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italiano parlato.

analisi di un dialogo 1

Il consonantismo romano.
Processi fonologici e aspetti acustici

di Giovanna Marotta

0. Introduzione

Nello studio della varietà di italiano parlata a Roma, alle consuete diffi-
coltà che l’analista incontra nel tentativo di sviscerare i diversi livelli del
repertorio linguistico, se ne aggiungono altre, specifiche, dovute alle peculia-
rità storiche, sociali e culturali della città. Com’è ormai risaputo sulla scorta
delle indagini condotte in ambito diacronico, orientate di necessità in senso
documentario-filologico, le originarie caratteristiche del volgare ‘romanesco’
erano assai simili a quelle riscontrabili ancora oggi nei dialetti di vaste zone
dell’Italia centro-meridionale1; la massiccia influenza del toscano, iniziata
all’inizio dell’epoca rinascimentale, finì per modificare in parte la struttura del
vernacolo di Roma, avvicinandolo al fiorentino ed allontanandolo dai dialetti
del Sud.
Ulteriori e cospicui processi di innovazione e di interferenza con altre
varietà, sia italiane che dialettali, più o meno distanti dal romanesco, si sono
prodotti anche nei secoli successivi, ma senza mai giungere ad un effetto
profondo e per certi versi radicale come quello che si verificò nel corso del
Quattrocento e del Cinquecento. In particolare, dopo l’Unità di Italia, quando
la questione della lingua nazionale tornò a riproporsi con rinnovato vigore,
la ‘lingua toscana in bocca romana’ sembrò a molti rappresentare la migliore
soluzione, pur nell’implicita assunzione che l’ideale di lingua italiana cui
1
Per un quadro dell’evoluzione diacronica del romanesco, si rinvia a Merlo (1929),
Bertoni e Ugolini (1939a), Rohlfs (1949 = 1966: passim), De Mauro (1963), Ernst (1970),
Vignuzzi (1981; 1988; 1997), Mancini (1987; 1993); Serianni (1987), De Mauro e Lorenzetti
(1991), Trifone (1992); utile risulta anche il repertorio bibliografico di D’Achille e Giovanardi
(1984).
2 il consonantismo romano

ambire doveva liberarsi delle più marcate inflessioni dialettali, sia romane che
fiorentine. Dopo la seconda guerra mondiale, il progressivo processo di
inurbazione e di emigrazione che ha interessato la popolazione italiana ha
aumentato considerevolmente la mobilità dei cittadini, con comprensibili
ripercussioni sulla situazione sociolinguistica delle città e, tra queste, della
capitale. Nell’ultimo quarto del secolo scorso, in particolare, Roma è divenuta
un fortissimo polo di attrazione, in particolare per le popolazioni del Meri-
dione d’Italia, che vi hanno sovente trovato un’occupazione nell’ambito del
settore terziario. D’altra parte, l’avvento dei mass-media e la conseguente
diffusione sul territorio nazionale di modelli linguistici genericamente
definibili come ‘italiani regionali’ hanno contribuito a delineare un quadro
sociolinguistico assai sfaccettato per le varietà italiane, specialmente urbane2.
La ridotta distanza strutturale esistente tra dialetto (da sempre percepito
dai romani stessi come polo basso del continuum) e italiano romano (varietà
alta, prossima allo standard) non impedisce tuttavia la stigmatizzazione con-
sapevole di quei tratti di pronuncia sentiti come chiari marcatori socio-
fonetici. Tanto sul versante della produzione quanto su quello della percezio-
ne autoctona, i ‘tratti-bandiera’ della pronuncia romanesca sembrano con-
centrarsi più sul consonantismo che sul vocalismo3. Le ragioni di tale dispa-
rità andranno individuate da un lato nel maggior numero di processi che
interessano il consonantismo (anche in virtù del numero maggiore di fonemi
nell’inventario fonologico), dall’altro nel più spiccato carattere dialettale dei
processi stessi, spesso comuni ad altre varietà sub-standard dell’Italia mediana
e/o meridionale. Nel dettaglio, la lenizione delle occlusive, l’affricazione della
sibilante postconsonantica ed i numerosi processi assimilativi vengono facil-
mente identificati e considerati come tipici di un livello linguistico basso (il
cosiddetto ‘romanaccio’), pertanto stigmatizzati dalla maggior parte dei par-
lanti, nonostante la loro occorrenza d’uso non sia limitata a livelli diastratici
e diafasici infimi.

2
Non è certo questa la sede in cui affrontare queste complesse tematiche socio-
linguistiche, per le quali rinviamo almeno a De Mauro (1963), De Mauro e Lorenzetti (1991),
Ernst (1989), Galli de’ Paratesi (1985), Stefinlongo (1985), Bernhard (1988), Vignuzzi (1988),
DAchille e Giovanardi (1995), D’Achille (2002).
3
Questo è quanto traspare qua e là dall’esame della letteratura (cfr. i riferimenti
bibliografici già citati alla nota precedente) ed è esplicitamente affermato da Bernhard (1992b:
258).
italiano parlato. analisi di un dialogo 3

1. Il corpus e la fenomenologia

Dei fenomeni fonologici che caratterizzano il consonantismo del dialetto


romanesco, ma che possono comparire anche nella pronuncia locale dell’ita-
liano, è già disponibile in letteratura l’elenco e la descrizione dei contesti
rilevanti4, mentre assenti risultano finora analisi sperimentali in merito5. In
questo articolo intendiamo pertanto presentare una prima analisi acustica, sia
qualitativa che quantitativa, dei processi che caratterizzano il consonantismo
della varietà romana di italiano quale è manifestato nel nostro corpus di
riferimento, vale a dire il dialogo CLIPS contrassegnato dalla sigla
DGtdB04R, composto da 336 turni dialogici per una durata complessiva di
15 minuti e 28 secondi; i parlanti sono due giovani studenti universitari
romani, un maschio e una femmina6.
Prima di passare ad illustrare la fenomenologia in esame, qualche rifles-
sione sul tipo di lingua che andiamo ad analizzare. Sul piano sociolinguistico,
tenendo presente l’ormai tradizionale distinzione tra varietà alta, varietà
media e varietà bassa, che negli studi sul romanesco, anche antico, segmenta
il continuum linguistico della città, trasformandolo in gradatum, la lingua
parlata dai nostri due soggetti pare appartenere alla varietà media7. Un
italiano romano, dunque, contrassegnato da tratti locali marcati, in senso
diatopico e diafasico, alcuni dei quali schiettamente dialettali (quali la lex
Porena), ed addirittura arcaici (quali la geminazione della laterale negli avverbi
lì, là). Il nostro osservatorio sperimentale, per quanto limitato per numero
di parlanti e per ampiezza del campione di rilevamento, mostra quindi la
persistenza dei tipici elementi romaneschi. Nonostante le spinte centripete

4
Si vedano in merito Stefinlongo (1985), Canepari (1983: 63-66), Troncon e Canepari
(1989), De Mauro e Lorenzetti (1991), Vignuzzi (1981; 1997), Trifone (1992), Bernhard
(1992b; 1998), D’Achille e Giovanardi (1995), D’Achille (2002).
5
La situazione è in parte diversa per il vocalismo romano, che è già stato indagato in
prospettiva acustica in anni recenti; cfr. Albano Leoni et alii (1998), ed ora Sorianello e
Calamai (in questo volume). Circa l’intonazione, che pure pare giocare un ruolo non secon-
dario nell’identificazione della provenienza del parlante, si vedano i contributi di Canepari
(1983), su base uditiva, e di De Dominicis (2002), di carattere sperimentale. È curioso
ricordare qui quanto scriveva in proposito, ormai ottanta anni or sono, M. Porena (1925: 232)
circa la melodia: “questo elemento così sfuggente (…) è all’intuizione uditiva sensibilissimo,
e chi abbia orecchio riconosce con assoluta sicurezza le melodie d’un dialetto”. Non si può
certo dire che la dialettologia abbia finora accolto questo antico suggerimento.
6
Per la descrizione dei soggetti, come pure per il metodo di elicitazione dei dati
linguistici, per la loro registrazione e segmentazione acustica, rinviamo al contributo
introduttivo di F. Albano Leoni in questo stesso volume.
7
Si ricordi che si tratta di studenti universitari, il che, in questi tempi, non comporta
l’automatica adozione di una varietà alta.
4 il consonantismo romano

che puntano verso la standardizzazione della varietà romana, ancora oggi


pare di dover riconoscere, parafrasando le parole già impiegate da D’Achille
e Giovanardi (1995: 407), che la distanza tra italiano e romano, pur piccola,
non è destinata a colmarsi, garantendo e perpetuando l’identità linguistica
locale.

Il materiale da noi preso in esame comprende tutti i turni del dialogo


prescelto, ad esclusione di quelli costituiti da semplici segnali fatici, quali sì,
OK, etc.; il corpus di dati analizzati si compone complessivamente di 3900
items. Di ogni consonante è stata data un’etichettatura fonetica stretta, sulla
base dell’analisi acustica ed uditiva.
Per ogni segmento, sono stati considerati i seguenti parametri acustici:

– posizione sillabica (attacco o coda);


– contesto fonetico;
– accento lessicale;
– durata complessiva e durata del Voice Onset Time (VOT), ove presente;
– presenza eventuale di burst;
– distribuzione dell’energia nello spettro;
– presenza eventuale di struttura formantica.

Nella discussione dei risultati, in riferimento alla gerarchia di forza con-


sonantica, terremo distinti i processi di indebolimento da quelli di rafforza-
mento: nei primi, il segmento esito del processo presenta valori di forza
inferiori a quello di partenza, mentre nei secondi avviene il contrario; la
cancellazione di segmento rappresenta pertanto il grado massimo di indebo-
limento.

2. Le occlusive sonore

Bersaglio privilegiato dei processi di indebolimento nella lingua parlata,


nel romanesco come in altre varietà di italiano, sono i fonemi contrassegnati
dal grado maggiore di forza consonantica, vale a dire le occlusive. Dei
segmenti sordi parleremo diffusamente nel prossimo paragrafo. Per quanto
riguarda le occlusive sonore, il trattamento di /b/ va tenuto distinto da quello
di /d/ e //; il primo segmento presenta infatti la nota geminazione spon-
tanea condivisa da buona parte dell’Italia centro-meridionale. Nel dialogo
analizzato, in contesto intervocalico l’allungamento di /b/ è pressoché siste-
matico, sia nel parlante maschile che in quello femminile, anche se il campio-
ne di items è piuttosto limitato. Molto più consistenti numericamente sono i
italiano parlato. analisi di un dialogo 5

casi di geminazione a confine di parola per assimilazione regressiva, in


particolare della liquida finale dell’Articolo nei sintagmi nominali (ad es. [l+b]
> [b] in il bambino, del bambino, al bordo, dal bordo).
La durata dell’occlusiva bilabiale sonora in posizione intervocalica è del
tutto comparabile a quella della lunga originaria (valori medi /b/ > [b] = 92
msec., σ = 14; /b/ = 96 msec., σ = 17), mentre è decisamente inferiore ([b]
= 48 msec., σ = 12) ed analoga a quella delle altre occlusive scempie ([d] e
[]; cfr. ultra) quando il segmento si trova in posizione postconsonantica.
Soltanto sporadici sono gli esempi di spirantizzazione di /b/ preceduta da
consonante nasale; quasi assente l’assimilazione [-mb-] > [m], fenomeno
marcatamente dialettale e meridionale.
Per /d/ e // in contesto intervocalico, o meglio in posizione di attacco
sillabico, abbiamo rilevato tre varianti fondamentali, tutte ovviamente sonore:
occlusive, spiranti e approssimanti, cui si aggiunge, per la sola coronale, la
cancellazione del segmento. Nella classificazione dei foni, abbiamo seguito i
seguenti criteri:

• segmento occlusivo in presenza della sola barra di sonorità a bassa


frequenza sul sonagramma;
• segmento fricativo in presenza di rumore diffuso sullo spettro, con
caratteristiche in parte diverse a seconda del punto di articolazione della
consonante;
• segmento approssimante in presenza di struttura formantica, di am-
piezza più o meno marcata, ma comunque inferiore a quella delle vocali
contigue.

Nella Tabella I presentiamo i valori percentuali di occorrenza nel corpus


per le diverse varianti di /d / mediate sui due soggetti, omogenei per questo
rispetto.

Tabella I. Valori percentuali delle varianti dei fonemi occlusivi sonori nel corpus di
riferimento.

occlusiva fricativa approssimante cancellazione


/d/ 32 6 55 7
// 52 4 44 0

La percentuale di mantenimento dell’occlusiva è più elevata per // che


per /d/, per probabile effetto della ‘sindrome delle coronali’ (cfr. Kenstowicz
6 il consonantismo romano

1994). In parallelo, la dentale, ma non la velare, è soggetta a cancellazione,


soprattutto se si tratta della preposizione di e dei suoi allomorfi, articolati e
non (de, del, della). Da sottolineare che lo ‘scoppio’ (burst) che segue la fase
di occlusione spesso non è visibile, né sulla forma d’onda né sullo
spettrogramma a banda larga; anche quando presente (in media nel 10% dei
casi, per entrambi i punti di articolazione), mostra una durata ed un’intensità
assai ridotta.
Il parametro acustico relativo alla durata segmentale presenta il tipico
andamento scalare, che riflette il grado di forza consonantica: i segmenti
occlusivi sonori sono infatti mediamente più lunghi dei segmenti fricativi, a
loro volta più lunghi dei segmenti approssimanti8. Riportiamo in forma
sintetica i valori medi della durata delle diverse varianti:

] = 34 msec. (σ = 15)9;
[d] = 62 msec. (σ = 16); [ð] = 46 msec. (σ = 15); [ð
[] = 56 msec. (σ = 18); [γ]= 45 msec. (σ = 16); [γ] = 36 msec. (σ = 19).

3. La lenizione delle occlusive sorde

Uno dei tratti più caratteristici della pronuncia romana di italiano è


certamente la lenizione delle occlusive sorde in posizione postvocalica10. Il
processo di lenizione assume nel nostro corpus i connotati di regola
fonologica variabile, nel senso che, pur essendo relativamente frequente,
appare condizionata da alcuni fattori, quali il grado maggiore o minore di
prominenza della parola, la presenza vs. assenza di accento lessicale.
Nel tracciato spettrografico, le occlusive leni sono caratterizzate dalla
presenza di una certa struttura sonora a bassa frequenza, simile alla barra di
sonorità, anche se meno intensa. La fase di rilascio della consonante (Voice
Onset Time) è talvolta conservata, per quanto il rumore di frizione presenti
una minore espansione nella banda delle frequenze; l’esplosione, manifestata
dal burst a livello acustico, è spesso assente, oppure, se presente, assai ridotta

8
La medesima gerarchia di forza e di durata è stata riscontrata per l’inglese e lo spagnolo
(Lavoie 2001), oltre che per il toscano (Marotta 2001; Sorianello 2001b).
9
Per trascrivere l’approssimante, abbiamo aggiunto al simbolo delle fricative sonore il
diacritico [ ], che indica in IPA una minore tensione nel gesto ed un maggiore avvicinamento
degli articolatori, con produzione di foni più rilassati.
10
Il fenomeno appartiene ad una vasta area dell’Italia mediana e meridionale, tanto nei
dialetti quanto nell’italiano regionale; nell’ambito della vasta letteratura sull’argomento, ci
limitiamo a rinviare a Rohlfs (1966, § 209), Canepari (1983), Loporcaro (1988: 105 sgg.),
Marotta e Sorianello (1992: 80 sgg.), D’Agostino (1997), Giuliani (2003).
italiano parlato. analisi di un dialogo 7

quanto ad ampiezza. Dal punto di vista articolatorio, la lenizione è il risultato


di un grado minore di tensione delle pliche vocali, associato ad una modesta
e talora minima vibrazione delle stesse, con conseguente parziale sono-
rizzazione.
Gli indici acustici adottati per il riconoscimento di un fono come lene
sono pertanto la presenza di vibrazioni a bassa frequenza, di intensità minore
rispetto a quella della barra vocale che caratterizza le consonanti sonore, ed
una durata minore rispetto alle occlusive sorde, ma superiore a quella delle
occlusive sonore; due esempi di consonanti lenite sono presentati nella
Figura 1. In contesto intervocalico, abbiamo riscontrato anche l’occorrenza
di un’ulteriore variante debole, caratterizzata da barra vocale poco intensa e
da struttura formantica, anch’essa di ampiezza ridotta. Tali foni, sia
uditivamente che acusticamente assai prossimi alle leni, possono essere clas-
sificati come approssimanti, quindi più deboli delle leni propriamente dette,
in quanto sono marcate positivamente non solo rispetto al tratto di continui-
tà, ma anche a quello di sonorità.

Figura 1. Forma d’onda e spettrogramma di “però dalla parte tua” che illustra la
lenizione di /p t/ e la lex Porena (per cui, cfr. § 6).

Su un totale di 430 fonemi occlusivi sordi in contesto intervocalico o


seguite da vibrante, le varianti deboli, leni e approssimanti, risultano
maggioritarie. Le stesse varianti occlusive appaiono comunque soggette ad
indebolimento, dal momento che possono talora assumere l’aspetto acustico
8 il consonantismo romano

di segmenti aspirati, con allungamento della fase del Voice Onset Time ed
assenza di scoppio. Il quadro analitico della percentuale di occorrenza dei
singoli allofoni è presentato nella Tabella II. Il comportamento dei due
soggetti non è omogeneo: in accordo con uno dei postulati classici della
sociolinguistica, il parlante maschile, che mostra per i foni deboli percentuali
più elevate rispetto alla parlante femminile, si qualifica come più dialet-
talmente marcato.

Tabella II. Valori percentuali di ricorrenza delle varianti dei fonemi occlusivi sordi, distinti
per parlante; M = maschio; F = femmina.

occlusiva occlusiva lene approssimanti cancellazione

GF-F GM-M GF-F GM-M GF-F GM-M GF-F GM-M

/p/ 63 33 27 47 10 20 – –

/t/ 60 44 22 29 18 27 – –

/k/ 55 34 13 20 22 35 10 11

La durata delle diverse varianti riflette la scalarità attesa, con le occlusive


più lunghe delle leni, a loro volta più lunghe delle approssimanti. Nel detta-
glio, le durate medie sono le seguenti:

[p] = 91 ms. (σ 26), [t] = 87 ms. (σ 30), [k]


 = 110 ms (σ 24);
] = 71 ms. (σ 18), [d
[b ] = 69 ms. (σ 21), [ ] = 79 ms. (σ 25);
[β] = 45 ms. (σ 12), [ð
]= 42 ms. (σ 11), [γ ] = 46 ms. (σ 12).

Il fonema velare risulta il più esposto al processo di indebolimento nelle


sue varie facies: non solo presenta i valori percentuali più bassi per la variante
forte, ma è anche l’unico soggetto a cancellazione totale11, specialmente in
morfemi quali che, come, con, a conferma della nota fragilità delle parole
funzionali. Nel corpus di riferimento, la distribuzione delle varianti – una
relativamente bassa frequenza delle leni, una percentuale più elevata di
approssimanti, l’occorrenza di cancellazione – sembra indicare che l’indebo-
limento abbia raggiunto il massimo grado proprio per questo punto di
articolazione. Si può supporre che nello sviluppo diacronico i diversi processi
11
Il quadro è del tutto compatibile con quanto emerso per altre varietà di italiano centro-
meridionale; cfr. ad es. D’Agostino (1997: 107) per il siciliano, Marotta (2001) per il toscano,
Giuliani (2003: 278) per il barese.
italiano parlato. analisi di un dialogo 9

che puntavano verso l’economia del gesto articolatorio occlusivo abbiano


trovato nella velare non solo il primo elemento di applicazione, ma anche il
migliore veicolo di diffusione della lenizione.
Tuttavia, il fatto che la lenizione ricorra con minore frequenza nel caso
di /k/, posteriore, rispetto a /p/ e /t/, anteriori, può avere anche una spiega-
zione di tipo articolatorio. In linea di principio, occlusione ed accostamento
delle pliche vocali sono gesti antagonisti; la lenizione, associata ad un grado
ridotto di tensione dei muscoli adduttivi, prevede un controllo fine della
muscolatura laringea, per cui l’accostamento parziale delle pliche vocali,
tipico di questa modalità di fonazione, può facilmente tradursi in
sonorizzazione nel caso dell’occlusiva velare, data la maggiore difficoltà di
controllare i movimenti degli organi articolatori quando il punto di articola-
zione si colloca a livello del velo. Viceversa, per i punti di articolazione
marcati dal tratto di anteriorità, occlusione e lenizione sono maggiormente
compatibili. Sembra pertanto che sussista una correlazione positiva tra di-
stanza dalla glottide e tendenza verso la lenizione delle consonanti occlusive
sorde12.
Volendo interpretare il processo di lenizione nel quadro corrente della
geometria dei tratti, si può ricorrere ai due tratti fonologici [glottide allargata]
e [corde vocali rigide] (Halle e Stevens 1971, Sagey 1986). Il primo tratto
riguarda i movimenti della glottide in orizzontale, mentre il secondo tratto
riguarda l’asse verticale. Se l’ampliamento come pure la riduzione dello spazio
compreso tra le pliche vocali è relativamente ben controllato dal parlante (Ni
Chasaide e Gobl 1997: 443-452), lo stesso non pare valere con la stessa
facilità per il grado di tensione delle pliche medesime, che sono soggette a
modificazioni non sempre dipendenti dalla volontà del parlante; si pensi ad
esempio alla riduzione della tensione delle pliche vocali che si accompagna
a certe patologie laringee oppure all’età senile.
Il tratto [glottide allargata] risulta tuttavia problematico per le leni: posi-
tivo per le sorde (per le quali le pliche vocali sono distanziate), negativo per
le sonore (nella cui produzione le pliche vocali sono accostate al massimo),
quale sarebbe la marca per le leni? Essendo questo tipo di consonanti
prodotto con la glottide più allargata rispetto alle sonore, ma con le pliche
vocali non così distanti come per le sorde, il loro valore relativo al grado di

12
Parimenti sfavorita sembra essere l’aspirazione per le consonanti occlusive marcate dal
tratto [+post]; nella produzione orale di soggetti non udenti italiani, si è ad es. osservato il
mantenimento dell’occlusiva velare sorda, mentre l’aspirazione della labiale e della dentale si
producono by default, a causa del rallentamento generale dei gesti articolatori, che determina
un allungamento temporale delle varie fasi di una consonante occlusiva sorda, ivi compreso
il VOT.
10 il consonantismo romano

apertura della glottide sarebbe intermedio, e quindi non immediatamente


trasferibile in una matrice binaria. D’altro canto, il tratto [corde vocali rigide]
risulterà positivo per le sole sorde, mentre per le leni, come per le sonore, sarà
negativo. Schematicamente, esemplificando per il punto di articolazione
labiale, una possibile matrice dei tratti rilevanti per i foni coinvolti potrebbe
essere la seguente:

1) debole forte
β b b
 p
sonoro + + - -
glottide allargata - - + +
corde vocali rigide - - - +
continuo + - - -

Un tale quadro non è tuttavia esente da critiche. Innanzitutto, il tratto


[glottide allargata] è stato introdotto in letteratura per la rappresentazione
delle occlusive aspirate (Halle e Stevens 1971), che sono segmenti forti, per
cui la sua adozione per le leni, deboli, sembra poco motivata; ma se marcas-
simo negativamente le leni per questo tratto, non le distingueremmo più dalle
sonore corrispondenti. In secondo luogo, il tratto relativo alla rigidità/
rilassatezza delle pliche vocali è stato sottoposto in anni recenti ad una serie
di critiche esplicite, quali la difficoltà di verifica empirica e la sua
concomitanza con il tratto di sonorità13.
Sembra pertanto preferibile abbandonare i due tratti suddetti, per ricor-
rere al tradizionale tratto di tensione14, che rende conto in modo più semplice
ed economico del processo di lenizione. I foni tesi sono prodotti con un più
elevato grado di tensione delle pliche vocali come pure dell’intero tratto
vocale; l’aumentata tensione muscolare si associa ad un innalzamento della
pressione, sia ipolaringea che orale, e ad un aumento della durata15. La
matrice alternativa consente di differenziare in modo semplice ed elegante le
possibili varianti dei fonemi occlusivi sordi:

13
Su questi aspetti non banali di rappresentazione in termini di tratti, rinviamo alla recente
monografia di Jessen (1998: 129-130), dedicata alle consonanti ostruenti del tedesco, ed alla
ricca bibliografia ivi citata.
14
Com’è noto, il tratto di tensione fu introdotto da Jakobson, Fant e Halle (1952); di
recente è stato riportato in auge, su base sia acustica che articolatoria, da Jessen (1998).
15
Cfr. Jakobson, Fant e Halle (1952: 36), Ladefoged e Maddieson (1996: 97 sgg.), Ni
Chasaide e Gobl (1997: 451).
italiano parlato. analisi di un dialogo 11

2) debole forte
β b b
 p
sonoro + + - -
teso - - - +
continuo + - - -

4. Fricative e affricate

Anche i processi fonologici che coinvolgono queste consonanti sono


comuni a vaste aree dell’Italia mediana e meridionale. Per quanto riguarda le
fricative labiodentali, nel corpus in esame /f/ non presenta fenomeni specifici,
mentre per /v/ abbiamo rilevato la presenza di tre varianti essenziali: la
fricativa sonora propriamente detta (presente in contesto intervocalico nel
24% dei casi), l’approssimante (con una percentuale pari al 68%), e la cancel-
lazione del segmento (8% dei casi). Come accade anche in altre varietà di
italiano (ad es. nel toscano), la fricativa sonora si conferma più incline
all’indebolimento della sorda.
Passando alle sibilanti, la spirante palatale sorda in contesto intervocalico
risulta sempre lunga (in media 136 msec.), come di norma nelle varietà
centro-meridionali. Più movimentato il quadro relativo alla sibilante
alveolare. Innanzitutto, in posizione intervocalica alla sorda (presente nel
75%) si alterna, sia pure con minore frequenza, la sonora (25%), a conferma
della lenta, ma forse ormai inesorabile diffusione di [z] in questo contesto.
Sulla base dei dati raccolti, sembrerebbe che forme come cosa, scusa, scusami
fungano da ‘cavallo di Troia’ del processo di sonorizzazione.
In secondo luogo, l’affricazione di /s/ postconsonantica risulta categori-
ca, in quanto presente nella totalità dei contesti potenzialmente disponibili;
parole-bersaglio primarie nel nostro dialogo risultano verso, senso, penso. La
durata media dell’affricata secondaria è pari a 134 msec. (σ = 20) se preceduta
da consonante liquida, a 121 msec. (σ = 26) se preceduta da consonante
nasale, quindi del tutto comparabile a /ts/ lessicale (cfr. ultra). Anche nel caso
dell’italiano di Roma, come già osservato per l’italiano di Pisa (cfr. Turchi e
Gili Fivela 2004), nell’affricata secondaria la fase di occlusione può essere
brevissima oppure del tutto assente a livello spettrografico, sostituita da
rumore di frizione piuttosto disomogeneo, di intensità minore, ma con fre-
quenze più elevate rispetto alla fase fricativa seguente, corrispondente a [s].
Il risultato percettivo (= affricata) è comunque chiaro ed inequivocabile, sia
per i parlanti romani che per parlanti di altra area regionale.
Il processo in questione appare non marcato sul piano tipologico in
12 il consonantismo romano

generale e nell’ambito della diatopia italiana in particolare, essendo comune


a molti dialetti come pure a numerose varietà regionali di area centro-
meridionale. Ohala (1974) ha mostrato come l’intrusive t si spieghi con facilità
dal punto di vista articolatorio: nel caso di -ns-, l’occlusione anticipa
l’innalzamento del velo palatino, necessario per la produzione del segmento
orale seguente, mentre per -rs- e -ls-, l’epentesi dell’occlusiva consente l’inte-
ressamento in due fasi successive delle aree di contatto complementari
coinvolte nel passaggio dalla liquida alla sibilante seguente. In prospettiva
fonologica, con esplicito riferimento alla ‘Legge del Contatto Sillabico’ pro-
posta da Vennemann (1988: 40), il processo di affricazione risulta parimenti
naturale, dal momento che incrementa lo scarto in forza consonantica tra i
due segmenti posti al confine di sillaba.
Se la sibilante è target nel processo di affricazione quando sia preceduta
da consonante sonorante, diventa trigger nel contesto /st/: l’occlusiva subisce
infatti l’influsso assimilativo da parte della sibilante, il che determina la
spirantizzazione di /t/, totale o, più spesso, parziale. Il fenomeno è stato
riscontrato anche in altre varietà di italiano (ad es. il toscano o il napoletano)
e rientra nel quadro della generale tendenza verso l’ipoarticolazione che
caratterizza la lingua parlata (Lindblom 1990).
Le affricate alveo-dentali sono sempre lunghe se intervocaliche (cfr. Tab.
III), ma brevi se precedute da liquida o nasale16. Le affricate palatali mostrano
invece comportamenti opposti: se da un lato a Roma, come in buona parte
dell’Italia centro-meridionale, si assiste alla geminazione ‘spontanea’ di /d/
(ad es. [radona mento]17, dall’altro /tʃ/ subisce la spirantizzazione, come
accade in Toscana ed in altre zone dell’Italia mediana (ad es. [ pɔlitʃe]>
[ pɔliʃe], [ spεtʃe]> [ spεʃe]). Entrambi i fenomeni presentano carattere
di categoricità nel dialogo in esame, il che ne testimonia non solo la vitalità,
ma anche la stabile collocazione nella varietà medio-alta del repertorio
romano. L’affricata palatale sorda si mantiene soltanto dopo nasale e dopo
pausa18, oppure, in contesto intervocalico all’interno dello stesso turno, dopo
frattura tonale. Come nel toscano, la spirantizzazione comporta una riduzio-
ne segmentale, dal momento che viene a mancare la fase di occlusione

16
Nel corpus abbiamo rilevato cinque casi in tutto per /rts/, sempre per la stessa parola
(terza), e tre esempi per /nts/, nella parola differenza; la durata media dell’affricata è pari a 108
ms. (σ = 30) se preceduta dalla vibrante, a 118 ms. (σ = 14) se preceduta da consonante nasale.
17
Nel nostro corpus, la durata media di /d/ in contesto intervocalico è pari in media a 111
ms. (σ = 22), mentre /d/ lessicale (nella parola leggermente) è lungo 107 ms. ( σ = 1 5); cfr.
Tabella III.
18
Tipico il caso di c’è o di cioè , piuttosto comuni sia dopo pausa di esitazione all’interno
di uno stesso turno che ad inizio di turno dialogico.
italiano parlato. analisi di un dialogo 13

iniziale che contraddistingue l’affricata; tuttavia, l’opposizione fonologica tra


/tʃ/ e /ʃ/ si mantiene per mezzo del tratto di lunghezza: la fricativa esito del
processo di deaffricazione è infatti breve, mentre la sibilante palatale primaria
è lunga (cfr. supra)19.
Nella Tabella III, presentiamo, in forma sinottica, i valori medi delle
durata per le consonanti fricative e affricate in contesto intervocalico.

Tabella III. Valori medi della durata (msec.) e deviazione standard (σ) per le consonanti
fricative ed affricate.

f f v v w s z s ʃ ts dz tʃ d d

Durata 78 148 55 93 45 97 70 139 136 148 120 108 111 107

σ 22 17 16 12 18 24 23 32 21 16 20 21 22 15

5. Le sonoranti

Le nasali bilabiale e dentale non presentano fenomeni particolari. La


nasalizzazione della vocale precedente è comunque frequente per entrambi
i parlanti, soprattutto se la nasale si trova in posizione di coda sillabica. In
contesto intervocalico, in concomitanza di nasalizzazione della vocale, si
assiste al dileguo della consonante nasale nel 10% delle ricorrenze per /m/, nel
12% per /n/. L’assimilazione tipica dei dialetti centro-meridionali ([-nd-] >
[n]) è fondamentalmente assente nel corpus in esame, in linea con quanto già
osservato da D’Achille e Giovanardi (1995: 405), anche se nel contesto -nd-
è dato osservare un indebolimento consonantico non esente da vincoli
morfologici: /d/ è realizzata infatti come occlusiva nei nomi (ad es. bandierina,
onde, sfondo), ma come approssimante negli avverbi (tipicamente in quindi e
secondo), nell’aggettivo grande e nelle forme verbali (partendo, scende). Attestata
è anche l’assimilazione totale regressiva della nasale nel caso della preposizio-
ne con; ad es. con sotto > [ko so to], con sopra > [ko sob ra].
Sono stati anche rilevati casi di palatalizzazione della nasale seguita da
vocale anteriore; ad es., nella parola lineette, frequente nei turni dialogici, la
resa palatale della nasale è sistematica nel parlante maschile ([li ete]),
mentre in linea, il processo si ferma all’innalzamento di -e- in -i-; infine, in tutte

19
Nel dettaglio, la spirante esito dell’affricata dura in media 87 msec. (σ = 18), mentre la
fricativa palatale sorda, dura 136 msec. (σ = 21); cfr. Tabella III.
14 il consonantismo romano

le ricorrenze di niente, si verifica la palatalizzazione, per entrambi i parlanti.


Il quadro sinottico della durata segmentale media delle consonanti nasali
viene presentato nella Tabella IV.

Tabella IV. Valori medi della durata (msec.) e deviazione standard (σ) per i fonemi nasali
nei contesti indicati.

VmV VmV mC VnV VnV nC 


Durata 56 98 79 47 82 62 79
σ 19 25 22 18 30 24 18

Il micro-sistema delle consonanti liquide nella varietà romana mostra


molteplici processi fonologici, globalmente leggibili all’insegna della tenden-
za verso l’indebolimento articolatorio.
La vibrante presenta numerose varianti, condizionate dal contesto di
occorrenza del segmento: la polivibrante si realizza di norma nelle parole
prominenti, caratterizzate da lunghezza maggiore e da tono accentuale
ascendente; l’allofono fricativizzato è favorito nel nesso –sCr-, per effetto di
assimilazione progressiva (tipici sono i casi di sinistra e destra, assai frequenti
nel corpus); la monovibrante e l’approssimante sono perlopiù limitate al
contesto intervocalico (o precedute da occlusiva sorda) in parole di scarso
peso informativo (ad es. sarà, allora, proprio, tre); il dileguo ricorre spesso
nell’avverbio allora, usato come segnale discorsivo, ma non nella preposizione
per, in cui il segmento si conserva sempre e per entrambi i parlanti, nonostan-
te la fragilità fonologica tipica degli elementi funzionali.
Nel complesso, le varianti deboli (ivi compresa la cancellazione del
segmento) risultano maggioritarie, essendo pari al 63%. La percentuale di
ricorrenza delle singole varianti e la loro durata segmentale vengono illustrate
nella Tabella V. Per quanto riguarda infine lo scempiamento della vibrante
lunga20, non è dato osservarne esempi nel dialogo in esame; i due soli casi

20
La letteratura sul romanesco è concorde nel riconoscere che il fenomeno sia relativa-
mente recente. Secondo Migliorini (1933 = 19452: XXIII), “non si era ancora prodotto ai tempi
del Belli”; Trifone (1992: 64) ritiene invece che lo scempiamento della vibrante lunga sia “la
più importante innovazione fonologica del romanesco nell’età belliana, di cui il poeta indica
puntualmente, e per primo, la pur limitata espansione”. La sensibilità linguistica del Belli,
‘poeta-dialettologo’ secondo una felice espressione dello stesso Trifone (1992: 62), è da tempo
riconosciuta ed apprezzata dagli studiosi del romanesco; per una valutazione complessiva
della lingua poetica belliana, rinviamo a Serianni (1987) e al già menzionato Trifone (1992),
nonché alla bibliografia ivi citata.
italiano parlato. analisi di un dialogo 15

rilevati di /r/ (terra, bis) vedono il mantenimento della geminata con durata
pari a 86 msec.

Tabella V. Valori percentuali di ricorrenza delle varianti del fonema vibrante /r/,
con indicazione della loro durata (msec.) e relativa deviazione standard (σ).

polivibrante monovibrante vibrante fricativa approssimante cancellazione

% 37 15 19 20 9
Durata 46 24 41 27 -
σ 10 8 16 11 -

Infine, segnaliamo la sporadica occorrenza di vocali epentetiche centra-


lizzate nel contesto muta cum liquida, anche in questo caso in linea con
quanto osservabile in numerose varietà di italiano centro-meridionale. Quan-
do prodotta dopo un’ostruente sorda, la vibrante può infatti essere preceduta
da un elemento vocalico di timbro indistinto; la vocale centralizzata [ə] è
riconoscibile acusticamente in base alla struttura formantica ed al cambia-
mento nell’ampiezza e nella periodicità delle vibrazioni; un esempio di
epentesi vocalica viene presentato nella Figura 2.

Figura 2. Forma d’onda e spettrogramma del sintagma “quella sopra” che illustra
l’epentesi vocalica e la lenizione consonantica nel nesso -pr-.

Passando alle laterali, consideriamo innanzitutto la laterale palatale, resa


normalmente con [j] nel romanesco. Nel dialogo vi sono pochissime occor-
16 il consonantismo romano

renze di /ʎ/ (per la precisione, tre in tutto), ma in nessun caso, viene prodotta
la laterale palatale, bensì sempre il glide anteriore21. Fondamentalmente assen-
te risulta il rotacismo, tratto dialettale in regresso nel romanesco di ‘terza
fase’; parimenti assente anche l’allomorfo er per l’articolo deter-minativo il
(cfr. anche Bernhard 1998: 259). Frequenti sono invece le assimilazioni subite
da /l/ a confine di morfema, tipicamente nel caso dell’articolo il e delle forme
preposizionali articolate del e dal (ad es. del mare [de mare], il mare > [i
mare], dal bordo [da bordo], il pollice [i poliʃe]).
La consonante laterale alveolare è di norma realizzata come tale. La sua
lunghezza sembra essere influenzata dal contesto sillabico; se intervocalica ed
interna di parola, presenta infatti una durata media pari a 45 msec. (σ = 18),
mentre all’inizio di turno, è un po’ più lunga (mediamente, 57 msec., σ = 15).
In alcuni casi, le caratteristiche di approssimante risultano accentuate: soprat-
tutto in sillaba postonica (ad es. nuvola, piccola), la struttura formantica è assai
simile a quella delle vocali contigue e la durata del segmento laterale è
brevissima, anche inferiore a 30 msec.
In posizione di coda sillabica, ricorre spesso (35% dei casi utili) la variante
laterale fricativizzata, quando il segmento è seguito da un’occlusiva sorda con
chiari segni di aspirazione (VOT lungo; cfr. § 4); ad es. altro, altra, altezza, al
piede, al sasso; se invece segue un’occlusiva sonora, il processo di spirantiz-
zazione non si verifica. Il parlante maschile presenta percentuali più elevate
di foni fricativizzati rispetto al soggetto femminile (40% versus 29%).
La laterale lunga mostra una durata media pari a 88 msec. (σ = 22). Si
registrano tuttavia alcuni esempi di scempiamento, ad es. nei lessemi capelli
o pollice, frequentemente nel caso dell’avverbio allora. La riduzione di /l/ a [l]
è sistematica nelle preposizioni articolate (alla, della, delle, dalla, sulla, sullo),
e nelle forme pronominali quello e quella; in questi contesti morfologici, [l]
si mantiene infatti soltanto se l’elemento è pre-pausale oppure se è associato
ad un certo grado di prominenza. Nei casi di degeminazione, la laterale
spesso presenta una durata inferiore a quella riscontrata per /l/ scempia
lessicale e mostra una struttura più marcatamente approssimante. Entrambi
i parlanti presentano la degeminazione di /l/, che si conferma così come uno
dei tratti locali più stabili nell’italiano romano parlato a livelli diafasici medî,
oltre che bassi.

21
In un caso soltanto il glide risulta lungo: per la parola caviglia, la durata di [jù] è infatti
pari a 72 msec. Nell’articolo gli, prodotto dopo pausa, il glide dura 52 msec. Infine, nella parola
sopracciglio, la laterale, o meglio il suo succedaneo [j], viene addirittura cancellato, per cui
[sob
ra tʃio], con perdita dell’approssimante, analogamente a quanto già rilevato da
Bernhard (1992b: 259).
italiano parlato. analisi di un dialogo 17

Ai fenomeni finora descritti, che coerentemente mostrano la tendenza


della laterale verso l’indebolimento articolatorio, sembra opporsi la
geminazione che si riscontra negli avverbi locativi lì e là ([ li], [ la]) e nei
pronomi lo, la in unione al verbo averci (o meglio avecci), d’uso comune nel
parlato di Roma; ad es. nel dialogo, ce ll’ho, ce ll’hai. La contraddizione è
tuttavia solo apparente, dal momento che in entrambi i contesti sopra indi-
cati, limitati lessicalmente e morfologicamente, si tratta di forme residuali,
quasi fossili, nelle quali si perpetua l’antica laterale lunga originaria del latino.

6. La lex Porena

Com’è noto, in vaste zone dell’Italia centro-meridionale, i morfemi deri-


vati dal lat. ILLUM sono soggetti a processi di indebolimento più o meno
invasivi, come dimostra tra l’altro la mancata applicazione del Rafforzamento
Fonosintattico agli articoli determinativi (Rohlfs 1949 = 1966: § 174). In questo
quadro si inscrive il fenomeno che da tempo è noto in letteratura come lex
Porena, dal nome dell’Autore che per primo ne scrisse, qualificandolo come
“fenomeno del dialetto plebeo” di Roma (cfr. Porena 1925: 230). Il processo
ha natura morfofonologica e prevede la perdita della laterale negli articoli
determinativi (la, le, lo, li), negli omofoni pronomi clitici oggetto, nelle pre-
posizioni articolate (della, dalla, sulla, etc.) e nelle forme del pronome o
aggettivo quello. Si tratta dunque di un complesso di elementi aventi una
comune base etimologica: i morfemi derivati da ILLUM specificati dai tratti
di genere, numero e definitezza.
Sul processo vigono due vincoli: il primo, prosodico, impone che la
vocale
 seguente sia atona (per cui it. ho venduto la casa, rom. [ ɔ vendu d o
a  asa], ma gli uomini, rom. [l omini]); il secondo, morfosintattico, prevede
la presenza di un confine morfologico tra l’elemento contenente /l/ e l’ele-
mento precedente. Una terza restrizione può inoltre essere individuata sulla
base di quanto scriveva Porena (1925: 235): la cancellazione di /l/ sarebbe
bloccata quando /l/ sia “iniziale di proposizione”, dal che discende il vincolo
di posizione intervocalica per l’applicazione della lex Porena. Tuttavia, i rilievi
successivi sembrano aver dimostrato l’applicazione del processo anche in
contesto iniziale di enunciato22.
Nonostante la sua marcatezza come tratto dialettale, il processo, relativa-

22
Cfr. Loporcaro (1991: passim; nello specifico, p. 299, in nota 17), Bernhard (1998; 1999).
18 il consonantismo romano

mente recente23, risulta in espansione e sempre più diffuso nel parlato di


Roma, dal momento che ricorre ormai anche nella varietà media del
continuum linguistico romano, perlomeno nel caso degli articoli e delle pre-
posizioni articolate24. Il nostro corpus conferma la vitalità della legge Porena,
essendo il fenomeno attestato nel dialogo, nonostante i parlanti siano giovani
studenti universitari; per la precisione, abbiamo rilevato, prima uditivamente
e poi acusticamente, 20 casi di cancellazione di /l/ nei contesti morfologici
sopra indicati, di cui 11 per il parlante femminile e 9 per quello maschile, così
distribuiti:

– 8 articoli determinativi: la (3), le (4), l (1);


– 3 pronomi clitici: la (1), lo (2);
– 7 preposizioni articolate: dalla (2), sulla/-o/-e (4), delle (1);
– 1 pronome dimostrativo: quella;
– 1 aggettivo dimostrativo: quella.

In uno studio dedicato espressamente a questo tema, Loporcaro (1991)


ha sostenuto che, nei contesti previsti dalla lex Porena, la caduta di /l/
determina l’allungamento per compenso della vocale atona seguente, ad es.
it. lo bruci [lo brutʃi], rom. [o bruʃi], it. la Roma [la roma], rom. [a
roma]. Tuttavia, come risulta dall’analisi quantitativa svolta puntualmente
da P. Sorianello e S. Calamai in questo stesso volume, in nessuno dei casi
rilevati nel nostro corpus la durata della vocale in questione è risultata lunga,
ma sempre comparabile a quella di una vocale atona non finale in sillaba
aperta.
Per l’interpretazione globale del processo è a nostro avviso cruciale
riconoscere che, in caso di applicazione della legge Porena in posizione
interna di enunciato, si verifica uno iato, in cui nessuna delle vocali atone
coinvolte e contigue viene allungata; ad es. nel caso dei sintagmi sulla sinistra
(turno 209 del dialogo), o sullo sfondo (turno 2) la trascrizione fonetica sarà,
rispettivamente, [suo sfondo], [sua si nistra]. Particolarmente istruttivi
sono i contesti in cui la caduta di /l/ dà origine ad uno iato mono-timbrico
(sotto l’orecchio, dalla parte tua, dalla spiaggia, delle linette, là la cosa): l’impres-
sione di vocale lunga può essere generata dall’assenza di cambiamento
timbrico. Ma che si tratti di due vocali sillabiche – ancora iato, quindi, e non

23
Scriveva Porena (1925: 237) che il fenomeno doveva “essersi determinato negli ultimi
trenta o quarant’anni”, quindi a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
24
Cfr. De Mauro e Lorenzetti (1991), Loporcaro (1991), Trifone (1992), D’Achille e
Giovanardi (1995), Bernhard (1998, 1999).
italiano parlato. analisi di un dialogo 19

vocale lunga – è dimostrato anche in questo caso dalla presenza di specifici


indici acustici che segmentano il continuum sonoro: i due distinti segmenti
sono infatti individuati grazie a variazioni nell’andamento for-mantico, nei
valori di intensità e nella curva melodica25. Di iato monotimbrico si tratta
anche nel caso di non lo so (turno 141, bis): la prima vocale si nasalizza,
rendendo possibile l’applicarsi del fenomeno; la rappresentazione spet-
trografica mostra in corrispondenza della sequenza vocalica in iato una zona
di antirisonanza tipica della nasale, per cui [no o sɔ]26.
Illuminante risulta poi il turno 112 (la nuvola, quella là che abbiamo visto
le lineette), in cui la legge Porena si applica due volte (quella e visto le): anche
in questi casi la caduta di /l/ dà luogo alla produzione di uno iato, ma per
effetto di assimilazione coarticolatoria, o meglio di armonia, la vocale della
sillaba iniziale di quella 27 e la vocale finale di visto perdono i propri tratti
timbrici per assumere quelli della vocale seguente. Come indica l’ascolto e
come mostra l’analisi acustica, il risultato è uno iato omorganico ([aa], [ee]),
e non un’unica vocale lunga ([a], [e]).
D’altro canto, nel romanesco parlato, specialmente nella varietà bassa,
fenomeni di armonia vocalica sono tutt’altro che rari, e trovano nella lex
Porena un contesto alimentante:
– accanto a quella, quello, quelli, sono documentati [kwoo], [kwaa],
[kwii]28;
– nelle sequenze di due clitici (Dativo+ Oggetto), la vocale del primo si
assimila a quella del secondo, via Porena: ad es. [mo o diʃi] me lo dici, [to
o di o] te lo dico, [ti i mandi] te li mangi;
– la congiunzione se e il pronome che, seguiti da clitico, subiscono l’as-
similazione timbrica  da parte della vocale del clitico seguente: [sa a d rɔva ]
se la trova, [so o  o noʃi] se lo conosci, [ko o rεo] che lo reggo, [ki i b
ɔrta]
che li porta.

L’assimilazione è ovviamente favorita dalla contiguità dei due segmenti

25
Per i dettagli dell’analisi acustica relativa a questo caso come pure a quelli discussi più
avanti, si rinvia al contributo di Sorianello e Calamai in questo stesso volume. La rappresen-
tazione acustica del sintagma dalla parte tua è presentata nella Figura 1.
26
[no o sɔ] è documentato da Bernhard (1998: § 2.2.3), insieme a [no o uso pju] non
lo uso più, [no o vista] non l’ho vista.
27
Si osservi che la sillaba iniziale di quella è accentata soltanto a livello lessicale, ma nel
contesto in esame (quella là), risulta atona, data la contiguità con la sillaba prominente che
segue.
28
Cfr. Loporcaro (1991: 287-288), ma con diversa trascrizione; Bernhard (1998: §§ 2.2.2b;
2.3.2).
20 il consonantismo romano

vocalici, per cui le tappe sequenziali del processo che conduce alle forme
sopra citate saranno di necessità:
a) caduta di /l/ (preceduta da degeminazione nel caso di quell-);
b) contiguità di V1 e V2;
c) diffusione dei tratti da V2 a V1.

In forma autosegmentale, la rappresentazione corrispondente sarà la


seguente:

3) N A N → N N
| | | | |
V1 l V2 V1 V2
| | | |
[Tα] x [Tβ] [Tβ]

Poiché V2 è depositaria delle marche di genere e numero del Determinan-


te, è V1 il segmento deputato alla copia dei tratti timbrici di V2, e non
viceversa.
Va rimarcato il fatto che tutti i casi di lex Porena riscontrati nel dialogo
in esame sono relativi a posizione interna di turno, in linea con quanto già
rilevato da Porena. La restrizione relativa alla posizione intervocalica del
segmento laterale soggetto a dileguo è importante, perché è lì che si innesca
il processo. Le varianti allomorfiche prive del segmento laterale (a < la, o <
lo, e < le, i < li), motivate morfo-fonologicamente in contesto di frase, possono
tuttavia essere estese all’inizio di enunciato (cfr. nota 22). La diffusione delle
varianti innovative anche al di fuori del contesto originario testimonia la loro
appartenenza stabile alla competenza dei parlanti romani contemporanei,
oltre alla vitalità della legge Porena.
Riprendiamo ora la spinosa questione relativa alla quantità della vocale
a seguito della caduta di /l/. L’allungamento vocalico per compenso è stato
sostenuto da Loporcaro (1991), il quale ha interpretato la lex Porena come
falsificazione del principio teorico, di norma assunto in fonologia non lineare,
per cui l’allungamento vocalico di tipo compensatorio è limitato ai casi in cui
il segmento cancellato occupa la posizione di Coda sillabica, essendo l’Attac-
co prosodicamente inerte. Non a caso, l’esemplificazione presentata e discus-
sa dall’Autore nel suo studio vede i morfemi bersaglio del processo all’inizio
della stringa considerata, pur essendo la posizione intervocalica il contesto
d’elezione del processo; nei casi in cui viene considerata anche quest’ultima
posizione, interverrebbe una regola di elisione della vocale atona finale.
Tuttavia, nella sua vasta inchiesta sociolinguistica svolta sul romanesco
italiano parlato. analisi di un dialogo 21

contemporaneo, basata su interviste con 84 parlanti romani di diversa età ed


estrazione culturale, Bernhard (1998) non ha rilevato l’allungamento vocalico
in posizione iniziale di enunciato; in particolare, nel caso degli articoli a, o, e,
i < la, lo, le, li, la vocale residuale risulta breve, non lunga (cfr. anche Bernhard
1999: 217, nota 5). Lo stesso Loporcaro (1991: 282) scrive del resto che la
vocale allungata a seguito della cancellazione di /l/ “can be optionally
shortened, especially in fast speech”.
In realtà, non sembra opportuno parlare di abbreviamento, dal momento
che non vi è stato preliminare allungamento vocalico: riprendendo quasi alla
lettera le parole di Porena (1925: 237) si dirà che la caduta di /l/ lascia intatta
la sillabazione, per cui le vocali contigue, pur subendo prevedibili effetti
coarticolatori a livello fonetico29, non si contraggono né si elidono, ma
mantengono inalterato il loro assetto prosodico di partenza, con conseguente
produzione di iato.
Un ulteriore aspetto della prosodia del diasistema italiano ci pare qui
rilevante: nel romanesco, come nei dialetti italiani centro-meridionali e nelle
varietà sub-standard di italiano di quella medesima area, l’opposizione di
quantità è fonologica soltanto nell’ambito del consonantismo, non nel
vocalismo; le vocali possono infatti essere lunghe, superficialmente, soltanto
in sillaba aperta non finale di parola, per effetto del vincolo che impone una
rima pesante in quello specifico contesto. Viceversa, non si danno esempi di
allungamento di vocali atone. D’altra parte, un allungamento vocalico in
sillaba atona, già relativamente marcato in sistemi che conoscano il contrasto
fonemico tra /V/ e /V/, diventa un’opzione ancora più marcata nel caso di un
sistema quale quello romano, che non contempla l’opposizione fonologica di
lunghezza vocalica in nessun altro contesto30.
A livello teorico infine, un allungamento per compenso a seguito della
cancellazione di un segmento associato alla posizione di Attacco sillabico
risulterebbe problematico. È infatti un principio generalmente accettato che
solo i costituenti rimaici contribuiscano al peso della sillaba, mentre l’Attacco
è irrilevante; i pochi tentativi di dimostrare la valenza prosodica dell’Attacco
si sono rilevati poco convincenti. Pare quindi preferibile mantenere il punto
di vista tradizionale (già riconosciuto nella letteratura fonologica ben prima
dell’avvento della fonologia generativa di impianto non lineare) per cui
l’Attacco è prosodicamente inerte.

29
Vedi anche in questo caso l’analisi acustica svolta da Sorianello e Calamai (in questo
volume) sui casi della legge Porena presenti nel dialogo.
30
Per un’analisi più dettagliata della lex Porena, ci permettiamo di rinviare a Marotta
(2002-2003).
22 il consonantismo romano

In sintesi, in assenza di verifica empirica pro allungamento vocalico di tipo


compensativo, pare preferibile riconoscere l’occorrenza di uno iato nei con-
testi interni di enunciato che prevedono il dileguo di /l/ (cfr. Marotta 2002-
2003). Di conseguenza, non sembra che dalla lex Porena possa derivare alcun
elemento di falsificazione del principio generale che lega alcuni processi
fonologici (quali l’allungamento vocalico o la geminazione consonantica) alla
struttura prosodica della Rima sillabica.

7. Il Rafforzamento Fonosintattico

Il Raddoppiamento Fonosintattico (d’ora in avanti RF) è uno dei fenome-


ni di sandhi esterno più studiati negli ultimi decenni, sia per quanto riguarda
l’italiano standard che per quanto riguarda varietà regionali o dialettali31.
Com’è noto, il processo consiste nell’allungamento della durata segmentale
della consonante iniziale di una parola, quando sia preceduta da una parola
“geminante” precedente.
Tradizionalmente si è soliti distinguere tra RF prosodicamente condizio-
nato (dopo polisillabi ossitoni o monosillabi ‘forti’, cioè accentati) e RF
morfologicamente condizionato (dopo alcuni monosillabi atoni o alcuni
morfemi bisillabici parossitoni). Il romanesco, come molte altre varietà
dialettali dell’Italia mediana, toscane incluse, presenta una regolare applica-
zione del RF prosodico, cioè dopo vocale accentata finale (cfr. Loporcaro
1997: 83), mentre per il RF morfologico mostra alcune restrizioni in rapporto
all’inventario dei morfemi capaci di innesco del fenomeno; in particolare, a,
e, che, se, è, ho, ha, fa inducono RF, mentre da e dove, no; come è raddoppiante
solo se avverbio comparativo, non se interrogativo32.
Nel dialogo in esame, RF è realizzato costantemente da entrambi i
parlanti in presenza di morfemi monosillabici potenzialmente rafforzanti. Ne
diamo alcuni esempi: a d:estra, e p:oi, che f:atica, mi fa c:apire, più p:iccolo, ride
o p:iange, sta v:erso, che p:artono, ma da che parte, da questa. Non sembra essere
rilevante la contiguità accentuale tra le due sillabe (finale ed iniziale di
parola), dal momento che il processo si verifica anche prima di sillaba atona.

31
La bibliografia sull’argomento è ormai vastissima; ci limitiamo qui a rinviare a
Loporcaro (1997), in cui è possibile reperire l’ulteriore bibliografia aggiornata all’anno di
pubblicazione del volume.
32
Vedi già Porena (1927), quindi Rohlfs (1949 =1966: § 174) e, più recentemente,
Loporcaro (1997) e Bernhard (1998).
italiano parlato. analisi di un dialogo 23

L’analisi acustica svolta ha confermato che la lunghezza dei segmenti


geminati via RF è del tutto comparabile a quella dei medesimi segmenti
lunghi a livello lessicale.

8. Nota conclusiva

L’analisi del consonantismo romano qui svolta è fondamentalmente con-


corde con quanto emerso da precedenti studi sull’argomento. Il corpus sele-
zionato ha tuttavia consentito di mettere in luce alcune correnti dinamiche
interne al sistema, che mostrano sia processi in espansione (ad es.,
affricazione di s postconsonantica; lenizione delle occlusive sorde, lex Porena)
che processi in regresso (degeminazione di /r/, rotacismo di /l/, assimilazione
di -nd-).
Per quanto concerne i parlanti, i due soggetti analizzati presentano livelli
di standardizzazione diversi; coerentemente con quanto già mostrato dalla
dialettologia tradizionale, la femmina è infatti meno ‘dialettale’ del maschio,
almeno dal punto di vista fonologico. Non soltanto i processi fonetici che
interessano il consonantismo ricorrono con maggiore frequenza nel soggetto
maschile, ma la stessa qualità di voce del maschio, risulta, già ‘a orecchio’, più
segnatamente romana di quella della femmina.
A questa connotazione del soggetto maschile come più marcato in senso
dialettale contribuisce a nostro avviso in misura rilevante la prosodia: a fronte
di una ridotta variazione dei profili tonali da parte della parlante femminile,
con concomitante modulazione di frequenza relativamente contenuta, il che
conferisce all’eloquio un carattere abbastanza monotono in senso letterale, si
rileva nel soggetto maschile una maggiore ricchezza di patterns melodici, che
finisce per facilitare la percezione dei tratti prosodici tipici della varietà
romana di italiano33.
Nel complesso, i fenomeni di indebolimento risultano più copiosi di quelli
di rafforzamento, sia sul piano paradigmatico che su quello sintagmatico. Il
dato non stupisce, giacché in condizioni di parlato spontaneo o semi-spon-
taneo i processi di ipoarticolazione sono frequenti, in quanto motivati dalla
tendenza verso l’economia dei gesti articolatori (cfr. Lindblom 1990).
In parallelo, molti dei fenomeni fonologici che abbiamo individuato non
sono esclusivi del romanesco, ma condivisi con altre varietà centro-meridio-
nali, sia dialettali che regionali, a conferma non solo della loro motivazione

33
Per gli aspetti intonativi del dialogo in esame, si veda l(articolo dedicato alla proside in
questo stesso volume.
24 il consonantismo romano

fonetica, ma anche della prossimità tipologica, geneticamente fondata, di


questi diversi sistemi. Nel nostro dialogo, come accade di solito nel parlato,
anche quando l’ipoarticolazione sembra manifestarsi ai massimi gradi, non
arriva mai a compromettere la comunicazione interpersonale, dal momento
che i vincoli imposti sulla produzione sono controbilanciati dalle esigenze
percettive, pena l’insuccesso dello scambio dialogico.

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