parole e raffinata, mentre il secondo era meno controllata sul piano grammaticale e sintattico,
piena di espressioni e di riferimenti materiali.
5- LA MODALITA’ DI TRASMISSIONE, O VARIABILE DIAMESICA
Si definisce diamesica la variabile legata alla modalità di trasmissione di una lingua, che può
essere scritta o parlata. Le differenze tra latino parlato e scritto non investirono soltanto il rapporto
tra grafia e la pronuncia delle parole, ma riguardarono anche aspetti importanti della grammatica,
della sintassi e del lessico.
6- LE FONTI DEL LATINO PARLATO
La fisionomia del latino scritto è agevolmente ricostruibile attraverso una enorme quantità di
testimonianze letterarie; quella del latino parlato non è individuabile con altrettanta facilità.
Tuttavia diverse fonti agevolano questa operazione. Forme tipiche del latino parlato detti
volgarismi s’incontrano, per esempio:
a) Nelle iscrizioni murarie
b) Nei glossari, ovvero vocabolari elementari che spiegano con espressioni del latino parlato
parole e costruzioni del latino classico
c) Nelle testimonianze di scriventi popolari, lettere private o documenti
d) Nelle opere degli autori che tentano di riprodurre nella lingua scritta espressioni del parlato
come nel Satyricon di Petronio
e) Nella letteratura d’ispirazione cristiana. I traduttori delle Sacre Scritture si preoccuparono
relativamente poco dello stile.
f) Nei trattati tecnici di architettura o culinaria, farmacologia o medicina veterinaria, i cui
autori si preoccupavano di dominare la materia più che dello stile.
g) Nelle opere di grammatici e insegnanti di latino. Costoro non si limitavano a illustrare le
regole della lingua, ma segnalavano gli errori più frequenti e i modi per evitarli.
La più famosa testimonianza offerta dai grammatici è L’Appendix Probi, opera di un maestro di
scuola del III secolo d.C. anonimo. Questa appendice è una lista di 227 parole organizzate in due
serie diverse. Nella prima le parole si presentano secondo la norma del latino scritto, nella seconda
si presentano nella forma “errata” ovvero come veniva pronunciata dagli studenti. Le parole
italiane corrispondenti sono più vicine agli “errori”, il che conferma che la nostra lingua continua
dal latino parlato e non scritto.
7-IL METODO RICOSTRUTTIVO E COMPARATIVO
Lo strumento più importante per la ricostruzione del latino parlato è il confronto tra le lingue
romanze. Questo è la base del metodo ricostruttivo e comparativo. Questo metodo consiste
nel ricostruire una forma non documentata sulla base dei risultati che se ne hanno nelle varie
lingue romanze. Spessi gli antecedenti comuni sono documentati nel latino parlato e non in quello
scritto.
8-LATINO CLASSICO E LATINO VOLGARE
Il latino non fu una realtà monolitica. Fra le tante varietà che si sono incrociate e contrapposte per
importanza storica spiccano il latino classico e il latino volgare. Il latino classico è una
realtà linguistica facilmente individuabile: è il latino scritto così come venne usato nelle opere
letterarie della cosiddetta “età aurea” di Roma (50 a.C- 50 d.C.) ed è rimasto sostanzialmente lo
stesso nel corso della storia. Il latino volgare è una realtà linguistica variegata e complessa e
possiamo descriverlo come il latino parlato in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni circostanza e da
ogni gruppo sociale della latinità: fu una lingua parlata dalla fondazione di Roma e nella tarda età
imperiale; fu la lingua parlata dai ricchi e dai poveri, dagli analfabeti e dagli intellettuali. Da questa
realtà multiforme sorsero le varie lingue d’Europa indicate come romanze o neolatine.
Le vocali
a pale
e letto
ɛ sera
i vino
o cotta
ɔ gola
u buca
semiconsonanti
j iena
w buono
consonanti
b becco
d dare
dz ozono
dʒ gelo, giada
f fata
ɡ gara, ghiro
k casa, che
l lato
ʎ gli
m madre
n nodo
ɲ gnomo
p pena
r rosa
s scarpa
ʃ scemo
t tana
ts milza
tʃ cedo
v vano
z sveglia
Se l’aria non trova ostacolo nel suo percorso verso l’esterno e la cavità orale funziona da cassa di
risonanza, amplificando il suono, allora si producono le vocali. Le vocali toniche dell’italiano
sono sette. Il suono delle varie vocali cambia a seconda della posizione che la lingua assume
all’interno della cavità orale nell’articolarle. Sul lato sinistro del triangolo collocheremo, nell’ordine
la e aperta, la e chiusa e la i. Nell’articolare queste vocali la bocca si restringe progressivamente, fin
quasi a chiudersi con la i e la lingua avanza sul palato duro: perciò queste tre vocali si chiamano
palatali o anteriori. Sul lato destro del triangolo collocheremo nell’ordine, la o aperta, la o
chiusa e la u. Nell’articolare queste vocali, la bocca si restringe progressivamente fin quasi a
chiudersi con la u, e la lingua arretra in corrispondenza del velo palatino: perciò queste tre vocali si
chiamano velari o posteriori. Le vocali toniche sono dunque sette, anche se per rappresentarle
disponiamo solo di 5 segni alfabetici. Per distinguere tra una vocale chiusa e una aperta abbiamo a
disposizione i due diversi accenti: grave per le vocali aperte (pòrto, bèllo) e acuto per le vocali
chiuse (bévo). Questo vale solo per le vocali sotto accento; le vocali atone sono 5 [a], [e], [i], [o],
[u]. Completano il quadro dei fonemi italiani le due semiconsonanti : lo iod (trascrizione
fonetica [j]) e il vau (trascrizione fonetica [w]) che sono, in pratica, una i e una u non accentate e
seguite da un’altra vocale; esse si articolano come [i] e [u] ma hanno una durata più breve, e questo
spiega l’impressione che siano un suono a metà tra le vocali e le consonanti. Si dicono semivocali
la [i] e la [u] precedute da vocale e la loro durata è più breve.
6- I DITTONGHI
A differenza delle vocali, le semiconsonanti e le semivocali non possono mai essere pronunciate da
sole ma necessitano di una vocale d’appoggio che le segua o le preceda. Questo gruppo di suoni
prende il nome di dittonghi ovvero un insieme di due vocali che formano un’unica sillaba. Un
dittongo è ascendente quando è formato da una semiconsonante e una vocale es: piatto, piede,
chiudo, piuma… è un dittongo discendente quando è formato da una vocale e una semivocale es:
mai, noi, colui, pneumatico.
7-TRITTONGHI
Esistono anche gruppi vocalici più complessi: i trittonghi formati da una semiconsonante, una
vocale e la semivocale [i] es: miei, cambiai, suoi, guai. Oppure da due semiconsonanti e da una
vocale es: aiuola, inquiete.
8-IATO
Quando due vocali si pronunciano separatamente e appartengono a due sillabe diverse si ha uno
iato. I casi più importanti in cui si produce sono i seguenti:
a) Quando le due vocali vicine non sono né i né u: leone, paese, Boezio, reale…
b) Quando una delle due vocali è una i o una u accentata e l’altra è a, e, o: armonìa, zìe….
9-CONSONANTI
Per identificare le consonanti dell’italiano bisogna tener conto di tre fattori fondamentali:
a) Il modo in cui vengono articolate
b) Il luogo in cui vengono articolate
c) Il tratto della sordità e della sonorità che può catalizzarle.
anteriori allora avremo le dentali sono tali la [t], la [d] e la [n]; se il blocco avviene a livello
del palato anteriore avremo le palatali è tale la [ɲ]; se infine il blocco del canale espiatorio
si produce all’altezza del velo palatino allora avremo le velari sono tali la [k] e la [g]. se il
restringimento del canale espiatorio avviene fra il labbro inferiore e gli incisivi superiori,
allora avremo le labiodentali sono tali la [f] e la [v]; se la lingua tocca gli alveoli degli
incisivi superiori avremo le alveolari sono tali la [s], [z], [l], [r]; se infine nel momento del
restringimento la lingua si appoggia sul palato anteriore, allora avremo le palatali non
occlusive ma costrittive: sono tali la [ʎ].
c) Il tratto della sordità o della sonorità. Tenendo conto della articolazione delle
consonanti possiamo collocarle in uno schema e denominarle in modo appropriato.
Anche l’italiano conosce l’opposizione tra vocali brevi e vocali lunghe. Una qualunque vocale,
seguita da una consonante semplice è lunga; la stessa vocale seguita da una consonante doppia è
breve. Ma in latino diversamente dall’italiano l’opposizione tra vocali brevi e vocali lunghe
consentiva di distinguere parole, forme e significati diversi. In italiano la distinzione tra le brevi e le
lunghe non ha un’analoga capacità distintiva. Da un certo momento in poi nel latino parlato le
vocali lunghe cominciarono a essere pronunciate come chiuse e le vocali brevi come aperte.
Quando il latino si diffuse in Africa e in Europa, si sovrappose a lingue che non possedevano
l’opposizione tra vocali brevi e lunghe. Allora il senso della quantità cominciò a perdersi. La perdita
della quantità rappresentò uno sconvolgimento fortissimo nel sistema vocalico del latino; la
quantità si trasformò in timbro:
Dal latino volgare queste trasformazioni si sono riversate su tutte le lingue romanze, compreso
l’italiano. Un tratto che interessa in particolare l’italiano è il trattamento specifico che hanno subito
la E e la O toniche. Prima di illustrarlo è necessario chiarire la differenza tra la sillaba libera o
aperta e una chiusa o implicata. Una sillaba si dice aperta quando termina per vocale mentre
si dice chiusa quando termina per consonante. Nel passaggio dal latino all’italiano E e O tonica in
latino, in sillaba aperta hanno prodotto rispettivamente il dittongo ie e, il dittongo uo; in sillaba
chiusa si sono trasformate rispettivamente in e aperta e o aperta.
Il vocalismo tonico dell’italiano presenta dunque due trasformazioni in più rispetto al vocalismo
del latino volgare che riguardano la E e la O toniche:
Queste trasformazioni interessano quasi tutti i territori della Romània. Per quanto riguarda l’area
italiana si diversificano il vocalismo tonico del sardo e il vocalismo tonico del siciliano.
Es: - dalla base latina SICCU(M) in italiano si ha SECCO, mentre in sardo si ha SIKKU
In siciliano la I breve e lunga e la E lunga toniche latine hanno tutte e tre lo stesso risultato [i];
analogamente U breve e lunga e O lunga toniche latine confluiscono nell’unico esito [u].
Es: - dalla base latina NIVE(M) in italiano si ha NEVE, mentre in siciliano si ha NIVI
Si è detto che le trasformazioni che abbiamo indicato interessarono le vocali toniche. Anche le
vocali atone subirono delle trasformazioni ma furono in parte diverse. Il vocalismo atono
dell’italiano coincide con quello del latino volgare.
2-L’ACCENTO
Le parole latine avevano un accento di tipo musicale, consistente in un innalzamento della voce.
La posizione dell’accento, all’interno di parola, era determinata dalla durata o quantità della
penultima sillaba: se la penultima sillaba era lunga l’accento veniva a trovarsi proprio su questa; se
invece era breve l’accento veniva a trovarsi sulla terzultima. Ovviamente questa legge della
penultima valeva per le parole che avevano almeno tre sillabe; sulle parole bisillabiche l’accento
si trovava sempre e comunque sulla penultima sillaba, breve o lunga che fosse. La quantità della
sillaba non coincideva necessariamente con la quantità della vocale che la comprendeva. Una
vocale breve produceva una sillaba breve se era in sillaba libera, ma produceva una sillaba lunga se
era in sillaba chiusa; una vocale lunga produceva sempre una sillaba lunga. Questo modo di
realizzare l’accento venne meno quando le vocali persero la quantità. Allora l’accento divenne da
musicale a intensivo. Intensivo è il tipo di accento che si ha nelle parole italiane e che consiste in
una particolare forza articolatoria che si concentra sulla sillaba accentata: es. cancello, fiducia…
Nel passaggio dal latino all’italiano è cambiata la natura, ma non la posizione dell’accento: in
generale le parole italiane hanno mantenuto l’accento che avevano le parole latine di provenienza.
3-FENOMENI DEL VOCALISMO
Monottongamento di AU, AE, OE
Il latino classico aveva tre dittonghi: AU, AE e OE. Una tendenza tipica del parlato fu quella di
monottongare questi dittonghi, cioè di pronunciarli come un’unica vocale che, in quanto
risultante di due vocali, avrebbe dovuto essere lunga e perciò caratterizzata da un timbro chiuso.
Per quanto riguarda il dittongo AU, esso produsse una ō con timbro chiuso soltanto in poche
parole. Generalmente il dittongo AU si monottongò in una /ɔ/: da aurum si ebbe òro… Questo
fenomeno si produsse in Toscana nell’VIII secolo d.C. ed è documentato in una carta latina
medievale pistoiese del 726. Il dittongo AE si monottongò in una ē che fu pronunciata subito
aperta. Infine il raro dittongo OE si monottongò in una ē che in italiano ha dato regolarmente [e].
Dittongamento toscano
Il dittongamento di ĕ e ŏ toniche in sillaba libera è detto toscano perché tipico del fiorentino.
Che tale dittongamento caratterizzi le parole dell’italiano è una delle prove del fatto che la nostra
lingua coincide buona parte col fiorentino letterario del Trecento. In sillaba libera la e aperta
derivata da ĕ latina si dittonga in ie, e la o aperta derivata da ŏ si dittonga in uo es: da PEDEM
abbiamo PIEDE, da BONUM abbiamo BUONO. Il dittongamento non avviene se le sillabe
terminano per consonante come ad es. CORPUS si trasforma in CORPO.
La regola cosiddetta del “dittongo mobile”
Nella flessione di alcuni verbi con ĕ e ŏ nella radice si registra l’alternanza tra forme con dittongo e
forme senza dittongo. Es: dolere a duoli… Questa oscillazione obbedisce alla regola detta del
dittongo mobile: il dittongamento si ha solo nelle forme rizotoniche, cioè accentate sulla
radice, in cui ĕ e ŏ sono toniche, non sulle forme rizoatone in cui ĕ e ŏ sono atone. Es: D ŏles >
duoli…
La regola del dittongo mobile non ha interessato solo le forme di uno stesso verbo, ma anche parole
diverse che fossero corradicali cioè che provenissero dalla stessa radice nominale o verbale es:
piede-pedata… sempre, però, quando le vocali erano toniche e non atone. In molti verbi la regola
del dittongo mobile è andata perdendosi progressivamente.
Nell’italiano attuale il dittongamento non compare nelle parole in cui la e e la o provenienti da ĕ e ŏ
toniche seguono il gruppo di consonante + R. in verità nell’italiano antico il dittongamento era
normale anche in contesti come quelli appena indicati. A Firenze la riduzione del dittongo dopo
consonante + r si affermò dal 1400 e fu determinata dall’influsso dei dialetti toscani occidentali.
Prima, a metà del Quattrocento si diffuse la riduzione iè in è; poi, a metà Cinquecento la riduzione
di uò in ò. Nell’italiano attuale sono in forte declino le forme con dittongo uò preceduto da suono
palatale es: fagiuolo, figliuolo non si usano più. Una forte spinta all’abbandono del tipo con uò
venne da Alessandro Manzoni, che nella revisione linguistica dei Promessi Sposi eliminò quasi
tutte le forme uò dopo i suoni palatali, sostituendole con le forme con ò, nonostante il suo esempio
furono usati ancora per molto tempo e non si può dire che siano definitivamente scomparse. Nella
lingua della poesia, invece, sono state frequenti, fino al secolo scorso, forme come còre, fòco, lòco…
senza dittongo; queste forme sono dovute all’influsso del siciliano antico, la lingua poetica italiana
ha un consistente fondo siciliano perché siciliana fu la prima esperienza poetica collettiva praticata
sul nostro territorio.
L’anafonesi
L’anafonesi è una trasformazione che riguarda due vocali in posizione tonica [e] e [o]. In
determinati casi fonetici queste due vocali passano, rispettivamente, a i e u. Si verifica in due casi:
- Primo caso di anafonesi. Nel primo caso [e] tonica proveniente da ē e da ĭ latine si chiude in
i quando è seguita da l palatale o da n palatale, a loro volta provenienti dai nessi latini –LJ-
e –NJ-
Es: FAMILIA(M) > FAMEGLIA> FAMIGLIA.
L’anafonesi non avviene se la n palatale non proviene dal nesso –NJ- ma da un nesso in –
GN-.
- Secondo caso di anafonesi. Nel secondo caso, [e] tonica proveniente da ē e da ĭ latine e [o]
tonica da ō e ŭ latine si chiudono, rispettivamente, in [i] e [u] se sono seguite da una nasale
velare, cioè da una n seguita da una velare sorda [k] o sonora [g]
Es: LINGUA(M) > LENGUA> LINGUA.
Chiusura delle vocali toniche in iato
La e aperta e la e chiusa, la o aperta e la o chiusa toniche, se precedono un’altra vocale diversa da i
con cui formano non un dittongo ma uno iato, tendono a chiudersi progressivamente fino al grado
estremo: e aperta diventa progressivamente i e o aperta diventa progressivamente u. Es:
EGO>EO>Èo>éo> io
Chiusura della e protonica in i
In posizione protonica, ovvero prima della sillaba accentata, una e chiusa tende a chiudersi in i. es:
DECEMBRE> DICEMBRE. Questo processo non è stato né uniforme né generale alcune parole
hanno resistito fino al Trecento, altre dopo il Rinascimento
Chiusura della o protonica in u
In posizione protonica una o chiusa in qualche caso può diventare u. Es:
OCCIDO>OCCIDO>UCCIDO.
Chiusura di e postonica in sillaba non finale
Anche la e postonica come la e protonica si chiude in i. La chiusura di e postonica è un fenomeno
generale, con due importanti limitazioni: la e postonica che subisce chiusura in i proviene da ĭ e
non appartiene mai alla sillaba finale di una parola, ma sempre una sillaba interna, sicché il
fenomeno può verificarsi soltanto in parole di almeno tre sillabe. Es: DOMINICA(M) >
DOMENECA> DOMENICA.
Passaggio da ar intertonico e protonico a er
Una vocale intertonica, è una vocale posta tra l’accento secondario e l’accento principale. Le parole
di quattro o più sillabe non hanno un solo accento, ma due: l’accento principale e l’accento
secondario. Es: attenzione.
Il gruppo latino ar: nel fiorentino in posizione intertonica è passato a er. Es:
COMPARARE>COMPERARE
Passa a er non solo ar intertonico ma anche protonico quando: - nelle parole con la caratteristica
uscita in –eria. – con il suffisso –arello –con il suffisso –areccio.
Il caso più importante di passaggio da ar protonico a er riguarda le forme del futuro e del
condizionale dei verbi di prima coniugazione. Questo passaggio ha interessato di fatto soltanto il
fiorentino antico.
Labializzazione della vocale protonica
In alcune parole una [e] e una [i] protonica seguite da una consonante labiale sono state attratte
nell’orbita articolatoria di questa consonante e si sono trasformate nelle vocali o oppure u. si dice
che si sono labializzate perché le vocali o e u, oltre che velari, possono essere considerate labiali.
Es: DEBERE>DEVERE>DOVERE.
4-I FENOMENI DEL CONSONANTISMO
Consonanti conservate
Varie consonanti del latino si mantengono inalterate quando passano in italiano, sia in posizione
iniziale sia all’interno di parola. In questo modo si comportano la D, la M, la N, la L, la R e la F.
Assimilazione consonantica
L’assimilazione consonantica regressiva è il fenomeno per cui, in un nesso di due
consonanti difficili da pronunciare, la seconda consonante assimila a sé la prima, trasformando la
sequenza di due consonanti diverse in un’unica consonante doppia. ES: CS>SS, CT>TT, DV>VV…
Mentre il fiorentino ha conosciuto solo l’assimilazione regressiva, nei dialetti dell’Italia
centromeridionale si ha anche l’assimilazione consonantica progressiva. In questo caso, è
la prima consnante che assimila a sé la seconda. Es: ND>NN, MB>MM.
Caduta di consonanti finali
Nelle parole latine, tre consonanti ricorrevano con particolare frequenza in posizione finale: la –M,
la –T e la –S. Nel parlato sia la M che la T finale caddero molto presto. La S finale invece o non è
caduta o non è caduta immediatamente, producendo una serie di varie trasformazioni:
a) Nei monosillabi: in alcuni casi si è palatalizzata, cioè si è trasformata nella vocale palatale i
es: NOS> NOI; in altri casi si è assimilata alla consonante iniziale della parola successiva.
b) Nei polisillabi: prima di cadere ha palatalizzato la vocale precedente, cioè l’ha trasformata
aumentandone il grado di palatalità.
Palatalizzazione dell’occlusiva velare
È un fenomeno molto antico. Nel latino tardo, però, davanti alle vocali e e i, le velari [k] e [g] si
sono palatalizzate attratte nell’orbita articolatoria della e e della i vocali palatali, si sono
trasformate in affricate palatali, rispettivamente sorda e sonora. Es: GELU>GELO.
Trattamento di iod iniziale e interno
Quale fosse la vocale successiva, lo iod si è trasformato in un’affricata palatale sonora in posizione
iniziale di parola e in un’affricata palatale sonora intensa in posizione intervocalica. Es:
IACERE>GIACERE; MAIUS> MAGGIO.
Labiovelare
Indichiamo con il termine labiovelare la combinazione di una velare sorda o sonora: [k] o [g]
seguite da una u semiconsonantica [w]. Questo secondo fono viene prodotto con una spinta in
avanti delle labbra. Può essere sia sorda che sonora. In una parola italiana la labiovelare sorda può
essere di due tipi: primaria o secondaria. Si dice primaria la labiovelare che esisteva già in
latino e secondaria quella che, non esistendo in latino, si è prodotta nel passaggio dal latino volgare
all’italiano.
Nasale +iod
Trattamento del nesso –MJ-. Lo [j] ha prodotto il raddoppiamento della nasale labiale che la
precedeva es: VINDEMIA(M)> vendemmia.
Trattamento del nesso –NJ- il processo di trasformazione ha subito due fasi:
1- [j] ha prodotto il raddoppiamento della nasale precedente, e NJ è diventato NNJ
2- [j] ha intaccato la nasale velare intensa, attirandola nella sua orbita articolatoria e
trasformandola in una nasale palatale in tensa es: IUNIU(M)> JUNNJUM>giugno
Laterale + iod
Trattamento del nesso –LJ-. Il processo di trasformazione ha conosciuto due fasi:
1- Lo [j] ha prodotto il raddoppiamento della laterale precedente, e LJ è diventata LLJ
2- [j] ha intaccato la laterale intensa, attirandola nella sua orbita articolatoria e
trasformandola in laterale palatale intensa. Es: FILIA(M)> FILLJA> figlia.
Vibrante + iod
Trattamento del nesso –RJ-. Nel trattamento di questo nesso c’è una notevole differenza tra la
toscana e il resto d’Italia. In toscana la R è caduta e il nesso RJ si è ridotto a J. Es: cuoio, aia.
In molti dei dialetti del resto d’Italia, invece, la R si è mantenuta e a cadere è stato lo J. Si sono
formati molti suffissi –aro –ai –ari.
Sibilante + iod
Trattamento del nesso –SJ-. A Firenze e in toscana il nesso SJ ha avuto due esiti paralleli: in alcuni
casi ha prodotto una sibilante palatale sorda tenue, in altri ha prodotto una sibilante palatale
sonora tenue. Es: BASIU(M)> bacio. Il doppio trattamento del nesso SJ si spiega tenendo presente
il più ampio fenomeno della sonorizzazione delle consonanti intervocaliche.
Nessi di consonanti + l
I nessi di consonante +[l] si trasformano in nessi di consonante + [j]. Se il nesso è all’inizio di
parola o dopo una consonante, non ci sono altre trasformazioni; se invece è in posizione
intervocalica, lo [j] che si è prodotto determina il raddoppiamento della consonante precedente. Es:
PLANU(M)> piano.
L’evoluzione del nesso –GL- in posizione intervocalica rappresenta un caso particolare. Nel
fiorentino antico questo nesso si è trasformato regolarmente in GJ, con successivo raddoppiamento
della velare che ha dato [ggj]. Dal Cinquecento queste forme vengono modificate e si affermano
anche in italiano. Si diffonde con questo ipercorrettismo.
5-FENOMENI GENERALI
Ci sono sei fenomeni di carattere generale: la prostesi, l’epitesi, l’epentesi, l’aferesi, l’apocope e la
sincope.
Prostesi
La Prostesi consiste nell’aggiunta di un corpo fonico all’inizio di parola. È il fenomeno che si
registra in sequenze del tipo per iscritto: quando una parola termina per consonante era seguita da
una parola iniziante per s+ consonante, all’inizio di questa parola il parlante inseriva una i che,
evitando la sequenza di tre consonanti, rendeva più agevole la pronuncia. È in abbandono
nell’italiano attuale.
Epitesi
L’Epitesi consiste nell’aggiunta di un corpo fonico alla fine di una parola. Si tratta di un fenomeno
diffuso soprattutto nell’italiano antico, in particolare nelle parole che originariamente avevano una
finale consonantica, e inoltre nelle parole tronche, cioè accentate nell’ultima sillaba. Es: virtue
>virtù.
Epentesi
L’Epentesi consiste nell’aggiunta di un corpo fonico all’interno di una parola. L’italiano ha
conosciuto sia l’epentesi consonantica sia vocalica. L’epentesi consonantica si è prodotta in alcune
parole in cui originariamente c’era una sequenza di due vocali, che è stata in questo modo
interrotta. Es: MANUALE(M)> manoale> manovale. La più importante è quella della labiodentale
sonora [v] e anche quella della velare sonora [g].
Quanto l’epentesi vocalica, il caso più importante è quello dell’epentesi di i in alcune parole che
presentavano la sequenza consonantica –SM-.
Aferesi
L’Aferesi consiste nella caduta di un corpo fonico all’inizio di una parola: è il fenomeno che
possiamo registrare negli aggettivi dimostrativi sto, sta, ste, sti provenienti dalle forme questo,
questa, queste, questi con aferesi appunto della sillaba iniziale que. Queste forme sono tipiche
dell’italiano parlato anche se il femminile sta s’incontra fin dalle origini nella lingua scritta in
parole come stamattina, stasera, stanotte. Il fenomeno per cui due parole in sequenza si uniscono e
ne formano una sola si chiama univerbazione. Esso si spiega tenendo conto del fatto che, nel
parlato, non c’è lo stesso tipo di interruzione fra le parole che si presentano nello scritto.
Discrezione dell’articolo
Collegabile al fenomeno dell’aferesi è quello della cosiddetta discrezione dell’articolo. Data una
parola iniziante per l o per la, in alcuni casi il parlante interpreta questi foni iniziali come l’ o come
la, cioè come forma dell’articolo determinativo, e per conseguenza li separa dal resto della parola.
Concrezione dell’articolo
Quando l’articolo e nome formano un tutt’uno nella segmentazione della catena parlata e quindi a
volte l’articolo diventa parte del nome si ha la concrezione dell’articolo. Es:
ASTRICU(M)>lastrico.
Sincope
La Sincope è la caduta di un corpo fonico all’interno di parola. A cadere sono le vocali o la sillaba
più debole: la sincope non investe mai una sillaba accentata, spesso in molte parole italiane
interessa le vocali postoniche e le vocali intertoniche. È un fenomeno molto antico attestato
dall’appendix probi. Es: BON(I)TATE(M)>bontade>bontà
Apocope
L’Apocope è la caduta di un corpo fonico in fine di parola. Il caso di apocope più importante è
quella prodottasi per apologia ovvero in parole terminanti in –tà e in –tù. L’apologia è la
cancellazione di suoni simili o identici vicini tra loro.
Raddoppiamento fonosintattico
Il raddoppiamento fonosintattico è un tipico fenomeno di fonetica sintattica: ciò vuol dire che esso
non si produce all’interno di parola ma nell’ambito della frase. In particolare, il raddoppiamento è
definibile come un’assimilazione regressiva all’interno della frase. Dopo quali parole si produce il
raddoppiamento fonosintattico?
A) Dopo i monosillabi cosiddetti forti cioè dotati di accento. Es: blu, fa, fra, qua…
B) Dopo le parole tronche indipendentemente dal numero delle sillabe. Es: andò, virtù, portò…
C) Dopo quattro polisillabi piani: come, dove, sopra.
DAL LATINO ALL’ITALIANO: I MUTAMENTI MORFOLOGICI
1-IL NUMERO DEL NOME
La lingua latina come l’italiana, aveva due numeri, il singolare e il plurale, riconoscibili per le
diverse uscite che li caratterizzavano. Nel passaggio dal latino all’italiano non ci sono state
trasformazioni di rilievo
2-IL GENERE DEL NOME. LA SCOMPARSA DEL NEUTRO
La lingua latina, a differenza di quella italiana, aveva tre generi: il maschile, il femminile e il
neutro. Schematizzando e semplificando si può dire che gli esseri animati erano maschili o
femminili e gli elementi inanimati neutri. Nel passaggio dal latino all’italiano il neutro si perse, e le
parole che appartenevano a questo genere furono trattate come maschili. Questo avvenne anche
perché la gran parte dei termini neutri aveva un’uscita tale da fondersi e confondersi facilmente
con quella maschile. Il neutro ad ogni modo, non è scomparso del tutto dalla nostra lingua: ne
rimangono vari relitti. In particolare alcune parole maschili singolari in –o che presentano 2
plurali: uno maschile in i e uno femminile in a ciascuno con significati specifici. Es: il braccio (i
bracci/le braccia). Nel passaggio dal latino all’italiano tutte queste parole sono diventate maschili e
hanno avuto un regolare plurale maschile in i; i plurali in a sono relitti del plurale neutro latino e
sono stati trattati come femminili. Nell’italiano antico questi casi erano molto più numerosi.
3-LA SCOMPARSA DEL SISTEMA DEI CASI
Il latino a differenza dell’italiano aveva i casi e le declinazioni. Essi erano gli strumenti
attraverso i quali il latino distingueva le funzioni logiche e i significati che una o più parole
potevano avere all’interno della frase. L’italiano affida questa funzione distintiva alla posizione che
una parola o un gruppo di parole assumono all’interno della frase, nonché all’opposizione fra
l’articolo e le varie preposizioni che possono precedere un nome o un pronome. La funzione cambia
a seconda della preposizione che precede il nome. In latino, il compito di distinguere le funzioni
logiche di una parola non era affidato alla preposizione ma al caso, cioè alla diversa uscita che una
parola poteva assumere per esprimere funzioni sintattiche diverse. Nella fattispecie, i casi erano
sei: nominativo (soggetto), genitivo (complemento di specificazione), dativo
(complemento di termine), accusativo (complemento oggetto), vocativo
(invocazione) e ablativo (complemento di mezzo, causa, provenienza…) e ciascuno
distingueva una o più funzioni logiche. La riconoscibilità di un caso rispetto ad un altro era affidata
alla diversa uscita che un nome o un aggettivo potevano avere, ovvero la desinenza.
4-LA SEMPLIFICAZIONE DEL SISTEMA DELLE DECLINAZIONI
I nomi latini non avevano tutti le stesse uscite per distinguere i vari casi. Le declinazioni erano
cinque.
1) Alla prima declinazione appartenevano: nomi maschili e femminili che al nominativo
uscivano in a e al genitivo in ae.
2) Alla seconda declinazione appartenevano: nomi maschili e femminili che al nominativo
uscivano in us e al genitivo in i. nomi neutri che al nominativo uscivano in um e al genitivo
in i. Nomi maschili che al nominativo uscivano in er e al genitivo in i.
3) Alla terza declinazione appartenevano: nomi maschili, femminili e neutri che al nominativo
uscivano in vario modo e al genitivo in is.
4) Alla quarta declinazione appartenevano: nomi maschili e femminili che al nominativo
uscivano in us e al genitivo in us. Nomi neutri che al nominativo uscivano in u e al genitivo
in us.
5) Alla quinta declinazione appartenevano: nomi quasi tutti femminili che al nominativo
uscivano in es e al genitivo in ei.
La sola desinenza del nominativo non permette di delineare la declinazione di appartenenza,
l’unica desinenza che cambia in ciascuno dei 5 modelli flessionali è quella del genitivo, essa infatti
consente di determinare la declinazione di appartenenza.
5-METAPLASMI DI GENERE E DI NUMERO
Non esiste solo il metaplasmo di declinazione, ma anche di genere, quando un nome ha cambiato
di genere o di numero, quando un nome ha cambiato di numero.
Esempi di metaplasmi di genere e numero: - alcuni plurali neutri uscenti in a sono stati interpretati
come femminili singolari. Es: FOLIA= neutr. Plur di FOLIUM > foglia. – i nomi di alberi
appartenenti alla seconda declinazione in latino erano femminili. In italiano sono diventati
maschili: il faggio, il pino… - il sostantivo acus, appartenente alla quarta declinazione, era di genere
femminile. In italiano è diventato maschile: l’ago.
6-LA DERIVAZIONE DEI NOMI ITALIANI DALL’ACCUSATIVO
Che il caso da cui derivano i nomi dell’italiano sia l’accusativo è dimostrato non solo dalla sintassi
storica, ma anche dalla fonetica storica. I nomi appartenenti alla prima e alla seconda declinazione
non consentono di stabilire da quale caso derivino le parole italiane. Invece, la flessione dei nomi
maschili e femminili di terza declinazione consente di escludere che i nomi italiani derivino dal
nominativo-vocativo, può derivare solo dall’accusativo o dall’ablativo. L’ablativo però, può essere
escluso se si tiene conto della flessione dei nomi neutri di terza declinazione. Ci sono alcune
eccezioni alla norma che fa derivare le parole italiane dall’accusativo:
- I pronomi loro e coloro derivano da illorum che è un genitivo plurale.
- Il nome della città di Firenze che deriva da Florentiae genitivo locativo
- Sette parole (uomo, moglie, re, sarto, ladro, drago e fiasco) derivano dal nominativo
Mentre per il singolare è assodato che il punto di partenza sia l’accusativo, ricostruire la formazione
del plurale è più complesso.
- I nomi maschili che al singolare escono in o al plurale escono in i. La desinenza del plurale
di questi nomi continua la desinenza i del nominativo plurale.
- I nomi femminili che al singolare escono in a al plurale escono in e. La spiegazione più ovvia
sarebbe che questa desinenza in e derivi dall’uscita ae del nominativo plurale con
monottongamento; ma questa ricostruzione contrasta col fatto che in documenti latini sono
presenti forme di accusativo plurale in es, questi sono dei volgarismi e documentano la fase
intermedia di una trasformazione in cui la s finale della desinenza as dell’accusativo plurale
ha palatalizzato la a trasformandola in e.
- I nomi maschili e femminili che al singolare escono in e e al plurale escono in i. La
desinenza del plurale di questi nomi continua la desinenza di es dell’accusativo plurale della
terza declinazione. La s finale ha palatalizzato la e latina e l’ha trasformata in i.
7-LA FORMAZIONE DEGLI ARTICOLI
l’Articolo determinativo e quello indeterminativo rappresentano, rispetto al latino, una novità
grammaticale che l’italiano condivide con altre lingue romanze. L’articolo determinativo italiano
continua la forma latina ille, illa, illud, mentre l’articolo indeterminativo continua la forma unus,
una, unum. Entrambe queste voci non erano articoli. Nella fattispecie, ille era un aggettivo o
pronome dimostrativo che indicava qualcuno o qualcosa lontano dall’emittente e dal ricevente,
mentre unus era un aggettivo che aveva il valore numerale di “uno” e poteva assumere anche il
significato di “uno solo”. Talvolta però unus nel latino colloquiale fu adoperato con un valore non
lontano da quello che in italiano attribuiamo all’articolo indeterminativo italiano già nel latino di
Plauto e addirittura in Cicerone: mentre ille con significato vicino a quello italiano dell’articolo
determinativo è documentato in vari testi latini medievali. Le attestazioni più significative di questa
forma intermedia fra il dimostrativo latino e l’articolo determinativo italiano si trovano nell’antica
tradizione latina del Vecchio e del Nuovo Testamento nota con il nome di Vetus Latina II secolo
d.C. che precede la traduzione della Vulgata IV secolo d.C. L’itala fu redatta in un latino fortemente
popolareggiante sulla basa di una versione greca della Bibbia e dei Vangeli. Il greco, come l’ebraico
a differenza del latino, aveva l’articolo determinativo. E così per rispettare il più possibile il testo
sacro ille e unus furono utilizzati per tradurre l’articolo.
L’articolo indeterminativo
Il maschile uno continua l’accusativo maschile latino UNU(M), mentre il femminile una continua
l’accusativo femminile UNA(M).
L’articolo determinativo maschile
In italiano sono il e lo per il singolare e i e gli per il plurale. Com’è noto la loro distribuzione
dipende dal suono iniziale della parola che segue. Il/i si adoperano davanti a parole inizianti per
consonanti eccetto z e x e davanti a un gruppo formato da una consonante diversa da s + l o r.
mentre lo/gli si adoperano davanti a una parola cominciante per la cosiddetta s impura, per s
palatale, per la n palatale, per z e per x e davanti a una parola che inizia per vocale. Nell’antico
italiano le forme dell’articolo determinativo maschile non erano in parte così, ma soprattutto era
diverso il loro uso. In primo luogo non esistevano due forme di articolo determinativo maschile
singolare. L’unica adoperata era lo, proveniente dalla base latina ILLU(M) con aferesi della sillaba
iniziale IL, caduta della M finale e marmale passaggio di U a [o]. La forma il si è prodotta in un
secondo tempo e da una costola di lo. Molto presto, divenne importante il suono finale della parola
che precedeva l’articolo; se era una consonante, questa non ostacolava la piena realizzazione di lo.
Se era una vocale era facile che lo si riducesse alla singola l, ovviamente questo fenomeno è da
imputare alla lingua parlata (questo fenomeno è chiamato dai linguisti “allegro”). Successivamente,
la l fu fatta precedere da una vocale, detta vocale d’appoggio perché ne consentiva la pronuncia
autonoma; essa fu diversa nei vari dialetti medievali. In particolare si aveva lo all’inizio di frase e
dopo parola terminante per consonante, mentre si aveva il dopo parola terminante per vocale.
Questo meccanismo distributivo è indicato dai linguisti come norma Gröber. Oggi questa norma
non è più attiva. Questa situazione si mantenne inalterata fino al trecento. Veniamo ora al plurale,
la forma originaria dell’articolo maschile plurale era li. Si trattava del plurale di lo, regolarmente
proveniente dalla base latina ILLI con aferesi della sillaba iniziale ĬL e passaggio della Ī finale a i.
nell’italiano antico li precedeva una parola iniziante per vocale, in fonetica sintattica si determinava
una sequenza di L+J. Il fenomeno i nasce dalla riduzione di gli alla semplice vocale palatale i.
L’articolo determinativo femminile
Per il singolare, la base di partenza è l’accusativo femminile singolare del dimostrativo ille, cioè
ILLAM, con consueta aferesi della sillaba iniziale IL e caduta della M finale.
Per il plurale, la base di partenza è l’accusativo femminile plurale del dimostrativo ille, cioè ILLAS,
con aferesi della sillaba iniziale Il e palatalizzazione della A in [e] prodotta dalla s finale prima della
caduta
8-L’AGGETTIVO QUALIFICATIVO E I SUOI GRADI D’INTENSITÀ
L’aggettivo è una parola che si riferisce a un’altra parola a cui può attribuire, di volta in volta, una
qualità, un colore, una nazionalità… in italiano gli aggettivi concordano in genere e numero con il
nome a cui si riferiscono. In latino questa concordanza non riguarda soltanto il genere e il numero,
ma si estendeva alla funzione logica indicata dal caso. Gli aggettivi latini indicanti la qualità erano
organizzati in due modelli flessionali detti classi. Alla prima classe appartenevano gli aggettivi
che per il maschile e per il neutro seguivano il modello dei nomi di seconda declinazione, mentre
per il femminile seguiva il modello di nomi di prima declinazione. Alla seconda classe
appartenevano gli aggettivi che seguivano il modello dei nomi di terza declinazione.
I gradi dell’aggettivo qualificativo
I concetti espressi da un aggettivo di qualità possono essere graduati secondo una scala d’intensità,
in cui si distinguono tre gradi o livelli: positivo, comparativo e superlativo.
Al grado positivo: l’aggettivo attribuisce a un nome una qualità senza precisarne l’intensità
e senza fare riferimento ad alti termini di confronto.
Al grado comparativo: la qualità attribuita dall’aggettivo viene messa a confronto con la
stessa qualità posseduta da un altro, il confronto può dare tre risultati: comparativo di
maggioranza, comparativo di minoranza e comparativo di uguaglianza.
Al grado superlativo: la qualità attribuita al nome viene espressa al livello massimo.
Nel latino classico, il comparativo di maggioranza aveva una forma sintetica o organica: era
cioè costruito da una sola parola, un aggettivo comparativo formata dalla radice dell’aggettivo di
qualità seguita da un suffisso di maggioranza –IOR per il maschile e il femminile e –IUS per il
neutro. I comparativi di minoranza e uguaglianza avevano invece una struttura analitica o
inorganica, formata non da una, ma da due parole. Per il comparativo di minoranza
premettevano all’aggettivo di qualità l’avverbio MINUS, mentre per il comparativo di uguaglianza
premettevano all’aggettivo di qualità avverbi come TAM; ITA… che esprimevano l’idea di
uguaglianza. Quanto al superlativo, nel latino scritto esso poteva presentarsi sia in forma sintetica
che in forma analitica. La forma sintetica era costituita da una sola parola: un aggettivo superlativo
formato dalla radice dell’aggettivo di qualità seguito dal suffisso –ISSIMUS per il maschile, -
ISSIMA per il femminile e –ISSIMUM per il neutro. Per la forma analitica i latini premettevano
all’aggettivo di qualità avverbi come MULTUM, MAXIME… tutte riconducibili a un unico
significato di misura: “molto”.
Le forme analitiche del comparativo di uguaglianza e di minoranza e del superlativo documentate
dal latino scritto ricorrevano normalmente anche in quello parlato e da questo sono passate
all’italiano senza soluzione di continuità e senza differenze sostanziali. Invece, per il comparativo di
maggioranza, il latino parlato sostituì ben presto la forma sintetica del latino scritto con una
perifrasi costruita sul modello del comparativo di minoranza e uguaglianza: prima con MAGIS+
aggettivo positivo, poi PLUS+ aggettivo positivo> più. Per quel che riguarda il superlativo l’italiano
da una parte ha continuato il modello perifrastico del latino scritto e parlato, dall’altra ha
recuperato per via dotta il superlativo in –ISSIMUS dal latino scritto.
9-PRONOMI PERSONALI
Il sistema dei pronomi personali dell’italiano è vicinissimo a quello latino, da cui proviene. Le
forme di prima e seconda persona singolare conservano addirittura un residuo di declinazione, nel
senso che, proprio come in latino, cambiano a seconda della funzione sintattica svolta: io e tu
indicano un soggetto, me e te indicano un complemento. IO > EO<E(G)O nominativo del pronome
di prima persona. ME, TU e TE sono le regolari continuazioni delle forma latine MĒ (accusativo-
ablativo del pronome di prima persona), TŪ (nominativo del pronome di seconda persona), TĒ
(accusativo-ablativo del medesimo pronome). I pronomi di prima e seconda plurale sono noi e voi,
provenienti dalle basi latine NŌS e VŌS: in queste, come di consueto nei monosillabi, la-s finale si è
palatalizzata.
Più complesso il discorso per quanto riguarda i pronomi di terza persona singolare e plurale. Il
latino non possedeva forme autonome che avessero questa funzione, e sopperiva alla mancanza
adoperando alcuni dimostrativi: is, ille, ipse… l’italiano ha continuato proprio queste forme,
attribuendo loro la specifica funzione di pronomi personali. Alla base di quasi tutte le forme del
pronome soggetto di terza persona maschile c’è sempre la forma latino-volgare ILLI, attestata nel
latino medievale. Essa è il risultato del rimodellamento di ILLE sul pronome relativo QUI, da
questa forma si è avuto in primo luogo il tipo elli. Quando ILLI precedeva una parola cominciante
per vocale, in fonetica sintattica la i finale è stata percepita come uno J. Così si è determinato un
nesso –LLJ- che ha prodotto una laterale palatale intensa [λλ] egli. La forma egli si è poi
generalizzata anche davanti a consonante. La lista dei pronomi di terza persona singolare e plurale
è completata dalla forma sé, che ha la funzione di un complemento riflessivo, cioè riferito al
soggetto. Sé continua il latino SĒ, accusativo-ablativo del pronome riflessivo di terza persona
singolare e plurale. Tutte le forme pronominali finora descritte sono toniche. La lingua italiana ha
anche alcune forme pronominali atone. Esse hanno funzione di complemento e, in quanto atone,
per la pronuncia si appoggiano al verbo e vengono chiamati clitici e in particolare proclitici se
precedono il verbo a cui si appoggiano e enclitici se seguono il verbo a cui si appoggiano.
10-AGGETTIVI E PRONOMI POSSESSIVI
Mio, mia e mie: derivano dalla base latina MĔŬ(M), MĔA(M), MĔAS: in tutti e tre i casi,
la Ĕ tonica latina è regolarmente chiusa in iato. Miei viene da MĔI, con dittongamento di Ĕ
tonica in [jε].
Tuo, tua e tue; suo, sua, sue vengono dalle basi latine TŬŬ(M), TŬA(M), TŬAS;
SŬŬ(M), SŬA(M), SŬAS. Queste forme hanno dato, in un primo tempo, too, toa, toe; soo,
soa, soe; in un secondo tempo, la o chiusa [o] si è ulteriormente chiuso in iato.
Tuoi, suoi: forme maschili plurali non sono facilmente spiegabili. Le basi latine TŬI e SŬI
avrebbero dovuto produrre toi e soi, con o chiusa [o], non tuoi e suoi, con dittongo che
presupporrebbe una base con Ŏ. Forse, tale dittongo è rimodellato sul dittongo ie presente
nel maschile plurale di prima persona miei.
Nostro (nostra, nostri, nostre): deriva dal latino classico NŎSTRŬ(M), (NŎSTRA(M),
NŎSTRI, NŎSTRAS).
Vostro (vostra, vostri, vostre): deriva da VŎSTRŬ(M), (VŎSTRA(M), VŎSTRI, VŎSTRAS)
Loro: deriva da (IL)LŌRŬ(M)
11-AGGETTIVI E PRONOMI DIMOSTRATIVI
Il latino classico aveva un’ampia gamma di aggettivi e pronomi dimostrativi, cioè di quelle forme
che servono a collocare qualcuno o qualcosa nello spazio o nel tempo. In particolare Hic, Iste e Ille
avevano un significato corrispondente a quello che tradizionalmente la grammatica italiana
attribuisce a questo, codesto e quello.
Inoltre:
Is: serviva a richiamare un elemento già presente nel testo
Idem: equivaleva all’italiano stesso nel senso sostitutivo di qualcuno o qualcosa già nominato
Ipse: equivaleva all’italiano stesso nel senso rafforzativo di quello stesso
Rispetto a quello del latino classico, il sistema dei dimostrativi del latino volgare fu ridotto e
trasformato: ridotto perché alcune forme scomparvero, trasformato perché alcuni dimostrativi
assunsero le funzioni di altri. Scomparvero in primo luogo hic e is, che erano i dimostrativi più
deboli, uscì dall’uso anche idem. Hic sopravvisse in italiano solo nella parola ciò e nella
congiunzione però. Ipse fu usato non più col valore rafforzativo ma con altri valori: di pronome
personale, di articolo.
Il sistema tripartito latino rappresentato da hic, iste e ille si conservò in italiano, ma si fondò su
forme in buona parte diverse. Intanto, nel latino parlato i dimostrativi non furono usati da soli, ma
vennero rafforzati dall’avverbio espressivo ĔCCŬM.
12-PRONOMI RELATIVI
L’italiano ha due tipi di pronome relativo: uno variabile (il quale, la quale, i quali, le quali) e uno
invariabile (che/cui). Il tipo variabile continua le forme dell’aggettivo interrogativo qualis;
dall’accusativo singolare QUALE(M) si è avuto quale e dal nominativo-accusativo plurale QUALES
si è avuto quali, in entrambi i casi con il mantenimento della labiovelare primaria [kw] davanti ad
A. il tipo invariabile, ben più frequente e importante dell’altro, alterna la forma che alla forma cui e
servono due precisazioni: a) l’italiano antico e moderno accoglie che anche in funzione di
complemento indiretto. b) l’italiano antico e poetico accoglieva cui anche in funzione di
complemento oggetto. Cui deriva direttamente dal dativo del pronome relativo latino qui, quae,
quod, che è CŪĪ. Che invece deriva dal pronome interrogativo e indefinito neutro latino QUĬD con
riduzione della labiovelare a velare semplice; alcuni studiosi hanno ipotizzato che il che relativo
derivi invece da QUĒ(M), accusativo maschile del pronome relativo latino. Questa ipotesi è
improbabile dal punto di vista della morfosintassi storica. Nel latino volgare QUĬD ha esteso
formalmente la sfera d’uso che aveva nel latino classico e ha preso il posto di molte parole. In effetti
nell’italiano attuale il che proveniente da QUĬD svolge, fra le altre, le funzioni che il latino affidava
a QUIA, a QUOD e a QUAM: causale, dichiarativa e comparativa. È del tutto probabile che abbai
assunto anche la funzione di pronome relativo.
13-AGGETTIVI E PRONOMI INDEFINITI
Alcuni dei più importanti aggettivi e pronomi indefiniti dell’italiano: qualche, qualcuno, qualcosa,
alcuno, certo, tale, altro, ogni, ognuno e tutto.
a) Qualche: non deriva direttamente dal latino, ma dalla riduzione della locuzione italiana
qual che sia, con perdita di sia e univerbazione di qual e che.
b) Qualcuno e qualcosa: derivano dalle forme italiane qualche uno (con elisione della-e finale e
univerbazione) e qualche cosa (con apocope di che e univerbazione)
c) Alcuno: deriva da AL(I)CŪNŬ(M), che a sua volta è l’evoluzione latino-volgare del latino
classico ALIQUEM UNUM.
d) Certo: deriva da CĔRTU(M) con ampliamento del significato originario
e) Tale: deriva da TALE(M)
f) Altro: deriva da ALT(E)RŬ(M) con sincope della E postonica.
g) Ogni e Tutto: il latino classico usava due indefiniti diversi: omnis e totus l’italiano è l’unica
lingua romanza che li continua entrambi. Dalla accusativo ŌMNE(M) è derivato ogni, che
ripropone il significato di tutto in relazione al numero. Alla base della forma tutto c’è
l’indefinito TŌTŬ(M).
14-IL VERBO
Nel passaggio al latino all’italiano, il sistema verbale ha subito modificazioni fortissime. Le più
importanti sono state:
a) La riduzione delle coniugazioni verbali
b) La formazione dei tempi composti
c) La diversa formazione del futuro
d) La formazione del condizionale, che in latino non esisteva
e) La formazione del passivo perifrastico
La riduzione delle coniugazioni verbali
Il latino aveva quattro coniugazioni verbali, distinguibili in base all’uscita dell’infinito: i verbi che
all’infinito uscivano in –ĀRE appartenevano alla prima coniugazione; i verbi che all’infinito
uscivano in –ĒRE appartenevano alla seconda coniugazione; i verbi che all’infinito uscivano in –
ĔRE appartenevano alla terza coniugazione e i verbi che all’infinito uscivano in –ĪRE
appartenevano alla quarta coniugazione. Rispetto al latino, l’italiano ha soltanto tre coniugazioni
anch’esse distinguibili in base all’uscita dell’infinito: are, ere e ire. La differenza si spiega con il
fatto che, nel passaggio all’italiano, i verbi latini in –ĒRE e in –ĔRE confluirono in un’unica
coniugazione, la seconda.
Nel latino parlato, la E di alcuni di questi verbi ha mutato quantità, il che ha prodotto uno
spostamento di coniugazione in latino e uno spostamento di accento in italiano.
Delle tre coniugazioni italiane, solo la prima e la terza sono state e sono tuttora produttive. Ciò vuol
dire che, se si forma un nuovo verbo, esso assume la desinenza del primo o della terza
coniugazione.
La formazione del presente indicativo
Le terminazioni del presente indicativo italiano continuano, con qualche modificazione, le
terminazioni del presente indicativo latino. Alla prima singolare è generale la desinenza –o che
caratterizzava i verbi di tutte e quattro le coniugazioni latine. Alla seconda singolare è generale la
desinenza –i, in latino la desinenza di seconda persona era una –s, che nei verbi provenienti dalla
prima, seconda e terza coniugazione, prima di cadere, ha palatalizzato la vocale che la precedeva,
fino a trasformarla in una –i e nei verbi della quarta coniugazione è caduta. Nei verbi di prima
coniugazione un primo grado di palatalizzazione ha prodotto un’uscita in –e, attestata in italiano
antico poi chiusasi in –i. Alla terza persona singolare la caduta della T finale latina ha prodotto una
terminazione in –a nei verbi italiani di prima coniugazione, in –e nei verbi di seconda e terza
coniugazione. La desinenza della prima persona plurale è, nei verbi di tutte e tre le coniugazioni –
iamo. Originariamente, però, l’uscita era un’altra: dalle basi latine –AMŬS, -EMŬS, -IMŬS si
ebbero le desinenze –amo, -emo, -imo. A Firenze queste desinenze furono soppiantate nell’uscita
che ancora adesso utilizziamo. Alla seconda uscita plurale le tre uscite –ate, -ete, ite sono la
regolare continuazione del latino. L’uscita in –no caratteristica della terza persona plurale è il
risultato di una estensione analogica. Dalle basi latine –ant, -ent, -unt si ebbero in un primo tempo
per caduta della –nt finale a, e,o. Per evitare che si confondesse con altre forme, i parlanti
svilupparono una finale –no. Per prima si estese al verbo essere e successivamente per analogia si
diffuse a tutte le terze persone plurali del presente indicativo.
La formazione del passato remoto
Il passato remoto italiano deriva dal perfetto indicativo latino. Nella lingua di Roma antica questo
tempo verbale aveva due valori fondamentali: poteva indicare un fatto compiutosi e conclusosi nel
passato oppure poteva indicare il risultato nel presente di un fatto accaduto nel passato. L’italiano
rende questi valori con tre tempi: il passato prossimo, il passato remoto e il trapassato remoto
(raramente adoperato oggi). Il perfetto latino è una voce complessa non solo dal punto di vista
semantico, ma anche dal punto di vista morfologico. Nell’ambito del sistema verbale, il tema del
perfetto era diverso dal tema del presente. Nei verbi regolari di prima e quarta coniugazione il tema
del perfetto si formava aggiungendo una [w] al tema del presente. In alcuni verbi di seconda e in
molti di terza coniugazione le differenze tra presente e perfetto potevano riguardare le consonanti
del tema es: ridet>risit. Oppure la quantità o il timbro delle vocali es: VĔNIT> VĒNIT. Infine, le
differenze potevano consistere in un mutamento vocalico e in un’aggiunta iniziale detta
raddoppiamento es: CĂDIT> CĔCĬDIT. Nel passaggio dal perfetto latino al passato remoto italiano,
molti tratti specifici si mantennero, alcuni furono sostituiti, altri si persero. Le forme più
importanti furono:
I verbi regolari di prima e di quarta coniugazione avevano un perfetto uscente in –ĀVI e in –ĪVI. Le
trasformazioni che le singole voci subirono sono le seguenti:
Prima persona singolare: avi>ii. Nel perfetto dei verbi di quarta coniugazione, la caduta
della –v intervocalica era già nel latino classico; nel latino volgare essa si estese per analogia
alla prima persona del perfetto dei verbi di prima coniugazione
Seconda persona singolare: visti>sti. Le forme italiane presentano, rispetto alle basi latine,
sincope della sillaba vi e ritrazione dell’accento.
Terza persona singolare: it>aut>ò. La caduta della I dell’uscita determina, nel perfetto dei
verbi di prima coniugazione, la formazione di un dittongo secondario AU che si
monottonga. Nel perfetto dei verbi di quarta coniugazione, la medesima caduta della I e il
passaggio della U tonica a [o] producono una forma uscente in –iò, con successiva caduta
finale della o per analogia con la forma corrispondente di prima coniugazione.
Prima persona plurale: imus>mmo. La I cade per sincope; il nesso consonantico –VM-
passa a –MM- per assimilazione regressiva.
Seconda persona plurale: istis>ste. Le forme italiane presentano, rispetto alle basi latine,
sincope della sillabe VI e ritrazione dell’accento.
Terza persona plurale: erunt>rono. Nel latino colloquiale si utilizzò la pronuncia con
accento ritratto. In queste forme la sincope della sillaba VE e la caduta di –NT produssero i
tipi amaro, finiro, che sono le forme originarie del passato remoto italiano.
Successivamente queste sillabe in –aro e in –iro furono completate dalla sillaba –no che i
parlanti aggiunsero per analogia con altre voci di terza persona plurale. Il tipo più antico
continuò ad essere usato soprattutto nella lingua della poesia. In alcuni verbi di seconda
coniugazione si affermò ina forma di passato remoto in –ei, -esti, -è, -emmo, -este, -erono.
Tale modello si diffuse per analogia col passato remoto dei verbi di prima e di quarta
coniugazione del tipo amai e finii, molto più numerosi dei rari verbi di seconda
coniugazione con un perfetto uscente in –EVI, naturale presupposto di un passato remoto
in –ei. Alcuni di questi verbi col passato remoto in –ei presentano, alla prima e terza
persona singolare e alla terza plurale, una forma parallela in –etti, -ette, -ettero. Queste
forme si diffusero fin dal Duecento sul modello di stetti passato remoto di stare derivato
dalla base latino-volgare STĔTUI. I passati remoti del tipo amai e finii, accentati sulla
desinenza vengono chiamati deboli; essi convivono con i passati remoti forti, che in tre
persone sono accentati sulla radice.
La formazione dei tempi composti
In latino, la coniugazione attiva era costituita soltanto da tre forme verbali semplici, cioè costituite
da un unico elemento, nel quale al tema del verbo si univa un’uscita distintiva del tempo, del modo
e della persona. Il traducente italiano di alcune forme verbali che in latino sono sintetiche è un
tempo composto, dato dall’unione di un verbo ausiliare e di un participio passato. Le forme verbali
composte, sconosciute ali sistema verbale attivo del latino classico, erano diffuse nel latino parlato.
Dall’unione del presente indicativo del verbo habere col participio perfetto è nato l’indicativo
passato prossimo italiano; gli altri tempi composti sono derivati dall’unione di altre forme del
verbo avere con il participio passato. In base allo stesso meccanismo si formano i tempi composti
con l’ausiliare essere, utilizzato anche per la forma passiva.
La formazione del passivo perifrastico
In latino, la coniugazione passiva era costituita sia dalle forme verbali semplici, sia da forme verbali
perifrastiche, date dall’unione di un participio perfetto con una voce del verbo sum. Nel passaggio
dal latino all’italiano le forme perifrastiche con l’ausiliare essere e il participio passato hanno
completamente sostituito le forme semplici con la desinenza propria del passivo che si univa al
tema del verbo. Nel passaggio dal latino all’italiano, le voci del verbo avere hanno corso alla
formazione, oltre che dei tempi composti, di due tempi semplici: il futuro e il condizionale.
La formazione del futuro
Nel latino classico, l’indicativo futuro aveva una formazione analoga a quella degli altri tempi
verbali dell’indicativo. Al tema del verbo si aggiunge un’uscita che variava a seconda della
coniugazione. Il latino aveva varie forme perifrastiche alternative al futuro sintetico. Fra queste,
ebbe fortuna una locuzione formata dall’infinito seguito dal presente del verbo habeo. In questa
locuzione, il verbo habeo assumeva il significato di “ho da”, “devo”, quasi a indicare qualcosa di
imposto dal destino che si proiettava automaticamente nel futuro. Es: finire habeo= ho da finire =
finirò.
La formazione del condizionale
In italiano il condizionale ha, tra le altre, due funzioni fondamentali: quella di esprimere la
conseguenza all’interno di un’ipotesi giudicata possibile o irreale e quella di esprimere il futuro in
dipendenza dal passato. La lingua latina esprimeva questi significati in altri modi e con altre forme,
e non aveva il condizionale, che è un’invenzione romanza. Così come il futuro, anche il condizionale
è nato da una perifrasi del latino volgare formata dall’infinito e da una voce del verbo habere. In
fiorentino la voce usata è stata * HĔBUI, forma latino-volgare del perfetto di habere. *HĔBUI si è
ridotto a –ei per sincope della sillaba centrale, e così si è avuta la desinenza della prima persona
singolare. Le rimanenti cinque uscite del condizionale (-esti, -ebbe, -emmo, -este, -ebbero)
derivano dalla riduzione o dalla trasformazione delle altre persone verbali di *HĔBUI. Nei dialetti
dell’Italia meridionale e della Sicilia si registra un’altra forma di condizionale oggi molto rara, il
tipo amàra (=amerei), che deriva direttamente dal piuccheperfetto indicativo latino:
AMA(VĔ)RA(M)> amàra. Per questa stessa trafila di è avuta la forma fora dal piuccheperfetto del
verbo SUM. Il tipo fora è molto frequente nei componimenti dei poeti della cosiddetta “scuola
siciliana” per questo tramite si affermò nella lingua della tradizione poetica italiana. Nella lingua
dei poeti siciliani si incontra un tipo di condizionale uscente in –ia probabilmente proveniente dal
provenzale ed è una perifrasi data dall’infinito seguito da HABĒBAM, imperfetto di habere. Questo
tipo di condizionale si diffuse velocemente e si mantenne stabilmente fino all’Ottocento.
DAL LATINO ALL’ITALIANO: ALCUNI MUTAMENTI SINTATTICI
1-L’ORDINE DELLE PAROLE NELLA FRASE. DALLA SEQUENZA “SOV” ALLA SEQUENZA
“SVO”
Il latino distingueva le funzioni logiche e i significati delle parole in base al sistema dei casi, mentre
l’italiano affida in parte questa funzione distintiva alla posizione che le parole hanno all’interno
della frase: si può dire che l’ordine delle parole era relativamente libero nella frase latina, mentre è
sottoposto ad alcuni vincoli nella frase italiana. L’ordine abituale di una frase italiana composta da
soggetto (s), un verbo (v) e un complemento oggetto (o) è rappresentato dalla sequenza SVO
(soggetto-verbo-complemento). Nella maggior parte delle frasi italiane quest’ordine è obbligato,
perché è quello che consente di distinguere il soggetto dal complemento oggetto. Nel latino
classico, invece, la desinenza distingueva non solo il genere e il numero, ma anche la funzione che
una parola svolgeva nella frase. Di fatto, però, gli scrittori privilegiarono la sequenza SOV. Molti
autori di testi letterari applicarono alla prosa italiana la sequenza SOV, per imitare il modello
latino. In poesia questa tendenza è ancora più forte che nella prosa, data la necessità, per il poeta,
di allontanarsi dai modi e dalle forme della comunicazione quotidiana. Occorre aggiungere che la
sequenza SVO rappresenta l’ordine naturale delle parole dell’italiano nelle sole frasi non marcate,
cioè normali.
2-L’ESPRESSIONE E LA POSIZIONE DEL PRONOME SOGGETTO
L’italiano ha avuto uno sviluppo autonomo e originale rispetto al latino. La lingua antica è stata
caratterizzata dalla forte tendenza a esprimere il pronome personale soggetto e a collocarlo prima
del verbo nella frase enunciativa e dopo il verbo nella frase interrogativa; la lingua contemporanea,
invece, ha abbandonato quest’uso e tende ad omettere il soggetto pronominale in ogni tipo di frase,
sia enunciativa sia interrogativa.
3-L’ENCLISI DEL PRONOME ATONO
Un altro tratto sintattico che ha caratterizzato l’italiano antico ma non caratterizza l’italiano
moderno consiste nell’enclisi del pronome personale atono. Le seguenti forme di pronome
personale: mi, ti, gli, lo, le, la, si, se, ci, ce, vi, ve, li, le, si, se sono atone, cioè prive di accento.
1. Epentesi di una dentale sorda nel gruppo costituito da una liquida o una nasale dentale e da
una sibilante. Es: penso>penzo
2. Assimilazione progressiva nei nessi –ND-, -MB-, -LD- con sincope della vocale postonica,
tendenza molto antica che è ancora vivissima nel romanesco di città. Es: andiamo>annamo.
3. Nei più antichi documenti romaneschi una laterale preconsonantica si vocalizza.
4-IL NAPOLETANO ANTICO
La fisionomia dialettale del napoletano appare contrassegnata da una notevole continuità. Ecco
alcuni tratti caratteristici:
1. Metafonesi e dittongamento metafonetico
2. Sviluppo della vocale atona finale in vocale indistinta già dal Trecento
3. Epentesi della dentale nei gruppi di nasale o liquida + sibilante
4. Spirantizzazione della labiale sonora intervocalica, anche all’interno di frase e dopo r
5. Conservazione di iod latina; allo stesso esito giunge anche G davanti a vocale palatale
6. Esito del nesso –PJ- in affricata palatale sorda di grado intenso
7. Esito del nesso –CJ- in affricata dentale sorda di grado intenso.
8. Esito del nesso –SJ- in sibilante sorda
9. Esito del nesso –PL- in occlusiva velare +iod, soprattutto nei nomi propri
10. Raddoppiamento di m intervocalica
11. Tra i pronomi dimostrativi, presenza di un sistema tripartito, che comprende la forma per
indicare vicinanza a chi parla, lontananza da chi parla e chi ascolta, vicinanza a chi ascolta
5-IL SICILIANO ANTICO
Unico tra i dialetti italiani, il siciliano ha avuto la ventura di lasciare un’impronta nella lingua
poetica nazionale, grazie all’antico primato dei poeti siciliani. La differenza fondamentale tra il
siciliano e gli altri dialetti italiani riguarda il sistema vocalico rispetto al toscano mancano la e e la o
chiuse e non esistono i dittonghi ie e uo. Nel vocalismo atono le vocali si riduco a tre: a, i e u. il
latino lo influenzò. Il siciliano presenta molti tratti in comune con gli altri dialetti meridionali ma
anche alcune differenze notevoli. Come L’assenza della metafonesi, l’assenza di vocali indistinte, la
mancanza di apocope sillabica negli infiniti.
6-LE KOINÈ EXTRA-TOSCANE
Per koinè si intende una lingua sovraregionale che si affianca o si sostituisce, nell’uso scritto o
parlato, ai singoli idiomi in uso in una certa area geografica. In Italia se ne può parlare solo in
riferimento dell’uso scritto così come andò sviluppandosi, specie nel Quattrocento; nelle corti
soprattutto delle città settentrionali, sedi delle signorie. La koinè non si identifica con una sola
lingua, ma piuttosto con una serie di tendenze che si manifestano in modo simile in aree diverse. Il
volgare che si adoperava in queste situazioni presentava essenzialmente tre ingredienti:
1. Il fondo regionale locale, con eliminazione o attenuazione dei tratti linguistici troppo
marcati o esclusivi di una sola zona
2. I latinismi, presenti in misura abbondante sia per la consuetudine sia per il prestigio
3. Il toscano letterario, affermatosi già in pieno Trecento grazie allo straordinario successo di
Dante, Petrarca e Boccaccio.