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La questione della lingua nel 500

1.Una volta accettato il dominio del toscano di tipo fiorentino sugli altri volgari, bisogna
sciogliere un altro nodo, che abbiamo già visto presente nell’Umanesimo volgare: quale
fiorentino?
2.Si deve seguire rigorosamente il modello dei grandi scrittori del Trecento?
Bisogna tener conto del fiorentino contemporaneo? (come suggeriva, ad esempio, Leon
Battista Alberti)
O si deve seguire un modello eclettico?
3.Forse in nessun altro secolo il dibattito teorico sulla lingua ebbe tanta importanza come nel
Cinquecento perché l’esito di queste discussioni fu la stabilizzazione normativa dell’italiano.
4.Un’interminabile serie di discussioni sulla natura del volgare e sul nome da attribuirgli, non
va intesa come un’inutile diatriba che interessava solo i letterati, ma come un momento
determinante in cui teorie estetico-letterarie si collegano a un progetto concreto di sviluppo
delle lettere.
Le teorie in campo:
1.Pietro Bembo: il primato del fiorentino trecentesco
La teoria cortigiana
-Al centro di questo dibattito possiamo collocare le Prose della volgar lingua,
pubblicate a Venezia nel 1525
1.Prose della volgar lingua
Nelle Prose viene svolta prima di tutto un’ampia analisi storico-linguistica,
prendendo le distanze dalla tesi pseudo-bruniana,
la forma vulgata e mistificata della tesi che era stata proposta da Leonardo Bruni a proposito
dell’origine del volgare
Secondo la tesi pseudo-bruniana, l’italiano era già esistito al tempo dell’antica Roma, come
lingua popolare.
Bembo adotta il punto di vista di Biondo Flavio, secondo il quale il volgare era nato dalla
contaminazione del latino ad opera degli invasori barbari
il volgare stesso risultava un’entità nuova
era possibile (come era emerso già nel pensiero di Leon Battista Alberti) un suo riscatto
tramite gli scrittori e la letteratura
Quando Bembo parla di lingua volgare, intende senz’altro il toscano:
ma non il toscano vivente, non il toscano parlato nella Firenze del sec. XVI,
bensì il toscano letterario trecentesco dei grandi autori, di Petrarca e di Boccaccio (in parte
anche quello di Dante).
La soluzione di Bembo fu quella vincente.
Essa formalizzava in maniera rigorosa e teoricamente fondata quanto era avvenuto nella
prassi:
Il volgare si era diffuso in tutta Italia come lingua della letteratura attraverso un più o meno
cosciente imitazione dei ’i grandi trecentisti.
Ora la grammatica di Bembo permetteva di portare a compimento quel processo spontaneo,
depurando il volgare stesso dagli elementi eterogenei della koinè primo-cinquecentesca
2. La Teoria Cortigiana
È lo stesso Bembo, nelle Prose della volgar lingua, a parlare dell’opinione di Calmeta secondo
la quale il volgare migliore era quello usato nelle corti italiane
e specialmente nella corte di Roma.
Una formulazione forse più precisa della teoria di Calmeta è data da un altro letterato del
Cinquecento, Ludovico Castelvetro:
secondo l’interpretazione di quest’ultimo risulterebbe che Calmeta faceva riferimento a una
fondamentale fiorentinità della lingua, la quale si doveva apprendere sui testi di Dante e
Petrarca
doveva essere poi affinata attraverso l’uso della corte di Roma,
una corte che effettivamente era luogo al di sopra del particolarismo municipale
La differenza tra questo ideale linguistico e quello di Bembo sta nel fatto che i fautori della
lingua cortigiana non volevano limitarsi all’imitazione del toscano arcaico, ma preferivano far
riferimento all’uso vivo di un ambiente sociale determinato, quale era la corte
Bembo obiettava ai sostenitori della lingua ‘comune’ che una lingua ‘cortigiana’ era un’entità
difficile da definire in maniera precisa, non riconducibile all’omogeneità
In effetti proprio questo difetto fece si che la teoria cortigiana non uscisse vincente dal
dibattito cinquecentesco.
La teoria arcaizzante di Bembo aveva su di essa il considerevole vantaggio di offrire modelli
molto più precisi, nel momento in cui i letterati avevano necessita di una norma rigorosa a cui
attenersi

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