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Lucia Bertolini

FUORI E DENTRO LA GRAMMATICHETTA ALBERTIANA

1. Intorno alla Grammatichetta

La situazione della Grammatica di Leon Battista Alberti presenta proble-


mi restitutivi estremamente delicati, e non soltanto perché essa è testimoniata
da un unico codice, di una settantina d’anni posteriore alla stesura dell’incu-
nabolo grammaticale, ma anche perché la generale delicatezza della restitu-
zione critica è in questo caso resa ancor più sensibile da una sorta di “strabi-
smo” congenito che la Grammatichetta del resto non si sforza di nascondere.
Nella grammatica dell’Alberti (come in ogni testo che si rispetti, del resto) si
alternano due figure autoriali: da un lato l’autore esterno, nel nostro caso se-
dicente fiorentino, dall’altro quello interno, nella fattispecie descrittore e lin-
guista. Le due figure, che si avvicendano in maniera non casuale, giustificano
anche la polarizzazione ricorrente nella nominazione della lingua descritta:
alla prima figura, connotata sul versante geografico, corrisponde una posizio-
ne identitaria marcata (allocata in maniera topica nei luoghi iniziale e finale,
sollecitata dall’indirizzo al destinatario) che esprime l’esultanza per la patria
ritrovata 1.

1
§ 1: «Questa arte [sc. la grammatica], quale ella sia in la lingua nostra, leggietemi e inten-
deretela»; §§ 99-100: «Laudo Dio che in la nostra lingua habbiamo homai e primi principii [...].
Cittadini miei, pregovi: se presso di voi hanno luogo le mie fatighe, habbiate a grado questo
animo mio cupido di honorare la patria nostra». Alle porzioni introduttiva e finale ora citate si
può aggiungere solo un altro luogo (alla fine della illustrazione dei verbi della coniugazione in
-ere) in cui l’autore fiorentino riprende la parola (§ 74): «Sonci di queste regole forse altre ecce-
zioni, ma per ora basti questo principio di tanta cosa. Chi che sia, a cui diletterà ornare la patria
nostra, aggiugnerà qui quello che ci manchi».
Qui (e in seguito) si cita la Grammatichetta secondo la comoda paragrafatura proposta da
Giuseppe Patota prima in Leon Battista Alberti, Grammatichetta e altri scritti sul volgare, a
cura di Giuseppe Patota, Roma, Salerno, 1996, poi in Leon Battista Alberti, Grammatichet-

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Alla seconda figura autoriale, quella del linguista e descrittore, scientifi-


camente apolide, pertiene la definizione costante della lingua descritta come
toscana, definizione referenziale che introduce, accanto all’approccio oggetti-
vo (indicato da questa lingua), il senso di alterità 2.
Nel caso di Leon Battista l’alterità non è però solo conseguente alla pro-
spettiva assunta, funzionale a conseguire il grado di distacco che l’approccio
scientifico pretende: l’Alberti grammatico infatti condivide con altri linguisti
la particolarità di aver dovuto passare attraverso un apprendimento linguisti-
co riflesso per farsi davvero conoscitore prima e descrittore poi della lingua
percepita come altra. È troppo nota, perché ulteriormente vi si insista, la te-
stimonianza che l’autore stesso tramanda nella Vita 3: il passaggio del testo
autobiografico però, che potrebbe apparire allotrio, perché riferito ad altra
opera (i Libri de familia), per di più di dilatata composizione, potrebbe risul-
tare pertinente, se venisse accolta per la Grammatichetta una data alta, non
troppo distante dalla scrittura dei primi libri che la Familia compongono (e ai
quali quel brano della Vita si riferisce). Qualora una datazione precoce (post
aprile-maggio 1435, senza allontanarsi troppo da tale terminus) venisse corro-
borata da prove che attualmente mancano 4, evidenti sarebbero i riflessi sul

ta / Grammaire de la langue toscane précédée de l’Ordine delle lættere / Ordre des lettres, Édi-
tion critique, introduction et notes par Giuseppe Patota, Traduction de l’italien par Laurent
Vallance, Paris, Les Belles Lettres, 2003.
2
Trascegliendo fra le prime occorrenze e liberamente selezionando fra le diverse tipolo-
gie si vedano: § 4 «<O>gni parola e dictione toscana»; § 5 «Le chose, in molta parte, hanno in
lingua toscana»; § 6 «Non hanno e Toscani»; § 47 «Non ha la lingua toscana»; § 49 «Hanno e
Toscani»; § 61 «In questa lingua»; § 70 «Nè troverrai in tutta la lingua toscana».
La caratteristica denominazione (e non quella che avremmo potuto aspettarci di fiorenti-
na) è ora spiegata in maniera convincente da Paola Manni (Paola Manni, Il volgare toscano
quattrocentesco fra realtà e rappresentazione nella Grammatichetta albertiana, in Alberti e la cul-
tura del Quattrocento, Atti del Convegno internazionale del Comitato Nazionale VI Centenario
della nascita di Leon Battista Alberti, Firenze, 16-17-18 dicembre 2004, a cura di Roberto
Cardini e Mariangela Regoliosi, Firenze, Polistampa, 2007, II, pp. 629-653: p. 638) come
modellata sulla definizione regionale della lingua latina; si ricordi, a conforto di tale interpreta-
zione, la digressione “etimologica” che Niccolò della Luna introduce nella prosa destinata ad
essere recitata in occasione del Certame coronario e che può essere considerata espressione del
pensiero albertiano: «Et come molti e non mediocre eruditi afermano, quegli che in quel tempo
habitavano in Latio avevano, et per loro continuo uso tenevano, la lingua latina, la quale, come
apertamente si può giudicare, à recato seco il nome del proprio luogo di Latio». Cfr. De vera
Amicitia. I testi del primo Certame coronario, edizione critica e commento a cura di Lucia Ber-
tolini, Modena-Ferrara, Franco Cosimo Panini Editore-Istituto di Studi rinascimentali, 1993,
p. 495, § 7a-c. Per la collaborazione presunta fra Niccolò della Luna e l’ideatore del Certame
cfr. Ibidem, pp. 491-492.
3
Riccardo Fubini-Anna Menci Gallorini, L’autobiografia di Leon Battista Alberti. Stu-
dio e edizione, «Rinascimento», s. II, XII (1972), pp. 21-78: 70.
4
Rinvio direttamente alla proposta (avanzata sulla base di considerazioni di carattere lo-
gico) svolte in Lucia Bertolini, Leon Battista Alberti, «Nuova informazione bibliografica», I
(2004), pp. 245-287: 254.

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Fuori e dentro la Grammatichetta albertiana

soggetto, intendo l’Alberti grammatico. Trascorsa la propria giovinezza fuori


della Toscana, visitata già Firenze nel settembre del 1431 5, solo da dopo il
giugno 1434 (dunque meno di un anno prima della disputa fra il Bruni e il
Biondo) 6 vi risiedeva stabilmente, condizione che per la prima volta gli con-
sentiva di “assistere” all’uso del toscano, per così dire, in presa diretta e non
per l’intermediario dei consorti esuli per l’Italia. La genialità e la lucidità di
questo essort grammaticale, sollecitato da un punto di vista storico ed esterno
dal dibattito del 1435, si spiegherebbe anche dal punto di vista soggettivo del
novello grammatico che, venendo da altro ambiente linguistico, può lavorare
alla descrizione della lingua toscana con l’occhio distante di chi a rigore non
possiede quella lingua come materna e al contempo con l’occhio complice di
chi quella lingua desidera possedere 7.

Non mi pare che la proposta alternativa recentemente suggerita (e che fissa la data della
Grammatica a dopo il 1437) controbatta con efficacia alla mia precedente, perché il ragiona-
mento filologico su cui si fonda non tiene conto della lunga utilizzazione da parte di Alberti dei
fascicoli familiari contenuti nel ms. II.iv.38 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Sen-
za voler rientrare sulla questione dei tempi di composizione e pubblicazione del IV libro della
Familia, segnalo che le correzioni e postille autografe sul manoscritto citato sono di datazione
ampia e mobile a seconda che si tratti dei primi due libri, del III libro e del IV; alcune, e in par-
ticolare quella che è stata invocata per la nuova proposta di datazione, appartengono senza
dubbio (così già appariva chiaro al Grayson) al periodo in cui Alberti immaginò di riunire le tre
tranches dell’opera per una diffusione integrale (idea di cui abbiamo una sola testimonianza
dalla lettera di Leonardo Dati e Tommaso Ceffi del 1443). Il dato documentario divarica neces-
sariamente lo iato cronologico fra le correzioni della revisione autografa del III libro che sono
passate in tutta la tradizione e quelle postille inserite nella fase finale di organizzazione unitaria
(queste effettivamente a più riprese contenenti richiami da libro a libro). Cfr. Roberto Cardi-
ni, Ortografia e consolazione in un corpus allestito da L.B. Alberti. Il codice Moreni 2 della Bi-
blioteca Moreniana di Firenze, Firenze, Olschki, 2008, pp. XLII-XLVIII.
5
Cfr. la procura, datata 24 settembre, pubblicata da Lorenz Böninger (scheda 5) in Cor-
pus epistolare e documentario di Leon Battista Alberti, a cura di Paola Benigni, Roberto Car-
dini e Mariangela Regoliosi, con la collaborazione di Elisabetta Arfanotti, Firenze, Poli-
stampa, 2007, pp. 111-113; si veda anche Lorenz Böninger, Da ‘commentatore’ ad arbitro della
sua famiglia: nuovi episodi albertiani, in La vita e il mondo di Leon Battista Alberti, Atti dei Con-
vegni internazionali del Comitato Nazionale VI centenario della nascita di Leon Battista Alber-
ti (Genova, 19-21 febbraio 2004), Firenze, Olschki, 2008, pp. 397-423.
6
La data del 23 giugno corrisponde all’arrivo a Firenze di Eugenio IV: «Data la notevole
libertà di movimenti concessa agli abbreviatori, in assenza di altri elementi il termine ha però
solo un valore indicativo» in rapporto all’arrivo in città di Battista; cfr. Luca Boschetto, I libri
della Famiglia e la crisi delle compagnie degli Alberti negli anni Trenta del Quattrocento, in Leon
Battista Alberti, Actes du Congrès International de Paris, Sorbonne-Institut de France-Institut
culturel italien-Collège de France, 10-15 avril 1995, édités par Francesco Furlan, Torino-
Paris, Nino Aragno Editore-J. Vrin, 2000, pp. 87-131: 88 e Luca Boschetto, Leon Battista Al-
berti e Firenze. Biografia, storia, letteratura, Firenze, Olschki, 2000, p. 81.
7
Cfr. Gianfranco Folena, Scrittori e scritture. Le occasioni della critica, introduzione di
Marino Berengo, edizione a cura di Daniela Goldin Folena, Bologna, il Mulino, 1997, pp.
89-92 e 92-104 (si veda, a p. 94, l’affermazione secondo la quale in Leon Battista Alberti «la fio-
rentinità è quella dell’esilio e della riconquista»). Cfr. anche Nicoletta Maraschio, Il plurilin-

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2. In limine: Ordine delle lettere e i segni ortofonici

«Vedestu mai che un cieco insegnasse la via a chi vedea? Appresso noi
qui con questi brevissimi ricordi, quali chiamiamo Elementi, assequirai che
chi forse per sé non sa designare, e’ mostrerà vera e certa ragione e modo a
diventare perfetto designatore» 8. Così introduceva l’Alberti i suoi Elementa
picture nella originaria redazione volgare; il paradosso, utilizzato per giustifi-
care il suo “salire in cattedra” allo scopo di insegnare alcuni esercizi manuali
di carattere geometrico a chi più e meglio di lui conosceva la pratica del dise-
gno, potrebbe ben attagliarsi insomma anche alla stesura della Grammati-
chetta. Ma è proprio la parziale ignoranza della lingua descritta che consente
ad Alberti di affinare l’orecchio sì da stilare un repertorio di segni corrispon-
denti in maniera univoca ai suoni del fiorentino, quale si trova nell’Ordine
delle lettere, tanto nella versione preposta alla Grammatichetta, tanto nella
versione autografa e provvisoria del codice Moreni 2 9.
Sebbene riconosciuto in genere come «complet, efficace», l’Ordine delle
lettere (in entrambe le redazioni) 10 mette a rischio la propria apparente tra-
sparenza fin dal titolo, scommettendo sul termine lettera, dal significato for-
temente ambiguo (o complesso che dir si voglia), comprensivo del fatto fone-
tico e della ipoteca grafica 11. Quel titolo infatti può significare tanto ‘segni
grafici [necessari] per [la scrittura de] la lingua toscana’ quanto ‘suoni della

guismo italiano quattrocentesco e l’Alberti, in Alberti e la cultura del Quattrocento, cit., II, pp.
611-628 e nello stesso volume Manni, Il volgare toscano quattrocentesco fra realtà e rappresenta-
zione, cit., pp. 638-639.
8
Leon Battista Alberti, Opere volgari, a cura di Cecil Grayson, Bari, Laterza, III,
1973, p. 111.
9
Lo si può ora vedere riprodotto nella bella edizione facsimilare di Cardini, Ortografia e
consolazione, cit. (in cui anche è riferita la bibliografia pregressa sul codice, alle pp. I-IX).
10
Per l’interpretazione “progressiva” che vede un miglioramento fra la sistemazione del-
l’Ordine delle lettere e l’analogo specchietto della Grammatichetta cfr. Paolo Bongrani, Nuovi
contributi per la Grammatica di Leon Battista Alberti, «Studi di filologia italiana», XL (1982),
pp. 65-106: 73-78. Il giudizio riferito a testo è di Giuseppe Patota (Alberti, Grammatichetta /
Grammaire, cit., p. LV).
11
Coerentemente con gli usi latini e con la riflessione, grammaticale e linguistica, premo-
derna. Per il primo aspetto cfr. Silvia Rizzo, Il lessico filologico degli umanisti, Roma, Edizioni
di storia e letteratura, 1984, pp. 101-104. Per la tradizione grammaticale cfr. Prisciani Institu-
tiones grammaticae, ex recensione Martini Hertzii, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, 1855
(voll. II-III di Grammatici latini ex recensione Henrici Keilii), I ii 3-4: «Litera est pars minima
vocis compositae [...]. Litera igitur est nota elementi et velut imago quaedam vocis literatae».
Fra gli usi albertiani merita di essere rammentato il brano del De pictura, nel quale predomina il
significato grafico: «questi in prima separato insegnano tutte le forme delle lettere, quali li anti-
qui chiamano elementi, poi insegnano le silabe, poi a presso insegnano componere tutte le diz-
zioni» (redazione volgare III 5, 5); «Nam illi quidem prius omnes elementorum characteres se-
paratim edocent, postea vero syllabas atque perinde dictiones componere instruunt» (redazio-
ne latina, Ibidem).

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Fuori e dentro la Grammatichetta albertiana

lingua toscana’, ma, cosa che più importa, implica una porzione di non detto
(in verità non scritto) che può sottrarsi solo ad una prima lettura. Un inventa-
rio delle opposizioni fonologiche e fonetiche del toscano individuate da Al-
berti nell’Ordine delle lettere è stato di recente riassunto da Paola Manni che
rimarca come all’Ordine albertiano «Sfugga invece la distinzione – specifica-
mente toscana nel suo valore funzionale – fra s sorda e s sonora» 12. Il sistema
mostra qualche ulteriore crepa. Si può sorvolare sul fatto che un’esemplifica-
zione esplicita per /tʃ/ non esiste; sebbene l’adozione a tale scopo di < c >
sia desumibile con ogni probabilità per analogia con l’occlusiva velare (per la
quale l’Alberti propone l’adozione di < ch > ), non si può dichiarare tale de-
sunzione assolutamente certa, poiché il corrispondente su cui impostare l’a-
nalogia ( < g > per /d/) è esemplificato con una frase che offrendo casi in
cui il suono è davanti a /i/, non consente di escludere per /tʃ/ la possibilità
virtuale di < ci > . L’uso diacritico di < i > (solo eventuale per < ci > ) è del
resto proposto nell’esemplificazione relativa a /l/ (voglio) 13 e può essere im-
plicitamente supposto per // e /ʃ/, dei quali non è indicata esplicitamente la
grafia distintiva 14. Anche a prescindere dalle abitudini grafiche di Alberti 15,
mi pare se ne possa desumere che, mentre alla mancata registrazione di < h >
fra i segni alfabetici corrisponde la piena coscienza della disponibilità a nuovi
usi esclusivamente grafematici del segno ormai “vuoto” 16, la “pienezza” di
< i > per /i/ e /j/ non consente ad Alberti la messa a fuoco dell’ulteriore va-

12
Manni, Il volgare toscano quattrocentesco fra realtà e rappresentazione, cit., p. 639.
13
Per quanto il trigramma < gli > poggi sulla necessità di tutelare la distinzione fra i lati-
nismi con /gl/ e i volgarismi con /l/, esso non corrisponde a usi albertiani costanti ed esclusivi.
14
Nella prassi correttoria albertiana si rintracciano vari casi di inserimento di < i > dia-
critico per trasformare il digramma < gn > in < gni > anche davanti a suono palatale.
15
Per l’uso albertiano di < ci > e < gi > cfr. Cecil Grayson, Appunti sulla lingua del-
l’Alberti, «Lingua nostra», XVI (1955), pp. 105-110: 107 (ora in Cecil Grayson, Studi su Leon
Battista Alberti, a cura di Paola Claut [Premessa di Alberto Tenenti], Firenze, Olschki,
1998, pp. 81-90: 84).
16
Non è questa una scoperta albertiana se già i grammatici latini avvertivano che «h au-
tem non littera existimatur», «h littera proprie continens adspirationem recepta vulgo in nume-
rum mutarum», «similiter adspiratio ad sonum pertinet, tametsi nos h quasi litteram ponimus»
(Flavii Sosipatri Charisii Ars grammatica, I iii e rispettivamente IV i, (in Grammatici latini, ex
recensione Henrici Keilii, I, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, 1857, p. 8, rr. 19-20; p. 10, rr.
9-10; p. 265, rr. 20-21); Diomedis Ars grammatica, II: «h quoque interdum consonans interdum
adspirationis creditur nota» (Ibid., p. 423, rr. 15-16; cfr. anche p. 424, rr. 22-23); Prisciani In-
stitutiones grammaticae, I 47, p. 35, rr. 24-27: «H literam non esse ostendimus, sed notam aspi-
rationis, quam Graecorum antiquissimi similiter ut Latini in versu scribebant: nunc autem divi-
serunt et dextram eius partem supra literam ponentes psiles notam habent» (cfr. anche I,
24-25, pp. 18-19). Da Prisciano deriva l’analoga affermazione nelle Regulae (1418) di Guarino:
«H vero non est littera sed aspirationis nota» (trascrivo, senza segnalare gli adattamenti grafici,
dall’incunabolo Guarinus Veronensis, Regulae grammaticales, Carmina differentialia, [Vene-
zia, Adam de Ambergau?], 15 luglio 1471, che ho consultato sul sito http://daten.digitale-
sammlungen.de/ ~ db/0003/bsb00035809/images/).

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Lucia Bertolini

lore diacritico dello stesso segno. Nell’Ordine delle lettere rimangono anche,
in maniera a prima vista inerziale, i segni alfabetici < q > e < x > . Solo un
trentennio dopo questa prima riflessione Alberti sarà in grado di riconoscere
come tale la prima ridondanza; è noto il brano del De cyfris, problematico
nella restituzione testuale, in cui il geniale crittografo, messo ancora una vol-
ta, ma da diverso angolo visuale, a confronto con il repertorio grafico conse-
gnato ai moderni dal mondo latino conquista ulteriore lucidità fonetica:
Singulari cuivis consonantium vocalis quaecumque aptissime subiungitur
praeterquam ad litteram Q. Id quidem ea re, quod eam semper complexa
sequatur U. In qua re consuetudinem scribentium admiror, quae K Grae-
cam litteram ex usu sustulit (qua littera fortassis vel in plerisque indige-
mus veluti in Graecorum dictionibus exscribendis ut ‘kelym’ et ‘Kalendas’
et eiusmodi); alia vero ex parte, cum litteram U addendam instituerint ad
Q, non satis meminisse visi sunt, huic litterae Q innatum esse ipsum ut
cappa sonet. Equidem sic iudico non eadem littera ‘cespitem’, ‘Cicero-
nem’ qua ‘consulem’, ‘curiam’, ‘causamque’ scribendum et eiusmodi. Sed
de his alibi 17.

La convenzione degli scriventi ha fatto sì che, per gli usi fonetici del lati-
no (si intenda del latino post-classico, medievale e della Chiesa: così si spiega
l’opposizione fra cespitem e Ciceronem da un lato, con intacco palatale, e con-
sulem, curiam, causam che avevano conservato intatto il suono velare), si ab-
bia a disposizione un repertorio insieme deficitario e ridondante: aver perso
il grafema < k > (che nel De cyfris ha lo stesso valore fonetico del segno
< ch > da Alberti proposto nell’Ordine delle lettere per il volgare) significa
che il repertorio non è in grado di marcare l’opposizione fra /tʃ/ e /k/, indi-
stinta sotto il segno < c > ; d’altro canto < qu > è insieme ridondante e con-
traddittorio con la messa al bando di < k > 18.

17
Cito da Viri Clarissimi Leonis Baptistae Alberti Florentini De componendis Cyfris,
Edizione critica a cura di Augusto Buonafalce, Torino, Galimberti Tipografi Editori, 1998,
p. 10, rr. 25-43, ma interpungo diversamente e accolgo la lezione maggioritaria dei codici (il te-
sto Buonafalce legge: «Q innatum esse ipsum U, ut cappa KU sonet», congetturale a partire
dalla varia lectio dei testimoni; ringrazio l’editore che ha avuto la pazienza di verificare sui ma-
noscritti la veridicità dell’apparato accluso all’edizione citata). Sulla problematicità di questo
brano secondo la ricostruzione del Buonafalce cfr. Martine Furno, D’une pratique du chiffre à
une théorie de la langue: remploi des grammaires antiques et pensée linguistique moderne dans le
De cifris d’Alberti, in Humanismo y pervivencia del mundo clásico. Homenaje al profesor Anto-
nio Fontán, a cura di José Maria Maestre Maestre, Joaquin Pascual Barea, Luis Charlo
Brea, Madrid, Alcañiz, 2002, pp. 529-543.
18
Data la precoce consuetudine di Alberti con i grammatici latini (attestata come è noto
già dalla Grammatichetta), stupisce la tarda presa d’atto del problema che è posto sia in Carisio,
sia in Diomede, sia in Prisciano. Cfr. Charisii Ars grammatica, cit., I iii, p. 8, r. 16: «ex his [sc.
le mutae] supervacuae quibusdam videntur k et q, quod c littera horum locum possit inplere»;
cfr. anche Ibid., p. 10, r. 12: «k littera notae tantum causa ponitur» e r. 18: «q littera ex c et u

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Fuori e dentro la Grammatichetta albertiana

Il De cyfris parla prima di tutto di usi grafici e solo secondariamente (nel-


la misura in cui l’essenza e il funzionamento della lingua è desumibile da
quelli) di suoni e di fonetica; per di più il De cyfris tratta del latino (con la
precisazione già sopra espressa) ed eventualmente del greco (quando que-
st’ultimo abbia condizionato il repertorio grafico del primo). Molto poco in-
vece l’esperienza del volgare penetra nel trattatello crittografico, in buona so-
stanza in due luoghi del capitoletto VII, quello in cui si tratta dei nessi conso-
nantici e della loro natura. Quella che qui importa è la prima occorrenza:

Tusca lingua in principiis dictionum passim omnibus consonantibus prae-


ponit S praeterquam ad litteram X et duarum adiunctio consonantium
una est quae in omni parte dictionis reperitur ST uti ‘stat’, ‘adest’, ‘re-
stat’ 19.

Che il toscano ammettesse, in iniziale assoluta di parola, gruppi conso-


nantici composti di s e ciascuna delle consonanti, fatta però eccezione per la
sola x è affermazione sconcertante, se non aprisse forse uno spiraglio sulla
pronuncia albertiana del volgare. Negli autografi l’uso di < x > è ricorrente
ed è probabile (se si dà fede a questa attestazione esplicita del contenuto fo-
netico soggiacente alla scrizione x) che la grafia non fosse soltanto un paluda-
mento latineggiante valido ad esclusivo livello grafico, ma che l’Alberti matu-
ro pronunciasse [eksεrtʃito] o [egzεrtʃito] quel che scriveva exercito, seguen-
do in ciò l’esplicita indicazione di Prisciano e dei grammatici latini 20. Che
tale ipotesi poi sia da trasferire anche al giovane Alberti in procinto di sten-

litteris composita». Analoga posizione in Diomede (Ars grammatica, cit., II, p. 423, rr. 10-15; p.
424, rr. 27-28; p. 425, rr. 18-20) e in Prisciano (Institutiones grammaticae, cit., I, 14, p. 12, rr.
5-15: «K enim et q, quamvis figura et nomine videantur aliquam habere differentiam, cum c ta-
men eandem tam in sono vocum quam in metro potestatem continent. et k quidem penitus su-
pervacua est: nulla enim videtur ratio, cur a sequente haec scribi debeat: ‘Carthago’ enim et ‘ca-
put’, sive per c sive per k scribantur, nullam faciunt nec in sono nec in potestate eiusdem con-
sonantis differentiam. q vero propter nihil aliud scribenda videtur esse, nisi ut ostendat, se-
quens u ante alteram vocalem in eadem syllaba positam perdere vim literae in metro. quod si
ideo alia litera est existimanda quam c, debet g quoque, cum similiter praeponitur u amittenti
vim literae, alia putari, et alia, cum id non facit. dicimus enim ‘anguis’ sicuti ‘quis’ et ‘augur’ si-
cuti ‘cur’»).
19
Alberti De componendis Cyfris, cit., p. 13, rr. 3-8.
20
Charisii Ars grammatica, cit., I iii, p. 8, rr. 12-14: «ex his [sc. le litterae semivocales] una
duplex est x. constat enim aut ex g et s, ut rex regis, aut ex c et s, ut pix picis, ideoque haec lit-
tera a quibusdam negatur»; Diomedis Ars grammatica, cit., II, p. 422, rr. 29-31: «semivocales
sunt septem, f l m n r s x; sed adiecta z octo fiunt. ex his x duplex est, ante quam inventam g et
s vel c et s veteres scriptitabant» (cfr. anche Ibid., p. 425, rr. 34-35 e p. 426, rr. 1-7); Prisciani
Institutiones grammaticae, cit., I 14, p. 12, rr. 3-4: «X etiam duplicem loco c et s vel g et s postea
a Graecis assumpsimus» (cfr. anche Ibid., I 43, p. 33).

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dere la Grammatichetta è reso non impossibile proprio dalla regestazione di x


nello specchietto dell’Ordine delle lettere 21.

L’istanza ortofonica albertiana (testimoniata almeno a partire dal 1432,


ma che solo nella Grammatichetta pare aver trovato la regolarità di un siste-
ma) merita di essere storicizzata e scandita nel tempo. L’Ordine delle lettere
(nella sua fase finale di elaborazione) e la Grammatica propongono segni sta-
biliti in sé ( per /v/, segni appositi per /ε/ e /ɔ/) e nei loro rapporti
fonetico-diacritici reciproci (e articolo e pronome, e verbo, e˛ o æ congiunzio-
ne) 22; il foglio autografo del codice moreniano mostra però ancora numerosi
e reiterati pentimenti nella scelta delle frasi esemplificative, non a caso non
esattamente coincidenti con quelle accolte poi nell’opera grammaticale.
La pratica di manoscritti fra fine del XIV secolo e inizi del XV secolo in-
segna (come ha mostrato recentemente Giuliano Tanturli in varie sedi) che
esigenze di tipo diacritico si manifestano almeno in un momento cruciale del-
la storia linguistica e letteraria fiorentina, fra nascente umanesimo e esaltazio-
ne della gloria cittadina delle Tre Corone: insomma intorno a Salutati 23. Nel-
la sua scuola l’anonimo copista che si sigla con il motto Non bene pro toto li-
bertas venditur auro 24, Iacopo Angeli da Scarperia, Niccolò Niccoli, Filippo
Villani usano a più riprese un segno, di foggia simile allo spirito dolce, con
valore di accento, tracciato sia su monosillabi tonici (compreso è verbo) sia
sulla sillaba tonica dei polisillabi. Menzionare la scuola di Coluccio aiuta a
rammentarsi che l’operazione di Alberti soddisfa, certo con una sistematicità

21
A non trarre facili conclusioni sull’equivalenza fra < x > e /ks/ o /kz/ induce però, so-
prattutto per l’Alberti giovane, qualche sporadico uso di < x > per /z/ secondo usi grafici set-
tentrionali che nel caso dell’Ordine delle lettere sarebbe suggestivo ammettere a colmare la
mancata distinzione fra /s/ e /z/. Sotto la penna di Battista si trova nella Myrtia un auxello; roxa
e roxati (che potrebbero derivare dall’autografo perduto) nel De pictura volgare, trasmesso in
copia nel ms. II.iv.38, trascritto, come ora si sa, dal fiorentino Lorenzo Vettori: cfr. Paola Mas-
salin, Lorenzo Vettori: un amico dell’Alberti si fa copista, «Italia medioevale e umanistica»,
XLIX (2008), pp. 157-197.
22
Manca invece una parallela cura distintiva nella serie velare, fra o congiunzione, ho ver-
bo, oh interiezione.
23
Cfr. ora le schede 11 (pp. 75-78), 13 (pp. 80-84), 94-96 (pp. 298-306) del catalogo Co-
luccio Salutati e l’invenzione dell’Umanesimo, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 2 no-
vembre 2008-30 gennaio 2009, a cura di Teresa De Robertis, Giuliano Tanturli, Stefano
Zamponi, Firenze, Mandragora, 2008. In precedenza (e a ritroso) cfr. Giuliano Tanturli, L’in-
terpunzione nell’autografo del “De origine civitatis Florentie et eiusdem famosis civibus” di Filip-
po Villani rivisto da Coluccio Salutati, in Storia e teoria dell’interpunzione, Atti del Convegno In-
ternazionale di Studi, Firenze 19-21 maggio 1988, a cura di Emanuela Cresti, Nicoletta Ma-
raschio, Luca Toschi, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 65-88: 66-67; Id., I Benci copisti. Vicende del-
la cultura fiorentina volgare fra Antonio Pucci e il Ficino, «Studi di filologia italiana», XXXVI
(1978), pp. 197-313: 222-224.
24
Un elenco aggiornato di codici da lui trascritti a p. 76 del catalogo citato alla nota pre-
cedente.

62
Fuori e dentro la Grammatichetta albertiana

in precedenza non attestata, ad un’esigenza affiorata già prima e a più riprese


(e non solo fiorentina) e alla quale si era risposto con puntuali e frammentarie
innovazioni paragrafematiche. Oltre a togliere dall’isolamento l’iniziativa di
Battista, il precedente della scuola colucciana, serve anche, in primo luogo a
definirne meglio la natura: sistematica, e soprattutto (o si dirà: e per ciò) di
portata ortofonica e non soltanto ortografica; in secondo luogo vale a mettere
in guardia dall’attribuire ad Alberti (e magari anche all’Alberti della Gram-
matichetta) qualunque tipo di segno ortografico (in particolare apici e accen-
ti) che si rintracci in manoscritti quattrocenteschi e che più in generale corri-
sponderà alla diffusa esigenza di dotare gli omografi del volgare di segni di-
stintivi (o anche soltanto contraddistintivi rispetto al continuum della scrittu-
ra) traslandoli dalle antiche o contemporanee usanze in territorio latino 25.
Analizzare gli autografi albertiani per tentare di scandire nel tempo la
presenza di determinati segni ortofonici è impresa particolarmente scivolosa
perché in genere Alberti appone tali segni a posteriori per lo più su copie non
trascritte da lui per intero, in campagne correttorie delle quali, sulla base de-
gli inchiostri, riusciamo a proporre una datazione relativa ma non assoluta
(ad esempio, data la serie di revisioni cui sono stati sottoposti i fascicoli dei
Libri de familia oggi raccolti nel composito II.iv.38 della Nazionale fiorenti-
na, non siamo sempre in grado di distinguere quanto è stato aggiunto nella
prima, funzionale alla diffusione dei singoli libri, da quanto invece è stato in-
serito nel momento conclusivo, in vista della progettata raccolta unitaria). Se
però è difficile datare ad unguem l’introduzione d’autore dei segni ortofonici,
è possibile sostenere che, verisimilmente prima della riflessione connessa alla
stesura della Grammatichetta, Alberti non pare posto su posizioni radical-
mente divergenti da quelle che si rintracciano nei manoscritti della scuola del
Salutati e in altri manufatti fiorentini del primo Quattrocento. In attesa di po-
ter condurre a termine una ricerca per la quale vale a pieno diritto il monito
del distingue frequenter, segnalo qui la presenza di elementi paragrafematici
non coerenti con l’Ordine delle lettere (e che si potrebbero dunque supporre
anteriori ad esso) negli autografi e idiografi albertiani 26.

25
Sull’uso di apici e accenti (e sulla teoria relativa) in periodo medievale e rinascimentale
è tuttora insuperato Arrigo Castellani, Sulla formazione del sistema paragrafematico moderno,
«Studi linguistici italiani», XXI (1995), pp. 3-47, ora raccolto in Arrigo Castellani, Nuovi sag-
gi di linguistica e filologia italiana e romanza, a cura di Valeria Della Valle, Giovanna Frosi-
ni, Paola Manni, Luca Serianni, Roma, Salerno, 2009, pp. 41-81 (da cui si citerà in seguito).
26
In quel che segue si segnalerà quanto, negli autografi albertiani, si distacca dalla forma
e dalla funzione dei segni proposti per la Grammatichetta; tralascio dunque di indicare (se non
occasionalmente) quei segni che, rientrando negli usi diffusi del tempo, non possono funziona-
re come criterio di distinzione diacronica degli impieghi albertiani, ed in particolare ó (vocativo
e congiunzione; per di più in tale evenienza la sovrapponibilità della forma grafica con il trat-
teggio della ó che l’Ordine delle lettere e la Grammatichetta propongono per o aperta non con-
sente alcuna precisazione diacronica), é verbo, á (preposizione) e i casi di accento tonico, sui

63
Lucia Bertolini

Nella pratica autografa il segno di più lungo corso, e che si rintraccia dal-
le Ex questionibus pretermissis (nel Riccardiano 2608, c. 24v, rr. 3 e 12, in lati-
no dunque) fino alla lettera al Gonzaga del 1471, è æ 27, che, appunto, non è
esclusivo dei testi in volgare, bensì si rintraccia (con valore dunque “steno-
grafico”) anche nella scrittura del latino. In esso risiede l’idiosincrasia più
marcata e caratteristica della scrittura albertiana che pare essersi estesa anche
al di fuori del privato suo laboratorio ed aver lasciato tracce non indifferenti
nelle abitudini grafiche non solo del fratello Carlo, ma anche di amici come
Mattia Palmieri 28. La variante di e caudata è altrettanto antica, ma è esclusi-
va, anziché della scrittura currenti calamo, del modo discreto con cui Alberti,
intervenendo su testi propri trascritti da altri, intende assicurare la distinzio-
ne della congiunzione da altri omografi 29. L’Ordine delle lettere ne sancisce

quali rimando all’ampia trattazione di Castellani, Sulla formazione del sistema paragrafematico
moderno, cit., pp. 53-69 con esemplificazione anche volgare. In particolare á pare da intendersi
quale grafia transitata, per mera identità formale, dal latino, dove distingueva a per ab, al volga-
re, a segnare la preposizione a quando per ragioni sintattiche non si esprima con ad (analogo
transito dal latino di é per e(x) e di ó vocativo). A tali usi diffusi si adeguano sia il “copista per
passione” studiato da Giuliano Tanturli (Giuliano Tanturli, Un appassionato copista di profes-
sione? A proposito della seconda sezione del Ricc. 1142 con rime del Certame coronario, «Lettera-
tura italiana antica», VII (2006), pp. 405-422), sia i copisti dei Pl. XLI 7, Pl. XLI 14 della Bi-
blioteca Medicea Laurenziana (che usano o e e per ‘è’ e ‘ho’) sia Carlo Alberti che nel Pal. 267
dellaBiblioteca Palatina di Parma usa però anche e pronome e articolo e æ congiunzione (ma
mai e per la terza persona del verbo essere, contraddistinta invece come é; si corregga in questo
senso Cardini, Ortografia e consolazione, cit., pp. XXXI-XXXIV).
27
È anche il segno più controverso, sia per la sua “etimologia” grafica sia per la forte tan-
genza con i risultati “visivi” (non direi però di ductus) con &. In Alberti il segno è inequivoca-
bilmente quello di a di forma carolina cui è aggiunto, con distinto attacco della penna, un semi-
cerchio disposto in perpendicolare rispetto l’orientamento della linea obliqua della a che da si-
nistra in alto scende in basso verso destra, finendo con essa per costituire una e.
Per il prospetto ortofonico del codice Gaddiano 84 in cui il segno albertiano è reso effetti-
vamente con & cfr. le divergenti interpretazioni di cui dà resoconto Cardini, Ortografia e con-
solazione, p. XXVII, n. 61.
28
Un tratteggio simile trovo occasionalmente sotto la penna di Bonifacio Salutati nella
trascrizione dell’epitaffio esametrico steso da Iacopo Angeli da Scarperia in occasione della
morte di Coluccio e conservato nel Magl. VII. 1183 della Biblioteca Nazionale Centrale di Fi-
renze (cfr. la riproduzione del foglio a p. 101 del già citato catalogo Coluccio Salutati e l’inven-
zione dell’Umanesimo). Per Mattia Palmieri cfr. vari esempi nell’autografo Conv. Soppr. 133
della Biblioteca Medicea Laurenziana contenente il De temporibus suis. In modo altrettanto ri-
corrente il segno è rintracciabile nel manoscritto Aldini 117 della Biblioteca Universitaria di
Pavia (che contiene testi di carattere grammaticale di Guarino, Gaspare da Verona e Gasparino
Barzizza).
29
Se ho ben visto nei testi e brani interamente autografi è esclusivo æ, nei testi rivisti da
Battista il segno e già trascritto da altri non viene eraso, ma dotato del circoletto di cauda, che
probabilmente intende riprodurre, nel suo approssimarsi al segno già esistente, quanto della a
dal nesso æ mancava. In tal maniera, contingente piuttosto che funzionale, potrebbe spiegarsi
(ma solo per e aperta) la doppia serie vocalica dell’Ordine delle lettere, che propone anche per
o aperta due segni differenti, di cui solo ó è confortato dalla prassi autografa o correttoria.

64
Fuori e dentro la Grammatichetta albertiana

l’uso esclusivamente per /ε/, ma il caso più antico che io conosca di e˛ è inve-
ce incongruo: a c. 4r, r. 20 del Pal. 635, contenente i primi due libri della Fa-
milia trascritti da anonimo copista e rivisti da Battista, la cauda è aggiunta da
Alberti alla e tonica di leggi, dunque ad indicare la e chiusa (tue santissime
l˛eggi e magistrati) 30.
Al polo opposto per densità di comparsa sta l’uso dello spirito aspro.
Esso compare precocemente negli autografi (a partire dalla Myrtia nei pri-
missimi anni Trenta), ma adibito a marcare la o aperta della congiunzione di-
sgiuntiva 31; poco più tardi, ancora nel Pal. 635, lo spirito aspro compare già
segnato nelvalore che gli verrà attribuito nell’Ordine delle lettere (c. 12v, r.
17: quanto e in loro di uedere) ma affiancato da vari altri casi in cui la forma
del verbo essere è rappresentata da e sormontata da una lineetta orizzontale
(che potrebbe alludere alla abbreviatura per e(st): c. 7v, rr. 5-6 Niuno piu di-
lui ē mansueto [...] nessuno ē quanto lui; c. 8v, r. 30 Vero ē che io) o da un
punto (di tratteggio però tutt’altro che nitido; cfr. c. 8v, rr. 24-25: adouardo
etu lionardo none corr. poi in non|ė; c. 9r, r. 28: Non ė solo officio; c. 10 v, r. 2:
ne pero ė senon lodata; c. 15v, r. 1: animo qui etadouardo corretto con rasura
della -t di et e sovrapposizione del medesimo segno di incerta interpretazio-
ne). A c. 2r, rr. 2-3, le et di legiuste leggi et uirtuosi principi et prudenti consigli
et forti sono trasformate in e (con valore di articolo masch. pl.) mediante la
rasura di t e la sovrapposizione di un apice marcato al centro da un punto, di
cui non si ha notizia nella Grammatichetta, ma che potrebbe corrispondere
ad un tratteggio
 impacciato dello spirito aspro (simile a quello che è sovrap-
posto a Te ophrastus nel codice Nazionale, su cui cfr. qui sotto) 32.
Da questi significati ortofonici mi pare vada  distinto il valore
 etimologico
di aspirazione che compare nei nomi propri Te ophrastus, Te mistocles per re-
stituire l’esatto valore fonetico di w, sebbene occasionalmente esso sia aggiun-
to sopra a, terza persona del verbo avere 33.

30
Altra cosa è il caso di augusto c˛esare di c. 23v, r. 2 nel quale la cauda aggiunta si giustifi-
ca con il dittongo latino. Il Palatino 635 che corrisponde alla prima diffusione dei Libri de fami-
lia dovrebbe collocarsi nel primo periodo fiorentino di Alberti, intorno al 1434; il codice attesta
anche æ, aggiunta dall’autore
 in interlinea a c. 8r, r. 13 e a c. 14r, r. 14. 
31
Cfr. c. 22r, r. 16 o neptunno (v. 64: «Se Marte spesso o Neptunno  c’invita»), r. 20 o fin
(v. 68: «star certo premio, o fin di tanti affanni»), c. 23r, r. 6 laude o pregio (v. 102: “son laude o
pregio alle tue bellezze»).
32
I casi di c. 2r, 8v e 9v sono riprodotti nella Tav. XI di Cardini, Ortografia e consolazio-
ne, cit. Nello stesso codice Palatino è compare anche contraddistinto da apice secondo usi
meno idiosincratici: c. 27v, rr. 14-15: fece chome é officio; c. 28r, r. 2: Nessuno huomo é dichosi;
c. 29r, r. 10 etc.
33
Così nei margini delle cc. 103v e 113r contenenti il IV libro della Familia (se ne veda la
riproduzione nelle Tavv. III e IV, fra p. XXXIX e p. XXXV di Leon Battista Alberti, La pri-
ma grammatica della lingua volgare. La Grammatichetta Vaticana, Cod. Vat. Reg. Lat. 1370, a
cura di Cecil Grayson, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1964) e rispettivamente a c.

65
Lucia Bertolini

3. Dentro la Grammatichetta

La lingua descritta nella Grammatichetta è una lingua parlata 34; la scelta è


conseguente al contesto in cui la Grammatica nacque 35 e la fedeltà a tale scel-
ta è, come noto, verificabile in forza degli esempi (tutti di pura invenzione e
tratti dal quotidiano conversare, sia pure il quotidiano di un intellettuale:
Roma superò Cartagine; I’ voglio che tu mi legga, Invidia lo move e così via) 36
sia sul piano metalinguistico (accanto a termini di significato ambiguo come
s’usa, usasi, l’uso o adoperano, s’adoprano, vanno segnalati gli espliciti si pro-
nunziano, si dice, dirassi, dicono). Come è stato segnalato da Giuseppe Patota
«Pour introduire les exemples ou pour présenter les règles, Alberti recourt
presque toujours au verbe dire (soixante occurences) ou au verbe pronuntiare
(sept occurrences) mais rarement au verbe scrivere (huit occurrences seule-
ment)» 37. Di queste otto occorrenze del verbo scrivere ben sette si addensano
nel § 92 (al quale nella citazione si premette il § 91):

Et questo ne, postposto al verbo, sarà o doppo a’ monosyllabi o doppo a


quei di più syllabe; e più, o significa interrogatione, o affirmatione o pre-
cepto. Adonque, doppo l’indicativo monosyllabo, la interrogatione si scri-
ve, in la prima e terza persona, per due nn, la seconda per uno n, come in-
terrogando si dice: Vonne io? vane tu? vanne colui? Nello imperativo, si

76v, r. 23 (III libro della Familia) del ms. II.iv.38 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firen-
ze. Anche il II. iv. 38 non è indenne, nelle prime carte da segni incoerenti con quelli del-
la Grammatichetta; a c. 8r, rr. 19 (sié porgersi) e 20 (sié auere) la terza persona del verbo essere
è (ancora una volta; cfr. n. 32) contraddistinta da un generico apice; così anche nel Ricc. 2608
dove, sulle carte delle Ephebie (verisimilmente revisionate anche dal punto di vista interpunti-
vo e diacritico da Battista), si rintracciano quale é piu apto (c. 6v, r. 24), Et é suo precepto (c. 15r,
r. 21).
34
Cfr. da ultimo Manni, Il volgare toscano quattrocentesco fra realtà e rappresentazione,
cit., pp. 638-639, con indicazione della bibliografia precedente; in quelle stesse pagine Paola
Manni sottolinea il nesso strettissimo che lega il prospetto dell’Ordine delle lettere all’ideologia
parlata della Grammatichetta.
35
La dimostrazione per absurdum che a Roma si parlasse latino pretendeva che si dimo-
strasse la grammaticalità della lingua parlata nel periodo contemporaneo ad Alberti. Va sottoli-
neato che il paragone non è astratto o artificioso tanto quanto oggi potrebbe sembrare: la con-
frontabilità sul piano del parlato di latino (per noi lingua morta senza scampo) e volgare era inve-
ce una realtà effettiva per un intellettuale (fosse il Bruni, il Biondo, il Poggio o infine l’Alberti)
che avesse avuto modo di vivere per un certo periodo (come nel caso degli umanisti sopra men-
zionati) presso la Curia. Lo testimonia un brano del Biondo contenuto nel De verbis Romanae lo-
cutionis che ora si può leggere in Blondus Flavius, De verbis Romanae locutionis, a cura di Ful-
vio Delle Donne, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 2008, pp. 19-20, § 76.
36
Prendendo le distanze da quella tradizione grammaticale che recentemente Robert
Black ha definito “filologica”: Robert Black, Testi grammaticali prima di Valla: caratteri e for-
tuna, in Tradizioni grammaticali e linguistiche nell’Umanesimo meridionale (Convegno interna-
zionale di studi Lecce-Maglie, 26-28 ottobre 2005), Lecce, Conte Editore, 2006, pp. 31-41.
37
Alberti, Grammatichetta / Grammaire, cit., p. LXVIII.

66
Fuori e dentro la Grammatichetta albertiana

scrive la seconda per due nn, e dicesi: vanne, danne. La terza si scrive per
uno, e dicesi: diane lui, traggane. E questi monosyllabi, la prima indicativa
presente, affirmando si scrive per due nn, e dicono: fonne, vonne, honne.
Se sarà el verbo di più syllabe, la interrogatione et affirmatione si scrive
per uno n in tutti e tempi, excetto la affirmatione in lo futuro, quale si
scrive per due nn, come dicendo: Porterane tu? porteronne. E questo sino
qui detto s’intenda per e singulari, però che a’ plurali si scrive quello ne
sempre per uno n, come andiamone.

Colpisce nel brano il frequente richiamo alle abitudini grafiche anziché a


quelle fonatorie, ma che si sia qui davanti ad un luogo “sensibile” della prati-
ca (e secondariamente della teoria) linguistica albertiana, è provato dall’otta-
va occorrenza che era già comparsa nel § 46 38:
Potrei, in questi pronomi, esser prolixo, investigando più chose quali s’os-
servano, simili a queste: vi, postposto 39 a’ presenti singulari indicativi
d’una sillaba, si scrive in la prima e terza persona per due vv, e simile in la
seconda persona presente imperativa, come stavvi e vavvi e, ne’ verbi
d’una e di più syllabe, la prima singulare indicativa del futuro 40, come
amerovvi, leggerovvi, darotti, adoperrocci, e simile. Ma forse di queste cose
più particulari diremo altrove.

Anche nell’ultima occorrenza in cui Alberti si appella ad usi grafici e non


fonetici ci troviamo di fronte all’opposizione fonologica di doppia e intensa,
in contesti perfettamente analoghi a quelli del § 92: presenza o assenza di
raddoppiamento fonosintattico, dopo forme verbali monosillabiche o tron-
che, di elementi grammaticali che, esposti all’inizio di paragrafo in forma au-
tonoma, siano cliticizzati.
Se da un lato occorre riconoscere lo sforzo razionalizzante del grammati-
co e la sua capacità di osservazione, dall’altro occorre pure ammettere che «le
regole del raddoppiamento del clitico sono esposte in modo sommario e con
qualche imprecisione» 41; il ricorso poi alla risorsa grafica sempre ed esclusi-

38
Si fa astrazione, come già Giuseppe Patota, dall’occorrenza del § 1, di carattere storico-
culturale e non descrittivo («Qual cosa simile fecero gl’ingegni grandi e studiosi presso a’ Grae-
ci prima, e po’ presso de e Latini; e chiamorno queste simili ammonitioni, apte a scrivere e fa-
vellare senza corruptela, suo nome, Grammatica»).
39
Il ms. Vaticano reca, per errore, preposto: cfr. Bongrani, Nuovi contributi per la Gram-
matica di Leon Battista Alberti, cit., pp. 67-68 (l’emendamento era stato accolto già da Patota in
Alberti, Grammatichetta e altri scritti sul volgare, cit., p. 66).
40
Entrambe le edizioni a cura di Patota recano al futuro, ma per erronea trascrizione dal
ms. che ha indubitabilmente d(e)l futuro (tale la lezione registrata nelle precedenti edizioni del
testo).
41
Manni, Il volgare toscano quattrocentesco fra realtà e rappresentazione, cit., p. 639; cfr.
anche Teresa Poggi Salani, La grammatica dell’Alberti, «Studi di grammatica italiana», XX
(2001), pp. 1-12: 5.

67
Lucia Bertolini

vamente in questo contesto in cui l’elemento nucleare subiva varianza all’atto


della sua cliticizzazione, mi pare debba far riflettere sulla capacità albertiana
di far appello in maniera sicura alla percezione uditiva personale. Che l’op-
posizione scempia/intensa fosse opposizione problematica per Alberti a cau-
sa della sua formazione linguistica in ambienti settentrionali lo riprovano i
suoi autografi 42: qui però interessa piuttosto segnalare che una tale proble-
maticità può aver lasciato traccia sul testimone della Grammatichetta, la cui
restituzione critica, oltre a tener conto della tenuta intrinseca del documento
grammaticale, deve aspirare a tener distinti (con un grado di verisimiglianza
certo non assoluto) la lingua di Alberti e la lingua che Alberti vuole descrive-
re.
«Basti accennare solamente che abbiamo [...] livellato in doppia qualche
scempia sonnacchiosa come a volte -m- da -mm- di femminino, quando que-
sto ha perso l’abbreviatura, o, ancora, qualche scempia inerte, smentita da
doppia corretta, e fatto il contrario, quando la cosa era contraria»: così si
esprimeva nella Nota al testo Cecil Grayson nella prima edizione a sua cura
della Grammatichetta 43. Alla tendenza omologante hanno posto freno gli stu-
di di Giuseppe Patota che in genere mirano a tutelare la lezione del mano-
scritto Reginense, in particolare per il verbo legere/leggere (la forma con
scempia è legittimata dal probabile latinismo) e per i composti con a-, con re-
e ra-, e con in- 44. Anche per feminino/femminino (e corrispondente plurale)
le due più recenti edizioni si uniformano all’alternanza fra scempia (otto oc-
correnze) e doppia (nove) che è del codice, nel quale però la doppia non
compare mai a tutte lettere: l’analisi del facsimile annesso all’edizione del
Grayson del 1964 (confermata dalla visione del microfilm) mostra che il trat-
tino orizzontale dell’abbreviazione per la nasale su feminino, -i è di tratteggio
differente da quello (marcatamente ondulato, spesso orientato, nella direzio-
ne da sinistra a destra, verso l’alto) caratteristico del copista. Una visione di-
retta del codice potrà forse confermare che la forma in -m- fu l’unica origina-
ria del manoscritto e che la correzione in -(m)m- è dovuta ad altri più tardi
lettori.
In questo caso la forma con la scempia, autorizzata dal latinismo, non av-
valora la supposta problematica sensibilità dell’autore all’opposizione fonolo-
gica; più significativi dal punto di vista linguistico alcuni altri casi (§ 1 depo-
ranno, § 41 chiegono, § 47 poremo e § 74 legente e legerò) che l’ultimo editore

42
Ometto di segnalare partitamente gli esempi, rinviando alla mia edizione critica del De
pictura volgare in c.s. Qualche caso è segnalato, dal codice II.iv.38, anche da Patota, ma senza
distinguere i casi trascritti dal copista (per quanto autorizzati da Alberti) da quelli autografi
(cfr. Alberti, Grammatichetta e altri scritti sul volgare, cit., p. 64, n. 52; p. 65, n. 64; p. 66,
n. 65).
43
Alberti, La prima grammatica della lingua volgare, cit., p. 37.
44
Cfr. in particolare Alberti, Grammatichetta e altri scritti sul volgare, cit., pp. 64-66.

68
Fuori e dentro la Grammatichetta albertiana

è indotto a correggere sulla scorta di considerazioni di carattere linguistico-


testuale (deporranno e porremo in analogia a porremogli di § 70; chieggono su
sollecitazione di chieggo al § 98) o esclusivamente testuale (leggente e leggerò
perché inseriti in una coniugazione con -gg-). Considerazioni più o meno va-
lide a seconda che ci si voglia approssimare ad un originale testuale o ad un
originale fisico, ma comunque sostenibili con buon grado di verisimiglianza e
certo non tali da incidere sulla sostanza del testo. Molto più problematico il
caso del § 41 in cui un emendamento del Grayson è passato forse troppo af-
frettatamente in giudicato. Il manoscritto recita (fra parentesi graffe le corre-
zioni proposte):

In uso, s’adropano {s’adoprano Patota} questi pronomi non tutti a un modo.


 derivativi, giunti a questi nomi: padre, madre, fratello, zio e simili, si pro-
E
nuntiano senza articolo, e dicesi: mio padre, nostra madre e tuo zio, etc. Mi
e me, ti e te, ci e noi, vi e voi, si e se sono dativi insieme et accusativi, come
di sopra gli vedesti notati; ma hanno questo uso, che, preposti al verbo, si
dice mi, ti, ci, etc., come qui: e mi chiama, e ti vuole, que’ vi chieggono, io
mi sto, e si crede; posposti al verbo, se a quel verbo sarà inanzi altro pro-
nome o nome, si dirà, come qui: Io amo te e voglio voi; si al verbo non sarà
aggiunto inanzi altro nome o pronome, si dirà -i, come qui: aspettoci
{aspettaci Grayson, Patota}, restaci, scrivetemi.

La scelta degli editori, che riduce ad un banale piétiner sur place i due pri-
mi esempi della tripletta di fine paragrafo (aspettaci, restaci) è in contrasto
con il comportamento maggioritario (sebbene non costante) dell’autore della
Grammatica che, per l’estrema brevità che la contraddistingue, fa leva sulla
massima varietà degli esempi al fine di includere nel discorso anche quanto
non ha trattazione a parte o per estendere il funzionamento descritto oltre il
singolo caso. Il manoscritto, con aspettoci, allude a due tempi verbali diversi
(e che per la differente struttura accentuale meritavano di essere segnalati
contrastivamente); la segnalata scarsa percezione dell’opposizione intensa/
scempia, tanto più a carico di clitici, può condurre a intendere la forma (inac-
cettabile come toscana nella versione del testimone) come approssimazione
ad aspettòcci. In questa circostanza, trattandosi di esempi volutamente tosca-
ni e cioè della lingua descritta, pare indispensabile intervenire, così come è
stato fatto in analoga situazione dagli editori per verrovvi (ms. uerroui al §
83), ma meglio se lasciando sensibile l’intervento (aspettòc<c>i e verrov<v>i)
al fine di mediare fra tutela della lingua dell’autore e limpidezza del ragiona-
mento linguistico. E il criterio che tenga distinta la lingua del grammatico (e
le sue screziature settentrionali) dalla “lingua speciale” citata, entrambe però
del pari meritevoli di attenzione restitutiva, sembra criterio atto a determina-
re la maggiore o minore urgenza dell’intervento editoriale.

69
Lucia Bertolini

Quanto però sia non sempre agevole distinguere fra lingua del soggetto e
lingua-oggetto mi pare sia dimostrato dal caso seguente (§ 97):

Molto studia la lingua toscana d’essere breve et expedita, e per questo


scorre non raro in qualche nuova figura qual sente di vitio. Ma questi vitii,
in alchune ditioni e prolationi, rendono la lingua più apta, come chi, dimi-
nuendo, dice spirto pro spirito, et maxime l’ultima vocale, e dice Papi et
Zanobi pro Zanobio, credon far quel ben.

A che titolo Papi stia nell’elenco ha cercato di chiarire Paolo Bongrani 45


con un ragionamento che mi pare sia stato poi unanimemente accolto: mi do-
mando però se il testo imponga davvero di spiegare Papi come forma abbre-
viata di Papio, poiché il primo dei due nomi propri (scelto per la sua connota-
zione fiorentina al pari di Zanobi) nell’esempio potrebbe starci a pigione. Ba-
sta infatti stampare

e dice: Papi et Zanobi (pro Zanobio) credon far quel ben

e considerare l’esemplificazione sull’alta frequenza di apocopi nel parlare


quotidiano di Firenze come atto linguistico unitario (sebbene “interrotto”
dalla glossa) 46: a dimostrazione di quanto il breve et expedito parlar fiorenti-
no affascinasse Battista basterà prendere nota che quell’esempio (fatta astra-
zione dalla glossa appunto) forma un inappuntabile endecasillabo.

45
Bongrani, Nuovi contributi per la Grammatica di Leon Battista Alberti, cit., p. 88 e n. 1.
A Bongrani si deve l’interpretazione di papi del ms. come nome proprio, ipocoristico di Iacopo,
che Alberti avrebbe però inteso come «un derivato dal nome gentilizio latino Papius > Papio
> Papi esattamente parallela a quella di Zenobius > Zenobio > Zenobi».
46
Già Bongrani (Nuovi contributi per la Grammatica di Leon Battista Alberti, cit., p. 69)
notava che «la somma dei quattro esempi alla fine sembra formare una frase».

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