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La lingua italiana vista da un cinese

Chapter · January 2010

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Giorgio Francesco Arcodia


Università degli Studi di Milano-Bicocca
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4. LA LINGUA ITALIANA VISTA DA UN CINESE

GIORGIO FRANCESCO ARCODIA*

4.0 La posizione del cinese tra le lingue del mondo

Il termine “cinese” viene usato comunemente, nella lingua italiana, per indicare un segmento particolare del
complesso diasistema delle “lingue cinesi” (o, meglio, lingue sinitiche), note anche come “dialetti del
cinese”: tale segmento è il cosiddetto “cinese moderno standard” o “cinese mandarino moderno” (cfr.
l‟inglese Mandarin Chinese), detto in patria 普通话 Pǔtōnghuà, „lingua comune‟. Dal nome scelto per tale
sistema linguistico emerge con chiarezza la sua natura di strumento di comunicazione per una popolazione
che conta, se ci limitiamo alla Repubblica Popolare Cinese (l‟entità statale che noi chiamiamo “Cina”), oltre
1.300.000.000 di persone, distribuiti in uno spazio geografico paragonabile a quello dell‟Europa (fino ai
monti Urali), la maggior parte delle quali fino al XX secolo è stata, sostanzialmente, dialettofona. Il cinese,
così inteso, è la lingua ufficiale della Repubblica Popolare Cinese e di Taiwan, la lingua dominante nella
comunicazione di massa e nell‟istruzione, nonché la varietà che viene normalmente insegnata nelle
università e nelle scuole di lingua per stranieri. Le lingue cinesi nel loro complesso appartengono alla grande
famiglia delle lingue sino-tibetane, i cui due raggruppamenti principali sono le lingue cinesi / sinitiche e le
lingue tibeto-birmane (comprendenti, tra le altre, il tibetano e il birmano): le lingue appartenenti al secondo
di questi gruppi, tuttavia, non mostrano nella fase moderna del loro sviluppo grandi somiglianze con le
lingue della Cina. Dal punto di vista tipologico, il cinese e i suoi dialetti mostrano affinità piuttosto notevoli
con molte delle lingue parlate nel Sud-Est Asiatico, non appartenenti alla famiglia sino-tibetana, come il
vietnamita o il thai (e, in misura minore, il coreano e il giapponese): tali somiglianze sono imputabili,
verosimilmente, alla contiguità geografica e alla storia di contatto tra questi sistemi linguistici (una sintesi in
lingua italiana di tali questioni si può trovare in Banfi & Arcodia, 2008).
Naturalmente, non tutti i cinesi che vivono e lavorano in Italia sono competenti esclusivamente della varietà
standard di cinese e, anzi, non è infrequente incontrare persone che non la conoscono affatto: questi,
frequentemente, utilizzano la loro lingua locale (i “dialetti” di cui abbiamo detto sopra) per comunicare con
gli altri membri della loro comunità, situazione facilitata dal fatto che la maggior parte dei migranti cinesi nel
nostro paese sono originari della provincia cinese dello 浙江 Zhèjiāng e, in particolare, dei territori della
municipalità di 温州 Wēnzhōu. Tipicamente, essi hanno competenza, in grado diverso, del dialetto di
Wenzhou (温州话 Wēnzhōuhuà) o di altre varietà appartenenti al gruppo dialettale 吴 Wú (che comprende,
tra gli altri, il cosiddetto “dialetto di Shanghai”, che conta milioni di locutori) affini alla parlata della città di
Wenzhou (per approfondimenti sulle competenze linguistiche dei cinesi d‟Italia, si veda Ceccagno, 2003).
Tale considerazione non si applica, evidentemente, agli studenti cinesi in possesso di diploma di scuola
secondaria superiore ottenuto in patria che si iscrivono alle università italiane e, eventualmente, frequentano i
corsi propedeutici di lingua: essendo, come detto sopra, il cinese standard la lingua dominante nell‟istruzione,
normalmente ragazze e ragazzi diplomati ne hanno un‟ottima padronanza.
Quanto detto finora sulla grande diversità che si riscontra nell‟esame dello spazio linguistico cinese, dove
non è strano che parlate locali, anche appartenenti ad uno stesso gruppo dialettale, risultino reciprocamente
incomprensibili, non deve però oscurare il fatto che tutti i segmenti del diasistema cinese posseggono un
numero consistente di tratti essenziali in comune, come varietà geneticamente imparentate e tipologicamente
affini. Molte di queste caratteristiche, come abbiamo detto brevemente sopra, sono proprie anche di lingue
non cinesi del Sud-Est Asiatico. Nel proseguimento di questo paragrafo ci dedicheremo ad una presentazione
di tali peculiarità.
Tra le molte particolarità della lingua cinese, quelle che emergono con forza anche nelle trattazioni cursorie
(come, ad esempio, nei manuali di linguistica generale) sono il carattere tonale e la morfologia
fondamentalmente isolante: affrontiamo quindi, innanzitutto, questi primi due punti. Per ovvie ragioni di
pertinenza e di chiarezza, tutti i dati e gli esempi presentati saranno di cinese standard; inoltre, per non
appesantire l‟esposizione con spiegazioni non funzionali, non forniremo la glossa appropriata per tutti gli
elementi grammaticali e faremo riferimento nel testo solo a quelli più opportuni nel nostro discorso.

*
Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “R. Massa”, Università degli Studi di Milano – Bicocca.
Il tono, come è noto, è una variazione nell‟altezza di un suono linguistico. Esso si differenzia dall‟accento,
con il quale a volte viene confuso, che è piuttosto un fatto di intensità; una coppia come le parole italiane
àncora ed ancòra si distinguono per la sillaba che viene pronunciata con maggiore forza, ottenendo una
salienza uditiva maggiore. In cinese standard, ad una sillaba possono essere associati quattro diversi valori
tonali (da sinistra verso destra, dal primo al quarto tono):

[1] 接 结 姐 借
jiē jié jiě jiè
„connettere‟ „annodare‟ „sorella maggiore‟ „prestare‟

Il parametro dell‟altezza tonale, come risulta ovvio per qualunque parlante nativo, non ha funzione distintiva
nel lessico italiano; a livello di enunciato, tuttavia, la curva intonativa ha un grande valore comunicativo, ché
essa può essere l‟unico indicatore della modalità di una frase (caffè! vs. caffè?).
Un‟altra caratteristica prominente del componente fonologico del cinese, che non viene evidenziata
altrettanto spesso ma che pare altrettanto importante, è la relativa povertà dell‟inventario fonologico della
lingua e, ancor più, la semplicità della struttura sillabica. La sillaba cinese, negli studi filologici tradizionali,
viene divisa in attacco (声母 shēngmǔ) e rima (韵母 yùnmǔ): la lingua moderna conta solo 21 iniziali e 35
finali, che non possono combinarsi liberamente. Una sillaba può essere costituita anche dal solo nucleo
vocalico (饿 è, „affamato‟), può avere una consonante semplice come attacco (拉 lā „tirare‟), mai un nesso
consonantico, e in coda può avere solo le consonanti nasali [n] o [ŋ] (南 nán „sud‟; 帮 bāng „aiutare‟). Le
sillabe cinesi sono, quindi, semplici e il loro inventario è molto limitato se paragonate ad una lingua
d‟Europa: in cinese abbiamo solo 405 sillabe (anche se, invero, la presenza dei toni aumenta le distinzioni),
mentre per una lingua come l‟inglese si possono stimare 8000 sillabe distinte (dati da Lin, 2001: 27-29).
Risulta facile prevedere, quindi, una certa difficoltà nell‟apprendere il sistema fonologico dell‟italiano da
parte di apprendenti cinesi, che hanno poca confidenza con combinazioni di consonanti e con strutture
sillabiche articolate. Inoltre, la loro lingua non possiede né distinzioni di lunghezza (cfr. cane vs. canne), né
distinzioni di sonorità (cfr. callo vs. gallo), ma solo un‟opposizione tra alcune consonanti occlusive aspirate
versus non aspirate: 大 dà ([ta]) „grande‟ vs. 踏 tà ([t‟a]) „calpestare‟. Vediamo, a titolo d‟esempio, come il
nome del celebre poeta e drammaturgo russo Vladimir Majakovskij viene reso in cinese:

[2] 弗拉基米尔 马雅科夫斯基


fúlājīmǐ’ěr mǎyǎkēfūsījī

Ciò che appare con evidenza è che la catena fonica e, parimenti, la sequenza grafematica, non contemplano
unità di dimensione inferiore alla sillaba. Suoni assenti nella lingua cinese come le sonore [v] e [d] vengono
resi come [f] e [tʃ] (fúlājīmǐ’ěr); i nessi consonantici vengono “sciolti”, ogni suono consonantico viene reso
come attacco di una sillaba (vla- → fúlā; -vskij → fūsījī). La sillaba riveste, dunque, un ruolo importante
nell‟organizzazione della catena del parlato; vedremo in seguito come essa sia in effetti un‟unità di
fondamentale importanza anche nella strutturazione di morfologia e lessico.
Per quanto concerne il componente morfologico della lingua, il cinese viene normalmente classificato come
sistema isolante e, anzi, spesso esso viene usato quale esempio prototipico di detta tipologia. Come lingua
isolante, il cinese dovrebbe avere un indice di sintesi minimo, ovvero dovrebbe tendere alla corrispondenza
1:1 tra morfema (unità linguistica minima dotata di significato) e parola; di conseguenza, la “parola” cinese
tipica non dovrebbe avere problemi di segmentazione nelle sue parti (morfemi) costituenti. Inoltre, una
lingua isolante dovrebbe avere poca morfologia: assenza di distinzioni di genere, numero e caso nei nomi e
negli aggettivi, un‟unica forma per i verbi, senza espressione delle categorie di persona, numero, tempo e
modo. Le parti del discorso tendono a non essere distinte formalmente, anche per l‟assenza di quegli
elementi morfologici esemplificati sopra: una parola come il cinese 工作 gōngzuò può valere sia per „lavoro‟
che per „lavorare‟, a seconda del contesto sintattico, come vedremo meglio nel par. 4.3. Nelle lingue isolanti,
infine, l‟ordine delle parole tende ad essere rigido, in quanto svolge la funzione di identificare, tramite la

2
posizione nella frase, i vari “ruoli” sintattici (soggetto, oggetto, etc.); la costruzione della cornice temporale
(o, meglio, tempo-aspettuale) dell‟enunciato è affidata in larga parte al lessico.
Innanzitutto, vediamo la forma e la struttura delle parole in una frase cinese:

[3] 我上电车后找到一个座位就坐下了
wǒ shàng diànchē hòu zhǎodào yí-ge zuòwèi jiù zuòxia-le
io salire tram dopo trovare uno-GE posto subito sedersi-LE
„Dopo essere salito sul tram, ho trovato un posto e mi sono seduto‟

Vediamo come il primo verbo nell‟esempio (3), 上 shàng „salire‟, non presenta marche di persona, numero,
tempo o modo; per indicare la successione degli eventi, viene semplicemente aggiunto l‟avverbio 后 hòu
„dopo‟, mentre in italiano si rende necessario anche l‟utilizzo di un tempo composto. La presenza del
pronome 我 wǒ „io‟, inoltre, è sufficiente ad eliminare ogni ambiguità nel riferimento (我上 wǒ shàng „io
salgo‟ vs. 你上 nǐ shàng „tu sali‟). Questa è una notevole differenza rispetto ad una lingua flessiva (o, meglio,
flessivo-fusiva): in italiano, ogni verbo di modo finito che compare in un enunciato deve necessariamente
avere le opportune marche grammaticali e non diremo, ad esempio, *io parlare con Bianca (l‟asterisco indica
agrammaticalità). Anche il secondo verbo, 找到 zhǎodào „trovare‟, non presenta marche grammaticali di
sorta; tuttavia, esso ha una struttura morfologica complessa, essendo costituito dei morfemi 找 zhǎo „cercare‟
e 到 dào „arrivare‟: semanticamente e strutturalmente, quindi, la parola risulta piuttosto trasparente, con la
nozione di „trovare‟ concepita come il risultato del „cercare‟. Le stesse considerazioni possono essere estese
ai nomi 电车 diànchē „tram‟, costituito da „elettricità‟ e „veicolo‟, e 座位 zuòwèi „posto (a sedere)‟, dove
entrambi i costituenti veicolano approssimativamente lo stesso significato, quello di „posto‟; i due sostantivi,
tra l‟altro, non presentano marche di genere o di numero. Allo stesso modo, il verbo 坐下 zuòxia „sedersi,
mettersi a sedere‟ ha una struttura interna assolutamente trasparente per chi è competente di cinese: esso è
costituito, infatti, dei morfemi 坐 zuò „sedersi‟ e 下 xià „basso, verso il basso‟. Ad esso si aggiunge un
morfema di natura grammaticale, che abbiamo indicato nelle glosse come LE, che veicola il valore di „azione
compiuta‟ (aspetto perfettivo; diverso, si ricordi, dal tempo passato). Nella “parola” tipica dell‟italiano,
frequentemente, non è possibile attribuire con chiarezza singoli valori semantici a singoli “pezzi” di
significante (morfi; cfr. infra): nella forma rido, la terminazione –o “contiene” i significati di prima persona,
singolare, tempo presente, modo indicativo; in una lingua isolante quale è il cinese, come abbiamo visto,
ogni costituente della parola veicola tipicamente un solo significato. Non è esatto, tuttavia, affermare, come
abbiamo fatto sopra, che il cinese abbia solo parole “semplici”, prive di una struttura morfologica interna
(come le parole italiane mai, forse, virtù, non ulteriormente analizzabili), ché abbiamo invece numerose
parole composte di due (o più) morfemi; sarà più corretto dire che la corrispondenza 1:1 si attua non già tra
morfema e parola ma, piuttosto, tra morfema e morfo, ovvero tra unità di significato (ad esempio, „azione
compiuta‟) e “frammento” di significante, forma linguistica concreta (ad esempio, la forma 了 le). Anche la
combinazione di nomi ed aggettivi non innesca il fenomeno dell‟accordo, ovvero della identità di marcatura
tra il nome e gli elementi che lo qualificano:

[4] 腼腆的男孩 腼腆的女孩


miǎntian de nánhái miǎntian de nǚhái
timido DE ragazzo timido DE ragazza
„(un) ragazzo timido‟ „(una) ragazza timida‟

La forma dell‟aggettivo 腼腆 miǎntian „timido‟ non subisce modifiche. Inoltre, gli stessi costrutti potrebbero
riferirsi, sempre senza alcuna alterazione della forma, a entità plurali:

[5] 两个腼腆的女孩
liǎng-ge miǎntian de nǚhái
due-GE timido DE ragazza

3
„due ragazze timide‟

Il nome stesso non presenta marche di plurale, e anche gli esempi in [4] possono ricevere un‟interpretazione
plurale, a seconda del contesto. Il genere, inoltre, non è una proprietà di tutti i nomi umani:

[6] 李杰是学生
Lǐ Jié shì xuésheng
Li Jie essere studente
„Li Jie è studente‟

Nella frase [6], il Li Jie di cui si parla potrebbe essere sia un maschio che una femmina. Per quanto riguarda i
nomi inanimati, sia concreti che astratti, la distinzione di genere non ha alcun significato: parole come 电脑
diànnǎo „computer‟, 椅 子 yǐzi „sedia‟ o 树 shù „albero‟ non sono, linguisticamente, né “maschi” né
“femmine”; l‟unico caso in cui viene fatto riferimento al genere dei nomi inanimati è con l‟uso del pronome
anaforico di terza persona singolare, che ha le forme omofone (tā) 他 per il maschile, 她 per il femminile e
它 per i referenti inanimati. In italiano, come è noto, ad ogni nome viene assegnato genere maschile o
femminile, che innesca accordo in tutti i suoi elementi modificatori: questo bravo ragazzo vs. questa brava
ragazza; l‟assegnazione del genere è arbitraria nei nomi inanimati (il tavolo vs. la scrivania) e non è evidente
nei sostantivi in –e ( cane vs. ape; Giacalone Ramat, 2003b: 16).
Inoltre, come rileva acutamente Giacalone Ramat (2003b: 15), non si tratta solo di apprendere, a livello
formale o di correttezza grammaticale, che certi nomi sono maschili o femminili e che al genere (e al numero)
vanno associate certe desinenze flessive: per gli apprendenti cinesi è necessario acquisire, parallelamente alla
morfologia, la nozione stessa del genere applicata a referenti inanimati, assente nella loro lingua nativa,
come abbiamo visto. Tale discorso, come si evince da quanto detto sinora, vale anche per le categorie
grammaticali marcate sul verbo quali tempo, modo, persona e numero. Non sorprende, ad esempio, il fatto
che, in apprendenti cinesi, il participio passato (in luogo del passato prossimo) appaia prima di altri tempi
verbali passati, non con la funzione di collocare un evento nel passato, ma, piuttosto, con il fine di indicare
„azione compiuta‟, come il 了 le visto nell‟esempio [3]; per un apprendente cinese, tale funzione è più
accessibile di quella del riferimento al passato del participio passato / passato prossimo, in quanto la nozione
di „azione compiuta‟ (aspetto perfettivo) è già presente nella propria coscienza linguistica (Giacalone Ramat,
2003b: 20-21; Banfi & Giacalone Ramat, 2003: 48; Valentini, 1992).
Il carattere isolante della morfologia del cinese ha un importante riflesso nel dominio sintattico, ovvero,
come accennato sopra, nell‟importanza dell‟ordine dei costituenti nell‟interpretazione dell‟enunciato.
Confrontiamo le seguenti frasi cinesi ed italiane:

[7a] 我喜欢雷雷
wǒ xǐhuan Léilei
io piacere Leilei
„mi piace Leilei‟

[7b] 雷雷喜欢我
Léilei xǐhuan wǒ
Leilei piacere io
„a Leilei piaccio io‟

[8a] Io odio Gino

[8b] Gino odia me

L‟ordine normale (detto canonico) dei costituenti in una frase dichiarativa attiva, per entrambe le lingue, è
SVO, ovvero soggetto – verbo – oggetto: tale sequenza viene rispettata negli esempi in (7a-b) e (8a-b). In

4
cinese, tuttavia, l‟ordine dei costituenti è l‟unico indizio che permette di identificare il soggetto e l‟oggetto
diretto della frase; lo scambio tra le posizioni di 我 wǒ „io‟ e 雷雷 Léilei tra [7a] e [7b] inverte anche il
rapporto tra le due entità. In italiano, la distinzione tra pronome soggetto (io) e pronome oggetto (me)
assicura l‟attribuzione dei ruoli sintattici; l‟ordine delle parole, quindi, sarà più “manovrabile” in italiano che
in cinese. Nelle lingue che marcano sistematicamente il caso, come il latino, l‟ordine delle parole è ancora
più libero che in italiano:

(9a) Puer amat puellam

(9b) Puer puellam amat „il ragazzo ama la ragazza‟

(9c) Amat puer puellam

Le frasi in [9a-c] hanno, rispettivamente, ordine SVO, SOV e VSO, e sono tutte perfettamente grammaticali:
la forma del caso nominativo (caso del soggetto) del sostantivo puer „ragazzo‟ e la forma di accusativo (caso
dell‟oggetto) di puella „ragazza‟ (puellam) eliminano il rischio di ambiguità nell‟interpretazione.
In cinese, inoltre, l‟ordine delle parole fornisce spesso la cornice interpretativa per identificare singoli
elementi dell‟enunciato come nomi, verbi, aggettivi o avverbi: svilupperemo questo argomento nel paragrafo
4.3.
Nonostante cinese e italiano abbiano entrambi l‟ordine canonico di soggetto, verbo ed oggetto, il cinese
costruisce i gruppi di parole (o sintagmi) in maniera spesso speculare rispetto alla nostra lingua (esempi
adattati da Li & Thompson, 1981: 25-26):

[10] 他/她在厨房里炒饭
tā zài chúfáng lǐ chǎo fàn
Lui/lei in cucina dentro saltare riso
„prepara il riso in cucina‟

[11] 会讲国语的那一个小孩是我的儿子
huì jiǎng Guóyǔ de nèi-ge xiǎohái shì wǒ-de érzi
Potere parlare cinese DE quello-GE bambino essere io-DE figlio
„il bambino che sa parlare cinese è mio figlio‟

[12] 你慢慢地吃
nǐ mànman-de chī
tu lentamente-AVV mangiare
„Mangia lentamente‟

Nell‟esempio [10], vediamo come le preposizioni seguite da elementi locativi sono poste prima del verbo,
mentre in italiano l‟ordine naturale (detto non marcato) è l‟opposto, come si vede nella traduzione proposta.
In [11], la frase relativa 会讲国语 huì jiǎng Guóyǔ „ in grado di parlare cinese‟ è posta prima del referente
che qualifica („quel bambino‟), a cui è collegata dalla particella 的 de, al contrario di quanto avviene nella
nostra lingua; anche l‟avverbio dell‟esempio [12] si colloca prima del verbo, mentre in italiano la sequenza
verbo-avverbio pare più naturale (almeno, per la maggior parte degli avverbi).
Una peculiarità interessante del cinese, dal punto di vista tipologico, è la presenza della funzione del topic, il
„tema‟ della frase, oltre alle relazioni grammaticali di soggetto ed oggetto di lingue come l‟italiano o
l‟inglese. Il topic è un elemento di grande importanza nella sintassi del cinese (e, in generale, delle lingue
dette “a prominenza del topic”, topic-prominent; cfr. Li & Thompson, 1981: 15); esso, infatti, è sempre il
primo elemento nella frase (esempi adattati da ibidem):

[13] 张三我已经见过了
Zhāngsān wǒ yǐjīng jiàn-guo le

5
Zhangsan io già vedere-GUO LE2
„Zhangsan, l‟ho già visto‟

[14] 这棵树叶子很大
zhè-kē shù yèzi hěn dà
questo-KE albero foglia molto grande
„questo albero, le foglie sono grandi‟

Nell‟esempio in [13], il topic è l‟oggetto dell‟intera costruzione, e viene quindi collocato in posizione iniziale
(ordine OSV). In [14] abbiamo, invece, un esempio della cosiddetta costruzione a “doppio soggetto” (Li &
Thompson, 1981: 92-93), dove vige una relazione parte-tutto (sineddoche) tra topic e soggetto (le foglie sono
parte dell‟albero). Anche in italiano, come vediamo nelle traduzioni proposte per [13-14], è possibile
anticipare un costituente che non coincide con il soggetto logico (nelle cosiddette frasi segmentate); nella
lingua parlata, in particolare, è comune la rottura dell‟ordine SVO per porre in risalto ciò che per il parlante è
più rilevante, all‟atto dell‟enunciazione (Andorno et al. 2003: 119-120). Tuttavia, nella nostra lingua, un
soggetto, anche implicito, deve sempre essere presente (fatta eccezione per i verbi metereologici quali
piovere, nevicare, etc.) e, come sappiamo, il verbo si accorda con il soggetto. In cinese, dove non esiste
accordo, il soggetto non è identificabile come l‟entità con cui il verbo si accorda e possiamo avere frasi come
[15] e [16], dove è presente un topic ma non un soggetto (esempi adattati da Li & Thompson, 1981: 15, 88):

[15] 昨天念了两个钟头的书
zuòtiān niàn-le liǎng-ge zhōngtou de shū
ieri leggere-LE due-GE ore DE libro
„ieri (io) ho letto per due ore

[16] 那本书出版了
nà-běn shū chūbǎn-le
quel-BEN libro pubblicare-LE
„quel libro è stato pubblicato‟

Nell‟esempio [15], il topic della frase è la sua cornice temporale che, come è tipico di una lingua isolante, è
affidata ad un elemento lessicale, 昨天 zuòtiān „ieri‟ (si rammenti che, come detto sopra,了 le non ha la
funzione di collocare un evento nel passato, ma solo di indicare che l‟evento descritto dal verbo si è
concluso). Il soggetto inserito nella resa italiana „io‟ è recuperato dal discorso precedente: in altri contesti, la
medesima frase potrebbe avere come soggetto „noi‟, „essi‟ o il Sultano del Brunei, senza alcuna modifica
formale. Nell‟esempio in [16], invece, il soggetto è addirittura irrilevante; per tradurre una frase di questo
tipo in italiano, è necessario volgerla in forma passiva, ponendo il libro come soggetto (passivo). La versione
cinese, tuttavia, è di diatesi attiva e 那本书 nà-běn shū „quel libro‟ è solo il topic, l‟argomento della frase; il
„qualcuno‟ che pubblica il libro non è presente, nemmeno in forma implicita. L‟informazione rilevante in [16]
è cosa ne è stato del libro. Come vedremo più avanti (par. 4.4 e 4.5), il topic e il comment, ovvero il rema,
quello che si dice del topic, sono elementi importanti nell‟organizzazione dell‟enunciato anche per gli
apprendenti di italiano L2 nelle fasi iniziali (Andorno et al., 2003: 126-127).
Conclusa questa breve presentazione dei tratti tipologici salienti della lingua cinese, ci dedicheremo nei
prossimi due paragrafi ad un aspetto di grande interesse di detto sistema linguistico, ovvero la forma e la
concezione della “parola”.

4.1 Come i cinesi concepiscono la "parola"

La “parola” è una nozione fondamentale nella coscienza linguistica di un parlante: un locutore di lingua
italiana “sa”, ad esempio, che frutta, mai e crescere sono parole della propria lingua, mentre –izzare non è
una parola, e Consiglio Nazionale delle Ricerche è un‟espressione formata da più parole; un parlante italiano,
quando scrive, lascia uno spazio bianco tra una parola e l‟altra. Nonostante la “evidenza intuitiva” della
parola per i locutori di una lingua, la nozione di “parola” non conosce ancora una definizione soddisfacente

6
(si rimanda a Ramat, 2005 per ulteriori ragguagli): eviteremo qui di riprendere questo dibattito teorico, e ci
concentreremo piuttosto sulla parola “intuitiva”, quell‟unità compresa tra due spazi bianchi, per il parlante
italiano e per il parlante cinese.
Un‟importante, ancorché banale, differenza tra italiano e cinese risiede proprio nelle diverse tradizioni
scrittorie. Il cinese, come è noto, viene reso grafematicamente (ovvero, viene scritto) con un sistema
semasiografico, dove il segno grafico non veicola solo un suono, ma anche un significato. Ogni unità grafica,
un carattere cinese (spesso chiamato erroneamente “ideogramma”, in cinese 汉字 Hànzì o semplicemente 字
zì), corrisponde ad una sillaba (音节 yīnjié) del parlato (con una sola eccezione, che tralasceremo di
menzionare qui), che abbiamo visto essere unità di fondamentale importanza nella fonologia e nella prosodia
della lingua cinese (cfr. par. 4.0). Ogni carattere tende inoltre a coincidere largamente con il morfema, che
abbiamo visto essere la più piccola unità linguistica dotata di significato, il “mattone” che costituisce la
parola; il carattere cinese, quindi, è un‟unità grafica, a cui corrispondono un‟unità sonora (la sillaba) e una
semantica (il morfema). Vediamo dunque, con alcuni esempi, quale può essere il rapporto tra unità della
scrittura, del suono e del significato (cfr. Lin, 2001; Wang, 1998).
Un carattere / sillaba può rappresentare una parola (monomorfemica, non scomponibile):

[17] 火 猫 书
huǒ māo shū
„fuoco‟ „gatto‟ „libro‟

Due o più caratteri / sillabe possono rappresentare una parola (monomorfemica):

[18] 葡萄 玻璃 麦克风
pútao bōli màikèfēng
„uva‟ „vetro‟ „microfono‟

Due o più caratteri / sillabe rappresentano una parola complessa, costituita di più morfemi:

[19] 电话 眼光 吹风机
diànhuà yǎnguāng chuīfēngjī
elettricità+parlare occhio+luce soffiare+vento+apparecchio
„telefono‟ „visione‟ „asciugacapelli‟

In cinese moderno, forme come quelle in [18] sono presenti in numero decisamente limitato. Tipicamente, la
“parola” cinese è complessa, come quelle presentate in [19], prevalentemente di due caratteri e spesso dal
significato trasparente: l‟asciugacapelli sarà la „macchina che soffia il vento‟, il telefono sarà il „parlare
elettrico‟, e così via (cfr. es. [3]; si veda Wang, 1998).
Occorre sottolineare che, nella tradizione cinese, le parole non sono separate da spazi o altri segni grafici di
separazione, come vediamo negli esempi [3-7b] e [10-16]; la nozione intuitiva di “parola”, quindi, non vede
implementazione nelle convenzioni ortografiche messe in atto dai parlanti. La “parola”, intesa come forma
linguistica minima che può essere usata in isolamento in un enunciato, viene detta in cinese 词 cí. Tale
dizione, tuttavia, appartiene soprattutto al vocabolario specialistico delle scienze filologiche, mentre il
termine a cui corrisponde la nozione “intuitiva” di parola è proprio 字 zì, „carattere‟. Come ricorda Chao, “se
uno volesse chiedere cosa significa la parola sintattica 现在 xianzai [„adesso‟], direbbe: (…) cosa significano
questi due caratteri, xianzai?” (tradotto ed adattato da Chao, 1968: 137-138). La confusione (o, meglio,
sovrapposizione) di „parola‟ e „morfema‟ nella coscienza del parlante medio non sorprende, se si tiene conto
del fatto che la gran parte dei caratteri / morfemi del cinese ha significato lessicale (come quello dei nomi,
dei verbi, degli aggettivi e degli avverbi) e non grammaticale e, inoltre, il cinese manca sostanzialmente di
marche morfologiche, come flessione e derivazione, e di distinzione formale tra parti del discorso; tutto ciò
rende difficile distinguere chiaramente la nozione di parola e quella di morfema / carattere (Wang, 1998: 11).

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La stessa lessicografia cinese assegna una certa prominenza alla nozione di “carattere” come elemento
organizzativo del lessico. Mentre i nostri dizionari sono, sostanzialmente, liste di parole (lemmi), i cinesi,
tradizionalmente, compilavano 字典 zìdiǎn, „raccolte di caratteri‟, dove sono elencati e spiegati singoli
caratteri cinesi; nella lessicografia moderna, sono invece comuni gli 词典 cídiǎn, „raccolte di parole‟,
organizzati però sempre a partire da singoli caratteri. La salienza percettiva dello 字 zì nella coscienza
linguistica del parlante cinese fa sì che non è raro che il termine sia usato anche in riferimento a parole di
lingue alfabetiche, come la nostra (Chao, 1968: 138). In un lavoro recente, Banfi (2003b) ha condotto
un‟analisi di due testi paralleli, uno redatto in caratteri cinesi e uno in italiano, scritti da un giovane
immigrato cinese in Italia, scolarizzato in Cina, inserito in un istituto professionale di Milano dopo un breve
soggiorno in Italia; il soggetto è competente di cinese mandarino (oltre che del dialetto di 温州 Wēnzhōu; cfr.
par. 4.0), conosce la scrittura cinese e conosce(va) l‟alfabeto latino solo come strumento di trascrizione del
cinese e, oltretutto, non conosce l‟inglese (2003b: 189-90). Il compito consisteva nella redazione di un breve
tema, sia in italiano che in cinese: descrivere una giornata per lui particolarmente importante. Secondo
quanto osservato da Banfi, nel testo italiano l‟informante ricorre frequentemente a un punto fermo per
separare le parole, come “linea di confine” tra unità informative; nell‟analisi proposta dall‟autore, tale
diacritico coincide con il confine (la spaziatura) tra singoli caratteri visibile in un testo cinese (Banfi 2003b:
202).
L‟uso dello 字 zì „carattere‟, unione di forma grafica, suono e significato, come unità fondamentale di lessico
e morfologia, ci induce ad una riflessione sull‟importanza della forma scritta delle parole per un parlante
cinese. Nel paragrafo precedente abbiamo già detto della relativa semplicità della fonologia del cinese, con
un numero piuttosto basso di sillabe distinte (anche se i toni svolgono ulteriore funzione distintiva): solo 297
delle 1200 sillabe del mandarino hanno un solo significato; in altre parole, più di tre quarti delle sillabe
hanno almeno due significati, che possono o meno essere fissati grafematicamente da caratteri diversi (Lin,
2001: 9 e 85). Vediamo qualche significato associato alla sillaba lì:

[20] 力 例 历 栗
lì lì lì lì
„forza‟ „esempio‟ „esperienza‟ „castagna‟

Ognuno di questi morfemi è distinto, innanzitutto, sul piano grafico, mentre sul piano acustico essi risultano
identici. Aggiungeremo qui che anche i singoli caratteri / morfemi spesso hanno più di un significato, ma
ogni ambiguità generalmente scompare quando essi vengono usati in combinazione con altri caratteri, come
costituenti di una parola complessa o di una frase. Il terzo carattere, 历 lì, che abbiamo glossato come
„esperienza‟, ha anche i significati di „storia‟, „era‟ e „durare‟. Il valore da esso veicolato, normalmente, viene
chiarito dai caratteri / morfemi con cui si combina per formare parole complesse o (parti di) frasi: 经历 jīnglì
„esperienza‟, 历史 lìshǐ „storia‟, 历代 lìdài „dinastie passate o future‟, 历时 lìshí „durare‟. L‟ambiguità non
riguarda solo il significato ma, addirittura, la parte del discorso di appartenenza (qui nome o verbo);
torneremo su questo punto nel prossimo paragrafo. L‟associazione tra un determinato suono (una sillaba, per
il cinese) ed un determinato significato avviene, in un certo senso, “passando” attraverso la forma scritta e
attraverso l‟associazione delle unità fonologico-semantiche con altre unità fonologico-semantiche nella
catena dell‟enunciato. Nelle lingue a scrittura fonografica quali l‟italiano, i singoli elementi grafici, le lettere
dell‟alfabeto, non hanno nessun valore semantico autonomo: è la loro combinazione che produce significato.
Per un apprendente cinese, abituato a concepire il lessico come costituito di caratteri / morfemi, combinabili
tra di loro per ottenere concetti più complessi, risulta gravoso il compito di acquisire il vocabolario della
lingua italiana, ricco di parole semplici, da memorizzare singolarmente, “appesantite” dalla morfologia
flessiva (desinenze di genere, numero, tempo, modo, etc.). La forma tipica della parola italiana prevede la
presenza di un morfema lessicale e di uno o più morfemi grammaticali, anche una parola semplice quale
casa ha comunque una struttura interna: essa è costituita del morfema cas- (qui il trattino indica che alla
destra del morfema deve essere aggiunto qualcosa per formare una parola), che veicola il concetto di „casa‟,
e il morfema (o, meglio, il morfo; cfr. par. 4.0) –a, che veicola i significati di „femminile‟ e „singolare‟. Si
noti che il morfo –a esprime cumulativamente i valori di genere e numero: non è possibile, in altre parole,
identificare una “parte” di –a che indichi il femminile e un‟altra che indichi il singolare. Ciò, come abbiamo
visto sopra, non avviene mai nella parola cinese, dove ogni morfo, equivalente ad un morfema, esprime un

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solo significato e non si “fonde” mai con i morfi ad esso contigui. La lingua italiana, inoltre, al pari di altre
lingue flessive, prevede fenomeni di alterazione (allomorfia) della radice, soprattutto nel verbo (venire, vieni,
venni) e di suppletivismo, ovvero parole che intrattengono evidenti rapporti semantici senza somiglianza
formale, né grafica né fonologica: la prima persona singolare del presente indicativo del verbo andare è
vado, e gli abitanti di Chieti sono detti teatini. Tali fenomeni, evidentemente, sono alieni alla lingua cinese e
costituiscono un‟ulteriore complicazione nell‟apprendimento dell‟italiano L2; torneremo su questo punto nei
prossimi due paragrafi.
Uno studio sperimentale sulla percezione della “parola” italiana da parte di apprendenti cinesi di italiano L2
(Banfi et al., 2008, Arcodia et al., 2008), consistente in due questionari dove gli informanti avevano il
compito di inserire in un testo (italiano, nel primo test e cinese, nel secondo) parole italiane di cui era loro
fornita la versione cinese, ha mostrato come non è strano per i cinesi ricorrere alla struttura della parola della
propria lingua nativa per sopperire a lacune lessicali in L2. Per termini come „via cavo‟ si sono avute rese
quali con la linea, con linea, verosimilmente per mediazione del termine cinese corrispondente 有线 yǒuxiàn,
letteralmente „con il cavo‟, ma 线 xiàn vale anche per „linea‟, appunto; per „notizie‟, si sono date rese quali
notizia nuova, nuova notizie, nuova notizia, dove l‟equivalente cinese 新闻 xīnwén significherebbe, alla
lettera, „nuova cosa udita‟ (Arcodia et al., 2008). Come vedremo nei prossimi due paragrafi, un altro tratto
tipologico della lingua cinese, ovvero l‟assenza di distinzioni chiare tra le diverse parti del discorso (nome,
verbo, aggettivo, etc.), connessa necessariamente con la scarsa sensibilità per la morfologia flessiva, influisce
sull‟apprendimento e sulla produzione in italiano dei discenti cinesi.

4.2 Le parti del discorso e la forma della "parola"

Come abbiamo già evidenziato nel par. 4.0, in cinese, come è tipico dei sistemi dalla morfologia isolante, la
forma della parola non contiene elementi che aiutino a identificarla come nome, aggettivo o verbo e,
frequentemente, uno stesso termine può comportarsi come un membro di categorie lessicali diverse. Nel
paragrafo precedente si è affrontato il problema della concezione della “parola” nel parlante cinese, e si è
visto come il carattere, lo 字 zì, che tende largamente a coincidere con il morfema, è un‟unità che ha uno
status percettivo paragonabile a quello della “parola” per i locutori di lingue come l‟italiano. A livello di
singolo carattere / morfema, in cinese l‟ambiguità è pressoché totale; uno stesso carattere / morfema potrebbe
avere valore di nome, verbo, aggettivo o avverbio a seconda del contesto in cui è inserito, ovvero, della
parola complessa o della costruzione sintattica (frase) ove è collocato:

[21] 这张纸很白
zhè-zhāng zhǐ hěn bái
questo-ZHANG carta molto bianco
„questo foglio di carta è bianco‟

[22] 她想表白自己的诚意
tā xiǎng biǎobái zìjǐ de chéngyì
lei volere spiegare proprio DE buona fede
„lei vuole spiegare la sua buona fede‟

[23] 我白花了很多钱
wǒ bái huā-le hěn duō qián
io invano spendere-LE molto tanto soldi
„ho speso invano molti soldi‟

Il carattere / morfema 白 bái assume valore di aggettivo, „bianco‟, in [21], di verbo nel composto 表白
biǎobái „chiarirsi, spiegarsi‟ (costituito dei morfi 表 biǎo „esprimere‟ e 白 bái, qui „dichiarare‟) e di avverbio,
„invano‟, in [23]. Il contesto elimina qualunque ambiguità nella selezione del valore interpretativo corretto.
Naturalmente, questo non vuol dire che qualunque forma sia effettivamente attestata, ad esempio, sia come

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nome che come aggettivo o verbo: una parola semplice come 叶 yè „foglia‟, ad esempio, pare avere solo
valore di sostantivo.
Una parte significativa dei verbi di due sillabe (= di due morfemi) nel cinese moderno possono assumere
valore verbale (Norman, 1988: 159). Sarà il contesto sintattico, insieme ad eventuali particelle a chiarire, ad
esempio, se una parola sia da considerarsi nome o verbo:

[24] 合唱团组织起来了
héchàngtuán zǔzhī qǐlái-le
coro organizzare CONCLUSO-LE
„il coro è stato organizzato‟

[25] 我们建立了组织
wǒmen jiànlì-le zǔzhī
noi istituito-LE organizzazione
„abbiamo istituito un‟organizzazione‟

La parola 组织 zǔzhī può valere sia per „organizzare‟ che per „organizzazione‟. In [24], il termine in
questione è da interpretarsi come verbo: è collocato in seconda posizione, dopo il topic della frase (che non
ha soggetto; cfr. es. 16), ed è accompagnato da particelle verbali, quale la marca di completamento 起来
qǐlái e il 了 le di azione compiuta (di cui abbiamo già parlato nel par. 4.0). Nell‟esempio [25]), invece, 组织
zǔzhī ha valore sostantivale, come si evince dal fatto che esso è collocato nella posizione canonica
dell‟oggetto verbale.
Un‟altra classe di parole che in cinese possiede caratteristiche alquanto peculiari, se messa a confronto con la
lingua italiana, è quella dell‟aggettivo. Gli aggettivi del cinese hanno molte proprietà in comune con i verbi,
tra cui quella di potere costituire un predicato, senza l‟uso della copula:

[26] 大力非常聪明
Dàlì fēicháng cōngming
Dali molto intelligente
„Dali è molto intelligente‟

In italiano, come sappiamo, il verbo copula essere è necessario con un aggettivo per avere predicazione
(*Dali molto intelligente); in cinese, invece, un aggettivo (predicativo) può “sostenere” una frase da solo,
come un verbo: Li & Thompson definiscono questa categoria adjectival verbs, „verbi aggettivali‟ (1981: 142).
Inoltre, gli aggettivi cinesi vengono negati con gli avverbi 不 bù e 没 méi, come i verbi ma non come i nomi:

[27] 他不高
tā bù gāo
lui non alto
„lui non è alto‟

[28] *他不教授
tā bù jiàoshòu
lui non professore
*„lui non professore‟

Gli aggettivi, inoltre, possono ricevere marche verbali quali il 了 le di „azione compiuta‟ (cfr. es. [3]), come
nell‟esempio seguente (da Li & Thompson 1981: 188-9):

[29] 衬衫小了三寸

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chènshān xiǎo-le sān cùn
camicia piccolo-LE tre pollice
„la camicia è (troppo) piccola di tre pollici‟

La frase cinese in [29] può anche valere per „la camicia si è rimpicciolita di tre pollici‟; nella traduzione
italiana risulta necessario l‟impiego di un verbo.
Ciò che emerge da questa breve presentazione di dati relativi ai livelli morfologico e sintattico è che, per un
parlante cinese, ogni elemento linguistico concreto dotato di significato, ogni morfema (/ morfo), ha
tipicamente un valore lessicale; messo di fronte ad un morfema della propria lingua, egli non penserà allo
stesso come nome o verbo ma, primariamente, come un elemento dotato di significato. Un parlante italiano
che viene messo di fronte ad una parola quale leggere, saprà che essa appartiene alla categoria dei verbi e
che essa deve essere coniugata secondo un certo modello: nel caso specifico, quello dei verbi della seconda
coniugazione (-ere). Un cinese, diversamente, se vedesse in isolamento, avulso da ogni contesto, il 白 bái
degli esempi [21-23], non potrebbe individuare con certezza il suo valore semantico e categoriale, ovvero se
esso sia, ad esempio, verbo o aggettivo. Inoltre, il parlante cinese “ideale” non penserebbe a quale sia la
classe di flessione (come la seconda coniugazione verbale citata sopra) del termine o, più genericamente, a
come esso debba essere “modificato” per essere usato in una frase: in nessun contesto, infatti, 白 bái ha
bisogno di alterazioni nella forma per “adattarsi” alla frase in cui viene usato (come abbiamo visto nel par.
4.0). Nel prossimo paragrafo, approfondiremo questo tema soffermandoci proprio su verbi e nomi, categorie
di massima importanza nella struttura della lingua.

4.3 L'idea di “verbo” e l'idea di “nome”

Nei paragrafi precedenti, abbiamo analizzato alcune delle particolarità del cinese, in primo luogo quale
lingua dalla morfologia isolante, che rendono detto sistema affatto diverso dall‟italiano e che sono, a nostro
avviso, da tenersi in considerazione nella riflessione sulla didattica dell‟italiano L2. In questa sezione sarà
approfondito il tema delle specificità organizzative del “verbo” e del “nome” nelle due lingue, integrando e
sviluppando le osservazioni fatte sinora in tal senso.
Le caratteristiche generali del verbo cinese sono state esposte sopra (parr. 4.0 e 4.2) e le riassumiamo
brevemente qui (cfr. Chao, 1968 e Li & Thompson, 1981; un interessante disamina si trova anche in Banfi &
Giacalone Ramat, 2003). Il sistema del verbo cinese si basa su un‟unica forma, la forma di citazione (ovvero,
quella con cui il verbo viene elencato, ad esempio, nei dizionari), che non conosce distinzioni di numero,
persona, tempo e modo: una forma quale 写 xiě „scrivere‟ può valere per scrivo, scrive, scriverei, scrivessero,
scrivemmo, etc. Naturalmente, ciò non significa che l‟enunciato cinese sia privo di indicazioni circa i
partecipanti dell‟azione, la sua collocazione temporale ed altre categorie. Come abbiamo detto sopra, il nome
o il pronome soggetto identificano “chi compie” l‟azione descritta dal verbo (anche se, come sappiamo, non
sempre il soggetto “compie” qualcosa e non è detto che il verbo descriva un‟azione: cfr. Sergio teme la
povertà): 我 们 写 wǒmen xiě „noi scriviamo‟ vs. 你 写 nǐ xiě „tu scrivi‟. La collocazione temporale
dell‟evento viene affidata, frequentemente, ad elementi lessicali (nomi o avverbi):

[30] 以前她不喜欢吃西餐
yǐqián tā bù xǐhuan chī xīcān
prima lei non piacere mangiare cucina occidentale
„prima a lei non piaceva mangiare all‟occidentale‟

[31] 明天我放假
míngtīan wǒ fàngjià
domani io fare vacanza
„domani farò vacanza‟

Nelle traduzioni italiane di [30] e [31], si rende necessario l‟uso, rispettivamente, di un tempo passato,
l‟imperfetto (piaceva), e di un futuro (farò), marcati per persona e numero; tale “obbligo”, per il parlante di

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italiano, è connesso con la presenza proprio di quegli indicatori di tempo (prima, domani) che, nella versione
cinese, assumono per intero il compito di collocare l‟evento nel tempo.
Un‟altra categoria del verbo italiano la cui espressione in cinese viene affidata in parte al lessico è quella
della modalità, con l‟impiego di verbi quali 会 huì „essere probabile / sicuro‟:

[32] 明天会下雪
míngtiān huì xiàxuě
domani essere probabile nevicare
„domani (con ogni probabilità) nevicherà‟

Una categoria di grande importanza nell‟organizzazione della frase cinese è l‟aspetto, a cui abbiamo già fatto
riferimento nel par. 4.0, da intendersi come la struttura temporale interna di un evento (cfr. ho bevuto del
vino vs. stavo bevendo del vino). Abbiamo già parlato della particella 了 le (3), che indica la conclusione
dell‟azione descritta dal verbo (aspetto perfettivo); è bene ricordare che il valore di „azione compiuta‟, così
come qualunque altra manifestazione dell‟aspetto, è indipendente da una nozione temporale come quella del
passato (es. da Li & Thompson, 1981: 213):

[33] 我吃了饭再走
wǒ chī-le fàn zài zǒu
io mangiare-le riso dopo andare
„andrò dopo avere mangiato‟

In [33], l‟evento si colloca nel futuro; la funzione di 了 le è quella di segnalare che la prima azione,
„mangiare‟, è completata prima che la seconda, „andare (via)‟, avvenga (cf. it. quando ho finito di mangiare
me ne vado).
Altre marche aspettuali di uso comune sono 正在…着 zhèngzài…zhe, non sempre entrambe presenti, che
indicano azione in svolgimento (aspetto progressivo; Li & Thompson, 1981: 217 ss.) e 过 guo, che indica
che l‟azione descritta dal verbo è avvenuta almeno una volta in passato (detto “aspetto esperienziale”; Li &
Thompson, 1981: 226 ss.):

[34] 昨天晚上我给他们打电话时他正在吃饭
zuòtiān wǎnshang wǒ gěi tā dǎ diànhuà shí tā zhèngzài chīfàn
ieri sera io a lui fare telefonata tempo lui PROGRESS mangiare
„ieri sera quando l‟ho chiamato lui stava mangiando‟

[35] 你去过日本吗?
nǐ qù-guo Rìběn ma
tu andare-ESP Giappone INTERR
„sei mai stato in Giappone?‟

La marca di progressivo 正在 zhèngzài in [34], che abbiamo reso in italiano con la perifrasi progressiva
“stare + gerundio” indica un azione colta nel suo svolgimento; la dimensione temporale, presente nella
traduzione italiana (stava), è invece irrilevante per il verbo cinese. Nella versione italiana di [35], l‟uso di
mai serve a veicolare il valore della marca 过 guo, che indica che l‟evento designato dal verbo è già
avvenuto in precedenza. In quest‟ultimo caso, è l‟italiano che veicola lessicalmente quello che il cinese
esprime con mezzi morfologici, al contrario degli esempi presentati sinora.
Quanto detto sulla prominenza dell‟aspetto nel sistema del verbo cinese non significa che la stessa categoria
sia assente o indeterminata nella nostra lingua (la nostra presentazione del sistema aspettuale dell‟italiano si
basa su Bertinetto, 1986). Anche l‟italiano, ad esempio, distingue tra passato perfettivo (passato remoto o
prossimo) e imperfettivo (imperfetto):

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[36] Ho finito l‟articolo ieri pomeriggio

[37] Quando ho bussato alla porta, Filippo dormiva

Nella frase in [36], l‟evento finire (l’articolo) è descritto nella sua interezza, senza riferimento al suo
svolgimento; questo è espressione di aspetto perfettivo. In [37], invece, abbiamo due eventi, di cui il primo,
bussato, viene presentato nuovamente come compiuto (perfettivo), mentre il secondo, dormiva, viene
presentato nel corso del suo svolgimento; chi pronuncia questa frase non dice nulla riguardo alla
prosecuzione del dormire di Filippo, l‟evento è presentato come imperfettivo. Naturalmente, la questione
dell‟aspettualità nel verbo italiano è molto più complessa e meriterebbe uno spazio che non è possibile
concedere qui; ciò che è importante sottolineare per i nostri scopi è che normalmente, in italiano,
l‟espressione dell‟aspetto è inscindibile da quella del tempo (una vistosa eccezione è rappresentata, invero,
dalla perifrasi progressiva “stare + gerundio”, che non discuteremo qui). In una forma come dormiva, la
terminazione dell‟imperfetto veicola cumulativamente i valori di „passato‟ e di „imperfettivo‟, mentre in
cinese, come visto sopra [33-35], alla categoria dell‟aspetto sono dedicati morfi specifici e la nozione si
presenta come indipendente dalla collocazione dell‟evento nel passato, nel presente o nel futuro. Nel par. 4.0,
abbiamo detto che il participio passato, che spesso sostituisce il passato prossimo nell‟interlingua dei cinesi,
può comparire prima di altri tempi nell‟italiano dei sinofoni con valore di „azione compiuta‟, privo di
implicazioni temporali (si vedano i riferimenti bibliografici ivi proposti); tutto ciò apparirà ancora più
prevedibile, visto il quadro comparato del sistema di tempo e aspetto del cinese e dell‟italiano proposto qui.
Un‟altra caratteristica del verbo cinese, connessa con la sostanziale assenza di flessione, è la mancanza della
distinzione tra forme finite e forme non finite. Mentre in italiano un predicato complesso che contenga, ad
esempio, un verbo modale, ha un solo verbo di forma finita, in cinese i verbi possono essere messi
liberamente in sequenza, come nelle cosiddette costruzioni seriali (Li & Thompson, 1981: 594 ss.; esempio
adattato da ivi, p. 596):

[38] 我要上街
wǒ yào shàngjiē
io volere andare in strada
„voglio uscire‟

In italiano, sarebbe agrammaticale una sequenza quale *voglio esco. Nella produzione orale in italiano L2 di
un giovane apprendente cinese, a cui è stato dato il nome di convenienza CH, Giacalone Ramat (2003b: 22;
cfr. Valentini 1992) ha evidenziato la presenza di strutture predicative complesse costituite di verbi di modo
finito, che sembrano ricalcare il modello in [38]:

[39] vuole compra biglietto

[40] prima deve cambia nome

L‟apprendente cinese di italiano L2, quindi, nelle prime fasi di sviluppo della propria interlingua si affida
alla cosiddetta “forma base” (o “basica”) del verbo (Banfi & Giacalone Ramat 2003; Giacalone Ramat
2003b), che coincide frequentemente con la 3a persona singolare dell‟indicativo presente dei verbi della
prima coniugazione: lavora, mangia, etc. L‟uso della forma base, nei contesti più vari, in luogo delle forme
attese, è tipico anche di soggetti con un diverso background linguistico, nelle varietà basiche di L2 (cfr.
Banfi & Bernini 2003: 84 ss.); essa risulta particolarmente “naturale” per un sinofono, avvezzo ad una forma
passe-partout del verbo. In alcuni apprendenti cinesi, inoltre, è stato rilevato un uso frequente dell‟infinito
come verbo principale, a riprova della scarsa sensibilità per la distinzione tra forme finite e non finite; tra
sinofoni di basso livello di competenza, è attestato anche l‟uso dell‟infinito in contesto di tempo passato ed
aspetto perfettivo (Banfi, 1990; Banfi & Giacalone Ramat, 2003; Valentini, 1992: 94). Abbiamo già

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ricordato sopra come forme di participio passato siano utilizzate dagli apprendenti di italiano L2 con valore
essenziale di marche di eventi perfettivi. Con la comparsa dell‟ausiliare essere o avere e, quindi, con la
produzione di forme corrette di passato prossimo, il verbo perde la connotazione fondamentale di perfettivo
ed assume anche valore temporale, proprio come nell‟italiano dei nativi; questo stadio viene raggiunto con
ritardo dai cinesi rispetto agli apprendenti con altre lingue materne (Valentini, 1992: 20).
Per quanto riguarda l‟accordo di persona e numero, appare prevedibile nei sinofoni una certa difficoltà nel
maneggiare con sicurezza tale strumento morfologico. Ad esempio, il soggetto CH, già citato sopra, non
acquisisce pieno controllo dell‟accordo verbale nel periodo di osservazione; questo ritardo potrebbe essere
connesso, nuovamente, con la mancanza, nella propria lingua madre, di forme verbali la cui finitezza venga
esplicitata da marche morfologiche, quali l‟accordo di persona (Banfi & Giacalone Ramat, 2003: 46).
Abbiamo accennato nel par. 4.1 alla presenza di fenomeni di allomorfia e suppletivismo nei paradigmi
verbali italiani: si pensi a forme quali essere, sono, fu, stato, o andare, vado, andiamo. A tale proposito, è da
notare la produzione di forme quali vadòno in luogo di vanno, verosimilmente per analogia rispetto a coppie
come dormo / dormono, con l‟aggiunta di –no alla prima persona singolare (Banfi & Giacalone Ramat, 2003:
47).
Per quanto riguarda il nome, abbiamo visto brevemente nel par. 4.0 (ess. 4-6) come tale parte del discorso si
configuri in cinese. Il genere è una proprietà solo dei nomi animati e, frequentemente, non è marcato
morfologicamente; inoltre, l‟unico tipo di accordo esistente è quello del pronome di terza persona singolare,
tā, che ha tre forme grafiche, corrispondenti ai tre generi maschile, femminile e neutro. Il numero, invece,
non conosce marcatura e non è una categoria rilevante per nomi (inanimati) e aggettivi; l‟unica eccezione è
rappresentata dai pronomi personali, 我 wǒ, 你 nǐ e 她 tā (per questo ultimo pronome, presentiamo qui solo
la forma del femminile), che hanno come corrispondente plurale 我们 wǒmen, 你们 nǐmen e 她们 tāmen. In
italiano genere e numero sono tratti presenti pressoché su ogni nome. Come detto sopra (par. 4.0), il genere è
un tratto inerente, e può essere segnalato da marche morfologiche: maestro vs. maestra; nei nomi che
terminano in –e quali calice o radice, il genere è coperto. Nei sostantivi inanimati, l‟assegnazione del genere
è arbitraria. Il numero, in italiano, è segnalato morfologicamente su quasi tutti i sostantivi, spesso
cumulativamente al genere: maestre, ragazzi, etc.; la flessione di numero è assente nei nomi invariabili, quali
città o virtù. Sia la categoria del genere che quella del numero sono marcate su aggettivi, dimostrativi (questo,
quella, etc.) e articoli (oltre che sul participio passato di alcuni verbi), che si accordano con il nome; tale
fenomeno, come ricordato sopra, è sostanzialmente assente nelle lingue isolanti quali il cinese.
La corretta assegnazione e marcatura del genere nominale, così come l‟accordo dei modificatori del nome
con lo stesso, non è una conquista facile per nessun apprendente di italiano L2; la difficoltà è dovuta, oltre
che alle caratteristiche del nome italiano riassunte sopra, alla scarsa salienza percettiva delle desinenze
flessive di genere, come è dimostrato, indirettamente, anche dalla pratica degli apprendenti di sovraestendere
la terminazione –a senza valore di genere, per via della maggiore salienza uditiva della stessa (Chini &
Ferraris, 2003: 44; ivi, 43-51). Nei dati dell‟apprendente CH, analizzati da Giacalone Ramat (2003b: 16-19),
appare come le prime forme corrette di identificazione e marcatura del genere (e, anche, di accordo)
avvengano per i nomi dal genere naturale, con forme quali filio, filia, un signore e un signora (l‟autore cita
qui Valentini 1992: 19). I corrispondenti termini cinesi 儿子 érzi „figlio‟, 女儿 nǚ’ér „figlia‟, 先生 xiānsheng
„signore‟ e 太太 tàitai „signora‟ sono, allo stesso modo, “naturalmente” maschili o femminili. Le difficoltà
maggiori, come appare prevedibile, si hanno con i sostantivi inanimati e con quelli a genere coperto: CH
produce forme quali quelo tigro, la cane, bicchiero e bottilio (Giacalone Ramat, 2003b: 18-19). Inoltre,
l‟identificazione della desinenza –o con il genere maschile e di –a con il femminile è presumibilmente alla
base di fenomeni di accordo errato, sempre in CH, con forme quali un radio (Chini & Ferraris, 2003: 51).
Anche la flessione di numero risulta essere maggiormente problematica in apprendenti cinesi rispetto, ad
esempio, ad anglofoni e tedescofoni, che marcano singolare e plurale sui nomi nelle rispettive lingue madri
(Chini & Ferraris, 2003: 52). Nell‟analisi di Chini & Ferraris (2003: 51-53), che tiene conto, per i sinofoni,
sempre dei dati dell‟apprendente CH, vengono messi in rilievo fenomeni quali: presenza di flessione plurale
in contesti di singolare per alcuni nomi che sono usati più frequentemente al plurale in italiano (giorni, mesi,
anni, sigarette); assenza di flessione di numero quando il nome è accompagnato da numerali o quantificatori
(diciannove ora, tre stato, tanti donna); sovraestensioni di –i o di –e. La mancanza della flessione riscontrata
in forme quali diciannove ora, tre stato e tanti donna sembra “giustificabile”, in quanto la presenza del
numerale o del quantificatore assicura la corretta identificazione del referente come plurale (e tale fenomeno
è presente, infatti, anche in apprendenti anglofoni; Chini & Ferraris, 2003: 51); per il parlante cinese, tale
marca risulterà ancora più superflua, viste le caratteristiche della sua lingua materna. Tra i parlanti

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considerati da Chini & Ferraris, inoltre, CH risulta esser quello che commette più errori nella flessione di
numero (2003: 53): le sue difficoltà sono maggiori nell‟opposizione tra femminile singolare in –a e plurale in
–e, oltre che, come ricordato prima, nei sostantivi a genere coperto (pesce piccoli, altri paese).
Terminato questa breve trattazione di temi inerenti alla percezione del verbo e del nome italiano da parte di
apprendenti sinofoni e delle difficoltà connesse con la morfologia verbale e nominale della nostra lingua,
passiamo ora alla discussione di questioni di sintassi.

4.4 Le principali difficoltà nell'organizzazione di un enunciato

L‟ordine di base dei costituenti in una frase cinese (dichiarativa attiva), come detto sopra (par. 4.0) prevede
che il soggetto preceda il verbo, a sua volta seguito dall‟oggetto: l‟ordine SVO è comune anche alla nostra
lingua. Si è anche visto, tuttavia, come gli elementi in altri tipi di costruzione in cinese siano spesso disposti
in maniera speculare rispetto all‟italiano (ess. 10-12). I modificatori del nome tendono ad essere posti sempre
alla sua sinistra, con gli ordini aggettivo-nome, e frase relativa-nome; gli avverbi precedono il verbo e i
sintagmi preposizionali (preposizione seguite da elemento locativo) precedono il verbo. In cinese, inoltre, la
nozione di topic ha una grande importanza nell‟organizzazione dell‟enunciato: esso è l‟elemento che
compare in prima posizione (cfr. ess. 13-14) e si danno frasi in cui manca il soggetto, che è desunto dal
contesto o irrilevante, ma è presente un topic (ess. 15-16). In italiano, invece, un soggetto (anche sottinteso) è
pressoché sempre presente ed è obbligatorio il suo accordo con il verbo, per le categorie di persona e
numero. Un'altra caratteristica che accomuna le due lingue è una certa manovrabilità di taluni costituenti,
soprattutto soggetto ed oggetto, per esigenze, appunto, di topicalizzazione (Roberto, non lo conosco).
Naturalmente, una discussione esaustiva dei problemi relativi all‟acquisizione della sintassi italiana
richiederebbe molto spazio; qui presenteremo, in forma necessariamente sintetica, alcuni nodi
particolarmente difficoltosi (si rimanda, comunque, al capitolo successivo per una trattazione più organica
del tema). Pare inoltre opportuno ricordare che, come per altri aspetti del processo acquisizionale, nella
sintassi dell‟interlingua (a vari livelli) si riscontrano numerosi fenomeni comuni sia ad apprendenti cinesi che
ad apprendenti con altre lingue prime (si veda, ad esempio, la questione della forma base del verbo esposta
nel paragrafo precedente, ess. 39-40); qui metteremo in evidenza soprattutto quei tratti dell‟italiano L2 che
siano tipici dei cinesi o che, comunque, negli apprendenti cinesi permangano più a lungo.
Per quanto riguarda l‟ordine dei costituenti all‟interno del sintagma (gruppo di parole), la struttura
tendenzialmente opposta del cinese per molte strutture è, probabilmente, alla base di costruzioni errate quali
banana di pele per „buccia di banana‟ o davanti Fiàt porta „davanti ai cancelli della Fiat‟ (Andorno et al.,
2003: 123). In tali sintagmi sono realizzati, fedelmente, i principi dell‟ordine di modificatore e modificato
proprio della lingua cinese:

[41] 香蕉的皮
xiāngjiāo de pí
banana DE pelle

La sequenza banana di pele pare proprio la riproduzione della costruzione cinese equivalente, con di a
sostituire la particella 的 de (che, in questo contesto, è funzionalmente analoga alla preposizione italiana).
Ciò che appare particolarmente interessante è che questo fenomeno sembra essere tipico proprio degli
apprendenti cinesi e sostanzialmente assente o marginale negli altri soggetti esaminati nello studio citato
sopra di Andorno et al.
Tra le strategie sintattiche particolarmente problematiche per i sinofoni apprendenti di italiano L2 vi è
sicuramente la subordinazione. In una prima fase, caratteristica di apprendenti con diverse lingue materne,
non è presente alcun elemento per collegare le proposizioni tra di loro (Valentini, 2003: 70-72; dati
dell‟apprendente CH):

[42] guarda lui alliva sì o no


„guarda se sta arrivando‟

15
[43] ha hai visto vicino a strada c‟è un cieco

Tra le peculiarità delle subordinate nell‟italiano di CH, rispetto a quello di altri apprendenti c‟è la presenza di
come usato in funzione di marca di subordinazione generica, polifunzionale (Valentini, 2003: 71; corsivi
nell‟originale):

[44] come c-era un po‟ soldi per combrare vestiti anche per oro
„se hai un po‟ di soldi, comperi dei vestiti o dei gioielli‟

In [44], come viene utilizzato in luogo dell‟atteso se per introdurre un‟ipotetica; si rimanda alla fonte per
ulteriori esempi con come usato in diverse funzioni.
Abbiamo ricordato nel paragrafo precedente come i cinesi abbiano comprensibili difficoltà nello sviluppare
la distinzione tra forme verbali finite e non finite. Nell‟italiano di CH, l‟infinito nelle proposizioni
subordinate finali compare con regolarità piuttosto tardi; anche quando l‟apprendente comincia ad usare la
marca esplicita per come connettore per le finali, egli continua a produrre frasi quali per leggo libro in luogo
di per leggere (un libro) (Valentini, 2003: 72). Complessivamente, lo sviluppo delle subordinate (avverbiali)
in CH procede piuttosto lentamente e con le particolarità riassunte sopra. L‟altro soggetto sinofono
considerato da Valentini (Peter) risulta più rapido nella acquisizione dei connettori; ciò è probabilmente
imputabile al fatto che egli ha un‟ottima competenza dell‟inglese, lingua tipologicamente più vicina
all‟italiano del cinese (Valentini, 2003: 73-74).
Tra i vari tipi di frasi subordinate, gli apprendenti cinesi hanno particolari difficoltà con le relative che, pur
essendo frequenti nell‟italiano colloquiale, compaiono raramente nella produzione in L2 dei sinofoni, anche
quando essi abbiano già una certa padronanza di altri tipi di subordinate, come quelle discusse sopra (Banfi,
2003a: 92-93). Questa tendenza all‟evitamento di una strategia sintattica comune è spiegabile con le
peculiarità della frase relativa nella lingua cinese. Oltre ad avere l‟ordine opposto di relativa e nome (cfr. es.
11) rispetto all‟italiano, in cinese la produzione di frasi relative è meno libera: il punto di attacco di una
relativa può essere solo un nome comune e non un pronome e nemmeno, generalmente, un nome proprio;
così, come rileva Banfi, una frase quale [t]u, che hai sempre avuto paura dell’acqua, adesso fai l’istruttore
di nuoto? non è realizzabile allo stesso modo in cinese (Banfi, 2003a: 99). In luogo di tale struttura, in cinese
è normale avere una frase coordinata (es. adattato da ibidem):

[45] 你一向怕水但是现在你当游泳教练吗?
nǐ yīxiàng pà shǔi dànshì xiànzài nǐ dāng yóuyǒng jiàoliàn ma
tu sempre temere acqua ma adesso tu fare nuoto istruttore INTERR
„tu hai sempre avuto paura dell‟acqua, ma adesso fai l‟istruttore di nuoto?‟

La refrattarietà degli apprendenti cinesi all‟utilizzo di frasi relative in italiano L2 è presumibilmente


imputabile, quindi, non solo alle differenze strutturali della frase relativa nella nostra lingua e in cinese, ma
anche al fatto che costruzioni alternative, come la frase proposta in [45], risultano più “naturali” per i
sinofoni, che le utlizzano largamente nella propria lingua materna (Banfi, 2003: 116).
Dopo questa sintetica presentazione di alcuni nodi problematici nell‟acquisizione della sintassi di italiano L2
da parte di apprendenti cinesi, motivati generalmente dalla diversa organizzazione del componente sintattico
delle due lingue, riprenderemo i punti principali affrontati in questo capitolo.

4.5 Osservazioni conclusive

In questo capitolo abbiamo fornito alcune notizie sulle caratteristiche della lingua cinese, per fornire un
quadro generale della distanza tra detto sistema e l‟italiano, con lo scopo di individuare elementi di difficoltà
nell‟acquisizione della nostra lingua da parte di sinofoni.

16
Nel paragrafo 4.0 abbiamo cercato di “collocare” il cinese tra le lingue del mondo, caratterizzandolo dal
punto di vista genealogico e, soprattutto, tipologico; nei paragrafi 4.1 e 4.2 ci siamo soffermati su un aspetto
di grande importanza per comprendere le abitudini linguistiche dei parlanti cinesi, ovvero la forma e la
struttura della “parola” e la nozione di parte del discorso, dedicando una certa attenzione al sistema di
scrittura logografico cinese.
Nei paragrafi 4.3 e 4.4, abbiamo commentato alcuni problemi specifici nell‟apprendimento dell‟italiano da
parte degli apprendenti cinesi, ovvero le particolarità delle categorie del “verbo” e del “nome” nelle due
lingue e le differenze nell‟organizzazione dell‟enunciato; per quanto riguarda la sintassi, ci siamo dedicati in
particolare all‟analisi di alcuni punti problematici nell‟acquisizione della nostra lingua, inerenti soprattutto
alle frasi subordinate.
Dalle considerazioni fatte, apparirà chiaro come per i cinesi l‟apprendimento dell‟italiano richieda un grosso
sforzo su due livelli; da un lato, l‟acquisizione della “consapevolezza” di certe categorie grammaticali quali
numero e genere, o tempo e modo per i verbi (cfr. par. 4.0) e, dall‟altro, la padronanza dei mezzi espressivi
di tali valori (soprattutto, la morfologia flessiva). Eventuali ritardi nell‟acquisizione di specifici segmenti
della morfosintassi italiana da parte di sinofoni rispetto ad apprendenti con altro background linguistico sono
da imputarsi, verosimilmente, alla distanza tipologica che esiste tra il nostro sistema linguistico e quello
cinese. È auspicabile che un intervento didattico mirato tenga conto di tali questioni.

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