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BREVE

GRAMMATICA
STORICA
DELL'ITALIANO

Paolo D'Achille

Carocci
LE BUSSOLE / IO
STUDI LINGUISTICO-LETTERARI
a
l edizione, giugno 2001
© copyright 2001 by Carocci editore S.pA, Roma

Finito di stampare nel giugno 2001


per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Sri, Urbino

isbn 88-430-1906-6

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(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

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Paolo D'Achille

Breve grammatica storica


dell'italiano

<s>

Carocci editore
Indice

Premessa 7

Introduzione. Nozioni preliminari 9

I livelli dell'analisi linguistica e la grammatica storica 9

Dal latino all'italiano 15

Per riassumere... 21

1. La lingua italiana 22

1.1. Profilo geolinguistico e storico-linguistico dell'italiano 22

1.2. Fonetica e fonologia dell'italiano 29

Per riassumere... 35

2. I mutamenti fonetici 37

2.1. Il vocalismo 37

2.2. Le semiconsonanti 50
2.3. Il consonantismo 51

2.4. L'accento dal latino all'italiano 68


2.5. Gli accidenti generali 69
2.6. Il raddoppiamento fonosintattico 72

Per riassumere... 74

3. I principali mutamenti morfologici 75

3.1. Il nome e l'aggettivo 75


3.2. L'articolo 81

3.3. I pronomi 83
3.4. I numerali 89
3.5. Il verbo 90
3.6. Preposizioni e avverbi 101

3.7. Interiezioni e ideofoni 102

Per riassumere... 103

4. I principali aspetti della sintassi 104

4.1. Aspetti della frase semplice 104


4.2. Aspetti di sintassi del periodo 108

Per riassumere... 112

5. Lessico e formazione delle parole 113

5.1. Le voci derivate dal latino 113

5.2. Le altre componenti lessicali 118

5.3. Derivati e composti italiani 120

Per riassumere... 123

Bibliografìa 124
Premessa

Questo libro è un compendio di grammatica storica della lingua

italiana: come tale intende illustrare, sulla scorta delle numerose


opere esistenti, citate nella bibliografia finale, l'evoluzione linguisti-

ca dal latino al fiorentino trecentesco, che costituisce, come è noto,


la base dell'italiano letterario; ove possibile e opportuno, sono se-
gnalati anche gli sviluppi posteriori, che hanno portato la lingua
letteraria di ieri a diventare l'italiano parlato di oggi.

Nello spirito della collana "Le bussole", la trattazione non pre-


suppone nessuna particolare conoscenza della materia trattata (né

della lingua latina) e quindi nel capitolo introduttivo tocca, mol-


to schematicamente, alcuni temi di linguistica generale e roman-
za, presentando brevemente i diversi livelli dell'analisi linguistica

e fornendo poi una rapida informazione sui problemi relativi al

passaggio dal latino alle lingue romanze. Il primo capitolo offre

un sintetico profilo geolinguistico e storico-linguistico dell'italia-


no, di cui, alla fine, vengono anche descritti i principali fatti di
fonetica e fonologia. Seguono quattro capitoli più tecnici, dedi-

cati all'evoluzione fonetica e a quella morfologica, ad alcuni


aspetti della sintassi e del lessico. Anche in questi le tematiche
sono presentate nel modo più semplice possibile, con molte ine-
vitabili approssimazioni; si è cercato però di metterne in rilievo
la complessità, specie là dove esse sono tuttora oggetto di di-
battito critico. Rispetto alla prassi seguita in varie trattazioni esi-
stenti, non è stata fatta una distinzione tra gli sviluppi già propri

del latino volgare (e dunque comuni all'intero mondo romanzo)


e quelli caratteristici della sola area italiana, perché è parso di-
datticamente più opportuno affrontare unitariamente i diversi li-

velli di analisi linguistica.

Le parti dedicate alla fonetica e alla morfologia assumono, secondo


la tradizione, uno spazio molto maggiore rispetto alle scarne osser-
vazioni sulla sintassi e sul lessico. Nel capitolo 2, dedicato ai muta-
menti fonetici, accanto agli esiti toscani sono spesso richiamati, in
corpo minore, anche quelli propri delle altre aree dialettali italiane.
Parti in corpo minore sono del resto diffuse in tutti i capitoli, per

brevi approfondimenti o commenti.


Come avvertenze per la lettura, si precisa che i foni e fonemi italiani
sono resi con i simboli dell'alfabeto fonetico internazionale (cfr.

cap. l); secondo le convenzioni in uso, si è inoltre adottato il caratte-


re maiuscoletto per indicare le basi latine, il corsivo per le parole
italiane (o di dialetti italiani) e per le basi di altre lingue (germani-

co, provenzale, arabo ecc.). I segni > e < significano rispettiva-


mente "diventa" e "deriva da" (fócum > fuoco; maggiore < maio-
rem); per derivazioni all'interno dello stesso sistema linguistico
sono state invece usate, con lo stesso valore, le frecce —> e <— (puote
—> può; virtù <r- virtude). Nelle basi latine si racchiudono tra pa-

rentesi tonde i foni che, in italiano, sono dileguati (si è però rinun-
ciato a porre sistematicamente tra parentesi tonde la -m finale degli

accusativi); le forme latine volgari o germaniche ricostruite ma non


documentate sono contrassegnate dall'asterisco (*illei; *wardon);

davanti a parole italiane, invece, l'asterisco indica esiti possibili, ma


non realizzati (*fecesse). Nel capitolo 2 è stato inoltre usato il neret-
to per evidenziare, sia nelle basi latine, sia negli esiti italiani, i foni
interessati dal fenomeno spiegato.

Ringrazio il mio maestro Francesco Sabatini per i suoi sempre uti-


lissimi consigli e suggerimenti e l'amico Domenico Proietti per l'at-
tenta rilettura dei vari capitoli. Naturalmente, la responsabilità de-
gli errori è solo mia.
Poiché questo lavoro ha una finalità didattica, mi sembra giusto de-
dicarlo alla cara memoria dei miei genitori, che sono stati i miei pri-
mi maestri e che del resto maestri sono stati davvero (l'una inse-
gnante nelle scuole elementari, l'altro professore di storia e filosofia
nei licei e poi preside) di tanti e tanti alunni.
Introduzione. Nozioni preliminari

Un volumetto di grammatica storica dell'italiano non può proporsi


il compito di fornire indicazioni di linguistica generale né di lingui-
stica romanza, se non quelle indispensabili a chiarire i temi trattati

a chi non ha mai studiato nessuna di queste discipline. Pertanto


questo capitolo introduttivo si limiterà a esporre velocemente alcu-
ne tematiche di carattere generale, fondamentali per comprendere e

contestualizzare gli argomenti più specifici affrontati nei capitoli

successivi.

I livelli dell'analisi linguistica e la grammatica storica L'i-

taliano è una lingua e ogni lingua, come pure ogni dialetto (così si
definisce una lingua diffusa in una comunità che occupa un'area
geograficamente più circoscritta), si configura come un sistema do-
tato di un suo funzionamento, con specifiche regole, e di una sua
struttura, analizzabile a diversi livelli, che ora passeremo in rassegna.

Fonetica e fonologia La lingua si fonda sulla produzione di suoni (o


foni) e quindi, per descrivere una lingua, bisogna anzitutto cono-
scere come questi vengono realizzati nel parlato, per poterli indivi-
duare e classificare. Il ramo della linguistica che studia i foni è la^>-
netica. I suoni che fanno parte del linguaggio articolato vengono
prodotti dall'uomo nell'apparato fonatorio, costituito dalla cavità
orale (e da quella nasale). Il loro numero varia da lingua a lingua,
ma è comunque sempre ristretto rispetto al numero altissimo di
suoni producibili: d'altra parte il linguaggio verbale riesce, combi-
nando una quantità ridotta di foni, a ottenere un numero elevatissi-

mo di parole e quindi di significati.


In quasi tutte le lingue, i suoni vengono prodotti durante l'espira-
zione: l'aria che proviene dai polmoni risale, attraverso la trachea,
nella bocca e fuoriesce dalle labbra; nel percorso verso l'uscita in-

contra una serie di organi (la laringe, l'epiglottide, il velo palatino,


la volta palatina, la lingua, i denti, le labbra), che, muovendosi in

vario modo, frappongono ostacoli alla sua uscita o determinano va-


riazioni nell'apertura della cavità orale. Si producono così foni di-
versi. Se le corde vocali, fibre elastiche poste ai bordi della laringe,
restano inerti in fase di espirazione, si realizzano foni sordi; se invece
le corde vocali sono tese ed entrano in vibrazione, più o meno rego-
larmente, i foni prodotti sono sonori. Salendo ulteriormente, se il

velo palatino (la parte posteriore, molle, del palato) è staccato dal
fondo della laringe, l'aria esce, oltre che dalle labbra, anche dalle
narici, producendo foni nasali; se invece il velo palatino è sollevato
contro la volta superiore della laringe, l'accesso al naso è impedito e
i foni prodotti sono solo orali. Importante è la distinzione tra vocali
e consonanti. Le vocali sono foni sonori che si producono quando le

corde vocali vibrano regolarmente e l'aria nel canale orale non in-
contra veri e propri ostacoli, ma solo piccoli restringimenti, dovuti
alla diversa posizione della lingua e all'eventuale arrotondamento
delle labbra. Le consonanti sono invece foni (sonori o sordi) che si

realizzano, in modo irregolare, quando l'aria nella cavità orale in-

contra resistenze dovute alla chiusura (in punti diversi) del canale o
a un suo forte restringimento. Esistono anche foni intermedi tra le

vocali e le consonanti, che sono detti semiconsonanti o semivocali,


prodotti come alcune vocali, ma caratterizzati da una durata molto
più breve. Le vocali in italiano sono gli unici foni su cui può cadere
Y accento tonico. Il fono accentato emerge dalla catena fonica per
durata, intensità o altezza melodica.
Parlando dei foni abbiamo fatto riferimento alla loro realizzazione

fisica, che varia (almeno in parte) non solo da lingua a lingua, ma


anche da individuo a individuo. Come si è detto, lo studio dei foni

è compito della fonetica. Un'altra branca della linguistica, la fonolo-


gia, prescinde dalle realizzazioni concrete e studia i foni nel loro
configurarsi, all'interno di una o più lingue, come sistema, per indi-
viduare ì fonemi, cioè i foni che costituiscono le più piccole unità
distintive di una lingua, di per sé non portatrici di significato, ma
capaci di determinare differenze di significato, mentre si definisce
spesso fonematica il settore della fonologia che studia le possibili po-
sizioni, combinazioni e distribuzioni dei diversi fonemi.

I fonemi di una lingua sono individuabili attraverso la cosiddetta "prova di commuta-


zione": un fono è un fonema se la sua sostituzione con un altro fono in una parola di

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senso compiuto determina una parola diversa per significato o forma grammaticale. In

italiano l'esistenza di "coppie minime", cioè di forme che differiscono solo per un fono,

come pera/sera o pera/pere dimostra per esempio che /p/, /s/, /a/ ed /e/ sono fonemi.

Non tutti i foni prodotti normalmente dai parlanti sono anche fonemi: i fonemi possono

realizzarsi in foni diversi, senza che questa diversità determini una differenza di signi-

ficato. Pensiamo per esempio alla cosiddetta erre "moscia" (che probabilmente iniziò a

diffondersi nella nostra penisola per imitazione francese), la cui realizzazione fonetica

concreta è ben diversa da quella della erre "normale", ma senza effetti sul sistema del-

la lingua, senza che il suo fono sia un fonema distinto dall'altra erre. Esistono anche,

come vedremo, variazioni fonetiche condivise dall'intera comunità dei parlanti, che

pure non hanno valore fonologico perché avvengono in "distribuzione complementa-

re": il fonema in certi contesti è reso sempre con un fono, in altri con un altro, affine ma
diverso, che viene chiamato allòfono.

Come si è detto, i foni esistono nella dimensione orale, nel parlato;


la loro fissazione sulla carta, specie secondo i princìpi della notazio-
ne alfabetica, è un fatto storicamente successivo. La grafematica stu-
dia anzitutto i grafemi, cioè le lettere, che sono le unità minime del-

lo scritto, corrispondenti ai fonemi del parlato; questa corrispon-


denza non è sempre biunivoca: a volte, per esempio, uno stesso gra-
fema rappresenta due diversi fonemi; altre volte un fonema è reso

con due lettere (digrammi) o persino con tre (trigrammi).

Nello studio scientifico dei fonemi si utilizzano sistemi di trascrizione diversi, che

completano le lettere dell'alfabeto latino tradizionale (di per sé insufficienti) con altri

simboli (le lettere dell'alfabeto greco e altre notazioni): quello che adottiamo qui è

l'alfabeto fonetico internazionale stabilito dall'iPA (International Phonetic Associa-

tion), che è il più diffuso negli studi linguistici (ma nella romanistica, cioè nello studio
delle lingue e dei dialetti romanzi si usa piuttosto corredare con segni speciali le let-

tere latine). È bene precisare subito che la lettera o il simbolo compresi tra barrette

oblique rappresentano il fonema (per esempio /a/ indica la vocale centrale); il simbo-

lo o la lettera compresi tra parentesi quadre il fono (per esempio [a] è una realizza-

zione concreta della /a/; [R] è la già ricordata erre "moscia"); la lettera o le lettere tra

parentesi uncinate indicano il grafema (per esempio < h > è la lettera acca, che in

italiano non corrisponde ad alcun fonema, ma ha per lo più valore ortografico).

Dei simboli che identificano i foni (e i fonemi) dell'italiano tratteremo nel cap. 1. Se-

gnaliamo qui che, secondo i criteri di trascrizione ipa, la lunghezza di un fono (o di un

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fonema) si indica con i due punti dopo il simbolo (/k:/) o, se il fonema è rappresenta-

to da due simboli, con la ripetizione del primo (/ddz/). L'accento tonico, infine, è reso

con un apice simile all'apostrofo (') posto prima della sillaba contenente la vocale

accentata.

Morfologia La morfologia è il livello dell'analisi linguistica dedicato


allo studio delle forme delle parole e alle modificazioni che possono
presentare per assumere funzioni e valori diversi. La morfologia stu-
dia come si esprimono, nei nomi e negli aggettivi, i concetti di ge-
nere (in italiano maschile/femminile: maestro/maestra) e di numero
(singolare/plurale: maestro/maestri), nei pronomi quello di persona
(prima, seconda o terza: io, tu, lui/lei) e di caso (soggetto/oggetto:

io/me), nei verbi anche quelli di tempo (presente, passato o futuro:


leggo/lessi/leggerò), di modo (indicativo, congiuntivo ecc.: leggo/leg-

ga), di aspetto (perfetto, imperfetto ecc.: ho letto/leggevo) e di diàtesi


(attiva/passiva: leggono/sono letti). Lo studio delle varie forme indi-
viduate, dette (orme flesse, classificate e raccolte in paradigmi, costi-
tuisce la morfologia flessiva (o flessionale) . Un altro settore della

morfologia, detta lessicale (o derivazionale) , studia invece la forma-


zione delle parole mediante la derivazione o la composizione (da
borsa: borsista, borsetta, borseggiare, portaborse).

L'elemento minimo dell'analisi morfologica è il morfema, definito


come la più piccola unità linguistica dotata di significato. Nelle lin-

gue flessive normalmente una parola è costituita almeno da due par-


ti: la radice, che dà il significato lessicale, e la desinenza, che porta
una o più indicazioni di carattere grammaticale e che ha anche la

funzione di segnalare i rapporti tra le varie parole all'interno di una


frase. Per fare un esempio, in italiano in una parola come rose di-

stinguiamo due morfemi: la radice ros-, che reca il significato della

parola, e la desinenza -e, che in questo caso indica che si tratta di un


nome femminile al plurale.
Una lingua flessiva per eccellenza è il latino classico, per la sua ric-
chezza morfologica nell'ambito nominale, pronominale e verbale
(si pensi al sistema dei casi e all'espressione, mediante le desinenze,
deila forma passiva). L'italiano presenta molti aspetti flessivi, in ge-
nere ereditati dal latino, ma anche varie caratteristiche sconosciute

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al latino, di tipo isolante: ogni significato è rappresentato da un uni-
co elemento (chiamato morfo), che costituisce una parola autono-
ma: per esempio al latino rosae genitivo corrisponde l'italiano del-
la rosa.

Sintassi e lessico Mentre la morfologia si occupa del cosiddetto


piano paradigmatico, studiando forme che in una stessa frase posso-

no comparire l'una al posto dell'altra, il piano sintagmatico, cioè lo

studio dei rapporti fra elementi presenti in contemporanea, è l'og-


getto di studio della sintassi, che esamina la funzione e la disposizio-
ne delle parole all'interno della frase (e delle diverse frasi all'interno

del periodo). La sintassi studia insomma la frase e le unità più pic-


cole da cui questa è costituita (dette sintagmi)-, definisce funzioni
come quelle di soggetto, di predicato, di complemento; classifica le

congiunzioni che servono per legare tra loro frasi diverse. La sintassi

è il livello di analisi più complesso e negli ultimi decenni ha costi-


tuito un banco di prova per le profonde innovazioni teoriche e me-
todologiche della linguistica contemporanea.
Il lessico di una lingua è il complesso delle parole (e delle locuzioni)

che costituiscono un sistema linguistico e il suo studio è detto lessi-

cologia. L'analisi lessicale può essere condotta lungo varie direzioni,


tra cui molto importante è quella relativa al significato delle parole
{semantica).

La variazione linguistica Ogni lingua, quanto più è diffusa nello

spazio e nel tempo, tanto più presenta nelle sue manifestazioni con-
crete una serie di differenze interne, dovute alle seguenti variabili:
• la variabile diamesica, legata al mezzo materiale in cui avviene la
comunicazione (parlato, scritto, trasmesso): ogni mezzo ha caratte-
ristiche fisiche diverse, che influiscono sulla lingua;
• la variabile diacrònica, legata al tempo, che determina inevita-

bilmente un mutamento linguistico, nel parlato prima e più spesso


che nello scritto;

• la variabile diatòpica, legata allo spazio: una stessa lingua assu-

me caratteristiche più o meno diverse a seconda delle zone in cui


viene usata;

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• la variabile diastràtica, legata alla classe sociale, alle condizioni

economiche, al livello di istruzione dei parlanti o degli scriventi;


• la variabile diafasica, legata alla situazione comunicativa, all'ar-

gomento trattato, alla confidenza che si ha con l'interlocutore ecc.,

elementi in grado di determinare l'uso di registri più o meno for-

mali e, in alcuni casi, di specifici sottocodici.

L'asse di variazione che più ci interessa in questa sede è quello dia-


cronico, che si occupa del mutamento linguistico. I fattori che deter-
minano trasformazioni in una lingua possono essere esterni o inter-
ni. Tra i primi citiamo i contatti non episodici con altre lingue, che
provocano interferenze tra sistemi distinti, e i legami con fenomeni
sociali e culturali, che possono spiegare cambiamenti nell'uso; tra i

secondi gli spostamenti e i riequilibri all'interno del sistema e i pro-


cessi di grammaticalizzazione, per i quali alcune parole perdono il

loro significato e acquistano funzioni grammaticali (si pensi al ver-


bo venire, usato come ausiliare nelle forme passive: la città venne

conquistata), e di lessicalizzazione, in cui avviene il passaggio oppo-


sto e morfemi grammaticali danno origine a nuove parole {fioretto

non è più il diminutivo di fiore).

La grammatica storica Si definisce grammatica lo studio delle regole

di funzionamento di una lingua; la grammatica studia in genere la


lingua in una prospettiva sincronica, cioè riferendosi a uno specifico

momento storico (di solito, nelle lingue moderne, all'età contem-


poranea), o sulla base dei testi concretamente prodotti o, più in
astratto, con riferimento a una lingua poco caratterizzata dal punto
di vista variazionale, quella che viene definita come lingua standard.
La grammatica sincronica può essere normativa, se intende fornire

un modello di lingua, dando delle vere e proprie "norme di com-


portamento" linguistico e segnalando alcune forme come "corret-
te" e altre come "erronee", o descrittiva, se descrive le strutture e le
regole di una lingua, prescindendo da ogni giudizio sulla loro even-

tuale correttezza.
Lo studio in prospettiva diacronica esamina l'evoluzione storica della

lingua, analizzando le trasformazioni proprie del sistema (si parla


allora di "storia interna"), mettendola in rapporto a fatti di storia
sociale, politica, letteraria e culturale ("storia esterna"), spiegando,
in una visione dinamica della lingua, le ragioni storiche della coesi-

stenza di forme diverse. Si definisce grammatica storica la ricostru-


zione, attraverso il confronto tra fasi diverse della stessa lingua (o di

lingue l'una derivata dall'altra), delle regole che spiegano le trasfor-

mazioni. In italiano la grammatica storica ha per oggetto specifico


di studio i fenomeni che hanno determinato il passaggio dal latino
all'italiano.

Dal latino all'italiano L'italiano è una delle lingue romanze o


neolatine: appartiene cioè, insieme a varie altre lingue europee, alla
famiglia linguistica costituita dagli idiomi derivati da un'unica lin-
gua madre, il latino, attraverso un lungo e complesso processo evo-
lutivo. Le lingue romanze presentano tra loro alcuni elementi co-
muni, ma anche tante caratteristiche peculiari, che le rendono l'una
diversa dall'altra, ognuna con una sua specifica fisionomia; alcune,
come l'italiano, sono rimaste più vicine alla lingua di partenza; al-
tre, come il francese, se ne sono allontanate più sensibilmente.

Lo studio dell'evoluzione dal latino alle lingue romanze è partico-


larmente significativo anche dal punto di vista generale della lingui-
stica storica: contrariamente a quanto avviene di solito, infatti, in

questo caso sia per il punto di partenza (il latino) sia per quello di
arrivo (le lingue attuali) si dispone di una ricca documentazione,
che si snoda lungo un arco cronologico di circa 2.700 anni.
Il passaggio dal latino alle lingue romanze comportò la frammenta-
zione dell'unità latina, ma il sistema linguistico del latino classico
aveva già da tempo subito trasformazioni, dissolvendosi in quello
che viene definito latino volgare.

Il latino volgare Anche il latino era soggetto alle variazioni che ab-
biamo ricordato inizialmente e la definizione di latino volgare, cioè
parlato dal vulgus, dal popolo, fa riferimento alla variabile diastrati-
ca. L'espressione "latino volgare" è ormai accettata negli studi, an-
che perché proprio dalle classi popolari, in età imperiale, partì la

spinta decisiva per il mutamento linguistico che portò alla nascita


delle lingue romanze. C'è però chi preferisce adottare la definizione

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più ampia di latino parlato, in quanto varietà parlata in ogni strato
sociale lungo l'intero arco della latinità. E stato infatti notato che

alcuni fenomeni propri del latino volgare hanno precedenti già nel
latino arcaico, affiorando per esempio nelle commedie di Plauto, e,
tenuti a freno o respinti dalle scritture nell'età classica, sono riemer-
si solo in una fase tarda. Le stesse lettere di Cicerone sono scritte in

una lingua {sermo familiaris) abbastanza diversa da quella usata dal-

lo stesso autore per le orazioni o le opere filosofiche e retoriche.


Non c'è dubbio del resto che il latino classico, come è documentato
dai grandi autori dell'età cesariana e augustea, rappresenti per vari
aspetti una lingua stilizzata, lontana dall'uso parlato contempora-
neo, specie da quello delle classi popolari. Si trattava pur sempre,
però, di due registri di una stessa lingua, che variava sul piano dia-
mesico e diafasico (come oggi l'italiano scritto delle leggi, dei tratta-

ti di storia, delle poesie è diverso da quello della conversazione

spontanea e informale), non di due sistemi radicalmente distinti,

quali risultano essere il latino classico e il latino volgare, che presen-


tano differenze sostanziali sul piano della fonetica, della morfolo-
gia, della sintassi e del lessico. C'è pertanto anche chi preferisce par-
lare di latino tardo, collocando la separazione tra i due sistemi nel-

l'età del basso Impero (anche dopo le profonde trasformazioni so-


ciali seguite alla diffusione del cristianesimo). Poiché però i feno-
meni innovativi non avvennero tutti simultaneamente (alcuni,
come si è detto, risalgono già al periodo arcaico, altri all'età classi-

ca), la definizione di "latino volgare" appare preferibile.


Il latino volgare non era uniforme su tutto il territorio dell'Impero,

ma presentava notevoli differenze sul piano diatopico, soprattutto


dal punto di vista lessicale. Tali differenze si sarebbero poi accen-
tuate nel passaggio alle nuove lingue romanze.
In ogni caso, il latino volgare, che fu alla base delle nuove lingue ro-

manze, era essenzialmente parlato. Com'è possibile dunque rico-

struirne la fisionomia, visto che le lingue del passato ci hanno la-

sciato solo documenti scritti? Il primo criterio è la comparazione


degli esiti neolatini: se due o più lingue o dialetti romanzi presenta-
no forme non documentate nel latino classico, possiamo ri-
affini,

costruire con buona approssimazione la forma del latino volgare

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che le ha determinate, ripercorrendone a ritroso le diverse evoluzio-

ni fonetiche.

Abbiamo anche forme del latino volgare effettivamente documen-


tate in una serie di fonti, le più importanti delle quali sono:
• le iscrizioni non ufficiali, che presentano non di rado elementi
propri del parlato; particolare importanza rivestono numerosi graf-
fiti conservatisi a Pompei, databili immediatamente prima dell'eru-

zione del Vesuvio del 79 d.C;


• le testimonianze dei grammatici, che, tesi a difendere la lingua
della tradizione scritta, non di rado segnalano come errori forme
proprie del parlato, molte delle quali si sarebbero comunque impo-
ste. La più famosa è la cosiddetta Appendix Probi, una lista di parole
e forme "sbagliate" riportate a fianco di quelle corrette, trascritta

probabilmente a Roma verso il secolo ili d.C. alla fine di un codice


contenente le opere del grammatico Probo (1 secolo d.C);
• la documentazione letteraria di autori più sensibili a rappresen-
tareil parlato, come per esempio Petronio nel Satyricon, o rivolti a

un pubblico non di letterati, come molti autori cristiani, interessati


non a rispettare le prescrizioni dei grammatici, ma a farsi capire dal
popolo;
• le carte tardolatine e altomedievali, che contengono molti vol-

garismi (più tardi, però, in documenti del genere assumono una ve-
ste latina termini volgari).
In questo libro non tracciamo un profilo linguistico complessivo

del latino volgare, le cui caratteristiche principali sul piano foneti-


co, morfologico, sintattico, lessicale, sono trattate separatamente
nei vari capitoli. Segnaliamo subito, però, alcuni fatti: dal punto di

vista fonetico, il latino volgare presentava rispetto al latino classico

profonde innovazioni sia nel vocalismo (perdita della durata delle


vocali), sia nel consonantismo (caduta delle consonanti finali), che
determinarono, in morfologia, il collasso del sistema flessivo e lo

sviluppo di tecniche di tipo analitico, isolante; le trasformazioni sul


piano fonetico e morfologico comportarono poi, sul piano sintatti-

co, una riduzione nella libertà dell'ordine delle parole nella frase. La
collocazione del latino volgare nella dimensione prevalentemente
parlata spiega inoltre l'abbandono (o la semplificazione) di molte

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strutture sintattiche proprie del latino classico e la riduzione del pa-
trimonio lessicale, nel cui ambito si registrano anche sviluppi se-
mantici particolari.

Le lingue romanze Ricostruiamo ora brevemente il processo di ge-


nesi delle lingue romanze. L'azione di conquista dei Romani, che
da una piccola zona del Lazio arrivarono a espandersi in buona par-
te dell'Europa, nell'Africa settentrionale e nell'Asia occidentale, fu.

accompagnata dalla diffusione del latino, adottato da gran parte


delle popolazioni assoggettate, attraverso un'attenta politica lingui-

stica (che faceva perno sulla concessione della cittadinanza romana,


sulla scuola, sulla pubblica amministrazione, sulla colonizzazione
dei nuovi territori da parte di masse di immigrati). La progressiva,
ma definitiva scomparsa delle lingue originarie non avvenne in tut-
te le terre conquistate dai Romani: in alcune zone, dove la penetra-
zione fu meno massiccia, esse resistettero (è il caso del basco); in
Grecia e nelle parti orientali dell'Impero già ellenizzate il greco, gra-
zie anche al suo prestigio culturale, non venne mai insidiato dal la-

tino. Naturalmente anche il latino, oltre a essere soggetto alle varia-

zioni diamesiche, diafasiche, diastratiche e diacroniche che abbia-


mo già ricordato, presentava differenze da zona a zona, per esempio
nel lessico o nelle abitudini di pronuncia, dovute sia alle tracce, più
o meno consistenti, lasciate dalle lingue autoctone, sia alla varia
provenienza dei colonizzatori latini, sia alla diversa epoca di roma-
nizzazione. In ogni caso, nel momento del suo massimo splendore,
l'Impero romano godeva al suo interno di una notevole unità lin-

guistica.

Quando, verso la fine dell'Impero e soprattutto con le invasioni


barbariche, il potere centrale e la stessa unità amministrativa venne-
ro meno e anche l'assetto sociale, economico e culturale delle popo-
lazioni romanizzate mutò profondamente, il processo di trasforma-
zione e di frammentazione linguistica subì una brusca accelerazio-
ne. In molte zone dell'Impero il latino fu spazzato via dalle lingue
degli invasori (così dalla Britannia, dall'Europa centrale e orientale,
poi anche dall'Africa settentrionale), in altre (quelle che nel loro
complesso costituiscono la Romania e cioè: l'Italia, la Penisola ibe-
rica, la Gallia, la Dacia ecc.) diede vita alle nuove lingue romanze o,

18
meglio, a una serie di dialetti tra loro più o meno simili, alcuni dei

quali avrebbero poi costituito la base delle nuove lingue.


Ilmutamento non fu, naturalmente, immediato, né tanto meno fu av-
vertito dai parlanti. Gran parte della popolazione, del resto, era anal-
fabeta e anche pochi che sapevano leggere e scrivere in latino non
i

ebbero per molto tempo la consapevolezza che la lingua che usavano


nello scritto e quella da loro parlata fossero due sistemi radicalmente
diversi, anche perché molti elementi volgari penetravano nelle scrit-

ture. Solo all'epoca di Carlo Magno, con la riforma carolina, che riu-
scì a imporre all'uso scritto un maggiore rispetto per le regole gram-
maticali proprie del latino classico, si prese finalmente coscienza del-
l'avvenuta trasformazione linguistica. Dal secolo vili in poi (e a vol-
te, come nel caso del rumeno, con un plurisecolare ritardo) comincia
la documentazione scritta in volgare, cioè nelle lingue romanze; più
tardi i nuovi volgari vennero adottati anche per l'uso letterario.
Non esiste una classificazione delle lingue romanze universalmente
accettata dagli studiosi: il loro stesso numero è tuttora soggetto a
discussioni e dibattiti. Semplificando, in questa sede, una proble-
matica assai complessa, ricordiamo velocemente le principali lingue
romanze, da ovest a est (senza fare riferimento alla loro espansione
in epoca moderna, quando, in seguito al colonialismo, alcune di
esse si diffusero anche in altri continenti): il portoghese; lo spagno-
lo o castigliano; il catalano, parlato in Catalogna; il francese; il pro-
venzale, parlato in Provenza e in altre zone della Francia meridiona-
le (oggi è ridotto a una varietà dialettale, ma nel Medioevo godette
di grande prestigio letterario, grazie soprattutto alla lirica trobadori-

ca); il franco-provenzale, parlato in Val d'Aosta e nelle zone alpine


tra Francia, Svizzera e Italia; l'italiano; il sardo; il retoromanzo, co-
stituito dalle parlate del Cantone svizzero dei Grigioni (romancio),
delle valli dolomitiche (ladino) e del Friuli (friulano); il dalmatico
o veglioto, che era parlato, fino alla fine dell'Ottocento, lungo le

coste della Dalmazia; il rumeno, parlato nelle attuali Repubbliche


di Romania e di Moldavia e diffuso, in altre varietà, in diverse altre
zone della penisola balcanica.

Portoghese e spagnolo costituiscono il gruppo ibero-romanzo, mentre francese, franco-

provenzale e provenzale il gallo-romanzo (il catalano è spesso considerato in posizione

19
intermedia tra i due gruppi); italiano, sardo e ladino rientrano nel dominio italo-ro-

manzo, mentre il rumeno nel balcano-romanzo (il dalmatico era in posizione interme-

dia). Importante è anche la distinzione tra lingue romanze occidentali e lingue romanze

orientali, che, come vedremo, attraversa l'Italia.

Ciascuna delle lingue romanze comprende più varietà locali; anzi, il

sardo e il retoromanzo sono costituiti solo da varietà dialettali, nes-

suna delle quali ha prevalso sulle altre. Soltanto attraverso un lungo


processo di standardizzazione, culminato alle soglie dell'era moder-
na, spesso in concomitanza con le formazioni degli stati nazionali,

alcune varietà locali si vennero configurando come lingue. Il caso


dell'italiano, come vedremo, si presenta invece particolare per vari
aspetti: basti dire, per ora, che il dialetto fiorentino del Trecento fu
il fondamento della lingua nazionale grazie al prestigio della sua let-

teratura, non un predominio politico che la città tosca-


in seguito a

na, nel policentrismo italiano, non ebbe mai, se non in momenti


brevissimi.
I motivi della frammentazione del mondo romanzo sono stati già in
parte accennati, ma per chiarire meglio come mai dal latino si origi-
narono tante lingue diverse, possiamo fare riferimento a tre fattori

importantissimi. Ricordiamo anzitutto la pressione esercitata sul la-

tino dalle diverse lingue a cui questo si era sovrapposto (iberico, cel-
tico, etrusco, osco, dacico ecc.), che ha determinato i cosiddetti fe-
nomeni di sostrato, attivi soprattutto sul piano fonetico. Tenuti a
freno fino al collasso dell'Impero, gli elementi locali acquistarono
poi nuovo vigore e contribuirono a determinare differenziazioni sia

fra gruppi linguistici diversi, sia all'interno della stessa lingua. Se-

condariamente, va citato l'influsso delle lingue parlate dai conqui-


statori, germanici (vandali, visigoti, franchi, longobardi ecc.) o sla-

vi, cui si devono i cosiddetti fenomeni di superstrato, evidenti so-

prattutto sul piano lessicale. I nuovi dominatori, stabilitisi in zone


diverse della Romania, finirono ben presto con l'accettare il latino

parlato dalle popolazioni sottomesse, arricchito però da elementi


tratti dalle loro lingue. Il terzo fattore è il contatto con le lingue di
altre popolazioni (greci, arabi ecc.), che ha causato fenomeni di ad-
strato, dovuti a situazioni di bilinguismo; anche qui si tratta preva-

20
lentemente di elementi lessicali accolti grazie al peso politico o al

prestigio che questi popoli ebbero in determinati ambiti culturali o


economici.

Per riassumere...

• In questo capitolo introduttivo sono stati illustrati anzitutto i diversi li-

velli dell'analisi linguistica: la fonetica e la fonologia, che studiano rispet-

tivamente i foni prodotti concretamente nel linguaggio verbale, e i fonemi,


che, all'interno di un determinato sistema linguistico, costituiscono le più

piccole unità distintive; la morfologia, che studia la forma delle parole nel-
le loro più piccole unità portatrici di significato; la sintassi, che esamina la

funzione e la disposizione delle parole all'interno della frase; la lessicolo-

gia, che studia le diverse componenti del lessico di una lingua.

• Si è quindi passati a focalizzare il concetto di variazione linguistica,

con particolare attenzione alla diacronia, cioè al mutamento nel tempo,

che è l'oggetto specifico di studio della grammatica storica.

• Infine, è stato chiarito il concetto di latino volgare, lingua ben diversa

dal latino classico, dalla quale sono derivate, differenziandosi tra loro, le

lingue romanze o neolatine, ed è stata fornita una breve rassegna di que-

ste ultime, tra le quali l'italiano si colloca in una posizione particolare.

21
1. La lingua italiana

Riteniamo indispensabile tracciare inizialmente un breve profilo di

geolinguistica e di storia linguistica italiana, anche per chiarire i

rapporti tra l'italiano di base fiorentina e le altre varietà dialettali

parlate in Italia, e poi fornire le indicazioni essenziali sulla fonetica e


la fonologia dell'italiano, per facilitare la comprensione del capitolo
successivo, dedicato ai mutamenti fonetici dal latino all'italiano.

1.1. Profilo geolinguistico e storico-linguistico dell'italiano


Abbiamo già detto che il dialetto fiorentino del Trecento fu il fon-
damento dell'italiano grazie al prestigio della sua letteratura. In ef-

fetti, la diffusione della lingua nazionale prima dell'Unità avvenne


prevalentemente sul piano dello scritto, mentre nel parlato hanno
dominato per secoli, pressoché incontrastati, i dialetti.

l.l.l. Le principali aree dialettali italiane La varietà di dialetti che è


tuttora tipica del nostro paese è una conseguenza della frammenta-
zione romanza succeduta all'unità linguistica latina, avvenuta anche
in Italia, dove fu anzi particolarmente accentuata.
Una frammentazione non solo linguistica, ma anche etnica, carat-

terizzava del resto l'Italia già prima della sua unificazione a opera
dei Romani: le particolari condizioni geografiche (facilità di appro-
di via mare; valicabilità della catena delle Alpi e, viceversa, relativo

isolamento delle diverse zone appenniniche), verso il ìooo a.C,


avevano reso la nostra penisola, la Sicilia e la Sardegna sedi di popo-
li diversi: alcuni mediterranei, di origine autoctona, come gli Etru-
schi, i Liguri, i Piceni, i Sardi, i Sicani; altri indoeuropei, giunti dal-
l'Europa centro-orientale nell'età delle migrazioni, come i Latini, i

Veneti, i Celti o Galli, gli Osco-Umbri o Italici propriamente detti,

divisi in vari gruppi (Sabini, Sanniti, Irpini, Marsi ecc.), i Messapi,


i Siculi. Molte zone dell'Italia meridionale e della Sicilia, infine,

erano colonie greche. Con la conquista romana tutti questi popoli


(forse con l'eccezione dei Greci) adottarono il latino, che a sua vol-
ta accolse molte parole d'origine etrusca o umbra o greca (l'influen-

22
za greca fu quella più ampia e duratura, dato il prestigio della civiltà
ellenica e, più tardi, la mediazione svolta dal greco nell'introduzio-
ne a Roma del cristianesimo). Ma le popolazioni romanizzate (so-
prattutto quelle imparentate coi Latini), trasferirono nel latino al-
cune parole e, soprattutto, certe abitudini di pronuncia che influi-
rono sull'evoluzione successiva dei diversi dialetti italiani.

Dopo il crollo dell'Impero romano, in Italia non si costituì mai sta-

bilmente un regno unitario: le popolazioni germaniche (Ostrogoti,


Longobardi, Franchi) non conquistarono l'intera penisola, perché
alcune zone rimasero (o tornarono) sotto l'influenza bizantina; la

precoce costituzione dello Stato della Chiesa, poi progressivamente


estesosi, separò politicamente l'Italia meridionale, soggetta nel tem-
po a varie dinastie, da quella settentrionale, che ebbe vicende stori-
che profondamente diverse (e differenziate al suo interno). Anche il

superstrato fu dunque alquanto vario da zona a zona.


La penisola italiana si presentava, insomma, dopo il crollo dell'Im-

pero romano, linguisticamente assai differenziata, come è tuttora

sul piano dialettale. A parte il caso del sardo e del retoromanzo, che
si configurano, come abbiamo visto, come sistemi linguistici asso-
lutamente autonomi, nel dominio italo-romanzo possiamo infatti

distinguere i dialetti settentrionali ',


che rientrano tra le lingue ro-

manze occidentali e sono parlati nelle zone a nord di quella che vie-
ne definita "linea La Spezia-Rimini", che corre grosso modo dal
Tirreno all'Adriatico lungo l'Appennino tosco-emiliano, e i dialetti

centro-meridionali, che rientrano tra le lingue romanze orientali e

sono parlati a sud di questa linea.

Fatta questa prima grande distinzione (e lasciando da parte le pic-

cole isole linguistiche del Meridione e le cosiddette parlate alloglot-


te, come il franco-provenzale in Val d'Aosta, il tedesco in Alto Adi-
ge ecc.), segnaliamo le principali aree dialettali italiane contempo-
ranee. Tra i dialetti settentrionali possiamo distinguere:
• i dialetti gallo-italici, parlati nelle zone anticamente abitate da
popolazioni celtiche, e cioè in gran parte del Piemonte, in Liguria,
in Lombardia (e nel Canton Ticino) e in Emilia-Romagna;
• i dialetti veneti, parlati nelle zone anticamente abitate dai Vene-
ti, cioè nel Veneto, nel Trentino e nella Venezia Giulia.

23
Tra i dialetti centro-meridionali si distinguono:
• i dialetti toscani, parlati appunto in questa regione (che antica-

mente aveva costituito il cuore dei territori abitati dagli Etruschi) e

nelle sue propaggini orientali e meridionali;

• i dialetti còrsi, parlati nella Corsica, politicamente francese;


• i dialetti mediani, parlati nelle altre regioni dell'Italia centrale a
sud della linea Roma-Ancona (quelli a nord di questa linea sono
"di transizione" perché hanno tratti in comune anche con dialetti i

toscani) e cioè nelle Marche centrali, nell'Umbria e nel Lazio a est


del Tevere, e nell'Abruzzo aquilano;
• i dialetti (alto)meridionali, parlati nelle Marche e nel Lazio me-
ridionali, in gran parte dell'Abruzzo, nel Molise, in Campania, in
Basilicata, nella Puglia (esclusa la Penisola salentina) e nella Cala-

bria settentrionale;
• i dialetti meridionali estremi, parlati nel Salento, nella Calabria
centromeridionale e in Sicilia.

Mentre i dialetti mediani e (alto) meridionali sono parlati nelle zone


anticamente occupate dalle popolazioni italiche, quelli meridionali
estremi caratterizzano aree di influenza greca, o perché costituenti
l'antica Magna Grecia o perché riacquistate alla grecità (il dibattito
tra gli studiosi è ancora aperto) in epoca bizantina.
In questo quadro, la Toscana venne a occupare una posizione inter-

media tra il Nord e il Sud anche dal punto di vista linguistico, e ciò

pose le premesse perché la frammentazione dialettale non sfociasse

nella penisola in sistemi linguistici assolutamente divergenti.

I primi documenti dell'area italiana scritti in volgare, dalla prima


metà del secolo ix in poi, non sono toscani, ma provengono da al-

tre zone della penisola, tra cui Roma e l'area mediana e altomeri-

dionale. Anche la prima importante "scuola poetica" italiana non


fiorì in Toscana, ma in Sicilia, alla corte itinerante di Federico n di

Svevia, nella prima metà del Duecento. Pure in vari centri dell'area

settentrionale, nel corso del Duecento, si ebbero manifestazioni let-

terarie di notevole rilievo. Tuttavia, per una serie di motivi che


esporremo in seguito, i dialetti toscani e in particolare quello di Fi-

renze, che nel corso del Duecento divenne la più importante città

della regione, si imposero nell'uso scritto letterario.

24
1.1.2. Fiorentino e italiano L'italiano deriva, nelle sue strutture fon-

damentali, dal dialetto fiorentino del Trecento, nell'elaborazione


letteraria che ne fecero Dante, Petrarca e Boccaccio. Non vi è dub-
bio che l'altissimo livello stilistico raggiunto da questi tre autori, su-
bito divenuti dei "classici", trascritti e imitati nel resto della peniso-
la, fu determinante nella conquista del "primato" linguistico da
parte di Firenze. A tale primato concorsero però anche altri motivi.
Anzitutto, sempre in ambito letterario, già prima di Dante la To-
scana aveva raccolto l'eredità della scuola poetica siciliana: princi-

palmente toscani erano stati i copisti che avevano trascritto le poe-


sie dei siciliani, dando loro una veste toscaneggiante; toscani erano
stati gli autori che le avevano poi imitate; toscani i seguaci del "dol-
ce stil novo" inaugurato dal bolognese Guido Guinizzelli. Inoltre,
alla superiorità letteraria dei tre grandi trecentisti, ben presto indi-
cati come le "Tre Corone", glorie dell'intera nazione, fa riscontro la

superiorità raggiunta dalla civiltà toscana anche in altri campi, da


quello economico e commerciale a quello artistico.
Sul piano linguistico, che più ci interessa, i dialetti toscani presen-

tavano, dal punto di vista fonetico e morfologico, alcune caratteri-


stiche che li rendevano a priori i più adatti ad assicurare all'Italia

un'unità linguistica. Forse perché lì il latino si era sovrapposto al-


l'etrusco, lingua geneticamente molto diversa (e dunque era rima-
sto meno soggetto alle interferenze, frequenti tra lingue affini), il

volgare parlato in Toscana era rimasto più vicino al latino parlato


anticamente, più che non il volgare della stessa Roma, città che già
in epoca tardoantica si era profondamente meridionalizzata in se-

guito alle immigrazioni di genti d'origine umbro-sabina. Inoltre,


pur appartenendo all'insieme dei dialetti centro-meridionali, i dia-

letti toscani avevano accolto, nel periodo altomedievale, alcuni


tratti propri dell'area settentrionale (che evidentemente godeva al-

lora di notevole prestigio). Pertanto, il toscano presentava aspetti


di conservatività (rispetto al latino) e di medietà (rispetto alle altre

aree dialettali italiane) che lo rendevano il più esportabile, in quan-


to più facilmente comprensibile anche in zone profondamente di-

verse tra loro.


Naturalmente, la diffusione del toscano non avvenne di punto in

25
bianco: se già nel Trecento abbiamo testimonianze della sua espan-

sione, solo nel Cinquecento, in seguito alla teorizzazione grammati-


cale facente capo al Bembo, il quale nelle sue Prose della volgar lin-
gua (1525) indicò il fiorentino trecentesco di Dante e, soprattutto,
di Petrarca e di Boccaccio come modello da imitare nelle scritture,
il processo può dirsi compiuto, almeno sul piano della lingua lette-

raria. Nelle scritture non letterarie i tratti regionali e locali conti-


nuarono, invece, a manifestarsi e, ovviamente, i diversi dialetti con-

tinuarono a essere usati nel parlato, dove tuttora risultano vitali.

Anche la denominazione della lingua documenta inequivocabil-


mente la toscanità dell'italiano: se nei primi secoli si parla di volga-
re, contrapposto al latino, successivamente le definizioni più fre-
quenti sono quelle di lingua fiorentina o toscana; il termine italiano
si impose definitivamente solo nel Settecento.
Le strutture fonetiche e morfologiche dell'italiano sono certamente
modellate sul toscano, anzi sul fiorentino del secolo xiv. Va però
detto subito che alcuni tratti fonetici del fiorentino trecentesco,
non rappresentati nell'uso scritto, non si imposero al di fuori dei
confini regionali; inoltre, la parlata di Firenze acquistò già nel corso
del Trecento (specie dopo il ripopolamento della città in seguito

alla "peste nera" del 1348), e poi nei secoli successivi, diversi tratti

innovativi estranei alle scritture dei grandi trecentisti o comunque


in esse non documentati; alcuni di questi tratti entrarono ugual-
mente nell'italiano letterario; altri no (e sono quelli che rendono
oggi il fiorentino un dialetto, distinto dunque anch'esso dall'italia-

no); altri ancora, respinti per secoli, sono stati accolti solo di recen-
te, in epoca postunitaria, anche in seguito alla scelta del Manzoni di

adottare, nell'edizione definitiva dei Promessi Sposi (1840-42, la co-


siddetta "quarantana", rispetto alla precedente del 1825-27, detta
"ventisettana") il fiorentino parlato all'epoca dai colti.
Non va inoltre sottovalutato l'apporto fornito dal latino, il cui mo-
dello, in Italia praticamente mai del tutto dimenticato, fu rilanciato
sia in età umanistica e rinascimentale, sia, nell'ambito scientifico
(accanto al greco), dal Settecento in poi, spesso mediato dal france-
se o dall'inglese: la componente dotta dell'italiano è piuttosto spic-

cata e presente a tutti i livelli dell'analisi linguistica.

26
Sebbene in misura incomparabilmente minore, anche le altre aree

dialettali e regionali italiane hanno dato qualcosa (specie in tempi


recenti) alla costituzione della lingua nazionale e pure le lingue stra-
niere con cui la nostra è entrata via via in contatto (francese e ingle-
se in particolare) hanno influito sull'italiano, soprattutto (ma non
esclusivamente) sul piano lessicale.

1.1.3. Stabilità e mutamento nella storia dell'italiano Una delle carat-


teristiche considerate specifiche della lingua italiana, nel confronto
con le altre grandi lingue di cultura, è la sua stabilità, cioè il fatto di

essere poco mutata nel corso del tempo. Mentre la fase medievale
del francese (la lingua d'oil) è un sistema linguistico radicalmente
diverso dal francese moderno (e il francese contemporaneo, specie
parlato, ha poi sviluppato ulteriori tratti innovativi), l'italiano, o al-

meno l'italiano della tradizione scritta, non sembra aver apportato


sostanziali modifiche alle strutture linguistiche proprie del fiorenti-
no letterario trecentesco.

Questo è stato spiegato col fatto che l'italiano è stato per secoli una
lingua destinata solo (o almeno prevalentemente) alle scritture, sot-
tratta cioè all'uso parlato concreto, che costituisce il principale fat-
tore del mutamento linguistico: non di rado, infatti, agli stessi scrit-
tori che l'hanno usato, l'italiano è parso una "lingua morta", come
le lingue classiche, fissate nella fase "aurea" del loro sviluppo, rap-
presentata da modelli letterari ammirati e giudicati insuperabili.
Oggi sappiamo che la fissità dell'italiano è stata alquanto sopravva-
lutata. Non vi è dubbio, infatti, che anch'esso sia mutato nel corso
del tempo; rispetto ad altre lingue, però, questo mutamento è stato

per secoli più contenuto (o meno avvertibile), tanto che sembra av-

venuto quasi di colpo dalla fine dell'Ottocento, dopo il raggiungi-


mento dell'Unità nazionale, fino al Duemila, l'epoca dell'informa-
tica e della multimedialità. Veicolato non più solo attraverso lo
scritto ma anche e soprattutto tramite il parlato (dove ha progressi-
vamente tolto spazi ai dialetti) e il trasmesso, l'italiano contempora-
neo, paragonato alla lingua della tradizione letteraria e grammatica-
le (quest'ultima, spesso, ulteriormente selettiva rispetto alla prima,
più libera e varia), appare qualcosa di diverso, di molto diverso. In
realtà, vari fatti che sembrano "nuovi" dispongono di un retroterra

27
storico consistente e hanno avuto spesso un corso sotterraneo, che
solo da poco sembra essere venuto finalmente alla superficie. Ma, a
ben guardare, molte strutture morfologiche e sintattiche sono sen-
sibilmente cambiate nel corso del tempo e alla luce del sole; le tra-

sformazioni sono state però graduali, percepibili solo sulla "lunga


durata".
L'idea della stabilità dell'italiano contiene, comunque, elementi di

verità: l'elaborazione letteraria trecentesca del dialetto fiorentino ha

fornito alla nostra lingua le strutture fondamentali in cui tuttora


essa si riconosce, tanto che i testi trecenteschi, per quanto la loro

comprensione da parte dei lettori di oggi sia molto meno ovvia di


quanto si sia semplicisticamente supposto (in primo luogo perché è
cambiato il significato di molte parole), rappresentano una fase di-

versa della stessa lingua, ma non certamente una lingua "altra".


Non a caso, per l'italiano non è stata tentata una periodizzazione
paragonabile a quella di altre lingue di cultura: si parla spesso, è
vero, di italiano antico, per riferirsi alla lingua usata nei testi due-
trecenteschi (non solo toscani), dotata di regole specifiche, specie

sul piano della sintassi, e di particolarità lessicali, ma molto nume-


rosi sono anche i tratti che l'italiano antico condivide con la tradi-

zione scritta posteriore. La forza della tradizione è stata infatti da


noi sempre grande: forme che sembravano avviate alla sparizione o
che erano da tempo uscite dall'uso orale hanno continuato a essere
adoperate nei libri e sono così rimaste vive almeno nella "compe-
tenza passiva" degli italiani (pensiamo solo al pronome soggetto di
a
3 persona maschile ei, che nessuno di noi oggi usa, ma che tutti ri-

conosciamo in una poesia o in un libretto d'opera).

L'italiano ha avuto inoltre per secoli una caratteristica assolutamen-


te peculiare: la lingua della poesia ha assunto tratti diversi da quelli

della prosa. Un po' come tracce dell'originaria matrice siciliana e,

più alla lontana, provenzale (preferenza per core, foco, fera rispetto a
cuore, fuoco, fiera-, forme verbali come deggio, saria invece che debbo,
sarei-, termini come augello; parole uscenti in -anza, -aggio), un po'
per ricerca voluta dell'arcaismo (si pensi solo a grafie come a la per
alla, a veggio per vedo, ad alma per anima) o del latinismo, la poesia
italiana ha avuto non solo sul piano stilistico, ma anche sul piano

28
linguistico vero e proprio caratteristiche particolari rispetto alla
prosa. Ma anche la lingua della prosa si è spesso compiaciuta di
tratti arcaici: fra l'altro, appunto in quanto lingua poco parlata, l'i-

taliano scritto tradizionale ha avuto una forte polimorfa, cioè una


sovrabbondanza di forme con lo stesso valore, diverse solo dal pun-
to di vista grafico o fonetico, alcune risultanti della normale evolu-
zione fonetica, altre analogiche, altre ancora latineggianti. La ridu-
zione della polimorfia, dopo il fondamentale esempio manzoniano,
è uno dei settori in cui l'italiano contemporaneo si è differenziato
da quello della tradizione.

1.2. Fonetica e fonologia dell'italiano II sistema fonologico


dell'italiano è costituito da 7 vocali, 2 semiconsonanti (il cui statuto
fonologico è peraltro assai discusso) e 21 consonanti. Inoltre, in po-
sizione intervocalica (cioè compresa tra due vocali) ben 15 conso-
nanti possono essere tanto brevi (dette anche "tenui" o "scempie",
se si considera l'aspetto grafico) quanto lunghe (dette pure "inten-
una è sempre breve e 5 sono
se" o "forti" o, nella grafia, "doppie"),
sempre lunghe. Nel complesso, quindi, i fonemi italiani sono 45.

1.2.1. Le vocali Le vocali italiane in posizione tonica (cioè accenta-

te) sono 7 e si dispongono secondo il cosiddetto "triangolo vocali-


co", che è il seguente:

Abbiamo dunque:
• una vocale centrale, prodotta con l'apertura massima della cavi-
tà orale e la lingua in posizione abbassata: la /a/;

• tre vocali anteriori o palatali, così dette perché la parte più alta
della lingua le articola spostandosi sempre più avanti, verso il palato
duro: la lei (aperta), la lei (chiusa) e la HI;

• tre vocali posteriori o velari, così dette perché la parte più alta
della lingua le articola andando sempre più indietro, verso il velo

29
palatino: la hi (aperta), la lol (chiusa) e la lui. Queste vocali ven-
gono dette anche labiali, perché richiedono in più una protrusione
(cioè un arrotondamento e una spinta in avanti) delle labbra.

Se si considera l'altezza della lingua, le vocali si distinguono in alte

(la lìl e la /u/), medio-alte (la /e/ e la /o/), medio-basse (la lei e la

hi), bassa (la /a/).

La differenza nel grado di apertura tra medio-alte (chiuse) e medio-


basse (aperte), che può variare o addirittura mancare in alcune va-
rietà regionali di italiano, normalmente non viene registrata nello

scritto, ma, ove occorre, è resa nell'ortografia normale (e, per como-
dità, anche qui di seguito, negli esempi), con l'accento grafico acu-
to (per le chiuse: é, 6) o grave (per le aperte: e, ò).

Il valore fonologico di tale opposizione è provato dall'esistenza di


coppie minime come è hi (verbo) ed e Id (congiunzione); vénti
/'venti/ (numerale) e vénti /'venti/ (pi. di vento)-, ho hi (verbo) e o
lol (congiunzione); bòtte /'botte/ ('busse', pi. di botta) e bótte

/'botte/ ('recipiente per il vino').

In posizione àtona (cioè non accentata) le vocali si riducono a cin-


que, perché l'opposizione tra medio-alte e medio-basse viene neu-
tralizzata in fonemi che (a prescindere dalle varie pronunce regio-
nali e da altre particolarità) sono indicati come chiusi (/e/ e lol).

1.2.2. Le semiconsonanti L'italiano ha due semiconsonanti, la 1)1

(jod), palatale o anteriore, e la Iwl (wau), velare o posteriore, che si

articolano rispettivamente come le vocali alte, ma hanno una durata


più breve e non possono essere accentate. Questi due fonemi, insie-

me a una vocale appartenente alla stessa sillaba, costituiscono i dit-

tonghi, che sono ascendenti quando la vocale segue (viene, luogo), e


discendenti quando la vocale precede (mai, lui, causa). In questo
caso la 1)1 e la Iwl vengono indicate piuttosto come semivocali.

Non tutti gli studiosi convengono net considerare l\l e /w/ fonemi, vista la difficoltà di

reperire coppie minime rispetto alle vocali corrispondenti. La distinzione rispetto a /i/ e

lui si ha comunque sul piano fonematico e dal punto di vista storico-linguistico è di im-

portanza fondamentale. Le semiconsonanti entrano anche nei trittonghi, che sono però

piuttosto rari [buoi, sciacquiamo). La grafia attuale non distingue le semiconsonanti

30
dalle vocali corrispondenti, usando gli stessi grafemi <i> e <u> (iena come ira,

uomo come uva). In passato però (e sistematicamente dal Seicento all'inizio del Nove-

cento) la jodè stata resa con < j > {bujo,jeri). La wau invece non ha mai avuto un se-

gno distintivo; anzi, per influsso della grafia del latino classico, il grafema < u > (o,

specie al maiuscolo, < v > ) è stato usato indifferentemente per la vocale, per la semi-

consonante e per la consonante fricativa labiodentale sonora /v/.

1.2.3. Le consonanti I ventuno fonemi consonantici italiani sono


disposti nella tabella 1; essi vengono tradizionalmente classificati

sulla base di tre diversi elementi:

• il modo di articolazione, cioè il tipo di ostacolo che incontra


l'aria che esce dalla cavità orale;

• il luogo di articolazione, ovvero il settore della cavità orale dove


si localizza l'ostacolo;

• la caratteristica del fono di essere sordo o sonoro, orale o nasale


(cfr. Introduzione).
Relativamente al modo di articolazione, se si ha una chiusura
(ostruzione) completa del canale si parla di consonanti occlusive
(dette anche esplosive, con riferimento all'impressione uditiva, o

momentanee); se vi è solo un restringimento, che non interrompe

TABELLA 1
Le consonanti italiane

Bilabiali Labiodentali Dentali Alveolari Palatali Velari

sorda sonora sorda sonora sorda sonora sorda sonora sorda sonora sorda sonora

Occlusive P b t d k g

Nasali m n ji

Affricate ts dz tj d3

Laterali l À

Vibranti r

Fricative f v s z J

31
del tutto il flusso dell'aria, di costrittive (o continue, dette anche da
alcuni studiosi spiranti o fricative\ termini che però altri usano an-
che per indicare solo alcune consonanti, definendo le altre liquide)-,

si parla di affricate (o semiocclusive) per indicare le consonanti che si

producono prima con un'occlusione e poi con un restringimento,


dunque in due momenti distinti, pur se strettamente legati.

Con riferimento al luogo di articolazione, invece, possiamo suddi-


videre le consonanti italiane in bilabiali (se l'ostruzione avviene con
la chiusura delle labbra), labiodentali (ostruzione con denti superio-
ri e labbro inferiore), dentali (ostruzione ottenuta con la punta del-

la lingua che poggia sui denti superiori), alveolari (la lingua tocca
gli alveoli dei denti superiori), palatali (la lingua si solleva sul palato

duro), velari (la lingua tocca il velo palatino).

Per semplificare la terminologia, definiremo per esempio la /p/ come bilabiale sorda

(tralasciando il fatto che è anche occlusiva e orale), la /s/ e la /zi, cioè le fricative alveo-

lari sorda e sonora, come sibilanti, la /m/ come bilabiale nasale e la /ri/ come nasale
palatale (lo stesso schema proposto, del resto, raggruppa le nasali, non considerando

che Imi e Ini sono occlusive, mentre /ji/ è costrittiva) ecc.

Ci soffermiamo ora solo sulle consonanti che vengono trascritte

con simboli particolari o che presentano peculiarità grafiche.


La /k/ [occlusiva] velare sorda, è resa con < c> davanti ad /a/, alle

vocali velari e ad altra consonante {casa, così, cupola, crema), con


< eh > davanti alle vocali palatali e a 1)1 {chi, che, chiesa), con
< q > spesso davanti a /w/ {quadro, questo, ma cuore). La /g/ [oc-
clusiva] velare sonora, è resa con < g > davanti ad /a/, alle vocali ve-
lari, ad altra consonante e a /w/ {gatto, godere, gufo, grasso, guarda-
re), con < gh > davanti alle vocali palatali e a 1)1 {ghiro, ghepardo,
ghianda). Le sequenze /kw/ e /gw/ (graficamente < qu > e < gu > )

costituiscono il nesso labiovelare, rispettivamente sordo e sonoro,


possibile solo prima di un'altra vocale. Nei gruppi /ki/, /kj/, /gi/ e

/gj/ l'articolazione della velare è spostata un po' in avanti e dunque i

foni sono un po' diversi (sono indicati in fonetica come [e] e [$]).

La /tJ7 e Id^l, le affricate palatali sorda e sonora, sono rese grafica-

mente con < c> e < g > davanti alle vocali palatali {cento, cima,

32
gelo, giro), con < ci > e < gi > davanti ad /a/ e alle vocali velari
{pancia, ciò, ciurma, già, gioco, giù).
La lisi e la /Azi le affricate alveolari sorda e sonora,
, sono rese in ita-

liano con l'unico grafema <z> {zaino /'dzajno/, zucca /'tsuk:a/);


in posizione intervocalica il fono, nella pronuncia standard, è sem-
pre intenso, anche se graficamente si può avere tanto la doppia
<zz> quanto la scempia <z> {mezzo /' meddzo/ pizza /'pittsa/,
,

azoto /a'ddzDto/). La pronuncia della < z > nell'italiano contempo-


raneo varia molto a seconda dell'area geografica; l'opposizione fra

sorda e sonora è del resto di bassa produttività: l'unica coppia mini-


ma dello standard è costituita da razza /'rattsa/ ('stirpe') e razza
/'raddza/ ('tipo di pesce'). I due foni hanno però matrici diverse e

dunque, in grammatica storica, vanno tenuti ben distinti.

La Ijìl, nasale palatale, è resa sempre con < gn > {gnomo, giugno);
la Ikl, laterale palatale, con < gì > davanti a HI {gli, figli) e con
< gli > davanti a tutte le altre vocali {famiglia, moglie, aglio)', la /J7,
sibilante palatale, con < so davanti alle vocali palatali {scemo,
scimmia), < sci > davanti ad /a/ e alle vocali velari {sciarpa, sciocco,

asciugare). Queste tre consonanti sono sempre lunghe.


La Izl, sibilante palatale sonora, è resa graficamente con < s > (non
si distingue quindi dalla sorda) e si può trovare al posto di questa
solo prima di un'altra consonante sonora {sdentato, sbronzo) o in
posizione intervocalica {rosa /'rozzi) ed è sempre di grado tenue.
Mentre in posizione preconsonantica Isl e Izl sono varianti condi-
zionate dal contesto, in posizione intervocalica la pronuncia della
< s > varia diatopicamente (sempre sonora, dunque come Izl, a

Nord; sempre sorda, come Isl, nei dialetti mediani e meridionali).


L'opposizione fonologica sussiste solo in Toscana, dove si indivi-

duano alcune coppie minime, come fuso /'fuso/ ('arnese per filare')

e fuso /'fuzo/ (participio passato di fondere), poche ma sufficienti

per considerare Izl un fonema distinto da Isl.

Per quanto riguarda i foni nasali, la Ini, dentale, pronunciata sem-


pre come tale in posizione iniziale e intervocalica, viene per esem-
pio realizzata come velare (allofono reso nell'iPA con [rj]) prima
delle velari {angolo /'angolo/). Anche prima delle fricative labioden-
tali, in corrispondenza della < n> della grafia si ha un fono inter-

33
medio che neutralizza l'opposizione tra la dentale Ini e la bilabia-
le Imi (allofono reso nell'iPA con [rrj]; anfora /'arrjfora/, invidiare
/irrjvi'djare/).

1.2.4. Cenni sulla struttura sillabica Non entriamo nel tema della
struttura della sillaba italiana se non per rapidi cenni, in funzione
della trattazione successiva. La struttura della sillaba prevede un at-

tacco e una rima. L'attacco è formato da una semiconsonante o da


una consonante (uo-vo, ca-ne), o anche da più di una consonante e

una semiconsonante (stra-no,fuo-co), ma non tutte le combinazioni


sono può anche mancare (a-mo). La rima può a
possibili. L'attacco

sua volta ramificarsi inun nucleo (costituito in italiano unicamente


da una vocale) e una coda, costituita da una semivocale o da una
sola consonante (for-no, causa, ven-to). Se la sillaba non ha la coda

(cioè se la vocale è in posizione finale di sillaba) si dice che è aperta


(o libera), se invece ha la coda (cioè se in posizione finale c'è una se-

mivocale o una consonante), si dice che è chiusa (o implicata). Non


tutte le consonanti italiane possono trovarsi nella coda e quindi
chiudere la sillaba. Nei gruppi consonantici lui , /gr/, /pr/ ecc.

{muta cum liquida), la prima consonante non chiude la sillaba, ma


costituisce l'attacco della sillaba seguente (ma-gro, a-pro).

L'italiano di base fiorentina non ammette con molta facilità lo iato,

cioè la vicinanza di due vocali appartenenti a sillabe diverse (ma-


està, in-vi-o) e tende spesso a eliminarlo. Nell'italiano tradizionale
è inoltre sempre aperta la sillaba finale di parola: le parole, nella

stragrande maggioranza, finiscono in vocale; più categoricamente,


finisce in vocale la parola che si trova alla fine della frase, prima di
pausa. Questa condizione non si verifica, oltre che nelle circostanze
che esamineremo nel capitolo 2, nei prestiti non adattati (dal lati-

no: album, o da altre lingue: sport), in interiezioni e ideòfoni (sst,

bum), elementi che del resto ammettono anche foni non presenti
nel sistema italiano.

1.2.5. L'accento L'accento italiano è di natura intensiva e si realizza

con l'aumento della forza espiratoria durante la pronuncia di una


determinata vocale. L'italiano ha un accento mobile, la cui posizio-

34
ne cioè, nelle parole composte da più di una sillaba, può variare e,

in linea di massima, non è predicibile.


L'accento può cadere sull'ultima sillaba (nelle parole ossitene o tron-
che, le sole dove l'accento tonico deve essere sempre segnato grafica-

mente: partirò, venerdì, generò, carità), sulla penultima (nelle parole

parossìtone o piane, che sono la maggioranza: venuta, matita, pianta-


re, rimòrso, paese), sulla terzultima (nelle parole proparossìtone o
sdrucciole, che presentano, di norma, la penultima sillaba aperta:

àngolo, sàbato, lìbero, ma anche màndorla). Apparenti risalite del-

l'accento alla quartultima sillaba (o anche più su) si hanno solo in


forme verbali a cui si sono saldati graficamente più pronomi atoni
{prendéteveli, mèttigliecelo) o in alcune forme di terza persona plura-
le del presente, dove la desinenza -no è considerata extrametrica {ca-
pitano, isolano). Le parole formate da più di tre sillabe (e soprattut-
to le parole composte, come cassapanca ecc.) spesso, oltre all'accen-
to tonico primario, portano un accento secondario sulla prima (o
sulla seconda) sillaba.

L'accento italiano ha anche valore fonologico: la sua diversa posi-


zione serve infatti a distinguere parole (o forme) altrimenti identi-
che {àncora!ancóra, capito I capito I capitò ecc.).

Per completare le indicazioni terminologiche relative all'accento,


precisiamo che la vocale atona è detta protònica se si trova prima
della sillaba accentata, postònica se è dopo l'accento tonico (spesso è
la vocale finale di parola), interfònica se in posizione intermedia tra
la sillaba dove cade l'accento secondario e la tonica. Si parla di prò-
fonia sintattica per le vocali accentate delle parole che, in sintagmi,
tendono a perdere il loro accento appoggiandosi a quello della pa-
rola seguente {molto bèllo, era véro) e per quelle dei monosillabi

"deboli" (articoli, preposizioni, congiunzioni, pronomi atoni).

Per riassumere...

• Si è fornito anzitutto un rapido profilo geolinguistico e storico-lingui-

stico dell'italiano, necessaria premessa all'analisi linguistica in senso


stretto. Per prima cosa è stata proposta una schematica suddivisione delle

diverse aree dialettali italiane: dialetti settentrionali (galloromanzi e vene-

35
ti) e dialetti centro-meridionali (toscani, corsi, mediani, altomeridionali e
meridionali estremi).

• Sono stati poi affrontati rapidamente i problemi della derivazione del-


l'italiano letterario dal fiorentino trecentesco e della stabilità del sistema

linguistico dell'italiano, che è stato meno soggetto di altre lingue al muta-

mento diacronico perché a lungo ancorato alla scrittura, specie letteraria, e


caratterizzato, sul piano storico, dall'abbondanza della polimorfia.

• Infine è stata presentata una breve descrizione del sistema fonetico e


fonologico dell'italiano standard contemporaneo, che è costituito da sette
vocali (in posizione tonica, dove tra le vocali medie ha valore fonologico la

distinzione tra aperte e chiuse: è/e e ò/ó), due semiconsonanti (o semivo-


cali), che entrano nei dittonghi ascendenti o discendenti, e ventuno conso-
nanti, delle quali quindici, in posizione intervocalica, possono essere sia

tenui sia intense, cinque sono sempre intense e una sempre scempia.
• La rassegna dei fonemi è stata completata da alcune osservazioni sul-

la struttura della sillaba (il cui nucleo, in italiano, è sempre costituito da

una vocale) e sull'accento tonico, che in italiano è mobile e può cadere sul-
la vocale della sillaba finale di parola o anche sulla penultima (è questa
l'accentazione più frequente) o sulla terzultima.

36
2. I mutamenti fonetici

Tratteremo ora dei principali mutamenti fonetici intervenuti nel


passaggio dal latino all'italiano, che costituiscono l'oggetto di stu-
dio privilegiato della grammatica storica.
L'evoluzione fonetica avviene secondo leggi precise, che è merito
della scuola "neogrammatica", alla fine dell'Ottocento, aver indivi-
duato e descritto con rigore scientifico. Tuttavia non si tratta di leg-

gi incontrovertibili. Le "eccezioni" sono numerose e dovute a varie


cause, tra cui il fenomeno dell'analogia, che porta ad accostare an-
che foneticamente forme tra loro legate dal punto di vista morfolo-

gico (come voci verbali diverse) o lessicale (come parole di signifi-

cato simile o opposto) e a estendere la correzione di forme erronee


anche a forme simili che sono in realtà corrette (ipercorrettismo) .

La trattazione inizia dal sistema delle vocali (vocalismo), passa poi

alle semiconsonanti e infine al sistema delle consonanti (consonan-


tismo). Ogni fenomeno è documentato con esempi che confronta-
no la parola italiana con la base latina da cui deriva, detta ètimo, che
per i nomi e gli aggettivi è di norma quella dell'accusativo latino; a
volte uno stesso etimo ha dato origine a forme foneticamente diver-
se, dette allòtropi.

2.1. Il vocalismo

2.1.1. Il vocalismo nel latino classico e nel latino volgare II vocalismo


del latino classico prevedeva dieci fonemi vocalici: ciascuna delle cin-
que vocali dell'alfabeto - a e o u - poteva infatti essere breve o lun-
i

ga. Abbiamo dunque, procedendo dalle vocali anteriori verso le po-


steriori, il seguente sistema, in cui, per convenzione, la lunghezza
viene resa con un trattino e la brevità con un semicerchio soprascritti:

IIEEAAOOUU
La differenza nella durata dei suoni vocalici, detta quantità vocalica,
si poteva avere sia in posizione tonica, sia in posizione atona; ricor-

37
diamo che sono generalmente brevi le vocali che precedono un'al-
tra vocale, mentre sono considerate lunghe per posizione quelle che
si trovano prima di un gruppo consonantico (ma negli sviluppi ro-
manzi conta la natura originaria della vocale, che spesso è breve).
La quantità vocalica, oltre a determinare la posizione dell'accento,

aveva valore fonologico, svolgeva cioè una funzione distintiva. Nel


latino classico abbiamo infatti coppie minime come le seguenti: li-
ber 'libro' e lìber 'libero'; vénit Viene' (presente) e vénit Ven-
ne' (perfetto); màlus 'cattivo' e màlus 'melo'; òs 'bocca' e ós
'osso'; fùgit 'fugge' e fugit rosa 'la rosa' (nominativo) e
'fuggì';

rosa 'con la rosa' (ablativo); domùs 'la casa' (nominativo) e do-


mùs 'della casa' (genitivo).

Nel corso del tempo, però, probabilmente anche sulla spinta della

pronuncia del latino da parte di popoli romanizzati i cui sistemi lin-


non conoscevano la quantità vocalica, in gran par-
guistici originari

te della Romania si diffuse l'abitudine di assegnare alle vocali lun-

ghe un timbro chiuso e alle brevi un timbro aperto. La qualità voca-


lica, cioè la differenza di timbro, finì così col sostituire, nel sistema
fonologico del latino volgare, la quantità. Nel nuovo sistema, le

dieci vocali originarie vennero inoltre ridotte a sette: la vocale cen-


trale a, infatti, tanto lunga quanto breve, ebbe come unico esito /a/,

mentre la vocale aperta sviluppatasi da ì si fuse con la /e/ derivata


da É, così come la vocale aperta derivata da ù si sovrappose alla lo/

sviluppatasi da ó.
La durata vocalica si ha anche in italiano, dove sono lunghe le voca-
li toniche in sillaba aperta non finali e brevi le vocali atone, le toni-

che in sillaba chiusa e le finali, ma è priva di valore fonologico.


Nel latino classico, oltre alle dieci vocali, esistevano (sia in posizio-
ne tonica sia in posizione atona) tre dittonghi - ae, oe, au - che
ebbero sviluppi diversi nel latino volgare: il dittongo oe divenne
una É di timbro chiuso e come tale sviluppò una /e/; invece il dit-

tongo ae diventò una É ma di timbro aperto e quindi gli esiti di

questo dittongo, in posizione tonica, furono, in genere, gli stessi


della É. Quanto ad au, divenne precocemente ó (da cui lol) solo in
poche parole (caudam —> còdam; faucem —» fòcem), altrimen-
ti si conservò molto più a lungo (e sopravvisse in alcune aree ro-

38
.

manze); in italiano il dittongo au si chiuse solo in epoca altomedie-


vale (secolo vili) e sviluppò una lol

L'alfabeto latino, per la verità, aveva un'altra lettera relativa a una


vocale, la y, tratta dall'alfabeto greco e usata solo nei grecismi, che

andò a confondersi ben presto con la ù (sviluppando quindi lol) e

successivamente, in parole entrate più tardi, per lo più con la I (da


cui /i/, usata anche nei grecismi di formazione moderna).

2.1.2. Il vocalismo tonico dal latino volgare all'italiano In sede tonica


possiamo ricostruire il passaggio dal latino classico al latino volgare

nello schema seguente, il cosiddetto "vocalismo italico" (proprio di


gran parte dell'area in cui si parlava il latino volgare), al quale so-
stanzialmente, l'italiano è rimasto fedele:

I I E E A A o o u u
1 \ / 1 \ / 1 \ / 1

IH lei lei /a/ lo/ lol Ini

Abbiamo dunque, in italiano, i seguenti esiti (inseriamo anche i

dittonghi e la y):

I, y > /i/: fìlum > filo; mille > mille; gryllum > grillo.

! > /e/: pìlum > pélo; mìtto > métto.


É, oe > /e/: télam > téla; stéllam > stélla; poenam > péna.

É, ae > lei: bène > bène; léctum > lètto; maestum > mèsto.

À, À > /a/: fàbulam > favola; altum > alto; mare > mare;
ó, au > hi: nóvem > nòve; Òcto > òtto; aurum > òro.
ó > lol: sólem > sóle; sór(i)cem > sorcio.
ù, y > lol: crùcem > cróce; colùmnam > colónna; byrsam >
bórsa.

u > Ini: mùrum > muro; frùctum > frutto.

Andranno fatte subito alcune precisazioni:


• il grado di apertura delle vocali medie indicato è quello del fio-

rentino, che è tuttora considerato il modello della pronuncia stan-


dard; in questo sistema, come si è detto, l'opposizione tra aperte e

chiuse ha valore fonologico;

39
• parole come bene e nove, che abbiamo inserito nello schema,
costituiscono in realtà delle eccezioni, perché, come vedremo, in
sillaba libera la É (e il dittongo ae) e la ó hanno avuto (nei dialetti

toscani e poi in italiano) un ulteriore sviluppo, il cosiddetto "dit-


tongamento spontaneo";
• i passaggi considerati valgono solo per le parole di tradizione di-
retta e anche tra queste non mancano eccezioni.
Nelle parole dotte (latinismi), invece, si conserva in genere il tim-
bro della vocale latina, a prescindere dalla durata. Parole che pre-
sentano come vocale tonica HI o lui in corrispondenza di i o di ù
(disco da dìscum; subito da sùbito) non sono voci popolari, come

pure quelle che conservano il dittongo /aw/ (aureo da aureum).


Anche per quello che riguarda le vocali medie, spesso parole che
presentano una lei o una hi muovono da parole latine che hanno
É e ò (mènsa da ménsam; nòno da nónum). Anche in questi casi si
tratta di parole dotte; il grado di apertura delle vocali si spiega col
fatto che l'italiano di base fiorentina tende a pronunciare aperte
tutte le e e le o latine (come pure, in genere, tutte le vocali medie
toniche degli adattamenti di parole straniere).

Lo schema di vocalismo tonico presentato sopra non è l'unico del dominio italoroman-

zo. In gran parte della Sardegna (e in una piccola zona della Basilicata) si è avuta una

riduzione delle vocali latine da dieci a cinque a prescindere dalla lunghezza vocalica:

nelle vocali medie si ha dunque, per esempio, la confluenza di e e di i in un'unica /e/ e

di ó e ó in una sola /o/ (è il cosiddetto vocalismo sardo); abbiamo così, in Sardegna, ol-

tre alla mancata distinzione timbrica tra /e/ ed /e/ e tra hi e /o/, anche esiti come nive
< nivem (it. néve) e nuki < nùcem (it. nóce).

Anche nei dialetti meridionali estremi si ha, in sede tonica, un sistema pentavocalico,

ma diversamente articolato. In questo vocalismo, detto siciliano, mancano /e/ e /o/; gli

esiti di i e e e di ó e ù confluiscono infatti rispettivamente in /i/ e in lui. Anche qui ab-

biamo esiti diversi rispetto a quelli toscani/italiani: pici < piceni (it. péce); stidda <

stéllam (it. stélla); cruci < crùcem (it. cróce); suli < sólem (it. sóle). Questo vocalismo,

adottato dai poeti della scuola siciliana, lasciò varie tracce nella lingua letteraria italia-

na, nonostante la veste toscanizzata in cui le poesie siciliane vennero tramandate; per

esempio nel sistema delle rime, accanto alla rima perfetta, fu ammessa anche la "rima

siciliana", come voi: altrui (in siciliano in questo caso c'era una rima perfetta: vui: al-

40
trui); anche la "rima per l'occhio", cioè la possibilità di far rimare parole recanti nella

sillaba accentata vocali medie di diversa apertura (come amóre : c(u)òre oppure bène :

péne), è una conseguenza del vocalismo siciliano.

Le altre aree dialettali italiane condividono tutte il vocalismo italico come base di par-

tenza, ma presentano alcuni fenomeni particolari, tra i quali ne ricordiamo almeno al-

cuni, propri dei dialetti settentrionali galloitalici, oltre che di altre lingue romanze: lo

sviluppo di vocali dette turbate o procheile (pronunciate cioè con le labbra arrotonda-

te), come /y/ (graficamente spesso < u > ) da ù latina (lùnam > luna) e /ce/ (grafica-

mente anche < ò > ) da ò latina (bòvem > bòf); la presenza (anche in posizione atona)

di suoni vocalici nasalizzati (quando le vocali latine erano seguite da una nasale: pànem

> pan[pà]).

2.1.3. U vocalismo atono dal latino volgare all'italiano I suoni vocalici


italiani in posizione atona, sia protonica, sia postonica, sia interfo-
nica, si sono ridotti ulteriormente, da sette a cinque, venendo
meno, tra le vocali medie, l'opposizione aperte/chiuse. Si sono avu-
ti così, partendo dal vocalismo del latino classico, i seguenti pas-
saggi:

I
1

\
ÉÉÀÀÒÓÙÙ
I / \ / \ I / I

HI ld /a/ lol lui

Abbiamo dunque, in italiano, esiti come i seguenti:


I > HI: dìcébat > diceva; fórìs > fuori.
1 > ld: lìnteolum > lenzuolo; ubi > ove.
É > ld: tenere > tenere; mIllé > mille.
É > ld: terminare > terminare; bène > bene; littéram >
lettera.

À, À > /a/: hàbèbàt > aveva; posteà > poscia; casàm > casa.
ó > lol: ódorem > odore; homo > uomo.
ò, au > lol: quando > quando; auric(u)lam > orecchia; sola-
tium > sollazzo (ma forse mediato dal provenzale),
ù > lol: tabula > tavola; saxùm > sasso.
u > lui: durare > durare.
Anche in posizione atona abbiamo però in italiano sviluppi partico-

lari, che poi esamineremo.

41
Per quanto riguarda il vocalismo atono sardo e siciliano, mentre il primo corrisponde

esattamente al vocalismo tonico, il secondo presenta un sistema ridotto a sole tre voca-

li /i/, /a/ e lui. Nel siciliano abbiamo dunque taciri( < tacére), fìmmini( < fémìnae), misi

( < mensem), quannu ( < quando), meu ( < meum). Nelle altre aree dialettali italiane le

vocali atone, specie finali, sono, tranne la /a/, molto più deboli che non in Toscana: nei

dialetti gallo-italici tendono a cadere (si hanno qui finali consonantiche e nessi impos-

sibili nell'italiano di base fiorentina), mentre in quelli meridionali a ridursi a una voca-

le indistinta, detta schwa e rappresentata con il simbolo Idi. I dialetti mediani manten-

gono invece la distinzione latina tra /o/ {quanno < quando) e /u/, quest'ultima derivata

dalla ù che si è prodotta dall'allungamento compensativo della vocale della desinenza

-ùm ( férru < férrum).

2.1.4. Gli sviluppi del vocalismo tonico Rispetto al vocalismo del lati-

no volgare, le vocali toniche in fiorentino (e poi in italiano) hanno


conosciuto ulteriori sviluppi innovativi.

Il dittongamento spontaneo L'innovazione più importante è il dit-

tongamento detto "spontaneo" (o "toscano", perché proprio dei


dialetti toscani). In sillaba aperta o libera, dalla /e/ (derivata da É e
dal dittongo ae) e dalla hi (derivata da ó) toniche si sono sviluppa-
ti due dittonghi ascendenti: /je/ e /wo/. Abbiamo così sviluppi

come seguenti: pédem > piede-, décem > dièci; héri > ièri,
i

*LÉVITUM > lièvito', LAETUM > lièto; BÒNUM > buòno; *CÓRE >
cuòre\ òpus > uòpo; sòcerum > suòcero.
Il dittongamento spontaneo costituisce uno dei problemi maggior-

mente dibattuti della fonetica storica italiana, soprattutto per quel-


lo che riguarda l'origine. In questa sede puntiamo soprattutto a
presentare i dati, sul piano prevalentemente diacronico, fornendo
solo qualche cenno sul dibattito critico.

Cominciamo col notare che nei dialetti italiani esiste un altro tipo di dittongo, quello

detto "condizionato" "metafonetico" - perché rientra in un fenomeno più generale

detto appunto metafonesi metafonia-, che alcuni studiosi considerano alla base del

dittongamento toscano, sebbene presenti una fenomenologia da questo ben distinta. Il

dittongamento metafonetico consiste infatti anch'esso nello sviluppo dei dittonghi /je/

e /wd/ rispettivamente dalla /e/ e dalla hi toniche, ma con due importanti differenze:

42
• si ha solo quando la vocale della sillaba finale è (o era, prima della caduta nei dia-

letti settentrionali o della riduzione allo schwa in quelli meridionali) /i/ (derivata da -ì

o -es latine) o /u/ (da -ù latina), non quando le finali sono (o erano) /a/, /e/, /o/; nei dia-

letti settentrionali la metafonesi si ha solo con /i/;

• avviene anche in sillaba chiusa.

In area metafonetica possiamo avere dittonghi in buonu, buoni < bònum, ( bòni), come in

Toscana, ma non in bòna, bòne ( < bónam, bònas), né in omo ( < homo), nonché dittonghi

assenti in Toscana (perché in sillaba chiusa), come in viecchiue viecchi{ma non in vec-

chia e vecchie), in s/enfa'senti' ( < sentis, ma non in sento < sèntio), in cuorpo ecc. An-

drà infine notato che, nei dialetti meridionali di oggi, le vocali toniche tendono a chiuder-

si e le semiconsonanti precedenti a vocalizzarsi: da [je] e [wd] si è passati a [ie] e [uo].

Nella metafonesi, il dittongamento non è l'unico possibile sviluppo delle vocali medio-

basse, che possono, nelle stesse condizioni, chiudersi in /e/ e in /o/ ( vècchia, gròssi)-, le

medio-alte, da parte loro, si chiudono sempre ulteriormente in /i/ e in lui {pilu, signu-

ri); in alcune aree la vocale finale agisce anche sulla /a/ che passa a /e/.

Tornando all'area toscana, il dittongamento non si ha nelle voci che


presentano hi < au {òro < aurum; causam; pòco < pau-
còsa <
cum). Poiché la chiusura di questo dittongo può essere plausibil-
mente datata (sulla base della documentazione esistente) al secolo
vili, entro quell'epoca il dittongamento di hi (e così anche quello
di lei) doveva essersi ormai concluso: infatti, non tutte le voci d'ori-
gine germanica entrate in quel periodo presentano il dittongo. Que-
sto manca poi in parole che, almeno in Toscana, hanno avuto origi-

ne non popolare, ma dotta o semidotta (come mèdico, mòdo), e in


prestiti di introduzione più o meno recente, posteriori comunque
all'epoca in cui il dittongamento era un fenomeno attivo.

Tra le parole popolari toscane il dittongamento non si è avuto anzi-


tutto in alcune voci proparossitone, come pècora ( < pècora), òpe-
ra {< opera), e ancora nelle forme dell'imperfetto del verbo essere
{èra, èrano ecc.), nelle voci bène { < bene), lèi { < *(il)léi, forma
nata nel latino volgare come femminile di *(ìl)lui, invece del dati-
vo del latino classico ìlli), nòve { < nòvem).

Sulla base delle "eccezioni" appena ricordate oltre che di altri motivi d'ordine generale,

alcuni studiosi ritengono che il dittongo spontaneo toscano costituisca uno sviluppo di

quello metafonetico (probabilmente importato dal Settentrione), estesosi per analogia

43
indipendentemente dalla natura della vocale della sillaba finale. Vanno però messi in

risalto tre fatti, a sostegno dell'origine autoctona:

• alcune forme dittongate poi venute meno sono documentate o nel fiorentino due-

centesco (è il caso di iera 'ero', era' e ierano 'erano') o in altri dialetti medievali toscani

( nuove 'nove', biene 'ber\e',uopara/-era opera', attestate a Siena e a Cortona; piecora

'pecora' a Cortona);

• il mancato dittongamento in bene, in era e anche in nove si può spiegare non


come traccia dell'originaria assenza del dittongo in posizione non metafonetica, ma col

fatto che l'accento principale della frase non cade quasi mai su queste voci, ma molto

più spesso sulla parola seguente {era bèllo, era stato, ben détto, ben venuto e benve-

nuto, nove mési, novecènto); dunque la vocale è stata trattata come protonica;

• il dittongamento toscano si ha solo in sillaba aperta e pertanto, per sostenere l'ori-

gine metafonetica, bisogna ipotizzare che originariamente la metafonesi non si verifi-

casse anche in sillaba chiusa, come invece avviene attualmente.

Una seconda questione legata al dittongamento è quella del cosid-


detto "dittongo mobile". Il dittongamento di /e/ e di hi si ha solo
in sillaba tonica: nelle forme verbali rizotoniche (accentate sulla ra-

dice), ma non su quelle rizoatone (accentate sulla desinenza), né su


quelle che hanno la vocale in sillaba chiusa; nei nomi ma non nei
derivati, nei quali l'accento si sposta sulla desinenza. Abbiamo dun-
que: siedo e siedi ma sedere e sedevamo, tieni e tiene ma tengo, tenni,
teniamo e tenete, puoi e può ma posso, potere e potesse, piede ma peda-
ta e pedale, ruòta ma rotaia.

Il "dittongo mobile" originariamente si registrava anche negli aggettivi, mancando nei

diminutivi e nei superlativi, nei derivati e nei composti: buono ma bonino, bonissimoe
bongiorno; nuovo ma novissimo e novità. Molte di queste alternanze si sono stabilizza-

te, ma non di rado (e soprattutto nel caso degli aggettivi) l'analogia ha portato a ridurre

le variazioni nella vocale tematica e a uniformare i paradigmi, estendendo il dittongo

anche in protonia {chiedeva, buonasera, nuovissimo, come chiedo, buono, nuovo) o,

meno spesso, a optare costantemente per la forma non dittongata; in questi casi la vo-

cale, aperta, ha poi finito col chiudersi ( nègo come negare; seguo come seguire; abboni
come abbonare, abbonamento).

Una terza questione riguarda la lunga vitalità nella lingua poetica di


forme non dittongate, limitate però a singole parole, come core,

44
»

fico, mòro, fera ecc., che si spiegano con le radici siciliane della poe-
sia italiana. La presenza di voci non dittongate nei più antichi testi

poetici italiani e anche la loro maggiore vicinanza alle corrispon-


denti parole latine ne hanno determinato l'accettazione per secoli
nel linguaggio poetico italiano, che anche per questo aspetto trovò
modo di differenziarsi da quello della prosa.
Ancora, nel fiorentino trecentesco il dittongo è presente anche in
voci come priègo, briève, truòvo, pruòva; nel fiorentino posteriore,
invece, probabilmente sotto la spinta di ondate immigratorie dalla
Toscana occidentale (dove l'assenza di dittongo è precocemente
documentata), dopo un nesso formato da consonante +
i dittonghi
Ivi si sono riassorbiti (/je/ già verso la metà del secolo xv, /wo/ in

pieno Cinquecento) e l'italiano, dopo un lungo periodo di oscilla-


zioni, ha finito con l'accogliere le forme monottongate. Già nel fio-

rentino del secolo xin si manifestò inoltre la tendenza alla riduzio-

ne del dittongo dopo una palatale: la 1)1 del dittongo /je/ è stata

così riassorbita (gielo —> gelo-, sopravvive graficamente, ma non fo-

neticamente, almeno nella pronuncia standard, dopo /tJ7: cielo

/'tjelo/, cieco /tjeko/); nel caso di /wo/ le forme rimonottongate,


come àiòlà, camiciòla, giòco, figliolo, spagnòlo, si sono imposte con
più difficoltà su quelle dittongate, a lungo prevalenti nell'uso lette-

rario e tuttora attestate. Non è stato invece accolto nell'italiano


contemporaneo il generale rimonottongamento del dittongo /wo/
che si è avuto nel fiorentino moderno (novo, bòno,foco).

Le chiusure in iato In alcune voci, le cui basi latine presentano É e ó


in sillaba libera, la /e/ e la hi non hanno dato come esito ditton- i

ghi /je/ e /wo/ bensì le vocali alte /i/ e luì: ego > eo —> io; méum
> mèo —» mio-, déum > Dìo —» Dio-, bòvem > bòe —> bue. Per

spiegare questi casi, molti linguisti pensano a una riduzione del dit-
tongo prima di un'altra vocale diversa da lìl (eo —> ieo —> io; mèo —

mièo —> mio); altrimenti si sono avuti dittonghi regolari, come nei

plurali miei e buoi (dei e dea si spiegano come latinismi). E però più
probabile pensare a una tendenza (condivisa del resto anche da dia-
letti che non conoscono il dittongo spontaneo) delle vocali medie
(non solo lei e hi, ma anche Id e lol) a chiudersi in lìl e Ini se se-

guite da un'altra vocale diversa da lìl. La chiusura in iato si è avuta

45
>

infattianche in vìam > via; *siam > séa — > sia-, tùam > tóa —
tua; dùas > dóe —> due. Non si è prodotta, invece, nelle forme del-
*
l'imperfetto in -ea (credea, non credici).

L'anafonesi Oltre al dittongamento spontaneo, l'altro fenomeno


che caratterizza particolarmente il vocalismo tonico del fiorentino e
poi dell'italiano è quello che è stato definito "anafonesi" da A. Ca-
stellani. L'anafonesi consiste nell'innalzamento di grado della voca-
le accentata in due contesti fonetici:
• si ha la chiusura della /e/ in lìl prima di Ikl e Ijìl derivate dai
nessi latini /nj/ e /lj/ (non prima di Ijìl < /gn/ latina, che evidente-
mente si palatalizzò successivamente): famìliam > famiglia; cì-
lium > ciglio; *matrìniam > matrigna; anche *postcénium >
tose, pusigno 'spuntino che si fa dopo la cena'; Cornelia > Corni-

glia (Dante). Si ha invece regolarmente lìgnum > légno;


• si ha la chiusura della /e/ in lìl e della lo/ in lui prima di /jl/,

cioè della nasale seguita dalle velari Ikl e /g/: vìnco > vinco; lìn-
guam > lingua; suffisso germ. -éngo > -ingo (in ramingo, casalin-
go); lòngum > lungo; fùngum > fango; iùncum > giunco (ma
il gruppo /ojik/ di norma non subisce l'anafonesi: trùncum >
trónco; spelùncam > spelónca); spòngia > spugna (qui si è avuta
anche la palatalizzazione del nesso consonantico).
Per analogia con le forme anafonetiche del presente indicativo, il

fenomeno si è avuto in forme verbali dove la vocale era atona o nei


participi passati (poi spesso sostantivati), dove non c'erano neppure
le condizioni fonetiche necessarie: come cìngo > cingo, anche
cìngebat > cingeva e cìnctum > cinto; come pùngo > pungo,
anche pùngendo > pungendo e pùnctum > punto.
L'anafonesi è un fenomeno assolutamente estraneo al resto d'Italia

(e non diffuso neppure in tutta la Toscana: il dialetto di Siena non


lo conosce) e dunque è uno dei tratti che più dimostrano la fioren-

tinità dell'italiano; peraltro talune forme non anafonetiche (defónto


'defunto') sono rimaste a lungo vitali nei testi letterari non fioren-
tini.

Casi particolari Diverse parole italiane, pur se popolari, di tradizio-


ne diretta, presentano nel vocalismo tonico esiti differenti dalla tra-

46
fila consueta, che sono stati variamente spiegati. Talvolta dipende-
ranno da mutamenti nella vocale o nella lunghezza vocalica avvenu-
ti già nel latino volgare: lùpum > *lupum > lupo(ma c'è chi pen-
sa a un influsso fonosimbolico dell'ululato), òstium > ustium >
USCÌO; NÙRUM > *NÒRAM > YlUÒrCL\ NÙPTIAS < *NÒPTIAS > YIOZ-
ze\ gli avverbi in -ménte < *ménte in luogo del classico ménte.

Talvolta si saranno dovuti a condizionamenti fonologici: tende per


esempio a chiudersi in /o/ la lo! seguita da nasale: pónte < pòn-
tem; sónno < sòmnum; sógno < sómnium. In vari casi le partico-
larità del vocalismo si spiegano con l'analogia: così lèttera < lìtte-

ra, per influsso del participio lètto; pièno < plenum, per attrazione
delle parole che presentano il dittongo ì]zl\fu < fùit invece di fo
per influsso di fui < fui (dove la ù è un tratto arcaico); tutto <
tóttum, probabilmente per influsso dell'opposto nùllum; d(i)-

ritto < dIréctum, divenuto *dérictum, con metatesi (cioè


scambio di posto) delle vocali, per influsso dei vari composti con
DE-.
Sono inoltre state trattate come protoniche (e dunque hanno as-
sunto un timbro chiuso) le vocali aperte di alcuni monosillabi non
accentati, sui quali non cade mai l'accento di frase: o ( < aut), e

( < et; ma in questo caso deve aver avuto un peso anche la distin-

zione da è verbo) e per (per); si tratta però di chiusure avvenute in


epoca moderna (quella di e solo nel secolo xviii). Si è viceversa

aperta la lo/ di non < non, quando, ridottosi a no [no], ha assunto


valore di negazione olofrastica, per analogia con le altre parole ossi-
tene terminanti in questa vocale (verrò, portò).

2.1.5. Gli sviluppi del vocalismo atono Anche in questo caso passia-
mo in rassegna solo gli sviluppi più significativi. Segnaliamo subito
che la maggiore debolezza delle vocali atone le rende soggette, mol-
to più spesso che non le toniche, a variazioni dovute all'assimilazio-
ne o alla dissimilazione (cioè all'avvicinamento o all'allontanamen-
to, nel timbro, a un altro fono vicino): attimo < atómum; cronaca
< chronìca; ant. maraviglia < mirabilia. La tendenza del fio-
rentino a trasformare en protonico in an spiega le antiche forme

danari (che troviamo ancora al singolare nel composto salvadanaio)

< denari e sanza < ab senti a (qui per protonia sintattica).

47
Le chiusure in protonia e in postonia In posizione protonica, in area
toscana (e quindi anche in italiano) la /e/ ( < I, É, É, ae) tende a
chiudersi in HI e anche la lo! ( < ò, ò, ù, au) passa spesso a lui:
vìrtutem > virtude; sécurum > sicuro; décembrem > dicem-
bre-, mólinum > mulino-, óccidere > uccidere; audire > udire;

germ. raubòn > rubare.


Per quanto riguarda l'esito lo/ > lui, si tratta di un fenomeno tut-

t'altro che sistematico: frequenti sono infatti le forme che hanno


mantenuto la vocale originaria (orecchia < auric(u)lam) o che
presentano alternanze (obbedire/ubbidire < oboedire; olivo/ulivo
< òlIvum). In alcune parole inizianti in au-, inoltre, il dittongo,
per dissimilazione rispetto a una /o/ seguente, si è ridotto alla sem-
plice /a/: augustum > agosto.
Lo sviluppo /e/ > lìl ha invece dimensioni più ampie e si verifica

anche in protonia sintattica (in > in; de > di) e nei pronomi elid-

ei, dove anzi i passaggi me > mi, te > ti, se > si ecc. si hanno an-
che in posizione postonica {mi dice e dimmi; si vede e vedersi).
Nelle forme verbali rizoatone, per analogia con le forme rizotoni-
che, la chiusura non si è avuta (abbiamo così tenere e tenevo su ten-

go, vedere su vedo ecc.) o è stata riassorbita (per analogia con getto,

gettare e gettato hanno prevalso su gittare e gittato, mentre ha resisti-

to il derivato gittata); la stessa cosa è avvenuta per i derivati da nomi


o aggettivi [telaio come tela). Bisogna anche notare che lo sviluppo

lei > lìl in alcuni casi si ebbe alquanto tardivamente, tanto che nel
fiorentino è attestata, a volte fino al secolo xv, la forma con /e/ (se-

gnore) rispetto a quella, poi prevalsa, con HI; in altri casi, invece, l'i-

taliano antico ha conosciuto la forma in HI, ma successivamente la

forma in lei, più vicina al latino, è stata ripristinata (delicatum >


dilicato —» delicato).
La vocale è conservata anche in latinismi (sereno) e in prestiti (rega-

lo), mentre si registrano alternanze nelle parole formate con i prefis-

si de- Idi- < de- (dipendere, dipingere, di antica formazione, ma de-


trarre, derivare) e ri-Ire- < re- (sempre rivedere, ritornare e ritornel-
lo, ripiegare, risorgere, ma replicare e restituire; risurrezione e ricupe-

rare si alternano a resurrezione e recuperare, mentre restare e ristare,

relegare e rilegare hanno assunto significato diverso).

48
Anche in posizione postonica non finale (dunque nei proparossito-
ni) la /e/ (se derivata da ì) tende a chiudersi in HI: homìnes >
uomini.

Il passaggio ar > er Nel fiorentino, e quindi in italiano, in posizio-


ne intertonica e postonica la /a/ seguita da /r/, sia in parole latine,
sia nei germanismi e nei prestiti arabi, sia in vari nuovi suffissi for-

matisi nel latino volgare, si chiude in /e/: cambarum > gambero;


margarita 'perla' —> margherita; arabo za'faràn > zafferano; suf-
fissi -aria, -avello > -erìa, -erètto {macelleria, osteria; vecchierello .pas-

serella). Il fenomeno (che non è di tutta la Toscana: a Siena, anzi, si

ha /er/ > /ar/) si realizza sistematicamente nelle forme perifrastiche


dei futuri e dei condizionali di verbi della prima coniugazione:
amare habeo > amar(e) *(a)o > amaro —> amerò; amare *ebui
—> amar(e) *ei > amarei —» amerei.
Anche qui non mancano eccezioni, costituite da latinismi, prestiti,
dialettalismi di altre aree che hanno conservato -ar-, particolar-
mente frequenti tra le parole entrate più recentemente nel lessico
italiano {barbaro, che ha prevalso su barbero, dollaro, mozzarella,

pennarello).

La labializzazione in protonia Prima di una consonante labiale (/p/,

Ibi, Imi) o labiodentale {1(1, Ivi) o del nesso labiovelare /kw/), le

vocali palatali (/e/, HI) si sono trasformate nella vocale labiale lo/ (e

talvolta in lui); si tratta dunque di un fenomeno di assimilazione:

de post > dopo (qui possiamo parlare di protonia sintattica); de-


bere > dovere (ma nelle forme rizotoniche si ha regolarmente
devo, debba ecc.); demandare > domandare {dimandare, con la

chiusura di lei protonica, è però attestato in italiano antico); *re-


versiare > rovesciare; aequalem > eguale —» uguale; *similiare
> somigliare; *indivinare > indovinare.

Casi particolari Presenta -/ invece di -e { < -I, -É, -É) una serie di

avverbi {avanti, domani, ivi, oggi, quindi, tardi, quasi ecc.) e alcuni
numerali {dieci, undici, dodici)', in questi casi, dove spesso è docu-
mentata anticamente la regolare forma in -e, la -/' si è originata per

lo più analogicamente con altre voci {oggi e domani su ieri < hérI;

49
ivi su qui < *eccu(m) hIc; dieci su undici < ùndécim, dodici <
duódécIm ecc., dove la -/ si spiega a sua volta come assimilazione
alla tonica o come allungamento della ì in I dopo la caduta di -m).
Come vedremo nel capitolo sulla morfologia, forme verbali e nomi-
nali in -e e in -/'
corrispondenti rispettivamente a terminazioni lati-

ne in -as e in -es sono state spiegate con l'azione palatalizzante di -s


sulla vocale precedente.

2.2. Le Semiconsonanti Già nel latino classico la ù prima di


un'altra vocale era di durata brevissima e formava un'unica sillaba

con la vocale seguente, assumendo dunque il valore della semicon-


sonante /w/: noi italiani, quando scriviamo e leggiamo il latino, ri-

spettiamo pronuncia originaria della /w/ latina solo dopo < q > e
la

<g> , dove è resa graficamente con < u > e forma il nesso labiove-
lare sordo o sonoro /kw/ e /gw/ (quando, quod, aqua, lingua,
anguis); altrimenti, a parte qualche altro caso (belua), scriviamo
< v> e pronunciamo [v] (venire, amavit, via, silva). In effetti

la /w/ latina in italiano ha dato di norma /v/, in posizione iniziale di

parola o intervocalica. Dopo consonante, invece, ha avuto sviluppi


particolari di cui tratteremo tra i nessi consonantici. In alcuni casi,

però, anche la ù prevocalica si sviluppò come semiconsonante


(placui, tacui); in altri casi, in seguito alla sincope della vocale
seguente, la /w/ andò a formare con la /a/ precedente il dittongo
au, che sviluppò hi in sede tonica (amav(i)t > *amaut > amò) e
/u/ in posizione atona (*av(i)cellum > uccello).

Anche la ì prevocalica tendeva già nel latino classico ad assumere il

valore semiconsonantico di /j/, reso graficamente, specie all'inizio


di parola, con < j > solo in epoca tardoantica e medievale (Iulius
o Julius, iam, peius, melior). Nel latino volgare la 1)1 si produs-
se non solo da ì ma anche da É atona prevocalica
sistematicamente
(mulier, filium, vineam, aream < aere, con metatesi e cam-
bio di genere). Come vedremo meglio trattando del consonanti-
smo, in italiano la 1)1 iniziale e intervocalica del latino volgare ha
prodotto l'affricata palatale sonora Id^l (iam > già; peius > peg-
gio), mentre quella postconsonantica ha avuto sviluppi più com-
plessi.

50
Dello sviluppo italiano delle semiconsonanti nei dittonghi ascen-
denti abbiamo già trattato nel vocalismo. Aggiungiamo che i dit-

tonghi discendenti formatisi con 1)1 tendevano spesso a ridursi al


solo elemento vocalico, con caduta della 1)1: presbyter > prètte
—> prète; le preposizioni articolate ai, dei, coi — » a, de\ co'; forse an-
che magis > mai —» ma.

2.3. Il consonantismo

2.3.1. Il sistema consonantico nel latino classico e in italiano II sistema


consonantico del latino classico era costituito dai fonemi riportati
nella tabella 2. .

Lo schema proposto non esaurisce, in verità, il consonantismo lati-

no, che comprendeva anche l'affricata alveolare sonora (/dz/, resa


nell'alfabeto da < z > ), presente però solo in grecismi, in corrispon-
denza della consonante greca £, ed era sostanzialmente estranea al

sistema originario. Altre tre consonanti greche, X (chi), qp (fi) e 6


(theta), venivano in latino traslitterate con i digrammi <ch>,
< ph > e < th > e i loro foni, non esistenti nel sistema autoctono,

andarono a confluire rispettivamente con /le/, IH e Iti . Altre tre let-

tere dell'alfabeto latino erano riferite a consonanti: la < x > rendeva


il nesso Iksl, mentre la < k > (usata solo davanti ad /a/: kalendas)
aveva lo stesso suono velare di < c>, al pari della < q > (usata solo

TABELLA 2
Le consonanti latine

Bilabiali Labiodentali Dentali Alveolari Velari Laringali

sorda sonora sorda sonora sorda sonora sorda sonora sorda sonora sorda sonora

Occlusive p b t d kg
Nasali m n

Laterali l

Vibranti r

Fricative f s h

51
davanti a /w/, con la quale formava il nesso labiovelare sordo:
quando, quinque). Varrà la pena di ricordare che nel latino clas-

sico < c> e < g > avevano sempre suono velare, anche davanti a
vocali palatali e all'interno dei gruppi consonantici < so, < gì > e
< gn >, pronunciati rispettivamente /sk/, /gì/ e /gn/.

Rispetto al consonantismo del latino classico, quello italiano (ri-

portato in tab. l) presenta vari elementi di novità. Si registra una


sola perdita, quella di /h/, scomparsa in genere anche dalle voci di

origine germanica e poi dai latinismi. Viceversa, si nota lo sviluppo


di vari foni che il latino classico non conosceva: la fricativa labio-

dentale sonora Ivi (che muove da due diverse basi latine), la sibilan-

te sonora Izl, tutte le consonanti palatali /ji/, /t J7, Id^l (per le quali
si è dovuto risolvere il problema della rappresentazione grafica) e le

affricate alveolari Itsl e /dz/. Molte parole che presentano Itsl o


/dz/, specie in posizione iniziale, non sono derivate dal latino, ma
dalle lingue germaniche {zappa, tazza, con Itsl), dall'arabo (zero,
azzurro, con /dz/), dal greco (zona, azoto, con /dz/).

In italiano antico la /ji/ era rappresentata anche con < gni >, < ngn >, < ngi > mentre
f

la /A/ era resa anche con < gì >, < Igl >, < Igli >; troviamo anche < ni > e < li >, per in-

flusso latino; invece per /ts/ e /dz/ intervocaliche, sempre intense e quindi rese di nor-

ma con < zz >, anticamente troviamo anche le grafie < z >, < qc. >, < cz >.

Tutte le altre consonanti latine si sono conservate in italiano. La


presenza di uno stesso fonema nei due sistemi non implica però la
sua sistematica conservazione: non tutte le /p/ latine si sono man-

tenute in italiano, né tutte le Idi italiane derivano dalle Idi latine.


Notevoli differenze, inoltre, si registrano sul piano fonematico, re-
lativo cioè alla sequenza dei fonemi: diversamente dai dialetti set-

tentrionali, l'italiano, tranne che in casi particolari (e in latinismi e

forestierismi di più o meno recente diffusione), non ammette né


consonanti in fine di parola, contrariamente al latino (che assegna-
va inoltre a -m, -s e -T importanti funzioni morfologiche), né mol-
te sequenze consonantiche esistenti in latino od originatesi, in se-

guito a sincopi vocaliche, nel latino volgare, tanto che, come vedre-
mo, vari nessi consonantici latini hanno avuto in italiano esiti par-

ticolari.

52
2.3.2. Il consonantismo dal latino all'italiano Come per il vocalismo,
descriveremo i vari fenomeni del consonantismo partendo dalle

basi latine. Mentre nel vocalismo la divaricazione fra parole popola-


ri e parole dotte è molto netta, nel consonantismo molti sviluppi

romanzi sono stati estesi anche ai latinismi.

Le consonanti conservate Varie consonanti, sia in posizione iniziale


di parola, sia all'interno tra vocali, si mantengono per lo più inalte-
rate: è il caso della Idi (déum > Dio; nIdum > nido), della /m/
(matrem > madre; lumen > lume), della Ini (nómen > nome;
cànem > cane), della III (lactem > latte; caelum > cielo), della
(ròtam > rkota; murum > muro) e della IH (fìlium
Ivi > figlio;

bùfalum > bufalo; epiphània > befana).


Naturalmente, si possono avere anche per queste consonanti dei
mutamenti, dovuti a fenomeni accidentali, specie per dissimilazio-
ne (colùc(u)lam > conocchia; venenum > veleno; quaerere >
chiedere; ul(u)lare > urlare). La Irai intervocalica, inoltre, si pre-
senta a volte come intensa (fémina > femmina; fumum > ant.
fummo), come in molti dialetti, specie centromeridionali (nap. am-
more, pummarola 'pomodoro' ecc.).

Lo sviluppo delle affricate palatali II primo cambiamento sistemati-

co significativo è lo sviluppo (probabilmente determinatosi nel se-

colo v) delle affricate palatali: prima delle vocali palatali (/e/, /e/,

lìl) le occlusive velari /k7 e /g/ si sono sistematicamente palatalizza-


te, dando come esito, in posizione iniziale di parola, le affricate li fi

e ld$l (céram gentem > cera; civitatem > città); al-


> gente;
l'interno di parola, la /k/ ha subito di norma lo stesso sviluppo
(crùcem > croce; machina > macina; una sonorizzazione è av-
venuta in dùcenti > dugento), mentre la /g/, oltre a palatalizzarsi,

ha assunto un suono intenso (légem > legge) oppure è caduta

(sagìttam > saetta; pagénsem > paese). Lo stesso esito della so-

nora si è avuto anche a partire da 1)1, in posizione iniziale o intervo-


calica, qualunque fosse la vocale seguente (Iesus > Gesù; iam >
già; iòcum > giuoco; pèius > peggio; maio rem > maggiore); HI
iniziale ha sviluppato là^il in ire > ant. gire 'andare'. Se la Ikl era

53
preceduta da Isl, la palatalizzazione ha dato invece come esito /J7

intensa.

Naturalmente, gli esiti precedenti si riferiscono all'italiano nelle sue basi fiorentine;

andrà peraltro notato che oggi in Toscana la /tJ7 e la lé^l intervocalica tendono a ridur-

si a [j] scempia (esito condiviso in gran parte del Centro-Sud) e a [3] (fono estraneo al-

l'italiano). Le altre aree dialettali offrono sviluppi differenziati delle velari latine: per

esempio, i dialetti settentrionali presentano, in posizione iniziale, invece delle affricate

palatali, le alveolari /ts/ e /dz/ (che si sono spesso ridotte, nei dialetti moderni, alle si-

bilanti [s] e [z]), mentre i dialetti meridionali si caratterizzano per il mantenimento di

l\l il suo sviluppo da /g/ prima di /e/, /e/, /i/ (in Toscana ciò è avvenuto solo nell'anti-

ca forma ariento < argentum). Il sardo, infine, nelle stesse condizioni ha conservato le

velari latine.

Dal punto di vista grafico, nei testi antichi troviamo anche < k > col valore di velare e

<ch> pure davanti ad <a>, <o>, < u >. Nei testi siciliani, invece, < eh > rappre-

senta la palatale /t//.

La spirantizzazione di b Mentre in posizione iniziale o postconso-


nantica la Ibi latina è rimasta ben salda (bónum > buono; hér-
bam > erba) e seguita da III è diventata intensa (ebrum > ebbro;
libra > libbra, ma anche lira, con dileguo di Ibi), tra due vocali
ha dato come esito una Ivi (habére > avere), che talvolta è arriva-

ta al dileguo (para(b)ulam > parola; desinenze degli imperfetti in


-ea, -ia, a lungo vivi nella lingua letteraria: vedea < vìdébam; sen-
tia < *sentibat). La Ivi costituisce peraltro, come già si è detto,
anche uno sviluppo della /w/ latina (vi de re Avi 'de: re/ > vedere) e

anche questa Ivi è talvolta dileguata (amà(v)i > amai). L'esito ori-
ginario di Ibi intervocalica proprio del latino volgare sembra sia sta-
to quello della costrittiva bilabiale [(3], conservatasi, per esempio, in
spagnolo; in italiano tale fono non ha invece attecchito e si è sposta-

to il luogo di articolazione (da bilabiale a labiodentale).


Le parole italiane che presentano Ibi in posizione intervocalica o tra

vocale e Ivi sono germanismi, entrati quando il fenomeno fonetico


si era ormai concluso {roba, rubare, anticamente attestate anche con
la doppia), oppure voci dotte (n obi lem > nobile; li b rum > li-

bro).

54
Tra gli esiti diversi dal toscano, mentre i dialetti settentrionali presentano la spirantiz-

zazione anche dopo /r/ (fèbrem > ven. fevre), nell'area centromeridionale si ha il feno-

meno detto "betacismo", cioè la confluenza della /b/ e della NI (derivata da /w/) in un

unico esito: Ibi (resa con < b > o < bb > ) in posizione forte, cioè se intensa (piobbe

'piovve' < *plovuit) o dopo parola che provoca il "raddoppiamento fonosintattico" (a

bboce 'a voce' < ad vocem), e /v/ in posizione debole, iniziale, intervocalica o tra vocale

e vibrante (basium > nap. vassr, barbam > varva). I dialetti moderni centromeridionali,

però, soprattutto per influsso della lingua letteraria, hanno sviluppato /b/, pronunciata

sempre intensa, in posizione intervocalica (subbito, debbole). Qualche caso di /b/ da

/w/ in posizione iniziale si ha anche nei testi toscani antichi (boce < vòcem; boto < vó-

tum), mentre l'italiano standard presenta alcune alternanze tra /rb/ e /rv/ dal latino

/rw/ (nerbo e nervo < nervum; serbare e conservare < (cum)servare).

La sonorizzazione delle sorde intervocaliche Le occlusive sorde latine

/p/, Iti e /k/ comprese tra vocali o tra vocale e Iti sì sono spesso tra-

sformate nelle corrispondenti sonore: rispettivamente Ibi (divenu-


ta, per il fenomeno precedente, Ivi), Idi e /g/; anche la sibilante,

che in latino era sempre sorda (/s/), si è sviluppata come sonora


(/z/) non solo prima di consonante sonora, ma spesso anche in po-
Abbiamo così esiti come seguenti: ripam >
sizione intervocalica. i

riva; sùpra > ant. sovra; (e)pìscopum > vescovo; stràtam >
strada; suff. -itàtem > -itade; patrem > padre; làcum > lago;
macrum > magro; paradisum > paradiso [para'dizo].
In posizione iniziale di parola, invece, le stesse consonanti vengono
di norma conservate come sorde (panem > pane; terra > terra;
causa > cosa); solo la /le/ è talvolta passata a /g/ (cattum > gatto;
cryptam > grotta). Anche in posizione intervocalica, del resto, le
sorde si sono conservate in molte parole: caput > capo; capra >
capra; rótam > ruota; pétra > pietra; fòcum > fuoco; acre >
acre; casam > casa.

Questo duplice esito non può spiegarsi con l'influsso del latino, vi-
sto che molte parole che hanno conservato la sorda sono voci popo-
lari. C'è invece da rilevare che la sonorizzazione delle sorde intervo-
caliche è propria dell'area romanza occidentale, che comprende i

dialetti settentrionali, dove talvolta si arriva perfino al dileguo (lù-


pum > lovo; marItum > marido, mario; matrem > mare; fò-
cum > fceg), mentre la conservazione delle sorde è tipica della Ro-

55
mania orientale, in cui rientrano i dialetti italiani centromeridionali
(dove abbiamo esiti come acum > aco\ matrem > matré). I dia-
letti della Toscana appartengono a questo gruppo e in effetti, sulla
base della generale conservazione delle sorde nella toponomastica
toscana, uno dei settori del lessico notoriamente più conservativi
(specie per nomi di piccole
i località), si è plausibilmente ipotizzato

che la presenza nei dialetti toscani di un certo numero di parole con


la sonora si debba a un influsso settentrionale verificatosi in epoca
altomedievale, non limitato però a singole entrate lessicali, ma do-
vuto a una sorta di "moda" che, partendo dalla Toscana occidenta-
le (dove si hanno sonorizzazioni perfino per sorde originariamente
non intervocaliche e per voci germaniche che al Nord non sonoriz-

zano: pogo < paucum; regare 'recare' < gotico rikdn), si sarebbe
diffusa un po' in tutta la regione, Firenze compresa, passando così
all'italiano. Si può peraltro notare che alcune forme con la sorda
hanno finito poi col prevalere sulle corrispondenti con la sonora
(così lacrima su lagrima, sopra su sovra, che però resiste in taluni

composti, coperto su coverto).

Le occlusive sorde intervocaliche in Toscana vengono oggi spirantizzate in [%], [cp] e

[9], fino ad arrivare, nel caso della velare, all'aspirata [h] e addirittura al dileguo. Si

tratta della cosiddetta "gorgia", fenomeno che è stato al centro di un lungo dibattito, re-

lativamente al problema della sua datazione e delle sue possibili origini etrusche. In

area centromeridionale le sorde intervocaliche subiscono invece spesso la lenizione,

vale a dire una sonorizzazione parziale. Certamente i fenomeni sono tra loro connessi e

rientrano in una generale tendenza romanza all'indebolimento delle sorde intervocali-

che. Tanto la gorgia toscana quanto la lenizione centromeridionale, però, superano i

confini morfologici di parola (si hanno cioè anche in parole composte o in fonetica sin-

tattica), cosa che non avviene nel caso della sonorizzazione.

Mentre per le occlusive gli esiti con la sonora costituiscono al mas-


simo (nel caso della velare) la metà delle voci da prendere in consi-
derazione, nel caso della sibilante le parole con la sonora sono la

maggioranza, tanto che la sorda (nella pronuncia toscana e stan-


dard, dove, come si è visto, /sì e Izl sono in opposizione fonologica)
è ormai limitata a casa, naso, al suffisso -oso, ad alcune parole com-

56
poste (così < (ec)cù(m) sic) e, ovviamente, alle voci dove la /s/ la-

tina non era intervocalica: cosa < causam; mese < mensem; suffis-

so -ese < -ensem (in tutti gli etnici tranne che in francese [fran'tje-
ze]). La sonorizzazione si ha perfino in vari toponimi toscani, tanto
che in questo caso il duplice esito è stato considerato autoctono e
non di importazione.

Mentre i dialetti settentrionali sonorizzano costantemente (ma la loro [z] è spesso "sa-

lata", vale a dire più o meno palatalizzata, come del resto la [s]), quelli centromeridio-

nali conservano sempre la sorda intervocalica. Oggi però anche nell'italiano parlato da

centromeridionali si registrano spesso sonorizzazioni, addirittura più estese che non in

Toscana (così è pronunciato spesso [ko'zi], inglese suona [irj'gleze]) e anche al di là

dei confini morfologici, dove invece al Nord le /s/ sorde vengono in genere mantenute.

Le consonanti intense e i nessi consonantici Contrariamente a quan-


to è avvenuto sul piano fonetico (se non nella grafia) in molte altre

lingue romanze (e in genere anche nei dialetti settentrionali), l'ita-

liano conserva le consonanti intense latine (annum > anno; ter-


ram > terra; caballum > cavallo; passum > passo; bùccam >
bocca; mìtto > metto; flammam > fiamma) e assegna valore fo-
nologico alla durata consonantica: la lunghezza della consonante,
resa graficamente con la doppia, determina una variazione di signi-
ficato (per esempio palaipalla), come avveniva in latino.

Nel doppie aumentarono in seguito a sincopi voca-


latino volgare le
liche (mat(u)tinum > mattino) o in seguito ad allungamenti
compensativi (quando la vocale originariamente lunga diventava
breve: tòtum > tóttum, cupam > cùppam, da cui, con ulte-

riori particolarità nel vocalismo, tutto e coppa).


Rispetto al latino classico, invece, l'italiano, coerentemente con la

propria struttura sillabica, ammette in misura assai più ridotta i

nessi consonantici, ovvero la sequenza di due (o più) consonanti o


di una (o più) consonanti e una semiconsonante; tali nessi nel lati-
no volgare erano diventati ancora più numerosi che non nel latino
classico a causa delle frequenti sincopi vocaliche (si parla allora di
nessi "secondari" per distinguerli da quelli già esistenti nel latino

classico, detti "primari"). La tendenza generale è quella alla sempli-

ficazione, attraverso varie modalità, anche tra loro combinate: la

57
>

sincope di una delle consonanti (più spesso la prima, come in /kn/


> Ini: germ. *knohha > nocca; in alcuni casi la seconda); lo svilup-

po di nuovi foni consonantici (coxam > coscia); l'assimilazione


"regressiva" (peraltro attestata anche nel latino classico), per la qua-
le il timbro della seconda consonante si estende alla prima (noc-
tem > notte). Si determinano così ulteriori casi di consonanti in-
tense. Tra i nessi che si assimilano, sia nelle voci popolari, sia nelle
voci dotte entrate precocemente in italiano, ricordiamo: /gm/ e
limi (fragmentum > frammento; Marìt(i)mam > Maremma);
Invi (pón(e)re > porre; germ. Heinrich > Arrigo; e riman(e)rò —
rimarrò); /ni/ (cun(u)lam > culla; *plan(u)lam > pialla); Imnl
(sòmnum dòm(i)nam > donna); /gd/, per lo più secon-
> sonno;
dario e già ridottosi a /jd/ nel latino volgare (Magdalenam >
Maddalena; frig(i)dum > freddo). Nessi del genere (a cui si pos-
sono aggiungere /bd/, /bs/, /pn/, /kdz/ ecc.) sono conservati solo in
latinismi e grecismi, specie in quelli entrati in italiano negli ultimi
secoli o per mediazione di altre lingue {enigma, atmosfera, amnesia,
abdicare, abside, apnea, eczema ecc.).

Le consonanti intense italiane possono anche derivare da allungamenti compensativi

in seguito a sincopi (come forse fummo < fù(i)mus, spiegato però anche diversamente;

uccello < av(i)cellum). Sono spesso intense, inoltre, le consonanti che seguono la voca-

le accentata nelle parole proparossitone, si tratti di voci popolari o di latinismi: femmi-

na, Affrica (letterario), macchina, attimo, legittimo, collera. Altre consonanti intense si

hanno, specie dopo l'accento secondario, in polisillabi (obbedire, seppellire, cammina-

re, scellerato), a volte anche per accostamento ad altre voci, come in accademia (forse

su accadere), pellicano (forse su pelle), bottega ( < (a)pothéca, forse su botte), l'antico

rettorica (per influsso di rettore). Molte voci di provenienza straniera sono state intro-

dotte in italiano con la consonante allungata (tuffo, caffè, cammello, cioccolato, tappe-

to). Si intensificano anche le consonanti originariamente finali di parole tronche, prima

di una vocale finale d'appoggio (Satanasso < satanas).

I nessi conservati Tra i nessi che, di norma, si sono conservati, van-


no ricordati Indi, /mb/ e lìdi (quando > quando; cambarum >
gambero; sól(i)dum > soldo; si è però avuto ne < (i)ndé) e quelli
costituiti da nasale + sorda (tantum > tanto; spelùncam > spe-

lonca; témpus > tempo). Si conservano, di norma, Ivi e l\l precon-

58
d

sonantiche (arsi > arsi-, pùlsum > polso), sebbene la Iti prima di

Isl talvolta dilegui (sù(r)sum > ant. suso, da cui su) o si assimili

(dórsum > dosso)-, dopo /g/, la Ivi è sempre conservata, mentre la

/g/ può dileguare (nìgrum > nero).

Significativi sono alcuni sviluppi divergenti propri dei dialetti centromeridionali: la so-

norizzazione di tutte le sorde dopo una nasale (tempus > tiemb 3 ecc.); le assimilazioni

"progressive" (in cui cioè la seconda consonante si uniforma alla prima) di /nd/ e /mb/

(e /nv/) in /n:/ e /m:/ (persuasivamente attribuite al sostrato osco-umbro), e di /ld/ a /l:/

( quanno 'quando', piommo o chiumm 'piombo', cummentu 'convento', callo 'caldo'); la

tendenza a pronunciare la /s/ come [ts] (da cui poi anche [dz]) dopo /l/, /r/ e (in voci

d'origine dotta o semidotta) /n/ [polio, forze, perno); i vari esiti di /l/ preconsonantica,

che può palatalizzarsi in /j/, velarizzarsi in /w/ o rotacizzarsi (alt(e)rum > altro, autro,

artro). I primi due sviluppi di /l/ sono diffusi anche nei dialetti settentrionali e una ten-

denza alla velarizzazione si ebbe anche nel fiorentino quattrocentesco, come dimostra-

no, tra l'altro, grafie ipercorrette come altore 'autore'.

Il nesso ns Come si è già visto in alcuni esempi precedenti, la nasa-


le prima della sibilante cade sistematicamente: mensem > mese;
sponsam > sposa; suff. -ensem > -ese ecc. Si tratta di uno svilup-
po non esclusivamente italiano, ma proprio di tutte le lingue ro-
manze ed effettivamente avvenuto assai precocemente nel latino
come dimostrano, tra l'altro, le numerose attestazioni epi-
volgare,
grafiche anche di età repubblicana, tra le quali spicca l'abbreviazio-
ne cos per consul. Le parole italiane che presentano il nesso /ns/
infatti sono cultismi (pensare rispetto a pesare < pensare; ansa,

mensile; ma quando segue un'altra consonante la Ini è stata spesso


omessa anche in questi casi: istituto, iscrizione) o prestiti (come l'an-

glolatinismo sponsor).

I nessi gn e ng II nesso /gn/ ha avuto come esito, in epoca posterio-


re all'analogo sviluppo di /nj/, la nasale palatale /jl/, sconosciuta al

latino (lignum > legno) e sempre di suono intenso. Anche il nesso


/ng/ seguito da vocale palatale ha avuto originariamente lo stesso
esito, anche se poi nell'italiano letterario hanno prevalso le forme
con /nd3/, diffuse a Firenze più tardi, per probabile influsso pisano
(plangére > piangere, ma in it. antico anche piagnere, come tut-

59
.

torà in varie aree dialettali; angélum > angelo, ma in it. antico an-
che agnolo)
In altre aree dialettali il nesso /gn/ ha dato come esito /jn/ (puind
'pugno') o la semplice Ini {lena 'legna') o anche /wn/ (aunu
'agnello').

I nessi ps, se e cs II nesso /ps/ ha avuto come esito /s:/ (ipsum >
esso; scripsi > scrissi). Le parole italiane con /ps/, come psicologo,
sono voci dotte d'origine greca.
IInesso /sk/ seguito da vocale palatale ha dato /J7 (sempre intensa):
pìscem > pesce, ma si è conservato anche in questo caso nelle voci
di origine germanica (scherzare < *skerzdn). Eccezionalmente an-
che la semplice Isl seguita da vocale palatale (specie HI) si è palata-

lizzata in /// (si mi am > scimmia).


Il nesso Iksl, rappresentato in latino da < x > , ha avuto in italiano

un duplice esito:

• ls:l (si tratterebbe in questo caso di una normale assimilazione


regressiva), come in saxum > sasso, vixi > vissi (in fine di parola
ha dato -s in sex > *ses, da cui poi sei);

• /J7, come in laxare > lasciare; exemplum > scempio ('strage


che serva da esempio').
Nei prefissati con ex-, insieme all'aferesi della vocale iniziale, si è

avuta Isl prima di consonante sorda (expedire > spedire), Izl pri-

ma di consonante sonora (exbatt(u)ere > sbattere ['zbattere]) e

/J7 davanti a vocale (exire > escire —> uscire; examen > scia-
me).

Il primo esito è comune all'intera area centromeridionale (dove abbiamo infatti tassa-

re), il secondo è frequente anche al Nord, tanto che la sua presenza nel toscano è stata

interpretata come un possibile influsso ligure. Varrà inoltre la pena di segnalare che la

< x > che troviamo nei testi medievali ha valori diversi a seconda dell'area: vale /s/ o

/s:/ nei testi toscani, /s:/ nei testi siciliani, l$l nei testi liguri ecc.

I nessi a e pt In italiano si è avuta anche in questi casi una normale


assimilazione regressiva, con lo sviluppo di Iv.l: factum > fatto;
lactem > latte; rùptum > rotto ecc.; anche il nesso secondario
/pd/ ha dato Iv.l in ratto < rap(i)dum. Il nesso /nkt/, poi, si è ri-

go
.

dotto al semplice /nt/ (sanctum > santo). Questi nessi sono con-
servati solo in voci dotte {ectoplasma, eptavo calicò)

Le grafie < et > e < pt > , frequenti nei testi antichi, non hanno valore fonetico, ma pu-

ramente etimologico. L'assimilazione di /et/ è comune ai dialetti meridionali; in quelli

galloitalici dell'Italia settentrionale, invece, si è avuto o lo sviluppo /it/ (lactem > bit),

spiegato con il sostrato celtico e comune al francese, o anche la palatalizzazione in /t J7,

resa spesso graficamente < e.


> (lactem > lac ), come nello spagnolo, mentre in area

veneta si è avuta la /t/ scempia (noctem > note).

I nessi con w. La labiovelare primaria e secondaria Dopo consonante,


la semiconsonante latina /w/ non è passata a Ivi (come in posizione
iniziale o intervocalica), ma ha avuto altri sviluppi, tranne che dopo
III e Ivi: beluam > belva; paruit > parve.
Nel latino classico la /w/ poteva essere preceduta da l\d sia all'ini-

zio, sia all'interno di (quando, equus) e da /g/ solo all'in-


parola
terno dopo la nasale (sanguem, linguam); con queste consonanti
costituiva il cosiddetto nesso labiovelare. Nel caso di /kw/, il fono si

è mantenuto solo se la vocale seguente era /a/ (quasi > quasi);


inoltre, all'interno di parola la velare precedente si è rafforzata (la
grafia moderna norma <cqu>: aquam > acqua); altrimen-
è di
ti il nesso si è ridotto alla semplice /k/ (antiquum > antico;
quomò(do) et > come; quis > chi; quaerére > chiedere).
Questa /kV non ha però partecipato, se seguita da /e/, /e/ o /i/, alla
palatalizzazione, perché la riduzione del nesso labiovelare è avvenu-
ta quando ormai il secondo fenomeno non era più attivo.

Tra le poche eccezioni, a parte latinismi come equestre, equità ecc., /kw/ si conserva in

quercia < quercus e in cinque < quinque (dove la AJ7 iniziale si spiega da una forma

iniziante in /k/ per dissimilazione).

Nelle altre aree dialettali italiane si ha spesso la perdita dell'elemento labiale anche

nel nesso secondario (si pensi a forme meridionali come chesta 'questa', cM// 'quelli';

al milanese chi 'qui'); molto più rara la sua palatalizzazione (ceste 'queste' in area

friulana).

Se invece il nesso /kw/ è secondario, si è sviluppato cioè nel latino


volgare muovendo dalla vocale latina lui, in italiano si è mantenuto

61
((ec)cù(m) istum > questo; (ec)cùm hIc > qui) e, all'interno di
parola, ha determinato l'allungamento della velare precedente
(placui > piacqui).
Nel caso di /gw/, il nesso si è mantenuto {lingua, sangue) o esteso,

come sonorizzazione di /kw/ (aequalem > eguale). Lo troviamo


inoltre all'inizio di parola in voci di origine germanica, dove rap-
presenta appunto l'esito toscano del w germanico (werra > guerra;
*wardón > guardare), ma anche in qualche voce latina a queste as-

come esito di /w/ alternativo a ivi (vastare > guastare;


similata,

vagìnam > guaina), oltre che in forestierismi di ingresso più re-


cente {guano).
In combinazione con le altre consonanti, la /w/ sviluppatasi nel la-

tino volgare dalla luì prevocalica in genere dilegua, o senza lasciare


tracce, dopo un nesso, una consonante intensa o una Isl (mor-
tuam > morta; battùere > bàttuere > battere; posui >
posi), o determinando l'allungamento della consonante precedente,
come è avvenuto spesso nelle forme del passato remoto (*stetui >
stetti; *ebui > ebbi; volui > volli; anche *plovuit > piovve).

I nessi con j Particolare importanza rivestono i nessi con la 1)1 pro-


dottasi nel latino volgare. Tranne che per le consonanti Ivi e Isl, la

1)1 determina l'allungamento della consonante precedente. Così av-


viene per le bilabiali /p/ e Ibi e per la nasale Imi, che seguite da 1)1 si

rafforzano (sapiat > sappia; habeat > abbia; simia > scim-
mia); la labiovelare Ivi { < Iwl latina) seguita da 1)1 dà /b:/ (ca-
veam > gabbia). Se la 1)1 si è già svolta in Id^l, la Ibi precedente si

assimila (subiectum > soggetto; subiugare > soggiogare).

Se prima di 1)1 si hanno le velari IVI e /g/, queste vengono intaccate


e si trasformano nelle affricate palatali intense /ttJV e /dd3/, deter-
minando la caduta della 1)1 , a esse omorganica (la < i > è puramen-
te grafica): facio > faccio; brachium > braccio (cfr. anche, in
posizione iniziale e dunque senza allungamento, (ec)cé hòc >
ciò); régiam > reggia. Solo eccezionalmente in italiano, per la sor-
da, abbiamo qualche sviluppo in /ts/, come in calza < calceam e
nel suffisso -uzzo, alternativo a -uccio { < -uceum). Questo esito è
diffuso in molte altre aree dialettali.

62
Dopo la l\l e la Ini (o i nessi /mn/ e /ng/), la 1)1 latina provoca la

palatalizzazione delle consonanti precedenti, che diventano rispetti-


vamente Ikl e Ijìl, foni che in italiano sono sempre intensi: fìlium
figlio-, valeat > vaglia-, vIneam > vigna; s omnium > sogno;
>
spòngiam > spugna. Segnaliamo qui che la Ikl si sviluppa anche
dal nesso secondario /lg/ prima di vocale palatale (cóll(i)gére >
cogliere).

La 1)1 poteva svilupparsi anche da una -i prima di una parola


iniziante per vocale; pertanto alcune sequenze in -(l)li sono dive-
nute -gli e tale forma, anche ridotta a -/', si è generalizzata (si

pensi al pronome elli —» eglilei e all'articolo li —> gli/i) o è rima-


sta in distribuzione complementare con quella originaria {belli/

begli/bei; quellil queglil quei) . Anticamente si potevano avere anche


la palatalizzazione di III davanti a HI e il successivo dileguo di
Ikl, come dimostrano la forma vuoi ( < *vòlis) e gli arcaici plu-
rali animai, capei ecc.

In area centromeridionale sono notevoli gli esiti /pj/ > /ttJV (sapio > saccio) e /bj7 (e

/vj/) > /')/ o /dd3/ (habeo > ajo e aggio, aggo).

Nel caso di /[]/, era possibile, nel fiorentino popolare, l'esito /ggj/, che poteva evolvere

nell'occlusiva palatale sonora intensa [j.:] (fìlium > figghio 'figlio'), molto diffuso nel

Quattrocento, poi regredito nella lingua letteraria perché sentito come popolare, ma
tuttora attestato in alcune aree dialettali toscane.

Forme con -/'in corrispondenza delle voci italiane in -///sono proprie dei dialetti set-

tentrionali, nei quali /lj/ dà generalmente /j/, ma talora anche /Ó3/ (ven. maravegia <
mirabilia).

I nessi di dentale +Molto vari sono gli esiti delle dentali con 1)1.
j

II nesso lt)l evolve normalmente in /ts/ (in posizione intervocalica

sempre intensa): palatium > palazzo; prétium > prezzo; pla-


team > piazza; vitium > vezzo; *fortiam > forza; (ab)séntia
> senza; anche nelle parole semidotte o dotte, lx]l ha dato comun-
que /ts/ {frequenza, opzione ecc.); /ts/ si ha anche, all'inizio di paro-
la, da Iti e HI tonica in zio < *tium.
Accanto a quest'esito, abbiamo anche quello in [3] (reso nella grafia
con < gi > e quindi assimilato a ld$l nella pronuncia standard),
rationem > ragione, stationem > stagione, servitium > ser-

ti
vigio, e in allotropi come palagio e pregio rispetto a palazzo e a prez-
zo (considerati di origine galloromanza) ecc.
Il nesso /tj/, se preceduto da consonante diversa da /s/, ha conosciu-
to, in parole di formazione tarda, anche un altro esito, in li J7 (la

consonante precedente si conserva se nasale o liquida, altrimenti si

assimila): *cùmìn(i)tiare > cominciare (ma anticamente abbia-


mo anche comenzare); *exquartiare > squarciare; *captiare >
cacciare. L'esito di /stj/ è invece la sibilante palatale /J7 intensa: an-
gùstiam > angoscia; pòstea > poscia; òstium > uscio.

Le numerose parole italiane con /tsj/ (graficamente < zi > ), come grazia, ozio, stazione

e servizio (allotropi di stagione e servigio), le molte voci in -zione ( < -tionem, -ctionem,

-ptionem), sono voci dotte, la cui grafia rende la pronuncia ecclesiastica della /t/ prima

di l\l come /ts/ f o neoformazioni italiane; alcune alternative in AJ7, come ufficio, bene-

ficio invece di uffizio, benefizio, si spiegano partendo da forme del latino volgare in

-icium invece che in -itium (analogo è il caso di alternative come pronunzia/pronuncia;


annunziare/annunciare ecc.).

Anche nel caso di /dj/ abbiamo un duplice esito. Anzitutto quello,


originario (l'unico possibile dopo consonante), in /dz/ (sempre in-
tensa in posizione intervocalica): medium > mezzo; módium >
mòzzo; prandium > pranzo; radium > razzo. Accanto a questo
sviluppo, si ha però, in posizione intervocalica, anche quello in
Idd^ì, spiegabile con la riduzione, nel latino volgare, di /dj/ a /j/,

che si rileva in pódium > poggio; hòdie > oggi; vìdeo > veggio
Vedo'; negli allotropi moggio e raggio invece di mozzo e razzo. All'i-

nizio di parola l'esito Id^l sembra l'unico possibile: diurnum >


giorno (ma questa voce potrebbe anche essere un gallicismo, visto
che l'italiano ha conservato dies > dì); deorsum > ant. gioso, da
cui giù, per analogia con su. Il nesso /dj/ è conservato in una voce
semidotta di ambito ecclesiastico come diavolo < diabòlum. Il

nesso /ndj/ ha dato invece /jl/: ver(e)cùndia > vergogna.

I nessi sj e ssj Un duplice esito caratterizza anche il nesso /sj/, che


in Toscana evolve nella sibilante palatale, sia sorda [J], sia sonora

[3]. La sorda si differenzia dal fonema /J7 italiano in quanto scem-


pia. L'esito sonoro si può spiegare partendo da una precedente so-

64
norizzazione di/si in /z/, come in posizione intervocalica. I due fo-

ni non sono però entrati nell'italiano: resi nella grafia rispettiva-


mente con < ci > ( < sci > usato nei primi secoli, venne poi abban-
,

donato perché rappresenta la stessa consonante di suono intenso) e


con < gi > (anticamente anche < sci > e < sgi > ), sono stati inter-

pretati come le affricate palatali sorde e sonore [tj] e [d3]: basium


> bacio; caseum > cacio; (oc)casionem > cagione; pe(n)sio-
nem > pigione. Questa è la spiegazione più accreditata: c'è però
anche chi pensa a una reazione ipercorrettistica rispetto alla già rile-

vata tendenza toscana a pronunciare come [J] e [3] tutte le affricate


palatali intervocaliche.

In altre aree dialettali il nesso /sj/ ha avuto esiti diversi, come per esempio la caduta di

l\l con riduzione alla semplice sibilante in area meridionale (ceraseam > cerasa invece

del tose, ciriegia, ciliegia). Nel caso della voce semidotta chiesa ['kjeza] < (ec)clésiam,

bisogna invece ipotizzare una riduzione, in seguito a dissimilazione dal precedente

nesso /kj/ < /ci/, del nesso /sj/ a /s/ (da cui III).

Quanto al nesso /ssj/ (dove la prima /si è in genere il risultato dell'as-

similazione di un'altra consonante), in toscano (e quindi in italiano)


ha dato per lo più /J7 (intensa), come in *reversiare > rovesciare;

Brixia > Brescia. Voci com-passione e confessione sono latinismi.

Il nesso rj II nesso /rj/ presenta in Toscana (e nelle aree ad essa


adiacenti) un esito assai caratteristico, ovvero la caduta di Ivi e dun-
que la riduzione del nesso 1)1: parium > paio;
alla semplice così
fùriam > foia; aream > aia; il suffisso -òrium > -oio; la voce
aria < *area, per metatesi dall'originario aera si può spiegare o
come forma semidotta o col fatto che il nesso /rj/ si è prodotto tar-
divamente.
In tutto il resto d'Italia si è avuta invece la riduzione a 1)1 con cadu-
ta della vibrante. Alcune voci italiane presentano Ivi da /rj/ latino o

perché provengono da altre regioni o per analogia con altre forme:


per esempio moro 'muoio' < *morio, a lungo vitale nella lingua

poetica, è voce siciliana (lo rivela anche l'assenza del dittongo). In-
teressante, a questo riguardo, è ancheil caso del suffisso -arium,

che ha dato -aio in voci d'origine toscana come notaio < nota-

65
rium; -aro in voci semidotte o modellate sui plurali, dove la termi-
nazione in -/'
ha assorbito la 1)1 salvaguardando la vibrante (una di
esse, denaro, è entrata nello standard, ma l'esito originario si vede
nel composto salvadanaio); -aro in parole di provenienza centrome-
ridionale (il poetico acciaro 'arma'; calamaro, il mollusco, opposto a
calamaio, il contenitore di inchiostro; vari romaneschismi o setten-
trionalismi recenti come borgataro, paninaro ecc.); -iere in voci di
origine francese {cavaliere < chevalier < *caballarium); -ario in

formazioni colte {segretario, bibliotecario). Il nesso si è conservato o

ridotto alla vibrante (anche in questo caso per analogia sulle forme
del plurale dove la 1)1 era stata assorbita) in parole dotte terminanti
in -erium {adulterio, monastero, impero, ma nella lingua letteraria

anche imperio).

I nessi di consonante + l La laterale ìli, preceduta da un'altra con-


sonante, si palatalizza in 1)1 , allungando la consonante precedente
in posizione intervocalica (dove il nesso è spesso secondario); lo
stesso esito si è avuto nelle voci germaniche. Abbiamo così:

• /pi/ > /pj/: placet > piace-, templum > tempio; cop(u)lam
> coppia; anche pioppo < *ploppu <— *popplu < pòp(u)lum
(per metatesi);
• /bl/ > /bj/: Blasium > Biagio; neb(u)lam > nebbia; germ.
blank > bianco;
• /fl/ > /£}/: florem > fiore; sufflare > soffiare; got. fiaskd >
fiasco;

• lìdi > /kj/: clarum > chiaro; (ec)clesiam > chiesa; oc(u)-
lum masc(u)lum > maschio (ma anche mastio, termine
> occhio;
tuttora usato in architettura); si noti che periglio non deriva diretta-
mente da peric(u)lum ma dal provenzale perilh;
• /si/ (nesso sconosciuto al latino classico) > /skl/ > /skj/: lat.

medievale slavum > schiavo; germ. sìahta > schiatta; i(n)s(u)-


lam —» *iscla > Ischia;
• /ti/ (altro nesso sconosciuto al latino classico e possibile solo al-
l'interno di parola, in seguito a sincope vocalica) > lìdi > /kj/: ve-
t(u)lum > *veclu > vecchio; un esito diverso, l'assimilazione re-

gressiva, si è avuto in spat(u)lam > spalla.

66
• /gì/ > /gj/ > : glandem > ghianda; glaciem > ghiaccia (le

forme (ad)diaccio, diacciare, entrate nella lingua letteraria, rappre-


sentano un esito alternativo proprio di alcune aree dialettali tosca-

ne); *mug(u)lare > mugghiare; ung(u)lam > unghia.


In posizione intervocalica, però, nel fiorentino quattro-cinquecen-
tesco, da /gì/ si è avuto l'esito IAI (intensa), che ha soppiantato
quello originario in voci come teglia < teg(u)la e vegliare < vi-
gilare (gli sviluppi originari erano tegghia e vegghiare, attestato
anche in Dante). Tale esito è stato spiegato come una reazione iper-

correttistica alla già riscontrata tendenza, propria del contado fio-

rentino, alla pronuncia di figlio e paglia come figghio e pagghia; la

/Al è stata non solo ripristinata in queste voci, ma estesa anche in


contesti che presentavano originariamente lo sviluppo [gj] (o piut-
tosto [ij]; anche l'esito di lìdi e /ti/ doveva essere [cj], forse in ori-

gine distinto da [kj] anche fonologicamente).

Il passaggio di /l/ postconsonantica a /j/ è considerato un tratto distintivo dell'intero

dominio italoromanzo, in quanto largamente presente nei vari dialetti italiani (che in

questo caso si sono allontanati dal latino più che non il resto della Romania). Non
mancano però né aree (Lombardia, Abruzzo) in cui i nessi formati da consonante + /l/ si

sono conservati (e la loro estensione doveva essere molto maggiore in età medievale) o

in cui l'esito in /]/ è limitato alle velari /k/ e /g/, né altre nelle quali si sono avuti ulte-

riori sviluppi. In area settentrionale, per esempio, i gruppi /kl/ e /gì/ arrivano a /tJ7 e

/dd3/ (e in Liguria questi sono gli esiti anche di /pi/ e /bl/, mentre /fi/ evolve in ///),

mentre nei dialetti meridionali da /pi/, /bl/, /fi/ si sono avuti rispettivamente /kj/, /]'/

e/J7.

Le consonanti finali In posizione finale, le consonanti latine gene-


ralmente cadono, per lo più senza lasciare traccia: è il caso soprat-
tutto di -m, la cui debolezza è documentata già in età repubblicana:
in poesia la sua presenza non impediva la fusione della vocale prece-
dente con la vocale iniziale della parola seguente in un'unica sillaba;
come si è accennato vedremo meglio nel capitolo 3), la -s spesso
(e

palatalizza la vocale precedente (flores > fiori; vides > vedi;


amas > ant. ame).
Soprattutto nei monosillabi, però, alla caduta della consonante fi-

nale corrisponde, per una sorta di compensazione, la pronuncia in-

67
tensa della consonante iniziale della parola seguente (si tratta del fe-

nomeno del "raddoppiamento fonosintattico", cfr. par. 2.6).

Sempre nei monosillabi, possiamo avere alcuni casi di conservazio-


ne: ciò vale per le nasali (in > in; non > non; cum > con; si noti
che la grafia è < n > , ma la pronuncia può essere [n], [rj], [m] o
[rrj] a seconda del fono iniziale della parola successiva) e per la -r
(per > per), che si è talvolta conservata anche in polisillabi grazie a

metatesi (semper > sempre; quattuor > quattro). La -s invece si

è talvolta vocalizzata in 1)1 (nos > noi; post > poi; sex > *ses >
sei; das > dai). Secondo alcuni studiosi, si sarebbero conservate
anche la -d di ad e la -t di et, aut, sonorizzata in Idi prima di pa-
rola iniziante per vocale (ad, ed, od); secondo altri, invece, questa
IAI eufonica sarebbe stata reinserita più tardi, per evitare lo iato.

2.4. L'accento dal latino all'italiano Dal punto di vista acu-


stico, mentre l'accento latino era legato alla diversa durata delle vo-
cali, quello italiano è di natura intensiva. L'accento in italiano cade,
di norma, sulla stessa sillaba su cui cadeva in latino, dove la posizio-

ne dell'accento, impossibile sull'ultima sillaba (a parte, ovviamente,


i monosillabi e qualche rara parola come illàc 'là'), era regolata in
base alla durata della vocale della penultima (che veniva accentata
se era lunga; se era breve l'accento cadeva sulla terzultima). I più
importanti spostamenti, risalenti già al latino volgare, si verificano
nei seguenti casi:
• in seguito allo sviluppo di una /')/(< ì o É), che determina
spesso uno spostamento dell'accento sulla vocale successiva (filìo-
LUM > FILIÒLUM > figliuòlo);
• in seguito allo sviluppo di /w/ ( < ù), poi spesso dileguata, che
ha talvolta provocato una ritrazione dell'accento sulla sillaba prece-

dente (battùere > bàtt(u)ere > bàttere);

• in seguito alla rianalisi dei verbi composti, che in latino ritrag-


gono l'accento, ricondotto in italiano sulla sillaba dove cade nei
verbi semplici (còntinet > contènet > contiene);
Altre ritrazioni sono avvenute in ficàtum > fìcatum > fégato e
in varie forme verbali (come nella desinenza del perfetto -erunt:
fecèrunt > fécerunt > fecero), spesso in concomitanza con la

sincope della sillaba accentata (amavìsti > amà(vi)sti > amasti;

68
amavìsset > amà(vi)sset > amasse); avanzamenti si sono avuti
invece in ìntegrum > intero e in altre voci.

2.5. Gli accidenti generali Vengono così definiti vari fenome-


ni fonetici che non avvengono sistematicamente e regolarmente,
ma che si verificano nel caso di sequenze foniche particolari che il

sistema di una lingua non gradisce e a cui dunque cerca di reagire.


Possiamo così avere parole italiane che, rispetto agli etimi latini,

presentano foni in più o in meno.

2.5.1. Prostesi, epentesi ed epitesi L'aggiunta di uno o più foni vie-


ne definita prostesi se avviene all'inizio di parola, epentesi se nel cor-

po della parola, epitesi se alla fine.

Il caso più significativo di prostesi in italiano consiste nell'aggiunta


di una lìl alle parole che cominciano con /s/ (o /z/) preconsonanti-
ca se precedute da con, in, per o da altra parola uscente in consonan-
te: per ischerzo, con isdegno, in Isvizzera, per iscritto. L'ultimo esem-
pio citato si usa ancora, specie nel linguaggio burocratico; per il re-

sto l'italiano scritto di ogginon presenta più la i prostetica, che nel-


la lingua parlata (specie in Toscana) non è però sparita del tutto. La

lìl che troviamo, invece, nell'uso letterario in forme come istesso o

istoria sarebbe etimologica e non prostetica, anche se, al pari di que-

sta, è uscita dall'uso.

L'epentesi (o anaptissi) sì realizza con l'inserimento di un fono, vo-


calico (in genere la lìl) o consonantico (spesso la Ivi) all'interno di
parola, per evitare uno iato o un nesso difficilmente pronunciabile
(spesso prodottisi nel latino volgare), come nei casi seguenti:
baptismum > battesimo; Io(h)annes > Giovanni; remem(o)-
rare > rimembrare.
L'epitesi, infine, è documentata anticamente dalla lei (più di rado

/ne/) d'appoggio che si aggiungeva ai monosillabi e in genere alle

parole ossitone, non facilmente inseribili, come si è detto, nel siste-

ma italiano {pitie 'più'; nò(n)e 'no'). Non sono invece epitetiche,

ma etimologiche, alcune /e/ finali di parola che troviamo nei testi

antichi {die < dies; fue < fuit) e che, interpretate come tali, ven-
nero meno insieme alle vere lei epitetiche.

69
2.5.2. Aferesi, sincope, apocope, elisione Questi fenomeni consisto-
no nella caduta di uno o più foni all'inizio di parola {aferesi), all'in-
terno {sincope), alla fine {apocope o troncamento). Come si è già det-
to, le vocali atone (a parte la /a/) sono piuttosto deboli e dunque
sono le più coinvolte in questi fenomeni (insieme alle consonanti
finali, che si apocopano regolarmente). Non si possono però indivi-
duare leggi precise che regolino la loro caduta, che nel fiorentino e
poi nell'italiano non avviene sistematicamente.
L'aferesi risale spesso già al latino volgare: è tale quella della prima
sillaba di *éccùm nei dimostrativi, come (ec)cù(m) ìstù(m) >
questo-, di ìllùm/-am in articoli e pronomi (come lo, la); di ab- in
(ab)sentia > senza ecc. Riguarda non una vocale atona, ma una
tonica (o una sillaba intera) la riduzione di questo (oppure di esto,

forma attestata anticamente) a 'sto, aferesi oggi diffusa nel parlato

ma d'uso anche letterario in composti come stanotte, stavolta ecc.; si

tratta di uno sviluppo interno all'italiano. In italiano antico era dif-


fusa, invece dell'elisione, l'aferesi della lì/ iniziale di in o prima di
nasale preconsonantica {che 'n 'che in', lo 'nferno invece di l'inferno,
la 'ncudene anziché l'incudine).
Un caso particolare di aferesi consonantica o sillabica è costituito
dalla discrezione (o deglutinazione) dell'articolo determinativo: la

vocale iniziale di parola e, in parole inizianti in ìli + vocale, questa


consonante (e a volte anche la vocale seguente, se si trattava di lol o

di /a/), si è staccata dalla parola perché interpretata come articolo

determinativo: obscurum > oscuro —» scuro (da l'oscuro inteso


come lo scuro); (h)arenam > arena —> rena (da l'arena —» la rena);

*lusciniolum > {usignuolo —> l'usignuolo —> usignolo.


La discrezione dell'articolo si spiega col fatto che nel parlato non si

percepiscono chiaramente i confini tra le varie parole. C'è infatti

anche un fenomeno opposto, la concrezione (o agglutinazione) del-


l'articolo, in cui la lol o la /a/ o la stessa III dell'articolo si saldano al

nome, come in lastrico < lat. medievale astracum.


Piuttosto rara la sincope della vocale protonica, come in dritto <—
diritto { < *dérictum). La sincope della vocale postonica o inter-
fonica, sebbene non sistematica, era invece molto frequente nel
passaggio dal latino classico al latino volgare e spesso determinò

70
nuovi nessi consonantici secondari, che, come del resto abbiamo
già visto nel consonantismo, hanno avuto spesso nelle lingue ro-
manze sviluppi particolari. Aggiungiamo qualche altro esempio:
cer(e)bellum > cervello; sol(i)dum > soldo; vir(i)dem > verde;
a volte esiti diversi convivono in allotropi come tegùlam > tegola
e teglia-, fabùlam > favola e fiaba. Parole di alta frequenza, come
molte forme verbali, tendono a ridurre il proprio corpo fonico; la

sincope può dunque riguardare vocali toniche o intere sillabe: di-


(ce)re > dire; *fao > fo; (h)abeo > *ao > ho.

Anche delle sincopi consonantiche abbiamo già visto molti casi,

nella semplificazione di nessi di difficile pronuncia; aggiungiamo


che spesso sono dovute a esigenze di dissimilazione, come in dietro
< de (r)étro, o nell'antico e popolare propio < proprium.
Per quanto riguarda l'apocope vocalica, ricordiamo anzitutto che è
sistematica la caduta della /e/ finale degli infiniti a cui si aggiunge
un clitico {vedere + la = vederla) e degli aggettivi che vanno a for-
mare gli avverbi in mente, originariamente ablativo di mens 'men-
te' {sottile + mente —> sottilmente-, ma anticamente gli aggettivi in

-le accentati sulla terzultima non si apocopavano: similmente).


Per il resto, l'apocope può avvenire (ma non sempre avviene) solo
nelle seguenti condizioni:

• quando la consonante che precede la vocale è lì/, Ivi , Ini , Imi


{bel bambino, parlar chiaro, signor Rossi, ben detto, andiam via)-,

• quando la vocale finale è diversa da /a/ (questa può venire apo-


copata solo in ora, ancora e allora: or, ancor, allor; e in suora seguito

dal nome proprio: suor Teresa);


• quando la vocale finale non ha valore morfologico di plurale
{buon mattino ma non "buon mattini);
• quando la parola non si trova alla fine della frase. In tale circo-
stanza l'apocope può avvenire nella lingua poetica, dove è anzi piut-
tosto frequente, dal Seicento almeno fino alla prima metà del No-
vecento («Mi ricordo del mio ben», Metastasio), ma non è attestata

nei testi trecenteschi: si tratta di un'innovazione non toscana del se-

colo xv.
L'apocope può riguardare non solo la vocale, ma l'intera sillaba fi-

nale, come è avvenuto in quomó(do) et > come e avviene tuttora

71
»

in poco —» po' e, davanti a parola iniziante con una consonante (o


un nesso muta cum liquida), in grande —> £ra«, .^zwto —> 5^«, valle
—» zW, a?//? —-> <:<?/, ««0 —» w«, ^&iz/f —» qual. La lingua antica am-
metteva l'apocope più spesso e talune forme apocopate, come ver
da verso, sono rimaste a lungo nella lingua poetica.
Storicamente l'apocope più importante è quella della sillaba finale

-de in parole come piede —> pie e soprattutto virtude —> virtù; cittade
—> r/tó ecc., che ha dato vita a una classe di nomi invariabili al plu-
rale. L'apocope in questo caso si spiega per aplologia (cancellazione
di suoni simili o identici tra loro vicini), in contesti come cittade de
Roma ecc.; ha origine aplologica anche l'esito di sursùm > suso —
su. La vocale o la sillaba finale sono cadute anche in alcune forme
verbali, come *pòtet > puote —» può; fecit > fece —ìfé (poetico);
facìt > face —>fa.
Diversa dall'apocope è V elisione, cioè la caduta della vocale finale
atona (modernamente registrata nella grafia tramite l'apostrofo) da-
vanti a un altro fono vocalico, per evitare lo iato.

2.6. Il raddoppiamento fonosintattico Una trattazione di fo-


netica storica italiana non può non accennare almeno al problema

del raddoppiamento (o rafforzamento) fonosintattico, che ha sem-


pre attirato l'interesse degli studiosi.
In particolari sequenze di due parole appartenenti alla stessa catena
fonica, la pronuncia dell'italiano standard (o, se vogliamo, la pro-
nuncia dell'italiano da parte di un toscano o di un romano) prevede
un rafforzamento della consonante iniziale della seconda parola;
ovviamente, ciò si verifica quando tale consonante è di grado tenue,
non medioforte (prima cioè di altra consonante), o intensa per na-
tura (come /ji/, /J7 e anche /ts/, lazi) e quando tra le due parole
non si frappone una pausa: a Firenze si pronuncia non [afi'rentze]
ma [afii'rentze], con [fi]; io e te suona non [ioe'te] ma [ioe'tre];
andò via è reso come [ando'v:ia]. La grafia segnala questo rafforza-
mento solo quando le due parole si sono univerbate per formare un
composto, come affresco (<— a fresco), ebbene (<— e bene), soprattutto
(<— sopra tutto), davvero (<— da vero), ossia (<— o sia), caffellatte (<—

caffè e latte) ecc., non negli altri casi. I manoscritti antichi, che non

72
sempre separano le parole, segnalano invece spesso il raddoppia-
mento e in tal caso, per convenzione, nelle edizioni moderne tale
grafia viene mantenuta, ma si separano le parole con un punto in
alto (a'tte).

Le parole che provocano il raddoppiamento fonosintattico sono:


• molti monosillabi "forti" (non gli articoli e i pronomi atoni),
tra cui preposizioni {a, da, fra, su), avverbi {qui, qua, lì, là, giù, già,
più), pronomi {me, tu, te, sé, chi, che, ciò), congiunzioni {e, o, che e
che, se, ma, né), verbi {è, ho, ha, do, dà, fa, fu ecc.), nomi {tè, re, gru,
dì ecc.), il numerale tre, le forme olofrastiche sì e no-,

• alcuni bisillabi: qualche, come, dove, sopra-,

• tutte le paróle ossitone {verrò, dirà, andò, virtù, caffè ecc.).

Questo fenomeno fonetico è stato spiegato dal punto di vista storico

come un fatto di assimilazione regressiva. Tra le parole che provoca-


no il raddoppiamento sintattico, infatti, moltissime terminavano in
latino con una consonante, che in italiano non è dunque caduta sen-
za lasciare tracce; se seguita da una parola iniziante per consonante si

è infatti assimilata a questa, che si è pertanto "allungata": così, per


esempio, da et bene si è avuto ebbene-, da aut vero si è avuto ovve-
ro. Successivamente, il fenomeno si sarebbe esteso, per analogia, an-
che ad altre parole che in latino non terminavano in consonante, tra

cui tutte le nuove parole ossitone entrate nel lessico italiano.


Dal punto di vista teorico generale, il fenomeno è ancora al centro
del dibattito critico. Una spiegazione plausibile che ne è stata data è

legata alla quantità sillabica: poiché le vocali toniche finali in italia-


no sono sempre brevi, come le vocali toniche in sillaba chiusa, ci sa-
rebbe stata una tendenza a chiudere la sillaba finale allungando la

consonante iniziale della parola seguente.

Il raddoppiamento sintattico non è reso nella pronuncia dei settentrionali, che tendono

a scempiare le consonanti intense; quella degli italiani del resto del Centro-Sud presen-

ta varie particolarità rispetto alla pronuncia toscana, la più importante delle quali, a

Roma, è l'assenza del fenomeno dopo da, dove, come con valore interrogativo, e vice-

versa la sua presenza dopo le interiezioni ah, eh ecc. Nei dialetti meridionali il fenome-

no è invece legato a fatti fonetici e morfologici molto diversi, come per esempio l'indivi-

duazione del "neutro di materia" o del genere femminile plurale ( o ccafé, irrosa).

73
Per riassumere...

• Sono stati presentati i principali mutamenti fonetici avvenuti nel lati-

no volgare e poi nell'italiano di base fiorentina. Nel vocalismo, la perdita

della durata vocalica del latino classico ha determinato la riduzione dei fo-

ni da io a 7 in posizione tonica (con la distinzione tra medioalte e medio-

basse) e 5 in posizione atona. Tra i vari sviluppi successivi, sono stati esa-
minati in particolare: nel vocalismo tonico il dittongamento spontaneo to-

scano delle vocali mediobasse in sillaba aperta e l'anafonesi (la chiusura


delle medioalte in particolari contesti); nel vocalismo atono le chiusure in

protonia e postonia.
• Sono state poi esaminate le semiconsonanti, marginali nel latino clas-
sico e invece molto sviluppate nel latino volgare e poi in italiano.

• Nel consonantismo sono stati presentati anzitutto i foni italiani non


esistenti nel latino classico, come tutte le palatali, per poi studiare le prin-

cipali trasformazioni, tra cui la sonorizzazione delle sorde intervocaliche e


i complessi esiti dei nessi formati da due o più consonanti (o da consonan-
te + semiconsonante), che hanno prodotto assimilazioni, semplificazioni o
sviluppo di nuovi foni.
• Infine sono state fatte osservazioni relative all'accento, a fenomeni ac-

cidentali, quali aggiunte o perdite di foni, e al problema del raddoppia-


mento fonosintattico, caratteristico dell'italiano di base fiorentina.

74
3. I principali mutamenti morfologici

L'incremento in italiano della tecnica morfologica di tipo isolante,

rispetto a quella flessiva, propria del latino classico, rientra in una


tendenza propria già del latino volgare. Il sistema flessivo latino,
molto complesso, subì, anche in seguito ai mutamenti fonetici, una
serie di riduzioni; così, nel latino volgare si svilupparono molte in-
novazioni morfologiche di tipo analitico, comuni all'intero mondo
romanzo (e per molti aspetti tuttora visibili nell'evoluzione delle
lingue attuali). Bisogna peraltro osservare che, tra le lingue roman-
ze, l'italiano ha mantenuto un sistema di flessione piuttosto ricco,
soprattutto nei paradigmi verbali, con conseguenze notevoli, come
vedremo, anche sul piano sintattico.

Passeremo ora in rassegna le principali trasformazioni del sistema


morfologico latino, con qualche indicazione sugli sviluppi interni
dell'italiano. Nella morfologia le spinte analogiche, dettate dall'esi-
genza di avere il più possibile paradigmi regolari, contrastano spes-
so con successo le leggi fonetiche. In molti casi, soprattutto nei ver-
bi, abbiamo due (o più) forme concorrenti, l'una rappresentante il

normale esito fonetico delle basi latine, l'altra uno sviluppo morfo-
logico italiano; non di rado una delle due forme si è specializzata

come tipica del linguaggio poetico, l'altra ha prevalso nei testi in

prosa: pensiamo ad alternanze come veggio (con /dd3/ < dj, con 1)1

sviluppatosi dalla É di vìdeo), veggo (con /g:/ per analogia con altri

verbi uscenti in tale consonante) e vedo (per analogia con le altre

forme del verbo vedere < vi de re). La polimorfia è del resto, come
si è detto, una caratteristica dell'italiano, ridottasi solo in epoca
moderna.

3.1. Il nome e l'aggettivo II sistema morfologico del latino


classico raggruppava i nomi in cinque declinazioni (o classi) diver-

se, talvolta ulteriormente articolate, e gli aggettivi in due classi; di-

stingueva tre generi (maschile, femminile e neutro) e due numeri


(singolare e plurale). A seconda della funzione sintattica del nome,
aveva inoltre un sistema di casi: il nominativo (per esprimere il sog-

75
getto), il genitivo (il complemento di specificazione), il dativo (il

complemento di termine), l'accusativo (il complemento oggetto,


ma anche il soggetto delle frasi dipendenti costruite con l'infinito),

il vocativo (il complemento di vocazione), l'ablativo (il comple-


mento di causa, quello di mezzo, quello di tempo determinato
ecc.), in alcuni nomi il locativo (lo stato in luogo). Il latino dispo-
neva anche delle preposizioni, che reggendo determinati casi (accu-

sativo o ablativo), esprimevano altri complementi, come in ( +


ablativo: stato in luogo; + accusativo: moto a luogo), ad ( + accu-
sativo: moto a luogo), a(b) ( + ablativo: moto da luogo o agente);
e(x) ( + ablativo: moto da luogo o materia ecc.), cum ( + ablativo:
modo, compagnia ecc.). Non sempre a ogni caso corrispondeva
un'unica desinenza: così nella prima declinazione, rosae poteva
essere sia genitivo singolare, sia dativo singolare, sia nominativo
plurale; il vocativo, inoltre, si distingueva dal nominativo solo nei
nomi maschili e femminili della seconda declinazione; nei nomi
neutri anche la forma dell'accusativo era sempre la stessa del nomi-
nativo; il dativo e l'ablativo spesso (e sempre nei plurali) coincide-
vano. Insomma, il sistema aveva alcuni elementi di debolezza. Tale
debolezza sfociò in un vero e proprio collasso, quando fonetica-
mente si perse la durata vocalica e caddero le consonanti finali, in

particolare la -m e la -s, che distinguevano spesso i casi. Il sistema


dei casi si perse così del tutto. Questa perdita ebbe varie conseguen-
ze, tra cui:

• la maggiore rigidità nell'ordine delle parole;

• lo sviluppo degli articoli, sconosciuti al latino classico;

• l'uso delle preposizioni per (quasi) tutti i complementi diversi

dall'oggetto.

3.1.1. Le declinazioni e il sistema dei casi dal latino all'italiano II lati-

no, come si è accennato, aveva cinque declinazioni nominali: la pri-


ma (nomi uscenti con il genitivo in -ae e il nominativo in -À, ma-
schili e soprattutto femminili: nauta, rosa, casa); la seconda
(nomi con il genitivo in -I e il nominativo in -ùs, maschili e, meno
spesso, femminili: oculus, laurus; in -ér maschili: ager; in
-ùm, neutri: la terza (nomi con genitivo in -ìs e varie
folium);
uscite al nominativo, maschili, femminili e neutri: homo, mons,

76
virtus, mare, tempus); la quarta (nomi con genitivo in -Os e no-
minativo in -ùs, femminili: manus; in -u, neutri: cornu); la

quinta (nomi con genitivo in -ÉI e nominativo in -És femminili:


glacies; dies, ambigenere). Nel latino volgare il loro numero si

riduce: i nomi della quarta confluiscono nella seconda (e in genere


passano al maschile: domus > duomo); quelli della quinta conflui-
scono per lo più nella prima (rabies > *rabia > rabbia).

Relitti della quinta declinazione si hanno nell'antica forma die < diem (maschile e fem-

minile), poi ridottasi a dì, e, nei dialetti centromeridionali e siciliani, in nomi terminanti

in latino in -ìties, come bellez(z)e, fortezze, spesso interpretati come plurali da copisti

toscani. Nomi come specie e superficie sono invece stati recuperati per via dotta. Anche

la quarta declinazione ha lasciato alcune tracce nell'italiano antico e nei dialetti.

Il caso che di norma costituisce la base della parola italiana al singo-


lare è l'accusativo: se nelle prime due declinazioni ciò non è molto
evidente, perché a casa si arriva sia dal nominativo casa sia dall'ac-

cusativo casam e muro può derivare sia da murus sia da murum


(come si è visto in fonetica, la -m cade e così, in genere, la -s), la

terminazione in -e dei nomi derivati da quelli della terza muove dal-


la forma dell'accusativo maschile e femminile in -em (florem >
fiore) o dal nominativo/accusativo dei neutri in -e (mare > mare),
ulteriormente sviluppati nel latino volgare (*animale < animal;
*core < cor); la derivazione dall'accusativo è particolarmente
evidente nei nomi che presentavano al nominativo un tema ridotto
rispetto a quello del genitivo singolare e di tutti gli altri casi (escluso

il vocativo ma compreso l'accusativo, tranne che per i neutri), dove


si aveva una sillaba in più. Così monte deriva da montem, accusati-

vo, enon da mons, nominativo; rondine da hirundinem e non


da hirundo; magione da mansionem e non da mansio; virtù da
virtutem e non da virtus (in questo caso ce ne accorgiamo dal-
l'accento).

Abbiamo, per la verità, un certo numero di nomi (per lo più riferiti ad esseri umani, che

più spesso e più facilmente potevano svolgere la funzione di soggetto) che derivano dal

nominativo latino: come uomo (da homo e non da hominem), re (da rex e non da regem),

77
moglie (da mulier e non da mulierem, da cui deriva invece la forma antica e dialettale

mogliera), prete (da presbyter), la forma fiorentina Trinità (da trìnitas, mentre da trini-

tàtem si ha Trinità(de)), e qualche altro. Gli altri casi latini hanno lasciato in italiano

solo poche tracce.

3.1.2. Il numero La perdita dei casi riduce il sistema desinenziale la-

tino a una singola opposizione flessiva: quella tra singolare e plura-


le. Mentre per il singolare, come si è visto, si parte di solito dall'ac-
cusativo, più dibattuto è il problema dell'origine del plurale. Per i

nomi femminili derivati dalla prima declinazione, che terminano in


-e, c'è chi pensa al nominativo, che ha la stessa desinenza (case <
casae), chi all'accusativo (case < casas), visto che la -s può pala-
talizzare la vocale precedente, come dimostrano grafie del tipo ope-
res, tabules, attestate in epigrafi e in carte tardolatine. Per i nomi
maschili derivati dalla seconda declinazione, che terminano in -/,

non si può partire dall'accusativo, in -os, e prevale l'idea che derivi-


no dal nominativo, che ha la stessa desinenza (muri < muri); alcu-
ni studiosi pensano invece a un'analogia con nomi derivati dalla i

terza declinazione. La desinenza di questi ultimi in -es, tanto al no-

minativo quanto all'accusativo, può evolvere a -/' per la palatalizza-


zione della vocale provocata da -s (montes > monti).

Nell'italiano antico si hanno nomi femminili derivati da nomi della terza declinazione

che terminano in -e (il tipo le parte): alcuni studiosi li spiegano con l'analogia con i

plurali dei nomi derivati dalla prima; altri pensano che la -e sia stato l'esito originario

e che la -/'
sia dovuta all'attrazione dei maschili derivati dalla seconda declinazione,

estesasi poi, tramite gli aggettivi, anche ai femminili. In -/'


terminano anche molti

nomi (dotti) maschili uscenti al singolare in -a (papa/papi). La -/ del plurale ha

spesso determinato variazioni fonetiche, palatalizzando la consonante velare finale

del tema {amico/amici; mago/magi, poi specializzatosi semanticamente rispetto a ma-

ghi; volsco/volsci) assorbendo la /]/ e bloccandone gli esiti ( notaio /notari, opposi-

zione poi regolarizzata).

Già l'italiano antico aveva un certo numero di nomi invariabili al

plurale: alcuni monosillabi (come i citati re e dì); alcuni nomi in -e

(l'ambigenere die); il femminile mano (che però nella lingua lettera-

78
ria assunse presto al plurale la -i dei maschili); tutti i nomi ossitoni,
divenuti tali in seguito ad apocope {virtù <r- virtude < virtutem;
maestà <— maestade < maiestatem). La classe degli invariabili si è
sviluppata nel corso dei secoli con l'inserimento nel lessico italiano
di prestiti ossitoni o uscenti in consonante (caffè, elisir, film, sport),
di nomi (per lo più dotti) uscenti in -e {specie) o in -i (brindisi, crisi)

già al singolare, di nuovi maschili in -a (boia, sosia) e femminili in


-o (biro), di "accorciamenti" (bici, mitra, moto).

3.I.3. Il genere Nella trafila dal latino all'italiano, c'è da notare


anzitutto la perdita del genere neutro, che riguarda non solo i nomi
e gli aggettivi, ma anche pronomi e le forme nominali del verbo.
i Il

neutro è del resto scomparso nell'intero mondo romanzo, a ecce-


zione del rumeno, lasciando nelle altre lingue neolatine solo tracce
(soprattutto nei dialetti italiani centromeridionali, che hanno svi-

luppato, negli articoli e nei dimostrativi, il "neutro di materia" per


nomi-massa e altri sostantivi non pluralizzabili). I nomi neutri lati-

ni sono prevalentemente confluiti nei maschili. Il più importante


relitto del neutro in italiano si rileva in alcuni nomi maschili che
hanno il singolare in -0 e il plurale in -a, che ha assunto il genere
femminile. Abbiamo così: il braccio/le braccia (dal neutro lat. bra-
chium, pi. brachia); il ciglioIle ciglia (dal neutro lat. cilium, pi.

cilia); il paioIle paia (dal neutro lat. parium, pi. paria).

Questi nomi (molti dei quali relativi a parti del corpo umano che costituiscono insiemi

di due) rappresentano una piccola classe nel sistema nominale italiano che sopravvive

ancora oggi (anche se in vari casi si sono poi sviluppati anche i "normali" plurali ma-

schili in -/, a volte con accezioni particolari: braccia/bracci, coma/corni, lenzuola/len-

zuoli). Nell'italiano antico (come pure in molti dialetti centromeridionali) la classe era

molto più estesa: troviamo infatti i plurali anella, castella, demonia ecc. poi regolariz-

zati (e alcuni nomi svilupparono anche plurali in -e, come bracce, castelle, poi usciti

dall'uso). La lingua antica (e gli stessi dialetti) conoscono anche un altro relitto del neu-

tro plurale latino: il plurale in -ora, che da alcuni neutri della terza declinazione latina

(tempus/tempora, corpus/corpora), dove -or- era in realtà la parte finale del tema, si

estese, interpretato come morfema di plurale, ad altri nomi (fìcora, pràtora, luògora).

Anche questi plurali sono di genere femminile.

79
Spesso, però, plurali neutri in -a sono stati reinterpretati come femminili singolari: è il

caso di foglia < folia (pi. di folium > foglio), meraviglia ( < mirabilia), pecora (pi. di pe-

cus), pera < pira (pi. di pìrum) e in genere i nomi dei frutti, che hanno poi sviluppato il

regolare plurale in -e.

Gli altri nomi conservano, in linea di massima, il genere che aveva-


no in latino: passano dal femminile al maschile quasi tutti i nomi in
-o provenienti dalla seconda e dalla quarta declinazione, tranne
mano {ago < acum; pero < pìrum, e altri nomi di alberi), e, tra i

nomi derivati dalla terza declinazione, ^re ( < f lo rem).

Spesso il mutamento di genere è legato a un metaplasmo, cioè a un passaggio da una

classe a un'altra: è il caso di arborem (femminile) > albero, glandem (maschile) >

ghianda. In altri casi il metaplasmo ha favorito il mantenimento del genere originario,

come per nùrum > *nòram > nuora. Si sono però avuti anche metaplasmi indipenden-

ti dal genere, come sor(i)cem > sorcio e i numerosi scambi, nell'italiano antico, tra fem-

minili in - a e in - e ( ala/ale, forma che spiega il plurale ali).

3.1.4. L'aggettivo Le due classi degli aggettivi qualificativi latini


vengono sostanzialmente mantenute (ovviamente, anche qui si per-
dono i casi e il genere neutro): la prima classe è in -ol-a (pi. -il-é) e
la seconda in -e (pi. -/). Anche per gli aggettivi il singolare muove
dall'accusativo: bónum/-am > buonol-a-, nigrum/-am > nero/-a;
àsp(e)rum/-am > asprol-a-, fòrtem > forte; flébilem > fievole.
Come nel nome, anche nell'aggettivo non mancano metaplasmi
(tristem > tristo 'cattivo').

3.1.5. Comparazione e alterazione In latino i gradi di comparazione


dell'aggettivo (comparativo di maggioranza; superlativo) erano
espressi con morfemi legati (nobilis/-e 'nobile'; nobilior/-ius
'più nobile'; nobilissimus/-a/-um 'molto nobile' o 'il più nobi-
le'). Questa possibilità si è persa nel mondo romanzo, che per il

comparativo ha generalizzato la forma magis, utilizzata in latino in

casi particolari (portoghese mais, spagnolo mas, rumeno mai), o


l'ha sostituita con plus (francese plus, italiano più) e per il superla-
tivo ha premesso all'aggettivo vari avverbi (in italiano molto, tanto,

assai ecc.). L'italiano ha però recuperato per via dotta per il superla-

80
tivo assoluto (non per quello relativo) il suffisso -issìmum/-am >
-issimol-a e, in casi particolari, -érrimum/-a > -errimol-a.
Come in altre lingue romanze, si sono conservati in italiano alcuni
comparativi organici latini: maiorem > maggiore-, minorem >
minore-, meliorem > migliore; peiorem > peggiore, a cui possia-
mo aggiungere gli avverbi melius > meglio e peius > peggio. I
corrispondenti superlativi massimo, minimo, ottimo, pessimo sono
invece forme dotte.
L'italiano ha invece mantenuto e anzi sviluppato una tecnica sinte-
tica per quello che riguarda gli alterati: sia i nomi sia gli aggettivi,

con l'aggiunta di vari suffissi {-ino, -etto, -uccio, -uzzo, -one, -otto,
-accio, -astro ecc.), assumono sfumature diminutive, vezzeggiative,
accrescitive o peggiorative, che non di rado, come era già avvenuto
nel latino volgare, si sono lessicalizzate, hanno cioè assunto signifi-
cati specifici, distinti da quelli delle basi.

3.2. L articolo II latino classico non conosceva l'articolo. Fun-


zioni analoghe a quelle del nostro articolo indeterminativo poteva-
no però essere svolte (come dimostrano anche esempi di autori clas-
sici sensibili alla lingua parlata) dal numerale unus/-a/-um. Pro-
prio dall'accusativo di questa forma (unum/-am) derivano gli arti-

coli indeterminativi uno (spesso apocopato in un) e una (davanti a


vocale normalmente eliso in un'), che l'italiano ha solo al singolare
(al plurale si usano, con funzioni analoghe, gli indefiniti alcuni/-e,

certi/-e o, più spesso, il partitivo dei-deglildelle).


Per quanto riguarda l'articolo determinativo, la sua introduzione
nel latino volgare e poi nelle lingue romanze avvenne probabilmen-
te anche per suggestione del greco: nei primi secoli dell'era cristia-

na, infatti, nella traduzione in latino dei vangeli gli articoli presenti
nel testo greco furono resi forme del pronome dimostrativo
con le

ille ('quello'), a cui fu assegnato così un nuovo valore. Per molto


tempo ancora, per la verità, le funzioni di ille come articolo deter-
minativo non risultano ancora ben distinte da quelle dell'aggettivo
dimostrativo, tanto che è stato definito come articoloide.

In italiano gli articoli determinativi si sono sviluppati in seguito a

un'aferesi, secondo la seguente trafila:

• per il maschile singolare (ìl)lùm > lo;

81
• per i femminili (il)làm > la e (il)làs (o (il)lae) > le.

Nel caso del maschile plurale, la forma originaria è //'


( < (Il)lI),
ben diffusa in italiano antico e poi palatalizzata in gli o ridotta a i.

Nel maschile singolare, oltre alla forma lo si ha, come è noto, la for-
ma /'/, che è stata variamente spiegata.

Dal punto di vista fonetico, si è ipotizzata, muovendo da illùm, una trafila che prevede

non un'aferesi (come in lo), ma un'apocope: Tl(lùm) > el > il (con chiusura della /e/,

trattata come protonica). Ad altri studiosi, però, è parso più probabile che //si sia svi-

luppato con l'aggiunta di una /i/ d'appoggio alla /l/ a cui si era ridotto lo per apocope in

particolari contesti fonosintattici, cioè dopo una parola uscente in vocale (spesso infat-

ti, specie dopo i monosillabi, troviamo grafie come chel, sei, el, da intendere come che-
l, se-I, e-l). La forma più antica attestata a Firenze è inoltre //; el si sarebbe diffuso più

tardi, per influsso di altri dialetti toscani.

Notiamo ancora che el è diffuso anche nei dialetti settentrionali (e c'è chi pensa a un

loro influsso sui dialetti toscani), mentre i dialetti centromeridionali conoscevano origi-

nariamente solo lo e lu(< *(il)lù, con allungamento della finale dopo l'apocope di -m;

nelle aree dialettali dove la prima forma era riservata al "neutro di materia" questa si

usava per il maschile), da cui sono derivate forme come o, gliu ecc.; il romanesco erde-

riva invece dal toscano el. Infine, gli articoli sardi si sono sviluppati dal determinativo

ipse/ipsa ( sa domu 'la casa' ecc.).

Oggi lo e il (come gli e i) sono in distribuzione complementare:


come è noto, lo si usa davanti a nomi inizianti per vocale (la lol al-

lora si elide, al pari della /a/ di la e, anticamente, anche della /e/ di


le: l'armi), per Isl + consonante o per gruppi consonantici non for-

mati da occlusiva + /r/, per /ji/, /J7, /ts/ e /dz/; si usa il in tutti gli

altri casi. Anticamente, però, l'uso era diversamente regolato: oltre

alla possibilità, rimasta viva a lungo anche nella lingua letteraria, di


porre //prima di /ts/ e /dz/ (il zappatore, il zucchero), nei testi anti-
chi troviamo lo al posto di il se l'articolo era all'inizio di frase o se
era preceduto da parola terminante in consonante («rimirar lo pas-

so», Dante): in sostanza l'uso di il richiedeva prima dell'articolo


una parola terminante in vocale (un relitto di quest'uso resta anche
nell'italiano contemporaneo, in espressioni cristallizzate come per lo
più, per lo meno).

82
Gli articoli (o piuttosto, se partiamo dal latino, le forme ìllùm, il-

làm, ìllI e ìllàs), uniti alle preposizioni a, di, da, in, con, per (lat.

ad, de, de + ab, in, cùm, per) formano le preposizioni articolate,


secondo le seguenti trafile: a(d) + (ì)llùm > allo (o, con apocope
vocalica, al); de + (ì)llàm > della; d (è) + a(b) + (ì)llàs > dalle;
(ì)n + ìllI > nelli (da cui poi negli o nei); cù(m) + (ì)llùm >
collo —» col; pé(r) + (i)llI > pei (forma oggi rara).

Nei testi antichi le preposizioni articolate potevano presentare la /l/ scempia {alo, da-

ta, ne le ecc.), che corrispondeva all'originaria pronuncia fiorentina della /l/ come breve
davanti a parola iniziante per vocale accentata o per consonante (al'opera, ala fine). Le

stesse grafie, ma con separazione "analitica" della preposizione dall'articolo (a lo, da la

ecc.), non più corrispondenti alla pronuncia, sopravvissero a lungo nella lingua lettera-

ria, specie poetica. Prima di nel, nello ecc. sono documentate, in antichi testi toscani,

anche le forme non aferetiche innel (o in nel, anche in del) ecc., poi uscite dall'uso.

Sono ormai molto antiquate anche preposizioni articolate come collo, colla, pel, pelle

ecc. [con lo, con la, per il, per le ecc.).

33« I pronomi Molto complesso già nel latino classico, il siste-

ma dei pronomi si presenta anche in italiano notevolmente ricco.

3.3.1. I pronomi personali Nella morfologia di alcuni pronomi per-


sonali, l'italiano mantiene l'opposizione latina tra una forma per il

soggetto e una per i complementi. Abbiamo così:


a a
i persona sing.: io ( < ego), me ( < me, accusativo/ablativo); 2
persona sing.: tu ( < tu), te ( < té, accusativo/ablativo). Come in
a
latino, non c'è distinzione tra soggetto e complemento nella i per-
a
sona pi. noi ( < nós) e nella 2 persona pi. voi ( < vòs).
a
Più complesso il quadro relativo alle forme di 3 persona singolare
e plurale. Al maschile singolare come soggetto abbiamo egli (<— el-

li < *illI < illé per influsso del relativo Qui), come comple-
mento lui ( < *ìllùi, forma originariamente dativale, sostituitasi
al classico ÌllI per analogia con cui relativo). Al femminile singo-
lare le forme corrispondenti sono ella ( < illàm) e lei ( < *illéi).
Per entrambi i generi, come forme di soggetto (o anche di com-
plemento, ma non oggetto) si hanno anche esso ed essa ( < ipsùm,

83
ipsàm), solo successivamente riservate (specie quella maschile) ad
animali e cose.

Il pronome egli si è spesso ridotto a eie poi a e'o a gli, forme a lungo diffuse nell'uso

letterario (specie la prima) o ancora vitali (specie le due ultime) nei dialetti toscani. An-

che ella si è ridotto spesso a la, vitale anch'essa nell'uso dialettale (toscano ma anche
settentrionale) e presente oggi solo in espressioni cristallizzate col valore di 'la cosa'

(se la va la va). L'uso di lui, lei e del plurale loro con funzione di soggetto messo forte-

mente in rilievo si sviluppò a Firenze già nel corso del Trecento, ma la censura a cui fu

sottoposto dalla tradizione grammaticale ne ritardò per secoli l'uso nelle scritture lette-

rarie. Come predicato nominale, erano usate anticamente le forme desso/-a/-i/-e ( < Td

ipsùm, con aferesi della vocale iniziale), rimaste poi a lungo nella lingua poetica.

Al plurale l'italiano antico aveva le forme elli (da cui, come per il

singolare, egli, gli, ei, e') ed elle, poi sostituite con essi ed esse, utiliz-

zabili anche come complemento (ma non più per l'oggetto diretto).

La forma oggettiva loro, probabilmente di importazione francese o


settentrionale, deriva dal genitivo ìllòrum.

L'esigenza di differenziare la forma maschile plurale da quella del singolare portò, pri-

ma che alla diffusione di essi, allo sviluppo della forma eglino, ottenuta aggiungendo a

eg//la desinenza -no, della terza persona plurale dei verbi (amano, leggevano, andaro-

no), su cui fu modellato il femminile élleno. Le forme furono molto diffuse nello scritto

tra il Quattrocento e l'Ottocento, per poi sparire.

a
La forma complemento di 3 persona singolare e plurale con valore
riflessivo è sé ( < sé, accusativo/ablativo).
Sono passate all'italiano anche le forme latine mecum, tecum, se-
cum 'con me, con te, con sé' > meco, teco, seco, diffuse anche nel-

l'uso popolare toscano almeno fino all'Ottocento.


Nei pronomi personali l'italiano, accanto alle forme forti, piene, to-
niche, ha sviluppato anche forme deboli, ridotte, atone, che si ap-
poggiano al verbo: sono i cosiddetti clitici, che possono essere usati
come complemento oggetto e di termine.
Abbiamo così: i a persona sing. mi ( < me, con chiusura protonica,
come le altre sotto citate); 2 a persona sing. ti ( < té); i a persona pi.

84
ci ( < *(h!c)ce < Hlc 'qui', originariamente avverbio di luogo); 2 a
persona pi. vi ( < ibi, con aferesi della vocale iniziale e chiusura in
protonia dell'originario ve o, secondo altri, come aferesi da ivi; se-

condo altri studiosi ancora vi costituirebbe un altro esito di vòs, at-

traverso una fase vo, anticamente attestata).


a
Alla 3 persona abbiamo: al maschile singolare g/z ( < ìllì, attraver-
so li, ben documentato nei testi antichi) e lo ( < illùm); al femmi-
nile singolare le ( < *illae) e la ( < ìllàm); al plurale le forme og-
gettive sono regolarmente li (maschile) e le (femminile), mentre g/z
( < ìllis) è stato sostituito per lo più da loro; la forma clitica del ri-

flessivo è si ( < se).

Anticamente, come nell'articolo, lo poteva avere anche l'alternativa /'/ (/'/ veggo 'lo

vedo') e, preceduto da altro monosillabo, si poteva ridurre alla semplice laterale [tei

dico 'te lo dico'; noi posso 'non lo posso'). Il femminile le rappresenta uno sviluppo più

recente, nato dall'esigenza di differenziare questo genere dal maschile; anche per il

femminile anticamente si usava //'(illì era del resto ambigenere in latino).

Oltre alla forma //', come oggetto plurale troviamo anche, anticamente, /e gli (le stesse

forme degli articoli), che però, nonostante l'uso poetico, non hanno attecchito. Il rileva-

to uso di loro, bisillabo (e quasi sempre posto dopo il verbo), al posto di gli come plura-

le ha creato un vuoto nel sistema dei clitici - la forma ridotta lor (anche lo in alcuni

dialetti toscani medievali) non si è infatti diffusa - che spiega la ripresa anche nello

scritto di gli (rimasto del resto sempre vivo, specie in combinazione con altri clitici).

La forma si ha assunto anche il valore di soggetto impersonale [si vede, si dice) o

quello detto "passivante" ( / libri si vendono), differenziandosi per più aspetti dal rifles-

sivo. Questo nuovo si costituisce anzi una delle forme pronominali più significative del-

l'italiano. Anticamente come impersonale si usava anche omo, corrispondente al fran-

cese on ( < homo).

L'italiano presenta altri tre pronomi clitici. Il primo ène{< inde),


che, oltre all'originario valore avverbiale di moto da luogo {ne ven-

go, andarsene) ha sviluppato vari altri valori di complementi indi-


a
retti di 3 persona (singolare e plurale) introdotti dalla preposizione
di (argomento: ne parliamo; partitivo: ne ho visti tanti ecc.). Già in-
a a
contrati come clitici di i e 2 persona plurale, ci e vi hanno inoltre
anch'essi come primo significato quello di avverbi di luogo {ci resto

85
'resto qui'; vi si vedono 'si vedono lì'), da cui poi il ci ha sviluppato il

a
valore di complemento indiretto di 3 persona {ci riesco 'riesco in

questa cosa'; ci esco 'esco con lui o con lei').

a
L'italiano antico usava ne anche come clitico di i persona pi. (uso sopravvissuto a lun-

go nella lingua poetica e in espressioni come Dio ne liberi! 'D'\o ci liberi!'); secondo al-

cuni si tratta di uno sviluppo semantico di ne ( < inde), secondo altri deriva da nos.

Per quanto riguarda pronomi allocutivi, l'italiano antico usava il


i

voi anche come pronome di cortesia singolare. Il tu, unica forma


usata in latino, è rimasto vivo nel Medioevo in vari dialetti dell'Ita-
lia centrale (tra cui il romanesco); il lei (come soggetto anche Ella,

per lo più con iniziale maiuscola) e, al plurale, loro (oggi desueto),


si è diffuso invece a partire dal Cinquecento, con riferimento a for-

me femminili come Vostra Signoria, Vostra Eccellenza ecc.

3.3.2. Pronomi e aggettivi possessivi I possessivi italiani continuano


regolarmente quelli latini. Le uniche particolarità riguardano alcuni
sviluppi fonetici differenziati a seconda delle persone: méum/-am/
-as > miol-al-e, tùum/-am/-as > tuol-al-e, sùum/-am/-as >
suol-al-e (con chiusura in iato). I maschili plurali presentano il dit-

tongo, normale in miei < mei, difficile da spiegare in tuoi e suoi,

che presupporrebbero forme non attestate *tói e *sòi. Le forme


delle persone plurali sono nostro/-al-il-e < nòstrum/-am/-i/-as,
vostro!-al-il-e < *vòstrum/-am/-i/-as (invece del classico ve-
strum) e loro < ìllòrùm.

L'italiano ha generalizzato suum anche nelle condizioni in cui il latino adoperava eius.

Inoltre, in italiano antico (come tuttora nell'uso popolare) suo poteva riferirsi anche a
a
una 3 persona plurale (loro sembra infatti un'introduzione posteriore).

L'italiano antico aveva inoltre i possessivi enclitici, -mo, -toe -so, perlopiù con i nomi

di parentela, come tuttora nei dialetti meridionali [màglia ma 'mia moglie' ecc.).

3.3.3. Pronomi e aggettivi dimostrativi Delle forme latine di dimo-


strativi e determinativi scompaiono dall'uso già nel latino volgare
Idem e, certo anche per la loro brevità, is e hìc, che restano solo,
al neutro, in pronomi composti come il già segnalato desso ( < id

86
ìpsùm) e ciò ( < (éc)cé hòc) e nella congiunzione però ( < per
hoc, che, prima di sviluppare l'odierno valore avversativo, signifi-

cava appunto 'perciò', 'per questo'). Nel sistema tripartito dei di-
mostrativi latini, già nel latino volgare hìc 'questo' fu sostituito da
iste, a cui nel significato di 'codesto' subentrò ìpsum, mentre per
'quello' si mantenne ille. Ma nel toscano, e poi nell'italiano, come
si è visto, ille dà vita ad articoli e pronomi personali e da ipsum
deriva il pronome personale, e aggettivo, esso, cosicché, con fun-
zione di dimostrativi, iste e ille furono rafforzati dall'avverbio
*éccùm (formato da écc(e) e hùn(c), accusativo di hic: 'ecco
questo'), a essi premesso: abbiamo dunque questo ( < (éc)cù(m)
ìstùm) e quello-i < (éc)cù(m) ìllùm).

Anticamente è attestata anche la forma aggettivale esto/-a, derivata direttamente da

Istùm/-àm. Con valore pronominale, al maschile singolare troviamo anche forme termi-

nanti in -/':
questi e quegli o quei (da quelli); questa /i/ si spiega, come quella di egli,

con l'influsso del relativo qui.

La forma cotesto o codesto (con sonorizzazione della Iti) è derivata


non da Ìpsùm, ma da (éc)cù(m) ti(bi) [o té] ìstùm 'eccoti que-
sto'; indica persona o cosa vicina a chi ascolta ed è viva solo in To-
scana, oltre che nella lingua letteraria e burocratica. Da ìst(ùm) ìp-
sùm deriva invece il pronome e aggettivo indefinito stesso (antica-
mente anche istesso, senza aferesi), mentre medesimo (anticamente
anche sincopato in medesmo) deriva da *metìpsimùm, forma di su-
perlativo contratto ( < ip(sis)simum), rafforzato dal suffisso -met
'proprio', posto però in posizione iniziale.
Altre forme di pronomi dimostrativi derivati dal latino sono costui

(<— coestui < (ec)cù(m) *ìstuì), colui (< (ec)cù(m) *ìllùI), costei

( < (EC)CÙ(M) *ÌSTÈI), Colei ( < (EC)CÙ(M) *ÌLLÉl), COStOYO ( < (EC)-
cù(M) ìstórùm) e coloro ( < (ec)cù(m) ìllòrùm), forme origina-
riamente destinate ai complementi (si parte infatti da forme prono-
minali oblique), ma poi estese anche ai soggetti.

334. I pronomi relativi Anche nei pronomi relativi l'italiano ha


mantenuto tracce del sistema casuale latino, distinguendo una for-

ma che per il soggetto e il complemento oggetto (e, ab antiquo, an-

87
che il complemento tempo e in genere complementi non intro-
di i

dotti da preposizione) e una forma cui (per lo più preceduta da pre-


posizione) per gli altri complementi. Questa seconda forma deriva
direttamente dal dativo latino cui; il che non muove invece dal no-
minativo Qui, quae, quód (che presentava la distinzione di gene-
re, in italiano perduta), ma, probabilmente, dal neutro del prono-
me interrogativo quid, che è considerato anche alla base del che in-
terrogativo e del che congiunzione (al posto delle forme latine
quod e quia). Tra gli studiosi c'è anche chi postula, per il relativo,

la base quém (accusativo maschile). Certo tutte queste forme, eti-


mologicamente collegate, si andarono confondendo nel latino vol-
gare.
L'italiano utilizza anche come relativi gli interrogativi latini qua-
lem, quales > quale, quali e quIs > chi. Introducono frasi relati-

ve (e interrogative) pure l'avverbio di luogo dove ( < d(é) ubi) 'in

cui' (nell'uso letterario anche ove), e onde < ùndé, che oggi so-
pravvive come congiunzione con valore finale {onde evitare spiace-
voli incidenti), ma che originariamente aveva valore di avverbio di
luogo ('da dove'; anche donde) o di pronome, col significato di 'di

cui', 'da cui'.

3.3.5. Pronomi e aggettivi indefiniti Ci limitiamo a segnalare le prin-


cipali forme derivate dal latino. L'aggettivo qualche non deriva di-
rettamente dalla combinazione qual(em) qué(m), ma dall'italiano

qual che (sia)-, anche il pronome 'neutro' qualcosa è formazione ita-


liana.

Il latino alius non sopravvive nel mondo romanzo e alter, che in


latino significava 'l'altro' tra due, lo sostituisce in tutti i casi: da qui
muovono, con sincope, le forme altrol-a ( < alt(e)rum/-am) e al-
tri (anche pronome maschile singolare, da *alt(e)ri, anch'esso,

come egli, questi ecc., analogico a qui). Dalla forma dativale *al-
t(e)rùI, rifatta su cui, deriva altrui, usato anticamente con valore
di complemento oggetto («mena dritto altrui», Dante), di termine
(parlare altrui), di specificazione (il dantesco «lo pane altrui» 'pane
di altri').

L'italiano tutto deriva dal lat. classico tótùm; ma l'italiano è l'uni-

ca lingua romanza che ha continuato anche l'indefinito ómnis:

88
dall'accusativo ómném è infatti derivato ogni. L'esito di òmnèm
sarebbe orine, anticamente attestato; davanti a parola iniziante per
vocale, però, la /e/ finale tendeva a ridursi a 1)1 e a dileguare palata-
lizzando la nasale precedente (onne anno —» ogn'anno). Da qui lo
sviluppo della forma ogne, in cui poi la /e/ è stata trattata come pro-
tonica. In altri dialetti italiani si ha ogna, tratto dal neutro plurale
OMNIA.
Il numerale unum ha dato vita al pronome indefinito (l')uno, usato
anche al plurale, e, in combinazione con altre forme (latine o già
italiane), a molti altri pronomi, tra cui: ognuno < òmné(m) unum;
alcuno < *al(i)cùnùm < aliquis unus; qualcuno <— qualche
uno; i negativi nessuno < né(c) ips(e) unum 'nemmeno uno' (ori-
ginariamente d'uso solo poetico), ninno < né(c) unum (per secoli
la forma normale in prosa) e veruno < vér(e) unum 'in verità
uno', poi 'nessuno'; cadauno, catuno < katà (greco) unum; ciascu-
no, ciascheduno < francese chascun < katà quisque unum; katà
QUISQUE (ET) UNUM.
Il suffisso latino -cumque, confusosi nel latino volgare con un-
quam 'mai', ha formato invece qualunque, chiunque (e anche le

congiunzioni quantunque e comunque).


Il negativo nullus si è conservato popolarmente solo in nulla ( <
nullam (rem)), mentre niente (anticamente anche neente) è stato
spiegato o dal latino medievale néc éntem 'neppure un ente, una
cosa' o piuttosto da nec gentem, con gente privato del suo signifi-
cato originario, ma con valore generico, impersonale. L'italiano an-
tico aveva anche covelle 'alcunché' e 'niente' < quod velles.

3.4. I numerali Segnaliamo solo alcuni derivati dei cardinali. Il

primo, unol-a < unum/-am è il solo che mantiene anche moder-


namente la distinzione di genere (anticamente anche nei composti:
novantuno). Dal latino duo, dùae (accusativo dùas), sono deriva-
te varie forme: oltre a due (dove la Ini si spiega con la chiusura in
iato), nel Trecento si hanno anche dui, duo, dua, le ultime due vita-

li ancora nel Quattrocento accanto a duoi e nel Cinquecento accan-


to a doi e du \ Nei primi secoli si ebbe una certa tendenza a usare
duo per maschili, due per femminili (in corrispondenza dunque
i i

delle forme latine) e dua per nomi plurali in -a, poi duo venne ri-
i

89
servato alla poesia; dua e duoi sono rimasti a lungo vitali nella lin-

gua parlata.

Tra gli esiti fonetici degli altri numeri, ricordiamo che dugento (< du-
centi, con sonorizzazione dell'intervocalica e -o per influsso di cen-
to) è la forma propria dell'antico fiorentino, mentre duecento è
un'innovazione posteriore.

3.5« Il Verbo Nell'ambito della morfologia verbale, nel passag-


gio dal latino classico al latino volgare e poi all'italiano si registra
l'abbandono di una serie di tratti flessivi, con una conseguente sem-
plificazione del sistema, tendente a ridurre la ricchezza desinenziale
sostituendo a singole forme legate, morfologicamente complesse,
strutture analitiche perifrastiche, costituite da forme verbali distin-

te. Le principali tendenze di carattere generale sono:

• l'eliminazione dei verbi irregolari, alcuni dei quali si perdono


del tutto o quasi (ferre, sostituito da portare), altri vengono re-

golarizzati negli infiniti e in altre forme dei paradigmi (esse, che


diventa all'infinito *essere; il suo composto posse, trasformato in
*potere);
• la perdita della diatesi passiva; il latino formava i tempi semplici
del passivo (presente, imperfetto, futuro) con morfemi desinenziali,
mentre per i tempi composti (perfetto, piuccheperfetto, futuro an-

teriore) ricorreva alla perifrasi participio passato + forme dei tempi


semplici del verbo esse; in italiano (come nelle altre lingue roman-
ze) si ha sempre la perifrasi: amatur viene sostituito da e amatol-a\

a sua volta il valore di amatus/-a/-um est è assunto da è statol-a

(ofu) amato!-a\
• la perdita dei verbi deponenti e semideponenti latini (verbi che
avevano forma passiva ma vengono regola-
significato attivo), che
rizzati in tutti i tempi e i modi appunto come attivi: minàri 'mi-

nacciare' > *mìnàre > menare 'condurre'; mori > *morire >
morire-,

• la riduzione del numero di tempi e di modi verbali e lo svilup-

po di forme perifrastiche: si perde, per esempio, il futuro, sostituito


da una perifrasi con infinito e forme del presente del verbo habe-
re; spariscono senza lasciare tracce l'imperativo futuro e molte del-
le forme infinitive (l'infinito e il participio futuro, il supino, gran

90
parte delle forme del gerundio, il gerundivo, recuperato solo per via
dotta). In questo campo, però, si registrano anche incrementi.
Così, in corrispondenza del perfetto latino all'indicativo si hanno
tre tempi, che hanno valore aspettuale diverso: passato remoto, pas-
sato prossimo e trapassato remoto (che in italiano antico poteva
comparire, anch'esso nelle frasi principali). Passato prossimo e tra-
passato remoto sono perifrastici, al pari del trapassato prossimo
(che sostituisce il piuccheperfetto latino), del futuro anteriore, e del
passato e trapassato del congiuntivo. Tutti questi tempi presentano
le forme dell'ausiliare {avere o essere) e il participio passato {ho visto,

fu nato, avevi comprato, avrete mangiato, che siano arrivati ecc.). Na-
sce inoltre un nuovo modo: il condizionale, anch'esso, nel fiorenti-
no e poi nell'italiano, formato al presente da una perifrasi con infi-

nito e forme (ridotte) del perfetto di habere.


Il latino presentava spesso, nei paradigmi verbali, un allomorfia te-
matica: la vocale del tema era infatti spesso soggetta a cambiamenti
(per la cosiddetta apofonia: troviamo ora le lunghe ora le brevi, ora
una e, ora una o), nelle forme del perfetto e del supino. Molti di
mutamenti si sono mantenuti
tali in italiano o, per meglio dire,
hanno contribuito a determinare la varietà di esiti delle diverse for-
me verbali: per esempio, nel verbo venire abbiamo vengo, vieni e
venni. Differenze nel grado di apertura della vocale tematica dipen-
dono anche dalla distinzione tra le forme verbali rizotoniche (ac-

morfema lessicale) e le forme rizoatone


centate sulla radice, cioè sul
(accentate sulla desinenza, cioè sul morfema flessivo). La forza delle
spinte analogiche, del resto, non si limita alla coniugazione di uno
stesso verbo, ma si estende anche, per altri aspetti, a verbi di classi
diverse.

3.5.1. Le classi verbali e le forme dell'infinito II latino ha quattro co-


niugazioni: la prima ha l'infinito in -are (amare), la seconda in
-ère (vidére), la terza in -ere (legére) e la quarta in -ire (audI-
re). In italiano si riducono a tre, perché la seconda e la terza si fon-

dono in un'unica coniugazione, in -ere, con la /e/ ora accentata, ora


atona (con qualche spostamento rispetto al latino classico: movere
> muòvere) e modellata per il resto sul paradigma della seconda la-

tina; queste classi verbali restano solo come fossili, per i verbi di di-

91
retta derivazione latina; invece la prima (in -are) e in parte la terza

(in -ire), che sono poi quelle che presentano paradigmi più regolari,
sono produttive, servono cioè per formare nuovi verbi {arrossare e
arrossire; toscaneggiare, scurire ecc.); vengono inoltre inseriti nella
prima i verbi germanici uscenti in -ò~n (*wardòn > guardare), nella
terza quelli terminanti in -jan (warnjan > guarnire). Nel passaggio
dal latino all'italiano vanno inoltre segnalati numerosi metaplasmi:
i verbi col presente in -io della terza coniugazione latina sono pas-
sati per lo più alla terza italiana (fugére > fuggire, ma sapere >
sapere, con spostamento d'accento), in cui sono entrati anche vari
verbi della seconda latina (florère > fiorire). Alcune sincopi han-
no spostato verbi dalla terza latina alla prima (face re > fare) o alla
terza (di cere > dire).
Vediamo ora brevemente i principali tempi e modi, segnalando su-
bito che il dittongo -ie- proprio di molte forme verbali della quarta
latina si è ridotto ora a -/- (audiebat > udiva ecc.), ora a -e-

(dormiendo > dormendo).

3.5.2. Il presente indicativo La prima persona, come in latino, termi-


na in -0 in tutte e tre le coniugazioni (io canto, io leggo, io parto). I

verbi latini appartenenti alla seconda classe, uscente in -Éo, e alla


quarta (e alcuni della terza), in -io, hanno però sviluppato una 1)1

che è stata assorbita o ha modificato la consonante finale del tema


(video > veggio, *morio > muoio, e anche, per analogia, *voleo
> voglio, ma fugio > fuggo e sentio > sento).

La seconda persona termina in -/'


(tu canti, tu leggi, tu parti). In lati-

no la seconda persona usciva in -s e tale consonante (caduta nei


verbi della quarta: venis > vieni) sembra aver palatalizzato la voca-
le tematica delle prime due classi: si giustificano così vides > vedi
e amas > ame, forma attestata in italiano antico e poi sostituita da
ami per analogia con i tipi vedi e vieni.

La terza persona presenta, regolarmente, la terminazione in -a nella


prima coniugazione (ama < amat), in -e nella seconda e nella ter-

za (vede < viDET;parte > partit).


Molto importante storicamente è la forma della prima persona plu-
rale, che presenta per tutte le coniugazioni la desinenza -iamo. Dal
latino -amùs, -emùs e -imùs si sono avute, regolarmente, -amo,

92
-emo e -imo, rimaste vive nei dialetti. La forma -iamo è tipica del
fiorentino a partire dalla seconda metà del Duecento e costituisce
pertanto uno dei tratti che meglio esemplificano la fiorentinità del-
l'italiano; sembra modellata, attraverso una sorta di reazione a cate-
na di processi analogici, sulla desinenza derivata da quella dei con-
giuntivi latini della seconda (-eamus) e della quarta (-iamus), che
si estese anche alla prima (dove il latino aveva -emus) e passò agli
indicativi.

La seconda persona plurale, invece, ha mantenuto la distinzione lati-

na fra le tre forme: -ate < -atis nella prima (voi amate); -ete <
-étis nella seconda (voi vedete); -ite < -ìris nella terza (voi venite).
Più complessa la ricostruzione della forma di terza persona plurale
in -no, che è stata variamente spiegata. C'è chi, partendo dalla ter-

minazione latina in -nt (di -ant, -ent, -ùnt, -(i)ùnt), pensa a


una riduzione a -n e alla successiva aggiunta di una -o d'appoggio
(aman(t) > amano). C'è invece chi ipotizza una caduta di entram-
be le consonanti, cosicché, per evitare che la terza plurale fosse

identica alla terza (o alla prima) singolare (come è effettivamente


avvenuto in molti dialetti italiani), in Toscana fu aggiunta al plura-
le la terminazione in -no, tratta dalla forma dell'ausiliare essere: sono.

Questo -no è extrametrico, soggetto al rafforzamento sintattico

dopo basi monosillabiche (danno, stanno) e ha determinato assimi-


lazioni della vocale precedente nei verbi della seconda (vident >
vede(n) > vedono).
Per analogia con il presente, le terminazioni in -i della seconda per-
sona singolare e in -no della terza plurale furono estese a molti altri

tempi e modi.
Nei verbi in -ire si è estesa (e generalizzata ai verbi di nuova forma-
zione) la terminazione -isco, derivata dall'infisso -se- che il latino

usava con valore incoativo (per indicare cioè un'azione che inizia-
va): finio > finisco; tale terminazione, oltre che nelle tre persone
del singolare, si ha anche nella terza plurale.

Molti verbi (specie quelli di uso più frequente) hanno al presente

varie forme ridotte: so, sai e sanno (rispetto a sappiamo e sapete), fo

(accanto sfaccio), fai, fa, fate e fanno (ma facciamo) , vo (accanto a

vado), vai, va, vanno (ma qui andiamo e andate, al pari dell'infinito

93
»

andare, partono proprio da un'altra base) ecc. La desinenza in -i

della seconda persona, invece, ha prodotto alcune allomorfie nei


temi uscenti in velare (io vinco!tu vinci).

Per quanto riguarda gli ausiliari, molte forme di avere derivano da


forme ridottesi già nel latino volgare: habeo > *ao > ho; habes >
*aes > hai; habet > *aet > *at > ha; habent > *aent >
*ant > ha o han (poi hanno); sono regolari i passaggi habemus >
avemo (poi abbiamo); habetis > avete.

Per essere possiamo ricostruire la trafila seguente: sùm > són —


sono (con una -o di appoggio, analogica alla terminazione della pri-
ma persona degli altri verbi); *sés (sostituito al classico És, con s-

analogica sulla prima persona) > sei (ma è stato recentemente di-

mostrato che la i fu aggiunta posteriormente all'originario sé, inter-

pretatocome se); est > è; *sétis (invece del classico estis) > sie-
te; sùnt > són — » sono (per analogia con la prima persona). La for-

ma siamo si è invece sostituita a un più antico semo derivato dal pre-


sente congiuntivo sìmus. Nei testi toscani antichi troviamo anche
le forme di seconda e terza plurale sete ed énno (analogica sulla terza

singolare), mentre éi 'sei' o anche 'è'


compare in testi non toscani.

3.5.3. L'imperfetto indicativo Questo tempo continua il corrispon-


dente tempo latino, le cui desinenze -bam/-bas/-bat/-bamùs/
-BATÌs/-BANT, aggiunte alla vocale tematica (-a-, -e- e -1- < -ie-)
hanno dato origine, secondo la normale evoluzione fonetica, alle

forme italiane.

La forma di prima persona singolare terminava normalmente in -a\

io amava, io aveva, io sentiva. Tale desinenza, viva tuttora in molti


dialetti italiani, era la stessa della terza singolare (egli amava, egli

aveva, egli sentiva) e così, per distinguere meglio le due persone, nel
fiorentino, già alla fine del Trecento, fu estesa alla prima la termina-
zione in -0 del presente (io amavo, io avevo, io leggevo). La tradizio-

ne grammaticale italiana, basata sui modelli letterari trecenteschi,

impose la forma in -a alle scritture almeno fino all'Ottocento. Solo


dopo la scelta manzoniana per l'uso fiorentino contemporaneo la

desinenza in -0 si è generalizzata, soppiantando definitivamente la

terminazione in -a.

94
In tutte le forme della seconda e della terza coniugazione, -èva, -iva

ecc. si ridussero nel fiorentino trecentesco a -ea, -ia ecc.; la sincope


della Ivi, dovuta probabilmente a una dissimilazione verificatasi in

imperfetti come beveva, aveva ecc. si estese all'intero paradigma


{bevea, avea, credea, sentia, rimaste vive a lungo nella lingua lettera-

ria); poi però il modello della prima coniugazione, dove la riduzio-

ne non si era avuta (per evitare la sequenza di due /a/), influì sulle

altre due classi verbali, che ripristinarono la Ivi.

Mentre il verbo avere si presenta all'imperfetto del tutto regolare, il

verbo essere nelle tre persone singolari e nella terza plurale continua
le forme latine (éram, éras, érat, érant), con le già rilevate par-
ticolarità fonetiche (assenza di dittongamento) e morfologiche (so-

stituzione di -o invece di -a alla prima persona, terminazione in -i

alla seconda, in -no alla terza plurale); nelle prime due persone del
plurale, per analogia con gli altri imperfetti, si è avuto invece l'inse-

rimento di -va-: eramus > eravamo-, eratis > eravate.

3.5.4. Il passato remoto Si tratta del tempo morfologicamente più


complesso dell'indicativo. In latino il perfetto aggiungeva al tema
del presente una /w/ (ama-t/ama-v-it) o ne modificava la vocale
(facio/feci; vénit/vénit) o anche la consonante (mìtto/mIsi).
In italiano distinguiamo anzitutto tra i verbi che presentano nella
prima persona singolare e nella terza singolare e plurale, come si ve-

rifica sempre nelle altre persone, forme rizoatone e quelle che inve-
ce hanno forme rizotoniche, dette perfetti forti. Nel primo caso,

proprio dei verbi regolari derivati dalla prima e dalla quarta coniu-
gazione latina, possiamo ricostruire le seguenti trafile:

• ama(v)I > amai e audì(v)i > udii (la caduta di Ivi, che si ave-

va già nella quarta coniugazione del latino classico in audii si è

estesa per analogia alla prima coniugazione);


• ama(vi)sti > amasti e audi(vi)sti > udisti (con sincope di
/vi/ e ritrazione dell'accento);

• AMAV(I)T > AMAU(T) > amò e AUDIV(I)T > AUDIU(T) > udìo
—» la forma precedente);
udì (per analogia con
• ama(vi)mùs > amammo e audi(vi)mùs > udimmo (probabil-

mente con allungamento compensativo di Imi);

95
• ama(vi)stis > amaste e audi(vi)stis > udiste (con sincope di
/vi/ e ritrazione dell'accento);

• ama(ve)rùnt > ^mirawo e audi(ve)rùnt > udirono (con ac-


cento sulla terzultima attestato già nel latino parlato, sincope di /ve/
e solita terminazione in -no; quest'ultima, inoltre, determinò anche
la caduta della vocale precedente dando vita alle forme amarno e
amorno, da amorono, con dissimilazione vocalica, e udirno, frequen-
ti a Firenze specie fra Quattro e Cinquecento.
Su questo schema si sono modellate, abbandonando le basi latine,

non solo le forme di seconda persona singolare e plurale e di prima


persona plurale di tutti gli altri verbi (che quindi mostrano, in que-
ste persone, lo stesso tema del presente) ma anche alcuni verbi in
-ere (per esempio battere', battei, battesti, batteo —> batté, battemmo,
batteste, batterono).

Nel caso dei perfetti forti, spesso le forme italiane mantengono, alla

prima e alle terze persone, le variazioni tematiche proprie del latino

(ma la É di -érùnt si abbrevia, con ritrazione dell'accento). Abbia-


mo così, per esempio, feci, fece e fecero ( < feci, fécìt, fecé-
rùnt); dissi, disse( e dissero dixérùnt) ecc.; vidi,
< dixi, dIxìt,
vide e videro ( < vidi, vidìt, vidérùnt), diedi, diede, diedero
(< dédi, dédìt, dédérùnt; abbiamo però anche detti, dette e
dettero, per analogia con stetti) ecc.

Tra i perfetti forti latini, molti erano "sigmatici", cioè presentavano


prima delle desinenze delle persone, una Isl: misi, risi, scripsi,
dixi, vixi ecc.; questo tipo di perfetto non solo si è conservato

{misi, scrissi, diressi, vissi ecc.), ma si è esteso a molti altri verbi

(prehendit > *pre(n)si > presi; cucurri > *cursi > corsi;

legit > *lexi > lessi; volvi > *volsi > volsi ecc.). Altri perfetti

forti latini avevano la terminazione in -ui (tacui, placui, volui);


anche questa terminazione si è per lo più mantenuta {tacqui, piac-

qui, volli; ma. parvi < parui), estendendosi anche ad altre forme,
con la /w/ che ha in genere provocato il raddoppiamento della con-

sonante tematica): veni > *venui > venni; *stétù! (forma del
latino volgare in luogo del classico steti) > stetti, su cui si sono
modellati *sepui (invece di sapii o sapui) > seppi e *hebui (inve-

ce di habui) > ebbi (a sua volta possibile modello per crebbi; rara

96
la forma ridotta ei) ecc. Per analogia con stetti, molti verbi in -ere
hanno sviluppato, alla prima singolare e alle terze persone, in alter-
nativa a -eil-el-erono, le desinenze -ettil-ettel-ettew. dovetti (in luogo
del classico debui), godette, credettero.
Le terze persone plurali dei perfetti forti sono in -ero {fecero, seppero,
ebbero), ma nel corso del Trecento la terminazione -no si sostituì

anche a questa desinenza (feceno ofeciono, ebbono) o talvolta si ag-


giunse a essa (preserono), senza peraltro riuscire a soppiantarla.
Il passato remoto del verbo essere, infine, presenta le seguenti forme:
fu! > fui; fù(i)stì > fosti; fùit > fu (per influsso della prima
persona; è attestato anticamente anche foe ofo); fù(i)mus > fum-
mo; fù(i)stis >. foste; fù(e)rùnt > furo, poi furono (con la solita
aggiunta di -no; è attestato anche fioro).

3.5.5. Il futuro e il condizionale Come abbiamo già accennato, le


forme di futuro del latino classico non ebbero continuazioni nel
mondo romanzo. Per spiegare il fenomeno sono state invocate so-

prattutto cause d'ordine fonetico e morfologico: le forme in -bo/


-bis ecc. della prima e della seconda coniugazione, in seguito all'e-

sito Ibi > Ivi, avrebbero potuto confondersi con quelle del perfet-
to o dell'imperfetto; quelle in -am/-es della terza e della quarta con
forme del presente indicativo o congiuntivo. Il futuro italiano,
come quello di molte altre lingue romanze, ha origine perifrastica: è
costituito dall'infinito (apocopato della /e/) seguito dalle forme ri-

dotte del presente di habere (stare habeo lett. 'ho da stare' >
stare *ao > starò), che sono diventate morfemi legati al verbo (-ò,

-ai, -à, -emo, -ete, -anno). In questo caso da un paradigma origina-

riamente analitico sono dunque derivate forme Resse.


Dal punto di vista fonetico, nella prima coniugazione 17a/ dell'infi-
nito è generalmente passata a /e/: amerò, canterai ecc.; nella seconda
e terza la vocale tematica (la /e/ o la HI) dell'infinito è talvolta cadu-
ta, determinando anche assimilazioni consonantiche (avrò, morrà,

rimarrai, verrete ecc.). Il futuro di essere (sarò, sarai ecc.), infine, è

molto probabilmente modellato su quello di stare; la forma antica e

letteraria yztf 'sarà' deriva da fiet, futuro di fio 'diventare'.

Il condizionale è un modo sconosciuto al latino e costituisce dun-


que un'innovazione romanza. Il condizionale del toscano, e poi del-

97
l'italiano, è perifrastico ed è costituito dall'infinito seguito dalle for-
me (ridotte nelle prime due persone ha- sing. e pi.) del perfetto di

bere (stare habui lett. 'ebbi a stare' > stare *hebui > stare
ei > starei), che hanno formato le desinenze -ei, -esti, -ebbe, -emmo,

-este, -ebbero. E evidente la somiglianza con il futuro (col quale il

condizionale condivide alcune particolarità fonomorfologiche:


amerei, avresti, verrebbe, saremmo ecc.); del resto il condizionale
sembra caratterizzarsi anzitutto come futuro del passato.

La lingua poetica conosce, almeno fino all'Ottocento, anche un'altra forma di condizio-

nale: quella in -/'a ( saria 'sarei, sarebbe', potrieno 'potrebbero' ecc.). Questo condiziona-

le è derivato dall'infinito seguito dalle forme ridotte dell'imperfetto di habere. Possiamo

ricostruirne l'esito: dare habebam lett. avevo da dare' > dare *ea > darea (attestato in

Guittone d'Arezzo) > darla (per chiusura in iato o, più probabilmente, per influsso del

vocalismo dei poeti siciliani, che peraltro avevano probabilmente mutuato questa for-

ma dal provenzale). In siciliano, come in altri dialetti del Meridione, è diffuso infatti un

altro tipo di condizionale, formato dal piuccheperfetto indicativo latino: canta(ve)ram >

cantera, fù(e)rat > fora, che ha lasciato anch'esso qualche traccia nell'uso letterario,

specie antico.

3.5.6. Il congiuntivo presente e imperfetto II congiuntivo presente


italiano continua le forme latine; cadute le consonanti finali, al sin-

golare manca la distinzione di persona: abbiamo così la desinenza

in -a ( < -eam, -am, -iam) per la seconda e la terza coniugazione (la

seconda persona singolare era originariamente in -e per l'azione pa-


latalizzante di -s), mentre la prima coniugazione ha la desinenza in
-/, sviluppatasi da un originario -e ( < -em: amet > ame —> ami)
per analogia sulla seconda persona (dove la -/'
si spiega ancora come
palatalizzazione da -s). A queste terminazioni la terza plurale ag-
giunge il solito -no {vadano, amino).
Le desinenze -eam, -iam hanno determinato, come nel presente in-

dicativo, lo sviluppo di 1)1 palatalizzante con conseguente varietà di

forme etimologiche o analogiche: videat > veggia, vegga o veda-,

valeat > vaglia o valga ecc.


Nella prima e nella seconda persona plurale sono state generalizza-
te a tutte le coniugazioni e anche al verbo essere le desinenze -iamo
( < -eamùs, -iamùs), poi estesa, come si è visto, anche all'indicati-

98
vo, e -iate ( < -eatìs, -iatìs): amiamo, amiate, siamo, siate ecc. Nel
verbo essere anche le forme del latino classico sim, sis, sit, sint fu-
rono sostituite da quelle, analogiche, *siam, *sias, *siat, *siant,

da cui (dopo la chiusura in iato) sia, sie (poi uniformatosi alle altre
persone singolari), sia, sian(o) (anticamente anche sierici).

Al posto del congiuntivo imperfetto latino (amarem, viderem,


legerem, audirem): l'italiano ha utilizzato le forme del piucche-
perfetto (-issem, -isses ecc.), applicate però non ai temi del perfet-
to, ma a quelli del presente (da fecisset non *fecesse ma. facesse) e
dunque, nella prima coniugazione, con sincope di -vi- e ritrazione
d'accento: ama(vi)sset > amasse. Troviamo la -i non solo alla se-
conda persona, ma anche alla prima, per analogia sulla seconda o
anche sulla prima del passato remoto, sulle cui terminazioni si sono
modellate pure la seconda (che è anzi formalmente identica) e la

terza persona plurale. Nel verbo essere si è avuta la sincope della i:

fù(i)ssem > fossi ecc. La forma fusse, propria di molti dialetti, ma


documentata anticamente pure in Toscana, è stata spiegata per ana-
logia confa.

3.5.7. L'imperativo Le forme italiane derivano dalle corrispondenti


latine: ama amate > amate-, vidéte > vedete (e, per ana-
> ama-,
logia, leggete < *legéte < legite); audi > odi; audIte > udite.
Le forme vide > vedi e legé > leggi si spiegano per analogia con
odi e con il presente indicativo. Si sono conservati gli imperativi ir-
regolari latini Die > di' e fàc > fa'; su questi (e sui regolari sta' <
sta e da' < da) sembra essersi modellato va' ( < vade).

Nel caso di d/" l'apostrofo serve solo a distinguere l'imperativo di dire da dì giorno' e

dalla preposizione di; le grafie fa', sta', da' e va', invece, si possono giustificare anche

come riduzione del dittongo nelle forme fai, stai, dai e vai: si tratta di un'estensione al-

l'imperativo della seconda persona dell'indicativo, avvenuta a Firenze in epoca moder-

na e accolta nell'italiano contemporaneo.

Diverso è il caso dell'imperativo negativo di seconda persona, che


in latino era formato con ne + congiuntivo perfetto o con noli +
infinito: in italiano si costruisce con non + infinito {non fare), for-
ma documentata già in testi tardolatini.

99
3-58. Il participio presente e il gerundio II participio presente latino
ha perso in italiano la propria funzione verbale (recuperata nella
lingua letteraria e tuttora possibile in registri molto formali) e ha as-
sunto invece valore aggettivale, spesso sostantivato. Come nomi i e
deriva al singolare dalla forma dell'accusativo: aman-
gli aggettivi,

tem/-es > amantel-i; potentem/-es > potentel-i-, oboedien-


tem/-es > obbediente!-i.
Del gerundio, che in latino costituiva la "declinazione" dell'infini-
to, si è conservata la forma del dativo e ablativo in -o (amando
'con l'amare' > amando-, legendo 'col leggere' > leggendo-, dor-
miendo > dormendo), con nuovi valori sintattici. In italiano anti-
co sono diffusi alcuni gerundi derivati dal presente congiuntivo,
come /accendo, che parte da (che io) faccia.

3.5.9. Il participio passato Si tratta di una forma verbale che in ita-


liano è molto importante perché, come si è accennato, si utilizza,

insieme agli ausiliari, nei tempi composti e nella forma passiva: si

spiega anche per questo come l'italiano abbia provvisto di partici-


pio passato anche molti verbi latini che ne erano privi (in latino
questo participio aveva solo valore passivo). In combinazione con
l'ausiliare essere (o nell'uso assoluto), il participio passato presenta
l'accordo di genere e di numero col soggetto (le sue desinenze
sono -ol-al-il-e)-, col verbo avere, in determinati casi, si accorda al-

l'oggetto.
Dal punto di vista morfologico, questo participio mostra caratteri-

stiche simili a quelle del passato remoto, perché presenta sia forme
rizotoniche sia forme rizoatone. Queste ultime, proprie dei verbi
regolari, si ottengono con l'aggiunta al tema del presente delle desi-
nenze -ato, -ito e -uto (derivate dalle corrispondenti forme latine:
amàtum > amato-, auditum > udito-, fùtutum > fottuto)-, l'ulti-
ma desinenza ha preso posto del latino -itum nei verbi della se-
il

conda coniugazione che avevano il perfetto in -ui (habìtum >


*HABUTUM > avuto; DEBÌTUM > *DEBÙTUM > dovuto) e poi SÌ è
estesa a molti verbi in -ere {veduto, cresciuto ecc.) e anche in -ire {ve-

nuto, ant. feruto). Queste stesse desinenze hanno formato anche


participi non esistenti in latino, come stato, voluto, potuto, saputo,

l'antico (es)suto (participio di essere, poi sostituito da stato).

100
Le forme rizotoniche muovono invece dai participi latini in -tum
(factum > fatto; lectum > letto; dictum > detto; scriptum >
scritto ecc.) e da quelle "sigmatiche" latine in-suM(MissuM >
messo; prehensum > preso ecc.), ulteriormente estese {mosso, par-
so, perso accanto sperduto).
Tra gli altri participi sono da ricordare almeno nato ( < natum),
morto ( < mortuum, con dileguo di /w/), vinto ( < victum, dove
la Ini si spiega per analogia col resto del paradigma vinco, vincere).
Le numerose forme sincopate in -sto derivano da -situm, con sin-

cope vocalica (quaes(i)tum > chiesto; pos(i)tum > posto), o sono


analogiche {visto, rimasto, ma anticamente c'è anche rimaso). Anche
altri participi latini in -éctum e in -utum si presentano sincopati
(COL(LEC)TUM > Colto; POR(REC)TUM > porto; VOL(U)TUM >
vòlto).

I participi in -uto erano anticamente più estesi, come nei dialetti meridionali. L'antico

toscano sviluppò inoltre, nella prima coniugazione, alcune forme accorciate di partici-

pio passato probabilmente analogiche sulle forme rizotoniche, come trovo 'trovato',

cerco 'cercato' ecc.; alcuni di essi sono tuttora usati, col solo valore aggettivale: tócco

'toccato, sciocco', guasto, desto.

3.6. Preposizioni e avverbi Come si è detto all'inizio, l'italia-


no ha sviluppato l'uso delle preposizioni al posto del sistema dei

casi del latino classico. Delle preposizioni del latino classico sono
state conservate ad > a, de > de —» di; cùm > con; in > en —> in;
per > per; sùpra > sopra; cóntra > contra —> contro; intra >

tra; infra > fra; sùbtus > sotto ecc. Non hanno invece continua-
tori e(x) 'da', ob e propter 'a causa di', prò 'in favore di', sub
'sotto' ecc. Molte altre preposizioni italiane si sono inoltre formate
combinando una o più preposizioni latine: è il caso di da { < de ab
e forse il moto
anche de ad, quando indica a luogo: vieni da me),
dopo {de post), davanti {< de ab ante), dinanzi (de in *an-
<
teis), dietro { < de rétro) ecc. Altre derivano, con particolari slit-
tamenti semantici, da avverbi, aggettivi o nomi latini, come fuori
{ < fòrIs 'fuori'), presso { < presse 'strettamente'), vicino { < VI-

cinum 'dello stesso villaggio'), senza { < (ab)sentia 'in mancan-

ti
za') ecc. Altre preposizioni ancora derivano da locuzioni italiane
formate da preposizione + nome {accanto da a + canto ecc.).
Per quanto riguarda gli avverbi, segnaliamo anzitutto quelli di luo-
go: da (il)lIc e (il)làc derivano lì e là, e anche coli e colà, composti
con *(ec)cù(m), che con ìstic e ìstàc ha formato costì e costà,

propri solo dell'uso toscano. Altri composti avverbiali con *(ec)-


cù(m) sono qui < *(ec)cù(m) (h)ic, qua < *(ec)cù(m) (h)àc, qui-
vi < *(ec)cù(m) ibi, così < *eccù(m) sic. Da *eccùm si è avuto

anche ecco, considerato anch'esso avverbio, ma che ha la particolari-


tà di combinarsi anche con pronomi clitici {eccomi, eccola). All'esito
di sùrsùm > suso —» su (anche preposizione) corrisponde quello
dell'opposto deórsùm > gioso —» giuso —» giù.
Molti avverbi di tempo latini si continuano in italiano: semper >
sempre-, iam > già, hérI > ieri, sul cui vocalismo finale si sono
modellati oggi < hòdìé e domani < de mane, in origine 'di matti-

na'; anticamente era conservato e ras > crai (con vocalizzazione di


-s), vivo in molte aree dialettali; valore avverbiale hanno assunto
anche l'ablativo hórà > ora e le locuzioni hanc hòram > ancora
e ad (ìl)là(m) hòram > allora. Da magis 'più' deriva mai.
Degli avverbi derivati da aggettivi, le desinenze avverbiali latine -É e
-iter in genere non hanno avuto continuatori (ma pure 'pura-
mente' è diventato congiunzione); come del resto già avveniva spes-
so nel latino classico, un valore avverbiale si è sviluppato dal neutro
(multum > molto-, paucum > poco; tantum > tanto; solum >
solo ecc.). Molti avverbi sono stati formati poi con aggettivi femmi-
nili seguiti da mente, ablativo di mens (laeta mente 'con mente
lieta', con riferimento a esseri animati), che come si è detto, finì col
grammaticalizzarsi, combinandosi con tutti gli altri aggettivi {sola-

mente, lungamente) e perdendo il riferimento a esseri umani.

Nell'italiano antico e nella lingua letteraria almeno fino al Cinquecento, la forma non

era del tutto grammaticalizzata: a due aggettivi coordinati poteva legarsi un solo men-

te: villana ed aspramente Novellino).


(

3J. Interiezioni e ideofoni Queste due parti del discorso sono


un po' ai margini del linguaggio. Si tratta di elementi grammaticali
che hanno per lo più valore olofrastico, possono cioè avere il signifi-

102
cato di un'intera frase, e che in genere non derivano dal latino.
Hanno matrice latina l'affermazione sì < sic 'così', propria dell'in-
tera area italiana, e la negazione no <— non < non.
Gli ideofoni, che imitano rumori, sono pure onomatopee (din); le

interiezioni hanno piuttosto origine espressiva (ahi!) o derivano da


altre parti del discorso usate con valore esclamativo (bene!, già!).
Molte interiezioni figurano già nei testi antichi; tipiche del linguag-
gio letterario sono deh!, gnaffe! (<— mia fé 'in fede mia', voce fioren-
tina), ohibò!

Per riassumere...

• In questo capitolo si è esaminata dal punto di vista storico la morfolo-


gia flessiva dell'italiano, presentando le varie parti del discorso.

• Al pari di altre lingue romanze, l'italiano ha ridotto il complesso siste-

ma desinenziale latino orientandosi verso una morfologia di tipo isolante.

Così, nei nomi, sono state segnalate la riduzione delle declinazioni, la per-

dita del neutro e, soprattutto, quella del sistema dei casi; l'opposizione

morfologica si limita a singolare (per lo più derivato dall'accusativo latino)

e plurale (la cui origine è più dibattuta).

• All'interno della stessa tendenza analitica sono stati fatti rientrare gli

articoli, sconosciuti al latino classico, e i pronomi, dove però il sistema ca-


suale non si è perso del tutto, specie tra i pronomi personali; qui si sono
prodotte, accanto alle forme toniche, anche forme atone (i clitici).

• Nell'ambito della morfologia verbale, è stata rilevata una generale


semplificazione dei paradigmi, anche in seguito a numerosi processi ana-
logici, oltre allo sviluppo di forme perifrastiche, dunque anche qui di tipo

analitico: i tempi composti, la diatesi passiva, originariamente anche il

nuovo futuro e il modo condizionale, sconosciuto al latino. L'allomorfìa


verbale resta peraltro piuttosto ricca. La trattazione si è soffermata su al-

cune forme particolarmente interessanti (la desinenza -iamo per la prima

persona plurale del presente; la terminazione -no per la terza persona plu-

rale di vari modi e tempi ecc.).

• Più velocemente sono stati presentati i numerali e, alla fine, alcune

parti invariabili del discorso: le preposizioni, divenute centrali sul piano

sintattico in seguito alla perdita dei casi, gli avverbi, le interiezioni.

103
4. I principali aspetti della sintassi

Proporre un profilo storico, per quanto schematico, della sintassi

dal latino all'italiano o anche della sola sintassi italiana sarebbe im-
presa impossibile. In questo capitolo ci limitiamo perciò ad affron-
tare dal punto di vista storico solo pochi aspetti sintattici essenziali.

4.1. Aspetti della frase semplice

4.1.1. L'ordine delle parole II latino classico, grazie alla sua ricchez-
za morfologica, poteva disporre le parole all'interno della frase con
grande libertà: le desinenze permettevano infatti facilmente di rico-
struire i rapporti sintattici, stabilendo quale elemento svolgesse la
funzione di soggetto, quale di complemento ecc. Se, limitandoci a
esaminare i rapporti tra il verbo, il soggetto e il complemento og-
getto, prendiamo una frase significante 'Mario vide Claudio', la

sua espressione in latino poteva essere, a seconda dei contesti e sen-


marius vidit claudium o
za sostanziali differenze di significato,
MARIUS CLAUDIUM VIDIT O CLAUDIUM VIDIT MARIUS O CLAU-
DIUM MARIUS VIDIT O VIDIT CLAUDIUM MARIUS O VIDIT MA-
RIUS claudium. Di solito, tuttavia, il verbo era posto alla fine del-
la frase.

Nel latino volgare, con il collasso dei casi, la posizione delle parole

acquistò invece un ruolo essenziale per stabilire i legami sintattici: il

soggetto andò a occupare la posizione prima del verbo per distin-


guersi chiaramente dal complemento oggetto, posto dopo il verbo,
secondo il modello detto svo (Soggetto- Verbo-Oggetto), comune
a gran parte delle lingue romanze, compreso l'italiano. Nella frase
italiana (o meglio nel nucleo della frase, costituito dal verbo e dagli
elementi che ne completano il come il soggetto e com-
significato, i

plementi direttamente legati al svo è tuttora quello


verbo) l'ordine
più frequente (è detto infatti ordine normale o non marcato). Il
soggetto viene infatti solitamente premesso al verbo (anche nel caso
di verbi intransitivi o con oggetto non espresso), come negli esempi

seguenti: "Pietro guarda Maria negli occhi", "Il capitano diede l'or-

104
dine ai soldati", "Giovanni è partito", "Francesco va a Roma tutti i

giorni".
Rispetto alle altre lingue, però, l'italiano ha mantenuto (o forse
piuttosto ha recuperato) una maggiore libertà nell'ordine delle pa-

role, dipendente dalla funzione che i diversi elementi svolgono al-

l'interno del discorso: l'italiano tende infatti, come si dice, a co-

struire "da sinistra", ponendo ad apertura di frase gli elementi "te-

matici" (presenti già nel contesto precedente o dati dal contesto si-

tuazionale) e poi quelli "rematici", portatori di informazioni nuo-


ve. La frase semplice italiana può infatti essere aperta anche dal ver-
bo a cui è posposto il soggetto oppure da un complemento indiret-

to, se questi costituiscono il punto di partenza dell'informazione:

"E arrivato Giovanni", "A Francesco nessuno ha detto nulla".


In italiano antico, e poi a lungo nell'uso letterario, anche il comple-
mento oggetto può essere anteposto al verbo, almeno nei casi in cui
non c'è il rischio di ambiguità semantica: "Abele uccise Caino", "I
denari restituì la donna ai creditori".
Nell'italiano di oggi l'oggetto diretto anteposto, se ha valore "tema-
tico", viene normalmente ripreso da un pronome clitico, tanto che,
se non si ha la ripresa pronominale, esso va considerato un elemen-
to nuovo, messo in rilievo, come dimostra la differenza tra "La car-
ne l'ha mangiata il gatto" e "La carne ha mangiato il gatto" (e non
il riso preparato per lui).

Nell'italiano parlato ogni complemento anteposto viene ripreso da

un clitico (è il fenomeno della dislocazione a sinistra) ed è possibile

anche anticipare con un clitico il complemento in posizione post-

verbale {dislocazione a destra): "L'ha mangiata il gatto, la carne .

In italiano antico costruzioni del genere sono documentate: una di-


slocazione a sinistra è presente, sia pure in una subordinata, nel pri-

mo documento datato dell'area italiana, il Placito capuano del 960:

«Sao co kelle terre [...] le possette parte Sancti Benedica» ('So che
quelle terre [...] le possedette la parte di S. Benedetto'). La ripresa
non era però obbligatoria anche se l'oggetto aveva valore di
clitica

tema, come nell'esempio seguente: «La terra tengono li cristiani» (//


Milione). Questa era anzi la costruzione più frequente in italiano
antico, che tendeva, nelle frasi principali, a porre il verbo in secon-

105
da posizione, dopo il soggetto o, eventualmente, l'oggetto. Tale co-
struzione è rimasta in uso nella lingua letteraria.
L'italiano scritto tradizionale ha inoltre seguito spesso (soprattutto
dal Boccaccio in poi) il latino nella disposizione delle parole, collo-
cando per esempio il verbo alla fine della frase l'ausiliare dopo il

participio e il modale dopo l'infinito, come negli esempi seguenti:


«Tito [...] ogni cosa sentiva e con gran noia sosteneva» {Decame-
ron)', «Messere, io lavato l'hoe [= l'ho]» {Novellino); «con quegli
piaceri che aver poteano» {Decameron).

4.1.2. L'espressione del pronome soggetto II latino non era tenuto a


premettere al verbo i pronomi personali soggetti, se non in partico-

lari contesti sintattici o con specifici valori stilistici, anche perché la

ricca flessione verbale già da sola distingueva le varie persone. In


molte lingue e dialetti romanzi, come il francese e i dialetti setten-

trionali italiani, l'espressione del soggetto è invece diventata obbli-

gatoria. L'italiano presenta la stessa caratteristica del latino classico,

ma recentemente è stato dimostrato che la "cancellazione" del pro-


nome soggetto costituisce uno sviluppo interno della nostra lingua

e non un caso di diretta derivazione dal latino: nei testi toscani anti-
chi il pronome soggetto tende infatti all'obbligatorietà, propria del

fiorentino moderno (che ha sviluppato anche l'uso dei pronomi


soggetti clitici): «Voi sapete bene che voi foste figliuolo del cotale

padre» {Novellino).
Anticamente, inoltre, il soggetto era necessariamente espresso nella
frase interrogativa, dove andava a porsi dopo il verbo: «Dunque hai
tu patito disagio di denari? o perché non me ne richiedevi tu?»
{Decameron).
Nell'italiano contemporaneo, invece, la frase interrogativa si rico-

nosce anche solo dalla diversa intonazione rispetto alla frase affer-

mativa (e, nello scritto, dal punto interrogativo, il cui uso si svilup-

pò e si diffuse solo con la stampa).


Particolarmente complessa è inoltre la storia dei pronomi di terza

persona: le forme oblique lui, lei e loro, originariamente riservate ai

complementi, già nel corso del Trecento si andarono diffondendo


(soprattutto in certe posizioni sintattiche e con valori particolari di

106
tema o di rema) anche come soggetti, a spese di egli, ella ecc.; furo-
no però a lungo evitati nelle scritture in seguito alle indicazioni dei

grammatici, che volevano che si mantenesse l'uso dei grandi trecen-


tisti; una svolta decisiva si ebbe anche in questo caso col Manzoni,
che adottò questa forma nel testo definitivo dei Promessi Sposi.

4.1.3. La posizione dei clitici Presentano notevoli particolarità sin-


tattiche, anche in prospettiva storica, i pronomi atoni. Nell'italiano

moderno, essi seguono obbligatoriamente il verbo (enclitici) solo

nelle forme infinite e nell'imperativo {andarsene, presala per mano,


vedendoti, fammi un piacere, ditelo-, nell'imperativo negativo accan-
to a non farlo! si può avere non lo fare!), altrimenti lo precedono
(proclitici): ti dico, lo sai ecc. Anticamente la situazione era diffe-
rente e, in particolare, vigeva la legge Tobler-Mussafia (così detta

dagli studiosi, A. Tobler e A. Mussafia, che per primi la individua-


rono, rispettivamente nel francese antico e nell'italiano antico), se-
condo la quale i non possono trovarsi ad apertura di
pronomi clitici

frase (non Ti prego ma Priegoti), né dopo le congiunzioni e e ma {e

dissegli), né all'inizio di una principale preceduta da una subordina-

ta («s'io non rivenisse, dara'li = li darai] per l'anima mia», Novel-


[

lino).

In realtà la legge Tobler-Mussafia non veniva applicata rigidamente neppure in italiano

antico (specie dopo e, ma e la subordinata) e le eccezioni, anche nello scritto, divenne-

ro sempre più abbondanti. Tuttavia i testi letterari, per ossequio alla tradizione, conti-

nuarono ad applicarla e anzi la estesero anche ad altri contesti. Resta come relitto nel-

l'italiano contemporaneo nell'uso burocratico (leggasi, così dicasi) e scientifico {come

volevasi dimostrare) e, per motivi "economici", anche in quello commerciale (affìttasi,

Vendesi, cercasi). Nel linguaggio poetico si è invece sviluppato, a partire dal secolo xvn,

il cosiddetto imperativo tragico, che prevede anche con questo modo il pronome in po-

sizione proclitica: Mi parla! 'parlami'.

Un mutamento si è avuto anche nella posizione dei clitici tra loro

combinati. Nel fiorentino duecentesco il complemento oggetto


precedeva il complemento indiretto (lo mi) e tale ordine è seguito
anche da Dante. Poi si sviluppò l'ordine opposto (me lo: si noti che

107
in questa combinazione la li/ passa a /e/), documentato, accanto al-

l'altro, nel Boccaccio e destinato a prevalere.

4.1.4. Altre particolarità Se ci riferiamo ad altre strutture sintattiche


più specifiche, troviamo ancora differenze tra italiano antico e ita-

liano moderno.
Gli articoli determinativi, per esempio, in italiano antico non si

usavano, di norma, prima dei possessivi anteposti al nome (dove


sono poi diventati quasi sempre obbligatori: mio nome invece che il

mio nome), dopo tutto {tutta notte invece di tutta la notte), davanti a

nomi astratti («libertà va cercando», Dante), a volte anche davanti a


quale relativo («il cammino [...] per qual io vado», Dante) mentre si

usava la preposizione articolata invece del semplice di per il com-


plemento di materia (la corona dell'oro e non d'oro).

Per quello che riguarda l'accordo sintattico, infine, in italiano anti-


co è spesso ammesso un verbo al singolare con un successivo sog-
getto plurale («fu fatto beffe di loro», Sacchetti); anche il participio
passato resta spesso invariabile se retto dall'ausiliare essere («altra di
lei non è rimaso speme», Petrarca), mentre se è retto dall'ausiliare

avere si accorda con il complemento oggetto più spesso che non


nell'uso moderno.

4.2. Aspetti di sintassi del periodo

4.2.1. Coordinazione e subordinazione Le frasi possono congiungersi


tra loro in periodi più complessi mediante rapporti di coordinazio-
ne o di subordinazione: nel primo caso si parla di paratassi e nel pe-
riodo vengono accostate due o più frasi tra loro sintatticamente in-
dipendenti, per lo più legate con congiunzioni coordinanti (come
in italiano e, ma, poi ecc.); nel secondo di ipotassi e il periodo è co-
stituito da una frase indipendente (la reggente o principale) e una o
più frasi subordinate (o secondarie o dipendenti), legate alla princi-

pale, o a una dipendente sovraordinata, grazie a congiunzioni sub-


ordinanti, che danno alla frase valori diversi (temporale, causale, fi-

nale, ipotetico, concessivo ecc., come in italiano quando, mentre,


perché, poiché, se, sebbene ecc.), o in altro modo; le subordinate pos-
sono essere esplicite o implicite 2. seconda che il loro verbo sia di

108
modo finito o indefinito. Il latino classico faceva largo ricorso all'i-

potassi e amava anzi periodi architettonicamente complessi, dove


spesso le frasi subordinate, anteposte e posposte alla principale, reg-

gevano a loro volta altre frasi subordinate. Naturalmente nel latino


volgare strutture del genere non potevano essere contemplate:

come avviene in generale nella lingua parlata, nel latino volgare la

coordinazione era largamente preferita alla subordinazione, struttu-


ra che è più funzionale alla lingua scritta. Gran parte delle comples-
se strutture subordinative latine andarono perdute e le frasi dipen-

denti vennero in ogni caso preferibilmente posposte alla principale.


La sintassi del periodo propria del latino volgare (e delle lingue da
questo derivate) subì insomma un processo di semplificazione,
come risulta anche nei primi testi prosastici in volgare, fino al
Duecento.
Man mano che le lingue romanze si costituirono come lingue scrit-
te recuperarono varie strutture di subordinazione. L'italiano, in
particolare, proprio perché ha avuto per secoli un uso prevalente-
mente scritto, ha adottato ampiamente l'ipotassi e anche per questo
riguardo la lingua della nostra tradizione letteraria si è allontanata

dal parlato più che non quella di altre lingue, come il francese.

4.2.2. Perdita dell'infinitiva e di varie congiunzioni latine Tra le frasi

subordinate del latino, particolarmente frequente è la costruzione


infinitiva (accusativo + infinito), usata per introdurre, dopo verbi

come dicere, narrare, videre, sentire ecc., una subordinata


con valore dichiarativo. Con certi verbi e in certi contesti, però, il

latino classico poteva optare per una subordinata con il verbo all'in-

dicativo, introdotta da quod o da quia. Questo costrutto è l'unico


che sopravvive nel latino volgare e passa alle lingue romanze, com-
preso l'italiano, dove frasi del genere sono introdotte da che, la cui

origine etimologica è peraltro discussa: c'è chi pensa a una diretta

derivazione da quì(a), chi lo fa risalire a qui(d), come il pronome


relativo, ipotizzando che la congiunzione, il relativo e l'interrogati-

vo, già etimologicamente legati tra loro, si siano sovrapposti e con-


fusi nel latino volgare. A una frase latina come dico te bonum
esse corrisponde in italiano dico che tu sei buono.

109
Il costrutto accusativo con infinito (introdotto da di) è possibile in italiano solo con

identità di soggetto ( dico di essere buono; diversa è la struttura sintattica di frasi come
ti chiedo di andare); con soggetto diverso ( dico te essere buono) è attestato, almeno a

partire dal Trecento, ma oggi risulta molto arcaico. Nei testi antichi si ha a volte l'ellissi

del che, possibile in italiano moderno solo se il verbo della subordinata è al congiunti-

vo ( credo sia ormai arrivato), a volte la sua ripetizione dopo un inciso.

Molte congiunzioni latine non hanno avuto continuatori, né in ita-

liano, né nelle altre lingue romanze: tra quelle coordinanti (che


congiungono non solo frasi, ma anche elementi all'interno della
stessa frase) si sono conservate et > e, aut > o, nec > né, post >
poi,ma non ac, l'enclitico -QUE, vel, autem e sed (il valore avver-
sativo è passato a ma < magis 'più'), etiam (che però ha formato
l'arcaico eziandio 'anche'); alcune sono tratte da avverbi, con tra-

passi semantici particolari, come pure


pure 'puramente, sincera- <
mente'. Tra le congiunzioni subordinanti hanno resistito l'ipotetica
si > se (ma non nei composti), la comparativa quomo(do) (et) >

corno, come, e la temporale quando, ma non cum {con è solo pre-

posizione) né dum, né la finale ut, né la concessiva quamquam,


né le tante altre congiunzioni del latino classico.
I diversi valori subordinanti sono stati però recuperati da una parte
adoperando alcune preposizioni {a, di, per, dopo) con verbi all'infi-

nito in subordinate implicite, dall'altra grazie a nuove locuzioni


formate soprattutto con che, il quale, da parte sua, ha assunto anche
il valore di subordinante generico, con valore causale o esplicativo
(e in tal caso viene spesso accentato: «mi ritrovai per una selva oscu-
ra, / chèla diritta via era smarrita», Dante). Molte di queste locuzio-
ni si sono ben presto grammaticalizzate: perché, poiché, giacché, (co)-

sicché, (afìfinché, acciocché, benché, purché e anche perocché, concios-


siacosaché ecc., ormai uscite dall'uso; non si sono invece univerbate
dopo che e dal momento che.

In italiano una subordinata con valore temporale, causale o altro, può essere introdotta

da un gerundio, riferito allo stesso soggetto della principale ( Mario, partendo alle sette

di mattina, arriverà in tempo) o a un soggetto diverso espresso (Regnando Carlo Ma-

gno, in Italia avvennero nuovi fatti). In italiano antico il gerundio aveva inoltre un più

spiccato valore aggettivale, simile al participio presente.

110
4.2.3. La frase relativa La frase subordinata più frequente, in ogni
lingua, è la relativa, legata un singolo elemento, nominale o pro-
a
nominale, della reggente. Dei pronomi relativi latini passati all'ita-
liano abbiamo già trattato in morfologia. Possiamo aggiungere che
in italiano antico la forma che poteva trovarsi al posto di cui, sia

dopo preposizione (di che, in che), sia sostituendo l'intero gruppo


della preposizione + cui, per esempio con valore temporale (dove
del resto è ammesso anche nell'italiano standard moderno): «Era
già l'ora che volge il disio» (Dante); partitivo: «sono fratelli carnali,
che l'uno ha nome Baia e l'altro Manga» (Il Milione)', locativo:

«Questa vita terrena è quasi un prato, / che '1 serpente tra' fiori et

l'erba giace» (Petrarca). Ciò avveniva, in particolare, quando l'ele-

mento della principale a cui è legata la relativa era preceduto dalla


stessa preposizione che doveva precedere cui.

Il che invece di preposizione + cui, che viene definito "polivalen-


te", può essere anche seguito da un pronome clitico (che ne, che ci,

perfino che lo per il complemento oggetto, come nel dantesco «om-


bre [...], / ch'amor di nostra vita dipartille»). Questo tipo di relativa

si ritrova, dopo la codificazione grammaticale, solo in scritture po-


polari, ma oggi è in espansione, soprattutto nel parlato informale.
Si tratta di un'altra tendenza analitica contrapposta alla struttura

flessiva (che/cui), che ha precedenti già nel latino tardo.


In italiano antico, ma solo alla fine del Trecento e soprattutto nel
Quattrocento, era possibile anche l'ellissi del che relativo («quello
ardire ebbe lui [ = che ebbe lui]», Sacchetti), che poi non ha attec-

chito.

4.2.4. La paraipotassi In italiano antico i confini tra coordinazione


e subordinazione erano più sfumati. In particolare, se una subordi-
nata, esplicita o implicita, precedeva la principale (posizione che
era, se non poco frequente, certo poco naturale), questa poteva es-
sere introdotta da e o da sì. Si parla allora di paraipotassi, un costrut-
to molto diffuso nella poesia e nella prosa antica (dal Duecento al
Quattrocento). Ecco qualche esempio: «E quando ei pensato al-

quanto di lei, ed io ritornai a la mia debilitata vita» (Dante); «S io


dissi falso, e tu falsasti il conio» (Dante); «Quando egli sarà tornato,

sì saremo a'ilui» (lettera senese del 1260).

Ili
Anche i rapporti coordinativi tra le frasi dipendenti in italiano anti-
co erano più liberi: in particolare a un gerundio poteva essere coor-
dinato un verbo di modo finito, e un infinito a una precedente su-
bordinata esplicita. Si tratta, in generale, di costrutti popolareg-
gianti, che anche per questo furono successivamente abbandonati.

Per riassumere...

• Sono stati esaminati alcuni dei principali aspetti della sintassi italiana.
Nell'ambito della frase semplice, è stata segnalata come principale carat-

teristica delle lingue romanze rispetto al latino classico, in seguito ai muta-


menti fonomorfologici, la rigidità nella posizione delle parole, disposte se-

condo l'ordine svo (soggetto-verbo-oggetto). È questo l'ordine normale an-


che in italiano, che però ha mantenuto (o recuperato dal latino) una certa
libertà sintattica.

• Tra le altre caratteristiche sintattiche interessanti sul piano diacronico

sono state segnalate la possibile cancellazione del soggetto e le sequenze


dei pronomi atoni.

• Nell'ambito della sintassi del periodo è stata illustrata la perdita del-

l'oggettiva e di molte congiunzioni latine, sostituite con altre di nuova for-

mazione, è stata presentata la frase relativa ed è stato ricordato il costrutto

della paraipotassi, proprio dell'italiano antico, a metà tra coordinazione e


subordinazione.

112
5. Lessico e formazione delle parole

Il lessico italiano può essere analizzato da vari punti di vista. Qui


cercheremo di individuarne gli aspetti più importanti sul piano sto-

rico, focalizzando la nostra attenzione sulle voci di origine latina


(per nomi e aggettivi diamo di norma, come al solito, la forma del-
l'accusativo) e indicando velocemente le altre componenti, per for-

nire alla fine qualche rapidissima indicazione a proposito della for-


mazione delle parole.

Il lessico è considerato il livello della lingua più esposto al muta-


mento, perché più forti sono i suoi legami con la realtà extralingui-

stica: il cambiamento nelle condizioni socioeconomiche, la crescita

culturale e il progresso scientifico e tecnico, i contatti e le relazioni

con altri popoli sono elementi che hanno riflessi più evidenti sul
piano lessicale che non nella morfologia o nella sintassi.

In realtà, il cosiddetto lessico di base, cioè le parole fondamentali,


quelle che tutti i parlanti di una lingua conoscono perché rispondo-
no ai bisogni più naturali e immediati, ha normalmente una lunga
durata nella storia di una lingua. Anche in italiano, gran parte del

lessico di base è documentata già al momento della costituzione

della tradizione scritta, cioè al Duecento o al Trecento, e in molti


casi si tratta di parole che vivevano da secoli nel parlato. Le introdu-
zioni lessicali posteriori sono state consistenti soprattutto in deter-
minati settori (scienza, tecnica ecc.).

Il mutamento linguistico riguarda il lessico non solo perché nuove


parole entrano nell'uso (i cosiddetti neologismi) e viceversa vecchie
parole ne escono (diventando arcaismi), ma anche perché molte pa-
role già esistenti assumono nuovi significati, perdendo talvolta quelli

originari. Soprattutto dal punto di vista del significato (il cui studio,

come abbiamo detto all'inizio, è oggetto della semantica), il lessico

italiano è andato trasformandosi sensibilmente nel corso del tempo.

5.1. Le VOCi derivate dal latino II nucleo del lessico italiano è

costituito dal cosiddetto fondo latino, cioè dalle parole popolari, di

tradizione diretta o ininterrotta, che dal latino sono passate nella

113
nostra lingua, spesso rimanendovi stabilmente fino a oggi. Non tut-
te le voci di tradizione diretta esistevano già nel latino classico; in
molti casi si tratta di parole formate nel latino volgare; altre voci del

latino classico svilupparono nel latino volgare un significato diver-


so. Dalle parole popolari vanno tenuti distinti i latinismi, le parole
dotte, che dal latino classico non sono passate al latino volgare e poi
all'italiano, e dunque non sono rimaste sempre vive nell'uso parla-
to, ma sono state recuperate nel lessico italiano, anzitutto nella lin-

gua scritta, in momenti diversi (dal Duecento a oggi), e sono state


per lo più adattate, almeno in parte, al nuovo sistema fonetico e
morfologico. Moltissime voci dotte si sono poi diffuse anche nel
parlato e vengono usate tuttora continuamente, mentre alcune voci
originariamente popolari o sono uscite definitivamente dall'uso op-
pure risultano oggi arcaiche o letterarie (pensiamo per esempio a
uopo < òpus).

5.1.1. Il lessico del latino volgare II lessico del latino volgare presenta

rispetto a quello del latino classico un'indubbia riduzione quantita-


tiva, come del resto avviene normalmente nel parlato rispetto allo
scritto. Tutti noi, quando scriviamo, ci serviamo di un lessico più
ricco e appropriato rispetto a quello che utilizziamo quando parlia-

mo, perché il parlato spontaneo non ha bisogno di ricorrere a sino-


nimi e non tocca, o tocca di rado, molti temi che vengono affronta-
ti normalmente nello scritto; molti termini astratti non compaiono,

perché parlando ci riferiamo piuttosto a cose concrete; al posto dei


termini denotativi dello scritto formale, che indicano i referenti con
almeno apparente oggettività, nel parlato usiamo parole connotati-
ve, che rivelano il nostro atteggiamento (favorevole o sfavorevole,
di simpatia o antipatia) nei confronti delle cose che indichiamo.
Nel parlato, inoltre, compaiono termini più espressivi di quelli pro-

pri dello scritto: frequente, tra l'altro, è il ricorso agli alterati (dimi-
nutivi, accrescitivi ecc.), che assumono diversi valori. Caratteristi-

che del genere sono proprie anche del lessico del latino volgare ri-

spetto a quello del latino classico.


Il latino volgare riduce infatti drasticamente la ricchezza sinonimica
del latino classico: tra parole dotate dello stesso significato (o di si-

gnificati analoghi), una sola riesce a sopravvivere e passa all'italiano:

114
per esempio tra vir e homo, tra agrum e campum, tra cruorem
e sangu(in)em prevalgono le ultime, che danno uomo, campo e
sangue; l'aggettivo pulchrum viene sostituito da bellum > bello,

che originariamente era diminutivo di bonum 'buono' e quindi


più o meno equivalente al nostro 'carino'. Prevalgono le parole più
lunghe, dotate di maggiore consistenza: per esempio civitatem
'città' (intesa come complesso dei suoi abitanti) prevale su urbem
'città' (in senso fisico: mura, strade, palazzi ecc.); rem 'cosa' cede il

posto a causa. Tra i sinonimi tendono a scomparire anche quelli


che presentano paradigmi irregolari: il verbo ferre, per esempio,
viene sostituito da portare. Molte voci cadono perché, anche in
seguito alle trasformazioni fonetiche, collidono con voci dotate di
altro significato: la sparizione del sostantivo bellum 'guerra', sosti-

tuito da una voce di origine germanica, è messa in relazione col ri-

cordato sviluppo dell'aggettivo bellum. Altre voci, scherzose o


espressive, sostituiscono termini denotativi: a caput > capo si af-

fianca testa, propriamente 'vaso di coccio', secondo un trapasso

metaforico rimasto vitale nei dialetti (cfr. coccia e capoccia, che "in-
crocia" capo e coccia).
La ricerca dell'espressività, insieme alla necessità di adoperare paro-

le dotate di una maggiore corposità fonica, spiega perché si intensi-

fichi l'uso dei diminutivi: il posto di aurem è preso da auriculam


> orecchia (originariamente il significato era di 'orecchiuccia'),

quello di agnum da agnellum > agnello (propriamente 'agnelli-


no'); in Toscana fratrem 'fratello' cede il posto a *fratellum
'fratellino' e filium 'figlio' a *filiolum 'figlioletto'.

Anche tra i verbi, i derivati che esprimono, grazie a specifici suffissi

aggiunti al tema del supino, valori iterativi o frequentativi (per in-


dicare la ripetizione dell'azione), e che hanno il vantaggio di avere
paradigmi più regolari, sono spesso preferiti: così e anere cede a
cantare, salire a saltare (originariamente 'saltellare'). Pure i

verbi prefissati prevalgono non di rado sui verbi semplici e, come si

è detto, vengono spesso "rianalizzati" (còntinet > contiene).


Altri termini latini non si continuano nel latino volgare, dove ven-
gono sostituiti da parole che, originariamente di significato diverso,

ma appartenenti allo stesso ambito concettuale, hanno preso il loro

115
posto in seguito a uno slittamento semantico: così flere 'piangere'
cede a plangere 'battersi il petto in segno di lutto'; exercitum
'esercito' (poi recuperato per via dotta) a hostem 'nemico', da cui
è derivato l'ant. oste. Spostamenti semantici si hanno anche in nomi
indicanti parti del corpo: bucca 'guancia' sostituisce orem 'boc-
ca'; coxam 'anca' passa a significare 'coscia'.

Naturalmente, la perdita di una voce può non avvenire sull'intero territorio romanzo: ci

sono parole del latino classico continuate in una sola lingua neolatina o anche in una

singola area dialettale. Se molte perdite sono state comuni, le sostituzioni sono spesso

diverse: pulchrum ha ceduto a bellum in area italo-romanza e galloromanza, ma nelle

lingue ibero-romanze e nel rumeno il suo sostituto è stato formosum. Dal punto di vista

lessicale, come abbiamo detto, il latino volgare era del resto assai più differenziato che

non sul piano morfologico.

Il latino volgare presenta però anche incrementi lessicali e, sfruttan-

do ampiamente i meccanismi di derivazione già propri del latino

classico, grazie a prefissi e, soprattutto, a suffissi (alcuni dei quali

molto produttivi, come -iare), forma nuove parole. Particolar-

mente notevoli, anche per i significati che hanno poi sviluppato, i

nuovi verbi derivati da nomi, aggettivi e participi di altri verbi: da


passum 'passo' abbiamo passare 'muovere un passo', quindi 'pas-

sare, attraversare'; da montem 'monte', montare 'salire sul mon-


te', quindi 'salire'; da altum 'alto', altiare 'mettere in alto', 'alza-

re'; da captum 'preso', captiare 'cacciare'. Inoltre, molti aggettivi


e participi cambiano categoria e divengono sostantivi, attraverso un
procedimento di ellissi: strada deriva da (viam) stratam 'strada la-

stricata'; mattino da matutinum (tempus).


Il mutamento semantico nel latino ha anche altri aspetti significati-

vi. Anzitutto va detto che certi cambiamenti di significato trovano

spiegazione nel quadro della nuova economia "rurale" che si dif-

fonde: l'abitazione non è più detta domum (termine che sopravvi-


ve solo in duomo, col valore prima di 'casa del vescovo' < domum
episcopi, anche qui in seguito a un'ellissi, poi di 'cattedrale') ma
casam 'capanna'; equum è sostituito da caballum ( > cavallo),
che indicava originariamente solo il cavallo da tiro, e ignem da fo-

116
cum ( > fuòco), che indicava il focolare domestico; la machina è
identificata con la macina del mulino; il verbo minari 'minacciare'
passa a menare 'condurre', dall'azione del portare il bestiame ai

campi minacciandolo col bastone.


Notevole è anche la trasformazione semantica prodotta dal cristia-

nesimo, che già aveva introdotto grecismi con nuovi significati,

come angelum > angelo (il senso originario della parola greca era
'messaggero') e martyrem > martire (propriamente 'testimone').
Molto significativa, per esempio, è l'evoluzione di parabulam, che
da 'similitudine', attraverso i vangeli, passò a significare 'parola',
scalzando verbum (le parabole di Gesù sono le parole per eccellen-
za), e formò il verbo parabulare 'raccontare parabole' e poi in ge-
nerale 'parlare', al posto del classico loqui. Anche l'evoluzione
captivum 'prigioniero' > cattivo si spiega col suo uso in ambito
cristiano captivum diaboli 'prigioniero del diavolo').
( <
Il mutamento semantico comportò a volte allargamenti di significa-

to (come nel caso, già citato, di causa > cosa o di parentes 'geni-
tori' > parenti), a volte restringimenti e specializzazioni, come per

mùlier 'donna' > moglie (la. voce latina corrispondente era uxor);
non di rado si hanno passaggi a significati contigui, come per mit-
tere 'mandare' > mettere; iungere 'unire' > giungere 'ricongiun-
gersi' e quindi 'arrivare'; parere 'ubbidire' > parere 'farsi vedere
(non appena chiamati)', quindi 'apparire' e poi 'sembrare'; magis
'più', 'piuttosto' > ma.

5.1.2. I latinismi Oltre alle voci di tradizione diretta, come si è det-

to, moltissimi altri termini di origine latina sono stati introdotti

per via dotta, dal Medioevo a oggi, nel lessico italiano, che non po-
teva certo accontentarsi delle relativamente poche parole pervenute
per via popolare. A molte di queste ultime sono infatti legati agget-
tivi relazionali di coniazione dotta e la diversa trafila spiega le diffe-

renze fonetiche esistenti per esempio tra mese e mensile, fiore e flo-
reale ecc.

Grazie al grande prestigio culturale del latino (che del resto conti-
nuò per secoli a essere usato come lingua della Chiesa, del diritto,
delle scienze), il lessico latino ha costituito (assieme al greco) un
serbatoio prezioso per il lessico italiano (così come, del resto, per

117
tutte le lingue di cultura dell'Europa). I latinismi si sono perfetta-
mente integrati nel sistema dell'italiano, anche perché, come si è
detto nel capitolo 2, hanno per lo più assunto veste fonomorfologi-
ca italiana. Ciò non si è verificato solo per i latinismi d'uso speciali-
stico (voci del linguaggio medico o giuridico) e per quelli entrati

tramite un'altra lingua straniera, che peraltro sono spesso, almeno


dal punto di vista semantico, coniazioni moderne {interim, ultima-
tum, referendum, solarium ecc.).

Non di rado, da una stessa base latina sono derivate due (o anche
più) parole italiane, una popolare e una dotta, che vengono chia-
mate allotropi: la parola popolare si riconosce perché è quella che si

è più allontanata dalla base sia dal punto di vista formale (perché è
stata soggetta alla normale evoluzione fonetica), sia nel significato

(che ha avuto slittamenti semantici più accentuati); il latinismo,


sebbene abbia subito anch'esso, di solito, un adattamento alle strut-

ture fonomorfologiche dell'italiano, è più fedele alla base latina an-


che sul piano formale, oltre che nel significato. In molti casi, pro-
prio i latinismi sono le parole della coppia oggi più diffuse e usate.
Tra i numerosi allotropi, citiamo alcuni esempi tra i più noti e co-
muni: abbiamo già visto gli sviluppi popolari da causam > cosa e
machina > macina-, ma queste voci hanno gli allotropi dotti causa
e macchina; dal vìtium si è avuto per via popolare vezzo e per
lat.

trafila dotta vizio, come da dìscum desco e disco, da fùriam foia e

furia, da angùstia angoscia e angustia, da cìrculum cerchio e cir-


colo, da aream aia e area, da plàteam piazza e platèa (in questo

caso, però, come dimostra la diversa posizione dell'accento, si tratta


di una ripresa del termine greco già mutuato dal latino).

5.2. Le altre Componenti lessicali Oltre alla componente la-

tina, il lessico italiano si è arricchito, nel corso dei secoli, di parole

tratte da altre lingue con cui la nostra è venuta in contatto per vi-
cende politiche, economiche o culturali. Le voci straniere entrate in

una lingua vengono dette forestierismi o prestiti.

5.2.1. I germanismi Le voci tratte dalle lingue delle popolazioni ger-


maniche che invasero la nostra penisola dopo il crollo dell'Impero

romano {germanismi) possono non essere considerati prestiti in

118
senso stretto, perché spesso entrati prima che i volgari italiani si co-
stituissero come tali. Mentre il lessico delle popolazioni che abita-
vano l'Italia prima della conquista romana ha lasciato nell'italiano
poche tracce, limitate quasi esclusivamente alla toponomastica o
agli elementi già assorbiti dal latino, l'apporto germanico è stato ab-
bastanza consistente. I germanismi sono relativi anche a settori fon-

damentali del lessico; tra i nomi ricordiamo quelli che si riferiscono


a parti del corpo umano {guancia, milza, anca, schiena), a oggetti di
ambito domestico (roba, sapone, stalla, zolla, banco, balcone, fiasco,
tappo, albergo, nastro), a concetti generali {guerra) o astratti (astio)-,

tra gli aggettivi spiccano quelli relativi a colori (bianco, biondo); tra

i verbi ricordiamo almeno guardare, rubare, recare, scherzare, guar-


nire. Spesso le voci germaniche hanno una forte connotazione
espressiva (si pensi a zazzera, grinfia, arraffare).
Alcuni germanismi entrarono già nel latino imperiale; altri furono
portati dai Goti; altri ancora dai Longobardi, il cui potere in Italia
durò più a lungo; altri ancora, infine, risalgono all'epoca della con-
quista dei Franchi e quindi quasi a ridosso dei primi documenti in
volgare. Molto dibattuta è l'attribuzione delle voci di origine ger-
manica a ognuna di queste fasi, basata sull'estensione areale del ter-
mine e sulle sue caratteristiche fonetiche. Sebbene spesso riconosci-
bili anche dal punto di vista fonetico, per la presenza di foni o di se-

quenze di foni rari o sconosciuti al latino, almeno in certe posizioni

(come il nesso labiovelare sonoro /gw/ all'inizio di parola, con cui


venne adattato il w- germanico), i germanismi si sono integrati nel

sistema fonomorfologico locale.

5.2.2. I prestiti Mentre i grecismi (a parte quelli già entrati antica-


mente attraverso il latino e le relativamente rare parole importate
dai Bizantini nel periodo medievale, come scala, catasto) sono stati
introdotti prevalentemente in epoca moderna e per via dotta (e
sono spesso propri del linguaggio scientifico internazionale), gli

arabismi si sono diffusi nel Medioevo, anche attraverso il parlato:

l'arabo ha dato infatti all'italiano numerose parole, tra cui voci rela-
tive a prodotti importati dall'Oriente (albicocca, carciofo, melanza-
na) e termini di ambiti scientifici come la matematica (zero, cifra,

algebra) o l'astronomia (zenit, nadir), dove gli Arabi eccellevano.

119
Al grande prestigio delle letterature d'oc e d'oìl e in genere della ci-

viltà francese si deve la notevole presenza di gallicismi (cioè di voci


di origine francese o provenzale) nella lingua e nella letteratura me-
dievale; il francese ha poi continuato a dare termini anche in epoca
successiva, specie nel Settecento. L'influsso dello spagnolo è stato
forte soprattutto nel Cinquecento. Molto limitati, nelle epoche po-
steriori a quella altomedievale, sono i prestiti dal tedesco e dalle al-

tre lingue germaniche, a parte l'inglese, il cui influsso si concentra


peraltro nell'età contemporanea, in particolare nel secondo Nove-
cento. Spagnolo, francese, inglese e portoghese hanno fatto spesso

anche da tramite per l'introduzione in italiano di voci di altre lin-

gue europee e, soprattutto, esotiche.


L'italiano ha sfruttato inoltre il prestito interno, arricchendo il suo
lessico anche con voci tratte dagli altri dialetti parlati nella nostra

penisola, che già dal Medioevo, e poi soprattutto dall'Unità in poi,

hanno affiancato (e a volte sostituito) le voci toscane. Si parla in


questo caso di dialett(al)ismi, che possiamo documentare con esem-
pi come scoglio, di origine ligure, pizza, voce meridionale, giocatto-
lo, parola veneziana che ha preso il posto del toscano balocco ecc.
Fino al secolo scorso, i forestierismi e i dialettalismi sono stati quasi
sempre adattati al sistema fonomorfologico (e grafico) dell'italiano

e dunque non sono riconoscibili formalmente (come prestiti più i

recenti), così come non sono riconoscibili calchi, parole formate i

con elementi italiani su modelli stranieri, come grattacielo, foggiato


su skyscraper. Per le voci provenienti dalle altre lingue neolatine e
dagli altri dialetti italiani, la prova della loro origine è data dalla di-
versa trafila fonetica rispetto alle basi latine: è un meridionalismo
piccione < pipionem; sono gallicismi le parole medievali uscenti in

-aggio {selvaggio, messaggio, omaggio) dal latino -aticum (che in to-

scano avrebbe dato -atico o -adego; poi -aggio è diventato un suffisso


produttivo, ovvero usato per formare nuove parole).

53. Derivati e composti italiani Oltre ad assumere termini da


altre lingue, il lessico italiano si è arricchito, fin dai primi secoli, di

parole nuove formate da voci già esistenti in italiano attraverso vari


procedimenti, il cui studio è oggetto della morfologia derivativa.

120

J
I meccanismi di formazione delle parole nuove in italiano sono es-

senzialmente due: la derivazione e la composizione.

5.3.1. La derivazione La derivazione può realizzarsi in vari modi:


• con l'assegnazione di una categoria grammaticale diversa a una
parola senza modificarla {sapere, verbo —> il sapere, nome; bianco,
aggettivo —> il bianco, nome); si parla in questo caso di conversione-,
• con l'aggiunta di suffissi a destra del tema della base (lavora-re
—> lavora-tore; libr-o —» libr-aio); si parla allora di suffissazione e di

suffissati (sono tali anche gli alterati: cas-a —> cas-etta);


• con l'aggiunta di prefissi a sinistra della base {capace —» in-capace-,

avventura —» dis-avventura)-, si parla di prefissazione e di prefissati.


Mentre, di norma, la prefissazione non determina un cambiamento
di categoria grammaticale, nella suffissazione ciò avviene spesso

(chiamiamo denominali le voci derivate da nomi, deverbali quelle


tratte da verbi, deaggettivali quelle formate da aggettivi). Il mecca-
nismo di suffissazione è in italiano quello più usato e produttivo. I

suffissi possono essere classificati in base sia alla categoria che pro-
ducono (suffissi che formano nomi, come -aio, -ista, -mento-, suffissi

che formano verbi, come -ificare, -izzare), sia alla categoria della pa-
rola a cui si possono aggiungere (alcuni suffissi si uniscono solo a
verbi, altri solo a nomi).
L'aggiunta di prefissi e di suffissi comporta, in italiano, una serie di

regole fonetiche piuttosto complesse: oltre alla "cancellazione" del-


la desinenza della base dei suffissati, ricordiamo per esempio che il

prefisso in- può diventare im- davanti a Imi, Ipl e Ibi, il- davanti a
III ecc., e che molti suffissi inizianti per HI palatalizzano la conso-
nante finale del tema della base: music-a —» music-ista.
Una particolarità del lessico italiano è la presenza di verbi, detti pa-
rasintetici, i quali, rispetto alla base nominale e aggettivale, risulta-

no ottenuti con l'aggiunta contemporanea di un prefisso e di un


suffisso: barc-a —» im-barc-are-, bell-o —> ab-bell-ire.
Dal punto di vista diacronico, nell'ambito della derivazione si può
notare come vari prefissi e suffissi che in italiano antico erano pro-
duttivi non lo siano più, come -gione {fienagione), -anza {lontanan-
za) e mis- {miscredente).

121
53-2. La composizione La composizione si realizza accostando due
parole, che di solito vengono univerbate, cioè trattate come una
sola parola anche dal punto di vista grafico; in italiano possiamo
avere diversi tipi di composizione. Tra i vari procedimenti i più fre-

quenti sono:
• nome + nome {cassapanca, capostazione; anche con la preposi-
zione inserita: pomodoro);
• aggettivo + nome {gentiluomo, nobildonna) o nome + aggetti-
vo {cassaforte);

• aggettivo + aggettivo {chiaroscuro, pianoforte);


• verbo + nome {portamonete, lavastoviglie);
• verbo + verbo {saliscendi);

• avverbio + verbo {malmenare).


Tranne l'ultima categoria di composti, che sono verbi, e la terza,

che comprende prevalentemente aggettivi, le altre parole che si ot-


tengono per composizione sono nomi. Abbiamo però già incontra-
to pronomi e congiunzioni formati con meccanismi di composizio-
ne {qualcuno, perché ecc.). Anche la composizione è regolata da re-

gole di cancellazione (a volte si apocopa la vocale finale della prima


parola); le forme dei verbi sono state variamente interpretate (come
indicativi, imperativi, infiniti privi della terminazione -re, temi ver-
bali); piuttosto vari sono i tipi di plurale.

Molto interessante è il rapporto semantico che lega gli elementi del


composto: nelle parole formate da nome + nome, per esempio, i

due nomi possono essere coordinati (come nel caso di cassapanca) o


subordinati: in questo caso, il secondo membro determina il signi-

ficato del primo (l'ordine tradizionale tipico dell'italiano è infatti


determinato + determinante), tranne che in alcuni composti re-

centi, calcati su parole straniere (come ferrovia Via di ferro').

Un altro tipo di composizione, detta neoclassica, forma parole uti-

lizzando elementi propri del latino e del greco, detti prefissoidi e


suffissoidi, combinati tra loro {glottologia 'studio della lingua'; car-

diopatia 'sofferenza di cuore') o uniti a parole italiane {telegiornale,


paninoteca) . Anche nella composizione, si può rilevare come alcuni
meccanismi compositivi usati in italiano antico sono poi stati ab-
bandonati, mentre altri sono invece diventati molto produttivi,
come per esempio il tipo verbo + nome, sconosciuto al latino.

122
Per riassumere...

• Sono state analizzate le diverse componenti del lessico italiano: anzi-

tutto le voci derivate dal latino, comprendenti sia le parole di tradizione di-

retta, entrate nel lessico del latino volgare, ridotto rispetto a quello del la-

tino classico, sia i latinismi, parole recuperate per via dotta; poi i germani-
smi, i prestiti da altre lingue straniere e i dialettalismi.

• Sono state poi prese in esame le neoformazioni italiane, ottenute gra-

zie a procedimenti di derivazione (aggiunta di prefissi e suffissi) e di com-


posizione (accostamento di due parole).

123
Bibliografia

Per i problemi di linguistica generale affrontati nella prima parte dellTw-


troduzione rinunciamo a fornire segnalazioni specifiche, rimandando sem-
plicemente, per la definizione dei termini scientifici usati, al Dizionario di
linguistica, a cura di gian luigi Beccaria, Einaudi, Torino 1995. Impor-
tante è anche Maurizio dardano, Manualetto di linguistica italiana,
a
Zanichelli, Bologna 1996 (z ed.), che affronta i livelli dell'analisi lingui-

stica soprattutto in rapporto all'italiano contemporaneo, ma tratta anche


del passaggio dal latino all'italiano e dell'italiano antico. Sul latino volgare

e le lingue romanze è tuttora fondamentale Carlo Tagliavini, Le origini


delle lingue neolatine, Patron, Bologna 1972 (n a ed.), di cui si segnala in
particolare nel capitolo vi il paragrafo sull'area linguistica italiana.

Capitolo 1

Tra i profili storico-linguistici dell'italiano, segnaliamo almeno: bruno


Migliorini, Storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze i960 (più volte
ristampata), che resta tuttora il testo di riferimento, anche per la sua co-
stante attenzione agli aspetti grammaticali e lessicali; Marcello duran-
te, Dal latino all'italiano moderno. Elementi di storia della lingua e della

cultura, Zanichelli, Bologna 1981, che affronta tematiche linguistiche per

lo più trascurate, in una prospettiva "di lunga durata" spesso ricca di sti-

moli; Francesco bruni, L 'italiano. Elementi di storia della lingua e della

cultura, utet, Torino 1984, che tra l'altro nell'accuratissima seconda par-
te (capp. v e vi) illustra i fenomeni di passaggio dal latino all'italiano e de-

scrive le aree dialettali italiane; Francesco sabatini, L'italiano: dalla

letteratura alla nazione. Linee di storia linguistica d'Italia, Accademia della

Crusca, Firenze 1997, breve ma denso profilo geolinguistico e storico-lin-


guistico dell'italiano, in cui vengono puntualmente collocati anche i feno-

meni grammaticali più importanti; Claudio marazzini, La lingua ita-


d
liana. Profilo storico, Il Mulino, Bologna 1998 (z ed.), ampia e aggiornata

trattazione di storia della lingua italiana, che comprende anche una breve
descrizione dei principali fatti di grammatica storica.

Sulla fonetica e fonologia dell'italiano i principali testi di riferimento

sono: amerindo camilli, Pronuncia e grafia dell'italiano, a cura di PIE-

124
a
ro fiorelli, Sansoni, Firenze 1965 zarko muljacic, Fonologia
(3 ed.);

della lingua italiana, Il Mulino, Bologna 1972; Luciano canepari, Ma-


nuale di pronuncia italiana, Zanichelli, Bologna 1992.

Capitoli 2, 3, 4
Le principali grammatiche storiche dell'italiano, alle quali ci siamo am-
piamente rifatti per il nostro profilo, sono: Gerhard rohlfs, Gramma-
tica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Einaudi, Torino
1966-69, 3 voli., tuttora insuperata per ampiezza e ricchezza di dati, relati-

vi non solo alla lingua antica e moderna, ma anche ai dialetti (i dati sono
facilmente reperibili grazie agli indici); pavao tekavcic, Grammatica
a
storica dell'italiano, Il Mulino, Bologna 1980 (2 ed.), 3 voli., di carattere

più teorico, densa di osservazioni interessanti sul piano interpretativo,


specie per quanto riguarda la morfosintassi, anche se nella prospettiva

strutturalista oggi un po' datata; Arrigo castellani, Saggi di linguistica


e filologia italiana e romanza, Salerno, Roma 1980, 3 voli., dove sono rac-

colti studi fondamentali su temi centrali di grammatica storica italiana;

Martin maiden, Storia linguistica dell'italiano, Il Mulino, Bologna 1998,


anch'essa di taglio prevalentemente teorico, non sempre convincente nel-

l'interpretazione dei fenomeni, ma sostanzialmente equilibrata e accurata;


luca serianni, Lezioni di grammatica storica italiana, Bulzoni, Roma
a
1998 (2 ed.), che commenta linguisticamente il canto 1 adì' Inferno dan-

tesco, dopo aver analizzato, con rigore scientifico ed esemplare chiarezza, i

fenomeni più notevoli del passaggio dal latino volgare al fiorentino, con
richiami anche agli sviluppi successivi; Arrigo castellani, Grammatica
storica della lingua italiana, Il Mulino, Bologna 2000 ss., che quando sarà
terminata costituirà l'opera più completa e rigorosa sull'italiano nelle sue
basi fiorentine e toscane (il voi. 1 tratta, fra l'altro, del latino volgare, del-

l'elemento germanico, delle varietà toscane medievali).


Come trattazioni più sintetiche (poste all'interno di opere di impianto di-

verso), utilissime per un primo approfondimento sulle tematiche linguisti-

che qui affrontate, e particolarmente attente all'evoluzione dal latino clas-

sico all'italiano, attraverso la fase del latino volgare, e all'italiano antico, se-

gnaliamo almeno, oltre ai lavori già citati di Bruni, Dardano e Durante:

Alfredo stussi, Nuovo avviamento agli studi di filologia italiana, Il Muli-


a
no, Bologna 1994 (3 ed.), che nel cap. 11 esamina i principali fatti linguisti-

ci dell'italiano in rapporto allo studio dei testi antichi e alla loro edizione.

125
Capitolo 5
Per lo studio del lessico costituiscono strumenti di lavoro, da affiancare alle

gtammatiche storiche e agli altri studi precedentemente citati (dove si tro-

vano molte indicazioni sulla formazione delle parole), i dizionari etimolo-


gici, di cui ricordiamo i principali: Wilhelm meyer-lubke, Romanisches
etymologisches Worterbuch, Winter, Heidelberg 1935 (citato negli studi con
la sigla rew), che è relativo al complesso delle lingue romanze e ordina al-

fabeticamente i lemmi partendo dalle basi latine; carlo battisti, Gio-


vanni Alessio, Dizionario etimologico italiano, Barbèra, Firenze 1950-57,

5 voli, (citato con la sigla dei), tuttora utile per la ricchezza del lemmario;
Manlio cortelazzo, paolo zolli, Dizionario etimologico della lingua
italiana, Zanichelli, Bologna 1979-88, 5 voli., citato con la sigla deli (nuo-
va ed.: Il nuovo etimologico, a cura di Manlio cortelazzo e michele a.

cortelazzo, 1999), che offre un lemmario più ridotto rispetto al dei, ma


con entrate più ampie, corredate da una bibliografia aggiornata; max pfi-
ster, Lessico etimologico italiano, Reichert, Wiesbaden 1979 ss., citato con
la sigla lei, che si caratterizza per l'ampiezza delle voci, la ricchezza dei dati

proposti, il rigore scientifico a cui è improntato; quando sarà completato,

diverrà l'opera di gran lunga più ampia nel settore.

Tra i repertori bibliografici è ancora fondamentale: Robert hall jr., Bi-


a
bliografia della linguistica italiana, Sansoni, Firenze 1958 (2 ed.), che si ar-

resta al 1956, ma ha avuto poi tre supplementi decennali, fino al 1986.

Per ulteriori approfondimenti su singoli problemi linguistici è opportuno


anzitutto far riferimento ai principali periodici italiani dedicati alla nostra

lingua, e cioè le tre riviste pubblicate a Firenze dall'Accademia della Cru-


sca, "Studi di grammatica italiana", "Studi di filologia italiana" e "Studi
di lessicografia italiana", e ancora gli "Studi linguistici italiani" (Salerno,
1'
Roma), "Lingua nostra" (Le Lettere, Firenze) e "Archivio glottologico
italiano" (Le Monnier, Firenze). Importanti anche molti contributi ap-
parsi in sedi congressuali: ricordiamo almeno gli Atti dei congressi della

Società di linguistica italiana (Bulzoni, Roma), che in varie occasioni han-

no affrontato questioni di storia della lingua italiana.

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BREVE GRAMMATICA STORICA DELL'ITALIANO


Come si è evoluta nel tempo la nostra lingua?
Attraverso quali stadi si è passati dal latino
all'italiano? Questo libro descrive a tutti i livelli

dell'analisi linguistica l'evoluzione dal latino

al fiorentino trecentesco, che costituisce


la base dell'italiano letterario e quindi dell'italiano
tout court, offrendo un sintetico ma efficace profilo
storico e geolinguistico della nostra lingua.

Paolo D'Achille è professore straordinario


di Linguistica italiana all'Università di Roma Tre.

Tra le sue pubblicazioni il volume Sintassi


del parlato e tradizione scritta della lingua italiana
(Bonacci, 1990) e numerosi lavori sul romanesco
e sull'italiano contemporaneo.

ISBN 88-430-1906-6

19 "788843"019069

Lire 16.000 €8,26


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