Le caratteristiche fondamentali della lingua del fumetto possiamo dire che
derivano in gran parte dal suo legame con l'immagine. In un fumetto infatti il testo verbale e gli elementi grafici sono
strettamente connessi tra di loro. Innanzitutto il testo verbale è inserito all'interno di un ben definito spazio grafico e
qui è opportuno fare una precisazione terminologica. Chiamiamo vignetta lo spazio che racchiude le sequenze
disegnate, chiamiamo invece baloon o fumetto lo spazio che contiene le parole pensate o pronunciate dai
personaggi. Si chiamano invece didascalie quei riquadri che contengono dei testi di accompagnamento delle
vignette. Ora, il fatto che i testi verbali siano inseriti all'interno di questi spazi definiti condiziona alcune
caratteristiche dei testi. In primo luogo la loro lunghezza: il fumetto tende ad utilizzare frasi e parole brevi perché
devono essere inserite all'interno di spazi ridotti. Un secondo aspetto molto importante del legame tra parola e
immagini in un fumetto è il fatto che l'immagine ci permette di vedere il contesto comunicativo di quanto è detto
all'interno dei baloon. Un fumetto di fatto rappresenta delle enunciazioni orali e l'immagine ci permette di vedere il
contesto extralinguistico, il contesto comunicativo di queste enunciazioni. Il fatto che il fumetto simuli un parlato fa
sì che quando dobbiamo collocare i testi a fumetti sull'asse diamesico non possiamo porli in coincidenza del polo
dello scritto prototipico o secondo la definizione di Moncioni dello scritto - scritto. Questi testi vanno spostati verso il
polo del parlato. In particolare possiamo definire i fumetti dei testi parlati - scritti perché sono dei testi scritti che
però imitano il parlato. La simulazione del parlato che troviamo nel fumetto può avvenire attraverso una serie di
strategie che trovate elencate nella slide. La prima e più importante è l'imitazione della frammentazione tipica del
parlato che viene da una sua scarsa pianificazione. In secondo luogo il fumetto ricorre grazie alla presenza delle
immagini agli elementi deittici che sono tutti quegli elementi linguistici che rimandano al contesto extralinguistico e
che hanno bisogno proprio del contesto extralinguistico per essere correttamente interpretati. Sono per esempio
elementi deittici parole come questo, quello, ora, domani o anche io e tu. Un altro meccanismo funzionale alla
simulazione del parlato è il ricorso ai segnali discorsivi di cui si è già parlato nella lezione precedente. Inoltre
l'imitazione della lingua orale fa si che il fumetto ricorra alla varietà linguistica dell'uso medio o all'italiano neo
standard. La quantità di tratti dell'uso medio all'interno di un fumetto, dipende molto dallo stile dell'autore o anche
dallo stile della serie se stiamo parlando di un fumetto appunto di una serie perché alcune serie di lunga durata
tendono ad essere linguisticamente molto conservative. Comunque in generale troviamo frequentemente nella
lingua del fumetto il ricorso a meccanismi di focalizzazione, per intenderci la sintassi marcata. Molto comune è anche
la prevalenza della paratassi sull' ipotassi, ovviamente perché la paratassi è funzionale al condizionamento spaziale di
cui parlavamo precedentemente. Quando parliamo di simulazione del parlato, ovviamente, ci riferiamo ai testi
all'interno dei Balloon. Diverso è il caso, invece, dei testi delle didascalie che sono dei test di accompagnamento delle
vignette con varie funzioni, per esempio con una funzione contestualizzante, cioè di dare indicazione di tempo di
luogo o con delle funzioni narrative più complesse quali ad esempio rappresentare una voce narrante esterna.
Quindi i testi delle didascalie non si preoccupano di imitare o simulare il parlato e non sono collocabili quindi tra i
testi parlati e scritti. Possiamo dire che i testi delle didascalie si avvicinano molto di più ai testi scritti prototipici o
appunto scritti - scritti.
Del parlato il fumetto cerca di imitare anche l'intonazione, i tratti prosodici, e lo fa attraverso degli espedienti che
fanno riferimento anche al lettering, cioè alla forma dei caratteri del testo scritto. Per esempio, nella grammatica del
fumetto, il maiuscolo o il grassetto servono per rendere l'innalzamento della voce, cioè un'intonazione urlata.
L'intonazione concitata o particolarmente espressiva o accompagnata da particolari sentimenti può essere resa nel
fumetto anche attraverso, per esempio, l'uso di una punteggiatura accumulata, espressiva, quindi per esempio
attraverso l'uso di punti interrogativi ed esclamativi multipli oppure attraverso la replicazione vocalica, come
nell'esempio che vi ho messo nella slide. Sono poi comuni nel fumetto gli ideofoni che sono delle sequenze foniche
che riproducono determinate sensazioni, determinati suoni. Ve ne ho messi alcuni d'esempio nella slide che,
noterete, fanno soprattutto riferimento all' inglese e dal fumetto si sono talvolta espansi anche in altre varietà
dell'italiano, per esempio in quelle giovanili. Vediamo adesso in uso in alcuni esempi reali quei tratti caratteristici
della lingua del fumetto che abbiamo analizzato nelle slide precedenti. Il primo esempio che vi propongo è
abbastanza celebre: è quello di Topolino, un fumetto che ha iniziato le sue pubblicazioni in Italia già dagli anni 30 ed
è quindi di lunga durata, ma nel corso degli anni ha mantenuto abbastanza immutati lo stile e il registro linguistico
che aveva già dall'inizio, che sono uno stile un registro abbastanza eclettici che mettono insieme, affiancano sia uno
stile brillante, colloquiale e informale che tocchi aulici e letterari spesso in chiave ironica. In ogni caso la lingua è
abbastanza conservativa, ma presenta tutte le caratteristiche tipiche del fumetto. Se guardi è già la prima vignetta, il
primo baloon presenta già una parola con replicazione vocalica, il secondo l'uso del lettering in grassetto e il terzo
baloon presenta dei fenomeni di frammentazione delle parole in "G-Glom", che tra l'altro è un ideofono e
dell'enunciato "Non c'era nessuno ... e poi ...". Guardando anche le altre vignette troviamo anche altri fenomeni, per
esempio nella terza vignetta possano vedere un segnale discorsivo: "Uhm..." o anche "Bene!". Faccio notare tra
l'altro che tutti i baloon dell'esempio presentano frasi che finiscono solo con un punto esclamativo e in un caso con
un punto di domanda, non c'è mai un punto fermo. Questo per rendere attraverso la punteggiatura espressiva le
intonazioni del parlato. Il secondo esempio che vi propongo è tratto dal libro "La profezia dell'armadillo" del noto
fumettista romano Zerocalcare. La varietà di lingua usata in questo fumetto è molto diversa da quella dell'esempio
precedente di Topolino perché è una varietà linguistica molto informale, molto ralizzante e anche diatopicamente
marcata. Per esempio, nella vignetta 3, abbiamo la variante "de" della preposizione "di" che è tipicamente romana
come variante, oppure della vignetta 4 abbiamo l'uso di "stare" per "essere" in "il telefono sta di là" che è un tratto
tipo dell'italiano regionale centro-meridionale. Possiamo poi notare nei testi a slide degli esempi di sintassi marcata,
per esempio nella vignetta 1: "non vogliamo litigare noi" quel "noi" è un soggetto posposto. Sempre nella vignetta 1
abbiamo un esempio di "che" polivalente: "dai che non si sa mai cosa fanno i giovani" e lo stesso tipo di "che"
polivalente lo troviamo anche nella vignetta 3: "lascia stare che i vecchi non sai mai come reagiscono". Altri elementi
che possiamo notare sono la frequenza degli ideofoni, quindi abbiamo "clac", "vrrr", "driiiin", "uff". Abbiamo anche
molti segnali discorsivi: nella vignetta 1 per esempio abbiamo "dai", nella vignetta 4 abbiamo "bah". Un'altra cosa da
notare è anche in questo caso l'uso della frammentazione dell'enunciato: sempre nella vignetta 1 abbiamo un
esempio, lo abbiamo anche nella vignetta 3 e nella vignetta 4. Notiamo infine la presenza di elementi deittici, per
esempio nella vignetta 5: "rispondi te che il telefono sta di là" possiamo capire chi è "te" e che dov'è "di là" solo
guardando l'immagine in turno. 

PPT di riferimento: Diafasia e Lingue speciali aa. 2019-2020

Avendo oltrepassato il giro di boa di queste lezioni, prima di passare all’argomento di oggi pare opportuno
soffermarsi sul percorso fin qui svolto e che rimane da svolgere. Il nostro corso si è incentrato sulla lingua italiana,
che abbiamo ripercorso nella sua evoluzione storica; che abbiamo analizzato nelle sue strutture, nella fonetica, nella
morfologia, nel lessico, nella sintassi, nella testualità; e che ora stiamo attraversando nelle sue diverse varietà.

Parlare di lingua italiana è poco meno che una astrazione, perché “lingua italiana” può voler dire tante cose. Anzi
possiamo iniziare a notare come sotto quest’etichetta di lingua italiana vi siano tante varietà: per esempio, l’italiano
dei giovani, o giovanilese; l’italiano burocratico, o burocratese; l’italiano digitato, e via discorrendo. Queste sono le
varietà che per l’appunto stiamo passando in rassegna e che completeremo di vedere nelle prossime lezioni.

Per aiutarci a orientarci in queste varietà di italiano abbiamo fatto perno sui principali parametri di variazione della
lingua. I parametri cosa sono? Sono dei fattori extra-linguistici, non linguistici, con cui è correlata la variazione
interna della lingua. Detto in termini equivalenti, la lingua cambia a seconda di fattori che stanno al di fuori della
lingua, quindi extra-linguistici.

Prendendo gli esempi che abbiamo fatto prima, diremo che il parametro principale extra-linguistico per la varietà del
giovanilese è l’età giovane del parlante o dello scrivente; il parametro principale per il burocratese è il contesto
d’uso, perché è la lingua degli uffici; per l’italiano digitato invece il parametro principale sarà il mezzo, cioè la tastiera
del pc o lo schermo del telefono su cui appunto posiamo le nostre dita (italiano digitato infatti viene da digitus, che
in latino significa “dito”).
Nelle nostre lezioni abbiamo incominciato a fare riferimento al parametro di variazione diacronico.

(slide 1)

Voi vedete che nella slide sono riepilogati i 5 principali assi.

Il parametro diacronico, dal greco diá + cronos: questo significa che la lingua italiana, come ogni grande lingua di
cultura, varia nel tempo. Sappiamo quindi che la lingua di Machiavelli è diversa dalla lingua di Manzoni, che è diversa
da quella di D’Annunzio, e dalla nostra, e via così.

Nel nostro percorso nella diacronia, insieme alla variazione dell’italiano, ci siamo soffermati sui momenti, sugli
autori, le opere, che ne hanno determinato gli snodi più importanti.

Dunque nelle nostre lezioni ci siamo soffermati sulla diatopia (in questo caso dal greco diá, che significa attraverso, e
tópos, “attraverso i luoghi”) che è una dimensione ineliminabile per tute le grandi lingue ma in particolare per
l’italiano, per ragioni storiche e geografiche che conosciamo bene, che però oggi è una dimensione in lieve
regressione per importanza.

Abbiamo considerato quindi la diamesia, in base alla quale la lingua cambia a seconda che sia scritta, parlata o
trasmessa. All’interno del tramesso in particolare si è soliti anche distinguere un’ulteriore parametro, che è quello
della diatecnia. Questo parametro tiene conto della diversificazione sempre maggiore tra le tecnologie: in base alla
diatecnia esistono delle differenze nelle manifestazioni linguistiche per esempio di Twitter, dei blog, di WhatsApp,
delle mail e via dicendo.

Nella lezione di oggi inizieremo a parlare della diafasia, la quarta dimensione di variazione. Anche in questo caso
l’etimologia rimanda al greco, “attraverso il parlare”, diá + phásis. In base a questo parametro la lingua cambia in
base alla situazione comunicativa, quindi in base all’argomento del discorso, al rapporto tra i locutori e al contesto -
ma lo vedremo meglio fra pochissimo. Qui aggiungiamo solo che nell’italiano contemporaneo la portata della
diafasia sembra in aumento, quindi sono aumentante le situazioni comunicative, mentre viceversa è in regresso
come dicevano prima la regionalità, e come vedremo tra poco anche la stratificazione sociale (la differenza della
lingua in base alla stratificazione sociale di chi la parla o di chi la scrive). Quindi è la diafasia che supplisce queste
altre due dimensioni.

Infine questo corso verrà chiuso con un riferimento alla diastratia, che studia e descrive i cambiamenti della lingua in
base allo strato o gruppo sociale a cui appartengono i parlanti e gli scriventi- quindi le differenze della lingua in base
a all’età, al censo, alla cultura, al sesso.

Tutte queste dimensioni di variazione sono intersecate e in sovrapposizione fra di loro, nel senso che per analizzare
una determinata porzione di lingua la si potrà valutare in base alla diacronia, diamesia, la diatopia e via dicendo.
Ciascuna di queste dimensioni di variazione può essere visualizzata come un asse, una linea continua che unisce due
varietà contrapposte. Facciamo un esempio: se prendiamo l’asse diafasico, quello che ha a che fare con le situazioni
comunicative, ecco quest’asse avrà al polo più basso l’italiano informale e trascurato, per esempio la chiacchierata di
due amici al bar, mentre al polo più alto avremo l’italiano formale, per esempio il discorso di fine anno del
Presidente della Repubblica. Fra il polo basso e quello alto vi è un continuum di varietà, di tipi di italiano, che variano
e scivolano talvolta impercettibilmente l’uno nell’altro. Questa caratteristica di continuum accomuna tutti gli assi di
variazione, anche quello diacronico. Tutti per l’appunto caratterizzati da due poli estremi, ben distinti e contrapposti
tra loro. Se prendiamo l’asse diacronico avremo un polo formato dal latino volgare, dai primi passi dell’italiano, e un
altro polo più recente, quello dell’italiano strettamente contemporaneo.

A proposito di questa natura continua degli assi ci sono dei linguisti, per esempio Berruto, che preferiscono parlare,
invece di semplice continuum, di continuum con addensamenti. Queste sono le parole di Berruto:

Con questa formula si intende indicare una gamma di varietà sufficientemente ben identificabili ma senza
confini troppo netti fra di loro, in cui ciascuna varietà è contrassegnata, oltre che da un numero di tratti tipici
diagnostici, cioè tratti tipici individuanti, in buona parte da un particolare infittirsi e co-occorrere di tratti che
sono condivisi da più varietà. Ogni varietà ha un’ampia area di sovrapposizione in termini di caratteristiche
strutturali con le altre varietà.

Quello che dobbiamo tenere presente e che è molto chiaro dalle parole di Berruto è che:

1. Ogni varietà è costituita da tratti comuni a tutte le varietà, quindi tratti marcati tipici in generale
dell’italiano.
2. Ogni varietà è costituita da tratti comuni ad alcune varietà
3. Infine è costituita da tratti identificanti di quella varietà.

Se prendiamo un esempio per chiarire, quello dei linguaggi giovanili, troveremo un nucleo comune, quello
dell’italiano – l’italiano senza aggettivi - ; un nucleo di tratti che si ritrova nel giovanilese ma anche in altre varietà –
penso per esempio al turpiloquio ,che si trova anche in altre varietà di italiano - e poi alcuni tratti peculiari specifici di
quella varietà – per esempio nel giovanilese è specifico il ricorso ad abbreviazioni come “siga” per sigaretta, “profe”,
“mate”, eccetera.

(slide 2)

Come abbiamo accennato l’asse di variazione che prenderemo in considerazione oggi è l’asse diafasico, asse che
appare correlato con tre fondamentali parametri extra-linguistici.

Il primo: il parametro della situazione comunicativa, che può essere più o meno formale.

Il secondo: il parametro della confidenza e del ruolo reciproco esistente fra emittente e destinatario.

Il terzo parametro è l’argomento del discorso.

Su questo asse possiamo preliminarmente distinguere da una parte i registri, varietà primariamente dipendenti dai
primi due parametri – quindi dalla situazione più o meno formale e dal grado di confidenza tra i locutori. Dall’altro
lato ci sono le lingue speciali, che invece dipendono primariamente dall’argomento, dall’ambito tematico.

Quest’oggi ci occuperemo per l’appunto di lingue speciali. Con lingue speciali si indica la modalità di esprimersi in
ambito specialistico, soprattutto tecnico o scientifico. La caratteristica più vistosa delle lingue speciali si ritrova a
livello lessicale, che si contraddistingue per l’uso di parole tecniche o tecnicismi, anche se vedremo che le lingue
speciali si presentano come caratterizzate anche agli altri livelli linguistici – a livelli della morfologia, della sintassi,
della testualità.

Quella che ho usato, “lingua speciale”, è la denominazione più diffusa o tra le più diffuse tra gli studiosi per indicare
questa particolare varietà diafasica, ma come vedete dalla slide si tratta di una denominazione in concorrenza con
tante altre. La più antica, perlomeno in italiano, si deve a Bruno Migliorini, ed è quella di “lingua speciale” (1935),
calcata sul francese langue spéciale. Ma come vi dicevo ce ne sono tante altre, fino all’ultima in ordine cronologico,
che è “linguaggio/lingua di specialità”.

Per molte di queste etichette si tratta di dizioni pressoché sinonimiche, anche se in alcuni casi le diverse
denominazioni rendono conto di differenze più sostanziali all’interno della fenomenologia estremamente varia dei
linguaggi delle lingue speciali.

Alcune di queste etichette enfatizzano la specificità della varietà, caratterizzata da una terminologia propria e
appannaggio dei soli addetti ai lavori. Così per esempio enfatizza questa specificità la denominazione di
“sottocodice”, la seconda che vedete, in cui è chiaro il riferimento a un determinato ambito specialistico, per
esempio la medicina, che è un sottocodice: il codice ovviamente è quello della lingua, e la medicina è un sottocodice
all’interno del quale potranno poi esserci ulteriori specializzazioni, per cui si parlerà di “sotto-sottocodici”. Per
esempio, i linguaggi della cardiologia, dell’oculistica, della psichiatria, sono sotto-sottocodici del sottocodice medico.

A partire dal Novecento si è avuta una proliferazione di linguaggi specialistici, o sotto-sottocodici come abbiamo
detto. Questo significa che ogni ambito disciplinare tende a specializzarsi sempre di più e a dividersi in sottosettori,
generando di conseguenza ulteriori sotto-specializzazioni linguistiche. In questo modo si è espansa la cosiddetta
dimensione orizzontale delle lingue speciali, cioè appunto la diversificazione anche linguistica presente fra le lingue
speciali e nelle lingue speciali. Come è stato notato questa moltiplicazione ha fatto in modo che per esempio parlare
di lingua della medicina o di lingua del diritto in questo caso sia poco meno di un’astrazione, e questo è anche
indirettamente testimoniato dalla difficoltà di comunicazione che ci può essere tra specialisti di domini molto
ristretti: se pensate alla lingua specialistica di un cardiologo, è molto diversa dalla lingua specialistica di uno
psichiatra.

Rimanendo ancora qualche istante su questa slide, possiamo ancora notare che altre denominazioni, come quella di
lingua/linguaggio settoriale, che è la quinta che vedere in slide, ecco altre denominazioni fanno riferimento a generi
e tipi di testo di argomento meno specialistico e più passibili di contatto o ricadute nella lingua comune, per
l’appunto i linguaggi settoriali. Sono esempi di linguaggi settoriali con possibili ricadute nella lingua comune la lingua
della moda, la lingua dello sport, la lingua della cucina, e per certi versi e in certe circostanze possono essere lingue
settoriali anche la lingua della medicina e quella giuridica.

Di lingua o linguaggio settoriale si può anche parlare per indicare il linguaggio di alcune scienze cosiddette “molli”,
cioè quelle scienze e discipline che hanno un numero tutto sommato limitato di terminologia specialistica (pensiamo
alla sociologia, la storia, la filosofia) e stentano a essere classificate come scienze vere e proprie.

(slide 3)

I linguisti hanno sottolineato una denominazione di campo sempre meno netta fra la lingua comune e le lingue
speciali o meglio i linguaggi settoriali. Perché? Perché esiste un flusso sempre più consistente di parole che dalle
lingue speciali vanno a confluire nella lingua comune. Questo lo avevamo già sottolineato parlando dei vocabolari,
che registrano sempre più spesso e giustamente questo afflusso (che d’altra parte sta sotto gli occhi o dentro le
orecchie di tutti noi).

Si stima che circa i due terzi delle parole italiane facciano parte di una lingua speciale, e che questo numero sia
destinato a crescere proprio perché le lingue speciali sono sempre più in espansione. I tecnicismi delle lingue speciali
provengono soprattutto da quelle discipline che intrattengono più stretti rapporti con la lingua quotidiana: pensiamo
all’area giuridica, soprattutto nella versione burocratico-amministrativa, e pensiamo anche al prestigio che la lingua
burocratica possiede e che quindi può fungere da modello; o pensiamo anche a tecnicismi provenienti dalle nuove
tecnologie, dall’informatica o dall’automobilismo, per cui oggi tutti noi (o quasi tutti) sappiamo il significato di parole
come file, homepage, hard disk, software, etc. Oppure oltre all’area giuridica e a quella delle nuove tecnologie
pensiamo anche all’area della medicina, per i frequenti scambi medico-paziente, per la consuetudine che alcune
persone hanno purtroppo con i referti medici, ma pensiamo anche alle rubriche televisive e giornalistiche, sempre
più frequente, o pensiamo ancora alle mode dietetiche e a telefilm che sono ambientati i ambito medico, da ER a
Grey’s Anatomy (ma anche altre serie hanno spesso a che fare con il lessico medico).

I veicoli attraverso cui si diffondono tali terminologie sono dunque molto vari. Per la medicina e per la biochimica
possiamo almeno ricordare e vedere un pochino più da vicino i foglietti illustrativi dei medicinali, detti anche
bugiardini.

Ecco intanto questa parola, “bugiardino”, è abbastanza caratteristica, perché nasce per transcategorizzazione, quindi
da un aggettivo, “bugiardo”, che diventa un nome e cambia di categoria. Perché si chiamano bugiardini? Ci sono un
paio di ipotesi. Una ipotesi rimanda alla parola “bugiardo” o “bugiardello”, che in toscano indica un foglio periodico,
un giornale; e quindi “bugiardino” sarebbe un piccolo foglio.

Un’altra ipotesi, che forse e più sicura di questa, dice che i bugiardini si chiamano così perché omettevano,
soprattutto in passato, informazioni su effetti indesiderati dei medicinali. Il diminutivo “-ino” è spiegabile in parte
perché il foglio è piccolo, quindi in considerazione dell’oggetto a cui si riferisce, in parte perché si configura come una
attenuazione di “bugiardo”, quindi “bugiardino” è più soft di “bugiardo”.
A parte questa curiosità etimologica, vediamo appunto questo bugiardino. Nella slide si trova un bugiardino di un
medicinale da banco che si può acquistare senza prescrizione medica: si tratta della Melatonina Dispert, che serve
appunto per prendere sonno più velocemente e per dormire meglio. È interessante vedere come in questo
bugiardino, che tutti possono avere tra le mani, ricorrano termini della chimica e della medicina. Per esempio, nel
primo foglio si parla di niacina, vitamina B3, e della vitamina B6. È significativo che non si dica cosa sono questi
elementi, ma si dica a cosa servono: infatti ad un certo punto si dice “con l’aggiunta della niacina e della vitamina
B5, che contribuiscono alla riduzione della stanchezza e dell’affaticamento”.

In questo caso si parla di riformulazione per funzione: non ti spiego cosa sono la niacina e la vitamina b6, ma ti dico
non tanto cosa sono appunto ma a cosa servono, che è quello che più interessa all’uomo comune. Altri termini
tecnico-specialistici si trovano nell’altra pagina, soprattutto alla voce “Ingredienti”, però in questo caso sono
semplicemente elencati. poco più sotto “Modo ed uso”, alla fine si dice non contiene glutine e lattosio. Anche queste
due parole sono termini tecnico-specialistici della chimica, che però sono appunto diventati di uso comune, e dalla
lingua speciale si sono spostati nella lingua comune: oggi tutti o quasi tutti sappiamo dire grossomodo cosa sono il
glutine e il lattosio, dove si trovano eccetera.

Ancora interessante, sempre in questo paragrafetto, è una parola che vedete in “Modo d’uso”: “si consiglia
l’assunzione”, oppure più sotto “il benefico effetto si ottiene assumendo”. Ecco queste parole, “assunzione”,
“assumendo”, “assumere”, si chiamano tecnicamente in linguistica “tecnicismi collaterali”. Questo significa che non
sono parole effettivamente tecniche, necessarie, e quindi che possiedono un significato specifico in quella disciplina,
ma sono parole che vengono utilizzate per elevare il registro: invece di dire “si consiglia di prendere” o “si ottiene
prendendo” si utilizza “assumere”, perché alza il registro.

(slide 4)

Le lingue speciali ed in particolare il loro lessico si annidano quindi anche in testi di circolazione comunissimi, come le
etichette di prodotti commerciali come quella che vedete in slide, dove si trova del lessico biochimico. Lo stesso vale
per parole come glutine, gluten free, olio di palma, lattosio (alcune già citate) che fino a pochi anni fa erano
sconosciute e oggi invece sono comunissime; designano referenti a cui improvvisamente ci siamo tutti scoperti, chi
più chi meno, intolleranti.

Più in generale sono i mass media, con la loro offerta sempre meno generalista e viceversa sempre più specializzata,
a portare nella lingua comune i tecnicismi. Se pensiamo alla televisione ci vengono subito in mente tutti quei canali
tematici dedicati all’arte, alla cucina, alla storia, all’architettura, che fanno ricorso frequente e costante ai tecnicismi.
Pensiamo alle trasmissioni specialistiche, anche comuni, per esempio forum, che usa un linguaggio giuridico, oppure
pensate ancora a quelle serie ambientate in ambiti particolari.

In questa slide nella parte di destra trovate degli esempi di tecnicismi medici utilizzati nella nota Grey’s Anatomy
sulla quale avevo dato, un po' di tempo fa, una tesi. Qualcosa di molto simile, quindi di un utilizzo molto ampio
intessuto nella lingua senza particolari remore, era emerso anche in tesi su altri serie come Breaking Bad, oppure Le
regole del delitto perfetto, che è molto interessante per quanto riguarda il linguaggio giuridico.

(slide 5)

Per il prestigio di cui godono i linguaggi settoriali o specialistici sono molto sfruttati anche in pubblicità dove
assolvono sia a necessità denominative cioè quando si tratta di nominati beni legati a tecnologia o ricerca, ma
assolvono anche necessità connotative proprio per la loro capacità di esaltare un bene senza insospettire il
consumatore con elogi troppo espliciti.

Le potenzialità persuasive del tecnicismo sono dunque legate al suo significante, alla sua forma esterna,
indipendente dal fatto che se né conosca il significato.

Un esempio di questa caratteristica, lo vedete nella slide , dove c'è un annuncio stampa tratto dal settimanale
ultrapopolare "GENTE" . Sì pubblicizza una linea di prodotti contro i dolori articolari e ad un certo punto se vedete
nel basso della pubblicità si conclude trionfalmente con questa dizione " LA FORMULA PIÙ COMPLETA A BASE DI
GLUCOSAMINA!" .
Allora non so quanti di voi sappiano cos'è la glucosamina , io non lo sapevo l'ho letto sul vocabolario ( il Gradit che
abbiamo già citato ) dove dice che glucosamina é un termine attestato in italiano nel 1972 , composto di glucosio e
ammina e il significato è questo : " ammino- zucchero che si forma nell'idrolisi di numerose proteine e della chitina" .
Ecco in realtà questa definizione non ci aiuta , io personalmente non so molto di più dopo aver letto questa dizione ,
lo stesso però vale per la pubblicità nel target . Perché non è tanto importante sapere che cosa sia questa
glucosamina perché per il fatto stesso che le sia stato dato risalto in una pubblicità questo significa che è qualcosa di
buono e di positivo. Diciamo che si tratta di una sorta di "ipse dixit" dell'età moderna e contemporanea.

(slide 6)

Prima di passare a considerare le caratteristiche linguistiche dei linguaggi settoriali e delle lingue speciali forse
conviene aggiungere delle informazioni teoriche . Poca fa abbiamo fatto cenno ad una dimensione orizzontale delle
lingue speciali in base alla quale si individuano settori e sotto-settori disciplinari . Quindi abbiamo tante lingue
speciali che mutano al mutare dell'argomento o del sotto-argomento.

Accanto a questa dimensione orizzontale c'è né anche una verticale che distingue i diversi livelli nel quale le lingue
speciali possono essere usate a seconda delle concrete situazione comunicative e delle funzioni del messaggio. In
concreto la lingua speciale muterà scalarmente a seconda che si tratti di una comunicazione fra specialisti quindi a
livello scientifico dove le scelte linguistiche andranno nella direzione della massima specializzazione e si
concreteranno nell'uso di tecnicismi, anglismi ( quando la comunicazione non sarà tutta in inglese perché sappiamo
che la comunicazione scientifica per essere veramente internazionale spesso e volentieri , forse purtroppo, é
veicolata dalla lingua inglese.

Quindi c'è un livello alto che si colloca nella comunicazione fra specialisti , poi c'è un livello intermedio o basso che si
concreta nella comunicazione da specialista a non specialista , in questa situazione comunicativa esiste una forte
asimmetria di competenze. Pensate al medico che deve interloquire o agire con il paziente, oppure pensate al prof.
Universitario di medicina che deve spiegare una nozione ai suoi studenti che per quanto appunto specialisti né
sanno meno di lui .

Ecco in casi come questi si mettono in atto delle strategie di avvicinamento, siamo cioè al livello della comunicazione.
Quali sono queste STRATEGIE DI AVVICINAMENTO ? Si tende ad utilizzare un registro meno formale , i testi sono in
forma molto meno rigidità ( minore rigidità testuale) , si tende ad esplicitare di più il significato dei termini , si utilizza
quando si può un supporto iconico ( delle immagini che sicuramente aiutano nella spiegazione) , e mentre per
quanto riguarda , nel caso più specifico il settore lessicale si avranno la sostituzione di tecnicismi, con voci comuni
per cui per esempio invece di parlare di leucociti, il medico parlerà ai suoi pazienti di globuli bianchi . Inoltre nel
lessico si renderà a sciogliere i composti , ad utilizzare glosse o spiegazione o riformulazioni per esempio parlando di
"condiloma" , sì potrà dire il condiloma cioè un escrescenza della pelle.

Sì tenderà a sciogliere le sigle, per esempio nel caso DELL'AIDS ,che significa sciolta " sindrome da immunodeficienza
acquisita" .

Ecco a questo punto abbiamo messo sufficientemente a fuoco, seppur sinteticamente ,le caratteristiche dei linguaggi
settoriali delle lingue speciali con un focus sull'italiano contemporaneo.

E possiamo passare a descrivere i tratti sistemici più significativi a partire dal livello che più si distanzia dalla vita
comune , cioè quello lessicale.

Il livello lessicale è quello che sicuramente meglio emergono i caratteri più tipici e generali delle lingue speciali che
come vedete dalla slide sono la :

-MONOREFERENZIALITÀ

-NON EMOTIVITÀ
- LA TRASPARENZA

-SINTETICITÀ

Per la MONOREFERENZIALITÀ O PRECISIONE MONOREFERENZIALE si intende che per ogni termine di una lingua
speciale deve essere collegato un unico significato, quindi ci deve essere una corrispondenza biunivoca fra la cosa , il
concetto e il termine che la designa: quindi una cosa , un termine. Quindi sono esclusi dal linguaggio delle lingue
speciali : i modi di dire , gli eufemismi, i traslati che sono tipici della lingua comune. Pensate ad esempio la parola
come cancro o tumore maligno che sono termine appunto specifici che nella lingua comune vengono appunto
sostituiti da eufemismi come per esempio ''brutto male", questo nella lingua speciale non può accadere.

Questo che abbiamo appena detto si collega con la seconda caratteristiche , ossia quella della NON EMOTIVITÀ ,
quindi ogni lingua speciale escluse connotazioni emotive , se pensate ad un esempio tragicamente attuale quello del
covid- 19,ecco spesso a questo virus vengono associate connotazioni negative che hanno a che fare con la
diminuzione della socialità, con la solitudine, con la morte. Ecco queste connotazioni non devono essere presenti nei
linguaggi speciali e scientifici tanto é vero che se noi guardiamo nella pagina del ministero dedicata al Covid-19
questa caratteristica della neutralità emotiva é perfettamente rispettata perché nel sito si spiega che cos'è il Covid-
19, intanto sciogliendo questa sigla per la maggiore comprensione e divulgazione, si dice che é una acronimo e più
che una siglache sta per Co (corona), Vi (virus), D (dall'inglese =desease), 19 ( anno in cui si é manifestato). Poi si
spiega in modo molto neutrale che cos'è il corona virus, ovvero una vasta famiglia di virus noti usati per causare
malattie che vanno ecc. Sono virus RNA con andamento positivo, con aspetto simile ad una corona al microscopio
elettronico. Poi un'altra caratteristica é quella della trasparenza evidentemente per gli addetti ai lavori, questa
caratteristica della trasparenza si vede bene nell'uso dei composti per esempio se prendiamo un composto come
gastroenterocolite questo termine é immediatamente trasparente perché scomponibile dagli addetti ai lavori. Che
cos'è la gastroenterocolite? È una malattia infiammatoria ( questo c'è lo dice il suffisso -ite) a carico della mucosa
dell'apparato digerente che colpisce lo stomaco, l'intestino tenue e il colon. Questo stesso termine oltre che
trasparente é anche sintetico perché vi consente di definire con un solo termine una definizione che appunto é
molto più ampia.

(slide 7)

Composizione del lessico nelle lingue speciali.

Vediamo a questo punto il livello lessicale che é quello più caratterizzante, caratterizzato nelle lingue speciali.

Come si compone questo lessico? Si compone di prestiti o forestierismi in particolare dall'inglese, dal greco e dal
latino, soprattutto il greco e il latino sono molto utilizzati nella medicina e nel diritto. Il prestito é un portato
dell'internazionalizzazione degli studi soprattutto l'inglese che é la lingua della comunicazione scientifica ai livelli alti,
ma il prestito ha anche altre giustificazioni perché una parola straniera può avere un significato più specializzato
rispetto alla corrispondente italiana pensiamo alla parola decoder che é entrata in italiano nel 1990 mentre già
esisteva nel 1973 il decodificatore. Il decoder non é altro che quello strumento che rende leggibile un segnale
televisivo così il Gradit mentre il decodificatore aveva un significato più ampio sempre il Gradit ci dice che é
dispositivo o programma per la decodificazione di segnali o dati codificati mentre appunto il decoder svolge questa
funzione ma nell'ambito ristretto della televisione. Oppure la parola straniera é utilizzata nelle lingue speciali perché
ha una forma più sintetica per esempio holding che sicuramente é più sintetico rispetto al corrispondente italiano
che é società o capogruppo. Il prestito può anche occorrere nella forma dell'adattamento come nel caso di neurone
che é attestato in italiano nel 1889 mentre era già nell'inglese neuron nel 1884 e infine anche nella forma del calco
come nel caso di neurone specchio che é calcato sul corrispondente mirror neuron sempre dall'inglese.

Un altro bacino lessicale importantissimo é quello dei neologismi creati attraverso la formazione delle parole, il
meccanismo più diffuso è quello dell'aggiunta di affissi quindi prefissi e suffissi principalmente ai quali é attribuito un
determinato significato così per esempio il suffisso - ite indica un'infiammazione acuta perciò la dermat-ite sarà
un'infiammazione acuta della pelle (derma dal greco) oppure il suffisso - odi indica un'infezione cronica per cui artr-
osi, il suffisso - oma indica il tumore quindi abbiamo parole come melan-oma, calcin-oma.
Abbiamo già accennato come i composti abbiano il grande vantaggio di essere delle forme economiche perché
richiedono l'utilizzo di poche unità lessicali base per creare composti molto più lunghi, sono trasparenti e creano
classi di parole aperte e quindi possono incrementare nel caso di nuove scoperte o invenzioni. Tra l'altro vi ho messo
nella slide una curiosità che é quella della parola esofagodermatodigiunoplastica che é la parola più lunga secondo il
sito focus.it della lingua italiana ed é formata proprio attraverso l'accumulo di componenti grazie alla formazione
delle parole.

Questa parola indica un'operazione di ricostruzione plastica che si esegue dopo l'esportazione dell'esofago e dello
stomaco. Quindi una sola parola anche se molto lunga che riassume un concetto così ampio.

Un altro bacino molto sfruttato é quello della risemantizzazione che consiste nel prendere una parola comune e
darle un significato specifico questo procedimento non é certamente nuovo perché a questo aveva attinto e lo aveva
sfruttato Galileo Galilei nel 1600 proprio nel costituire il lessico specifico della fisica per cui Galileo aveva preso delle
parole comuni come forza, pendolo,occhiale e aveva dato a queste parole un significato tecnico, specifico valido nel
sottocodice della fisica.

Se adesso vedete nella slide successiva vediamo proprio un esempio di una di queste parole ossia momento e poi
torniamo di nuovo su questa slide.

(slide 8)

Ecco questa slide semplicemente per mostrarvi cosa ci dice il Gradit a proposito di questa parola momento. Ci sono
due significati che sono fondamentali come brevissimo spazio di tempo, istante e poi ci sono altri significati legati e
circoscritti a determinati ambiti tecnico-scientifici come termine della fisica(fis.) , filosofico, statistica, musica e
termine letterario e vedete che ad un certo punto il terzo significato é proprio quello fisico: momento= come
grandezza fisica, vettoriale o scalare, che equivale al prodotto di un'altra grandezza ecc. Questo ci dice anche della
polisemia delle parole quindi una stessa voce momento ha accezioni diverse e talvolta circoscritte ad ambiti settoriali
e specifici.

(slide 9)

Un’altra parola che ha subito una risemantizzazione, anche come si dice una rideterminazione semantica è la parola
chiosco, nell’immagine vedete il chiosco multimediale che si trova nelle filiali, nelle banche, che consente di fare
delle operazioni. Ecco questa parola “chiosco” è una parola piuttosto antica, vedete cosa ci dice GRADIT; è una
parola testata dalla fine del ‘500 e deriva dal turco.

Alle accezioni più tradizionali come “piccola costruzione che in luoghi pubblici è adibita alla vendita di giornali,
bibite” ecc. o “piccolo padiglione a pianta rotonda” ecc. più recentemente si è aggiunta un’altra che è quella relativa
all’informatica, in questa accezione la parola chiosco è attestata dal 1995, per la prima volta. Questa volta è anche
detto qual è la fonte: (la repubblica), con questo significato appunto di “calcolatore che, collocato in un luogo
pubblico, fornisce informazioni agli utenti.

(slide 10)

Come promesso siamo tornati su questa slide dove parlavamo della composizione del lessico nelle lingue speciali,
che è formata da:
• Prestiti
• Da parole create attraverso meccanismi interni alla lingua
• risemantizzazioni
• (E qui riprendiamo) da sigle e acronimi:
o una sigla è una parola formata dalle lettere iniziali di 2 o più parole
o Mentre gli acronimi oltre alle lettere possono includere le sillabe iniziali o più lettere iniziali delle parole.
-Un esempio immediato: LASER (che abbiamo già citato) è una sigla, perché utilizza le singole lettere iniziali di;
Light
Amplification
By Stimulated
Emission
of Radiation
-Mentre un’altra parola come RaDAR, è un acronimo perché è formato attraverso:
RAdio
Detection
And Ranging
Quindi di “radio” RADAR prende R-A, le prime due lettere.
-Ma ci sono moltissime altre sigle e acronimi che si utilizzano nelle lingue speciali e poi anche magari nella lingua
comune e che non sappiamo in realtà che sono delle sigle. Per esempio la parola TAC:
Che è una sigla che deriva da:
Tomografia
Assiale
Computerizzata
• Infine l’ultimo bacino è quello degli eponimi. Eponimi, cioè quei termini che sono fatti da nomi propri di
persona, cosi: Volt; da volta, il Parkinson o il morbo di Parkinson.

(E poi se andate nella slide successiva vi mostro altri eponimi più (???) )

(slide 11)

In questa slide ci sono 3 esempi di eponimi:

• Il primo è quello del “Grouvellinus Leonardocaprioi” ; che è il nome che è stato dato a uno scarabeo in onore
a Leonardo DiCaprio per il suo attivismo sui temi del cambio climatico

• Il secondo è un asteroide chiamato “246247 Sheldoncooper” in onore a uno dei personaggi della serie
televisiva “The Big Bang Theory”

• Il terzo forse un po’ meno noto, però insomma, fa piacere ricordarlo perché riguarda un professore
dell’Università di Milano, Giacomo Diego Gatta, a cui hanno dedicato un minerale la “diegogattaite”, proprio per
onorare l’impegno di Gatta nello studio di un particolare settore geologico, e in particolare di questo minerale che ha
appunto il suo nome.

(slide 12)

Dunque per concludere un cenno anche sulla testualità e sulla morfositassi delle lingue speciale.

Per quanto riguarda la testualità: i requisiti di chiarezza, coesione, coerenza che abbiamo visto vivere per il lessico, si
ripresentano anche in questo contesto, i testi hanno una organizzazione rigida che tendenzialmente prevede
un’introduzione eventualmente preceduta da un abstract. Poi la proposizione del problema, la soluzione e la
conclusione. Quindi un modello piuttosto rigido che potrebbe anche valere per una tesi di laurea, che volesse avere
delle caratteristiche di scientificità.

Sono anche importanti, pressoché irrinunciabili: le note e la bibliografia dei testi citati.

In generale i testi scientifici sono testi che Sabatini definirebbe “testi molto vincolanti” e la aderenza e la coesione di
questi testi in particolare raggiunta tramite le referenze anaforiche, cioè tutti quei rinvii interni infratestuali , come
per esempio: vedi sopra, come abbiamo detto prima, come verra spiegato dopo, ecc. quindi riferimenti infratestuali,
rimandi infratestuali. e po anche grazie ai connettivi.

Connettivi che scandiscono gli snodi del ragionamento, quindi appunto connettivi come ad esempio: quindi, vedi
allora, ne consegue che, nel caso che, allora, e via dicendo.

Nella morfosintassi ricorrono molto frequentemente processi di nominalizzazione che consistono nell’utilizzo dello
stile nominale, cioè nell’uso limitato di verbi che cedono il posto a nomi e aggettivi, per esempio in un foglietto
illustrativo/in un bugiardino invece che scrivere: si consiglia di assumere melatonina,ecc. si preferirà scrivere: si
consiglia la assunzione di melatonina. Una conseguenza della preferenza per lo nominale è la perdita di importanza
del verbo che appare ridotto nei modi, nei tempi e anche nelle forme scelte. Vengono preferiti verbi
semanticamente generici come; essere, diventare, rappresentare, esercitare. Che possono eventualmente essere
seguiti da un nome quindi invece che ostacolare, questo verbo ostacolare, si tende a utilizzare rappresentare uno
ostacolo. oppure invece che premere si tenderà a utilizzare esercitare una pressione, quindi secondo questa stringa,
quindi il verbo semanticamente pieno, ostacolare o premere viene sostituito da una locuzione formata da un verbo
generico (rappresentare, esercitare) seguito da un nome che quindi porta il peso semantico della espressione.

Su questa via della perdita di importanza del verbo si può arrivare alla totale abolizione del verbo, come potete
vedere nell’esempio riportato della slide: un referto medico, nel quale si alternano 6 turni di conversazione
presumibilmente fra medico e infermiere o ausiliario, in cui non c’è nemmeno un verbo.

La nominalizzazione e la perdita di importanza del verbo comportano un alta densità semantica dei testi scientifici
che effettivamente presentano elementi lessicali in percentuale maggiore rispetto ai testi di lingua, questa densità
semantica è ottenuta, è anche il risultato della tendenza a non utilizzare preposizioni o a utilizzarle in modo ridotto.
preposizioni subordinanti ma anche preposizioni che uniscono i sostantivi fra di loro; per esempio avremo invece
che dispositivo di input/output, diremmo semplicemente dispositivo input/output. Sullo esempio di forme di
composti come: trasporto merci o raccolta rifiuti. Che sono appunto dei composti ottenuti tramite cassazione della
preposizione: invece che trasporto di merce, avremmo trasporto merce - invece che raccolta dei rifiuti, avremmo;
raccolta rifiuti.

Infine a caratterizzare la sintassi delle lingue speciali, dei linguaggi settoriali sono i cosiddetti processi di cancellazione
dell’io nel senso che chi scrive un testo scientifico tende a cancellare la propria presenza utilizzando o forme passive
o forme impersonali.
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Registri dell'italiano

Nella lezione precedente abbiamo parlato di lingue speciali che sono varietà diafasiche che dipendono in poco
dall'argomento del discorso. Oggi invece ci soffermeremo brevemente sui registri che invece dipendono
primariamente dal contesto in cui avviene l'interazione linguistica (scritta/parlata che sia) e dal rapporto che sussiste
fra gli interlocutori.

In genere le variazioni di registro dipendono dal grado di formalità o informalità della situazione comunicativa e
dall'attenzione che il parlante o lo scrivente pongono nella produzione linguistica.

In modo speculare si può vedere i registri come un riflesso diretto o indiretto del ricevente, cioè di colui che ascolto o
legge la comunicazione è quindi si può inquadrare in quei fenomeni di adeguamento all'interlocutore. In questo
senso sono esemplari registri speciali che sono il cosiddetto baby talk e il cosiddetto foreigner talk. Che cos'è il baby
talk? Il baby talk è un particolare registro linguistico che viene adottato nel rivolgersi ai bambini, bambini di varia età,
infatti proprio dall'età del bambino dipende una variazione di questo baby talk. Quali sono le proprietà? Beh
innanzitutto un'intonazione e una fonologia particolare, semplificazioni morfosintattiche, un lessico molto semplice
con termini caratteristici, ipersemplificati come per esempio "bua" per "male", oppure con la presenza di molti
vezzeggiativi. Una differenza interna al baby talk, oltre all'età del bambino o della bambina, si può riscontrare anche
rispetto all'estrazione socioculturale del parlante e anche al sesso, nel senso che si è riscontrato che il baby talk
femminile è diverso da quello maschile, tant'è vero che si è parlato anche di mammese o motherese. Oltre al baby
talk classico c'è anche il cosiddetto baby talk secondario, detto anche elderly speak, con cui si intende un registro
usato nei confronti delle persone anziane, soprattutto negli ospizi, che ha delle caratteristiche molto simili rispetto a
quelle del baby talk. Evidentemente più che nel caso del baby talk classico, nel baby talk secondario questi fenomeni
di iperadattamento al destinatario possono anche essere visti come offensivi nei confronti della persona che li riceve
perché eccessivamente paternalistici. Nonostante gli intenti può essere offensivo anche il foreigner talk con il quale
si rapporta a persone straniere, pensate in particolare, appunto proprio nella direzione di questo lodo che può
essere offensivo, la generalizzazione del "tu" allocutivo nei confronti di stranieri adulti. Anche il foreigner talk è
contraddistinto da fenomeni genericamente semplificanti, soprattutto nella morfosintassi, pensiamo alla
eliminazione dell'articolo o delle proposizioni oppure all'uso sovraesteso del modo infinito. Ecco, ma senza entrare
nel merito di questi registri particolari che pure sono molto interessanti, che si potrebbero sicuramente approfondire
meglio, torniamo a parlare in generale di registri e a dire che questa variazione relativa ai registri è piuttosto
intuitiva, ma è anche la più difficile da descrivere con esattezza e questo perché per quanto riguarda i registri è
ancora più evidente quell'impressione di continuum di non delimitabilità tra un registro e l'altro e questo perché il
registro dipende da illimitate situazioni comunicative nelle quali si intersecano moltissimi fattori situazionali, per
chiarire un esempio: il registro varia a seconda del luogo in cui si svolge la comunicazione e può variare in base alla
presenza di altre persone rispetto agli interlocutori o variare anche rispetto a fattori apparentemente minimi, quindi
per esempio l'orario in cui si svolge la comunicazione e al fatto che una persona sia più o meno rilassata, stanca,
senza contare l'intreccio con altre dimensioni di variazione che si verifica nei registri, come per esempio la diastratia
o l'adiamesia cioè se la variazione di registro si coglie nello scritto, nel parlato o nel trasmesso. Questa natura di
continuum, quindi di difficile, di limitabilità fra un registro e l'altro si può vedere esemplificativamente guardando
una serie di simonini. I sinonimi in questo caso come vedete sono quelli riferiti alla parola "morire", questi sinonimi
di "morire" si possono collocare in questo schema in cui ci sono diversi assi orientati su “solenne volgare” in
diagonale, su “formale e informale” in orizzontale e su “eufemistico/disfemistico” in verticale. Ecco, vedete che
questo concetto del morire si può realizzare su registri, si può concretare su registri diversi senza che si possa poi ben
distinguere quando si passa da un registro all'altro. Se guardate in alto a sinistra vedete espressioni per l'appunto
molto solenni, formali, eufemistiche (come “rendere l'anima a Dio”, “essere tolto ai propri cari”, “esalare l'ultimo
respiro”) che sono propri di contesti ecclesiastici e poi ci sono scendendo delle varianti più comuni (“cadere”, che
intendiamo con morire in guerra per la difesa dello Stato, “spirare”, “estinguersi”, poi anche “perdere la vita” e
“decedere”, che sono tipici del linguaggio burocratico ma anche della cocca giornalistica), per poi scendere ancora
più in giù verso varianti sinonimiche più volgari, più connotate (quindi abbiamo “lasciarci la pelle”, “lasciarci le
penne”, “tirare le cuoia”, fino a “crepare”). Evidentemente si tratta anche di una classe aperta che non esaurisce tutti
i modi per dire “morire”, possiamo aggiungere “schiattare”, “fare crac” o altre immagini che voi potete inventare:
“dire adieu”, insomma uno può anche sbizzarrirsi in questo senso.

Possiamo aggiungere, anche riferendoci proprio a questo esempio che abbiamo appena visto, due caratteristiche che
devono possedere i registri, cioè quelli della adeguatezza e quelle della cooccorenza. Che cosa si intende per
adeguatezza? Si intende che un registro deve essere adeguato alla situazione e questa caratteristica pertiene alla
competenza comunicativa che abbiamo nella lingua e anche alle convenzioni sociali. Errori di adeguatezza di registro
non a caso vengono compiuti da coloro che non hanno piena competenza comunicativa, pensiamo agli stranieri che
parlano italiano che magari appunto possono salutare il professore con il "ciao" o dargli del "tu" , questi sono errori
di adeguatezza di registro.

Poi ci sono le regole di cooccorrenza in base alle quali un certo atto comunicativo deve essere coerente al suo
interno, quindi se sto facendo un discorso formale non posso o non dovrei permettermi discese magari anche solo
lessicali sui registri più bassi, in questo senso possiamo portare un esempio che ha avuto una certa visibilità in
passato: la ministra Fornero che intervistata da un telegiornale parlando di un dettato problema, quindi in un
contesto di formalità, aveva detto che sarebbe servita una "paccata" di soldi per una determinata riforma, ecco
questa espressione "paccata di soldi" ha infranto la regola di cooccorrenza, proprio perché ha introdotto
un'espressione molto informale e colloquiale all'interno di un discorso che invece era formale.

Registri bassi

Tornando più in generale a parlare di registri ci soffermiamo sui registri bassi, tenendo presente che quello che
diremo per i registri bassi vale cambiato di segno per i registri alti. I registri bassi tra l'altro stanno diventando
sempre più un modello di riferimento come registri non marcati, quindi il cosiddetto "neostandard" sta conquistando
il centro del repertorio delle varietà dell'italiano; mentre lo "standard", che una volta occupava il centro, adesso è
diventato il punto di riferimento per i registri formali. Ecco, per quanto riguarda i registri informali quello che diremo
coincide, ha delle vaste aree di sovrapposizione con quello che è stato detto rispetto all'italiano parlato, in
particolare all'italiano parlato parlato, quindi molti tratti che vedremo oggi dei registri più bassi coincidono con quelli
già evidenziati.

Innanzitutto abbiamo un discorso che è incentrato sull'io parlante o scrivente, quindi con alti gradi di implicitezza e
anche di riferimenti al contesto, alla cosiddetta "indessicalità". Dal punto di vista sintattico l'articolazione è minima,
si arriva al primo, massimo secondo grado di subordinazione, ma prevalgono senz'altro le giustapposizioni, lo stile
nominale, la sintassi monoproposizionale e in questa sintassi così semplificata si utilizzano pochi connettivi, per lo più
semanticamente poveri, quindi avremo "allora", "perché", "poi"; mentre nei registri formali viceversa avremo una
gamma di connettivi subordinanti molto più ampia e anche semanticamente più precisa, quindi con valore di volta in
volta causale, finale, consecutivo, ecc.

Dal punto di vista fonetico si assisté nei registri informali a un eloquio rapido, trascurato, in termini musicali si dice di
"allegro" e questi fenomeni di allegro comportano delle riduzioni morfo-fonologiche ("notte" invece che
"buonanotte", "nsomma" invece che "insomma"), semplificazioni ("aereoporto" invece che "areoporto"), aferesi
("sto" invece che "questo"), apocopi ("vien qui" invece che "vieni qui").

Per quanto riguarda il lessico, per concludere, abbiamo un uso di lessico generico, quindi prevalgono parole come
"fare" ("cosa fare"), e forme abbreviate ("sto guardando la tele", "Vado in bici") e questa, lo vedremo, è una
caratteristica ben presente anche nei linguaggi giovanili e tra l'altro non è neanche esclusiva dell'italiano perché si
ritrova per esempio anche nel francese questo ricorso alle forme abbreviate.

I registri bassi sono anche il regno dei termini più espressivi, di volta in volta marcati in senso diatopico e
gergale/para-gergale, per esempio nei registri bassi invece che "piccolo appartamento" potrò usare "buco" ("vivo a
Milano in un buco, in un piccolo appartamento") oppure parole appunto espressive come "rompere" per
"disturbare"/"seccare" ("non rompere"), "smammare" per "togliersi di torno", ecc., fino a scendere verso parole
oscene, il cosiddetto turpiloquio. In questo caso ci sono diversi gradi di turpiloquio, si va da forme del tutto sommato
blande, che sono diventate se non standard sicuramente neostandard, come "incazzarsi" per "arrabbiarsi" o
"sfogato" per "sfortunato", "casino" per "caos", ma anche forme molto più connotate, nel senso appunto della
volgarità, pensiamo a parole come "palle", "cazzo", "culo" e a tutta la fraseologia relativa ("rompere le palle",
"raccontar palle", "prendere per le palle", "far girare le palle", ecc.).

Infine, sempre nei registri bassi, emerge la presenza di imprecazioni fino alle bestemmie e anche interiezioni come
"boh", "ehi", ecc., che sicuramente sono precluse ai registri più lati e formali.

L'italiano burocratico
Burocratese e antilingua

Per italiano burocratico si intende l'italiano impiegato dagli uffici, dalle amministrazioni per la comunicazione con i
cittadini. In italiano sono utilizzati più termini per riferirsi all'italiano burocratico e due fra i più noti, possiamo dire
proprio i più ricorrenti sono il termine "Burocratese" che è entrato a far parte del vocabolario italiano sul finire degli
anni '70 e il precedente "antilingua" che invece è stato coniato da Italo Calvino a metà anni '60, è apparso come
titolo d'un suo interno su "Il Giorno" il 3 febbraio 1965. Entrambi questi termini hanno in sé un'accezione negativa,
dispregiativa, infatti l'italiano burocratico di caratterizza per una sorta di evidente contraddizione interna. Se infatti
l'italiano burocratico è potenzialmente indirizzato alla totalità dei cittadini italiani indipendentemente dal loro grado
di cultura, indipendentemente dalla provenienza geografica, indipendentemente più da altri fattori di natura
diastratica, di fatto è una varietà linguistica che presenta alti tassi di complessità, caratterizzata da una certa oscurità
e pertanto scarsa comunicatività. È una lingua per molti versi stereotipata che non ha subito sensibili evoluzioni nel
corso del XIX/XX e poi anche XXI secolo. Si mantiene diciamo così ancorata a tratti di complessità, aulicità,
conservatività e questo è in contraddizione con il pubblico, diciamo così indifferenziato che caratterizza l'italiano
burocratico e anche è in contraddizione con lo scopo dell'italiano burocratico. Se infatti lo scopo delle
amministrazioni, degli uffici è quello di fare da intermediari tra il cittadino e le leggi, di fatto questa operazione
dovrebbe richiedere l'impiego di una lingua quanto più chiara possibile.

Il 3 febbraio del '65 Calvino su "Il Giorno" pubblica un articolo polemico nei confronti dell'antilingua, diciamo proprio
anche sarcastico, ed effettua una parodia dell'italiano burocratico che ho riportato in questa slide: la scena è quella
di un brigadiere che sta interrogando un cittadino, il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere, l'interrogato
seduto davanti a lui risponde alle domande un po' balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo
più preciso e senza una parola di troppo: "Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato
tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che
la bottiglieria di sopra era stata scassinata". Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione
(questa trascrizione è in perfetto italiano burocratico o burocratese): "Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore
antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l'avviamento dell'impianto termico, dichiara d'essere
casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al
recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l'asportazione di uno dei detti articoli
nell'intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell'avvenuta effrazione
dell'esercizio soprastante".

Notare:

Fermo restando che quella di Calvino è una parodia, per cui è chiaro che Calvino concentra all'interno di un
brevissimo testo un numero davvero elevato e anche caricato di tratti contraddistintivi del burocratese, è vero che
però in questa sua scrittura parodistica di fatto sono presenti i principali fattori linguistici che con contraddistinguono
l'italiano burocratico e possiamo effettivamente considerarne già qualcuno. Innanzitutto da un punto di vista
strettamente lessicale, l'italiano burocratico si caratterizza per l'uso delle forme auliche e quindi di sinonimi
pretenziosi rispetto invece a voci più comuni o di uso colloquiale e sono quelle forme che sono colorate in rosso in
questa slide, quindi per esempio "la mattina" diventa "le prime ore antimeridiane", così come anche il verbo
"recarsi" è un verbo che viene prediletto spesso dall'italiano burocratico perché più ricercato, così come anche il
verbo "incorrere" nell'espressione "essere casualmente incorso". Inoltre, un'altro tratto particolarmente rilevante
dell'italiano burocratico è l'abbondanza di tecnicismi collaterali, su questo termine occorre soffermarsi. Infatti,
l'italiano burocratico è sicuramente una varietà linguistica che presenta dei tecnicismi propri, quelli che si
definiscono "burocratismi" in senso stretto. Solo che che questi "burocratismi", quindi voci tecniche
dell'amministrazione, sono diciamo uno scarso manipolo, potremmo fare l'esempio di "camicia" che è usato per
indicare la cartellina di cartone nella quale in genere si conservano documenti o fogli. La maggior parte invece dei
tecnicismi in senso stretto dell'italiano burocratico sono di tipo giuridico-amministrativo, come il caso di "istruire"
che si usa per tutta la procedura che permette di recuperare i documenti necessari per portare a termine una pratica
e però molto più numerosi dei tecnicismi propriamente detti nell'italiano burocratico sono proprio i cosiddetti
"tecnicismi collaterali" che sono delle voci che potrebbero essere sostituite da espressioni, forme d'uso più comune,
ma che vengono prediletti invece dalle amministrazioni per dare maggiore autorevolezza al discorso e non sono in
realtà necessari, infatti si parla anche di pseudotecnicismi.

Nella parodia di Calvino "impianto tecnico" potrebbe essere definito come un tecnicismo collaterale per il più
comune "caldaia".

Altra caratteristica specifica dell'italiano burocratico che Calvino mette in scena è il gusto per le locuzioni
sovrabbondanti. Si può dire in maniera molto semplice che all'italiano burocratico piace usare più parole al posto di
una, quindi ad esempio la "cantina" diventa "i locali dello scantinato", "avviare" o "accendere" diventa "eseguire
l'avviamento". Tutte le espressioni, le forme che ho colorato in blu in questa slide effettivamente rispondono a
questo criterio, il gusto per la perifrasi, per le espressioni più lunghe, è proprio un gusto per la lunghezza quello che
si manifesta nell'italiano burocratico. Poi per quanto riguarda la sintassi Calvino ben esemplifica la predilezione per
l'ipotassi, tipica dell'italiano burocratico ed in particolare per le forme implicite, quindi possiamo dire per il gerundio
("essendosi recato", "non essendo a conoscenza") che chiaramente diminuiscono il grado di chiarezza ed esplicitezza
in particolare delle formazioni.

Altri tratti ricorrenti:

Sempre rimanendo nell'ambito della sintassi, altro tratto distintivo del burocratese è il ricorso alle forme impersonali
e queste forme impersonali si possono effettivamente realizzare in modi diversi, per cui per esempio abbiamo una
sequenza del "si" impersonale ("si dichiara", "si comunica"), ma un altro modo per riuscire a raggiungere
l'impersonalità è anche il ricorso a participi presenti o anche passati per evitare appunto al personalizzazione dei
soggetti, quindi ad esempio "io" diventa "il sottoscritto" nella parodia di Calvino.

Un altro elemento che può rendere complicata la testualità dell'italiano burocratico è il frequente ricorso a rinvii
testuali, questo succede perché l'italiano burocratico predilige la lunghezza, quindi nel lessico ci sono molte locuzioni
o perifrasi sovrabbondanti. Nella sintassi abbiamo periodi particolarmente lunghi e quindi di rimando nella testualità
per poter richiamare dei concetti precedenti o successivi è importante utilizzare i cosiddetti "deittici testuali", che
sono fondamentali soprattutto perché i testi della burocrazia sono molto lunghi quindi effettivamente rimandare a
quanto detto prima o a quanto detto dopo richiede un puntuale rinvio testuale. Allora, il fatto anche da sottolineare
è che questi deittici testuali impiegati dalla burocrazia sono abbastanza stereotipati, fissi, per esempio l'italiano
burocratico gradisce molto il deittico "detto", quindi nella parodia di Calvino abbiamo ad esempio "di uno dei detti
articoli", che si riferisce in maniera anaforica ai prodotti vinicoli che vengono citati nella parte precedente del testo,
quindi "suddetto", "detto" oppure ancora i latinismi ("supra") sono forme di deittici testuali che vengono
frequentemente impiegati nell'italiano burocratico.

ALTRI TRATTI RICORRENTI

Procedendo ad una piccola ricognizione degli altri tratti ricorrenti nel burocratese, in italiano burocratico, possiamo
citare, per quanto riguarda il lessico, la numerosa presenza di DEVERBALI A SUFFISSO ZERO, ad esempio: inoltro, ad
inoltrare, addebito, da addebitare.

L’italiano burocratico ha un gusto evidente per l’aulicismo, le forme più particolari e ricercate nel lessico, e questo si
lega alla predilezione per gli arcaismi, forme antiquate ed uscite dall’uso, quindi non comuni. Nelle date è frequente
incontrare AV o LI. È sopravvissuto solamente in toscana, e nell’italiano burocratico il dimostrativo “codesto” che
invece ne resto d’Italia non è più usato.

Congiunzioni particolarmente care al burocratese possono essere: ovvero, onde, ove, etc. e decisamente non
appartengono alle varietà più colloquiali e comuni dell’italiano.

Per quanto riguarda la morfosintassi rimane nell’italiano burocratico permane la sequenza cognome-nome (Rossi
Mario) e la posposizione numerale (di anni 28). Per quanto riguarda la sequenza cognome nome vi anticipo una
constatazione, ossia che l’italiano burocratico ha molte infiltrazioni nel linguaggio comune. Essendo la varietà
d’italiano che effettivamente raggiunge la totalità di cittadini, ed essendo una forma di scrittura da considerare più
elevata e ricercata con cui gli italiani entrano in contatto, molto spesso i burocratici della lingua tendono a
prelevarne alcuni usi per elevarne alcune forme per nobilitarne il proprio linguaggio. Questo succede soprattutto nel
caso di persone che appartengono alle fasce medio basse della scala diastratica per quanto riguarda la propria
estrazione sociale, per quanto riguarda la propria cultura e che possono vedere veramente nell’italiano burocratico
la verità più prestigiosa della lingua con cui sono entrati in contatto ed emulano alcuni suoi tratti. Talvolta accade che
nelle firme di queste persone il cognome viene prima del nome, laddove è noto considerarlo come errore firmare
anteponendo il cognome al nome o come un tratto da marcare in senso diastratica mente basso come tipico
dell’italiano popolare. È una tendenza questa che può essere mutuata dall’italiano burocratico.

La ricerca dell’impersonalità tipica dell’italiano burocratico si traduce anche nell’abbondante frequenza di participi
presenti anche passati, con valore sostantivale, ad esempio il dichiarante, il ricevente.

Ho evidenziato in grassetto in questa slide (4), (Scarso rispetto delle gerarchie informative - Frequenti rimandi a
decreti legislativi) alcun tratti che attengono alla testualità e che possono essere prioritari nel determinare l’oscurità,
l’opacità della lingua della burocrazia.

Frequentemente infatti, nell’italiano burocratico, si assiste ad uno scarso rispetto delle gerarchie informative, cioè
accade che l’informazione principale da dare al destinatario non venga presentata in apertura del massaggio ma si
trova al suo interno o nella parte conclusiva senza essere ben evidenziata. Può succedere che a causa della
subordinazione e della lunghezza dei testi dell’amministrazione, l’informazione principale viene recuperata dopo
parecchio tempo di lettura da parte del destinatario e inoltre questa lunghezza e questo ritardo nella presentazione
dell’informazione principale viene accresciuto dai frequenti rimandi ai decreti legislativi che non sono eliminabili da
parte della lingua dell’amministrazione, però molto spesso puntellano i testi in maniera martellante e possono
arrivare a spezzare una proposizione configurandosi come incisi che rallentano la lettura e fanno perdere la chiarezza
e l’efficacia comunicativa. Un altro tratto tipico delle dell’italiano burocratico sono le frequenti abbreviazioni che
possono, non di rado, possono anche dar vita a delle ambiguità interpretative e richiedono una ricerca per il loro
scioglimento.

COLLOCAZIONE LUNGO GLI ASSI DI VARIAZIONE LINGUISTICA

Per quanto riguarda la collocazione lungo gli assi di variazione linguistica, tutti le caratteristiche precedentemente
elencate fanno si che l’italiano burocratico si collochi ai piani alti sia della diafasia che della distratia, perché è un
italiano basato su un alto grado di formalità e perché è appannaggio di una ristretta cerchia di persone che sono i
burocrati, coloro che lavorano negli uffici, e quanto a comprensibilità, la piena comprensione di un testo burocratico
complesso avviene in caso di utenti con un buon grado di istruzione e dimestichezza con un italiano scritto, scritto e
di tono aulico e ricercato. Inoltre per quanto riguarda il parametro diamesico, l’italiano burocratico si colloca nel
parametro dell’italiano scritto anche se da circa un decennio anche dello scritto trasmesso, infatti le amministrazioni
stanno sfruttando le nuove forme di comunicazione di massa, la rete e la tecnologia per poter comunicare con i
cittadini (app per dispositivi mobile).

In questa slide (5) l’italiano burocratico sembra non trovare posto, infatti in questo schema che rappresenta
l’architettura dell’italiano contemporaneo relativa al 2010, infatti è stato elaborato da Antonelli, l’italiano
burocratico viene fatto convergere con l’italiano aziendale, quindi la nona varietà di questa immagine (cerchiata di
blu). Infatti secondo Antonelli nell’ultimo periodo si è verificato un fenomeno di intreccio tra italiano burocratico e
delle aziende, che Antonelli chiama AZIENDALESE.

L’italiano burocratico si può considerare come strettamente imparentato con quello aziendale, e questa nuova
realtà, quindi l’aziendalese, è caratterizzata dalla mescolanza di elementi caratteristici dell’italiano burocratico con
tecnicismi propri dell’economia e della finanza. Quello che preme più sottolineare è che l’italiano burocratico è una
varietà considerata ancora più elevata e complessa rispetto all’italiano che possiamo definire neo-standard o
giornalistico.

STRUMENTI PER LA SEMPLIFICAZIONE

Nel corso degli anni 90 in particolar modo, sono stati portati avanti numerosi progetti che avevano come scopo la
semplificazione dell’italiano burocratico, perché si riteneva e ancora oggi si ritiene necessaria una semplificazione del
linguaggio amministrativo perché bisogna considerare innanzitutto che i destinatari delle amministrazioni della
burocrazia sono potenzialmente tutti i cittadini italiani, indipendentemente dal loro grado di istruzione e di cultura,
in più è importante fare un accenno allo scopo comunicativo dei testi burocratici che è quello di mediare tra le
istituzioni e i cittadini, questa mediazione dovrebbe essere all’insegna della trasparenza e della semplicità. Il
linguaggio della burocrazia non facilita questo compito, infatti ciascuno di noi nella nostra vita ha sperimentato la
sensazione di disagio di fronte ad un modulo burocratico che magari risulta incomprensibile in alcune sue parti e
questo spinge a cercare aiuto, a cercare alle porte di uffici e ad essere mandati da un ufficio all’altro e la lentezza
proverbiale della burocrazia italiana in numerose circostanze è proprio causata da questa complessità linguistica.

E’ del 1993 il primo importante provvedimento e strumento per la semplificazione del linguaggio amministrativo,
cioè il CODICE DI STILE delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, pubblicato e curato dal
ministro Sabino Cassese. È la prima volta che in prospettiva istituzionale si riconosce il legame imprescindibile fra
chiarezza del linguaggio e democrazia. La semplificazione del linguaggio amministrativo viene presentata come
necessaria per la trasparenza e l’accessibilità, quindi necessaria la reale democraticità dell’agire amministrativo,
come sottolinea Sergio Rubello nella sua Bussola Carocci sul linguaggio burocratico. Successivamente abbiamo anche
il MANUALE DI STILE di Emanuela Piemontese (1997), che aveva lo scopo di fornire agli operatori della pubblica
amministrazione uno strumento pratico di lavoro da utilizzare nella loro pratica quotidiana. Questo strumento si
faceva carico di alcune proposte pe semplificare la lingua della burocrazia che si potevano schematizzare in
interventi soprattutto concentrati sul lessico e sulla sintassi. Per quanto riguarda il linguaggio del lessico il Manuale di
stile suggeriva di usare parole comuni e concrete e dirette, evitando locuzioni verbali astratte e perifrasi troppo
lunghe e complesse. Inoltre la Piemontese suggeriva di ridurre i termini tecnici specialistici e di sostituirli, se
possibile, con corrispondenti di uso comune, evitare l’uso dei sinonimi, perché la presenza di sinonimi può rendere
meno chiaro il messaggio, e la ripetizione di uno stesso temine favorisce la messa a fuoco dell’informazione chiave e
la fruibilità del discorso nella sua interezza. Inoltre la Piemontese suggeriva di utilizzare in maniera più parca sigle e
abbreviazioni.

Per quanto riguarda la sintassi si suggeriva di usare frasi brevi, quindi formate da circa 20/25 parole, di prediligere
verbi alla forma attiva e non passiva o impersonale, di scrivere frasi alla forma affermativa, quindi di evitare le doppie
negazioni, ed inoltre di preferire, dove e quando possibile, modi semplici.

Negli anni 2000 abbiamo altre prove e prodotti istituzionali che vogliono favorire e promuovere la semplificazione
del burocratese. L’8 maggio del 2002 il dipartimento per la funzione pubblica pubblicò una prima DIRETTIVA SULLA
SEMPLIFICAZIONE DEL LIGUAGGIO DEI TESTI AMMINISTRATIVI, una direttiva che di fatto si legava al progetto
“Chiaro!”, nel quale si offriva anche alle pubbliche amministrazioni un servizio di assistenza on line per aiutarli nella
redazione più chiara e semplice dei testi amministrativi, ed inoltre nel Manuale di Stile della Piemontese, era
pubblicato un glossario di termini tecnici che viene riproposto nella direttiva del 2002, ed una guida in formato PDF
per l’impaginazione dei documenti burocratici.

Nel 2003 si arriva ad un nuovo manuale il MANUALE DI SCRITTURA AMMINISTRATIVA di Franceschini e Gigli.

Un dato negativo da segnalare invece è quello relativo alla metà degli anni 2000, quando effettivamente le iniziative
in questa direzione si sono fermati, anche a causa del taglio alla spesa pubblica. Questo non vuol dire che si siano
definitamente interrotte., infatti negli ultimi 5/6 anni si è ripresa una strada per la semplificazione del linguaggio
amministrativo, che parte innanzitutto dal mondo accademico, perché gli studi dedicati al burocratese e in
particolare al burocratese 2.0, quello della rete, le app, si stanno lentamente moltiplicando e sorgono nuove
iniziative di collaborazione tra istituzioni e esperti di lingua, proprio in direzione di semplificazione. Un esempio è
quella di un iniziativa editoriale, dell’editore Zanichelli, che è stata coordinata da Massimo Arcangeli, cioè il
DIZIONARIO DELL’ANTI-BUROCRATESE ONLINE, che offre la traduzione di burocratismi incomprensibili, e un
database aggiornato (che trovate nel link slide 6), e che è uno strumento anche al servizio di addetti ai lavori che
volessero modificare la propria scrittura in direzione della trasparenza e maggiore fruibilità.

DIAPOSITIVA 7

“Guerra al burocratese?”

Nonostante i diversi e anche datati strumenti che sono stati realizzati per favorire la semplificazione della lingua
dell’amministrazione, il burocratese vecchia maniera resiste e persiste ancora oggi.

Lo snellimento dell’apparato burocratico che si è cercato e si sta pensando di perseguire attraverso il ricorso alla
comunicazione telematica, alle tecnologie, non è pienamente riuscito anche perché questi nuovi strumenti
continuano ad utilizzare il linguaggio burocratico nella sua forma complessa, oscura e stereotipata che abbiamo fino
ad ora descritto.

Lo svecchiamento degli strumenti tecnologici, o per dirla in maniera semplice la sostituzione della carta con la
comunicazione telematica, non è stata accompagnata da una semplificazione e da uno snellimento della forma
linguistica scelta per comunicare.

Ancora oggi quindi si propone un forte problema di comunicazione della lingua burocratica che è segnalato dalle
istituzioni.

Ho già detto che dalla metà degli anni 2000, gli interventi governativi, legislativi, ministeriali per la semplificazione si
sono affievoliti e ridotti. È vero però che abbiamo un segnale di ripresa di questa lotta al burocratese che viene dalla
ministra Fabiana Dadone che propone oggi una collaborazione con l’Accademia della Crusca proprio per cercare di
semplificare e di rendere più trasparente il linguaggio amministrativo.

Questa immagine viene dal numero del 19 Marzo 2020 della rivista Oggi, una rivista nazional popolare tutt’altro che
accademica, che parla proprio di questo impegno promesso dalla ministra verso la semplificazione del burocratese.

Leggendo l’articolo, l’attenzione sembra prevalentemente essere dedicata ancora al lessico, infatti vedete elencate in
alto a destra alcune parole che vengono definite in via di sparizione perché nel mirino alla lotta del burocratese.
Abbiamo quindi notificare per trasmettere, mendace per falso, prendere visione per vedere, quindi l’attenzione
sembra sempre focalizzata sul gusto per la voce aulica o per la locuzione sovrabbondante tipica della lingua
burocratica, quando in realtà l’intervento dovrebbe essere anche molto più deciso nei campi della sintassi e della
testualità.

Ad ogni modo, possiamo chiederci come mai ancora oggi, nel 2020, si debba parlare di semplificazione quando è
dagli anni ‘90 che si sono prodotti strumenti in questa direzione.
Perché quindi il burocratese resiste e si mantiene così attanagliato ai propri tratti linguistici di conservatività,
ampollosità, complessità?

Le ragioni macroscopiche sono da rintracciare innanzitutto nell’abitudine; l’apparato di burocrati è stato formato in
questo modo da un punto di vista linguistico, quindi rivedere completamente le proprie abitudini linguistiche è
un’operazione che richiede lungo tempo ma che richiede anche poi disponibilità ad accogliere i suggerimenti per la
semplificazione e non sempre esiste questa disponibilità perché questa varietà linguistica viene vista come una
varietà prestigiosa. La sua complessità, il suo essere dominato da tratti linguistici non comuni viene visto come un
segnale di prestigio e di autorevolezza.

Il fatto che le amministrazioni debbano comunicare in modo autorevole con i cittadini è forse il primo aspetto da
dover modificare, da sradicare per poter favorire una vera semplificazione linguistica.

Le amministrazioni dovrebbero quindi capire che il loro primo scopo non è quello di risultare autorevoli e quindi
distaccarsi anche linguisticamente dai cittadini, ma il loro primo scopo è quello di comunicare chiaramente delle
informazioni necessarie ed imprescindibili per la vita sociale e cittadina.

DIAPOSITIVA 8

ESEMPIO DI RISCRITTURA

Per concludere, ecco un esempio di riscrittura di un testo burocratico che è stato realizzato da una studentessa di
mediazione nel laboratorio professionalizzante dedicato alla semplificazione del linguaggio amministrativo.

Questa riscrittura riguarda, o meglio si concentra su una mail relativa allo stato della domanda per la richiesta di
cittadinanza e che è stata inviata alla studentessa dalla prefettura di Milano.

Riscrivere un teso burocratico è un’operazione che richiede una cerca complessità.

In questa slide (numero 8) vedete il testo originale che presenta tutte le caratteristiche dell’italiano burocratico
elencate in questa lezione e nella slide successiva (numero 9) vedete il tentativo di semplificazione messo in atto in
maniera efficace dalla studentessa.

Sintetizzando in maniera sommaria gli interventi di riscrittura, notiamo che i rimandi legislativi che interrompevano il
discorso nel messaggio originale vengono posti dalla studentessa alla fine del testo perché non possono essere
eliminati, ma così facendo evita che interrompano il discorso.

Un tecnicismo tipico dell’italiano burocratico, cioè istante che deriva da istanza, non potendo essere eliminato
perché questi non è un tecnicismo collaterale, ma è un tecnicismo in senso stretto della burocrazia, viene però
glossato con richiedente.

Viene ridotta l’ipotassi; si cerca quindi di prediligere periodi più brevi e coordinati e vengono introdotti nella
riscrittura alcuni strumenti para testuali che possono migliorare la leggibilità del testo e rendere più semplice il
reperimento delle informazioni necessarie.

Per esempio vengono introdotti in grassetto e un elenco puntato che ha la capacità di isolare in maniera più evidente
alcune informazioni cruciali.

La studentessa che ha proposto questo testo per la riscrittura è ipovedente e quindi fa uso di uno screen reader
quindi di uno strumento di lettura tecnologica e mi ha chiarito che per persone con la sua disabilità, la
semplificazione del linguaggio amministrativo sarebbe ancor più necessaria perché lo screen reader che lei usa legge
in sequenza lineare tutto ciò che appare nel messaggio per cui se ad esempio una persona normodotata potrebbe
tranquillamente saltare i rimandi legislativi perché sa che quelli sono riferimenti obbligati ma non necessari per la
comprensione del testo, una persona con disabilità visiva che ha esigenza di affidarsi ad uno screen reader non
potrebbe farlo.
Per capire fino in fondo il contenuto di questa mail, ha dovuto leggerla più e più volte perché il raggiungimento delle
informazioni necessarie era fortemente rallentato dalla lettura di ogni singolo elemento presente nel messaggio,
comprese quindi le note, le date e i riferimenti ai vari articoli legislativi.

Semplificare è quindi oltremodo necessario anche pensando a questi utenti più deboli della comunicazione, fra i
quali potremmo anche includere stranieri dotati di una conoscenza dell’italiano non piena e per i quali potrebbe
essere particolarmente ostico lo scioglimento di sigle che per un italiano sono del tutto trasparenti, come quella che
trovate in questa mail S.V. che gli italiani riconducono immediatamente a Signoria Vostra, ma che non è detto risulti
così decifrabile e chiara da parte di uno straniero.

La diastratia

Slide 2 – Diastratia

Iniziamo questa lezione sulla diastratia dando una prima, generica definizione del termine. Definiamo diastratia
l’insieme delle varietà della lingua italiana che dipendono dalla condizione socio-economica e culturale del parlante o
dello scrivente. Queste varietà si collocano dunque sull’asse diastratico. Ne vediamo una rappresentazione grafica in
questo schema che vedete rappresentare l’architettura dell’italiano contemporaneo e che considera l’asse
diastratico insieme a quelli diamesico e diafasico.

Vedete che ha un polo basso, il polo della varietà degli incolti e un polo alto, ovviamente, quello dei colti. Tutto
questo schema, questa architettura si rifà, ovviamente, agli studi di Berruto sulla sociolinguistica.

Notiamo una cosa interessante: questo asse procede verticalmente a metà di quello diamesico. Mentre se guardate
quello diafasico, il polo basso tende verso il parlato e se si tenta di elevare, di usare le varietà più alte che si
collocano su questo asse, ci si sposta inevitabilmente verso lo scritto; per l’asse diastratico non ci si discosta, si
rimane equidistanti tra scritto e parlato. Ciò vuol dire che tutte le varietà che si collocano su quest’asse possono
coinvolgere indifferentemente la lingua parlata e la lingua scritta.

Slide 3 – Diastratia, livello basso

Iniziamo dunque a occuparci dei livelli più bassi, delle varietà più basse che si collocano sull’asse diastratico, quindi
verso il polo degli incolti.

Iniziamo guardando questo breve video di un celebre film comico “Totò, Peppino e la.... malafemmina” in cui i due
protagonisti semicolti, originari di un piccolo paese di provincia sono alle prese con la scrittura di una lettera e quindi
con la necessità di elevare il loro italiano, di adottare degli stilemi, delle formule anche burocratiche che nel
linguaggio epistolare sono abituali ma che essi non padroneggiano a dovere.

https://www.youtube.com/watch?v=SzrEfkjdzgw
Ovviamente questo non è un esempio, diciamo, attendibile di varietà reale, è una parodia, è a schema comico però ci
può servire per introdurci alla questione.

La varietà che si colloca sui livelli più bassi dell’asse diastratico è definita italiano popolare. Sono state date di questa
varietà linguistica diverse definizioni e si è tentato di dare una descrizione, di definirlo in diverse fasi della storia
linguistica italiana.

Tra i primi che ha provato a definire l’italiano popolare c’è sicuramente Tullio De Mauro che lo ha così definito: è il
modo di esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che
ottimisticamente si chiama la lingua ‘nazionale’, l’italiano. Quindi è una persona che non ha approfondito, non ha
studiato, è incolto, potrebbe anche essere semianalfabeta, o addirittura analfabeta, anche se oggi la percentuale di
analfabeti totali è molto bassa che tenta, però, con l’esigenza di comunicare in italiano, di alzarsi dal dialetto – lo
diciamo subito – e di utilizzare un italiano nazionale che però non è tale, che però manifesta diversi elementi non
standard e nemmeno neostandard.

Slide 4 – Diastratia

Ecco, altre definizioni che ci aiutano a circoscrivere ulteriormente e a comprendere il concetto.

Sono quella di Cortelazzo che nel 1972 definisce l’italiano popolare come “il tipo di italiano imperfettamente
acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto”. Qui si nomina esplicitamente il dialetto. Il dialetto non fa parte
ovviamente delle varietà dell’italiano, è un codice linguistico diverso dalla lingua italiana, ma influenza l’uso
dell’italiano, soprattutto nei livelli bassi in diafasia e in diastratia, come è proprio il caso dell’italiano popolare.
Diciamo che ha un’influenza sulla lingua italiana di substrato, potremmo dire. Le influenze del dialetto si manifestano
nel modo con cui si articola l’italiano popolare che però è un fenomeno nazionale, quindi, sebbene sia influenzato
dai diversi dialetti presenti sul suolo italiano, è tuttavia una varietà che ha alcune caratteristiche unitarie, panitaliane.

Un'altra definizione su cui concordano Bruni e D’Achille è “l’italiano dei semicolti”. Qui, in modo molto sintetico, si
rimarca la condizione socio-economica e soprattutto culturale di chi parla, articola questa particolare varietà
linguistica.

Dicevano appunto che c’è un sostrato dei dialetti ma ci sono alcuni elementi pan italiani. Si è parlato per lungo
tempo nella descrizione di questa varietà di italiano popolare unitario. Ultimamente gli studi tendono a sminuire
questa componente unitaria, tendono a rilevare come i diversi dialetti diano dei rapporti all’italiano popolare diversi
da zona a zona. Quindi, oltre a una caratterizzazione diastratica, c’è necessariamente una componente diatopica.
Ovviamente, più si scende nei livelli diastratici più emergono i localismi, le influenze dell’italiano regionale. Ci sono
contiguità con gli italiani regionali.

Tuttavia, l’italiano popolare è una varietà, diciamo, nazionale con delle macchie diatopiche che emergono a seconda
del dialetto di partenza.

Slide 5 – Diastratia

Lo stesso Berruto definisce l’italiano popolare come “quell’insieme di usi frequentemente ricorrenti nel parlare e
(quando sia il caso) nello scrivere di persone non istruite e che per lo più nella vita quotidiana usano il dialetto,
caratterizzati da numerose devianze rispetto a quanto previsto dall’italiano standard normativo”. Tutto lascia
supporre che il dialetto influenzi e dia delle caratterizzazioni a queste devianze rispetto allo standard. Cioè quando si
scende, quando si adottano soluzioni substandard, sotto il livello standard, emergono – come dicevamo prima –
parallelamente dal punto di vista diatopico, delle differenziazioni.

Però, dicevamo che ci sono delle linee, delle caratteristiche pan italiane che poi vedremo. L'italiano popolare non
coincide con l’italiano regionale, se non foss’altro per il fatto che corrisponde a un tentativo di innalzare la lingua,
nella finalità del parlante, dello scrivente c’è quello di parlare l’italiano nazionale, quello di innalzare il registro, come
vedevamo prima in modo comico nella lettera. C'è la finalità di appropriarsi di una lingua unitaria che si percepisce,
dal punto di vista del parlante, come diversa dal dialetto e diversa dall’italiano regionale e inevitabilmente continua a
manifestarne alcune macchie, alcune componenti.
In ultimo la definizione, anzi, gli studi di Cortelazzo, molto più recenti. Paiono accennare al fatto che nel repertorio
dell’italiano contemporaneo, a differenza di quello del passato dell’Italia post-unitaria, del boom economico,
l’italiano popolare sarebbe uscito dal repertorio, o meglio, la presenza di un vero e proprio italiano popolare oggi
andrebbe verificata, registrata con uno spoglio di testi contemporanei. Sembra che sia scomparso o meno,
comunque è certo si sia andato riducendo progressivamente negli anni, in corrispondenza con l’aumento della
scolarizzazione di massa, con l’aumento della circolazione delle informazioni, con l’aumento della fruizione della
lingua italiana attraverso televisione, internet, giornali.

È sempre più ristretta la cerchia degli analfabeti, come dicevamo prima, dei semianalfabeti e di coloro che hanno per
madrelingua il dialetto. Di conseguenza anche l’italiano popolare, che è il tentativo da parte di costoro di parlare la
lingua nazionale a livelli più alti, questa presenza sembra numericamente sempre più esigua [ha riformulato la frase
così.. Non volevo parafrasarla a modo mio].

Slide 6 – Diastratia

Nonostante l’esiguità, nonostante il numero dei parlanti l’italiano popolare o degli scriventi l’italiano popolare si
vada riducendo, si può comunque tracciare una sua approssimativa dimensione con questi numeri.

È usato dal 2% della popolazione che è ancora analfabeta, gli incolti. Poi da una percentuale molto più difficile da
contare di semicolti, cioè di persone che hanno l’istruzione di base ma non hanno acquisito la piena consapevolezza
della lingua italiana; magari sono soggetti a fenomeni come quello dell’analfabetismo di ritorno, avendo studiato e
non essendo analfabeti ma la lunga inattività può averne compromesso la conoscenza della lingua – la conoscenza o
la corretta pratica della lingua. Quindi emergono tratti caratteristici dell’italiano popolare e\o dell’italiano regionale
quando tentano di alzare il livello e avvicinarsi al polo dello standard o del burocratico.

Slide 7 – Diastratia

Vediamo adesso alcune caratteristiche linguistiche dell’italiano popolare, non prima di aver esaminato due tra i molti
esempi possibili che abbiamo documentati di questa varietà linguistica.

Il primo è quello di una lettera, scritta il 13 aprile 1931 con la quale una donna chiede la liberazione del marito
prigioniero di guerra, a Fiume. In questo caso vediamo alcuni fenomeni.

 Uso del che polivalente: Io povera moglie, madre di 4 creature che qui mi ritrovo.
 Scempiamento consonantico, probabilmente frutto dell’influenza delle varietà regionali: tutti i mezzi
necessari senza nesuno aiuto.
 Resa per iscritto di una fonologia non standard: patise per patisce.
 Non viene percepita l’enclisi pronominale in vedermi, il pronome viene accorpato alla parola successiva che
viene percepita come mivicine – vicine a me: Io sofro a veder mivicine.
 Scempiamento consonantico, che è tipico di tutte le parlate dell’Italia del Nord e che si trasferisce nello
scritto proprio come tratto caratteristico della varietà dell’italiano popolare: mendicare un pezo di pane.
 Sotto però si utilizzano epiteti dell’italiano burocratico: Ora mi rivolgo a lei Sua Eccelenza. Nell'utilizzare
l’appellativo Sua Eccellenza c’è uno scempiamento consonantico substandard, influenzato dalla parlata
settentrionale.

Una prima analisi sommaria ci fa vedere un po’ tutte queste caratteristiche.

Vediamo un secondo esempio.

Slide 8 – Diastratia

Anche qui una lettera simile, questa volta del 1942: una donna chiede la liberazione del marito rimasto invalido però,
di guerra che quindi non potrà lavorare, sempre dalla città di fiume. Il marito è internato in un campo di prigionia in
provincia di Parma.
 3 (tre): Il numero tre viene scritto sia in numero che in lettere. Questo può essere un retaggio del tentativo di
utilizzare una lingua burocratica.
 E non c’è lo aiuto di nessuno: sarebbe meglio mettere l’ellissi, l’aiuto di nessuno.
 È chiaro l’intento di utilizzare una lingua burocratica e quindi di innalzare, di esprimersi in italiano nazionale,
anche di livello alto: Perciò prego l’Onor. Ecc. se è in qualche modo possibile lasciare in libertà il mio marito.
C'è anche un uso dell’articolo substandard: non ci vorrebbe il determinativo con i possessivi + nome di
parentela.
 Il quale potrà custodire i nostri piccoli bambini e la casa (perchè è inabile per lavoro): si utilizza una parola del
linguaggio burocratico, inabile, ma poi la si usa, la si colloca in un’espressione che è substandard. È inabile al
lavoro si dovrebbe dire, o se vogliamo glossare sarebbe accettabile anche inabile per il lavoro. Ma
certamente è inabile per lavoro è un’espressione dell’italiano popolare.

Ma è interessante notare che differentemente dal normale italiano regionale, qui, il tentativo è quello di parlare un
italiano burocratico, quindi una lingua nazionale di livello alto, ci si rivolge a delle autorità anche con degli scopi
comunicativi piuttosto delicati: si si scrive ad un’autorità affinché venga rilasciato il marito che si occupi dei figli. È
quindi una lettera, immaginiamo, ponderata. Non è italiano regionale tout court, ma è un italiano che vorrebbe
essere elevato, burocratico, vorrebbe essere in grado di interloquire con le autorità civili e politiche del tempo, ma
lascia trasparire delle macchie collocate anche in diatopia. Ma si differenzia proprio in questo dal semplice italiano
regionale.

Slide 9 – Diastratia

Passiamo adesso ad un’analisi sintetica, ad un breve compendio dei fenomeni, dei tratti linguistici comuni all’italiano
popolare, comune allo scritto e al parlato dell’italiano popolare a iniziare dal livello fonologico.

 Sono frequenti gli errori nell’accentazione, quindi ovviamente ci riferiamo all’italiano popolare parlato, ad
esempio: persuàdere in luogo di persuadére; centrifùga in luogo di centrìfuga. Ciò avviene, ovviamente, a
maggior ragione e con maggior frequenza, quando il parlante, nel tentativo di innalzare il livello del proprio
parlato e per farlo aderire nei suoi progetti ad un italiano standard o addirittura ad un italiano burocratico,
seleziona parole non più di alta frequenza ma per lui sconosciute, parole magari tecniche, parole
burocratiche, parole che magari non ha mai sentito pronunciare e quindi, quando vuole usarle non
conoscendone la corretta pronuncia, quando le pronuncia le pronuncia in maniera scorretta.
 Altro fenomeno, questa volta che compare nello scritto è la semplificazione di nessi consonantici complessi.
Abbiamo già visto nelle due lettere citate prima, di due donne di Fiume in tempo di guerra, lo scempiamento
consonantico, la scrittura che riprende la pronuncia dell’Italia centro-settentrionale.
Oppure pissicologo, quindi l’inserimento di una i che semplifica il nesso ps nell’Italia centro-meridionale.
 Sono frequenti ipercorrettismi: il parlante, sapendo che nel proprio dialetto, per esempio al Nord c’è la
tendenza di scempiare le consonanti, nel momento in cui si trova a scrivere in italiano popolare può trovarsi
nel dubbio di dover correggere questo tratto anche dove non è necessario, quindi raddoppiare alcune
consonanti che invece in italiano standard non erano doppie: ad esempio baccio per bacio. È talmente forte
l’abitudine a scempiare la consonante che lo scrivente si chiede in questo caso se la consonante singola sia
frutto di questo uso settentrionale e non un tratto dell’italiano standard, come è.
 Assimilazioni e/o delle consonanti nasali: fidazzata per fidanzata e sepre per sempre.

Slide 10 – Diastratia

Per quanto riguarda l’italiano popolare scritto sono ovviamente molto frequenti errori di ortografia:

 I più numerosi sono quelli relativi all’uso della h, soprattutto nel verbo avere compare “a” senza h; oppure
altre parole ance per anche. Oppure anche un ipercorrettismo: l’inserimento della h dove non sarebbe
necessaria, nel tentativo di correggere, nel dubbio che ciò che si sia scritto fosse sbagliato – come abbiamo
visto anche prima con lo scempiamento delle consonanti – in parole che sbagliate non erano, chome con ch,
quando invece, nell’italiano standard, nell’italiano normale è senza.
 Digrammi e trigrammi semplificati: molie in luogo di moglie, acua in luogo di acqua, con solo c anziché con
cq. Anche qui degli ipercorrettismi, quando nello scrivente viene il dubbio di aver semplificato e quindi sente
il bisogno di correggere un suo frequente errore, a volte questa correzione avviene anche in parole dove non
sarebbe necessaria: oglio con gl invece del semplice olio, senza il trigramma gl.
 Altro fenomeno è estensione della q in luogo della velare c: qucina con q e squola con q.

Slide 11 – Diastratia

Infine, dal punto di vista dell’ortografia, qui l’inventario è molto ampio, l’esemplificazione sarebbe molto ampia.
Accontentiamoci di dire sinteticamente un uso dei segni di punteggiatura totalmente non standard, totalmente
substandard: o segni di punteggiatura assenti o usati a sproposito.

Le virgole magari tra soggetto e predicato; punti assenti; apostrofi dove non dovrebbero esserci, magari davanti ai
nomi femminili, oppure usati dove non dovrebbero esserci; accenti messi o non messi. Insomma, un uso totalmente
libero e substandard di tutti questi segni di punteggiatura.

Slide 12 – Diastratia

Per passare all’aspetto morfologico, i tratti che caratterizano il parlato o lo scritto popolare sono i seguenti:

 La tendenza a regolarizzare i paradigmi nominali e aggettivali con il criterio di facilitazione linguistica, per
conguagliarli tutti ad un unico paradigma più facile, percepito come più immediato. Per lo più si adotta la
desinenza maschile –o al singolare e in –i al plurale quindi l’agento al posto de l’agente, gli auti per gli
autobus, grando e non grande, quindi anche gli aggettivi di seconda classe vengono conguagliati alle
desinenze di quella prima con –o e –a per maschile e femminile singolare, -i ed –e per maschile e femminile
plurale. Allo stesso modo si dice la moglia anziché la moglie, le cimice anziché le cimici perché è percepito
come un nome femminile e la inglesa anziché l’inglese.
 Gli scambi fra aggettivi ed avverbi, più frequente l’utilizzo dell’aggettivo al posto dell’avverbio ma anche
l’inverso. Si sente dire il posto meglio anziché dire il posto migliore, in questo caso si utilizza l’avverbio in
luogo dell’aggettivo; oppure guidare veloce al posto di guidare velocemente, in questo all’inverso viene
posto l’aggettivo anziché l’avverbio; è tanta buona anziché è tanto buona, qui può essere entrambi i
fenomeni: o l’uso dell’aggettivo al posto dell’avverbio oppure l’utilizzo della desinenza –a per regolarizzare il
paradigma. In ogni caso l’esito è quello.
 Il rafforzamento analitico di comparativi e superlativi sintetici: superlativi che già in sé non avrebbero
bisogno di rafforzamenti perché sono appunto superlativi già di per sé, ma che si sente il bisogno di
rafforzare. Ad esempio: più migliore o più meglio o ancora, molto ottimo.

Slide 13 – Diastratia

Altri fenomeni che interessano il parlato più spesso, ma a volte anche lo scritto popolare riguardano i clitici. In
particolare, si assiste a una sovraestensione del clitico ci usato in forma di dativo.

Sovraesteso significa un uso dove normalmente sarebbe previsto dall’italiano standard qualche altro critico, quindi il
ci viene esteso anche in situazioni che non richiederebbero la sua presenza.

Il clitico ci assume, di conseguenza, il valore sia di a lui sia il valore di a lei. A volte viene usato anche come allocutivo
di cortesia al posto di a lei. A volte in luogo anche del dativo plurale, cioè a loro.

Alcuni esempi.

Ci do un bacio potrebbe voler dire sia, il ci potrebbe essere usato sia per dire gli do un bacio, do un bacio a lui, sia per
dire do un bacio a lei, le do un bacio, sia per dire do un bacio a loro, do loro un bacio.

In questo secondo esempio è usato come enclitico: posso dirci una cosa? allo stesso modo potrebbe dire sia a lui, a
lei, dire a loro. Viene esteso al di là dei suoi usi consueti il ci con valore dativo.

Questo uso sembra marcato in diatopia, o come settentrionale o come meridionale, c’è in tutte e due le macroaree.
Al Centro, invece, si generalizza un uso sovraesteso di gli, come avviene in genere nel parlato pan italiano.
A volte, però, viene sovraesteso il le anche al maschile: ho incontrato tuo zio e le ho ridato i soldi, qui si capisce, come
concordanza ha senso se vogliamo come intenzionalità del testo, ci si riferisce allo zio, però appunto il le femminile
viene sovraesteso in luogo del maschile o per ipercorrettismo, o per influsso dell’allocutivo di cortesia – come
allocutivo di cortesia si utilizza il lei e quindi potrebbe essere per analogia questo uso dell’allocutivo di cortesia.

A volte abbiamo anche sequenze di clitici in ordine contrario a quello standard: non si ci vede al posto di non ci si
vede. È un altro tratto comune all’italiano popolare.

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Ancora dal punto di vista morfologico l’uso del possessivo “suo” viene anche esteso per la terza persona plurale e
non solo per quella singolare, invece di “loro”. Anche in locuzioni come suo di lui e suo di loro si può avvertire. Nel
sistema verbale vengono frequentemente scambiati gli ausiliari di verbi attivi in rapporto ai diversi sostrati dialettali
(a volte si dice ho rimasto al posto di sono rimasto; sono mangiato al posto di ho mangiato; vi avete sbagliato al
posto di vi siete sbagliati).

E ovvio che l’uso di questi verbi ausiliari o essere in luogo di avere; o avere in luogo di essere corrispondi ad
un’influenza del dialetto. Quindi non si può fare un discorso uguale per tutte le macro aree italiane, ma certamente il
fenomeno è panitaliano.

La presenza per quanto riguarda l’uso dei verbi di forme improprie “analogiche”, specie nel congiuntivo ( potiamo al
posto di «possiamo»; vadi al posto di «vada», facci al posto di «faccia», stasse al posto di «stesse»). Tutte queste
forme si giustificano in analogia con altre voci verbali e l’obiettivo è quello che abbiamo già visto per altre categorie
morfologiche, è quello di semplificare la varietà di forme che per il parlante incolto o semicolto possono sembrare
troppo complesse. Non serve ricordare la celebra parodia del vadi Fantozziana , ed è proprio di quell’uso da parte di
un certo funzionario medio di una lingua burocratica, che non padroneggia pienamente, e quindi come in questo
caso Fantozzi può sbagliare i congiuntivi, può incorrere in errori anche grossolani . A volte anche analogie nell’uso del
participio passato ( faciuto al posto di fatto) sempre come semplificazione nei morfemi e nelle desinenze di un
paradigma che il parlante incolto o semicolto avverte come troppo complesso. E quindi anche genericamente una
riduzione dei tempi e dei modi che però quest’ultima ,va detto, è sempre meno un fenomeno dell’italiano popolare,
sta sempre più passando a un fenomeno del neostandard o dell’italiano colloquiale; sta varcando la linea del
substandard per diventare accettabile. Molti tempi e molti modi per lo meno nel parlato non sono più usati secondo
la regola standard.

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Anche a livello sintattico l’italiano popolare presenta alcuni tratti caratteristici, diciamo panitaliani, anche se poi
magari hanno alcune differenti manifestazioni in zone diverse. Ad esempio un tratto panitaliano è l’estensione delle
concordanze a senso (la gente applaudivano, il nome è grammaticalmente singolare anche se allude a un referente
che comprende una pluralità di persone, e quindi il parlante incolto e semicolto gli fa concordare un verbo al plurale
o anche qualche uomini, aggettivo singolare e sostantivo plurale). Ancora a livello sintattico la ripetizione del clitico
nella perifrasi con i verbi modali (ti devo dirti o ti posso dirti o ti voglio dirti con il doppio clitico). Ancora costrutti
particolari come il periodo ipotetico col doppio condizionale ( se saresti tu al posto mio ,faresti la stessa cosa; o col
doppio imperfetto congiuntivo se potessi , lo facessi ). In realtà sono diversamente distribuiti nelle varie aree
ovviamente ,abbiamo già accennato, in relazione alle differenti influssi dialettali però diciamo che è un fenomeno
che in generale si manifesta abbastanza costantemente.

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Ancora sempre in ambito sintattico nella preposizione relativa non c’è soltanto la sistematica adozione del che
polivalente, che è un costrutto il più regolare, il più facile possibile e quindi usato da semicolto e da incolto per
semplificare, è molto diffusa anche nel parlato;
ma anche la sovraestensione di dove, anche i luoghi in cui sintatticamente, in condizione sintattica in cui non sarebbe
corretto ( il giorno dove mi sono sposata al posto di il giorno in cui mi sono sposata). Ancora la commistione del
modello analitico con quello sintetico (ho ricevuto la lettera che – e questo sarebbe il modello sintetico; con la quale-
sarebbe il modello analitico mi dici che stai bene). Ecco l’uso contemporaneo del pronome sintetico che e il pronome
analitico il quale/la quale/i quali/le quali. Ancora l’uso della quale non proceduto da preposizione (la tua lettera la
quale mi sono rallegrato, la tua lettera della quale mi sono rallegrato si dovrebbe dire o per la quale, invece la quale
viene usato senza preposizione). Anche invece viene usata la quale in luogo del che pronome e talvolta persino
congiunzione (capisco la quale stai bene, questo è un tratto molto connotato in ambito substandard; in questo caso
la quale sostituisce non il che relativo ,e già sarebbe un tratto standard tipico dell’italiano popolare, ma addirittura la
congiunzione che; capisco che stai bene, non si tratta in questo caso di un che relativo, ma nella coscienza o presunta
tale del parlante incolto o semicolto la sostituzione è ammissibile.

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Infine ancora a proposito dei clitici oltre alle sistematiche riprese clitiche degli elementi dislocati a sinistra del tipo a
me mi piace, che magari nel parlato diventano accettabili se l’elemento dislocato, l’elemento messo in posizione di
tema è il complemento diretto, ma come in questo caso, quando essere dislocato è il dativo ,la forma della
dislocazione a sinistra diventa substandard ,e quindi tipica dell’italiano popolare. Va segnalata anche la frequenza
delle frasi con tema sospeso.

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Ecco dal punto di vista del lessico il fenomeno forse più frequente quello più caratterizzante dell’italiano popolare è
l’uso dei cosiddetti malapropismi. Malapropismo dal ”malapropera”, un personaggio della commedia francese,
consiste nell’uso di parole storpiate sul piano del significante, mediante accostamento a parole diverse appunto
assonanti a quelle che vengono usate al malapropismo per paretimologia, cioè la parola che si vorrebbe usare di una
etimologia particolarmente complessa, a volte oscura al parlante semicolto il quale seleziona tra le parole a sua
disposizione un’altra che di diverse etimologie della prima e tuttavia assonante ad essa come significante. La
sostituzione crea effetti stranianti, a volte anche comici ( celebre al posto di “celibe”, debellare al posto di
“cancellare”, fibrone al posto di “fibroma”, rimboccare al posto di “rabboccare”, altrite al posto di “artrite”,
sodomizzare al posto di “somatizzare”, fragrante al posto di “flagrante”). Particolarmente frequenti i malapropismi
sono con i nomi propri perché nella percezione del nome proprio il parlante semicolto non ha una parola di alta
frequenza corrispondente e per la stessa ragione sono frequenti con le parole straniere. Manca al parlante incolto e
semicolto la conoscenza adeguata della lingua straniera, ancor più viene da dire che della lingua italiana , e quindi i
fenomeni di scambi di malapropismi di accostamenti di parole soltanto assonanti per paretimologia e anche più
frequente (tic per “ticket”).

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Ecco un inventario di malapropismi che sono realmente occorsi in un ospedale di Reggio Emilia da uno studio del
1998.

- Vorrei la cassa del tic al posto della “cassa del ticket”


- Vorrei parlare con la lunga decenza anziché “degenza”
- Mi passa dove fanno le visite per la prostituta al posto di “prostata”
- Vorrei parlare con un decente al posto di un “degente”
- Vorrei fare un’ecologia alla mammella al posto di “ un’ecografia”

Visti così sembrano frasi comiche prese proprio da un film, non è così. Qui sono ovviamente accostate insieme e
l’effetto è straniante, ma una volta ogni tanto può capitare una telefonata a un centralino che manifesta questi tratti
linguistici. Non ci sembra più così strana, così comica la lettera che Totò e Peppino scrivevano da dover destinare alla
malafemmina in quel celebre film in quel celebre spezzone che abbiamo visto all’inizio, l’effetto comico è simile.

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Ancora a livello lessicale tratti dell’italiano popolare possono occorrere nella neoformazione, ossia nella formazione
delle parole nuove mediante suffissazione o affissazione , vediamone alcuni fenomeni tipici.

Lo scambio dei suffissi (discrezionalità al posto di “discrezione”) o a volte i prefissi (indispiacente al posto di
“dispiaciuto”), a volte le parole che vengono prodotte con suffisso zero anziché l’analogo con un suffisso invece
presente, e quindi la sottrazione di suffisso ( a volte si dice il prolungo al posto del “prolungamento”, la spiega al
posto della “spiegazione”) quindi parole con suffisso zero o con sottrazione di suffisso invece dello standard in cui
suffisso compare. Ancora la presenza di morfemi aggiuntivi (i tranquillizzanti al posto di “tranquillanti”).

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Ecco ancora a livello lessicale l’uso di popolarismi espressivi (botta, botto, macello) e questo uso in realtà comune
all’uso gergale, molte di queste parole sono in comune per esempio con il gergo giovanile e però sono anche
macchie di italiano popolare quando vengono utilizzate a un livello alto non giustificabile rispetto alle intenzioni
comunicative.

E ancora la preferenza per strutture lessicali di tipo analitico, quindi (fare sangue al posto di “sanguinare” rispetto a
voci sintetiche oppure malato al cervello al posto di “pazzo” quindi l’utilizzo di più parole di più lessemi per
esprimere un unico concetto per il quale si potrebbe utilizzare un’unica parola).

E in ultimo ricorso questo forse è più normale, più comprensibile – ricorso a dialettismi per riempire “vuoti” (vuoti di
conoscenza, vuoti di consapevolezza da parte del parlante dialettofono) nonché i documenti di emigranti fenomeni
di interferenza con la lingua locale; qui parleremo in modo più specifico della lingua italiana parlata e scritta da
stranieri però a volte è anche una traccia di italiano popolare dove anziché il dialetto, l’influenza è data dalla lingua
uno, cioè dalla lingua straniera parlata come madrelingua della persona che attualmente sta parlando l’italiano in
maniera imperfetta.

Slide 22

Concludiamo con un esempio quasi contemporaneo come si vede è datato il primo marzo 2017, è un “corricolo vita”
come dice già l’intestazione, che già di per sé è un malapropismo per il latino curriculum vitae, e lo analizziamo
puntualmente nella slide successiva, lo leggete.

Slide 23

Ecco innanzitutto notiamo alcune forme burocratiche tipiche di scrittura di curriculum che noi di solito mandiamo in
giro. Io sottoscritto, e poi in fondo ,esprimo il mio consenso ecc. Sono le forme comuni a questo tipo di scrittura ma
che testimoniano l’intenzione da parte dello scrivente di esprimersi in una lingua elevata alta, quella adatta a uno
strumento che ha una certa formalità e che serve per cercare e ottenere il lavoro. Per cui è chiara l’intenzione
comunicativa di questo scrivente di non esprimersi nel suo dialetto, ne tanto meno nel suo italiano regionale o
colloquiale, c’era chiara intenzione di elevare il linguaggio a livelli burocratici o comunque formali della lingua, quelli
necessari per un normale curriculum vitae. Ci sono altre spie di questa intenzione comunicativa, altre forme di
italiano di livello diafasico alto o medio-alto non strettamente burocratismi ,che però lasciano intendere quella
intenzione comunicativa di innalzare il registro: residente, poi possiedo anziché il semplice verbo “avere”, anziché
“ho”. Scrivere possiedo per tentare di innalzare il livello, non è se vogliamo vero e proprio tecnicismo collaterale
però è sicuramente la spia di una certa formalità che l’emittente tende a dare al suo scritto. A fronte di questo
tentativo però ci sono moltissimi tratti popolari . Il primo periodo ipotetico: se vogliate vi faccio da autista, la protasi
con il congiuntivo e la apotosi con l ‘indicativo. Quindi sarebbe stato necessario o il doppio indicativo se il periodo
ipotetico della realtà: se volete vi faccio da autista, ma meglio ancora in uno scritto formale: se voleste di farei da
autista.

Poi l ‘utilizzo di una congiunzione di non elevata frequenza “qualora” però con la grafia scorretta (quallora) con
raddoppiamento consonantico. In più qualora normalmente nell’italiano standard regge il congiuntivo; in questo
caso viene fatto seguire da un verbo all’indicativo “quallora mi assumete”.
Ancora è tutto scritto il curriculum a mano chiaramente e in stampatello, in stampato maiuscolo però alcune lettere
iniziali vengono scritte più grandi delle altre a testimoniare l’uso, la volontà di utilizzare la lettera maiuscola che già
non sarebbe in sè regolare nello stampato maiuscolo per cui tutte le lettere sono maiuscole. Ma oltre a questo l’uso
della maiuscola, l’intenzione di scrivere come maiuscole alcune lettere è del tutto casuale, non corrisponde a un uso
corretto standard della maiuscola.

Ancora ci sono accenti non regolari, quindi problema di ortografia, per esempio (sò guidare) e poi grafia non corretta
delle parole straniere (Plaistascion, marketting). E in fine malapropismi preposto ai ruoli di comando anziché
predisposto ai ruoli di comando, le due parole sono assonanti ma hanno un significato e degli usi totalmente
differenti.

Slide 24

Concluso il discordo sull’italiano popolare e sui livelli bassi di diastratia, non ci soffermiamo su quelli più alti, perché
ovviamente mammano che si sale sull’asse diastratico si arriva a toccare le varietà dell’italiano come quello standard,
e prima ancora quello neostandard, quello colloquiale, poi quello standard, quello burocratico che non hanno qui
bisogno di particolare spiegazioni supplementare rispetto a quello che già è stato fatto nelle lezioni precedenti.
Diciamo che più si sa sull’asse diastratico e meno emergono i tratti che vadano al di fuori dello standard ovviamente.
Ci si riconosce nell’italiano standard senza bisogno di alcuni altri approfondimenti.

Accenniamo invece a una varietà dell’italiano, un particolare che non ha a che fare con l’italiano popolare. A volte si
colloca sui livelli bassi della lingua italiana anche dal punto di vista diastratico ma a volte no; è una varietà che
possiamo descrivere, riconoscere soprattutto negli ultimi decenni e che ovviamente è connessa in particolare con
l’aumento del flusso immigratorio all’interno del nostro paese ed è l’italiano parlato dagli stranieri, cioè da persone
che per madrelingua non hanno la lingua italiana ma hanno una lingua straniera. Se vogliamo hanno questo in
comune con l’italiano popolare: è la lingua italiana parlata da chi per madrelingua non è italofono, però dette questo
le analogie con l’italiano popolare si fermano qui.

Intanto per inquadrare il fenomeno alcuni dati numerici: la presenza di stranieri sul suolo italiano è del circa
5 500 000; sono 5382000 quelli regolari con residenza; circa altri 200 000 che sono pure regolari ma non hanno la
residenza in Italia. Questi dati risalgono a gennaio del 2020 ,c’è stato in questo un’incremento del 2,32% rispetto
all’anno precedente.

Di poco la presenza italiana è di poco inferiore al 10% della popolazione. Molto difficile contare le presenze non
regolari e quindi non lo facciamo, però diciamo che ecco che dal punto di vista linguistico cambia poco se supera i 6
milioni. Comunque diciamo che siamo intorno al 10% rispetto alla popolazione italiana.

Altra considerazione, un dato desunto dal rapporto l’italiano nel mondo che cambia datato 2008, redatto a margine
dei lavori degli stati generali della lingua italiana nel mondo. L’italiano risulta essere la 20sima lingua più parlata al
mondo, ma la 4 più studiata. Si è eccepito su questa statistica, alcuni dicono che non ci sia una vera classifica delle
lingue più studiate . D’accordo, può essere che quest’ultimo dato sia approssimativo, non ci sono veri e propri
indicatori per contare quante persone studino una lingua due o una lingua straniera, però diciamo che anche se non
è un dato così facileda riscontrare, emerge chiarissima la discrepanza tra il numero dei parlanti italofoni che questo è
preciso invece, è la 21sima lingua più parlata; poi se non è la 4°, magari è la 5°, è difficile da contare, però
certamente sono molti di più quelli che studiano la lingua italiana rispetto a quelli che la parlano come madrelingua.

Il motivo di questo fascino che la lingua italiana esercita nei confronti di chi non è madrelingua italiana, non è
italofono, è una motivazione artistica, turistica, culturale. Di solito gli stranieri si approcciano alla cultura italiana e
alla lingua italiana grazie alla nostra arte, alla nostra moda, alla nostra cultura e al cosiddetto made in Italy. Noi
chiamiamo le peculiarità italiane nella cultura, nella moda, nella gastronomia curiosamente con un termine inglese.
Ma l’italianità più che made in Italy, l’italianità culturale, enogastronomica, nel campo della moda, in quei campi in
cui l’italianità è all’avanguardia del mondo. Grazie a questi gli stranieri si approcciano anche allo studio e alla
conoscenza della lingua italiana

Italiani di stranieri
A questo punto prima di una descrizione anche sintetica della varietà della lingua italiana parlata, prodotta da
stranieri è necessario un ultimo concetto preliminare cioè il concetto di Interlingua enunciato da Selinker nel 1972.
L’Interlingua è un sistema linguistico a sé stante che è frutto dei tentativi, da parte dell’apprendente (in questo caso
consideriamo chiunque abbia intrapreso l’apprendimento della lingua italiana) di riprodurre la lingua d’arrivo o
lingua target che si sta acquisendo. È un sistema in continuo mutamento però è una lingua a sé stante, non è più la
lingua uno perché ovviamente non è ancora la lingua 2 ovvero l’italiano, non è nemmeno una semplice interazione,
una semplice fusione delle due lingue, quella di partenza e quella di arrivo ma è un insieme linguistico a sé stante
frutto dei tentativi da parte dell’apprendente che ha una lingua 1 diversa dall’italiano nell’apprendere la lingua
italiana. È un sistema in continuo mutamento e dunque è molto difficile darne una descrizione statica perché
l’Interlingua ha origine sin dal primo giorno in cui un apprendente inizia a studiare l’italiano e non finisce mai anche
ai livelli di maggiore conoscenza della lingua italiana da parte di non madrelingua ci sarà sempre un piccolo dettaglio
di non perfetta acquisizione della lingua target e quindi ancora una situazione di Interlingua. È un sistema in continuo
mutamento, può essere osservato in un dato momento è molto difficile darne una descrizione totale. Ogni singolo
momento raffigurato, descritto e fermato. L’ idea che sostengono gli studiosi di acquisizione linguistica è che questo
sistema non sia casuale ma sia organizzato e coerente e poi non è mai concluso. L’italiano di stranieri è questa
Interlingua, frutto dell’apprendimento. Curiosamente esiste anche la tesi elaborata dai glotto-didatti secondo la
quale, le tappe con cui si arriva alla conoscenza della lingua italiana siano molto simili indipendentemente dalla
lingua di partenza. Cambieranno i tempi, cambierà la durata delle fasi, ma tutti gli apprendenti, qualunque sia la
lingua 1, subiscono le stesse fasi di apprendimento per arrivare alla lingua target o lingua obbiettivo.

Elementi che influenzano l’Interlingua

 La lingua madre dell’apprendente e l’eventuale conoscenza di altre L2 diverse dall’italiano: questa lingua
madre non influenza nelle fasi, la lingua madre fa sentire il suo peso nelle interferenze a tutti i livelli da
quello fonologico a quello morfosintattico a quello lessicale come vedremo sinteticamente più avanti.
Certamente la natura delle interferenze si deve alla lingua 1. La tipologia, le varie tappe con cui queste
interferenze man mano si superano, quelle non sono influenzate dalla lingua 1, ma sono uguali per tutte le
lingue 1, le lingue di partenza.
 La frequenza, l’intensità e le modalità con cui gli apprendenti vengono a contatto con la lingua d’arrivo.
Maggiore è l’esposizione dell’apprendente non italofono alla lingua italiana e più veloce sarà il passaggio tra
quelle fasi diverse dell’Interlingua. Tra questi ci sono anche dei corsi strutturati ma non solo. È utile in questo
caso distinguere tra apprendimento dell’italiano e acquisizione dell’italiano. L’apprendimento consiste
nell’imparare una lingua attraverso corsi strutturati (tutti i corsi di lingua che si organizzano a vario titolo, in
vario modo, con delle attività didattiche strutturate, con un quadro comune europeo per acquisizione della
lingua e tutti gli strumenti didattici che si possono immaginare). L’acquisizione consiste nell’imparare l’uso di
una lingua in modo non strutturato ma semplicemente esponendosi alla lingua nella vita quotidiana,
uscendo, andando a compare il pane, parlando con gli amici ovvero tutti gli usi linguistici che si apprendono
in contesti non strutturati didatticamente. Ovviamente chi è più esposto all’uno e all’altro avrà un percorso
di avvicinamento alla lingua target più veloce di chi è meno esposto.
- Lingua straniera: lingua italiana studiata da non italofoni non nel loro Paese ma comunque in un Paese
diverso dall’Italia
- Lingua seconda: studio dell’italiano da parte di persone non italofone ma che avviene in Italia.
La differenza sta nella dose di esposizione alla lingua italiana in contesti non strutturati. Poniamo di
avere lo stesso corso esattamente strutturato dagli stessi insegnanti, però quel corso svolto in Italia o
svolto all’estero per se stesso sarà uguale ma non avrà lo stesso risultato perché svolto in Italia interagirà
con tutte le opportunità di acquisizione e quindi avrà la necessità di confrontarsi con lo sviluppo molto
più rapido e anche molto più incisivo.

Fenomeni di interferenza
Se definiamo l’italiano attuato da stranieri come un’ Interlingua frutto delle interferenze tra le lingue di
arrivo e le lingue di partenza possiamo descriverla rapidamente a partire dagli aspetti fonologici o
fonetici. Come dicevamo è difficile dare un panorama unico di tutte le fasi dell’interlingua. Facciamo un
discorso complessivo ma poi l’Interlingua, l’interferenze fonetiche che uno straniero può commettere
nel parlare la lingua italiana andrebbero fotografate all’interno della singola fase dell’Interlingua che
quello dello straniero sta attraversando. Non si può tanto dare una descrizione totale. Diciamo che
dipendono dal livello, dalla tappa, dalla fase dell’Interlingua ed ogni interferenza è spiegabile a seconda
grazie alla fase dell’Interlingua nella quale l’apprendente si trova.
Elementi fonologici: a volte sono tratti distintivi che subendo l’interferenza con la L1 proprio perché
sono elementi fonologici, non semplicemente fonetici, e proprio perché a volte sono tratti fonematici
distintivi quindi tali da cambiare una parola evitando un equivoco comunicativo, se subiscono
un’interferenza con L1 producono soluzioni sub standard. Questi sono tipici delle prime fasi si Interlingua
in cui l’apprendente ha appena iniziato il percorso che lo porterà dalla lingua 1 alla lingua target. Ad
esempio a volte può capitare che gli ispanofoni pronuncino il pronome relativo “che” “ce” perché in
lingua spagnola il suono “ch” è palatale. L’ispanofono dunque se si trova in Italia può subire
l’interferenza con la lingua 1 e anziché dire “il libro che ti ho prestato ieri” dirà “il libro “ce” ti ho prestato
ieri”. Questa interferenza produce una soluzione sub standard perché quel suono non è semplicemente
male articolato ma diventa un tratto fonematico distintivo perché determina l’equivoco tra le due
parole. Queste interferenze, dunque, vanno superate al più presto per non incorrere a soluzioni sub
standard che a volte pregiudicano la comunicazione corretta. A volte queste interferenze accompagnano
lungo il percorso l’apprendente e non vanno mai via per esempio i francofoni pronunceranno l’italiano
con la “r” francese. L’articolazione di questa consonante non pregiudica in nessun modo la
comunicazione, non dà luogo a effetti sub standard ma è una cadenza, un tratto fonetico chiaramente
riconoscibile nell’origine francofona ma accettabile anche a livelli standard. Alla fine anche noi italofoni
pronunciamo l’italiano grazie alla diversa provenienza e quasi nessuno ha una pronuncia dell’italiano
standard, alcuni aprono le vocali, altri le chiudono a seconda se siamo del nord, del centro o del sud e c’è
anche una pronuncia dell’italiano non standard degli stranieri che è tranquillamente accettabile
esattamente come un milanese che pronunci l’italiano rispetto a un napoletano o a un romano. Cosi ci
sarà l’italiano pronunciato da un francese, da un tedesco, da un cinese ecc.. solo se queste interferenze
non pregiudicano la corretta comunicazione, cioè non diventano elementi fonologici o fonematici
distintivi.

Morfosintassi
Neanche dal punto di vista morfosintattico non si può fare un discorso generale, né tantomeno si può
descrivere sinteticamente ogni tipo di interlingua. Si può dare un quadro con alcuni esempi delle
interferenze più comuni che caratterizzano le prime fasi dell’Interlingua italiana a parte da un L1.
Ovviamente le interferenze sono diverse a seconda della lingua di partenza. Le fasi e il superamento di
queste interferenze e il progressivo avvicinamento alla lingua target è comune indipendentemente dal ..
ma la natura delle interferenze dipende strettamente dalle morfologie della sintassi della lingua di
partenza.
Interferenze più comuni
 I sinofoni non coniugano verbi: tenderanno ad avere difficoltà nel sistema di coniugazione verbale
soprattutto nell’uso di morfemi e delle persone e del numero e anche dei vari modi verbali. Questo perché
nella lingua di partenza del cinese non hanno un sistema con dei morfemi ma utilizzano un sistema in cui la
parola dice già il concetto senza che il morfema aggiunga alcune informazioni. Perlomeno informazione di
informalità di persona che invece vengono espresse dai morfemi della lingua italiana.
 Ispanofoni invertono ausiliare: approfittando del fatto che lo spagnolo è molto simile all’italiano rispetto ad
altre lingue poiché entrambe derivano dal latino, ci sono alcuni verbi che sembrano omofoni rispetto a quelli
italiano e che in spagnolo hanno un ausiliare diverso da quello italiano e quindi per abitudine gli ispanofoni
tendono ad usare essere e non avere come è richiesto dall’italiano.
 Russofoni non collocano l’articolo dove dovrebbe stare, o per, ipercorrettismo, lo mettono ovunque: anche
in fasi avanzate dell’Interlingua cercheranno di superare questa interferenze collocandoli anche dove non
sono necessari

Lessico
Le interferenze sono molte anche da un punto di vista lessicale e sono anche più visibile e più notevoli anche
dal punto di vista degli italiani. Forse sono le interferenze che a noi italiani colpiscono di più ma forse no
sono quelle più profonde. Le differenze morfosintattiche sono quelle più emblematiche, quelle che davvero
fanno capire il livello di Interlingua che l’apprendente sta attraversando. Le interferenze lessicali per noi
sono le più evidenti ma forse sono meno importati di quelle morfosintattiche. A volte anche gli stranieri, un
po’ come i dialettofoni incorrono in malapropismi cioè dell’utilizzo di una parola al posto di un’altra grazie
all’assonanza tra significati paretimologia, in realtà le due parole non hanno niente a che fare.
Esempio: i professori sono “genitali” (geniali) scritto da studente sinofono
 Uso di lessemi in collocazioni errate : altre categorie d’interferenza ad esempio “il riso allo zafferano è
allettante” oppure “I miei antecedenti vivono a Chendou”. Nella prima frase l’uso di allettante sostituisce
forse una parola cinese che vuol dire sia piacevole che allettante. Nella seconda frase si analizza la parola
“antecedenti”, a volte nel dizionario si dà una lista di significati di una parola da una lingua all’altra oppure
una lista di sinonimi della parola nella stessa lingua senza specificare esattamente la marca d’uso, la
collocazione in cui quella parole è accettabile. Non tutti i sinonimi di una parola italiana sono ugualmente
sostituibili a quella parola in tutti i contesti, così come non tutte le parole italiane corrispondono a quella
parola cinese in tutti i contesti. Magari antecedenti va bene in alcuni contesti, ma parlando di famiglia
sarebbe meglio usare genitori o familiari. Qui c’è un errato uso del dizionario o a volte i dizionari sono
compilati in maniera imprecisa.
 Modi di dire nella L1 tradotti letteralmente in italiano: “Vieni a Milano, in Cina la vita è noiosa come una
zanzara.”

 Veri e propri prestiti: A volte come avviene da parte di altre lingue dialettofone nell’italiano popolare, anche
nell’italiano di stranieri ci sono veri e propri prestiti della L1. A colmare un vuoto che non si conosce. Sono
molto frequenti i prestiti che corrispondono agli interferenti relativi a cibi, oggetti di uso quotidiano come ad
esempio cous cous, saké, sushi, sashimi ecc.. Però anche in altri settori della vita possono comparire anche
perché a volte manca la traduzione. A volte una parola non si può tradurre perché manca la traduzione, altre
volte ci sarebbe anche la parola italiana ma viene usata dagli stranieri continuamente la parola nella loro
lingua

 Gergo straniero che si sovrappone a gergo italiano : trovando delle consonanze oppure di miscugli, delle
sovrapposizioni. Ad esempio nel gergo degli arabofoni che sono a Milano il poliziotto è lo zio. Ugualmente
nel gergo giovanile di Milano la parola”zio” si usa per dire “amico”, “bella zio” vorrebbe dire “ciao amico”.
Nella realtà plurilingue e multietnica della Milano del 2020 questi due termini si sovrappongono con esiti che
ancora è impossibile definire ma ci sarà certamente un incontro produttivo tra questi due gerghi.

Lingua ed età:
le varietà giovanili Dedicheremo questa parte della lezione di oggi agli usi linguistici propri dei giovani, intendendo
con “giovani” i ragazzi adolescenti e post adolescenti, quindi tra gli 11 e 19 anni di età. Per denominare questi usi
linguistici giovanili la terminologia a disposizione dei linguisti è ampia, perché è possibile usare l’espressione “lingua
dei giovani/giovanile” oppure “linguaggio dei giovani/giovanile”, il termine “giovanilese” e anche l’espressione
“varietà giovanili”. Quest’ultima espressione (varietà giovanili) è anche l’unica che è usata abitualmente al plurale ed
è quindi l’unica che mette bene in evidenza una caratteristica fondamentale degli usi linguistici giovanili. Come non
esiste un’unica cultura giovanile e un unico tipo di giovani, così non esiste un’unica lingua giovanile, ma esistono più
parità giovanili. La lingua dei giovani è infatti estremamente eterogenea, per esempio, già da un punto di vista
generazionale, la lingua di un dodicenne non è di certo quella di un diciottenne; ma attenzione, anche la lingua di
uno studente del liceo, che ama per esempio il rock non è certo la lingua di un ragazzino di strada di una periferia
urbana. Quindi, possiamo dire che in uno stesso momento sincronico avremo tante lingue giovanili quante sono le
generazioni ma anche quante sono le mode, le tendenze, le attività che a scala locale, ma anche internazionale,
aggregano i giovani in gruppi. Oltre che eterogenea, la lingua dei giovani è estremamente variabile: variabile nello
spazio (parlando diatopicamente), ma soprattutto variabile nel tempo (diacronicamente), perché è soggetta ad un
ricambio continuo, a un ritmo decisamente sostenuto, perché deve assecondare il passare delle generazioni, delle
mode e anche dei gusti, e deve assecondare anche l’esigenza tutta giovanile di creare un lessico proprio, identitario,
che vale per se stessi, il proprio gruppo o per altri, e assecondare anche l’esigenza dei giovani di usare la lingua per
scherzare, magari deformandola. Queste caratteristiche di instabilità, di mutevolezza e transitorietà delle varietà
giovanili, le rende ovviamente molto difficili da studiare. La documentazione risulta molto spesso fuggente, parziale e
inoltre raramente ai linguisti è concesso di poter osservare direttamente gli usi linguistici dei giovani nei loro scambi
tra pari. Bisogna ricorrere per lo più ai questionari. Gli studi sulle varietà giovanili sono iniziati a partire dalla fine
degli anni ottanta e hanno riguardato soprattutto il lessico, perché è proprio questo livello di lingua a rappresentare I
fenomeni più caratterizzanti, più significativi. Anche noi, nella nostra lezione, ci concentreremo su questo livello, ma
prima di passare a questa analisi, ci rimane da definire meglio quali sono i parametri sociolinguistici che determinano
queste varietà. Le varietà giovanili infatti, forse molto più di altre varietà, si collocano in un punto di intersezione tra
più fattori di variazione della lingua. Innanzitutto sono delle varietà diastratiche, perché sono connesse con una
caratteristica sociale del parlante della sua età, ma non solo perché gli usi linguistici giovanili dipendono anche
dall’appartenenza ad uno specifico gruppo giovanile, con i suoi riferimenti culturali, i suoi interessi e I suoi fattori
identitari. Molti studiosi però, hanno mese in evidenza come le varietà giovanili si definiscano anche a livello
diafasico, perché si realizzano in particolari situazioni comunicative, e su determinati argomenti. I giovani, cioè,
usano queste varietà negli scambi comunicativi tra pari e in riferimento ad argomenti che riguardano I temi
fondamentali della condizione giovanile, quindi, per esempio, la scuola, l’amore, le amicizie, il sesso, lo sport, la
musica o la descrizione di sé e dell’altro. Un ultimo fattore che dobbiamo tenere in considerazione è, infine, quello
diamesico, perché le varietà giovanili si organizzano prevalentemente nell’oralità, nel parlato spontaneo, anche se
non mancano gli esempi nella scrittura, per esempio nei giornali scolastici (che vedremo anche in questa lezione),
nella letteratura giovanile e oggi, anche nei social network. Fatte queste considerazioni, nelle prossime slide
affronteremo dunque la lingua dei giovani, prendendola da più prospettive. Innanzitutto faremo un riferimento ai
gerghi a cui la lingua dei giovani è spesso accostata e questo ci consentirà di soffermarci sulle funzioni della lingua
giovanile. Poi seguiremo l’evoluzione storica della lingua giovanile e cercheremo di darne una periodizzazione e,
infine, vedremo ciò che accomuna tutte le varietà giovanili e cercheremo di darne degli esempi tratti da testi
originali.

I gerghi Alle varietà linguistiche giovanili ci si può riferire anche con il termine “gerghi giovanili”, quindi con un
riferimento al concetto di gergo. Il termine gergo è, in linguistica, un tecnicismo: ovvero, può essere usato in senso
tecnico e ristretto per identificare le varietà di lingua che sono proprie di alcuni gruppi di persone ai margini della
società. Quindi, per esempio, i vagabondi, i malviventi, i mendicanti ma anche gli appartenenti a categorie
professionali itineranti, come ad esempio I giostrai, arrotini, ombrellai. Ovviamente nel mondo contemporaneo
queste categorie professionali sono in regresso e con esse anche i loro gerghi. Il gergo, all’interno di questi gruppi
sociali marginali nella società, funziona come un codice interno con determinate funzioni: in primo luogo questo
codice interno serve a promuovere il senso di appartenenza al gruppo, o il senso di solidarietà interno a gruppo; in
secondo luogo il gergo può essere usato per funzione criptica, cioè una funzione di segretezza per rendere
incomprensibile a chi è estraneo al gruppo ciò che viene detto all’interno del gruppo. Per realizzare queste funzioni il
gergo si serve di alcuni meccanismi linguistici, in particolare si serve della trasformazione delle parole della sua lingua
base (che può essere l’italiano o anche il dialetto, o più dialetti) in modo convenzionale, per esempio si possono
accorciare, deformare dei significanti, nella lingua dei malviventi “pula” è una deformazione di polizia, “caramba” è
una deformazione di carabinieri; oppure la lingua può essere modificata creando nuovi significanti, per esempio con
la suffissazione: nella lingua dei vagabondi, le “fangose” (che è un suffissato di -oso) sono le scarpe; oppure si creano
nuovi significanti a partire dalla lettera iniziale di un significante già esistente per rendere lo stesso significato: per
rendere il significato di “no” si creano parole che iniziano per -n, per esempio “nisba”. Un’altra strategia che
troviamo nei gerghi è il ricorso ai prestiti, a forme lessicali esotiche, per esempio, sempre nella lingua dei malviventi
il verbo “spillare” è un prestito dal tedesco. Le varietà giovanili hanno alcuni elementi in comune con i gerghi ma
anche alcuni elementi di differenza. Ciò che hanno in comune è, per esempio, la stessa tendenza ad operare delle
trasformazioni, delle deformazioni dei significanti. Un’altra caratteristica in comune tra le varietà giovanili e i gerghi è
la presenza di una funzione identitaria della lingua. Anche le varietà giovanili, gli usi linguistici giovanili servono a
promuovere una funzione identitaria, un senso di appartenenza al gruppo. Però, mancano nelle varietà giovanili altre
funzioni proprie dei gerghi, in particolare la funzione criptica: le varietà giovanili non servono a nascondere ciò che
viene detto nel gruppo giovanile agli estranei. Le funzioni che si identificano come predominanti negli usi linguistici
giovanili sono invece altre. Innanzitutto la funzione ludica, la funzione scherzosa degli usi linguistici e in secondo
luogo abbiamo anche l’auto affermazione. Un ragazzo, all’interno di un gruppo, ha bisogno sia di affermare la propria
appartenenza al gruppo, quindi usandone I tratti specifici dal punto di vista linguistico, ma ha bisogno anche di
esprimere la propria personalità con degli usi linguistici propri, che poi si possono anche affermare all’interno del
gruppo. Un’altra differenza tra le varietà giovanili e il gergo sta nelle caratteristiche sociali che determinano il gruppo
giovanile: abbiamo detto che i gerghi sono propri di persone ai margini della società, invece le realtà giovanili si
basano su fattori quali l’età e l’appartenenza a uno specifico gruppo giovanile, ma questa età e questa appartenenza
sono fattori che sono destinati ad evolversi in breve tempo; un giovane non resta, ahimè, giovane per sempre, e
quando abbandona quella fase della vita non ricorre più agli usi linguistici che lo caratterizzavano. Quindi quando ci si
riferisce alle varietà giovanili con il termine “gergo”, molti studiosi hanno aggiunto l’aggettivo “transitorio”, cioè le
varietà giovanili possono essere definite gerghi non storici tradizionali, ma gerghi transitori a sottolineare appunto
come le situazioni e i fattori sociali che li determinano siano destinati a cambiare in breve tempo. Periodizzazione In
italiano, a differenza di altre lingue nazionali europee, come per esempio il tedesco, non abbiamo una
documentazione diacronica delle varietà giovanili che sia antecedente alla seconda guerra mondiale. La
documentazione, le attestazioni che possediamo partono dagli anni ’50 e ci consentono di fare una periodizzazione
in almeno quattro tappe dell’evoluzione dei linguaggi giovanili. Ovviamente questa periodizzazione va considerata
parziale, in parte convenzionale e astratta,

perché dobbiamo sempre tenere presenti quelle caratteristiche di continua e repentina variabilità, eterogeneità del
linguaggio giovanile. Tornando alla nostra periodizzazione la prima tappa che possiamo considerare è quella degli
anni ’50 e ’60, in cui la lingua dei giovani coincide sostanzialmente con il gergo studentesco ed è quindi abbastanza
circoscritta, limitata e statica. È comunque a questo periodo che possiamo far risalire parole come “secchione” o
anche come “bidone” e “bidonata”. Le cose cambiano dopo il ’68 con I movimenti studenteschi di contestazione. Tra
’68 e ’77 il linguaggio dei giovani è un linguaggio usato a scopo politico e di contestazione, e va a coincidere con la
terminologia politico-sindacale del periodo, caratterizzata da formule stereotipe quali l’uso di “cioè” o “niente” a
inizio discorso, di espressioni quali “nella misura in cui”, “al livello di..”, “a monte”. Gli anni ’80 sono invece
caratterizzati dall’emergere di gruppi con spiccate identità, che è un’identità anche linguistica; tra questi gruppi
possiamo ricordare “I punk” o i celebri “paninari” della Milano degli anni ’80. Di terminologia paninara è, per
esempio, “sfitinzia” per ragazza, “tarro” o “tamarro” per persona o cosa volgare e l’uso di “giusto” per indicare
invece chi è a posto, chi è in linea con I gusti del gruppo. L’ultima tappa è quella degli anni ’90 sino ai giorni nostri,
che si caratterizza invece per una molteplicità di modelli, di gusti e di tendenze che però non hanno una spiccata
identità come quella degli anni ’80 e quindi sono difficilmente riassumibili in categorie. Componenti Abbiamo già
evidenziato come non esista un’unica lingua dei giovani, ma esistano invece tante varietà giovanili che si
differenziano tra di loro in gran parte per elementi lessicali. Ciò che hanno in comune, invece, è il ricorso a stesse
regole di acquisizione, formazione, trasformazione delle parole e anche il ricorso alle stesse componenti socio-
linguistiche per creare il proprio specifico lessico. Queste componenti sono state identificate dai linguisti Sobrero e
Cortelazzo, e sono 6. Ognuna di esse risponde ad alcune delle funzioni e delle motivazioni della lingua dei giovani. La
prima di queste componenti è l’italiano colloquiale che funziona da base delle varietà giovanili. Il fatto che sia
proprio l’italiano a fare da base, e non ad esempio il dialetto, è un fenomeno rilevante; gli studi hanno infatti
evidenziato che laddove ci sia una competenza attiva e diffusa del dialetto, in realtà, vengono inibiti i tratti
caratterizzanti delle varietà giovanili. Questo perché il dialetto funziona già come serbatoio di forme espressive o
anche scherzose e che quindi non devono essere create in maniera autonoma e specifica dal gruppo giovanile. È
rilevante anche il fatto, che sia proprio la varietà colloquiale e informale ad essere la base di queste varietà, la
motivazione è ovvia: le varietà giovanili sono proprie delle situazioni più informali della vita scolastica, della vita di
gruppo dei giovani e quindi richiedono un italiano di questo tipo. Ma la scelta di un italiano informale deriva anche
dal fatto che è proprio dei giovani saper maneggiare con difficoltà le varietà più formali della lingua e quindi il ricorso
in tutti I contesti a varietà più informali, più colloquiali. L’italiano colloquiale che entra nel parlato giovanile è quello
dell’uso contemporaneo, comprensivo di apporti regionali e di tutti quei fenomeni del neo standard che abbiamo già
visto. Abbiamo già visto anche tutti I tratti propri del registro basso e che si trasmettono al parlato giovanile. Spesso
questo viene confuso o sovrapposto con il turpiloquio, perché abbondano elementi disfemistici, abbonda il lessico
sessuale e/o coprolarico. Insomma, non è raro sentire in bocca ai ragazzi parole come “cagata”, “palla”, “palloso”,
“cazzo”, “figata”. La seconda componente degli usi linguistici giovanili è uno strato dialettale, i giovani ricorrono al
dialetto soprattutto per una funzione espressiva, scherzosa, e non a caso I termini del dialetto che trapassano nella
lingua giovanile son quelli soprattutto dell’aerea degli insulti. Un secondo settore che fornisce molti termini è quello
del corteggiamento e del sesso; da sottolineare che per i termini dialettali non si ricorre sempre e solo al proprio
dialetto ma anche ad altri dialetti le cui forme vengono diffuse, per esempio, dalla televisione o da altri mezzi di
comunicazione. Possiamo per esempio ricordare la gran diffusione negli si linguistici giovanili, qualche anno fa, del
termine “scialla” che viene dal romanesco e si è diffuso a partire da un noto film. La terza componente è data dalle
parole di lunga durata, cioè da quelle parole che presentano una certa continuità cronologica nel lessico giovanile,
che per altri versi, come abbiamo detto più volte, è invece caratterizzato da un continuo ricambio. Le parole di lunga
durata afferiscono ai settori emozionali più tipici del linguaggio giovanile come ad esempio l’amore, il sesso, le
espressioni

apprezzative o dispregiative, possiamo citare come esempi parole come “cesso”, “figo/a”, “sfiga”, come “forte” per
indicare qualcosa da apprezzare o qualcuno in gamba; ma sicuramente il settore emozionale e più rappresentato tra
le parole di lunga durata è quello del mondo della scuola; possiamo qui citare una parola già testata nel lessico
giovanile degli anni ’50 come “secchione” e possiamo poi pensare alla continuità di termini più recenti ma molto
diffusi quali gli accorciamenti “prof”, “mate” o “raga”. Un altro fattore di continuità nel lessico giovanile è dato
dall’assunzione di parole dai gerghi tradizionali, per esempio, dal gergo della malavita il lessico giovanile ha preso
parole come “pula” e “caramba” che abbiamo già citato, o parole come “imboscarsi”, “sgamare” ; mentre consistenti
sono i prelievi dal gergo dei drogati, possiamo pensare a parole come “scoppiato”, “sballato”, “sballo”, “schizzato”.
La quarta componente è costituita da così detto strato gergale innovante ovvero da quelle parole che sono in uso
solo in quel gruppo o in una serie di gruppi affini in un dato intervallo di tempo. Si tratta quindi della parte del lessico
giovanile più facilmente mutevole e per tanto meno facilmente documentabile, anche se alcune parole possono
essere di successo, passare alla componente delle parole di lunga durata o addirittura anche al lessico dell’italiano
standard. A questo proposito vi invito a sfruttare la possibilità del forum dei corsi di linguistica per suggerire parole
gergali innovanti tipiche della vostra generazione o del vostro gruppo; per quanto riguarda esempi di parole del
gergo innovante di altre generazioni e di altri gruppi vi rimando alle ultime slide di questa lezione in cui ne vedremo
degli esempi. La quinta componente è costituita da tutte quelle parole o espressioni o addirittura frasi stereotipe e
tormentoni che provengono dalla lingua della pubblicità, del fumetto, della canzone e televisione e oggi anche dai
social network. Qui l’esemplificazione è ampia, per citare dei fenomeni del passato si possono pensare espressioni
provenienti dalla canzone come “no tengo dinero”, “vamos a la playa”, “vengo anch’io! No, tu no”, tormentoni che
vengono dalla pubblicità come ad esempio “mi vuoi tutta ciccia e brufoli”, “è nuova? No, lavata con perlana”,
“silenzio, parla Agnese”, “mi ami? Ma quanto mi ami?”, sono appunto tutte espressioni ricorrenti, stereotipate,
battute e ritornelli che vengono assorbiti e riciclati dal linguaggio giovanile e anche a volte modificati di senso, per
esempio: il personaggio Calimero che sponsorizzava la marca dei detersivi può essere utilizzata per indicare il
significato di vigile urbano. L’ultima componente del linguaggio giovanile è, infine, quella degli stranierismi (lingue
straniere), cioè dell’inserzione di prestiti soprattutto dall’inglese, ma anche dallo spagnolo, all’interno del discorso,
sia in modo occasionale con intento ludico e scherzoso sia perché si fa riferimento a tendenze e gusti sovranazionali.
Questi prestiti possono essere prestiti ma anche calchi reali, ma possono anche essere degli pseudo prestiti: cioè
delle parole create per ricordare quelle di una lingua straniera; si può pensare per esempio al documentato degli
anni passati “cucador” per indicare qualcuno che ha fortuna con le donne. Alcuni prestiti, poi, possono essere
utilizzati con un significato molto diverso da quello originario, si pensi al più recente “essere British” per indicare
qualcuno con un determinato stile personale, e un proprio stile di abbigliamento. Esempi dai giornalini scolastici
(slide 6) Concludiamo la nostra lezione con una veloce carrellata di esempi reali di lessico giovanile, di giovanilese.
Tutti tratti da alcuni giornalini scolastici in ambiente milanese, che sono stati raccolti in occasione di una tesi. Il primo
esempio che vediamo è tratto da un giornale scolastico del liceo Carducci del 1962. Come abbiamo detto nelle slides
precedenti questi sono gli anni in cui la lingua giovanile coincide soprattutto con il gergo studentesco, e infatti
l’esempio che vi propongo è un’attestazione della voce “secchione” per indicare una persona sgobbona, che passa
parecchio tempo sui libri. Nella nostra prospettiva la voce “secchione” è una voce di lunga durata perché ancora oggi
è in uso nel linguaggio giovanile, e ovviamente nell’ambito studentesco. Però, nella nostra lingua, la voce ha come
prima attestazione il 1961: vi ricordo che il giornale da cui stiamo traendo l’esempio è infatti del ’62, e quindi siamo
esattamente negli stessi anni. È significativo che nel nostro esempio la voce non sia in alcun modo marcata
graficamente, quindi non presenti per esempio le virgolette o caratteri diversi, e quindi che non si segnali la voce
come qualcosa di diverso, di estraneo alla varietà linguistica in uso nel resto dell’articolo di giornale. In questo modo
possiamo tranquillamente presupporre che la voce “secchione, benché attestata per iscritto dall’inizio degli anni ’60,
in realtà, circolasse già da parecchio tempo nel lessico dei giovani. Esempi dai giornalini scolastici (slide 7) Andiamo
avanti con gli anni e arriviamo al 1977 che è un anno decisamente significativo per i movimenti studenteschi, il
giornalino scolastico da cui traggo esempio, già dal nome, “La ghigliottina”, manifesta il suo schieramento
provocatorio contestativo. È un giornalino, politicamente schierato decisamente di sinistra, lo possiamo vedere dal
tono degli articoli che vi ho messo. Come dicevamo nella slide, in questo periodo i movimenti giovanili si appropriano
di un linguaggio politico sindacale, per esempio, in questo articolo vediamo il lessico politico degli scioperi, delle
assemblee, della gestione della scuola, sentiamo parlare dei professori come di coloro che fanno parte della
“reazione”. Notiamo però anche altri fenomeni, notiamo per esempio la grafia della parola “kultura”, questa grafia
con la “k” per il tempo, è una grafia politicizzata. Troviamo poi l’emergere di un registro molto basso e del
disfemismo, troviamo quindi termini come “essere scopati”, che qua va intesa con il significato di “essere fregati”.
Notiamo ancora la voce “svacco”, per indicare una situazione di noia e indolenza, va considerata nel 1977 come
appartenente ad un contesto gergale innovante, ancora da notare la voce “flipparmi”, perché “flipparmi” viene da
un gergo tradizionale, il gergo dei drogati. Esempi dai giornalini scolastici (slide 8) Facciamo un salto di 10 anni e
arriviamo in quella Milano degli anni ‘80, in cui era emerso e aveva successo il gruppo dei “Paninari”, i giornalini
scolastici portano traccia del lessico tipico dei Paninari che possiamo considerare un lessico appartenente allo strato
gergale innovante. Nella slide vi ho messo alcuni esempi: abbiamo la voce “gallo” che indica qualcuno che ci sa fare
con le ragazze e anche il suo suffissato “gallata” che indica qualcosa di divertente. Sempre nel lessico paninaro è la
voce “cuccare”, ad indicare l’atto della conquista amorosa, in questo caso è scritto con la “k” che però negli anni ‘80
non è più una valenza politica ma scherzosa. Altre voci tipiche del lessico giovanile degli anni’80 sono le voci “truzzo”
e ”tarro” ad indicare qualcuno che segue gli aspetti più appariscenti e volgari della moda. Al di fuori del lessico
paninaro, possiamo osservare come tipiche degli usi giovanili le grafie contratte, vediamo l’uso del segno
matematico “X” per indicare appunto la preposizione “per” e ancora l’emergere di espressioni di registro basso come
“è una scuola di merda” e “sono tutti scazzati” Esempi dai giornalini scolastici (slide 9) Mi servo ancora di un
giornalino scolastico degli anni ‘80 per mostrarvi alcuni esempi del linguaggio giovanile che non abbiamo avuto
modo di citare. Anzitutto nel pezzo che vedete in slide trovate il ricorso in funzione espressiva e scherzosa a termini
ed espressioni dialettali, e di un dialetto non certo milanese. Troviamo in romanesco “Ma ch’o fatto pure er liceo?
Num me ne so’ accorta” e troviamo diatopicamente rimarcata la voce “mazziata” e “strunzata” con un vocalismo
tipicamente meridionale. Laddove troviamo le parole strunzata, mazziata ma anche fantozziata troviamo anche la
voce “sfiga”. Una voce emersa verso la fine degli anni ‘70 che è diventata poi nel lessico giovanile una voce che è
trapassata nell’ italiano colloquiale. Andando avanti, troviamo l’esempio di un ricorso ad una lingua straniera,
troviamo infatti l’espressione “Gudbai, veri uell” la cui grafia ci dice che sicuramente questo “code switching”
dall’italiano all’inglese ha una finalità ludica e scherzosa. L'espressione invece “porca puttena”, con questo
vocalismo, denuncia di essere tratta molto probabilmente dalla lingua dei media, in particolare dei cinema. Questa
infatti è un’espressione tipica dei personaggi di Lino Banfi e quindi ci testimonia l’ultima componente della lingua
giovanile; il suo ricorrere a forme spesso stereotipate della pubblicità, dei fumetti e del cinema.

Diasessia Come si è detto, il parametro della diastratia comprende diversi fattori determinanti. Sicuramente i più
rilevanti sono il livello di istruzione e poi il background culturale e linguistico della persona, ma

abbiamo visto anche che parametri più strettamente legati anche alla biologia della persona possono influenzare e
determinare le sue scelte linguistiche, per esempio l’età. Anche il sesso, tuttavia, pare avere un ruolo determinante
per la produzione linguistica. Il genere sessuale infatti è considerato proprio come un parametro che influenza le
scelte linguistiche Questa idea ha iniziato a prendere forma all’inizio del ‘900, in particolare possiamo fare
riferimento alle tesi di Otto Jespersen, il quale poteva descrivere le lingue stesse in termini di genere, per esempio
attribuiva all’ inglese caratteri di virilità, di mascolinità mentre alle lingue dei paesi del sud del mondo tratti di
infantilismo e femminilità. È chiaro che in questa visione c’era un abbondante presenza di stereotipia e di
pregiudizio. La ricerca sul rapporto fra linguaggio e genere è poi proseguita, e la sociolinguistica viene proprio fatta
risalire alle teorie di Lakoff. Grossomodo sul finire degli anni ‘70 sono state condotte le prime analisi significative su
scritture e discorsi femminili, in prospettiva sincronica e diacronica. Il primo dato da sottolineare riguardo a questi
studi, è che inizialmente questi partivano da un presupposto secondo il quale la lingua maschile fosse la varietà da
considerarsi neutra mentre quella femminile come un suo scarto. Negli studi italiani sul rapporto fra lingua e genere,
la lingua maschile si è posta come norma mentre quella femminile veniva concepita come una varietà deviante a
questa norma. Ciò è dimostrato dallo stesso fatto per il quale, accanto ad una ricerca volta ad individuare un
linguaggio femminile delle donne, per lungo tempo è stata assente una ricognizione sul linguaggio maschile. Come gli
studi fossero più incentrati sull’ analisi di scritture femminili dimostra come il linguaggio femminile fosse ritenuto più
particolare, da studiare e analizzare mentre quella maschile veniva ritenuta di per sé normale, quindi non era
oggetto di studio. Questo ha portato ad una duratura visione negativa della lingua femminile, solo per dare un’idea,
mi limito a richiamare i tipici tratti ritenuti proprio della lingua femminile e che vennero segnalati nei primi studi in
campo italiano nella ricerca del sesso come aspetto determinante degli usi linguistici. Fra le caratteristiche più
macroscopiche della lingua femminile, veniva riportata la maggiore conservatività e la correttezza formale. Per
timore di incorrere in giudizi negativi, secondo questi studi, le donne tendono ad essere più conservative nella loro
espressione linguistica a curare maggiormente la correttezza formale e ad aderire allo standard, dalle lingue delle
donne sarebbero quindi banditi popolarismi, dialettismi e anche il turpiloquio, sono anche presenti diversi
attenuativi al fine infatti di attenuare le loro espressioni linguistiche. Questo denoterebbe incertezza ed esitazione, e
questa caratteristica discende da quella che è una debolezza che storicamente è stata attribuita alla donna. Inoltre lo
stile linguistico femminile, sarebbe più improntato sulla gentilezza, la cosiddetta “politeness” o anche detta strategia
del garbo realizzata dall’uso di un abbondante aggettivazione esornativa, molte espressioni affettive e numerosi
diminutivi, vezzeggiativi e alterati che tradiscono una modalità comunicativa emozionale ma anche ingenua, infantile
“baby talk”. Inoltre le femmine sarebbero più dei maschi, più loquaci, più prolisse e tenderebbero più a pianificare in
maniera diversa il discorso selezionando e sviluppando argomenti specifici quasi esclusivi, quali ad esempio quelli
relativi alla cura della casa, alla maternità, alla moda e via discorrendo. Nel 1983 è stata pubblicata un’indagine di
FAQ linguistics condotta da Monica Berretta sul finire degli anni 70 e dedicata agli stereotipi relativi alla lingua delle
donne. Berretta si proponeva lo scopo di capire se gli usi linguistici femminili potevano variare al mutare di altri
parametri sociolinguistici quali l’età e la classe sociale, e quindi è riuscita a mettere in luce le contraddizioni presenti
nella ricerca scientifica rispetto ai tratti più frequentemente ricondotti al parlare femminile, come per esempio la
conservatività e la politeness. L’autrice ritiene che gli usi linguistici delle donne siano legati alle richieste del gruppo
sociale di origine, questo perché alle donne viene attribuita una presunta maggior sensibilità rispetto alle regole e ai
valori della propria comunità. Partendo da questa premessa, Berretta deriva l’impossibilità di prendere in esame il
linguaggio femminile

scindendolo dalla cultura di appartenenza. Quindi, l’assunto di base dell’indagine condotta da Berretta è che, di
fatto, uno studio di genere sulla lingua debba essere impostato tenendo conto di parametri sociali esterni al genere,
che influenzano la lingua di tutti i parlanti, comprese le donne e soprattutto le donne per la loro propensione a
rispondere alle richieste del gruppo sociale di appartenenza. Nell’indagine, la studiosa sceglie di indagare la lingua
delle donne attraverso i giudizi dei parlanti: lo scopo è quello di produrre un’immagine chiara del profilo linguistico
femminile, proprio per come è visto dai produttori e consumatori del linguaggio stesso. Quindi Berretta propone ad
un campione d’indagine, quindi ad un numero di persone, 2 tipi differenti di intervista: da una parte, un questionario
a risposta chiusa con domande esplicite sulle differenze tra il comportamento verbale maschile e il comportamento
verbale femminile; dall’altra, una prova d’identificazione di testi prodotti da soggetti di entrambi i generi, quindi
Berretta sottoponeva i testi al suo campione chiedendo di riconoscere se i testi in questione fossero stati scritti da
donne o da uomini. I risultati determinano come tratti tipici ricondotti dagli intervistati alla lingua femminile: la non
oggettività dei discorsi da parte delle donne con frequente inserimento di valutazioni, ricordi e divagazioni di
fantasia; frequente ricorso anche a valutazioni estetiche; utilizzo frequente di diminutivi (come carino e bellino,
riconosciuto come tratto della lingua femminile anche dai precedenti studi rispetto all’indagine di Berretta);
prolissità, precisione e minuzia nella descrizione di particolari che consentono alle donne di fornire descrizioni più
complete; la carenza di pianificazione del discorso, che viene attribuita a incertezze e insicurezze da parte femminile.
Dal punto di vista pragmatico, l’indagine Berretta evidenzia come venga riconosciuto alle donne un atteggiamento
più collaborativo nei confronti dell’interlocutore, ma questo atteggiamento viene ricondotto non solo ad un
atteggiamento positivo nei confronti della persona con la quale si interloquisce, ma anche all’ansia, ad un certo
imbarazzo femminile nel relazionarsi. La conseguenza è evidente sul piano linguistico: maggior esitazione da parte
della donna, che si esplicita nell’uso frequente di attenuazioni (espressioni come una specie, un po’, abbastanza) e di
interiezioni (quali oddio, boh, non lo so, mi sembra, forse, non saprei) cioè segnali di esitazione e incertezza, come
anche la frequenza di forme condizionali nel discorso femminile. Nell’indagine emergono anche tratti che sarebbero
più tipici del linguaggio degli uomini, ossia: il carattere oggettivo dei discorsi, le cui caratteristiche principali
sarebbero concretezza, praticità e assenza di divagazioni; sarebbe da attribuire alla lingua maschile l’uso di una
terminologia tecnica e molti riferimenti culturali specialistici. La volgarità è un tratto che viene riconosciuto al
linguaggio maschile e assente in quello femminile; la maggior schematicità è intesa sia in termini negativi quali
banalità, superficialità e piattezza, sia in termini positivi quali sinteticità, concisione, miglior pianificazione del
discorso che risulta più preciso, chiaro, analitico. Dal punto di vista della pragmatica della comunicazione nella lingua
maschile, secondo l’indagine Berretta, si riscontra una minor collaborazione verso l’interlocutore, che spesso
sfocerebbe in vera e propria aggressività verbale: per questo, linguisticamente l‘uomo sarebbe più deciso,
perentorio, utilizzerebbe un modo di esprimersi più duro e categorico, a volte anche apertamente violento, per cui
per esempio proprio per questo è anche più presente il turpiloquio nei discorsi maschili, ma la perentorietà e la
lucidità del discorso maschile si traducono anche nella maggior frequenza di connettivi proprio conclusivi, come
dunque, in quanto, chiaramente, comunque. Nel corso del trentennio successivo, l’indagine di Berretta è stata
ripetuta con modifiche e adattamenti da diversi studiosi: per citare uno degli esperimenti, una delle inchieste più
rilevanti possiamo fare riferimento a quella condotta nel 2006 da Rita Fresu, una studiosa particolarmente attenta
alle questioni di genere, sia in prospettiva sincronica che in prospettiva diacronica. Rita Fresu ha condotto
un’indagine sociolinguistica su un campione giovanile di area romana e cagliaritana. Questa di Fresu e altre inchieste
affini hanno portato a risultati relativamente alla percezione della lingua femminile e della lingua maschile da parte
degli italiani: da una parte, alla lingua femminile

nel 2006 si attribuisce una pianificazione e un’argomentazione soggettiva, impressionistica (le donne sarebbero più
loquaci e prolisse); gli argomenti del discorso femminile sarebbero fissi, ricorrono frequentemente nei discorsi
femminili alcuni temi che risultano assenti o quasi del tutto assenti dai discorsi maschili (affetti, sentimenti, cura della
persona, riferimenti ad abbigliamento e cosmesi, sfera domestica e familiare, gossip). Il tratto della politeness
continua ad essere attribuito al discorso f che predilige forme di cortesia e attenuazione e l’abuso di diminutivi,
vezzeggiativi e alterati e forme attenuative di varia natura. Sempre relativa alla lingua femminile la presenza di
numerose formule fatiche che garantiscono l’attivazione del canale della comunicazione e di segnali discorsivi che
fanno trasparire l’esitazione, l’incertezza, l’insicurezza comunicativa e verbale delle donne. Contemporaneamente, il
tratto della correttezza formale e dell’attenzione ai dettagli è confermato dall’indagine della Freso e in
quest’indagine emerge un diverso modo di percepire gli eventi da parte delle donne in relazione alle categorie
temporali: significa che nei discorsi femminili sono molto più frequenti proiezioni nel passato e nel futuro, che si
traducono nella maggior frequenza di questi tempi verbali. Per quanto riguarda il lessico, sembrerebbe prevalere nel
discorso femminile la presenza di sostantivi astratti e generici che potrebbero, secondo l’interpretazione delle
persone intervistate, derivare da una minor competenza lessicale, e si segnala sempre l’uso di aggettivazione
esornativa abbondante e di molti elementi enfatici. Quest’indagine conferma anche lo stile collaborativo della donna
nei confronti del suo interlocutore ed un atteggiamento curioso, il che significa che la donna è sollecita e pronta a
fare domande, richieste di chiarimento nei confronti del suo interlocutore. Invece, alla lingua maschile viene
attribuita una pianificazione, un’argomentazione più oggettiva e neutra priva di coinvolgimento emotivo, caratteri
del discorso sono concisione, essenzialità e schematismo: vengono fuori dall’indagine Fresu dei campi semantici più
frequentemente presenti nella lingua degli uomini , per cui per quanto riguarda la selezione di argomenti specifici
sono tipicamente maschili lo sport, i motori, il sesso, la politica, la scelta, la tecnologia e hobby vari connotati più
virilmente (ad esempio caccia e pesca). Tipicamente nel linguaggio maschile ricorrono espressioni triviali, dal
turpiloquio fino all’aperta bestemmia; c’è un minor controllo formale da parte degli uomini, secondo l’inchiesta di
Fresu, per cui si ricorre più frequentemente al dialetto, a varietà diatopicamente marcate; per quanto riguarda la
percezione degli eventi in relazione a categorie temporali, nel discorso maschile, invece del passato e del futuro che
erano verbi prevalenti nel discorso femminile, prevarrebbe il presente. Sul fronte del lessico prevalgono nel discorso
maschile i sostantivi concreti, tecnicismi; lo stile del discorso maschile si fa più asciutto categorico fino ad essere
percepito quasi come sbrigativo e disinteressato nei confronti dell’interlocutore, quindi non collaborativo e aperto
come può essere stato considerato quello della donna. Alcune percezioni, alcuni stereotipi sulla lingua delle donne
permangono e restano immutati a 30 anni di distanza dalle analisi di Berretta, ma i cambiamenti che hanno investito
nel tempo le relazioni tra i sessi e i ruoli ad essi associati sono andati progressivamente cambiando la percezione
della differenza nell’idea che i parlanti hanno del loro linguaggio: sono insorti nuovi stereotipi, altri si sono attenuati;
ma la cosa principale è che sono aumentati dei tratti che connotano negativamente anche il linguaggio maschile e
non solo più quello femminile. I tratti elencati e attribuiti a lingua maschile o lingua femminile sono spesso
riconducibili a impressioni dei parlanti e non vengono pienamente confermati da analisi puntuali sulle produzioni
linguistiche dei due sessi. Ad esempio, il parametro di pianificazione del discorso: le tabelle attribuivano alla lingua
femminile l’abbondanza di frasi ellittiche, ripensamenti, esitazioni, quindi una minor capacità di pianificare il discorso
che potrebbe far pensare ad un linguaggio poco logico e poco coeso; in verità, quest’affermazione non può essere
ritenuta categorica perché la pianificazione del discorso femminile varia sensibilmente in base ad altri parametri, ad
esempio la diafasia, cioè la situazione comunicativa. Lo dimostra un’analisi del 2013 che ha preso in considerazione
un corpus di fiction italiane con protagoniste principali femminili: analizzando il

parlato di diverse protagoniste delle fiction è risultato che la differenza linguistica dovuta alla diversa identità
sessuale, cioè al fatto di essere donne, era presente soprattutto laddove le attrici ricoprivano dei ruoli che per
tradizione vengono assegnati alle donne, cioè quelli storicamente riconosciuti come tali (ad esempio la casalinga),
mentre l’incidenza del parametro sessuale sulla lingua si riduceva quando la donna veniva rappresentata in ambiti
più attuali, moderni, ambiti professionali di un certo tenore. Per esempio, nella slide sono riportati 2 discorsi di
Francesca, protagonista della fiction Commesse e aveva il ruolo di dirigente d’azienda: leggendo entrambi i discorsi,
quando è sul lavoro, in azienda, il suo discorso risulta ben pianificato, la struttura sintattica non dà spazio a frasi
tronche o incomplete; il parlato è strutturato in una forma corretta, sintatticamente non ci sono errori, incertezze o
riprogettazioni in corso d’opera del discorso; nel momento in cui Francesca parla della sua vita privata, del suo ruolo
di moglie e madre, il linguaggio diventa più frammentario e lascia spazio al discorso diretto, alle esitazioni che nella
trascrizione sono rappresentate dai puntini di sospensione. Il personaggio della donna manager è indicativo poiché
fa capire come la donna possa sapersi servire di codici diversi, di strategie linguistiche diverse che userà a seconda
del ruolo che la situazione le impone. Anche nell’indagine Berretta era emerso come la donna fosse più incline a
recepire le richieste dell’ambiente sociale nel quale è immersa, quindi la donna, anche da questa indagine condotta
sulle fiction che sono basate su un copione che mette in scena stereotipi, percezioni e concezioni legate a uomo,
donna e al modo di esprimersi, risulta capace di mutare il proprio modo di parlare in base al contesto per una
maggiore ricettività degli stimoli delle richieste provenienti dall’ambiente sociale circostante. Per cui, la donna
manager, come Francesca della fiction Commesse, sarebbe in grado di scegliere la costruzione sintattica più labile
storicamente attribuita al mondo femminile nel momento in cui è con amici e parenti, quindi in una situazione
privata di maggiore libertà emotiva, ma può scegliere quella tipicamente maschile, cioè storicamente attribuita
all’uomo, più tipica del mondo delle professioni da cui le donne per lungo tempo sono state escluse, ma che dalla 2
metà del 900 ha visto le sue porte aprirsi anche alla componente femminile. Gli studi sulla variazione linguistica in
base al parametro di genere per l’Italia hanno concesso di individuare tendenze diverse, usi preferenziali per l’uno e
l’altro sesso legati a percezioni e impressioni dei parlanti, senza però che sia possibile affermare l’esistenza di un
codice linguistico diverso per uomini e donne. C’è forse solo un caso nella storia di vera e propria lingua di genere, è
un caso extra-italiano, cioè quello di Nushu, un gergo segreto creato dalle donne, spesso spose bambine o
concubine, dello Hunan, una provincia cinese nella quale le donne nell’800 hanno creato una forma di
comunicazione tutta loro che potesse escludere l’universo maschile che era in una società patriarcale per loro
opprimente e vessatorio. Le donne, che si ritrovavano a filare e tessere, elaborarono una scrittura composta da
migliaia di ideogrammi creati da loro con cui composero canti e poesie: spesso le loro composizioni erano ricamate
su tessuti, questo è il loro patrimonio di testi; si pensava che questa sorellanza linguistica, questa forma di gergo al
femminile si fosse estinto nel 2009 alla morte dell’ultima cinese depositaria dei segni Nushu che le erano stati
tramandati da sua madre, ma in realtà è risorto poiché un gruppo di donne dello Hunan è riuscito a trascrivere
centinaia di versi che erano rimasti sconosciuti e a recuperare migliaia di diari segreti tenuti da spose decise a non
rivelare ai mariti le proprie sofferenze. A partire dal reperimento di questi materiali e di altre tipologie di scritti affini,
linguiste cinesi hanno tradotto gli ideogrammi e hanno pubblicato un vero e proprio alfabeto Nushu e un dizionario.
È cambiato lo scopo di questo esperanto al femminile, perché da gergo, da lingua di genere il Nushu si è trasformato
in una sorta di idioma di classe: a Pechino e Shangai le donne più raffinate, che hanno più tempo libero, hanno
riscoperto questo codice linguistico per poter colorire le loro chiacchierate, le loro conversazioni con questo
linguaggio che si riteneva estinto ma che si è fatta una lingua da salotto. Si è persa quella carica di sovversione, di
rivoluzione che invece il Nushu aveva nel momento in cui venne creato: questo caso

del Nushu, di cui in slide sono riportati due approfondimenti, è un vero caso della lingua delle donne, mentre per
quanto riguarda l’italiano ma anche le altre lingue storico-naturali è impossibile parlare di una lingua delle donne e di
una lingua delle donne intendendo due codici diversi, tuttalpiù si possono mettere in luce preferenze e tendenze
attribuibili con maggior frequenza al discorso maschile o al discorso femminile.
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Le parole dell’identità: gli italiani visti dai “nuovi milanesi”

Bene iniziamo oggi quest’ultima parte del corso di linguistica italiana e diciamo un assaggio di corso monografico.
Cosa significa? Significa una parte che va aldilà dei programmi in comune a tutti i corsi di linguistica italiana che
corrisponde a uno studio particolare, un approfondimento particolare diverso da corso a corso. Per il vostro caso e
quindi per il nostro caso quello che io vi propongo riguarda la lingua utilizzata dagli autori di origine straniera, io ho
messo tra virgolette nel titolo “nuovi milanesi” oppure anche nuovi italiani non soltanto milanesi. Quindi autori
stranieri di letteratura, scrittori che utilizzano non una traduzione dalla loro lingua madre all’italiano, nemmeno
un’autotraduzione ma direttamente scelgono, ed è una scelta consapevole come vedremo, di scrivere letteratura in
lingua italiana che non è evidentemente la loro lingua madre ma che hanno scelto come lingua di adozione in un
primo tempo. Molti di loro vivono in Italia da diversi anni, alcuni decenni addirittura come vedremo ma soprattutto
come lingua artistica, estetica come mezzo di espressione estetico. Questa prima parte del monografico si intitola -
Le parole dell’identità: gli italiani visti dai “nuovi milanesi- Quindi in questa prima parte daremo l’attenzione agli
scrittori che lavorano a Milano, che raccontano Milano in lingua italiana anche se provengono da diverse nazionalità
e raccontano Milano con gli occhi da immigrante, di un immigrante particolare che diventa l’artista e che racconta la
nostra realtà a noi milanesi con l’occhio di chi non vi appartiene dalla nascita. Più nelle prossime daremo la voce non
soltanto ai nuovi milanesi ma ai nuovi italiani più in generale.

Intanto, uno sguardo molto sintetico sul fenomeno. Il fenomeno letterario che è attivo da circa gli anni ‘80 del secolo
scorso. In una prima, ecco distinguiamo cronologicamente tre fasi che corrispondono anche a tre diverse cifre
letterarie espressive e anche linguistiche. Una prima fase qui l’ho messo tra virgolette “cronachistica” cioè una prima
fase in cui gli scrittori immigranti erano neoarrivati nel nostro paese e raccontavano nei loro libri, nei loro articoli la
loro vita di immigranti che è simile a quella di tanti altri che dà luogo, dà la testimonianza di per esempio lavori di
ambulanti, alle prese con i poliziotti, alle prese con piccoli o grandi episodi di discriminazione e di razzismo. Molto
spesso in questo venivano aiutati da, anche linguisticamente, da alcuni giornalisti italiani. È il caso proprio del libro
“io, venditore di elefanti” di cui è l’autore Pap Khouma, di origine senegalese in cui che si è soliti a considerare
l’inizio, il fondatore di questa ormai eterogenea categoria di autori di letteratura italiana di origine non italiana. Con
“io, venditore di elefanti” Pap Khouma inizia un racconto in lingua italiana con l’aiuto di un giornalista dell’unità che
gli ha dato una consulenza linguistica. Quindi il primo libro, i primi libri più che ambizioni letterarie hanno le
ambizioni proprio cronachistiche. Devono la loro esistenza alla finalità di raccontare giornalisticamente la realtà da
immigrante. In questo caso di origine africana sul suolo milanese. Oggi Pap Khouma è uno scrittore affermato, ha
numerosi libri e questo è diciamo cosi archetico. Approdiamo cosi ad una seconda fase, la fase in cui diciamo così le
ambizioni letterarie diventano più concrete i toni da cronachistici si fanno più da commedia. L’interazione e
l’integrazione o la mancata integrazione degli stranieri sul suolo milanese diventa più raccontata con toni da
commedia. Sembra di leggere il neorealismo rosa o libri simili in cui i personaggi rappresentano a volte
stereotipicamente lo straniero, il milanese, il razzista, il milanese aperto e le trame hanno anche risvolti comici non
indifferenti. Un esempio è Amara Lakhous racconta più che Milano la vicenda della città di Roma però è un esempio
che faccio per dare conto di questa seconda fase in cui in tutta Italia anche a Milano i toni diventano letterari, la
scrittura non è più così fortemente ancorata alla realtà ma prende più la strada dell’ironia, della satira, di costumi nel
come tale sempre l’integrazione l’incontro tra italiani e stranieri. Una terza fase in cui le ambizioni letterarie salgono
ulteriormente e anche qui do conto di un’autrice che lavora a Roma ma giusto per dire l’esempio più illustre della
terza fase. Più in la invece racconteremo i milanesi, i nuovi milanesi. E Igiaba Scego racconto diventa sempre più
svincolato dalla stretta attualità pure raccontato in maniera stereotipica e comica e l’ambizione diventa quella di fare
la letteratura. Si rifugia spesso nel romanzo storico. Scego è un’autrice natta in Italia, vissuta in Italia ma la famiglia
espatriata dalla Somalia durante il regime dittatoriale negli anni ’60. E quindi è un’autrice che racconta un mondo
quello somalo di cui ha una memoria ancestrale nella famiglia postcoloniale insomma la c’era la colonizzazione
italiana e lei è ritornata in Italia e racconta tute queste vicende. Il romanzo, i due romanzi più recenti sono forse le
opere più riuscite di Igiaba Scego. Uno intitolato “Adua” e l’altro “La linea del colore”.

Bene, dopo questa prima introduzione generica non tanto su Milano ma su fenomeno in sé, della cosiddetta
“letteratura migrante”, anche se termine è decisamente improprio, diciamo letteratura italiana scritta da non
italofoni sarebbe una definizione più precisa. Iniziamo adesso il nostro percorso su quelli che lavorano, scrivono a
Milano e raccontano di Milano.

E partirei dall’accostamento evocativo di queste due immagini. Nella prima quella sulla sinistra vedete la stazione del
quartiere milanese di Rogoredo e a destra invece la spiaggia uruguaiana della città di Montevideo. Bene, lo spunto è
suggerito da questo passo di romanzo di Milton Fernandez scrittore di origine uruguaiana, che lavora e scrive a
Milano intitolato l’argonauta. “A volte, …, andavo oltre, senza una meta precisa, fino a Rogoredo, e pure al di là,
anche se non so cosa ci sia dopo. Mi prendeva la smania di vedere il mare, sentivo il suo odore, il vento sulla faccia,
la sabbia negli occhi. Camminavo e mi dicevo che doveva esserci più in là, dietro ai palazzoni, che bastava uno sforzo
e poi ci sarei arrivato” Ecco, questa pretesa di trovare mare a Milano soprattutto in un quartiere periferico di Milano
e non curato come quel di Rogoredo e un po’ la sintesi dell’esigenza di trovare una collocazione un’identità tra il
paese che hanno lasciato e quel che hanno trovato di tutti gli autori immigrati. E anche una identità linguistica tra la
lingua uno che hanno abbandonato e la lingua due c’è l’italiano di cui si sono appropriati e che adesso cercano di
utilizzare per fare letteratura. È un po’ come trovare il mare a Milano, anzi meglio ancora a Rogoredo.

Costruire un’identità a Milano: affermazioni autobiografiche – linguistiche

Quest’identità che si va cercando di cui si va trovando una sintesi frutto di un compromesso tra un’identità perduta
quella della lingua d’origine e quella della attuale collocazione è raccontata nei romanzi di questi autori attraverso
alcune vere e proprie affermazioni di natura autobiografiche. A volte si fa una vera e propria autobiografia
linguistica. Secondo gli studi di Giovani Nencioni, l’autobiografia linguistica è un racconto che da luogo a tutte le
lingue e dialetti e codici che hanno contribuito a costruire la nostra identità. Sin da quando siamo nati, dalla lingua
dei nostri genitori, dialetti. E bene per questi autori d’origine straniera che si esprimono in lingua italiana
l’autobiografia linguistica è particolarmente significativa. Suggerisco ancora alcuni passi da l’argonauta di Fernandez:
“Milano è una città tosta, non c’è che dire. Si costringe a mostrarti i denti, ti guarda storto, non ammette confidenze.
Silvia dice che è una specie di corso di sopravvivenza universale: se ce la fai qui, sei capace di tenere testa a
qualunque posto. È una corazza che uno si porta dentro da indossare nei momenti di bisogno, quando tutto ti appare
nero e non trovi vie d’uscita.” Ecco, Milano è questo per immigrati una citta oscura che ti costringe a resistere e
costruire una vera corazza che ti permette di sopravvivere. Non ce il mare, altroché mare si trova una realtà molto
pesante da sopportare. E in questo ce anche la parola la lingua a volte si cerca anche l’effetto comico nella
omonimia. E qui infatti: “Addio Maresciallo Corti (si immagina Maresciallo di carabinieri o di polizia) e il tuo Inferno
stranieri. Addio Fatebenefratelli, che più che il nome della via sembra l’ennesima presa per il culo”. Sappiate che a
Milano, in via Fatebenefratelli c’è la questura che si occupa dei permessi di soggiorno. Ecco che lo straniero che
arriva in Italia, cerca il permesso di soggiorno e approda in questo inferno, inferno di burocrazia, di una lingua che
non è più nemmeno la lingua italiana, ma è la lingua burocratica dei permessi delle leggi delle regole. E da straniero
cerca di orientarsi in questo inferno come meglio può. Ecco leggere che il nome della via si chiama Fatebenefratelli,
ecco sembra proprio una presa in giro o come dice esplicitamente Fernandez l’ennesima presa per il culo di una
identità linguistica che approda in una città così chiusa così aspra cosi respingente come è in apparenza Milano.

Il dialetto e il gergo
Innanzitutto, dal punto di vista linguistico non è solo l’italiano che viene raccontato nei romanzi di questi autori. È
proprio una gamma che tocca tutte le varietà della lingua italiana a volte anche varietà estranea dall’italiano come il
dialetto oppure anche insieme al dialetto varietà di italiano sulle scale del registro diafasico basse e sui livelli bassi
dal punto di vista di astrattico. Quindi a volte è il gergo, in particolare il gergo giovanile. Cito alcuni esempi in cui il
dialetto e gergo si incontrano tratti da alcuni autori milanesi o meglio dire nuovi milanesi. Il primo è tratto da Pap
Khouma, il romanzo è “Nonno Dio e gli spiriti danzanti” “A Bergamo, gente incontrata per la prima volta, per strada
o al parco, spara: “Dove l’ha preso signora? Com’è brava, ha salvato dalla fame un pover morettin! Chissà che brutta
fine avrebbe fatto senza di lei!” Ecco, qui nella macchia dialettale bergamasca più generale lombarda, si dice in quasi
tutta la Lombardia povero morettino, morettin, povero negretto. Ecco la scena in cui compare questo modo di dire
dialettale è particolare. Cioè è una donna che ha sposato regolarmente il protagonista che è un uomo di origine
africana, non si sa se è lo stesso Khouma, se si tratta di autobiografismo o meno. E che ha un figlio mulatto e quindi
moro, nero di pelle a sua volta. Eh, bene in questo personaggio stereotipato del bergamasco, della signora
bergamasca che lo incontra ovviamente rifiuta di pensare al fatto che è il suo figlio legittimo, pensa che l’ho adottato
e quindi dice “Ah l’ho salvato dalla fame, povero morettin”. Notiamo che non c’è un esplicito l’atteggiamento
razzista, questa signora è gentile, questa signora bergamasca è gentile nei confronti della donna che ha sposato
l’uomo di origine africana. Ma senza rendersene conto

senza voler discriminare tuttavia ha fatto una discriminazione inconscia. Per lei è impossibile pensare che questa
donna abbia potuto generare un figlio da un uomo della pelle di un altro colore. Poi invece è plausibilissimo, l’ipotesi
più naturale a cui pensare è il suo figlio naturale e ha pelle nera perché il marito è di origine africana. Niente di più
normale. Però ecco qui, Il razzismo esplicito, nascosto, strisciante che avviene rappresentato linguisticamente da
macchie dialettali. Ancora secondo estratto questa volta più esplicito nel razzismo e nella discriminazione, tratto da
un romanzo di Gaye oppure lui di origine sommale, “Prendi quello che vuoi, ma lasciami la mia pelle nera”. “In
occasione della campagne elettorali immancabilmente “fioriscono” i soliti slogan rappresentativi del pensiero di certi
partiti politici: frasi ignobili, spesso volgari, crudeli … Spesso accompagnate anche da gesti e azioni violenti: “Fӧra da i
ball’”̈ In questo caso la macchia dialettale rappresenta un atteggiamento che è molto più schierato nel razzismo
questa volta esplicito, conclamato e anche ha una ascendenza politica elettorale diciamo più esplicita, qui si fa
richiamo esplicito a certi partiti politici. Quindi il dialetto viene usato per rappresentare in modo stereotipico un
sapere, una caratterizzazione linguistica e culturale ancestrale, ostile alla presenza di stranieri sul suolo italiano
esplicitamente o in maniera apparentemente più gentile ma in realtà ugualmente discriminatoria.

Il dialetto e il gergo

Tracce dialettali possono essere usate in misura meno stereotipizzante e proprio per questo più significativa nella
normale narrazione, non accompagnano cioè atti linguistici di personaggi che hanno bisogno di essere caratterizzati
come milanesi o lombardi e che si vogliono caratterizzare come discriminanti ma è utilizzato il dialetto anche nella
normale narrazione. Esempio sempre dall’argonauta di Milton Fernandez: “Non c’è niente di eccezionale in tutto
questo casino, davvero. Nulla da meritarsi il suo archivio o da registrare in quella prolissa casistica del minga”
Possiamo dire che è una narrazione di registro basso c’è anche la parola casino. Possiamo dire che siamo su livelli
bassi della scala di afasica. Tutto bene ma non c’è una stereotipizzazione di personaggi e quindi il dialetto affiora
quando l’autore vuole abbassare la lingua dal punto di vista diafasico. È quindi un appropriarsi di un autore di origine
non italiana di una macchia dialettale della città di Milano nella quale lavora e questo è un elemento significativo,
perché vuole dire che ci sia proprio della gamma linguistica dei livelli più bassi di italiano regionale come in questo
caso e anche addirittura del dialetto fino a livelli più alti nella sua interezza. Ancora sempre dall’argonauta: “Chissà
cosa gli prese, ma all’improvviso cominciò a fare gesti sconci, ravanando tra i suoi genitali” Questo ravanare che
anche cui accompagna un’azione bassa, volgare, colloquiale e quindi linguaggio è adeguato. Ma ravanare è proprio
una voce lombarda quindi tipica di un personaggio stereotipizzato. Anche qui ancora da Pap Khouma questo è
proprio Io, venditore di elefanti: “… una spiaggia che percorro ogni giorno, riempiendomi di sabbia, che con il sudore
si appiccica addosso e dà un fastidio bestia” Qui addirittura è l’immigrante, il protagonista che racconta la sua vita di
ambulante che cammina tra le spiagge cercando di vendere i suoi oggetti. Il sostantivo bestia usato come l’aggettivo
per dire un fastidio grande e proprio un tratto tipico dell’italiano regionale lombardo.

Concludiamo con un esempio del gergo. La parola zio è utilizzata nel gergo giovanile italiano per dire amico, una
persona che fa parte della propria cerchia. Si dice bella zio per dire ciao amico, ciao amico mio. Ecco significato di
questo tipo per riconoscere qualcuno la reciproca appartenenza a una stessa età e uno stesso gruppo sociale. La
stessa parola zio è utilizzata dai senegalesi in particolare per identificare il poliziotto quindi in questo caso si
sovrappone un uso gergale etnico zio uguale poliziotto con un uso gergale giovanile milanese bella zio. Come esiti
ancora tutti da scoprire. L’estratto è questo. “Davanti agli zii sarebbe stato così. Gli zii, che ci attendono in Italia, sono
i poliziotti, perché gli zii vogliono sapere tutto e sono pedanti: che cosa fai qui, dove vai, come vivi. E poi ti danno
ordini. Zio è chi vuol comandarti la vita” Questo è l’uso gergale etnico ma si può prevedere una fusione con uno
omofono e uno omografo giovanile.

Ancora a ribadire quanto detto finora, due uruguagi, due latinoamericani, due latinos come si definiscono
rimpiangono la loro origine ma nel farlo utilizzano elementi dialettali o perlomeno di italiano regionale. “Fa caldo lì
da voi? Non sai come vi invidio, figli di puttana! Qui soffia un vento che ti congela le ossa, e la nebbia … che ti posso
dire della nebbia? Ti viene voglia di masticarla, sul serio, non scherzo. La gente è grigia in faccia e non ti caga. Per
fortuna mi sono trovato un gruppo di Latinos, …, che voglia di casa Julito!” Sempre dall’argonauta sono due uruguagi
che cercano di ambientarsi nella Milano già detta grigia, fredda, piena di nebbia, diversa dalla spiaggia latino-
americana di Montevideo. Ecco nel ripiangere quel sole, quel calore, quella gente

amichevole con tutto il contrario della chiusura, del freddo, della nebbia di Milano utilizzano un’espressione tipica
milanese il verbo cagare che è come dire considerare qualcuno. Non ti considera, la gente non ti considerano, non
vuole avere a che fare con te. Ancora sempre dall’argonauta: “Ma con me, mi dispiace, Dottore, con me ha cannato.
Non c’è rimedio. Queste sono le ultime magagne che mi spilla.” A parlare è sempre personaggio latino-americano
dire cannare al posto di sbagliare è proprio lombardismo. È un tratto di italiano regionale e non proprio di dialetto.

Prestiti per referenti della vita quotidiana

Bene, insieme a usi gergali e a usi della gamma diafasica bassa che recepiscono lombardismi e a volte dialettismi
delle vaste gamme dell’italiano a caratterizzare la lingua degli autori migranti, di nuovi milanesi è ovviamente il
ricorso a prestiti, prestiti da la loro lingua uno che si utilizzano soprattutto per individuare referenti della vita
quotidiana cibi, vestiti, usanze. Vediamone qui alcuni estratti. Non leggo tutto. “il kinkeliba si sta raffreddando”. È
una pianta delle regioni saheliane. Le foglie servono a preparare un infuso di tè. Quindi questa bevanda di kinkeliba.
Tutti questi esempi sono presi da Pap Khouma, Nonno Dio e gli spiriti danzanti. “safara” che è un liquido usato per
speciali abluzioni, un filtro magico, “calebasse” che è il filtro. Ancora avanti “carasol” un frutto, un “mbum” una
pianta, le cui foglie servono per il sugo di diversi piatti, il “nim” per i bagni un atro tipo di foglie, di piante per i bagni
preparati con un infuso.

Prestiti per referenti della vita quotidiana

Altri esotismi per nominare cibi e cose simili e referenti simili il primo ancora Pap Khouma, Nonno Dio e gli spiriti
danzanti. Questo è “l’aloko”, è un tubero da cui si ricava una farina con cui tra l’altro si fa una polenta. Poi sempre
Gaye che come Khouma è di origine senegalese quindi utilizza queste parole della lingua parlata in Senegal “cadior –
cadior”, “sunna” insomma tutti elementi che rimangono, anche vengono usati per dare un tocco di esotismo e anche
perché onestamente non c’è un allotropo non c’è una traduzione italiana sono proprio i nomi propri, impossibili da
rendere un’altra parola che non sia esotismo. Ma comunque vengono utilizzati anche in maniera più consapevole
perché evocare una propria radice che rimandi non solo alla vita in Senegal ma proprio alla lingua tradizionale,
nemmeno la lingua delle potenze coloniali, nemmeno la lingua ufficiale. Ma questa è proprio wolof è dialetto
africano di origine. Stesso discorso per lo spagnolo/latino-americano, forse a noi più familiare perché è più
frequente, il mate che è una bevanda comune, è una specie di infuso, una specie di the comune nei paesi del Sud
America; il churrasco una specialità di carne alla griglia; Barrio sur e Sorocabana, 2 località; Il dulce de leche, un dolce
di latte tipico dei paesi sudamericani; la quema. Qualunque sia la provenienza, l'uso di esotismi è comune, è per dare
un'identità che si rimpiange a Milano e un'identità popolare molto tradizionale dei paesi d'origine. A volte, tuttavia, i
prestiti vengono usati in maniera un po' più significativa, non all'uno soltanto a referenti intraducibile quindi
necessariamente espressi con la lingua uno, a volte si fondono con l'italiano a riprodurre un’interlingua, una lingua a
metà tra la lingua uno e l'italiano se vogliamo tipica dell'apprendente, della persona che sta ancora apprendendo
l'italiano e che non ha raggiunto un livello ancora elevato della conoscenza dell'italiano e che quindi si esprime in un
linguaggio che ha un tessuto fondamentale di italiano colloquiale con diversi inserti della lingua uno, un po' un code
mixing, un miscuglio di codici diversi. Per esempio: (slide 12) “[…]ormai tutte con lo stesso sapore, ma chissenefrega,
il segreto està nel dosaggio […]”. Està è il verbo estar, verbo essere in spagnolo e vedete che c'è una macchia di
spagnolo all'interno di una espressione in italiano colloquiale. (prosegue col testo) “Ciascuno al suo posto e nada de
prepotenze”, cioè nessuna prepotenza, niente di prepotenza letteralmente. “Bisogna sentire il sabor del churrasco”,
il sapore del churrasco, churrasco va bene e può rimanere perché è una parola che, come abbiamo visto prima,
riproduce una ricetta culinaria, ma tutti gli altri sono macchie di spagnolismi/ispanismi all'interno di un tessuto
fondamentalmente italiano. Quindi una è una specie di interlingua letteraria usata per caratterizzare il personaggio
del migrante che dà luogo di un identità in bilico tra due poli, un'identità che è uruguagie trapiantata a Milano e che
quindi utilizza tutta la gamma dell'italiano ma anche prestiti significativi della lingua uno. Ancora, andando avanti
sempre prendendolo dell'argonauta di Milton Fernandez “e così crescono que quieres que te diga?”, che cosa vuoi
che ti dica, “Mosci, meglio blandeguendes, flojos”, qui si dà la traduzione perché magari non tutti gli italiani
capiscono il significato della parola blandeguendes o flojos, che vuol dire mosci, senza fibra. “Era così tanto per
hablar”, tanto per parlare. “Huy dios, muchachos, è arrivata Estella e company, como le va, companera?”, O Dio
ragazzi è arrivata

Stella e la compagnia, come va compagna? Ecco vedete che si utilizzano parole di cui però si suppone che gli italiani
anche quelli che non hanno studiato lo spagnolo capiscono. Quindi è chiaro un uso che da un colore al personaggio,
che stereotipizza il personaggio come quello del migrante ispanofono di origine sudamericana, in questo caso
uruguaiana, a Milano e quindi è un espediente letterario, è un interlingue curata dall'autore e quando si presuppone
come nella parola blandeguendes che non tutti gli italiani possano conoscere il suo significato si dà la traduzione
italiana nel corso della battuta del personaggio quindi si dice “mosci, meglio blandeguendes”, quindi è proprio un
espediente consapevole dell'autore. Infine, diamo un ultimo esempio sempre da Pap Khouma, “Io, venditore di
elefanti” (slide 13). Il Tabaski è la festa musulmana che inizia con il sacrificio di un agnello. La festa qui viene usata
per evidenziare le difficoltà di identità, le difficoltà di realizzare in Italia a Milano ai nostri tempi, o meglio degli anni
‘80 ma diciamo come i nostri tempi, una pratica che invece nei paesi di cultura e di religione musulmana è comune.
Se si va in strada in piazza sacrificare un agnello nell'Italia degli anni ‘80 si corre il rischio di venire arrestati. “Sì,
andiamo in piazza a sacrificare l'agnello, così sequestrano noi, la nostra merce e l'agnello insieme” si usa sempre il
prestito linguistico, gli esotismi linguistici per sottolineare una differenza, una alterità culturale che a volte non ha
una soluzione e non è possibile integrare come in questo caso. (slide 14) Bene, proseguiamo come l'esempio
precedente in un'analisi di prestiti non più che alludono a oggetti quotidiani, ricette, piatti, eccetera ma prestiti per
elementi culturali significativi perché come nell'esempio di prima riproducono delle usanze delle culture, religioni,
estrazioni culturali diversi a volte inconciliabili con la cultura italiana accogliente. Abbiamo visto prima l'esempio
della Festa musulmana. Ancora tratti da Pap Khuoma “Nonno Dio e gli spiriti danzanti” una serie di parole che
alludono a esperienze mistiche e religiose della cultura somala: i gri-gri sono degli spiriti, degli amuleti che evocano
degli spiriti che proteggono dalla malasorte. “Mamma, non voglio i gri – gri, non li metto” “Allora sei diventato
toubab.”, il toubab sta a dire un infedele, uno che non segue la cultura, la religione tradizionale e ancestrale somala.
“Ah, figliolo, non ti sei lavato e non hai pregato … vai a lavarti, non comportarti da toubab, loro non si lavano”, ecco i
toubab sarebbero gli occidentali, siamo noi agli occhi dei Somali di religione ancestrale, di religione tradizionale.
Quindi si usa anche qui l'esotismo come nell'esempio della slide precedente per marcare una alterità culturale che è
per certi versi insanabile; gli occidentali sarebbero quelli che non si lavano e non è nemmeno la questione di igiene
ma una questione di impurità spirituale di religione, di preghiera, lavarsi vuol dire quello in questa religione. “devi
tornare a Taagh da sua sorella Sagar, tua moglie , insomma” “ormai ti consideri toubab” “Lo sono, caro” “Ti senti
toubab?” “Sì” “Non me n’ero accorto” “E tu allora? Hai sposato una toubab e avete una bambina! Sei più toubab di
me”. Si usa addirittura l’appellativo occidentale come un insulto. Chi è più toubab, chi è più occidentale, chi è meno
ancorato alla tradizione è evidentemente un elemento di discredito. (sliode 15) Ancora sempre queste parole che
riproducono riti religiosi musulmani della Somalia tradizionale: I muezzin, questo sappiamo tutti cosa sono; i griot
suonano all'ombra di un mango, i griot sono sacerdoti; penzolano bottiglie di plastica piene di safra, un filtro magico;
calebasse; n’depp; gri – gri, amuleti l’abbiamo già detto. Insomma una serie di parole che riproducono una ritualità
in questo romanzo “Nonno Dio e gli spiriti danzanti” tutta questa ritualità prelude un'esperienza mistica in cui uno
spirito possiede una donna sotto gli occhi degli occidentali, degli italiani, dei milanesi che assistono a questo rito.
(slide 16) Ecco, infatti questa donna “Elena irrompe nell’arena. I rap non l’hanno risparmiata … una bambina strilla:
“Mamma, una toubab è caduta in trance” e lei viene posseduta durante questo rito tradizionale. “Si sparge la voce
che una bellissima toubab è stata posseduta dagli spiriti e lo si racconta ridendo fino alle lacrime”. È interessante
leggere invece questo secondo estratto: “(il piccolo Dèmal) ripete correndo per la casa dietro ai montoni: “Io son
cattolico, son cattolico”, questo bambino ricordiamolo nell’intreccio è il figlio di una mamma lombarda e del papà
originario somalo. “Figlio, dì a mio nipote che non è cattolico”. “Sono cattolico, come la mamma”, insiste Dèmal. …
“Figlio, dì ad Elena di insegnare a suo figlio che è musulmano, come suo padre”, quindi il padre somalo e musulmano,
la madre italiana e cattolica e sono a casa del nonno paterno che insite affinché il nipote mantenga le tradizioni della
famiglia paterna e quindi sia anche lui musulmano. Interviene la madre, la nuora per questo signore: “io sono
cattolica, cosa c’è di male? Mio figlio non sarà circonciso”. “Goro (nuora), abbiamo vicini di casa cattolici, sono brava
gente e siamo amici, ma i figli dei nostri vicini cattolici sono circoncisi. Non metto in dubbio che tu, figliola, la tua
famiglia e i tuoi vicini di casa a Tougal siate gente perbene. Però Dèmal è musulmano, come suo padre. Traducete
alla mia goro.” Vedete come in una famiglia pure così multi-razziale, multietnica e multi-religiosa è difficile trovare
un’identità comune, ci sono sempre delle differenze, ci sono sempre degli elementi che lacerano l'identità ed è
difficilissimo trovare una sintesi. Linguisticamente tutto ciò viene espresso da tutti questi prestiti che abbiamo visto
“tougal”, “goro” che rimangono così inalterati nella lingua del romanzo, nella lingua usata da questi autori. È sempre
un identità in bilico tra milanese e lingua di provenienza ed etnie di provenienza, culture di provenienza, sia che si
parli di Africa sia che si parli di Sudamerica c'è sempre questo elemento dell’identità in sospeso. ESPRESSIONI
IDIOMATICHE (Slide 17) Ecco veniamo all'ultima parte è l'uso non più di esotismi ma di espressioni idiomatiche, cioè
di modi di dire, di frasi che in una lingua hanno un significato che va al di là del significato letterale delle sue parole
che a volte vengono compresi, a volte non vengono compresi, a volte si usano per rimarcare una distanza, a volte si
usano come esotismi perché sono modi di dire della lingua uno degli autori tradotti letteralmente in italiano ma che
per noi italiani non hanno alcun significato ma evocano un significato attraverso appunto una valenza esotica che la
lingua mantiene vediamo alcuni esempi: 1. Allora il primo è di Milton Fernandez ne “L’Argonauta “, ormai lo abbiamo
già citato diverse volte e quindi sudamericano. “Il Languido è incazzato perché il Chino, che è uno stronzo, l’ha
mandato dal ferramenta a prendere una bottiglia di olio di gomito.” In questo caso si usa una frase idiomatica
italiana avere olio di gomito, vuol dire avere voglia di lavorare, quando uno lavora come se producesse l’olio da un
gomito, dalle braccia che lavorano; però uno straniero, in questo caso un sudamericano, un migrante uruguagio può
non sapere, non sai significato e allora questa persona che come dice l'autore è uno stronzo l’ha mandato a
comprarlo sfruttando la sua mancanza di conoscenza linguistica. “Di che?” “Di gomito. Ti immagini la scena?”” E
l’altro?” “Il ferramenta? Ah, quello è ancora più stronzo. Gliel’ha venduto!”, approfittando di un migrante che non sa
cosa fosse avrà preso una bottiglietta d’acqua o di chissà che cosa e gliel’ha venduto immaginiamo anche a caro
prezzo. 2. Al di là di questa scena comica, ci sono alcuni esempi di natura diversa: “… ogni azione collettiva
comportava dei rischi che non valevano neanche il moccolo della candela”. Anche da noi diciamo il “rischio non vale
la candela” probabilmente in spagnolo, nello spagnolo sudamericano c'è qualche cosa di simile, non è proprio “il
rischio non vale la candela” ma “il moccolo della candela” 3. “dalle mie parti si dice che quando uno è cocciuto, è
cocciuto come un mulo.”, questo si dice anche in italiano probabilmente anche in Uruguay è così. “oppure come un
basco”, questo invece è un modo di dire che in Italia non si usa. 4. “Chi arriva prima si sistema meglio. L’alba vale
oro” è un modo di dire di Pap Khouma, c'è qualcosa di simile anche in italiano “Chi prima arriva bene alloggia” o
qualcosa di simile; “l'alba vale oro” in italiano c'è “il mattino ha l'oro in bocca”. In ogni caso ci sono modi di dire
simili, in questo caso vengono tradotti in italiano sono presi dalla lingua uno. (Slide 18) Ne abbiamo qui alcuni, ho
fatto un inventario da Gaye:  “La bellezza è ingrata”. La bellezza si pente di nascere perché muore brutta.” “Il nonno
mi disse un giorno … “Vivere è imparare a morire”. “Abbi l’occhio per capire e non solo per vedere”. … “Non occorre
un orefice, l’oro ha meno valore della parola”. “Sarai felice solo dopo che avrai vissuto giorni e giorni di sofferenza”...
“Il fiore è bello, impara a cantare di più le radici”. “Il cielo non chiede mai a nessuno il permesso di piovere”. … “La
parte dell’antilope va sempre al leopardo”. Vedete anche animali che sono al di fuori della nostra comune
frequentazione; l’antilope e il leopardo sono animali della savana quindi più frequenti anche nei modi di dire africani.
“Ricordati che l’antilope porta sempre nei suoi zoccoli la ragione della sua morte”. “… la vita è come il tavolo del
salone, ci siede su una sedia senza sapere chi sia la persona che stava seduta prima e si ignora la persona che starà
seduta domani”. “Chi vivrà morirà … Anche la morte morirà un giorno”. Ecco come esempio un inventario di modi di
dire, di frasi fatte, tradotte in italiano ma che riproducono letteralmente frasi idiomatiche della lingua uno (Slide 19)
Concludiamo questo breve inventario con:  “I nonni dicevano: la fretta nuoce, la pazienza distrugge”  “Ci sono
tempi però in cui i santi non finiscono mai”  “… quel russo era veramente un tipo strano, che doveva avere sangue
d’anatra nelle vene, che mi stava definitivamente sulle scatole”  probabilmente avere sangue d’anatra nelle vene in
uruguagio vuol dire qualcuno che ha qualcosa che non va .

(Slide 20) Ecco dopo questo escursus in una lingua che utilizza elementi dialettali, elementi italiani, elementi
dell'italiano regionale, del gergo, li fonda con elementi della lingua uno; prestiti per definire oggetti di vita
quotidiana, prestiti per definire elementi culturali, feste religiose, riti, spiriti, amuleti; ancora frasi nella lingua 1
tradotte in italiano ma che evocano certamente un significato idiomatico non completamente chiaro a noi italiani se
non in maniera approssimativa. Ebbene una lingua così sintetizzata, frutto di questi contributi più vari, testimonia
una lingua che non è quasi mai una sintesi tra identità diverse ma è il frutto di una lacerazione della frammentazione
in più identità che fino a un certo punto sono scarsamente conciliabili. Si arriva a un certo punto anche volendo
essere aperti ma che non trova mai una più completa assimilazione reciproca, non si arriva mai ad avere un'unica
identità frutto dell'incontro fecondo delle due ma c'è sempre un elemento di discrasia, c'è sempre un elemento di
allontanamento di estraneità che spinge e attrae allo stesso tempo ed è l’elemento che più distingue le lingue di
questi autori. C’è da un lato la volontà di appropriarsi dell’italiano, utilizzarlo con fini estetici, dall'altro la lingua uno
che non riesce completamente a fondersi, a riconoscere nell'italiano e che quindi fa da polo respingente. Ci si sente
contemporaneamente a tratti e respinti dall'italiano e l'identità e forse non solo l'identità linguistica ma l'identità
tukur è eternamente sospesa tra questi due poli ognuno dei quali linguisticamente esercita una forza di gravità
contrastante l'una con l'altra. Allora per chiudere utilizzo ancora questa immagine ripartendo dalle due fotografie
iniziali e vediamo come Milton Fernandez conclude quel romanzo, era quel l'uruguagio che cercava il mare a
Rogoredo; è una bella giornata ha proseguito oltre il suo cammino: “Anche se quella d’oggi, devo dire, è una
giornata diversa dalle altre. Perché arrivato a Rogoredo ho continuato a camminare. E mi sono guardato da tutte le
parti finché la nebbia ha cominciato a far sparire lentamente i confini. E comincio ora a pensare che il mare qui non
c’è.” Ecco, alla fine la ricerca del mare a Milano, la ricerca dell’Uruguay in Italia, la ricerca di una fusione tra le due
culture forse è impossibile.

Continuiamo questo monografico sulla lingua degli autori di origine straniera che si esprimono in italiano, parlando


di una scrittrice a pieno titolo italiana, come anche tutti gli altri di origine somala, che vive e lavora a Roma:
si tratta di Igiaba Scego.  

Come per altri autori, per quasi tutti gli altri autori di letteratura italiana (meglio dire italofona, anche se di


origine straniera)
anche Igiaba Scego manifesta nelle sue opere numerose affermazioni che motivano, danno conto della scelta di utiliz
zare la lingua italiana come lingua letteraria, pur partendo da un'altra identità. 

Diamo alcune informazioni di natura biografica utili a capire il fenomeno: Scego è nata in Italia, è quindi madrelingua
italiana; solo in un secondo tempo, quando è ritornata in Somalia, da cui la sua famiglia aveva origine, si è
riappropriata in parte della lingua somala. Per cui, differentemente da altri autori che possiamo definire
migranti, Scego non è migrante, è italiana madrelingua, ma che necessariamente deve fare i conti con una doppia
cultura, quella italiana e quella della sua famiglia (somala).  
In più, un'altra peculiarità è data dall'origine stessa della famiglia Scego, che è quella somala. Si tratta di una nazione
su cui l'Italia ha avuto una presenza coloniale, una delle poche colonie italiane, e nei brani disseminati nelle opere
di Igiaba Scego, si ha una valutazione, nel passato e nel recente passato, del Governo italiano nella gestione della
colonia somala, sia del periodo coloniale, nella memoria dei parenti, sia del periodo post-coloniale, fino ad arrivare
ad affermazioni sulla attuale fase, quella che ha determinato la fuga della famiglia Scego, il cui padre era un
dignitario politico prima della dittatura, appunto il periodo della dittatura di Siad Barre e quindi la guerra civile e
tutto il resto.  

Certamente la decisione della famiglia Scelgo di approdare in Italia non è priva di implicazioni. Si tratta di andare
proprio nella nazione che da potenza coloniale aveva oppresso la madrepatria degli antenati e dei familiari, quindi
ancora più che in altri autori, diciamo così transitaliani, c'è un rapporto di amore e odio con la cultura italiana. 

Ad esempio, nel racconto "La mia casa è dove sono", si ritrovano alcuni membri della famiglia Scego, che quasi non si
riconoscono, gli stessi che si erano dispersi per tutta Europa (dopo, come dicevamo, la fuga dal paese nell'epoca
della guerra civile e nella dittatura di Siad Barre) e si trovano a ragionare, si incontrano alcuni per la prima volta,
dicendo: "Intorno a noi i figli dei nostri viaggi e delle nostre nuove appartenenze. Facevamo parte della stessa
famiglia, ma nessuno di noi aveva avuto un percorso comune all'altro. In tasca ognuno di noi aveva una diversa
cittadinanza occidentale. Nel cuore invece avevamo il dolore della stessa perdita. Piangevamo la Somalia persa per
una guerra che stentavamo a capire." Quindi da un lato la cultura somala vista come rimpianto, dall'altro la nuova
cittadinanza occidentale vista come una scelta in parte obbligara, quindi non una scelta d'amore, o comunque non
per tutti. Per i membri della famiglia Scego l'Italia è ancora peggio rispetto agli altri in altre nazioni europee. 

Ecco, fin qui, dice nello stesso racconto, nulla di diverso rispetto alla nostalgia espressa in gran parte della letteratura
migrante, lo dicevamo, quasi tutti rimpiangono, l'abbiamo visto anche ieri Milton Fernandez e altri, ma nel caso
della Scego, l'approdo alla nuova identità, alla nuova lingua conquistata per sopravvivere coincide con la lingua di
quelli stessi ex carnefici (cioè gli italiani, in particolare come si vedrà, nel periodo fascista, un periodo nel quale si è
costruito il dominio coloniale e quelli italiani si sono resi colpevoli in Somalia di atti i più nefasti, violenti possibili);
quindi i parziali responsabili del conflitto stesso, pure indirettamente nell'aver gestito la potenza post-coloniale in
maniera disattenta, per essere benevoli, e nella necessaria fuga (quindi i parziali responsabili della fuga dalla madre
somala). Prosegue quindi nello stesso racconto con queste parole "Io ero l'italiana... i Somali di Gran
Bretagna (membri della famiglia espatriati in Gran Bretagna)  non capivano questa mia ostinazione a stare nella terra
nostri ex colonizzatori. 'Che ci fai lì?'  mi chiedevano tutti. Alcuni malignamente aggiungevano 'Non hai
nemmeno  marito'. L'Italia era vista dai Somali di Gran Bretagna come la peggiore scelta possibile". 

Altrove, sempre nel racconto, emerge un atteggiamento sarcastico nei confronti degli occupanti italiani dell'epoca
fascista e delle loro impostazioni linguistiche finalizzate, ad esempio, a ribattezzare strade con nomi italiani. Si
prende un po' in giro il regime, la politica autarchica in campo linguistico del regime fascista. 

"Maka  al  Mukarama, era l'arteria pulsante di Mogadiscio. Il nome era arabo, naturalmente, come quello di tante
cose in Somalia. Prima di chiamarsi  Maka  al  Mukarama  la strada aveva un nome italiano  un nome dato dai fascisti
che non piaceva a nessuno. Ora sento anche a ricordarlo. Forse corso Pinco Pallino? Era tutto un corso Mogadiscio
con i fascisti." 

Quindi ironia e sarcasmo nei confronti della politica linguista del regime fascista. 

Ancora si nota la fierezza del popolo somalo, poco disposto a subire le assurde convenzioni del regime. Si prosegue
con questo sarcasmo nei confronti degli occupanti, però vedete come questo non può essere disgiunto dalla scelta
attuale di approdare comunque alla lingua italiana come lingua letteraria. Una scelta e una lingua quindi che
esercitano insieme un'attrazione e una repulsione, amore e odio, e parallelamente la lingua somala, e qui Scego si
riappropria, come dicevamo, in seguito, non subito alla nascita, è anche qui una lingua straniera ma materna, come
vedremo; è un'identità, quella di questa scrittrice, in sospeso tra due poli in eterno conflitto tra loro, è quasi
impossibile da ricomporre, ancora più che nei normali casi di letteratura cosiddetta migrante, perché in questo caso
non è soltanto letteratura migrante ma è letteratura postcoloniale, con tutte le valutazioni che si possono
fare ripetto al passato fascista della presenza italiana in Somalia. Quindi leggiamo ancora "Ah, ce l'avevano con noi
perché ci rifiutavamo di fare il saluto fascista (con noi Somali, si mette giustamente dal punto di vista dei cittadini
Somali). Siamo stati gli unici dell'Africa Orientale. Persone inutili, i fascisti!"   

Insieme alla consapevolezza, quindi del ruolo nefasto che la politica coloniale italiana ha rivestito, tuttavia, come
dicevamo, compare l'affetto e senso di appartenenza all'Italia, di chi vi è nato, alla lingua di chi in questo paese ha
imparato a leggere, scrivere, parlare... in altre parole una lingua madre o seconda madre (o prima madre, adesso è
da decidere) della scrittrice Scego.  

Quindi si prosegue sempre nello stesso racconto  " “Era difficile spiegare le mie ragioni. L’Italia era il mio 

paese. Pieno di difetti, certo, ma il mio paese. L’ho sempre sentito profondamente mio.   

(Questa è una dichiarazione d'amore che non è disgiunta e coesiste con la dichiarazione di odio fatta prima)  Come
del resto la Somalia, che di difetti abbonda … spiegare che lavoro con la lingua italiana era anch’essa un’impresa
titanica” .   

Quindi una professione d'amore per questa seconda o prima madre.  

Quindi manca, questo si nota, una motivazione che invece è frequentemente perlomeno nelle opere degli altri
autori, quella della lingua italiana che attrae per il suo prestigio culturale e letterario.  

Abbiamo detto che, anche se la statistica è controversa, l'italiano sarebbe la quarta lingua più studiata, o comunque
una delle più studiate al mondo, proprio in virtù del suo patrimonio artistico culturale e letterario.  

Per la famiglia Scego, non è proprio questo uno dei primi motivi che hanno attratto all'uso della lingua italiana. 
Il fratello di Igiaba, nello stesso racconto, si esprime così: "la Guglielmo Marconi era la mia scuola elementare, poi
con l’avvento della dittatura di  Siad  Barre l’hanno chiamata  Yaasin  Cusma. Stavo pensando alla mia prof.  (qui
ovviamente siamo in Somalia) Era una suora italiana, sai? Si chiamava Maria, come tutte le suore e le piaceva il
Pascoli». Anch’io avevo studiato il Pascoli a scuola. Eravamo cresciuti in due paesi diversi, loro a Mogadiscio, io in
una periferia di Roma,   (questo io che parla è Igiaba)  e avevamo studiato il Pascoli. Stesse poesie tristi. Brutture
della  storia. Forse sia io che lui avremmo dovuto studiare altre cose: la nostra storia africana, per esempio. Invece gli
africani sempre a studiare la storia degli altri.”   

Vedete che il prestigio letterario culturale dell'italiano, non solo non esercita questo fascino, ma addirittura è visto
come potenza coloniale, esso stesso, cioè si studia Pascoli, l'emblema, qui dice esagerando brutture della storia (cosa
che per loro è, poiché lo hanno vissuto come una imposizione, una colonizzazione culturale da parte delle suore
cattoliche che erano anche loro presenti sul suolo somalo).  

Qui si identifica, nella cultura italiana insegnata, un fattore di oppressione che umilia l'identità africana del popolo
somalo, sopprimendone le origini.  

Anche gli italiani inversamente studiano, ovviamente la loro storia, la loro cultura, ma sono ben lontani da essere
consapevoli del dramma delle potenze coloniali che una volta erano territorio italiano. 

Sempre nello stesso racconto “Ignorano la storia coloniale. Non è colpa loro: a scuola mica le impari queste cose.
Siamo stati bravi, ti dicono, abbiamo fatto i ponti o le fontane. Il resto lo si ignora, perché non lo si insegna”.
(Scego 2012 (2010):27 – 28, 30).  

(Qui ci sono dei riferimenti con la data il numero di pagina. Nell'ultima slide trovate i riferimenti bibliografici) “E’
colpa di questi italiani se oggi stiamo messi male e questi non sanno nemmeno indicarci sulla loro lurida cartina”.
(Scego 2008: 250) 

Quindi, non solo noi Somali siamo abituati, obbligati a studiare Pascoli, ma coloro che ci hanno colonizzato, ci hanno
oppresso, ci hanno rovinati non sanno nemmeno dove siamo sulla cartina. Da loro non si studia, non vale la
reciprocità; se noi siamo obbligati a studiare il Pascoli, loro non sono obbligati a studiare il loro stesso passato
coloniale e la loro stessa identità storica. 

Quindi continua questa rabbia oltre che questa attrazione nei confronti della cultura italiane.  

Vediamo come quindi ci si riappropri, nel caso della scrittrice Igiaba, di due madri:  

1. la madre italiana (la lingua madre italiana) appresa nella scuola proprio come lingua madre, lingua di
comunicazione con gli altri bambini, ricordiamo che Igiaba Scego è nata in Italia 
2. seconda madre, appresa successivamente dalla madre vera e propria e dai successivo soggiorni in Somalia (dalla
madre e dal padre).  

Il padre di Giada da giovane le ha tramandato molte canzoni in lingua pravana e lingua somala; tra queste una
marcetta, "Mi cantava anche una marcetta: quella canzone, lo confesso con una certa vergogna, mi piaceva da matti
… era tutto uno  zumpappà  zumpappà. Da piccola non capivo molto di quel testo che evocava un ragazzo audace, un
ragazzo di  Portoria  che sta gigante nella storia. Solo anni dopo capii che era la canzone dei balilla, un inno
fascista" (quindi la memoria coloniale sta anche nelle cantilene dei genitori).  

Ancora un episodio familiare serve a spiegare il concetto chiave nella narrativa di Igiaba Scego, quello
di dismatria; c'è proprio un racconto intitolato dismatria, che è un neologismo che fa capo alla patria di Luigi
Meneghello, e la dismatria è avere due lingue madre, ma quindi non averne nemmeno una, non avere entrambe le
identità linguistiche, insieme attraenti e respingenti, e tra loro non avranno mai una una interazione, una
integrazione. 
Quindi non c'è una doppia madre ma c'è una assenza di maternità, quindi una dismatria. 

Leggiamo alcuni strati che ci spiegano questa dismatria: 

“Il mio problema, amici, era costituito dalle valigie. Sì, giuro, valigie. Quelle cose a forma di parallelepipedo in cui
mettiamo la nostra roba quando dobbiamo andare da qualche parte, di solito lontano" 

Perché le valigie? Perché la madre della protagonista di questo racconto insisteva nel mantenere le valigie piene,
pronte per la partenza e ritorno in Africa (a simboleggiare che si stava in Italia, ma che il pensiero era comunque in
Africa, si era pronti a tornare non appena ciò fosse stato possibile, l'identità era sospesa tra Italia e Africa, quindi una
doppia madre). 

“Invece a casa mia la parola armadio era tabù. Come del resto erano tabù la parola casa, la parola 
sicurezza, la parola radice, la parola stabilità … , (quindi vivono in sospeso, in eterno viaggio, in eterno
spostamento)Mamma diceva  sempre:«Se  teniamo tutte le nostre cose in valigia, dopo non ci sarà bisogno di farle in
fretta e furia» … E poi niente. Non succedeva mai niente! Eravamo in continua attesa di un ritorno alla madrepatria
che probabilmente non ci sarebbe mai stato. Il nostro incubo si chiamava  dismatria.  Qualcuno a volte ci correggeva e
ci  diceva:«In  Italiano si dice espatriare, espatrio, voi quindi siete degli  espatriati.»Scuotevamo  la testa, un sogghigno
amaro e ripetevamo il  dismatria  appena pronunciato. Non ci mancava la patria. Ci mancava la lingua madre  (ecco la
distinzione).    Eravamo dei  dismatriati,  qualcuno aveva tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla
nostra  matria, la Somalia” (Scego  2005: 7 – 8 ). 

In questa dismatria la potenza della parola. Quindi una delle due lingue diventa insieme all’altra, in interazione con
l’altro uno strumento letterario che serve a dare quoto e a raccontare questa sospesa identità tra due poli.

“Fu grazie alla maestra che capì per la prima volta che le parole hanno una forza incredibile e che chi parla o scrive
bene avrà più chances di non restare da solo”.

In questa dismatria la lingua è un ponte che può unire anche i punti più lontani.

“O solo quando tornai in Somalia che ricomincerai a usare la lingua di mia madre. Nell’arco di pochi mesi mi ritrovai a
parlare insomma molto bene. Ora posso dire di avere due lingue madri che mi amano in ugual misura. Grazie alla
parola ora sono quello che sono.

È questa una frase bellissima e di grandissima potenza.

La storia di profughi, di espropriati, Disma creati, famiglie rotte e disperse può riscattarsi grazie alla parola, alla
lingua, che vuol dire appartenenza e identità e vuol dire anche fare letteratura, uno strumento di racconto per tutte
queste vicende.

“Oltre Babilonia”, romanzo della Scego, in cui una delle protagoniste, azzurra, somala nata in Italia che si reca in
Tunisia insieme alla madre Mariam ha da imparare l’arabo, riflette sulla sua identità, linguistica e non. Tale riflessione
non è strettamente ascrivibile all’autrice, tuttavia il personaggio pare rivestire il ruolo di suo Alter Ego in molti punti
del romanzo:

“ Mia madre mi parla della nostra lingua madre… Spumosa, scostante, ardita. Nella bocca di mamma insomma lo
diventa miele. Mi chiedo se la lingua madre di mia madre (gioco di parole) possa farmi da madre. Se nelle nostre
bocche il somalo suoni uguale. Come la parlo io questa nostra lingua madre? Sono brava come lei? Forse no, anzi
sicuramente no… Ma mi sforzo lo stesso di parlare con lei quella lingua che ci unisce. Insomma ho trovato il conforto
del sud di Rho, insomma le ho sentito le uniche ninna Nanne che mi ha cantato, insomma l’ho di certo ho fatto i
primi sogni”.

Sono parole molto forti, la metafora della lingua come un utero dal quale se nasce va a sottolineare che la lingua è la
nostra mamma e identità. La concetto di madre si trasferisce alla lingua che fa da utero a chiunque la parli.
“Ma poi, ogni volta, in ogni discorso, parola, sospiro, fa Coccolino l’altra madre. (Cui si parla quasi di due uteri) quella
che ha allattato Dante, Boccaccio, de Andrè e al damerini. L’italiano con cui sono cresciuta e che a tratti o anche
odiato perché mi faceva sentire straniera. L’italiano aceto dei mercati gli Honey ali, l’italiano dolce degli speaker
radiofonici, l’italiano serio delle lectiones magistrales. L’italiano che scrivo”.

Lady Is madre assume connotati nuovi: dal concetto che respinge, che fa perdere i contatti con le radici e le lingue
della famiglia, ha occasione per acquisire un’altra, nuova madre.

Da dismettere abbi madre, direi. È interessante notare anche il repertorio della varietà di italiano con cui la
protagonista deve fare i conti e a questo esposto prima di scrivere nel suo italiano. Dall’assenza di madre si passa a
due madri che si contendono la sua identità.

In questo c’è il tentativo di dare una definizione di sé, tentativo anche autoironico ma mai fatta prendi mando una
verità, sempre un’annunciazione di interrogativi.

“sono cosa? Sono chi? Sono nera italiana. Ma sono anche somala e nera. Allora sono fra italiana? Italo africana?
Seconda generazione? Incerta generazione? (Vedete L’ironia) Meel kale? Non fastidio? Negra saracena? Sporca
negra? Ok, ho capito, tu diresti di colore. Politicamente corretto dici. Io lo trovo un malamente insignificante. Quale
colore di grazia? Nero? O piuttosto marroncino? Cannella o cioccolato? Caffè? Orzo in tazza piccola? Sono un
crocevia, mi sa. Un ponte, un equilibrista, una che è sempre in bilico e non lo è mai alla fine sono solo la mia storia
non fastidio? Negra saracena? Sporca negra? Ok, ho capito, tu diresti di colore. Politicamente corretto dici. Io lo
trovo un malamente insignificante. Quale colore di grazia? Nero? O piuttosto marroncino? Cannella o cioccolato?
Caffè? Orzo in tazza piccola? Sono un crocevia, mi sa. Un ponte, un equilibrista, una che è sempre in bilico e non lo è
mai alla fine sono solo la mia storia”.

Quella parola me locale significa altro che, in un altro luogo. Io sono altrove, una bellissima definizione da dare di sé
stessi.

Vediamo allora questa lingua dei racconti, avendo visto lungamente le motivazioni che l’hanno prodotta, è una
lingua frutto delle interazioni tra italiano e somalo. A un primo livello le parole sono male compaiono per identificare
referenti di vita quotidiana. Possono essere i piatti, cibi, vestiti, profumi, spezie eccetera. Vediamo qui alcuni esempi:

A un secondo livello, un po’ più profondo, i prestiti somali non identificano più referenti culinari, di vestiario eccetera
ma tradizioni culturali, religiose, tutti nomi delle entità demoniache per la tradizione musulmano-somala, eccone
alcuni esempi:
La più di vita quotidiana, ma elementi spirituali e religiosi. In ultima analisi, i prestiti somali arrivano ancora più
approfonditamente, non più per oggetto i piatti, di vita quotidiana, non più per tradizioni culturali e religiose, ma
proprio arrivano toccare le corde dell’anima. Sono le parole dell’affetto, le parole proprio nei primi momenti del
legame con la mamma e le parole che noi sentiamo dentro di noi che ci fanno risvegliare l’identità.

“…(la madre) la sentivo borbottare una serie di improperi verso dhurwaa, la iena: “baladayo kugu dhacay, too far…
tonfa dhalay, aabaha was! Wacal!“ Una cantilena che all’inizio non capivo, ma che poi inizia ripetere anch’io.
Mamma odiava dhurwaa perché si mangiava il bestiame, rubava i neonati erano deva la vita dei numeri ancora più
difficile.“, “Il motivo che era era legato a. Questo è il nome della sua casa e del terreno dove era costruita.
Lateralmente il somalo significa “due pietre“.

“una madre, di nome Bushra, piange la morte di suo figlio, Majid: “Ya hubbi, amore mio, dove sei? Soo noqo adigo
nabad ah, Torna sano e salvo“.

Sono dei suoni e delle parole che riproducono i sentimenti più veri, in primo caso la cantilena della madre che
protegge i bambini la casa e il bestiame dalla iena e il secondo caso è il pianto della madre che piange per il figlio è
morto. Sono parole che toccano profondamente l’anima di chi appartiene a questa tradizione culturale.

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