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Corso: Italia y sus dialectos.

Professore: Marco CARMELLO

Anno Accademico: 2017/2018

Appunti per il corso.

Indice.

1) Definizione generale di dialetto ed introduzione dei principali concetti di analisi


sociolinguistica utili.

2) Standard e dialetto in Italia: l’attuale situazione sociolinguistica in Italia, sua storia e sua
formazione.

3) Lingue minoritarie in Italia.

4) Dialetti italiani e loro raggruppamento

5) Piccola bibliografia di riferimento.

1) Definizione generale di dialetto ed introduzione dei principali concetti di analisi


sociolinguistica utili.

In questa prima parte cercheremo di fare soprattutto due cose:

a) Definire esattamente che cosa intendiamo per dialetto

b) Definire quali sono gli strumenti sociolinguistici che ci servono per analizzare la situazione
linguistica dell’Italia contemporanea in relazione ai dialetti.

Come vedremo, anche se la nozione di “dialetto” è una nozione indipendente, ha però a che fare con
altre nozioni che ci serviranno per definire esattamente l’attuale panorama linguistico italiano, che,
come vedremo meglio nella seconda parte, è dominato da tre fattori principali:

1) Lingua (neo)-standard

2) Italiani regionali

3) Dialetti.

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Rimando al paragrafo due la definizione del concetto di: “italiani regionali”, mentre in questo
paragrafo definisco precisamente il concetto di dialetto e quello di lingua standard.

1.1. Dialetto e lingua standard: definizioni.

Possiamo affrontare la definizione di dialetto e di lingua standard da due punti di vista: sincronico e
diacronico; in generale, in linguistica, questi sono i due punti di vista che si possono sempre
adottare per descrivere qualsiasi tipo di oggetto linguistico, quindi è utile dire subito in maniera
chiara cosa si intenda per “sincronico” e cosa per “diacronico”.

A) Sincronico: quest’aggettivo, che deriva dal greco antico, si riferisce ad un tipo di analisi
linguistica che non si preoccupa della storia linguistica, ma sceglie come oggetto di studio un
periodo delimitato dell’intera evoluzione di una lingua e lo studia di per sé stesso, cioè, come ho già
detto, senza occuparsi del percorso storico che ha permesso la formazione della situazione
rappresentata dal periodo che scegliamo di studiare. Nel nostro caso, noi studiamo la situazione
linguistica dell’Italia moderna ed attuale, vale a dire dell’Italia a partire dagli anni cinquanta del
‘900.

B) Diacronico: anche quest’aggettivo deriva dal greco antico, e si riferisce ad uno studio linguistico
che prende in considerazione tutto il percorso storico/evolutivo di un oggetto linguistico; quindi lo
studio diacronico serve a spiegarci l’evoluzione di una lingua, nel nostro caso è utile per capire
come siamo arrivati all’attuale situazione italiana.

Di seguito darò prima una definizione sincronica generale del concetto di “dialetto”, servendomi dei
mezzi metodologici che ci sono forniti dalla geografia linguistica, o, più brevemente, geo-
linguistica e dalla socio-linguistica, e cioè da quelle due aree della linguistica generale che si
occupano rispettivamente della distribuzione geografica delle lingue e dei dialetti (geo-linguistica) e
del loro uso da parte dei parlanti (sociolinguistica), poi darò invece una definizione sincronica.

1.1.1. Definizione di dialetto: a) il punto di vista sincronico.

Da un punto di vista sincronico un dialetto è:

- Una varietà linguistica che ha le seguenti caratteristiche:


a) è diffusa in una comunità locale, vale a dire che è parlata in un’area geografica
ristretta, più piccola rispetto a quella in cui è diffusa la lingua nazionale;
b) non è standardizzata, vale a dire che non c’è una “grammatica normativa” del
dialetto;
c) è esclusa dagli impieghi formali ed istituzionali, vale a dire che il dialetti non è
impiegato negli usi che riguardano la comunicazione scientifica, la legge e
l’amministrazione burocratica;
d) è prevalentemente orale, vale a dire che di solito il dialetto non è usato nella
comunicazione scritta.

La definizione che abbiamo dato sopra richiede un commento particolareggiato punto per punto.

Partiamo dal punto a: qui stiamo dicendo che i dialetti sono strettamente legati ad un’area
geografica, di solito non molto vasta, in cui sono parlati. Quindi, per tutti i dialetti, è sempre

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possibile individuare una comunità di parlanti, nettamente meno numerosa rispetto alla comunità
dei parlanti della lingua nazionale, raccolta in un’area geografica. Attenzione: come vedremo fra
breve, perché una varietà linguistica possa essere definita dialetto è ESSENZIALE che si
possa individuare un’area geografica entro cui è parlata. Questo fatto significa che il concetto
di dialetto è ANZITUTTO UN CONCETTO GEOLINGUISTICO, vale a dire un concetto che
si riferisce ad una varietà linguistica parlata da una comunità di parlanti legata ad un luogo.
Come conseguenza di ciò, possiamo anche dire che i dialetti hanno dei confini geografici e si
può, con un ragionevole grado di approssimazione, definire l’area geografica entro cui sono
parlati, ad esempio, come vedremo, riportandola su una carta geografica.

Per quanto riguarda il punto b, dobbiamo tenere presente che una fra le principali differenze fra
lingua nazionale e dialetti è che i dialetti non hanno uno standard linguistico mentre la lingua
nazionale ha una grammatica standard. Che cos’è uno standard linguistico? Risponderemo a
questa domanda meglio in seguito, per ora basti dire che si definisce standard una varietà
linguistica regolata da una norma grammaticale fissata e descritta valida per ogni tipo di uso
linguistico su tutto il territorio di estensione di una lingua. Lo standard definisce quindi la
regola grammaticale di una lingua. Vi sono alcune caratteristiche che definiscono lo standard
linguistico, che, come ho detto, discuteremo meglio in seguito, per ora basti elencarle:

a) Si tratta di una varietà diffusa su tutto il territorio in cui è parlata una lingua e
coinvolge l’intera comunità dei parlanti;
b) Si tratta di una varietà regolata, perché riceve una norma grammaticale definita, e
regolativa, perché rappresenta l’uso “corretto” della lingua;
c) Si tratta di una varietà che coinvolge tutti gli usi linguistici, ed è la varietà che deve
obbligatoriamente essere usata per gli usi formali ed istituzionali;
d) Si tratta di una varietà sia orale sia scritta, ed è d’obbligo nel caso dello scritto.

Come possiamo facilmente notare, le caratteristiche dello standard linguistico sono opposte rispetto
a quelle che definiscono i dialetti, ma, come dicevo, torneremo in seguito su questi argomenti.

Per comprendere la definizione che viene data al punto c bisogna tenere ben presente quanto
abbiamo appena detto riguardo al punto b: gli usi formali ed istituzionali di una lingua richiedono
una lingua stabile sia rispetto allo spazio geografico, deve cioè trattarsi di una lingua che ha le
stesse strutture grammaticali ed usa lo stesso vocabolario in ogni luogo della sua area di estensione
(stabilità geografica), sia rispetto alla comunità dei parlanti, ossia tutti i parlanti devono sapere
secondo quali regole si usi la lingua e con quale vocabolario debba essere usata la lingua impiegata
negli usi formali ed istituzionali (stabilità sociolinguistica). Queste due caratteristiche, ossia
stabilità geografica e stabilità sociolinguistica, sono necessarie agli usi formali ed istituzionali
perché questi richiedono un mezzo linguistico stabile che garantisca un successo comunicativo
pieno a prescindere dalle variabili geografiche, o, come diremo d’ora in avanti, diatopiche
(dialetti ed usi dialettali) e dalle variabili sociolinguistiche (registri). Considera che solo lo
standard può offrire un mezzo linguistico utile agli usi formali ed istituzionali perché solo lo

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standard assicura la necessaria stabilità geografica e sociolinguistica. È chiaro che, poiché il
dialetto è una varietà non standardizzata, non può essere un buon candidato per questi usi.

Per quanto riguarda il punto d, bisogna tener presente quanto abbiamo detto riguardo i punti b e c. Il
fatto che il dialetto non sia standardizzato e che rappresenti una varietà linguistica in uso solo in una
zona geografica circoscritta, ci permette di capire perché il dialetto sia decisamente orientato verso
l’uso orale. L’uso scritto infatti, nelle culture occidentali, corrispondeva, prima della diffusione
delle tecnologie informatiche, con un uso linguistico formale ed istituzionale, per cui vedi quanto
abbiamo appena detto sopra, quindi implicava un uso standardizzato della lingua. Considera però
che è possibile trovare forti tracce dialettali nella scrittura dei semi-colti, cioè di quelle persone che,
pur sapendo leggere e scrivere, non hanno un livello culturale che permetta loro di accedere
pienamente alla lingua standard. Inoltre, ma di questo parleremo rapidamente più oltre, esiste,
almeno per i dialetti più importanti, una letteratura dialettale, fatta soprattutto di componimenti
poetici e teatrali, mentre sono meno attestati i lavori in prosa.

1.1.2. Definizione di dialetto: b) il punto di vista diacronico.

Dal punto di vista diacronico, cioè dal punto di vista della loro origine storica, possiamo dire che

- Tutti i dialetti italiani sono evoluzioni dirette dal latino tardo e volgare, cioè tutti i
dialetti italiani derivano dalla stessa trafila da cui si creano le varie lingue romanze.

Questo fatto significa che, dal punto di vista dell’evoluzione storica, non c’è differenza fra il
fiorentino ed i dialetti toscani, su cui fonda lo standard dell’attuale lingua italiana, e gli altri dialetti
italiani, perché tutte le parlate che si diffondono, a partire dall’Alto Medio-evo, in Italia sono il
risultato del processo di evoluzione che dal tardo latino porta alle singole varietà romanze.

In questo senso definiamo i dialetti italiani dialetti primari rispetto al latino, perché tutti
derivano dal latino tardo e volgare.

***

1.2. Alcuni problemi fra geo-linguistica e socio-linguistica.

Il concetto di dialetto, come abbiamo appena finito di dire, è un concetto essenzialmente geo-
linguistico: il dialetto infatti è un’evoluzione autonoma del tardo latino volgare in una data area
geografica.

Però, come abbiamo visto, uno dei tratti essenziali del dialetto è rappresentato dall’assenza di uso
nei registri formali e tecnico-scientifici, per i quali si usa solo la lingua standard. Dunque per la
definizione di dialetto sono importanti anche considerazioni di tipo sociolinguistico.

Come possiamo chiarire la cosa?

Diciamo che:

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- Il concetto di dialetto è un concetto geolinguistico per tre motivi importanti:
1) Il dialetto viene parlato dall’intera comunità linguistica, non solo da una parte dei
parlanti (quindi c’è una differenza fra gergo – il concetto di gergo è sociolinguistico –
che caratterizza solo una parte limitata della comunità dei parlanti, e dialetto che
invece, come abbiamo appena detto, coinvolge una comunità intera)
2) I cambi dialettali sono legati allo spazio geografico, vale a dire che lo spazio
linguistico del dialetto è definito da un insieme di tratti linguistico (le isoglosse) che
selezionano una particolare zona geografica come zona in cui si parla il dialetto
3) Anche nell’uso del dialetto è possibile individuare differenza sociolinguistiche fra
diversi sottogruppi di parlanti.

I tre motivi elencati sopra ci dicono perché quello di dialetto è essenzialmente un concetto geo-
linguistico.

Però dobbiamo anche tener presente che il dialetto condivide il suo spazio geografico con
un’altra varietà linguistica, la lingua standard.

L’accettazione, e l’uso, delle lingua standard da parte di una comunità linguistica che usa
anche il dialetto, avviene sulla base di due considerazioni:

a) la comunità riconosce allo standard un maggiore prestigio di tipo culturale e sociale,


tende quindi ad usare questa varietà linguistica per usi pubblici, politici o comunque
formali, relegando il dialetto ad usi familiari e privati, il che spiega anche perché, nello
scritto, si usi preferibilmente lo standard.
b) la comunità dialettale usa lo standard come lingua comune nei rapporti con altre
comunità dialettali che hanno riconosciuto lo stesso standard come varietà linguistica
di prestigio.

Se adesso mettiamo insieme le tre considerazioni che abbiamo fatto possiamo facilmente
comprendere come i concetti e gli strumenti della sociolinguistica siano utili a definire la relazione
fra dialetto/i da una parte e standard dall’altra.

A questa relazione è interamente dedicato il secondo paragrafo.

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2) Standard e dialetto in Italia:
l’attuale situazione sociolinguistica in Italia, sua storia e sua formazione.

Lo scopo di questo paragrafo è quello di definire l’attuale situazione sociolinguistica italiana e


quindi di avere il panorama delle relazioni che, oggi, in Italia intercorrono fra lingua standard e
dialetto.

Per comprendere l’attuale situazione sociolinguistica italiana è però necessario capire come si sia
formata, quindi, prima di tutto, dobbiamo fare un piccolo riassunto della realtà storico-linguistica
della Penisola.

Possiamo suddividere la storia linguistica dell’Italia grosso modo in nove periodi:

1) Il periodo che va dalla fine dell’antichità fino al X sec. d.C., quando i singoli “volgari” italiani
sono già formati e lasciano le prime testimonianze scritte.

2) Il periodo che va dall’anno 100, all’incirca, fino alla prima metà del XIII sec. (1200), quando
inizia a formarsi la letteratura italiana e iniziamo a trovare testi letterari nei diversi volgari italiani.

3) Il periodo che va dalla fine del XIII sec. (1200) al 1375, anno della morte di Giovanni Boccaccio,
quando troviamo la grande fioritura letteraria fiorentina (lo Stilnovo, Dante, Petrarca e Boccaccio).

4) Il periodo che va dal 1375 al 1525, quando appare il libro, fondamentale, di Pietro Bembo, Le
prose della volgar lingua, con cui il problema dello standard dell’italiano viene risolto in una certa
maniera.

5) Il lungo periodo che va dal 1525 agli inizi del XIX sec., possiamo prendere come data di
riferimento il 1815, anno del Congresso di Vienna che, dopo il periodo della Rivoluzione Francese
e di Napoleone, cerca di ristabilire l’assolutismo monarchico in Europa.

6) Il periodo che va dal 1815 alla proclamazione dell’Unità d’Italia (17 marzo 1861).

7) Il periodo che va dal 1861 all’inizio del cosiddetto boom (o miracolo) economico, che inizia
negli anni ’50 del ‘900.

8) Il periodo che va dagli anni ’50 alla fine degli anni ’80 del ‘900.

9) Il periodo che dagli ’90 del ‘900 arriva ai nostri giorni.

Come possiamo vedere, questi nove periodi hanno una durata molto diversa fra di loro, alcuni sono
molto lunghi, come il quinto periodo, altri come il terzo, il quarto ed il settimo periodo durano circa
un secolo, altri ancora, come l’ottavo periodo, o il nono, sono molto brevi.

Queste differenze fra i diversi periodi dipendono dal diverso ritmo di evoluzione della lingua
italiana, che è fatto di periodi di stasi, in cui sostanzialmente l’evoluzione è lenta e senza rotture, e
periodi di accelerazione, in cui invece assistiamo a forti spinte evolutive ed al verificarsi di rotture
nella continuità linguistica.

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Di seguito diremo qualcosa di ognuno dei nove periodi elencati sopra, ma ci soffermeremo
soprattutto sui periodi più importanti per noi, cioè su quelli più utili per comprendere bene la
formazione dello standard e le relazioni lingua/dialetto.

2.1. I primi tre periodi.

Non ci soffermeremo molto sui periodi iniziali della storia linguistica italiana.

Quello che ci interessa riguardo ai primi due periodi può essere schematicamente riassunto come
segue:

➢ Nel passaggio dal latino – si intende sempre il latino così detto “volgare”, cioè quello
effettivamente parlato dal “popolo” (vulgus) fra il III ed il VI/VII sec. d.C. – alle lingue
romanze, o anche “volgari” (poiché sono usate nella comunicazione quotidiana e quindi dal
“popolo” per intero, mentre i dotti e gli ecclesiastici, che nella vita quotidiana usano il
volgare, però scrivono, leggono e fanno lezione in latino), si hanno evoluzioni differenti a
seconda dei diversi luoghi geografici. Ovunque quest’evoluzione ha dei tratti comuni, come
ad esempio la perdita della declinazione nominale o la formazione di tempi composti, ma in
ogni luogo ci sono anche dei tratti, soprattutto fonetici e lessicali, distintivi di singole
particolari aree.
➢ Nella penisola italiana si ha, soprattutto nel centro-nord, un grande frazionamento politico
già a partire dal tardo medioevo (dall’anno 1000 all’inizio del 1400), quindi, a differenza di
quanto accade per la langue d’oïl (l’antenata del francese attuale) nel nord della Francia e
per lo spagnolo antico nel nord della Penisola Iberica, non esiste un centro politico che possa
unificare attorno a sé tutti i parlanti della penisola italiana. Questo spiega perché le singole
città italiane del centro-nord, i cosiddetti “liberi comuni”, e le singole aree geografiche che,
a Sud, costituiscono i regni di Napoli e di Sicilia, continuino ad usare, anche negli atti
ufficiali, il loro proprio “volgare” (a quest’altezza cronologica dobbiamo parlare di
“volgari”, mentre non sarebbe corretto parlare di “dialetti”).
➢ A partire dall’anno 1000 la Penisola Italiana inizia uno sviluppo culturale ed economico
fortissimo, che, in un tempo relativamente breve, porterà l’Italia ad essere all’avanguardia
sia nell’economia sia nella cultura. Nascono in questo periodo le prime manifestazioni
letterarie autonome nei singoli volgari italiani.
➢ A tutto questo dobbiamo aggiungere una cosa importante: fra i diversi volgari vi era una
comprensione reciproca che poteva essere minima o massima a seconda di un principio
generale di vicinanza geografica, per cui più due parlate si trovavano ad essere vicine,
meglio si comprendevano reciprocamente, viceversa più erano lontane e minore era l’inter-
comprensione.

Questa è la situazione linguistica del diasistema italiano (un diasistema è un sistema linguistico
complesso, alla cui formazione concorrono parlate geograficamente differenziate fra loro) fino alla
fine del 1200, quando si pongono le basi perché le cose cambino.

Per comprendere la successiva storia della lingua italiana, bisogna tener presente che nel secolo
scarso che va dall’ultimo ventennio del 1200 al 1375, una delle più importanti città italiane, Firenze,
è teatro di una fioritura letteraria imponente, che pone Firenze, o meglio la sua lingua, il volgare
fiorentino, all’avanguardia non solo della cultura italiana, ma anche di quella europea.

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Sono questi gli anni in cui Dante Alighieri scrive opere importantissime come La vita nova, Il
Convivio e soprattutto la Divina Commedia.

Nella generazione successiva saranno soprattutto un fiorentino che, a causa delle vicende politiche
della sua famiglia, in realtà non risiederà mai a Firenze, e cioè Francesco Petrarca, e un altro
fiorentino, che però vivrà tutta la sua giovinezza a Napoli, e cioè Giovanni Boccaccio, ad
influenzare l’intera cultura letteraria europea. Il Canzoniere (Rerum Vulgarium Fragmenta, è questo
l’originario titolo latino dell’opera) di Petrarca ed il Decmeron di Boccaccio saranno infatti, dino al
XVI sec., i modelli europei della poesia e della prosa.

La diffusione dell’opera di questi tre autori, Dante, Petrarca e Boccaccio – cui presto ci si riferirà
con l’espressione di “Tre corone” –, comporta anche la diffusione del volgare fiorentino, anzi, come
vedremo nel prossimo paragrafo è il più importante motore di questa diffusione.

2.2. Il quarto periodo

Il quarto periodo, per cui noi abbiamo scelto due date precise, il 1375, anno della morte di Giovanni
Boccaccio (Petrarca era morto nel 1374) ed il 1525, anno in cui viene pubblicata la prima edizione
delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo. Durante i centocinquanta anni che intercorrono fra
queste due date, in Italia inizia e si diffonde sempre più l’Umanesimo, un movimento culturale che
comporta un profondo rinnovamento culturale ed artistico che, dall’Italia, si diffonderà poi in tutta
Europa.

Dal punto di vista della storia linguistica della penisola italiana a noi interessano però le seguenti
considerazioni:

➢ Fino al 1494 assistiamo alla trasformazione dei comuni in signorie, ossia in stati aristocratici
che si sono venuti formando intorno a famiglie importanti (solitamente si tratta di banchieri,
come i Medici a Firenze, o di capi militari,, come gli Este a Ferrara), quindi a partire
dall’inizio del ‘400 in Italia si diffondono tanti piccoli stati dinastici, ognuno con una sua
corte, attorno a cui si organizza la politica culturale dei signori.
➢ Grazie all’organizzazione curtense si diffonde sempre più l’umanesimo, e si diffonde anche
una letteratura in lingua volgare particolarmente dotta. I modelli principale di questa
letteratura sono Petrarca e Boccaccio, che vengono sempre più utilizzati ed imitati.
➢ In questo periodo assistiamo a un processo di imitazione, questo vuol dire che, molto spesso,
gli autori non abbandonano il loro volgare per scrivere, ma continuano a scrivere in volgari
non fiorentini però tenendo conto dei modelli fiorentini. Quindi, nell’uso letterario, notiamo
un sempre maggiore avvicinamento dei singoli volgari al modello fiorentino.
Avvicinamento però che non si risolve ancora con l’adozione del toscano.

La situazione che abbiamo schematizzato sopra cambia profondamente nel 1494, quando, con la
discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, cambia in maniera drammatica la situazione politica
della penisola italiana.

La cosiddetta calata di Carlo VIII in Italia apre un periodo breve ma tormentoso della storia italiana,
che si concluderà nel primo quarto del XVI sec. (1500), quando, dopo un’accanita rivalità fra
Francia e Spagna, saranno gli spagnoli ad imporre all’Italia la loro egemonia, che durerà fino agli
inizi del XVIII sec.
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È importante notare che in questo periodo l’Italia perde la sua indipendenza politica in maniera
pressoché definitiva, e bisognerà aspettare la seconda metà del XIX sec. perché l’Italia riesca a
ritornare indipendente.

È in questo quadro storico, di perdita definitiva dell’indipendenza, frammentazione politica e


generale debolezza che Pietro Bembo, alla fine di un dibattito teorico che, fra fine 400 ed inizi 500,
aveva impegnato molti intellettuali italiani: si tratta della “questione della lingua” che consiste nella
necessità di dare una lingua unitaria all’Italia, necessità che diventa ancora più impellente nella
situazione di perdita dell’indipendenza ed occupazione straniera che si profila sul finire del ‘400.

Le posizioni espresse nella questione della lingua sono molte, e non possiamo seguirle tutte. A noi
interessa quella di Bembo perché è non solo la più importante, ma soprattutto perché è quella che
determinerà il futuro della lingua italiana.

Cosa fa Bembo? Possiamo schematicamente rispondere nel modo che segue:

➢ Bembo sceglie di rivolgersi alla lingua letteraria come unico esempio valido per determinare
il canone linguistico dell’italiano, questa scelta ha due conseguenze importantissime:
1) Bembo rinuncia all’uso linguistico a lui contemporaneo e sceglie come lingua su cui
basare la sua regolarizzazione l’italiano delle “Tre corone”, in particolare quello di Petrarca
e di Boccaccio.
2) La regolarizzazione dell’italiano avverrà sulla base della lingua letteraria, quindi la lingua
standard sarà, fino al momento dell’unità d’Italia, una lingua alta, pensata per gli usi
culturali e centrata soprattutto nello scritto.
➢ Bembo definisce un canone degli autori “classici”, cioè di quelli che offrono gli esempi di
lingua, alla base di questo canone, come già abbiamo detto, ci sono i modelli di Petrarca per
la poesia e di Boccaccio per la prosa. Quindi, da questo momento in avanti, l’uso del
toscano e l’adeguazione alle norme di quel volgare diventeranno caratteristiche necessarie
della correttezza linguistica.
➢ Come abbiamo detto, quando parliamo di toscano, nel caso di Bembo non parliamo del
toscano parlato alla sua epoca, ma della lingua usata dagli autori del ‘300.
➢ Grazie all’opera di Bembo, anche se non solo grazie a quest’autore, il fiorentino, cioè una
forma di dialetto toscano nord-orientale, diventa definitivamente la base della lingua
standard italiana.

Quindi, a partire dalle Prose del Bembo, che proprio per questo sono una delle opere più
importanti della tradizione culturale italiana, si determina la lingua standard su base toscana, e,
cosa ancor più importante, è questa lingua standard su base toscana ad essere definita come
“italiano”.

Si pongono quindi, con Bembo, le premesse per quella differenziazione fra lingua, da un parte, e
dialetto, dall’altra, che caratterizzerà il successivo percorso dell’italiano.

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2.3. Periodi successivi a Bembo.

Non diremo nulla del lungo periodo che va dal 1525 al 1815, e faremo quindi un salto dalla
normazione toscana del Bembo fino al periodo di inizi ‘800.

È soprattutto a partire dal periodo successivo al Congresso di Vienna (1815), quando in Italia
inizia il periodo del Risorgimento, che pone il problema dell’unità nazionale del paese al centro
della sua attività, che il problema di dare alla “nazione” una lingua unitaria si ripropone in
maniera sempre più forte.

Pr comprendere bene come il problema dell’unità linguistica, e quindi dello standard linguistico,
si riproponga, dobbiamo tener presente che la situazione Italiana del periodo compreso fra il
1815 ed il 1861 è caratterizzata da:

a. Un forte analfabetismo, che, di fatto, esclude la maggior parte dei potenziali parlanti
italiani dalla possibilità di raggiungere uno standard che, come abbiamo visto, dopo
Bembo si caratterizza soprattutto come pertinente alla lingua letteraria ed allo scritto.
b. Un uso dei singoli dialetti diffuso nella comunicazione quotidiana in quasi tutti gli strati
sociali, che, a prescindere dall’accesso o meno allo standard italiano, tendono ad
impiegare il dialetto in tutte le interazioni della vita quotidiana.
c. Un uso dello standard relegato soprattutto allo scritto ed alle attività culturali.
d. Un uso di varietà non dialettofono, più o meno vicine allo standard italiano, impiegate
come interlingua negli scambi sociali fra persone appartenenti ad aree dialettofone
differenti.

A partire da questa situazione possiamo iniziare a capire come la ragione del problema sia
soprattutto la mancanza di uno standard linguistico per l’uso comune, manca insomma quello
standard che possa essere usato da una popolazione numerosa e varia, sia dal punto di vista della
provenienza sociale sia da quello della provenienza geografica, per tutti i suoi bisogni comunicativi.

Questo problema viene affrontato da diversi punti di vista: noi ci soffermeremo solo sulla figura e
sulle proposte avanzate da Alessandro Manzoni (1785 – 1873), che sempre più vede nel fiorentino
parlato a lui contemporaneo il mezzo con cui procurare la nuova lingua standard agli italiani.
Manzoni applica questa teoria nella scrittura del suo romanzo, I promessi sposi, tanto che l’edizione
definitiva del romanzo, quella del 1840, viene riscritta dall’autore tenendo conto delle ricerche fatte
durante il soggiorno fiorentino.

L’idea manzoniana che si dovesse scegliere la lingua parlata nella Firenze a lui contemporaneo,
cioè il fiorentino del XIX sec., come base della lingua nazionale, e che quindi si dovesse compilare
un vocabolario del fiorentino, perché tutti gli italiani avessero la possibilità di sostituire i vocaboli
dialettali con quelli fiorentini, e che si dovessero mandare maestri fiorentini o almeno toscani nelle
scuole italiane, così che potessero insegnare ai bambini la lingua in maniera corretta, si rivela
impraticabile.

Anche se dopo l’unità lo stesso Manzoni, nel 1871, viene chiamato a presiedere una commissione
del Ministero dell’istruzione per definire la nuova lingua italiana, ed anche se la commissione
propone una serie di mezzi che sono in linea (cioè: in accordo) con le proposte di Manzoni, è, fin da
subito evidente, che quanto propone lo scrittore milanese non è realizzabile.
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Cosa succede dunque dopo l’unità? Rispondiamo nel paragrafo seguente.

2.3.1. Dal 1861 agli anni ’50 del ‘900.

Come abbiamo appena finito di dire, le proposte di Manzoni non erano attuabili, non solo perché
non tenevano in conto la realtà effettiva dell’Italia di allora, ma anche perché, per la prima volta nel
corso della sua storia, l’Italia si trovava ad essere uno stato unito ed indipendente.

Perché è così importante la raggiunta unità italiana per l’equilibrio linguistico della penisola?

Perché l’unità politica dell’Italia pone il problema di una lingua d’uso che soddisfi tutti i bisogni
sociali: non si tratta più di avere solamente una letteratura comune, e non si tratta nemmeno di
sviluppare una lingua per gli usi burocratici, legali ed amministrativi, si tratta di creare una lingua in
cui tutti gli italiani possano riconoscersi, con cui possa avvenire la comunicazione fra istituzioni
dello stato e cittadini e con cui gli italiani possano comunicare fra di loro a prescindere dalla
regione di provenienza e dal dialetto d’origine.

Come farà notare in un importantissimo testo apparso nel 1872, il Proemio all’Archivio
Glottologico Italiano, il linguista Graziadio Isaia Ascoli, in realtà l’abbandono della dialettofonia in
favore di uno standard linguistico può avvenire solo in presenza di situazioni socio-economiche
migliorate rispetto a quelle dell’Italia immediatamente post-unitaria. Il miglioramento delle
condizioni socio-economiche, sempre secondo Ascoli, inoltre favorirà il riadattamento dello
standard, che, abbandonando il modello della lingua letteraria, verrà basandosi sull’uso e sulle
necessità imposte dall’uso.

Le difficili condizioni del nuovo stato unitario, con i suoi molti e gravi problemi economici e
sociali, però non riescono a favorire la creazione di uno standard nuovo, anche se, già a partire dagli
anni 70 del XIX secolo assistiamo da un lato ad un certo diffondersi dell’italofonia, e dall’altro ad
un fenomeno che potremmo definire col termine di “italianizzazione dei dialetti”.

Con “italianizzazione dei dialetti” intendo riferirmi ad un fenomeno per cui, nei singoli dialetti
italiani, entrano sempre di più e sempre più profondamente espressioni, modi di dire, costruzioni
morfo-sintattiche che derivano dallo standard italiano.

Le cause di questo processo sono le seguenti:

➢ Inizia a diffondersi, anche se più nelle città che nelle campagne e più al centro-nord che al
sud, l’istruzione elementare, e con essa inizia ad avere una flessione il numero degli
analfabeti.
➢ Inizia a diffondersi la cosiddetta “stampa popolare”, che consiste in una serie di romanzi e
giornali, periodici o quotidiani, pensato per un pubblico che sappia leggere e scrivere ma
non sia colto.
➢ Grazie al servizio militare di leva, che obbligava tutti i maschi maggiorenni italiani a
compiere circa due anni di servizio militare in regioni lontane da casa e con commilitoni (i
“commilitoni” sono le persone con cui si è obbligati a fare il servizio militare) provenienti
da regioni diverse.

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A parte questi tre fattori, fino alla prima guerra mondiale, non abbiamo altri motori della diffusione
dell’italiano.

Con la Prima Guerra Mondiale le cose un po’ cambiano.

➢ Bisogna anzitutto tener presente che la guerra stessa, coinvolgendo la quasi totalità della
popolazione maschile nei combattimenti, e mettendo al lavoro un enorme apparato di
propaganda per suscitare il sostegno di tutta la popolazione italiana a favore dello sforzo
bellico, crea alcune condizioni che favoriscono l’aspetto comunicativo dell’uso linguistico.
➢ In secondo luogo bisogna dire che nel periodo bellico e nei periodi immediatamente
precedente e successivo assistiamo a una forte mobilitazione politica della popolazione,
soprattutto nei grandi centri industriali del Nord. Si tratta di una mobilitazione organizzata
da sindacati, partiti e organizzazioni politiche. La politica di massa richiede una lingua
capace di comunicare.

Successivamente alla Prima Guerra Mondiale, l’Italia subisce un periodo di forte instabilità politica,
che si concluderà il 28 ottobre 1922 con la “marcia su Roma” organizzata da Benito Mussolini e dal
suo movimento politico, il Fascismo. Inizia così per l’Italia il lungo periodo, durato fino al 1943/45
(’45 per l’Italia centro-settentrionale), della dittatura fascista.

Nei vent’anni in cui durò il totalitarismo fascista in Italia, il regime si occupò in maniera capillare
dei mezzi di propaganda, soprattutto di due mezzi nuovi ed importantissimi per lo sviluppo delle
comunicazioni: la radio ed il cinema. Al controllo dei mezzi di comunicazione, che il regime
trasforma in mezzi di propaganda, si affianca l’obbligo, imposto dal fascismo a tutti gli italiani e le
italiane, di partecipare, fin dalla più tenera età, alle manifestazioni di partito, che si svolgono
regolarmente ogni Sabato (il cosiddetto “sabato fascista”).

Aumentano dunque, durante il ventennio fascista, le occasioni durante le quali gli italiani sono
esposti all’uso dello standard italiano. A questo relativo aumento delle occasioni in cui gli italiani
possono avere accesso ad un’italofonia per lo meno passiva, non corrisponde però un aumento
sostanziale dell’italofonia attiva, vogliamo cioè dire che la gran parte degli italiani continua a non
usare e a non saper usare lo standard dell’italiano. Le ragioni di quest’impossibilità dell’uso
dell’italiano sono le seguenti:

➢ Il fascismo non volle integrare attivamente le grandi masse popolari nella politica nazionale
e non fu capace di migliorare la difficile situazione economica, anzi, al contrario, limitò
l’accesso all’istruzione elementare nelle campagne e, a causa di una criminale politica di
espansionismo militare, che porterà l’Italia ad una dura sconfitta nella Seconda Guerra
Mondiale, da cui il paese uscì totalmente distrutto, il fascismo sarà causa del più grave
tracollo di sempre (vuol dire “crisi economica” “fallimento”) dell’economia italiana.
➢ Il fascismo, come del resto l’Italia post-unitaria (con quest’espressione si intende il periodo
compreso fra il 1861 ed 1922), non riuscendo ad affrontare la situazione di arretratezza
economica e sociale del paese, non poté porre le basi perché si verificasse un’unificazione
linguistica.
➢ Conseguentemente alla mancata unificazione linguistica, non poterono darsi le basi perché
iniziasse un processo di revisione dello standard che fosse capace di fare dello standard
linguistico stesso una reale lingua di comunicazione per tutti gli italiani.

12
Come considerazioni finali riguardo al periodo che va dal 1861 agli anni ’50 del ‘900, possiamo
dunque notare che:

➢ Nonostante un certo allargamento dell’istruzione elementare, nonostante l’espansione delle


occasioni d’uso della lingua standard rappresentato dall’introduzione del cinema e della
radio, oltre che dalla creazione di movimenti e partiti politici sostenuti da un’ampia base
popolare, in Italia permane pressoché invariata la frattura fra chi è in grado di usare solo i
dialetti e chi invece può accedere anche allo standard. A causa del conservarsi di questa
frattura, lo standard linguistico resta praticamente inalterato: nonostante la sua diffusione
infatti la lingua standard conserva a sua vicinanza al linguaggio letterario e preferisce
nettamente i registri alti, formali, dello spettro linguistico.

2.3.1. Dal anni ’50 del ‘900 ad oggi.

È con l’instaurarsi della democrazia in Italia e con la conseguente nascita, grazie al voto nel
referendum popolare del 2 giugno 1946, della Repubblica Italiana, a cui si devono, pur fra mille
ombre, il forte sviluppo economico del paese, il sostanziale miglioramento delle condizioni sociali e
la stabilità della vita democratica, che finalmente si creano le condizioni sociali perché l’italiano
diventi effettivamente una lingua di comunicazione.

Queste condizioni sono legate al forte sviluppo economico di cui l’Italia è protagonista fra gli anni
’50 ed i ’60. Questo periodo, che viene solitamente indicato come “periodo del boom economico” o
periodo del “miracolo economico”, cambia completamente sia la struttura dell’Italia, che, da paese
prevalentemente agricolo, si trasforma in potenza industriale prima e quindi, a partire dagli anni
’90, in paese ad economia avanzata (le “economie avanzate” sono quelle in cui ha una grande
importanza il cosiddetto settore terziario, quel settore cioè che non coincide né con l’agricoltura né
con l’industria), sia la struttura della sua società, infatti:

➢ Migliora notevolmente la scolarizzazione degli italiani. Non solo viene definitivamente


sconfitto l’analfabetismo, ma, grazie all’introduzione dell’obbligo scolastico, che permette
agli italiani di avere un ciclo di istruzione di almeno otto anni, si innalza la preparazione
culturale media. In questo periodo inoltre aumenta sensibilmente il numero dei diplomati e
quello dei laureati.
➢ Migliorano le condizioni economiche e le condizioni di lavoro, entrambe cose che
permettono agli italiani di avere più soldi e più tempo libero, quindi di potersi avvicinare a
quelli che si chiamano “consumi culturali” (cinema, teatro, lettura, musica ecc.) con molta
più frequenza di prima.
➢ I mezzi di comunicazione di massa si potenziano, grazie all’introduzione della televisione
(che in Italia risale alla metà degli anni ’50), e vengono diffusi in maniera molto capillare,
raggiungendo ogni città, cittadina e paese d’Italia e, a partire dagli anni ’60, diffondendosi
sempre di più,.

A tutti questi fatti ne va aggiunto un altro importantissimo:

➢ Grazie al forte aumento dell’attività industriale, per la prima volta nella sua storia in Italia si
crea un’ampia offerta di lavoro, tanto ampia da essere capace di risolvere i tradizionali
13
problemi di disoccupazione che affliggono la penisola. Lo sviluppo industriale italiano però
non è diffuso uniformemente sul territorio italiano, al contrario è anzi concentrato in una
ristretta zona del Nord-Ovest, compresa fra Lombardia, Piemonte e Liguria, cui viene dato il
nome di “triangolo industriale” (i vertici del triangolo sono rappresentati dalle tre grandi
città industriali del Nord: Milano, Torino e Genova).
➢ Questa situazione provoca una grande immigrazione interna: moltissime persone si spostano
dalle regioni meno avanzate economicamente, e cioè quelle meridionali, il Veneto ed il
Friuli. Si tratta di immigrazione non specializzata, composta da dialettofoni che devono
trovare un registro linguistico comune e capace di permettere loro di comunicare sia con la
popolazione autoctona delle regioni e delle città in cui arrivano sia tra di loro.
➢ In questa situazione il modello italiano che viene offerto deve essere semplice, accessibile
ad una massa di persone poco, o, a volte, per nulla istruite. È in realtà la massa a cui si
rivolgono anche le trasmissioni del moderno mezzo televisivo, che, fin da subito, adotta una
lingua semplice, di accesso immediato; sarà questa lingua semplificata a fornire il primo
modello accessibile di lingua comune, un modello che si poteva facilmente imitare e
riprodurre.

A questo primo periodo del boom economico ai suoi inizi segue poi una situazione di
normalizzazione, durante la quale sarà l’intervento scolastico, sempre più diffuso, fino a diventare
pressoché universale, ad assicurare lo stabilizzarsi delle competenze attive nella lingua italiana
standard.

Solo che, grazie a questo complesso fenomeno di cambiamento del paesaggio sociale italiano,
anche lo standard tende a subire forti cambiamenti, assistiamo infatti a:

➢ Una semplificazione nella sintassi e nella morfologia, che si allontanano dal modello
tradizionale.
➢ Un’analoga semplificazione nella testualità del discorso, che preferisce sempre più forme
paratattiche con una forte limitazione della subordinazione.
➢ Semplificazione lessicale.
➢ Appiattimento fonologico delle differenze di pronuncia locali.

Questi fenomeni di semplificazione sono tali e tanti da spingere i linguisti a parlare di un vero e
proprio italiano neostandard, basato sulla lingua parlata della comunicazione, come proporranno, a
partire dagli anni ottanta, il sociolinguista Gaetano Berruto e lo storico della lingua italiana
Francesco Sabatini.

Il diffondersi e l’assestarsi di questa nuova forma di standard linguistico, che nasce non più a partire
dal modello alto, aulico, della lingua letteraria, ma si sviluppa da e per le esigenze della
comunicazione, cambia profondamente il panorama linguistico italiano, perché:

A. Permette l’accesso attivo all’uso dello standard a prescindere dal fatto di essere in possesso
di una cultura letteraria alta.
B. Il fatto che questo tipo di italiano sia usato attivamente dalla maggior parte della
popolazione italiana comporta una nuova relazione fra lingua e dialetto, quindi:
C. Da una parte il neostandard è aperto agli influssi dialettali, che riguardano soprattutto la
pronuncia, il lessico ed alcuni tipi di costruzione sintattica. Abbiamo così la nascita dei

14
cosiddetti “italiani regionali” che rappresentano il modo in cui viene attivamente usato il
neostandard italiano in una (macro)area dialettale.
D. D’altra parte anche i dialetti si aprono all’influsso del neo-standard, di tendono ad assimilare
una serie di caratteristiche più o meno importanti.
E. Questo processo ha portato ad un’estensione del neo-standard, che oggi è alla portata di
quasi tutti gli italofoni e ad una contemporanea regressione della dialettofonia.
F. Bisogna però aggiungere che la regressione della dialettofonia non avviene nello stesso
modo in tutte le aree italiane, abbiamo infatti aree in cui è molto avanzata, o addirittura
totale, si tratta delle tre grandi città industriali del Nord, ossia Milano, Torino e Genova, ed
aree in cui invece la dialettofonia offre una resistenza forte all’italofonia, come avviene in
Veneto, nelle aree alpine isolate e nella maggioranza delle regioni meridionali.

Quella schematizzata qui sopra (lettere A-F) è, semplificando molto, l’attuale situazione
sociolinguistica italiana.

2.3.1.1. Il neostandard.

Prima di passare al prossimo paragrafo, riteniamo utile delineare alcune delle caratteristiche
dell’italiano neo-standard sono stati descritti in un articolo dello storico della lingua Francesco
Sabatini. L’articolo, pubblicato nel 1985, si intitola “L’italiano dell’uso medio. Una varietà fra le
varietà linguistiche italiane” (cfr. breve bibliografia).

Sabatini si riferisce al neo-standard con l’espressione: “Italiano dell’uso medio”. Per descrivere
quest’italiano Sabatini individua circa una quarantina di “tratti” (in linguistica i “tratti” sono le
caratteristiche proprie, peculiari, di un fenomeno linguistico, sono cioè quelle caratteristiche che
distinguono il fenomeno in questione da tutti gli altri).

Noi non li analizzeremo tutti, ci limiteremo solo alla presentazione di alcuni tratti, che
raggrupperemo in base alle aree linguistiche coinvolte.

Tieni presente che il neostandard va sempre verso una semplificazione dei tratti dello
standard di origine colta, ossia dello standard basato sulla lingua letteraria.

Morfologia

Nel caso della morfologia ci soffermiamo soprattutto sulla semplificazione dei paradigmi dei
pronomi, a causa di cui:

1. I pronomi lui e lei occupano anche la posizione di soggetto, che nello standard di tipo
letterario era invece occupata dai pronomi egli ed ella. Allo stesso modo al plurale loro
sostituisce essi ed esse: quindi “Lui arriva domani” invece di “Egli arriverà domani”; “Loro
vengono questa sera a cena” invece di “Essi verranno a cena questa sera”
2. Si sostituisce il pronome neutro ciò con quello, quindi “o visto quello che hai fatto” invece
di “Ho visto ciò che hai fatto”

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3. Il pronome clitico gli prende il posto del pronome loro nel caso in cui si voglia esprimere il
complemento di termine, quindi: “Gli dirò quello che hai fatto” Invece di “Dirò loro ciò che
hai fatto”.

Sintassi.

In ambito sintattico sono importanti i seguenti fenomeni:

1. La netta predilezione per l’indicativo rispetto ad altri modi verbali, soprattutto rispetto al
congiuntivo.
2. La netta predilezione per il presente, sempre più usato anche al posto del futuro, e per
l’imperfetto. A queste preferenze va aggiunta quella per l’uso del passato prossimo invece di
quello remoto, si tratta di un uso originario dell’Italia settentrionale che però sis sta
diffondendo sempre di più in tutta la penisola.
3. La tendenza alla paratassi, cioè alla creazione di periodi brevi, senza subordinazione.
4. La tendenza a scegliere solo poche forme di congiunzioni subordinative, con un significato
generico, e a scapito della struttura sintattica. L’esempio tipico è l’uso del cosiddetto che
polivalente, come nella frase “Il giorno che vieni te lo dico”, in cui preferisce “che” al posto
del corretto “in cui”: “Il giorno i cui verrai te lo dirò” (in questo caso lo standard “classico”,
di origine letteraria, prevedrebbe la seguente frase: “Il giorno in cui sarai venuto te lo dirò”).

Lessico

Il tratto più rilevante del neostandard consiste nella sua forte disponibilità ad accogliere termini
stranieri, particolarmente inglesi, da usare nella comunicazione quotidiana. Questo fatto spiega
perché l’italiano contemporaneo, sia scritto sia orale, sia così pieno di anglismi “puri”, ossia di
termini inglesi usati senza nessun adeguamento morfologico o fonetico alla lingua italiana.

Tralasciando altre aree linguistiche, e limitandoci a questi pochissimi tratti, consideriamo conclusa
questa brevissima e semplicissima esposizione dei tratti dell’italiano neostandard.

16
3) Lingue minoritarie in Italia.

L’Italia è un sistema linguistico complesso, entro cui, come abbiamo visto, troviamo le seguenti
componenti linguistiche:

1. Lingua standard “classica” su base letteraria.


2. Neo-standard ed italiani regionali.
3. Dialetti.

Tutti e tre questi elementi appartengono a quello che chiameremo “dia-sistema” dell’italiano, cioè a
dire quel sistema articolato sul territorio geografico italiano che comprende lingua standard (sia
“classica” sia “neostandard”) e dialetti.

Tuttavia si calcola che circa 2.400.000 cittadini della Repubblica Italiana non appartengano al
numero degli italofoni, si tratta cioè di cittadini che hanno un’altra lingua madre oltre l’italiano – in
questo caso si tratta di bilingui con due lingue native – o di cittadini che hanno una lingua madre
diversa dall’italiano – per coloro che abbiano una lingua madre diversa dall’italiano, l’italiano è una
seconda lingua, una L1 -.

Si stima che gli italofoni, coloro cioè che hanno l’italiano come lingua madre, siano circa
65.000.000, dei quali la maggioranza, circa 58.000.000, si trova in Italia, mentre il resto si trova
nella Confederazione Elvetica (è il nome ufficiale della Svizzera), uno stato plurilingue, in cui
l’italiano è lingua nazionale insieme al francese e al tedesco (a queste tre si aggiunge il ladino del
Cantone dei Grigioni), dove l’italiano è parlato nella regione meridionale del Canton Ticino
(compreso fra le provincie piemontesi di Verbania e Novara ad est e quella Lombarda di Varese ad
ovest) ed in alcuni paesi dei Grigioni e del Vallese.

Oltre alla Svizzera, l’unico altro stato, insieme all’Italia ed alla piccola Repubblica di San Marino,
che adotti l’italiano come lingua ufficiale, ci sono minoranze italofone in Slovenia ed in Croazia,
soprattutto nella regione dell’Istria. A questi territori vanno aggiunti: la Repubblica di San Marino,
che abbiamo già nominato, un piccolo stato di origine medievale compreso fra l’Emilia Romagna e
le Marche, la Città del Vaticano, in cui l’italiano convive, accanto al latino, come lingua ufficiale ed
è la lingua dell’uso corrente, ed alcune minoranze italofone diffuse nelle ex colonie italiane
d’Africa (Eritrea soprattutto) o nei paesi che hanno storicamente accolto immigrati italiani.

A fronte dei circa 65.000.000 milioni di italofoni in Italia e fuori Italia, i cittadini della Repubblica
Italiana sono, in base alle ultime stime, circa 60.600.000, di questi come abbiamo detto circa
2.400.00 non sono madrelingua italiani o non sono esclusivamente madrelingua italiani, dunque il
3,96% della popolazione italiana appartiene ad una minoranza linguistica.

Cos’è una minoranza linguistica?

Anzitutto la minoranza linguistica è un gruppo sociale che vive stabilmente in un luogo, che è
contraddistinto da una storia culturale, da una tradizione e da una lingua diverse da quelle della
maggioranza degli abitanti di uno stato.

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Perché si possa parlare di minoranze linguistiche, bisogna che, all’interno di uno stato, una forte
maggioranza parli una lingua e la minoranza non superi una percentuale ragionevolmente piccola di
persone.

Se confrontiamo i dati percentuali ci rendiamo conto che in Italia si verifica esattamente questa
situazione: il 96,04% dei cittadini della Repubblica Italiana è italofona, mentre il 3,96% non lo è.
Questo dato semplice, 96,04% contro 3,96%, va però specificato meglio: nel 3,96% delle minoranze
linguistiche sono comprese tutte le minoranze linguistiche italiane, che sono circa 12. Quindi ogni
singola minoranza, in realtà rappresenta una percentuale di italofoni minore rispetto al 3,96% che
raccoglie tutte le minoranze linguistiche. Nella tabella che segue trovi l’elenco, il numero di
appartenenti, ed i dati percentuali delle singole minoranze linguistiche italiane:

Lingua Sarda (Parlata in quasi 1.000.000 Circa l’1,65% dei cittadini


tutta la Sardegna, escluse le della Repubblica Italiana
zone settentrionali di Sassari e
Olbia. Il bilinguismo è molto
diffuso)
Lingua Friulana (si tratta della 600.000 Fra lo 0,99% el’1% dei
varietà Friulana dal ladino, che cittadini della Repubblica
viene riconosciuta come lingua Italiana
autonoma. Il bilinguismo è
molto diffuso. È parlata in
Friuli Venezia Giulia)
Lingue Germaniche 293.000 Fra lo 0,48% e lo 0,49% dei
(soprattutto il tedesco in Alto cittadini della Repubblica
Adige/Süd Tirol, ma anche il Italiana
dialetto basso tesdesco dei
Walser sull’arco alpino e la
forma antico bavarese dei Sette
comuni sull’Altipiano di
Asiago in Provincia di Vicenza
in Veneto)
Lingua Franco Provenzale (Val 90.000 Fra lo 0,14% e lo 0,15% dei
d’Aosta e Piemonte, più un cittadini della Repubblica
piccolo comune in Puglia) Italiana
Lingua Albanese (viene anche 80.000 Circa lo 0,13% dei cittadini
chiamata Arbëreshë, viene della Repubblica Italiana
parlata in vari comuni
dell’Italia meridionale sparsi
fra Abruzzo, Molise; Puglia,
Campania, Basilicata, Calabria
e Sicilia. Il biliguismo è
diffuso)
Lingua Slovena (Parlata nella 70.000 Circa lo 0,13% dei cittadini
zona di Trieste e Gorizia e nei della Repubblica Italiana
comuni a ridosso del confine
sloveno)
Lingua Ladiana (Si tratta della 55.000 Fra lo 0,09 e 0,10 dei cittadini
versione di Ladino parlata nelle della Repubblica Italiana
Provincie di Bolzano e Trento

18
e nella provincia veneta di
Belluno)
Lingua occitanica (Si tratta di 40.000 Circa lo 0,06% dei cittadini
un’antica lingua romanza della Repubblica Italiana
parlata nel sud della Francia,
che ebbe una grande ed
importante fioritura poetica nel
Medioevo. Viene parlata in
Liguria ed in Piemonte ed in un
piccolo comune della Calabria)
Lingua Francese (Viene parlata 20.000 Circa lo 0,03% dei cittadini
in Val d’Aosta e Piemonte) della Repubblica Italiana
Lingua Catalana (Viene parlata 20.000 Circa lo 0,03% dei cittadini
nella zona della città di della Repubblica Italiana
Alghero, che si trova nella
Sardegna nord-orientale. Il
bilinguismo è diffuso)
Lingua Greca (viene parlata in 12.000 Circa lo 0,02 dei cittadini della
Calabria, vicino a Reggio Repubblica Italiana
Calabria, in Salento, cioè la
zona meridionale della Puglia e
in Sicilia dalle parti di
Messina. Il bilinguismo è
diffuso)
Lingua Croata (Viene parlata 2100 Circa lo 0,003% dei cittadini
nei comuni di Acquaviva della Repubblica Italiana
Collecroce, Montemitro e San
Felice del Molise in Provincia
di Campobasso, Molise. Il
bilinguismo è diffuso.)

Queste sono le minoranze linguistiche che la Repubblica Italiana riconosce e protegge, garantendo
l’uso della lingua, la salvaguardia delle tradizioni e il rispetto della cultura, con la legge 482 del
1999.

Il rispetto e la salvaguardia delle minoranze linguistiche è, in Italia, un diritto costituzionale


proclamato dall’articolo 6 della Costituzione della Repubblica Italiana, che dice “La Repubblica
tutela con apposite norme le minoranze linguistiche” e fa parte della sezione “Principi
fondamentali” della Costituzione della Repubblica Italiana.

Inoltre la minoranza germanofona dell’AltoAdige /Süd Tirol, la minoranza slovenofona del Friuli
Venezia Giulia e le minoranze francofona e francoprovenzalofona della Val d’Aosta sono protette
anche da trattati internazionali fra Italia ed Austri, Italia e Slovenia ed Italia e Francia. In queste
regioni il tedesco, lo sloveno ed il francese sono equiparati all’italiano in tutti gli usi della vita
pubblica, compresa l’istruzione e l’amministrazione della giustizia.

19
Come potrai vedere osservando la carta riportata alla fine di questo paragrafo, possiamo distinguere,
da un punto di vista geolinguistico, due tipi di minorante:

➢ Quelle in contiguità geografia con lo spazio linguistico in cui si parla la lingua della
minoranza. È il caso del tedesco in AltoAdige /Süd Tirol, dello sloveno in Friuli Venezia
Giulia e del francese, del franco-provenzale e dell’occitanico in Val d’Aosta, Piemonte e
Liguria. Qui, per diverse ragioni storiche, è successo che il confine politico si sia spostato
più in la rispetto a quello linguistico, includendo così all’interno della Repubblica Italiana
anche territori di lingua, cultura e tradizioni non italiane.
➢ Quelle non in contiguità geografica, o isolate, perché hanno appunto la forma di un’isola
all’interno di un “mare linguistico”. È il caso delle minoranze albanese, catalana, greca e
croata, che sono il frutto di diversi stanziamenti migratori avvenuti nel corso della storia.

Di seguito riproduciamo la carta linguistica delle minoranze linguistiche presenti in Italia.

20
4) Dialetti italiani e loro raggruppamento

In quest’ultimo paragrafo considereremo più da vicino la realtà dialettale italiana. Per prima cosa
daremo la classificazione in grandi gruppi dei dialetti italiani, individuando così le grandi aree (o
macroaree) in cui questi stessi dialetti si raccolgono. Quindi, all’interno delle singole macroaree
vedremo le divisioni più importanti. Cercheremo inoltre di dare, in maniera sommaria, alcuni dei
più importanti tratti linguistici utili.

4.1. Divisione in macroaree dei dialetti italiani.

Prima di dare la divisione in macroaree dei dialetti italiani premettiamo che, a differenza di quandto
fanno alcuni manuali di dialettologia italiana, non consideriamo nel numero dei dialetti italiani né il
friulano né il sardo (tieni però presente che né l’uno né l’altro combaciano perfettamente con
l’estensione intera di Sardegna e Friuli Venezia Giulia, come vedremo fra breve).

Di seguito, partendo da Nord e scendendo verso Sud, elenchiamo le differenti macroarree dialettali
presenti nella penisola italiana:

1. Dialetti Gallo-italici o settentrionali, sono compresi a nord della cosiddetta “Linea La Spezia
– Rimini”. La Spezia è una citta ligure, sulla costa tirrenica, che si trova al confine fra la
Liguria e la Toscana, mentre Rimini è una città sulla costa adriatica che si trova al confine
fra le regioni dell’Emilia Romagna e delle Marche. Questa linea ideale, che noi disegniamo
unendo La Spezia con Rimini (o, alternativamente, Massa, una città toscana poco a sud di
La Spezia, quindi sempre sul confine fra Liguria e Toscana, e Pesaro, una città marchigiana
poco a sud di Rimini, quindi sempre sul confine fra Emilia Romagna e Marche) corrisponde
a quella che si chiama “dorsale appenninica”, cioè alla zona al confine fra Liguria ed Emilia
Romagna a nord e Toscana e Marche a sud, in cui gli Appennini delimitano la Pianura
Padana. Il confine settentrionale è rappresentato dalle alpi. Con l’esclusione della:

i) Val d’Aosta e delle valli di confine fra Piemonte e Francia e fra Liguria e Francia
(minoranze francofona, franco-provenzalofona ed occitanofona);
ii) della Provincia di Bolzano (minoranze germanofona e ladinofona);
iii) della parte settentrionale della Provincia di Belluno (in Veneto) e di quella nord orientale
della provincia di Trento (minoranza ladinofona);
iv) di alcuni comuni sul confine fra Italia e Slovenia (minoranza slovenofona);
v) edella zona in cui si parla Friulano, che è limitata ad ovest da Pordenone (da Pordenone
verso occidente si parlano dialetti veneti), a est dai comuni di lingua slovena, e a sud-est
dalla costa friulana (Grado) e dalle città di Gorizia e Trieste, dove si parla veneto,

i dialetti galloromanzi sono parlari in Piemonte, Liguria, Lombardia, Provincia di Trento,


Veneto, provincie di Gorizia e Bolzano (in Friuli Venezia Giulia), Emilia-Romagna. Hanno
dialetti di tipo galloromanzo anche le provincie di massa e carrara in Toscana e quella di
Pesaro e Urbino nelle Marche.

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2. Dialetti toscani. A questo gruppo di dialetti appartiene il Fiorentino che, come già sai, è alla
base della lingua standard italiana (cfr. § 3). I dialetti toscani sono parlati in quasi tutta la
regione della Toscana, con l’esclusione della provincia di massa e Carrara e di una piccola
parte della provincia di Firenze, in cui si parlano dialetti gallo-romanzi ed inoltre della parte
estremo meridionale della provincia di Grosseto in cui si parlano forme dialettali centrali.
Fuori dalla Toscana si parlano dialetti toscani in alcun comuni della regione dell’Umbria a
ridosso del confine con la Toscana.
Da una forma di toscano medioevale, o, per essere più precisi, da una forma di toscano
occidentale medioevale che può essere identificata col pisano (il dialetto di Pisa), deriva
anche il còrso, cioè il volgare di origine italiana che si parlava in Corsica (prima di diventare
francese col Trattato di Versailles del 1768, la Corsica aveva avuto dominazioni italiane,
prima da parte di Pisa e poi da parte di Genova). Una forma di còrso viene parlato anche
nell’estremo nord della Sardegna, si tratta dei dialetti sassarese, parlato a Sassari e sulla
costa settentrionale della provincia di Sassari, e Gallurese, parlato ad Olbia e nei dintorni.
3. Dialetti centro-meridionali. Si tratta della macroarea che inizia a sud della linea La Spezia –
Rimini, comprende tutta l’Italia centrale, esclusa la Toscana, e gran parte dell’Italia
meridionale, esclusi il Salento (la parte meridionale della Puglia, il cosiddetto “tacco
d’Italia”) e quasi tutta la Calabria (la cosiddetta “punta d’Italia”). Come vedremo, questa
macroarea dovrà essere suddivisa in due macroaree un po’ più piccole, ossia area Centrale
ed area propriamente Meridionale. La macroarea centro-meridionale comprende: le Marche
a sud della provincia di Pesaro, quasi tutta l’Umbria (cfr. punto 2 qui sopra), il Lazio più la
parte estremo meridionale della provincia di Grosseto (cfr. punto 2 qui sopra), l’Abruzzo, il
Molise, la Basilicata, la Puglia fino alla linea Ostuni – Ceglie – Taranto e la Calabria e la
provincia calabrese di Cosenza fino alla linea Amantea – Amntea- Cirò.
4. Dialetti estremo-meridionali: l’area di diffusione di questi dialetti consiste con l’area sotto il
dominio dell’impero di Bisanzio all’altezza del IX sec. d.C., quindi, in queste aree, la lingua
più parlata era il greco bizantino e non il latino, a differenza di quanto accadeva nel resto
della penisola italiana. Questo spiega perché queste aree abbiano avuto una vicenda
evolutiva differente rispetto al resto dell’Italia meridionale. Il dominio greco continuò fino
al 1100 in Calabria e Puglia, mente nell’827 la Sicilia fu invasa dagli arabi (che furono
definitivamente cacciati nel 1072). La macroarea estremo-meridionale comprende dunque la
Puglia a sud della linea Ostuni – Ceglie – Taranto, la Calabria a sud della linea Amantea
Cirò e l’intera Sicilia.

Queste sono dunque le quattro macroaree dialettali italiane, ma, come abbiamo detto ognuna di
queste macroaree deve essere a sua volta suddivisa in aree più ristrette; dunque, di seguito, troverai
una lista con tutte le macroaree dialettali suddivise al loro interno:

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1. Area galloromanza o settentrionale
A) Area galloromanza propriamente detta. Comprende (da ovest a est)
▪ Il piemontese, la cui estensione è decisamente minore rispetto a quella della regione
omonima, perché è limitato a nord dal franco-provenzale, che si parla anche in provincia
di Torino, a ovest dall’occitanico, che si parla anche in provincia di Torino e di Cuneo, a
est e a nord-est dai dialetti lombardi, che si parlano nelle provincie di Novara e Verbania
e in parte di quella di Alessandria, a sud da dialetti liguri che si parlano in provincia di
Cuneo e di Alessandria. Vi sono però territori di tipo piemontese in Lombardia – pochi
comuni al confine fra le provincie di Pavia e di Novara, e in Liguria (Provincia di
Savona). Il piemontese si divide in tre gruppi: a) Torinese e Cuneese; b) Orientale; c)
Canavesano.
▪ Il ligure, la cui estensione è più vasta di quella della Liguria, perché si parla ligure anche
in alcune zone a sud della provincia di Cuneo, in una zona estesa a sud della provincia di
Alessandria, entrambe in Piemonte, in una zona abbastanza estesa a sud delle provincie
di Piacenza e Parma (Emilia Romagna) ed in pochi comuni all’estremo sud della
provincia di Pavia (Lombardia). Il ligure si divide in: a) Ligure genovese; b) Ligure
orientale; c) Ligure d’oltregiogo (si chiama così perché sta oltre le cime montane che
separano la Liguria, a sud dal Piemonte e dall’Emilia a nord); d)ligure intemelio o alpino
(al confine con la Francia).
▪ Il lombardo. L’area del lombardo è più ampia rispetto ai confini amministrativi della
regione Lombardia, perché comprende la quasi totalità delle provincie di Novara e
Verbania in Piemonte, la parte occidentale del Trentino, la sponda veneta del Lago
Maggiore ed alcuni paesi fra le provincie di Parma e Piacenza più altri in provincia di
Modena. Al contrario Mantova e gran parte della sua provincia appartengono al gruppo
Emiliano. Il lombardo si divide in: a) Lombardo occidentale (Milanese, Brianzolo,
Varesotto, Comasco e Lecchese); b) Lombardo orientale (Bergamasco e Bresciano); c)
Lombardo emiliani (Pavese, Lodigiano e Cremonese); d) Lombardi alpini (Val
Chiavenna, alta Valtellina e Valli al confine fra Piemonte e Svizzera).
▪ Emiliano. Anche la zona linguistica dell’Emiliano è più vasta rispetto ai confini
amministrativi della regione Emilia Romagna, perché comprende anche gran parte della
provincia di Mantova in Lombardia, la provincia di massa Carrara in Toscana, la
provincia di Pesaro e la parte settentrionale di quella di Ancona nelle Marche più alcuni
comuni ai piedi dell’appennino nelle provincie di Pistoia e Firenze. Solo alcuni comuni
lungo il fiume Po, quindi al confine fra Emilia e Lombardia, nelle provincie di Piacenza,
Parma e Modena hanno parlate di tipo lombardo. L’emiliano, da ovest a est si suddivide
in: a) Piacentino e Bobbiese (prov. Di Piacenza); b) Emiliano occidentale (Parma e
Reggio Emilia); c) Emiliano lunigianese (Massa e Carrara); d) Emiliano orientale
(Modena e Bologna); e) Emiliano settentrionale (Ferrara); f) Romagnolo (Rimini,
Ravenna e Forlì); g) Gallo-italico marchigiano (Pesaro e Urbino più il dialetto della città
di Ancona).
B. Area veneta. (Comprende, da ovest a est)
▪ Veronese (Verona città e dintorni)
▪ Alto vicentino (Provincie di Vicenza e Trento)
▪ Trevigiano (Provincia di Treviso)
▪ Bellunese (Provincia di Belluno e Trentino orientale)

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▪ Veneto Centrale (Vicenza città, Padova e Rovigo); in quest’area sono inclusi anche
alcuni comuni in provincia di Ferrara (Emilia Romagna) alla foce del Po, e pochi
comuni in provincia di Mantova (Lombardia)
▪ Veneziano (Venezia e dintorni)
▪ Veneto orientale (parti orientali delle provincie di Treviso e Venezia e parte occidentale
della provincia di Pordenone in Friuli, inoltre comprende le zone di Trieste, di Gorizia,
della costa friulana ed alcune isole linguistiche venete in Friuli)
▪ Trentino centrale (città di Trento e dintorni)

Dal punto di vista dell’estensione, esclusi i comuni lungo il Lago di Garda in provincia di
Verona, che sono Lombardi ed alcuni comuni appartenenti al gruppo emiliano settentrionale
in Provincia di Rovigo. Il veneto, inoltre, come abbiamo appena visto si estende sul
territorio friulano.

2) Area Toscana

L’estensione del Toscano comprende la Toscana quasi per intero, escluse la provincia di Massa
Carrara, alcuni comuni che si trovano sul versante emiliano dell’Appennino tosco-emiliano, anche
se sono amministrativamente compresi nelle provincie di Firenze e Pistoia, e la parte estremo
meridionale della provincia di Grosseto.
Di lingua toscana sono anche le piccole isole dell’arcipelago toscano che stanno davanti alla costa
della Toscana (Elba, Giglio, Capraia, Montecristo).

Da nord a sud il toscano si divide in:

❖ Lucchese (Lucca e dintorni)


❖ Apuano (zona delle valli apuane fra Lucca, la costa tirrenica e Pisa)
❖ Pisano-livornese (zone di Pisa e Livorno, sulla costa centro settentrionale della toscana)
❖ Pistoiese (Pistoia)
❖ Fiorentino (Firenze)
❖ Aretino (Arezzo)
❖ Senese (Siena)
❖ Grossetano-Amiatino (Grosseto)

A prescindere dal fatto che quest’area sia, in realtà, abbastanza limitata per estensione, si tratta
dell’area dialettale storicamente più importante d’Italia, perché è a partire dalla varietà fiorentina
che si forma lo standard italiano.

3. Area centro-meridionale.

Come abbiamo detto questa macroarea, che è molto estesa, va suddivisa in due sootzone:

A) Area Mediana, che comprende quasi tutta l’Umbria, la parte centrale delle Marche (Provincie di
Ancona, macerata e Fermo), il Lazio escluse la gran parte delle provincie di Latina e Frosinone, e
parte della provincia di L’Aquila in Abruzzo.

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B) Area Meridionale, che comprende (da Nord a Sud) la provincia di Ascoli Piceno nelle Marche,
l’Abruzzo, con l’esclusione delle parti settentrionale e occidentale della provincia di L’Aquila, il
Molise, la Campania, la Basilicata, la Puglia fino alla linea Taranto – Ostuni – Ceglie e la Calabria
fino alla provincia di Cosenza (linea Cirò – Amantea).

Nel prosieguo daremo i dettagli delle due aree separatamente.

3.A. Area mediana

L’area mediana si divide come di seguito

❖ Marchigiano centrale, che comprende: a) Anconitano (Ancona); b) Maceratese e Fermano


(Macerata e Fermo).
❖ Umbro, che, con l’esclusione di alcuni comuni di varietà toscano aretina al confine fra
Umbria e Toscana, comprende: a) Umbro settentrionale (parte settentrionale della provincia
di Perugia); b) Umbro meridionale (Perugia, parte meridionale della provincia di Perugia e
provincia di Terni)
❖ Laziale, che, da nord a sud comprende: a) dialetto della Tuscia viterbese (corrisponde alla
provincia di Viterbo); b) romanesco (Roma e dintorni); laziale centro-settentrionale (che
comprende la parte sud della provincia di Roma, le parti settentrionali delle provincie di
Latina e Frosinone, e la zona fra Roma e Rieti.
❖ Sabino: che si estende a Rieti e provincia, escluso alcuni comuni al confine con Ascoli
Piceno che appartengono alla varietà meridionale, e in alcune zone settentrionali ed
occidentali della provincia di L’Aquila.

3.B Area meridionale

Da nord a sud quest’area si suddivide come di seguito:

❖ Abruzzese: comprende: a) il cosiddetto Marchigiano meridionale, che si estende anche ad


alcuni comuni a ridosso del confine fra Lazio e Marche in provincia di Rieti, e ad alcuni
comuni in provincia di Teramo (Abruzzi); b) Teramano (provincia di Teramo); c) Abruzzese
orientale ed adriatico, comprende le provincie di Chieti e Pescara e una parte di comuni in
provincia di Campobasso (Molise); d) dialetti dell’area Marsica Pelignana, comprende la
parte meridionale della provincia di L’Aquila, ed alcuni comuni vicini al confine Lazio
Abruzzi della provincia di Frosinone (Lazio) (mentre una parte dei comuni della provincia
di L’Aquila vicino al confine col Lazio appartiene a all’area del laziale meridionale).
In Abruzzo, inoltre, è presente un’isola linguistica albanese.
❖ Molisano. Con l’esclusione di alcuni comuni in provincia di Campobasso, che appartengono
all’area Abruzzese orientale adriatica e di alcuni comuni appartenenti all’area Napoletana in
provincia di Isernia, il molisano si estende sull’intera superficie regionale del Molise,
parlano molisano inoltre anche alcuni comuni al confine fra Abruzzo e Molise nella parte
meridionale della provincia di L’Aquila e alcuni comuni al confine fra Lazio e Molise in
provincia di Frosinone. Il molisano è parlato anche in alcuni comuni in provincia di Foggia
al confine fra Puglia e Molise. In Molise è presente l’unica isola linguistica croata italiana e
vi sono anche alcune isole linguistiche albanesi.

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❖ Campano. Il Campano ha un’estensione maggiore rispetto ai confini della Regione
Campania, si estende infatti anche alla parte meridionale del Lazio, ad alcuni comuni
pugliesi e della Basilicata ed a pochi comuni in provincia di Isernia (Molise), solo pochi
comuni in provincia di Caserta che confinano col Molise hanno dialetti di tipo molisano. Il
campano si suddivide, da nord a sud, come segue:
a) Dialetti laziali meridionali, parlati nella parte meridionale delle provincie di Frosinone e
Latina ed in alcuni comuni in provincia di Caserta vicini al confine col Lazio. Inoltre è
parlato in pochi comuni abruzzesi al confine fra le provincie di Frosinone e L’Aquila.
b) Napoletano propriamente detto. È parlato nelle provincie di Napoli e Caserta, a Salerno e
nella parte settentrionale della Provincia di Salerno, nelle parti occidentali delle provincie di
Avellino e Benevento.
c) Beneventano: è parlato soprattutto nella provincia di Benevento.
d) Irpino: è parlato nella zona dell’Irpina, che corrisponde alla provincia di Avellino, la parte
nord orientale della provincia di Salerno e una parte nord occidentale della provincia di
Potenza (Basilicata) al confine fra Basilicata e Campania.
e) Cilentano, è parlato principalmente nella zona del Cilento, che corrisponde alla parte
meridionale della provincia di Salerno. La parte costiera più meridionale del Cilento
(Camerota e Capo Palinuro) presenta un dialetto, che si chiama Cilentano Meridionale molto
simile ai dialetti estremo meridionali calabresi.
In Campania è presente un’isola linguistica albanese.
❖ Pugliese. Il pugliese propriamente detto è un dialetto meridionale da non confondersi col
salentino (diffuso nella penisola del Salento, la parte estrema meridionale della Puglia), che
viene parlato nelle provincie di Foggia, Barletta e Bari e nella parte settentrionale delle
provincie di Taranto e Brindisi in Puglia ed inoltre nella parte orientale delle provincie di
Matera (Anche a Matera città) e Potenza in Basilicata. Da nord a sud è così distribuito:
a) Foggiano, si parla a Foggia ed in buona parte della provincia di Foggia escluso i comuni
a Nord, in cui si parla molisano, alcuni comuni ad ovest, al confine con la provincia di
Avellino, in cui si parla Irpino e la zona del Gargano (vd. sotto). Si estende anche ad alcuni
comuni in provincia di Andria.
b) Garganico, si parla nella zona del Gargano, una piccola penisola ovale in provincia di
Foggia, ed in alcuni comuni vicini al Gargano, anche se nel Gargano meridionale si parla
foggiano.
c) Barese: si parla a Bari e provincia, ma non nella zona delle Murge (vd. sotto), in gran
parte della provincia di Barletta, a nord delle provincie di Taranto e Brindisi.
d) Materese e dialetti cosiddetti Apulo-lucani. Si parla a Matera e sulle Murge (altopiano
collinare in provincia di Bari)
e) Tarantino, si parla a Taranto città e a settentrione della provincia di Bari.
In Puglia sono presenti isole linguistiche albanesi, greche e franco-provenzali.
❖ Lucano. Si parla in Basilicata e nella parte settentrionale della provincia di Cosenza al
confine fra Calabria e Basilicata, ma ad ovest e ad est vi sono zone dialettali rispettivamente
irpine (ovest) e pugliesi (materano). Da nord a sud abbiamo:
a) Dialetti del Vulture e del Melfese (dl nome della città di Melfi, a nord della Basilicata),
che comprendono tutta la parte settentrionale della Basilicata.
b) Dialetti appenninici e metapontici (dal nome della città di Metaponto), parlati nella zona
centrale della Basilicata.

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c) Dialetti arcaici lucani, al confine fra Basilicata e Calabria (è la cosiddetta Zona Lausberg,
in cui sono presenti fenomeni linguistici che rimontano alle fasi iniziali del passaggio dal
tardo latino alle lingue romanze).
In Basilicata sono presenti isole linguistiche albanesi e gallo-romanze.
❖ Cosentino: è il dialetto di tipo meridionale e non estremo meridionale parlato in Provincia di
Cosenza a nord della linea Amantea-Cirò. Si divide in a) alto cosentino (parte nord), b)
basso cosentino (parte sud). (Per le minoranze linguistiche vd. parte dedicata ai dialetti
estremo-meridionali).

4. Area estremo meridionali.

Come abbiamo detto corrisponde all’area in cui, fino al IX/XII sec. d.C. la lingua di preminenza fu
il greco. Si suddivide in tre aree non in continuità (o, come si dovrebbe dire, contiguità, geografica
fra di loro. Queste aree sono: il Salento, in puglia meridionale; la Calabria a sud di Cosenza e la
Sicilia.

A) Si divide in tre dialetti:

❖ Brindisino, parlato a brindisi e in gran parte della provincia di Brindisi.


❖ Leccese; parlato a Lecce e nella parte settentrionale della provincia di Lecce
❖ Salentino meridionale, parlato nella parte meridionale della provincia di Lecce (Otranto,
Santa Maria di Leuca)
In questa zona si hanno isole linguistiche greche ed albanesi.

B) Calabrese propriamente detto, si sviluppa a sud della linea Amantea Cirò e comprende:

❖ Il catanzarese, parlato in provincia di Catanzaro, in provincia di Crotone, e a nord della


provincia di Locri
❖ Il calabrese meridionale, parlato a Locri e a sud della provincia di Locri ed in provincia di
Reggio Calabria.

La Calabria presenta isole linguistiche albanesi, occitaniche e greche.

c) Il Siciliano, che rappresenta la varietà estremo-meridionale più diffusa ed è parlata


compattamente in Sicilia, a parte le isole linguistiche albanesi e gallo-romanze. Il siciliano si divide
in (da ovest a est)

❖ Messinese, parlato a Messina e provincia.


❖ Siciliano orientale parlato nelle provincia di Catania ed a Siracusa città e nella zona
settentrionale della provincia di Siracusa.
❖ Siciliano sud orientale, parlato nella parte meridionale della provincia di Siracusa ed in
provincia di Ragusa.
❖ Ennese, parlato nelle provincie di Enna e Caltanissetta, nella parte occidentale della
provincia di Palermo e in quella occidentale della provincia di Messina.
❖ Palermitano, parlato nella città di Palermo e dintorni.
❖ Agrigentino, parlato ad Agrigento e provincia.
❖ Trapanese, parlato in provincia di Trapani.
❖ Eoliano, parlato nell’arcipelago delle Eolie, a nord di Messina

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❖ Pantesco, parlato nell’isola di Pantelleria.
❖ Pelagio, parlato nell’arcipelago delle Isole Pelagie a sud della Sicilia. A quest’arcipelago
appartiene l’isola di Lampedusa.

Questa è la descrizione delle macroaree dialettali italiane in particolare. Per completezza


d’informazione aggiungiamo qualche informazione riguardo la Sardegna.

5) Sardegna

In Sardegna si parlano dialetti appartenenti al diasistema Italiano solo nella parte estremo
settentrionale dell’isola, si tratta, come abbiamo detto, di dialetti di origine còrsa, e sono

❖ A ovest il Sassarese
❖ Ad est il Gallurese
❖ Oltremontano, in alcune isolette tra Sardegna e Corsica.

Nel resto della regione si parla la lingua Sarda e si hanno isole linguistiche liguri e catalane.

Di seguito riporto una carta linguistica che può essere utile; quindi continuerò descrivendo alcuni
macrofenomeni linguistici che ci serviranno ad individuare le maggiori macroaree dialettali della
penisola.

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4.2. Tratti linguistici principali.

Di seguito daremo alcuni dei principali tratti linguistici che ci permettono di individuare le
macroaree, ma prima definiremo in maniera generale il concetto di isoglossa e di estensione di un
territorio dialettale.

4.2.1. Estensione di un dominio dialettale: i concetti di tratto e di isoglossa.

Come si fa a stabilire i confini di un’area dialettale? E che differenza c’è fra macroaree e
microaree? Per rispondere a queste domande dobbiamo tener presenti tre cose:

1. I dialettologi descrivono la situazione che trovano nella realtà, questo vuol dire che “vanno
sul campo”, cioè si preoccupano di sapere come effettivamente nella realtà si parli in un dato
luogo.
2. Il materiale raccolto sul campo viene poi studiato dal punto di vista fonetico e morfologico,
ma anche sintattico e lessicale. Si dice quindi che i dialetti sono “descritti”, ne vengono cioè
definiti i meccanismi fonetici, morfologici e sintattici che stanno alla base del
funzionamento dei singoli dialetti.
3. In seguito a questo studio è possibile effettuare un paragone dei singoli dialetti fra di loro, da
questo confronto è possibile ricavare una serie di caratteristiche che risultano comuni a pià
dialetti, queste caratteristiche si chiamano tratti.

Che cos’è esattamente un tratto linguistico?

Un tratto linguistico, come vedremo in particolare subito di seguito, è:

❖ Una caratteristica fonetica o morfologica o sintattica che può essere:


a) Propria di due o più varietà dialettali (o linguistiche)
b) Propria di una sola varietà dialettale (o linguistica)
Questa caratteristica serve a distinguere e separare le varietà (nel caso in cui siano più di
una) o la varietà che ce l’hanno da tutte le altre varietà.

Quindi un tratto deve essere:

1. Ben definito, questo significa che dobbiamo sapere esattamente in cosa consiste la
caratteristica in questione.
2. Rilevante, questo significa che la caratteristica che scegliamo deve essere ben rappresentata,
che deve essere possibile definirne la presenza o l’assenza in maniera univoca e che la sua
presenza o la sua assenza devono portare a cambi individuabili e ben delimitabili dentro il
sistema linguistico.
3. Dirimente, questo vuol dire che la presenza o l’assenza del tratto in questione comportano
una differente classificazione delle varietà dialettali (o linguistiche) in questione.

Abbiamo visto sopra che i tratti possono coinvolgere due o più varietà linguistiche o dialettali
oppure una sola varietà, quindi:

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➢ Chiamiamo “tratti accomunanti distintivi” i tratti che identificano almeno due (ma possono
essere anche di più) varietà dialettali o linguistiche e le separano da tutte le altre. Il tratto è
“accomunante” rispetto alle varietà che riunisce, “distintivo” rispetto al fatto di separare
queste varietà da tutte le altre.
➢ Chiamiamo “tratti esclusivi” i tratti che identificano una ed una sola varietà dialettale o
linguistica e la separano da tutte le altre. Un tratto esclusivo serve a individuare
precisamente una sola varietà linguistica.

Nel prosieguo vedremo soprattutto “tratti accomunanti distintivi” e vedremo un solo esempio di
tratto esclusivo.

Concentrandoci sui tratti “accomunanti distintivi”, possiamo notare che questi tratti possono:

1. Includere tutte le varietà dialettali italiane, in questo caso separano il dia-sistema italiano
dagli altri.
2. Includere tutte le varietà di una macroarea. In questo caso parliamo di “macrotratti” che
comprendono tutte (o una forte maggioranza) le varietà di un’area: ad esempio tutti i dialetti
gallo italici avranno una certa caratteristica che i dialetti di altri gruppi non hanno.-
3. Includere solo alcune varietà di una macroarea, in questo caso abbiamo:
a) tratti che definiscono le aree dialettali in cui sono suddivise le macroaree
b) tratti locali, che suddividono a loro volte le aree dialettali in cui sono suddivise le
macroaree
4. Tratti esclusivi, che sono quelli che definiscono uno e un solo dialetto.

I tratti linguistici possono avere una rappresentazione geografica, che viene riportata dagli atlanti
linguistici (per l’italiano AIS e ALI, cfr. piccola bibliografia) e descrive l’estensione di un dialetto o
di varie varietà dialettali nello spazio geografico.

Un’isoglossa si ottiene come di seguito:

➢ Si determinano quali sono i paesi e le città in cui si presenta un certo tratto


➢ Si riportano su una carta geografica questi paesi e queste città e ad ognuna si assegna un
numero
➢ Si considerano i numeri più esterni, cioè la rappresentazione grafica di un paese o di una
città dopo la quale il fenomeno in questione non si presenta più
➢ Si uniscono fra di loro i punti esterni
➢ Si ottiene così una linea che descrive la distribuzione geografica di un tratto
➢ Confrontando la distribuzione geografica, ottenuta nella maniera specificata sopra, di diversi
tratti si ottiene la linea di distribuzione geografica di una varietà linguistica o dialettale.

Di seguito vedremo alcuni tratti che definiscono le più importanti macroaree italiane.

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4.2.2. Macrotratti.

I macrotratti sono quelli che identificano le macroaree dialettali italiane. Quindi sono quei tratti
che ci permettono di identificare le arre: a) gallo-romanza; b) toscana; c) centro-meridionale
(nelle sue due sottoaree: a) mediana; b) meridionale); d) estremo-meridionale.

Nel prosieguo vedremo alcuni di questi macrotratti.

Esiti del nesso latino pl- originario.

Se osserviamo gli esiti del verbo latino *plovere (piovere, si tratta di una forma ricostruita, che
non abbiamo attestata), notiamo che:

i. Nei dialetti galloromanzi, escluso il ligure, abbiamo forme del tipo piovere, in cui
l’originario nesso latino di dentale sorda + laterale /pl/ dà dentale sorda più semivocale
/j/ il cosiddetto “semiconsonantico o jod) per cui *plovere > piovere
ii. In toscano abbiamo lo stesso esito che abbiamo nei dialetti galloitalici
iii. Nei dialetti mediani, nel dialetto di Ascoli-Piceno, in parte minima nei dialetti abruzzesi
abbiamo lo stesso esito che abbiamo nei dialetti gallo-italici.
iv. Nella grande maggioranza dei dialetti meridionali il nesso /pl/ da un nesso composto da
gutturale sorda più semiconsonante j, del tipo /kj/, quindi abbiamo: plovere > chiovere
v. In tutti i dialetti estremo meridionali si ha lo stesso esito che si ha nei dialetti meridionali
(plovere > chiovere)
vi. In ligure il nesso pl da labiale sorda + laterale , /pl/, passa a affricata sorda più
semiconsonante jod, ossai /tʃj/, ossia *plovere > ciovere.

Da questa descrizione ricaviamo i seguenti tratti:

A. La gran parte dei dialetti meridionali ed estremo-meridionali sono definiti dal passaggio da
labiale sorda a gutturale sorda, dovuta ad una palatalizzazione forte del nesso latino /pl/.
B. I dialetti settentrionali escluso il ligure, quelli centrali ed il toscano sono definiti dal
passaggio della latereale /l/ a semiconsonante /j/, con una palatalizzazione più limitata ai
dialetti meridionali ed estremo meridionali.
C. Il ligure rappresenta una forma intermedia fra l’esito gallo romanzo e toscano e quello
meridionale ed estremo meridionale.

Quindi abbiamo:

➢ Un tratto accomunante distintivo per la gran parte dei dialetti meridionali ed estremo
meridionali
➢ Un tratto accomunante distintivo per i dialetti galloromanzi, toscani e centrali
➢ Un tratto esclusivo per i dialetti liguri, che sono gli unici a presentare l’esito “ciovere”

Abbiamo così definito un tratto che ci conferma, anche se con qualche differenza – ligure -, nella
distinzione dialettale che abbiamo dato nei precedenti paragrafi.

Considera che continuiamo a considerare il ligure come gallo romanzo perché conserva un grande
numero di altri tratti in comune con gli altri dialetti galloromanzi, così come il fatto che alcuni
dialetti abruzzesi ed il diletto piceno del sud delle Marche abbiano esiti diversi de quelli meridionali

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non vuol dire che questi dialetti non siano meridionali, perché in realtà condividono molti più tratti
in comune con i dialetti del gruppo meridionale che con quelli di qualsiasi altro gruppo.

Analizziamo adesso un altro macrotratto:

L’opposizione “rotondo” “rotonno”.

Osserviamo la seguente situazione:

➢ In Toscana, nell’Umbria settentrionale e nelle Marche da Ancona verso nord troviamo le


forme “rotondo” o “tondo”, che poi si sono diffuse nell’area galloromanza italiana.
➢ La stessa forma, ossia “tondo”/rotondo”, è presente nella parte meridionale della Calabria ed
in zona abbastanza grande del Salento (Puglia). Questa stessa forma si trova anche in
Sardegna.
➢ Nel sud delle Marche, nel sud dell’Umbria, in Lazio, Abruzzo, Molise, Campania,
Basilicata, Puglia a nord del Salento e Calabria settentrionale troviamo la forma
“tonno”/”rotonno”, in cui abbiamo la trasformazione del nesso consonantico composto da
nasale sorda /n/ più dentale sonora /d/, quindi /nd/, alla forma intensa, cioè doppia, della
dentale sonora n, quindi /n:/. Anche in Sicilia troviamo questo stesso esito.

Qui i tratti che otteniamo tendono ad isolare una grande area composta da quasi tutta l’area centrale,
da tutta l’area meridionale e dalla Sicilia dalle altre aree del paese.

Cosa otteniamo dal tratto che viene descritto dall’opposizione rotondo/rotonno, soprattutto se, come
dobbiamo fare, lo paragoniamo ai tratti che abbiamo definito nel caso dei derivati dal verbo latino
(ricostruito) *plovere?

A. Da una parte otteniamo la conferma del Toscano come gruppo autonomo che fa parte a sé. È
vero che in entrambi i casi il toscano concorda col gruppo settentrionale galloromanzo, ma
se noi consideriamo che l’esito del latino rota in toscano, come nei dialetti mediani,
meridionali ed estremo meridionali è “ruota”, mentre nei dialetti galloromanzi del nord Italia
è generalmente del tipo “roda”, allora iniziamo a vedere che il Toscano rappresenta una
forma di passaggio autonoma fra galloitalici e parlate dell’Italia centrale. Si tratta di una
forma in cui convivono armonicamente tratti settentrionali e centro-meridionali, e proprio
per questo si tratta di un gruppo compattamente a sé stante.
B. Otteniamo anche un’altra conferma, che ci viene data dal fatto che Calabria meridionale e
Salento abbiano il tipo “rotondo” (mentre non hanno il tipo “rotonno”); questo fatto ci
conferma che effettivamente esiste una linea di confine fra dialetti meridionali e dialetti
estremo meridionali. Certo, in questo caso la Sicilia usa la stessa forma dei dialetti
meridionali, ma dobbiamo tener presente che, come abbiamo visto nel caso del ligure
quando abbiamo parlato di *plovere > ciovere in quel dialetto, può darsi che un’area che si
trova all’interno di una macroarea più grande a volte abbaia un comportamento autonomo,
questo non vuol dire che non continui ad avere la maggioranza dei tratti in comune con
l’area di appartenenza, come avviene nel caso del siciliano che è una forma di estremo
meridionale.
C. Il fatto che l’area centrale si schieri in un caso (“piovere”) con l’area toscana e con quella
galloromanza ed in un altro con quella meridionale conferma due differenti cose: a) che si

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tratta di un’area di passaggio in cui, a differenza di quanto accade per il toscano, assistiamo
ad un continuo passaggio da caratteristiche settentrionali a caratteristiche meridionali (in
toscano abbiamo una fusione, mentre negli italiani mediani no); b) che, come l’oscillazione
fra i due tratti individuati dimostra, effettivamente esiste un’area mediana in qualche modo
autonoma rispetto a quella meridionale; c) che esiste una relazione fra area centrale ed area
meridionale tale da giustificare la classificazione in un’unica mecroarea comune, quella
centro-meridionale, a sua volta suddivisa in settore centrale e settore meridionale.
D. Dal confronto con i due tipi di tratto che abbiamo analizzato, il gruppo settentrionale
galloromanzo risulta, fra tutti, essere quello maggiormente compatto, inoltre si differenzia in
maniera chiara dagli altri gruppi, a conferma del fatto che la linea La Spezia – Rimini
rappresenta un confine linguistico solido e poco permeabile all’interno del dia-sistema
italiano.

Con l’esposizione di questi tratti comuni a mo’ d’esempio del modo di lavorare dei dialettologi,
possiamo considerare conclusa questa breve dispensa.

5) Piccola bibliografia di riferimento.

Alcuni manuali utili:

Avolio, Francesco (2009) Lingue e dialetti d’Italia, Roma, Carocci.

Devoto, Giacomo e Giacomelli, Gabriella (1971) I dialetti delle regioni d’Italia, Milano, Bompiani.

Loporcaro, Michele (2009) Profilo linguistico dei dialetti italiani, Roma – Bari, Laterza.

Marcato, Carla (2007) Dialetto, dialetti e italiano, Bologna, il Mulino.

Strumenti

Nel corso dell’esposizione sono stati citati con la loro sigla, AIS ed ALI, i due atlanti linguistici
italiani di riferimento, riporto di seguito i loro titoli completi:

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AIS =

Si usa la sigla italiana per un’opera che ha un titolo tedesco: Sprach und Sachatlas Italiens und
Sudschweiz, che vuol dire “Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera
meridionale”, a cura dei linguisti svizzeri di lingua tedesca: Kerl Jaberg e Jakob Jud, in otto volumi,
è stato pubblicato fra il 1928 ed il 1940.

ALI =

Atlante linguistico italiano, è pubblicato sotto la coordinazione scientifica dell’Università degli


studi di Torino in collaborazione con la Società Filologica Friulana “Geraziadio Isaia Ascoli”, fra il
1995 ed il 2011 l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato , ha stampato i primi otto volumi (dei
diciotto previsti).

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