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Questo
scritto
non
è
la
traduzione,
ma
il
rimaneggiamento
notevolmente
ampliato
(e,
spero,
ricorretto)
dell’articolo
uscito
col
titolo
Qu’est-‐ce
que
l’italien
ancien
?
in
«
La
lingua
italiana
»
IX
(2013),
pp.
9-‐18.
Ringrazio
Giampaolo
Salvi
e
Lorenzo
Renzi
per
aver
avviato
la
discussione
su
alcuni
dei
temi
trattati
in
quell’articolo
in
uno
scritto
ancora
inedito
(La
Grande
Grammatica
Italiana
di
Consultazione
e
la
Grammatica
dell'Italiano
Antico:
strumenti
per
la
ricerca
e
per
la
scuola)
ancora
inedito,
ma
già
circolato
tra
gli
studiosi.
1
Cfr.
G.
I.
Ascoli,
L’Italia
dialettale,
in
«
Archivio
glottologico
italiano
»
VIII
(1882-‐85),
pp.
98-‐128
:
124.
1
(l’uso
parlato
essendo
dominato
dai
dialetti2)
sono
abitualmente
considerati
come
le
ragioni
di
questa
stabilità
–
e
hanno
peraltro
ricevuto
valutazioni
contrastanti.
Significativamente
e
da
una
prospettiva
non
sempre
coincidente
con
quella
di
Ascoli,
Arrigo
Castellani
ha
riaffermato,
nei
suoi
molti
lavori
dedicati
all’italiano
contemporaneo,
l’identità
tra
il
tipo
fonetico
italiano
e
i
caratteri
fono-‐morfologici
più
tipici
del
fiorentino
antico,
cioè
del
volgare
di
Firenze
prima
della
sua
trasformazione,
tra
la
fine
del
secolo
XIV
e
l’inizio
del
seguente,
nel
cosiddetto
fiorentino
argenteo3.
Sottolineando
quella
ch’egli
considerava
come
la
continuità
generale
nel
passaggio
del
fiorentino
al
rango
di
lingua
comune
nazionale,
Castellani
ha
indicato
anche
una
serie
di
caratteri
linguistici
propri
dell’italiano
contemporaneo
e
condivisi
con
il
fiorentino
argenteo
(antenato
diretto
del
vernacolo
odierno),
i
quali
marcherebbero
un’ulteriore
continuità
tra
passato
e
presente.
Con
una
sola,
debole
eccezione,
sulla
quale
torneremo
più
avanti,
si
tratta
ancora
una
volta
di
caratteri
fonetici
e
morfologici
:
suoni
e
forme
grammaticali,
ma
nessun
tratto
sintattico4.
Mi
soffermo
su
questo
aspetto
per
richiamare
l’attenzione
sul
fatto,
peraltro
noto,
che
a
favore
della
tesi
che
potremmo
chiamare
della
continuità
sono
stati
invocati
soprattutto
argomenti
attinti
alla
fonetica
e
alla
morfologia
(oltre
al
lessico,
pur
soggetto
ad
alcuni
riassestamenti
semantici5)
:
si
tratta,
in
altre
parole,
di
caratteri
che
rendono
la
maggioranza
delle
forme,
o
se
si
preferisce
delle
singole
parole
dell’antico
toscano
–
o
dell’antico
fiorentino
–
molto
simili
o
tutt’affatto
identiche
ai
loro
corrispondenti
in
italiano
moderno.
Occorrerà
osservare,
a
onor
del
vero,
che
tale
impressione
è
almeno
in
parte
amplificata
dalla
tendenza
comune
nella
prassi
editoriale
alla
modernizzazione
sistematica
degli
aspetti
grafici,
che
talora
si
spinge
fino
all’uniformazione
attualizzante
di
microfenomeni
fonetici
o
addirittura
morfologici.
2
Così,
naturalmente,
secondo
un
modello
interpretativo
lungamente
accettato
:
ma
sulle
distinzioni
e
le
precisazioni
avanzate
da
alcuni
studi
recenti
rimando
qui
al
cap.
3.
3
Cfr.
rispettivamente
A.
Castellani,
Sulla
formazione
del
«
tipo
fonetico
italiano
»
(1961),
ora
in
Id.,
Saggi
di
linguistica
e
filologia
italiana
e
romanza,
Roma,
Salerno
ed.,
1980,
pp.
73-‐95,
e
P.
Manni,
Ricerche
sui
tratti
fonetici
e
morfologici
del
fiorentino
quattrocentesco,
«
Studi
di
grammatica
italiana
»,
VIII
(1979),
pp.
115-‐
71.
4
Cfr.
A.
Castellani,
Italiano
e
fiorentino
argenteo
(1967),
ora
in
Id.,
Saggi
di
linguistica
cit.,
pp.
17-‐35.
5
Sul
lessico
dantesco
si
vedano
ad
esempio
i
suggestivi
dati
richiamati
da
M.
Tavoni,
voce
Dante
in
Enciclopedia
dell’italiano,
a
cura
di
R.
Simone,
Roma,
Istituto
della
Enciclopedia
italiana,
2010,
pp.
329-‐37
:
330
:
«
È
stato
calcolato
che
il
90%
delle
2000
parole
più
frequenti,
che
a
loro
volta
costituiscono
il
90%
di
tutto
ciò
che
si
dice,
si
legge
o
si
scrive
ogni
giorno)
è
già
nella
Commedia
».
Ovvio
che
fatti
come
questo
condizionino
decisamente
la
percezione
della
prossimità
tra
italiano
antico
e
italiano
moderno.
Quanto
al
fatto
che
gli
stessi
elementi
del
lessico
di
base
hanno
subito,
nei
mutevoli
contesti
culturali,
riassestamenti
semantici
talora
assai
forti,
si
veda
il
classico
esempio
di
un
termine
come
noia,
limpidamente
spiegato
da
L.
Serianni,
L’ora
di
italiano,
Bari,
Laterza,
2010,
p.
93.
2
Se
appunto
la
complessiva
conservatività
del
toscano
sia
anche
la
ragione
–
o
una
delle
ragioni,
o
la
ragione
prevalente
–
del
suo
assurgere
a
lingua
comune
è
stata
questione
controversa
perlomeno
a
partire
da
quando
la
tesi
della
latinità
vincente
del
fiorentino,
espressa
da
ultimo
(sia
pure
non
in
modo
esplicito)
da
Giacomo
Devoto6,
fu
contestata
da
Marcello
Durante,
secondo
il
quale
la
maggiore
aderenza
del
toscano
al
latino
rispetto
ad
altre
varietà
italiane
non
ne
avrebbe
potuto
in
alcun
modo
favorire
l’affermazione,
posto
che
oltre
a
tutto
nello
stesso
fiorentino
sono
riconoscibili
varie
evidenti
innovazioni,
che
da
questo
sono
state
estese
alla
lingua
comune7.
Ora,
è
chiaro
che
la
somiglianza
col
latino
–
già
messa
in
valore
da
Ascoli
nella
sua
classificazione
dei
dialetti
italiani
–
non
costituisce
una
ragione
sufficiente
del
successo
del
toscano,
ma
non
si
può
certo
escludere
che
essa
ne
sia
una
concausa
(molti
fatti
storici,
anzi,
inducono
a
supporlo).
Comunque
sia,
mi
pare
significativo
che
il
contrasto
tra
Devoto
e
Durante
si
possa
leggere
anche
come
il
dissidio
tra
due
diversi
metodi
e
più
ancora
tra
le
sensibilità
a
due
diversi
àmbiti
della
lingua
:
da
un
lato
quello
fonomorfologico
–
privilegiando
il
quale
è
più
facile
addivenire
a
conclusioni
come
quelle
di
Devoto
–,
da
un
altro
quello
sintattico.
Non
è
un
caso
che
gli
argomenti
proposti
da
Durante
toccano,
sì,
alcuni
esiti
fonetici
e
morfologici
del
fiorentino,
e
tuttavia
il
paragrafo
dedicato
nel
suo
libro
agli
Aspetti
antilatini
del
toscano
antico
si
apre
giusto
con
la
precisazione
che
«oggetto
di
questa
sezione
è
la
struttura
del
periodo»8.
Nel
corso
degli
ultimi
anni,
da
molte
parti
si
sono
proposte
correzioni
e
attenuazioni
all’idea
della
complessiva
continuità
tra
italiano
antico
e
moderno,
e
crucialmente
le
cautele
riguardano
soprattutto
un
versante
della
lingua
diverso
dalla
fonetica
e
dalla
morfologia,
cioè
la
(morfo)sintassi.
È
su
fenomeni
quali
l’ordine
dei
costituenti
nella
frase,
la
costruzione
dei
verbi
e
le
possibilità
di
legame
sintattico
delle
congiunzioni
nei
testi
del
Medio
Evo
–
anche
toscano
–
che
si
è
appuntata
l’attenzione
di
chi
ha
inteso
marcare
la
differenza
tra
antico
e
moderno9.
6
Cfr.
G.
Devoto,
L’Italia
dialettale,
in
I
dialetti
dell’Italia
mediana
con
particolare
riguardo
alla
regione
umbra.
Atti
del
V
convegno
di
Studi
umbri,
Gubbio,
Facoltà
di
Lettere
e
filosofia
dell’Università
degli
Studi
di
Perugia,
1970,
pp.
93-‐127,
rist.
col
titolo
La
formazione
dei
dialetti
italiani
in
Scritti
minori,
vol.
3,
Firenze,
Le
Monnier,
1972,
pp.
41-‐65.
7
Cfr.
M.
Durante,
Dal
latino
all’italiano
moderno,
Bologna,
Zanichelli,
1981.
8
Ibid.,
p.
109.
9
Emblematico
di
questa
tendenza
è
l’intelligente
lavoro
di
R.
Tesi,
Parametri
sintattici
per
la
definizione
di
«
italiano
antico
»
,
in
SintAnt.
La
sintassi
dell’italiano
antico.
Atti
del
Convegno
internazionale
di
studi
(Università
«
Roma
Tre
»,
18-‐21
settembre
2002)
,
a
cura
di
Maurizio
Dardano
e
Gianluca
Frenguelli,
Roma,
Aracne,
2004,
pp.
425-‐44,
in
cui
si
legge
:
«Questa
idea
della
“persistenza
che
rasenta
l’invariabilità”,
di
solito
esemplificata
con
la
lingua
di
Dante,
ha
importanti
antecedenti
nella
cultura
3
Se
dunque
il
privilegio
accordato
all’osservazione
di
fonetica
e
morfologia
(e
lessico,
almeno
nella
sua
consistenza)
favorisce
naturaliter
l’impressione
di
una
complessiva
continuità,
è
ben
vero
che
la
maggiore
attenzione
ai
fatti
sintattici
ha
dato
impulso
a
una
valorizzazione
delle
differenze
tra
italiano
antico
e
italiano
moderno.
Ma
a
questo
primo
fattore,
tutto
interno
alla
considerazione
dei
fatti
linguistici,
se
ne
è
aggiunto
ultimamente
un
secondo.
Tale
secondo
fattore
è
di
natura
per
così
dire
extralinguistica,
e
ha
probabilmente
acuito,
negli
anni
recenti,
l’impressione
di
un’intervenuta
separatezza
tra
l’italiano
attuale
e
quello
della
tradizione
letteraria.
Si
tratta
di
una
progressiva
perdita
di
familiarità,
anche
da
parte
di
molti
degli
studiosi
che
si
sono
pronunciati
sul
problema,
con
i
testi
antichi
e
con
la
loro
lettura
e
interpretazione.
Si
osserva
infatti,
significativamente,
che
la
distanza
percepita
tra
italiano
antico
e
italiano
moderno
è
in
generale
tanto
maggiore
–
anche
tra
chi
si
occupa
professionalmente
di
fatti
linguistici
–
quanto
minore
è
la
consuetudine
con
i
testi
antichi10.
Si
tratta,
a
dire
il
vero,
di
un
fenomeno
naturale
e
perfettamente
spiegabile
anche
in
termini
linguistici,
trovando
un
perfetto
corrispondente
nella
prassi
dell’intercomprensione:
due
parlanti
di
due
varietà
vicine
(poniamo,
due
dialetti
della
stessa
area
linguistica,
o
due
lingue
strettamente
affini)
possono
intercomprendersi
perfettamente
dopo
una
lunga
frequentazione
parlando
ciascuno
nella
propria
lingua,
laddove
ciò
riesce
evidentemente
più
difficile
a
chi
non
abbia
mai
fatto
pratica
di
tale
forma
di
comunicazione:
al
primo
ascolto,
anche
la
lingua
di
un
nostro
concittadino
diverso
da
noi
per
età
o
condizione
sociale
può
risultarci
assai
lontana.
Se
a
tale
circostanza
–
intendo
:
la
scarsa
consuetudine
con
i
testi
medievali
–
se
ne
aggiungono
altre
di
culturalmente
contestuali
quali
la
progressiva
marginalizzazione
dei
testi
italiani
antichi
(per
non
parlare
del
latino)
nella
pratica
scolastica
e
nella
stessa
educazione
avanzata,
ben
si
capisce
come
la
distanza
tra
antico
e
moderno
possa
essere
in
alcuni
romantica.
I
testi
medievali,
che
erano
alla
base
delle
tradizioni
letterarie
nazionali,
alimentarono
l’equivoco
di
una
‘continuità’
tra
passato
e
presente
:
un’idea
che
ha
avuto
riflessi
importanti
sulla
nascita
e
sugli
sviluppi
della
disciplina
‘Storia
della
lingua
italiana’»
(p.
432).
Il
che
è
certamente
vero,
anche
se
non
rende
conto
del
motivo
per
cui
in
altre
tradizioni
letterarie
europee
la
separatezza
tra
lingua
medievale
e
lingua
moderna
fu
avvertita
ben
prima,
e
ancora
oggi
lo
è
ben
di
più,
rispetto
a
quanto
avvenuto
in
Italia.
10
È
in
gioco,
ovviamente,
l’interazione,
un
tempo
normale
e
oggi
meno
scontata,
tra
approccio
linguistico
e
approccio
filologico.
Che
le
due
prospettive,
per
effetto
della
sempre
maggiore
complessità
dei
problemi
affrontati,
vadano
divaricandosi
in
distinti
specialismi,
non
è
forse
una
buona
notizia
:
si
vedano
le
osservazioni
di
V.
Formentin
e
M.
Loporcaro,
Sul
quarto
genere
grammaticale
del
romanesco
antico,
in
«
Lingua
e
Stile
»
XLVII
(2012),
pp.
221-‐64
:
262-‐64.
4
casi
più
che
constatata,
forzosamente
procurata,
o
meglio
favorita
da
un
clima
in
cui
la
‘traduzione’
(o
pseudo-‐traduzione)
di
testi
italiani
del
Tre
o
addirittura
del
Cinquecento
appare
come
una
conquista
culturale
piuttosto
che
come
un
semplice
sintomo
di
limitatezza
degli
strumenti
linguistici
a
disposizione11.
Anche
per
questa
via,
l’idea
che
l’italiano
antico
stia
a
quello
moderno
come
a
quest’ultimo
stanno
il
neerlandese
o
il
russo
(lingue
semplicemente
altre,
pur
se
tra
loro
omogenee
e
perciò
gestibili
in
termini
di
reciproca
traduzione)
si
fa
strada
quasi
indisturbata.
Tra
le
prese
di
posizione
in
favore
della
separatezza
sostanziale
tra
italiano
antico
e
italiano
moderno,
quella
forse
più
nettamente
formulata
proviene
da
studiosi
autorevoli,
i
quali
pure,
curiosamente,
non
hanno
ricompreso
nella
valutazione
di
tale
diversità
l’ipotesi
di
adottare
parametri
distinti
e
storicamente
adattati
per
descrivere
l’uno
e
l’altro
:
Si
è
spesso
pensato,
e
qualche
volta
anche
scritto,
che
tra
italiano
antico
e
italiano
moderno
non
ci
siano
differenze
sostanziali,
ma
quest’opera
mostrerà,
crediamo,
che
si
tratta
di
un’idea
molto
lontana
dalla
realtà
12.
Una
formula
così
netta,
proposta
da
due
autorevoli
linguisti
come
Giampaolo
Salvi
e
Lorenzo
Renzi
in
una
Grammatica
dell’italiano
antico
(d’ora
in
avanti
GIA)
ormai
nota
e
affermata13,
è
stata
messa
in
dubbio
da
Maurizio
Dardano
in
limine
alla
sua
Sintassi
dell’italiano
antico,
i
cui
risultati
a
suo
avviso
«
vanno
in
una
direzione
contraria
a
questa
tesi
»14.
Se
è
fondata
la
nostra
ipotesi
sui
due
fattori
che
hanno
ultimamente
mosso
a
11
Si
tratta,
come
è
noto,
di
una
delle
più
temerarie
proposte
editoriali
formulate
da
una
generazione
di
studiosi
formatasi
nel
clima,
non
solo
accademico,
del
secondo
Novecento,
e
sfociata
in
veri
e
propri
infortuni
culturali,
quali
la
‘traduzione’
del
Cortegiano
di
Castiglione
assemblata
da
Amedeo
Quondam
in
assenza
di
qualsiasi
riguardo
filologico,
e
qualificata
da
Alfredo
Stussi
come
«
la
produzione
d’un
falso
che
nella
fattispecie,
per
l’incompetenza
del
falsario,
ha
aspetti
tragicomici
»
(Elogio
della
minuzia,
in
Conversazioni
per
Alberto
Gajano,
a
cura
di
C.
Ginzburg
e
E.
Scribano,
Pisa,
ETS
2005,
pp.
341-‐351
:
345).
12
Grammatica
dell’italiano
antico,
a
cura
di
G.
Salvi
e
L.
Renzi,
Bologna,
il
Mulino,
2010,
p.
8.
13
Ad
attestare
l’entusiastica
accoglienza
ricevuta
dall’opera
anche
presso
gli
storici
della
lingua
italiana,
basti
il
giudizio
di
Pier
Vincenzo
Mengaldo,
che
gratificandola
dell’aggettivo
magna,
l’ha
definita
un
«
capolavoro
della
linguistica
italiana
»
e
«
un’opera
fondamentale
negli
studi
sulla
lingua
italiana
»
rispettivamente
in
apertura
e
in
chiusura
di
Qualche
postilla
alla
Grammatica
dell’italiano
antico,
in
«
Studi
linguistici
italiani
»
XL/1
(2014),
pp.
90-‐93
:
90
e
93.
14
Cfr.
M.
Dardano,
Sintassi
dell’italiano
antico,
Roma,
Carocci,
2012,
p.
6.
Quanto
alla
composizione
geolinguistica
del
corpus
preso
in
considerazione,
il
volume
diretto
da
Dardano
si
mostra
decisamente
più
attento
alla
complessità
geo-‐culturale
del
problema
:
«
se
è
sembrato
opportuno
imporre
confini
precisi
alla
ricerca,
ciò
non
ha
comportato
l’esclusione
a
priori
di
testimonianze
provenienti
da
altre
varietà
linguistiche.
L’inserimento
occasionale
nella
nostra
analisi
di
passi
di
prosa
non
toscana
(…)
dipende
da
un’esigenza
comparativa.
Per
lo
stesso
motivo,
e
per
evidenziare
fenomeni
analoghi
sono
stati
ripresi
(…)
esempi
di
fr.
ant.,
spagn.
ant.
e
di
alcune
varietà
italoromanze
:
testi
veneti,
lombardi,
mediani
(romanesco,
orvietano-‐viterbese)
e
napoletani
»
(ibid.,
pp.
1-‐2).
Più
recentemente,
nuove
perplessità
sul
fatto
che
la
GIA
abbia
documentato
persuasivamente
la
drastica
differenza
tra
italiano
antico
e
moderno
sono
stati
5
sottolineare
piuttosto
le
differenze
che
le
analogie
tra
antico
e
moderno
–
prioritaria
attenzione
agli
aspetti
(morfo)sintattici
da
un
lato,
e
minore
confidenza
con
i
testi
antichi
da
un
altro
–,
è
chiaro
che
a
parità
d’interesse
prevalente
per
la
sintassi,
una
simile
divaricazione
di
giudizio
–
al
netto
di
una
comprensibile
tendenza
alla
radicalizzazione
delle
posizioni
in
funzione
dialettica
–
dipende
dall’acuirsi,
nella
GIA,
del
secondo
fattore15.
Concentrarsi
sull’evoluzione
delle
strutture
sintattiche
dell’italiano
porta,
certo,
a
valorizzare
le
differenze
tra
antico
e
moderno
(che
per
contro
è
minima
se
per
l’antico
si
prendono
a
riferimento
le
strutture
fonomorfologiche
del
fiorentino
aureo
e
della
lingua
letteraria,
e
quelle
dell’italiano
standard);
ma
a
far
apparire
queste
differenze
come
determinanti
è
soprattutto
l’adozione
di
un
paradigma
culturale
che
con
questioni
di
storia
linguistica
interna
ha
poco
che
fare16.
La
GIA
ha
per
obiettivo
una
descrizione
sincronica
dell’italiano
antico
che
«
si
dovrebbe
congiungere
con
l’altro
spaccato
sincronico
dell’italiano,
quello
dato
dall’opera
gemella
Grande
Grammatica
Italiana
di
Consultazione,
attraverso
una
serie
di
analisi
linguistiche
intermedie,
sempre
sincroniche
»
(GIA,
p.
8).
Nell’intento
dichiarato
di
restringere
in
un
àmbito
spazio-‐temporale
(e,
aggiungerei,
testuale)
circoscritto
il
più
antico
stato
di
lingua
documentabile
per
l’italiano,
la
GIA
sceglie
di
fondarsi
sui
testi
fiorentini
anteriori
ai
primi
anni
del
Trecento,
estendendo
la
campionatura
a
tutto
il
secolo
XIV
solo
per
integrare
un
corpus
altrimenti
troppo
esiguo,
e
comunque
–
per
scelta
deliberata
–
limitato
alla
sola
Firenze.
A
una
simile
base
di
testi
si
applica
come
è
espressi
da
Luca
Serianni,
Prima
lezione
di
storia
della
lingua
italiana,
Roma-‐Bari,
Laterza,
2015,
pp.
127-‐
28.
15
Una
prima
conferma
a
questa
ipotesi
mi
sembra
offra
il
capitolo
dedicato
alla
Fonologia,
scritto
da
uno
studioso,
Pär
Larson,
che
certo
è
completamente
a
suo
agio
con
i
testi
antichi.
«
Il
repertorio
fonematico
dell’it.
ant.
–
afferma
Larson
in
apertura
del
capitolo
–
assomiglia
molto
a
quello
dell’it.
mod.
»
(p.
1515).
Non
troppo
diversamente,
il
paragrafo
iniziale
(di
Nicoletta
Penello)
del
capitolo
sulla
Morfologia
flessiva
si
apre
con
un’affermazione
che
va
in
senso
contrario
all’orientamento
generale
espresso
nell’introduzione
:
«
It.
ant.
e
it.
mod.
mostrano
una
notevole
continuità
nel
numero
e
nelle
caratteristiche
delle
classi
flessive
sistematiche
»
(p.
1389),
continuità
nella
quale
le
differenze
consisterebbero
in
«
una
maggiore
complessità
del
sistema
antico,
che
risulta
semplificato
nella
lingua
più
recente
»
(p.
1390),
ma
che
quindi
ricomprenderebbe
tutte
le
classi
individuate
per
il
cosiddetto
italiano
moderno.
16
A
documentare
oltre
ogni
ragionevole
dubbio
il
nesso
tra
la
prospettiva
tipica
dei
‘traduttori’
dei
testi
italiani
antichi
e
quella
di
linguisti
che,
tra
gli
anni
Sessanta
e
Settanta
del
secolo
scorso,
hanno
propugnato
la
liberazione
dallo
studio
del
latino
e
l’ostilità
verso
i
metodi
della
ricerca
filologica
come
aspetti
della
lotta
per
il
progresso
civile,
anziché
come
strategie
culturalmente
depauperanti,
ha
provveduto
in
modo
esemplare
M.
Loporcaro,
Tradurre
i
classici
?
Ovvero
Gramsci
contro
Rousseau,
in
«
Belfagor
»
65/1
(2010),
pp.
3-‐32.
A
monte
della
Grammatica
dell’italiano
antico
stanno,
non
a
caso,
lavori
prodotti
nel
solco
delle
Dieci
tesi
del
GISCEL,
per
cui
si
veda
ad
es.
L.
Renzi,
Una
grammatica
ragionevole
per
l’insegnamento
(1977),
ora
in
Id.,
Le
piccole
strutture.
Linguistica,
poetica,
letteratura,
Bologna,
il
Mulino,
2008,
pp.
207-‐34.
6
noto
uno
schema
descrittivo
dichiaratamente
affine,
nell’impianto
e
soprattutto
nei
presupposti
teorici,
a
quello
adottato
per
la
Grande
Grammatica
italiana
di
Consultazione.
Osserviamo
sùbito
che
il
piano
di
lavoro
qui
idealmente
tracciato
appare
come
un’ipotesi
generosa
e
affascinante,
ma
come
minimo
di
difficile
realizzabilità.
Sembra
arduo
immaginare
–
nella
realtà
della
storia
linguistica
italiana
–
anche
solo
altri
due
o
tre
“spaccati”
omogenei
all’una
o
all’altra
sincronia
descritte
rispettivamente
dalla
GIA
e
dalla
Grande
Grammatica
(peraltro
ben
diverse
tra
loro).
In
effetti,
lo
schema
d’ascendenza
saussureana
che
interpreta
la
diacronia
come
successione
di
piani
sincronici
più
o
meno
agevolmente
individuabili
e
coesi
par
funzionare,
almeno
astrattamente,
per
lingue
che
si
considerino
come
sospensioni
di
laboratorio,
o
che
per
avventura
abbiano
uno
svolgimento
storico
improntato
a
una
complessiva
linearità,
ma
è
ben
più
difficilmente
applicabile
alla
complessità
delle
situazioni
linguistiche
reali
(prendendo
a
prestito
una
famosa
formula
di
Martinet).
Senza
contare
che
la
stessa
accettabilità
della
diacronia
come
mera
successione
di
sincronie
autonomamente
descritte
è
stata
oggetto
di
una
delle
critiche
più
nette
di
Coseriu,
secondo
il
quale
«
la
sincronía
saussureana
(salvo
su
pretensón
de
ir
más
allá
de
lo
descriptivo)
es
perfectamente
legítima
y
necesaria
[…]
;
en
cambio,
su
diacronía
es
enteramente
ilegítima
»,
consistendo
l’ilusión
saussureana
nel
«
creer
que
al
hacer
la
descripción
de
un
estado
de
lengua
se
sale
de
la
historia
»17.
Tornando
alla
specola
italiana,
ammesso
e
non
concesso
che
il
fiorentino
del
Duecento
rappresenti,
come
i
curatori
della
GIA
affermano,
la
«prima
fase
documentata
della
lingua
italiana»,
riesce
davvero
difficile
immaginare
che
la
stessa
città
possa
essere
eletta
come
luogo
di
descrizione
(ma
con
quali
criteri
di
scelta
dei
testi
di
riferimento?)
di
analoghi
spaccati
sincronici.
E
se
non
sarà
la
Firenze
del
Quattro,
Cinque,
Sei,
Settecento
a
offrire
la
materia
per
gl’ipotetici
anelli
intermedi
della
catena
che
Salvi
e
Renzi
immaginano
come
prosecuzione
delle
loro
due
distinte
grammatiche,
con
quali
criterî
si
potranno
costituire
sincronie
–
almeno
approssimative
–
omologhe
a
quelle
ch’essi
ritengono
d’aver
descritto
nelle
due
opere
“gemelle”?
Ad
esempio
:
fino
a
qual
punto
del
tempo,
e
con
quale
giustificazione,
ci
si
potrà
fondare
sulla
testimonianza
prevalente
–
almeno
nelle
dichiarazioni
di
principio
–
di
testi
documentari
?
E
da
qual
17
Cfr.
E.
Coseriu,
Sincronía,
diacronía
e
historia.
El
problema
del
cambio
lingüístico,
Madrid,
Gredos,
1973,
7
punto
del
tempo
in
avanti
il
luogo
di
rilevazione
potrà
–
o
dovrà
–
spostarsi
da
Firenze
e
situarsi
a
Milano
o
a
Roma
o
a
Napoli
o
nell’astratto
nowhere
della
lingua
di
fatto
priva
di
connotati
storico-‐geografici
definiti
descritta
dalla
Grande
grammatica
?
In
effetti,
è
evidente
il
legame
tra
fiorentino
aureo
e
l’italiano
letterario,
di
cui
quello
che
oggi
chiamiamo
standard
è
un’ulteriore
evoluzione
:
e
tale
corrispondenza
si
basa
sull’evidente
corrispondenza
di
molte
strutture
fonetiche
e
morfologiche.
Ma
è
altrettanto
evidente
che
tale
corrispondenza
non
è
frutto
di
una
ininterrotta
e
lineare
continuità,
bensì
di
un
processo
–
caratteristicamente
e
storicamente
italiano
–
di
assunzione
postuma
della
lingua
della
lingua
letteraria
medievale
a
punto
di
riferimento
dell’elaborazione
normativa
moderna.
Un
processo
ben
altrimenti
articolato,
se
lo
si
osserva
con
attenzione,
dal
decorso
teoricamente
rettilineo
di
trasmissione
intergenerazionale
che
fa
di
una
lingua
antica
una
lingua
moderna.
Non
vi
è
dubbio
che
una
lunga
tradizione
storiografica
presieda
alla
periodizzazione
–
peraltro
controversa
–
altrove
indicata
dagli
stessi
curatori
della
GIA
:
dal
Duecento
al
Quattrocento,
dal
Quattrocento
alle
Prose
del
Bembo,
e
da
queste
in
avanti.
Ma
la
difficoltà
con
cui
tre
(o
più
?)
dissezioni
omogenee
di
queste
grandi
aetates
si
potrebbero
ottenere
è
resa
evidente
dal
fatto
stesso
che
l’ultima
fase
(che
si
suppone
già
‘mappata’
dalla
Grande
Grammatica)
è
incerta
persino
nei
suoi
contorni
generali18.
D’altronde,
le
diversità
metodologiche
che
separano
le
sistemazioni
interpretative
dello
storico
da
quelle
del
linguista
(«
lo
storico
che
lavora
con
curve
cicliche
sa
bene
che
un
andamento
ciclico,
pur
significativo,
risulta
dalla
media
statistica
di
oscillazioni
più
brevi
e
meno
dolci,
spesso
assai
violente
»)
sono
state
già
messe
in
evidenza
da
Alberto
Varvaro
per
sottolineare
la
frequente
difficoltà,
da
parte
dei
linguisti
moderni,
di
inquadrare
correttamente
i
fenomeni
di
longue
durée.
Riprendendo
le
parole
riferite
da
Braudel
ai
sociologi,
Varvaro
ha
osservato
come
troppo
spesso
i
linguisti
«evadono
o
nell’istantaneo,
sempre
attuale,
come
sospeso
al
di
fuori
del
tempo,
o
nei
fenomeni
ripetitivi,
che
non
appartengono
a
nessuna
età
»
19.
Come
vedremo,
entrambe
queste
tendenze
si
materializzano
puntualmente
nella
GIA.
18
Si
notino
i
due
avverbi
in
«
Probabilmente
da
suddividere
a
sua
volta
approssimativamente
dal
società
e
storia,
Bologna,
il
Mulino,
1984,
pp.
79-‐89,
a
p.
84
;
si
veda
anche
ibid.,
p.
83
:
«
Questa
possibilità
di
leggere
il
presente
della
lingua
come
un
passato
rappreso,
come
una
somma
di
successivi
stadi,
ha
8
All’intento
di
congiungere
in
descrizioni
sincroniche
(nel
senso
di
:
in
sé
chiuse
e
non
fondate
sulla
misurazione
dell’intervenuta
distanza
da
un
punto
noto,
secondo
il
criterio
empirico
che
governa
il
metodo
storico-‐comparativo)
il
tracciato
evidentemente
discontinuo
e
mosso
della
storia
della
lingua
italiana
ostano
dunque,
in
primo
luogo,
varie
difficoltà
di
ordine
non
meno
pratico
che
epistemologico.
Indipendentemente
da
tali
difficoltà,
che
comunque
potrebbero
non
essere
tali
da
inficiare,
di
per
sé,
la
validità
del
singolo
rilievo,
la
GIA
ha
come
obiettivo
complementare
di
mostrare,
a
distanza,
le
differenze
strutturali
tra
l’italiano
antico
e
l’italiano
attuale.
Si
tratta,
ancora
una
volta,
di
una
proposizione
teoricamente
sostenibile,
la
cui
conseguente
applicabilità
è
operativamente
realizzata
in
molti
casi
individui
–
e
alla
GIA
va
riconosciuto
il
sicuro
merito
di
numerose
messe
a
fuoco
puntuali,
peraltro
conseguibili
anche
indipendentemente
dal
quadro
teorico
qui
adottato
e
dunque
frutto
di
un
tipico
processo
d’eterogenesi
dei
fini20
–,
ma
la
cui
tenuta
generale
è
possibile
solo
obliterando
un
presupposto
che
varrà
la
pena
di
ricordare.
A
prescindere
da
come
si
valuti
la
continuità
che
agli
autori
della
GIA
li
fa
apparire
come
due
distinte
fasi
sincroniche
della
stessa
lingua,
è
certo
che
il
fiorentino
antico
e
l’italiano
moderno
sono
due
lingue
storiche
e
naturali
–
mettiamo
:
come
l’hindi
e
il
bulgaro
–
e
come
tali
sono
in
ogni
caso
comparabili
nelle
loro
strutture.
A
simili
comparazioni
è
anzi
perfettamente
avvezza
la
linguistica
d’impianto
generativista,
che
ovviamente
trascura
in
generale,
o
considera
solo
a
fini
di
pratico
raggruppamento,
le
relazioni
genealogiche
tra
le
varietà
considerate,
e
i
cui
metodi
sono
stati
costruiti
e
affinati
proprio
sul
terreno
di
lingue
storiche
e
naturali
spesso
molto
distanti.
Ma,
almeno
di
norma,
vive.
È
altrettanto
vero,
tuttavia,
che
il
tipo
di
fonti
cui
possiamo
attingere
per
confrontare
italiano
antico
e
moderno
sono
tra
loro
disomogenee
(a
differenza
di
quanto
avviene
tra
l’hindi
e
il
bulgaro
di
oggi),
consistendo
in
un
caso
(italiano
attuale)
nella
competenza
suggerito
al
linguista
la
possibilità
di
un’opera
di
smontaggio
che
può
fare
perfino
dimenticare
la
(relativamente)
coerente
funzionalità
attuale
di
ciò
che
si
smonta.
Tale
opera
ha
però
limiti
invalicabili
:
è
sì
possibile
isolare,
partendo
dal
presente,
uno
strato
passato,
perché
non
soltanto
vanno
reintegrati
in
esso
gli
strati
ad
esso
anteriori,
che
con
esso
fecero
sistema,
ma
andrebbero
inclusi
tutti
gli
infiniti
elementi
che
lo
strato
passato
(e
quelli
a
lui
anteriori)
ha
perduto
da
allora
ad
oggi,
siano
stati
o
no
surrogati
da
successive
integrazioni
».
Varvaro
si
riferisce
qui
all’impiego
di
dati
linguistici
del
presente
(nel
caso
:
il
responso
dell’AIS
sulla
Sicilia)
per
la
ricostruzione
di
fasi
anteriori
della
lingua,
ma
mi
pare
che
la
sua
ammonizione
ben
si
presti
anche
a
esemplificare
un
concetto
di
viscosità
e
interrelazione
dei
fenomeni
linguistici
che
rilutta
all’isolamento
di
sezioni
(o
:
dissezioni)
cronologiche
in
sé
conchiuse.
20
Un
equilibrato
bilancio
di
questi
conseguimenti
ha
proposto
M.
Barbato
nella
sua
recensione
alla
GIA,
in
9
attiva
di
parlanti,
nell’altro
caso
(italiano
antico)
in
testi
scritti.
Che
gli
autori
della
GIA
abbiano
potuto,
come
affermano
Salvi
e
Renzi
nell’introduzione,
acquisire
dell’
«italiano
antico
»
una
conoscenza
pressoché
‘nativa’
allo
stesso
modo
in
cui
un
linguista
americano
può
acquisire
la
lingua
hindi
o
un
italiano
la
bulgara,
è
affermazione
ancora
una
volta
tanto
vera
in
astratto
quanto
dubbia
in
concreto.
In
realtà,
giusto
il
modo
in
cui
molte
questioni
sono
trattate
nella
GIA
sembra
dimostrare
che
tale
acquisizione,
di
fatto,
non
è
avvenuta
:
rimandiamo
oltre
per
alcuni
esempi
significativi.
Nel
selezionare,
dunque,
i
suoi
esempi,
la
GIA
si
fonda
sulla
testimonianza
di
testi
letterari
e
non
letterari21,
privilegiando
tuttavia
quelli
documentari,
che
per
ragioni
intuitive
(ma
non
per
questo,
forse,
valide)
«
rappresentano
nel
modo
più
genuino
di
tutti
la
lingua
viva
nascosta
dietro
ai
testi
»
(p.
13).
La
formula,
il
cui
imbarazzo
è
manifestato
dalla
compresenza
del
verbo
rappresentare
e
dell’aggettivo
nascosto,
e
che
forse
per
questo
è
stata
definita
«
poco
felice
»
dai
recensori
più
severi22,
eredita
in
realtà
–
non
saprei
dire
quanto
consapevolmente
–
una
consuetudine
ormai
invalsa
negli
studi
sui
volgari
italiani
antichi,
cioè
l’impiego
preferenziale
per
fini
di
rilevazione
linguistica
di
testi
che
si
ritengono
meglio
caratterizzati
rispetto
ai
testi
letterari,
quali
sono
appunto
i
documenti.
Il
concetto
di
genuinità
cui
si
fa
riferimento
nella
GIA
riposa
tuttavia
su
un
equivoco
che
varrà
la
pena
di
illuminare.
Tra
la
fine
dell’Ottocento
e
i
primi
del
Novecento
un’acquisizione
cruciale
nella
filologia
romanza
è
consistita
nella
messa
in
valore
dei
testi
pratici
o
documentari
per
l’accertamento
di
fatti
linguistici
che
nei
testi
letterari
medievali
sono
ben
più
difficilmente
riconoscibili
o
impossibili
da
discriminare23.
Tale
metodo
di
lavoro
aveva
e
ha
come
ragionevoli
obiettivi
la
localizzazione
linguistica
o
in
subordine
la
datazione
dei
21
Particolarmente
impegnativa
appare
l’affermazione
di
Salvi
e
Renzi
che
nell’italiano
del
Duecento
e
degli
inizi
del
Trecento
«
la
corrispondenza
della
lingua
della
poesia
con
quella
della
prosa
è
larghissima
»
(p.
14),
affermazione
che
ancora
una
volta
gioca
sull’ambiguità
dei
piani
considerati.
Se
infatti
può
essere
vero
che
fonetica
e
morfologia
della
lingua
poetica
toscana
antica
sono
sostanzialmente
sovrapponibili
a
quelle
della
coeva
prosa
(giacché
più
tardi
avverrà
il
divorzio
tra
forme
della
poesia
e
forme
della
prosa,
così
caratteristico
della
storia
linguistica
italiana),
è
certo
che
sul
piano
della
sintassi
la
non-‐contiguità
tra
oratio
soluta
e
testo
versificato
è
connaturata
agl’istituti
metrici
che
lo
regolano.
A
documentare
la
specificità,
proprio
sul
piano
della
sintassi
–
che
è
quello
che
più
interessa
agli
autori
della
GIA
–
del
linguaggio
poetico
volgare
duecentesco
valga
ad
esempio
un’opera
significativamente
non
citata
nella
pur
ricca
bibliografia
della
GIA,
cioè
M.
Corti,
Studi
sulla
sintassi
della
lingua
poetica
avanti
lo
Stilnovo
(1953),
ora
in
Ead.,
La
lingua
poetica
avanti
lo
Stilnovo.
Studi
sul
lessico
e
sulla
sintassi,
Firenze,
Sismel-‐Edizioni
del
Galluzzo,
2005,
pp.
67-‐155.
22
Mi
riferisco
all’eccellente
lavoro
di
E.
De
Roberto,
Varietà
medievali
e
descrizione
del
sistema.
Note
alla
Grammatica
dell’italiano
antico,
in
«
Romanische
Forschungen
»
126/4
(2014),
pp.
487-‐510:
493.
23
Per
la
genesi
di
questo
filone
di
studi,
cfr.
A.
Varvaro,
Storia,
problemi
e
metodi
della
linguistica
romanza,
10
testi
di
cui
non
si
conosce
la
provenienza
e
la
data.
Ad
esse
si
può
procedere
sulla
base
del
confronto
con
testi
datati,
sicuramente
localizzati
e
quanto
più
possibile
scevri
di
elementi
non
caratterizzanti
e
perciò
non
rilevanti
a
fini
comparativi.
Obiettivo
ulteriore
di
questo
metodo
di
lavoro
è
documentare
l’attestazione
(si
noti
:
non
la
grammaticalità24)
di
singoli
tratti
o
fenomeni
linguistici
nelle
varietà
antiche,
attraverso
un’interpretazione
linguistica
–
talora
onerosa
e
controversa,
e
perciò
in
generale
improntata
a
cauta
verosimiglianza
più
che
a
netta
perentorietà
–
di
fatti
che
di
per
sé
sono
materiali
(cioè
grafici)
e
convalidata
da
una
comparazione,
più
o
meno
esplicita
ma
costante,
con
altri
testi
tra
loro
omogenei.
Mi
sembra
significativo
il
fatto
che
sia
il
Castellani
dei
Nuovi
testi
fiorentini,
sia
lo
Stussi
dei
Testi
veneziani
–
che
rappresentano
certo
i
migliori
esempi
dell’utilizzo
di
un
corpus
di
documenti
ritenuti
sinceri
a
fini
di
caratterizzazione
linguistica
–
abbiano
corredato
i
loro
commenti
di
un
confronto
tra
le
rispettive
varietà
d’interesse
e
quelle
circostanti,
convalidando
il
valore
insieme
storico
e
comparativo
del
metodo
da
essi
impiegato
per
la
messa
a
partito
dei
testi
documentari25.
In
altre
parole,
la
genuinità
dei
testi
pratici
è
certamente
ipotizzabile
in
sede
di
esame
comparativo
tra
documenti
omogenei,
ma
assai
meno
per
la
ricostruzione
di
elementi
linguistici
assoluti,
rispetto
ai
quali
i
testi
di
età
medievale
presentano
un
tasso
24
La
distinzione
tra
fenomeni
attestati
e
fenomeni
giudicati
come
“grammaticali”
è
prevedibilmente
enfatizzata
nell’introduzione
della
GIA,
in
cui
si
sottolinea
il
valore
appunto
predittivo
dell’abduzione
grammaticale,
e
di
conseguenza
la
libertà
del
grammatico
generativista
di
concedere
patenti
di
grammaticalità
a
fenomeni
non
attestati
e,
viceversa,
di
negarla
a
fenomeni
attestati
«
All’interno
di
questa
logica
,
quando
diciamo
che
una
forma
o
un
fenomeno
sono
‘attestati’
non
vogliamo
dire
che
automaticamente
siano
grammaticali,
ma
solo
che
essi
sono
presenti
nell’edizione
di
un
testo,
e
che
nonostante
questo
potrebbe
anche
trattarsi
di
casi
agrammaticali,
provocati
da
errori
del
testo
o
dall’editore
moderno
(due
casi
tutt’altro
che
infrequenti).
E
così
‘non
attestato’
vuol
dire
solo
‘non
trovato
nel
corpus’
,
ma,
a
seconda
dei
casi,
può
trattarsi
di
una
forma
o
costruzione
che
riteniamo
volta
a
volta,
per
ragioni
che
sono
rese
chiare
nella
trattazione,
probabile,
improbabile,
o
anche
impossibile.
In
quest’ultimo
caso,
per
chiarezza,
non
diremo
‘non
attestato’
ma
‘impossibile,
agrammaticale’
»
(p.
12).
La
nettezza
di
questo
schema
è
in
realtà
compromessa
da
casi
nei
quali
la
GIA
contrappone
non
documentato
a
possibile,
come
accade
ad
esempio
a
G.
Cinque
e
P.
Benincà
(autori
del
capitolo
La
frase
relativa),
a
p.
502
:
«
Non
sembrano
documentate
in
it.
ant.
relative
all’infinito
con
antecedente,
del
tipo
dell’it.
mod.
Ho
trovato
una
persona
a
cui
affidare
l’incarico.
Erano
invece
possibili
relative
all’infinito
senza
antecedente
»,
dove
sarebbe
interessante
sapere
se
«
non
sembrano
documentate
»
significa,
a
giudizio
degli
autori,
che
tali
costrutti
non
erano
possibili
(in
quanto
agrammaticali)
e
perciò
sono
contrapposti
a
costrutti
definiti
possibili.
25
L’esplicita
e
connaturata
funzione
comparativa
delle
indagini
linguistiche
sui
testi
antichi
di
carattere
pratico
si
è
invero
attenuata
in
epoca
recente,
quando
–
soprattutto
ad
opera
degli
allievi
dei
due
grandi
maestri
qui
indicati,
tra
i
quali
chi
scrive
fa
volentieri
mea
culpa
–
gli
accertamenti
su
singole
varietà
locali
hanno
preso
ad
essere
solo
implicitamente
comparativi,
anche
per
effetto
della
sempre
maggiore
complessità
del
quadro
circostante.
Si
aggiunga
che
per
la
collocazione
cronologica
dei
testi
il
criterio
della
comparazione
linguistica,
di
per
sé
poco
affidabile
o
semplicemente
non
applicabile,
ha
spesso
ceduto
il
passo
a
una
datazione
paleografica
cui
si
tende,
talora,
a
concedere
ampia
fiducia,
sebbene
si
tratti
–
anche
in
questo
caso
–
di
una
mera,
e
pur
utile,
ipotesi
di
lavoro
ricavata
dal
confronto
tra
elementi
noti.
11
d’insincerità
nettamente
superiore
a
quello
dei
loro
omologhi
odierni,
se
non
altro
perché
l’atto
medesimo
della
scrittura
presupponeva
in
generale,
nel
Medio
evo,
l’acquisizione
di
un
tipo
di
cultura
e,
conseguentemente,
di
convenzioni
rappresentative
ben
altre
rispetto
a
quelli
postulate
dall’alfabetismo
odierno26.
Non
tener
conto
di
tale
scarto
–
probabilmente
estraneo
alla
stessa
consapevolezza
della
maggior
parte
degli
autori
della
GIA,
in
generale
esperti
come
linguisti,
ma
in
molti
casi
del
tutto
nuovi
all’analisi
di
testi
medievali27
–,
o
minimizzarne
la
portata
per
mere
esigenze
operative,
significa
trascurare
il
fatto
che
qualsiasi
scrivente
del
Duecento
vive
a
immediato
contatto
(se
non
proprio
all’interno)
di
un
sistema
culturale
oggi
completamente
tramontato,
e
ancora
influente
in
un’epoca
in
cui
la
scripta
volgare
era
in
via
d’affermazione.
Alludo
naturalmente
al
sistema
diglottico,
esclusivo
nell’alto
Medioevo,
e
in
via
di
progressivo
dissolvimento
nei
secoli
successivi
–
ma
in
Italia,
et
pour
cause,
più
resistente
che
altrove
–,
il
quale
prevedeva
la
separazione
concettuale
tra
un
parlato
e
uno
scritto
che
non
erano
semplicemente
–
come
diremmo
noi
–
varietà
diamesiche
di
una
stessa
lingua
ma
che
si
descrivono
oggi
(anche
se
tali
non
vennero
lungamente
considerate,
in
senso
proprio,
dai
loro
utenti)
come
due
lingue
diverse,
cioè
il
volgare
e
il
latino.
La
presenza
o
incombenza
di
quest’ultimo
–
grammatica,
cioè
per
molti
secoli
lingua
regolare
tout
court,
nonché
lingua
quotidianamente
detta
pur
se
non
parlata,
oltre
che
scritta
–
va
postulata
anche
nei
casi
di
maggiore
spontaneità
apparente
dello
scritto.
Di
più
:
per
i
testi
volgari
medievali,
né
forse
solo
per
quelli,
la
correlazione
tra
grado
di
vicinanza
al
parlato
e
natura
o
genere
del
testo
si
dispone
in
molti
casi
in
un
senso
26
Metterà
conto
ricordare
il
caveat,
forse
dimenticato,
sulle
«
condizioni
di
poca
sincerità
linguistica
di
tutta
la
letteratura
medievale
alto-‐italiana
»
(anzi,
italiana
in
genere),
e
sulle
sue
conseguenze
operative,
da
parte
di
Carlo
Salvioni,
Di
un
documento
dell’antico
volgare
mantovano
(1902),
oggi
in
C.
Salvioni,
Scritti
linguistici,
a
cura
di
M.
Loporcaro,
L.
Pescia,
R.
Broggini,
P.
Vecchio,
vol.
III,
Bellinzona,
Edizioni
dello
Stato
del
Cantone
Ticino,
2008,
pp.
396-‐409.
Anche
se
il
mònito
d’inaffidabilità
e
di
scarsa
caratterizzazione
emesso
da
Salvioni
sul
testo
su
cui
verteva
quel
saggio
(il
volgarizzamento
mantovano
del
De
proprietatibus
rerum
di
Bartolomeo
Anglico,
opera
di
Vivaldo
Belcalzer)
fu
in
seguito
ridimensionato
da
Ghino
Ghinassi
in
seguito
a
una
revisione
dell’ediz.
Cian
(cfr.
G.
Ghinassi,
Nuovi
studi
sul
volgare
mantovano
di
Vivaldo
Belcalzer
[1965],
ora
in
Id.,
Dal
Belcalzer
al
Castiglione.
Studi
sull’antico
volgare
di
Mantova
e
sul
«
Cortegiano
»,
a
cura
di
P.
Bongrani,
Firenze,
Olschki,
2006,
p.
52),
lo
scetticismo
del
dialettologo
ticinese
appare
ancora
pienamente
condivisibile.
27
A
tale
mera
circostanza
biografico-‐scientifica,
che
ovviamente
non
incide
sull’autorevolezza
di
molti
autori
come
linguisti,
va
forse
semplicemente
ricondotta
la
diversa
valutazione
sulla
prossimità
tra
italiano
antico
e
moderno
:
occorrerà
tener
conto,
in
altre
parole,
che
nella
diversa
valutazione
per
cui,
con
le
parole
di
Serianni,
Prima
lezione
cit.,
p.
127,
«
lo
stesso
bicchiere
appare,
a
seconda
dei
punti
di
vista,
mezzo
pieno
o
mezzo
vuoto
»,
peserà
il
fatto
che
chi
tende
a
sopravvalutare
i
fattori
di
distanza
tra
lingua
antica
e
lingua
moderna
ha
in
generale
minor
consuetudine
con
la
prima
rispetto
a
chi
tende
a
minimizzarli.
12
totalmente
controintuitivo.
Cioè
:
si
osserva
spesso
che
sono
i
testi
degli
scriventi
meno
culturalmente
dotati
a
rimanere
più
tenacemente
abbarbicati
–
né
solo
nella
veste
grafica
e
fonomorfologica,
bensì
anche
nell’adesione
al
formulario,
quindi
alla
relativa
sintassi
–
a
un
latino
dal
quale
essi
non
riescono
a
staccarsi
per
inveterate
consuetudini,
laddove
una
freschezza
che
più
fa
pensare
alla
naturalità
del
volgare
–
ma
è
naturalità
artefatta,
ovviamente
–
s’osserva
proprio
negli
autori
letterariamente
più
scaltriti,
per
i
quali
la
scrittura
romanza
è
una
scelta
deliberata
e
non
il
risultato
di
un
sommario,
e
comunque
contaminato,
percorso
educativo28.
Detto
in
altri
termini,
se
un
testo
medievale
può
essere
definito
genuino,
tale
genuinità
va
intesa
in
termini
relativi
–
cioè
in
rapporto
ad
altri
testi
prodoti
nello
stesso
orizzonte
culturale,
e
in
rapporto
a
esigenze
di
caratterizzazione
geografica
e
cronologica
–
ma
non
certo
in
termini
assoluti,
o
anche
solo
comparativi
rispetto
a
orizzonti
culturali
troppo
diversi
:
l’idea
che
la
lingua
viva
sia
«
nascosta
»
e
al
tempo
stesso
genuinamente
«
rappresentata
»
in
alcuni
testi
medievali
e
che
questa
stia
alla
langue
tanto
quanto
vi
sta
un
atto
di
parole
nella
nostra
abituale
configurazione
linguistica
sembra
il
frutto
di
un
fraintendimento
(o
se
si
preferisce
di
una
forzatura)
dalle
conseguenze
difficilmente
calcolabili.
*
*
*
La
formula
italiano
antico
è
verosimilmente
un
calco
lessicale
del
tedesco
Altitalienisch,
utilizzato
dai
pionieri
della
filologia
romanza
del
secolo
XIX.
Non
la
più
antica
occorrenza,
ma
certo
una
delle
più
significative
occasioni
d’impiego
del
termine
è
l’articolo
dal
titolo
Lo,
li
–
il,
i
im
Altitalienischen
firmato
dal
direttore
Gustav
Gröber
nel
numero
inaugurale
della
«
Zeitschrift
der
romanischen
Philologie
»
(1877)29:
breve
nota
in
cui
si
discute
della
morfologia
dell’articolo
in
italiano
antico,
sulla
base
di
esempi
tratti
prevalentemente
dalla
Commedia,
ma
anche
dai
poeti
della
Scuola
siciliana,
da
Iacopone
da
Todi,
dal
pistoiese
Soffredi
del
Grazia,
dai
Bandi
lucchesi.
Nello
stesso
fascicolo
s’inaugurava,
tra
le
Miscellen,
una
sezione
dedicata
alla
Handschriftenkunde
che
alla
sezione
Altitalienisch
ospitava
le
segnalazioni,
a
cura
di
Hermann
Varnhagen,
di
28
Gli
stessi
autori
della
GIA
mostrano
un’almeno
latente
consapevolezza
di
questo
fatto,
eleggendo
autori
come
Brunetto
Latini
e
Bono
Giamboni
–
i
cui
testi
sono
certo
sintatticamente
più
complessi
rispetto
a
quelli
pratici,
ma
in
che
senso
più
vicini
alla
lingua
viva
?
–
a
fonti
continue
dei
loro
esempi
:
un
po’
come
se
la
Grande
grammatica
abbondasse
di
frasi
tratte
da
D’Annunzio
o
da
Tommaso
Landolfi.
29
«
ZrPh
»
I
(1877),
pp.
108-‐110.
13
alcuni
Additional
da
poco
acquisiti
dalla
biblioteca
del
British
Museum
:
tra
gli
altri,
una
versione
toscana
dei
Sette
savi
e
una
raccolta
di
madrigali
di
autori
dell’ars
nova
quali
Iacopo
da
Bologna,
Giovanni
da
Firenze
e
Bartolino
da
Padova.
Nel
1883,
Jacob
Ulrich
pubblicava
nel
tredicesimo
fascicolo
di
«
Romania
»
un
Recueil
d’exemples
en
ancien
italien
tratti
da
un
altro
codice
londinese.
Si
tratta
di
un
manoscritto
di
evidente
origine
veneta
di
cui
l’editore
osservava
:
«
La
langue
de
notre
texte
est
assez
flottante
(…).
Il
me
semble
que
nous
avons
affaire
à
un
texte
de
l’Italie
du
nord
qui
a
fortement
subi
l’influence
du
toscan
»30.
Sei
anni
più
tardi,
nel
presentare
all’Università
di
Zurigo
una
dissertazione
linguistica
su
quel
testo,
Leone
Donati
la
intitolò
Fonetica,
morfologia
e
lessico
della
raccolta
d’esempi
in
antico
veneziano31,
e
in
una
memorabile
recensione
al
lavoro
del
Donati,
Carlo
Salvioni
osservò
dalle
pagine
del
«
Giornale
storico
»
che
«tutto
quello
che
par
toscano
all’Ulrich
e
al
D[onati],
o
è
veneziano
o
senz’altro
è
da
ascriversi
al
latino,
la
cui
influenza
sul
testo
degli
Es.
è
veramente
forte
»
32.
Nella
letteratura
scientifica
italiana,
dall’inizio
del
secolo
XX,
la
formula
italiano
antico
indica
abitualmente
la
totalità
delle
varietà
linguistiche
italiane
del
Medio
evo,
riferendosi
particolarmente
all’insieme
dei
caratteri
soprattutto
morfologici
e
sintattici
condivisi
da
alcuni
di
essi
(o
dalla
maggioranza,
o
dalla
totalità),
e
al
tempo
stesso
differenti
dalla
configurazione
dell’italiano
moderno
e
contemporaneo.
Nel
1905,
in
una
miscellanea
in
onore
di
Mussafia,
Cesare
De
Lollis
utilizzò
l’espressione
italiano
antico
nel
titolo
di
un
saggio
su
alcune
particolarità
sintattiche
osservate
in
testi
di
diversa
provenienza
(la
Toscana,
l’Italia
centrale
o
meridionale)33.
Oltre
mezzo
secolo
più
tardi,
Franca
Brambilla
Ageno
dette
il
titolo
Il
verbo
nell’italiano
antico
a
un
libro
che
ancora
oggi
è
punto
di
riferimento
per
le
ricerche
sulla
sintassi
dei
volgari
italiani
del
Medio
evo.
In
questo
volume,
l’espressione
italiano
antico
si
riferisce
a
un
corpus
di
testi
che
comprendono
gli
autori
della
letteratura
fiorentina
30
Cfr.
J.
Ulrich,
Recueil
d’exemples
en
ancien
italien,
«
Romania
»
XIII
(1883),
pp.
27-‐59,
a
p.
58.
31
Pubblicata
a
Halle,
Karras,
1889.
32
Cfr.
«
Giornale
storico
della
letteratura
italiana
»
XV
(1890),
pp.
257-‐72
:
259,
quindi
C.
Salvioni,
Scritti
Festgabe
für
Adolfo
Mussafia
zum
15.
Februar
1905,
Niemeyer,
Halle,
1905,
pp.
1-‐8.
Ancora
precedente
è,
per
la
verità,
l’uso
dell’espressione
italiano
antico
da
parte
di
un
filologo
romanzo
quale
Vincenzo
Crescini,
che
in
un
saggio
su
Jacopo
Corbinelli
nella
storia
degli
Studi
romanzi
(in
Id.,
Per
gli
studi
romanzi.
Saggi
ed
appunti,
Padova,
Draghi,
1892,
pp.
179-‐218)
impiega
a
più
riprese
l’espressione
italiano
antico
contrapponendola
a
francese
antico
e
a
provenzale
antico
in
riferimento
alle
riflessioni
del
Corbinelli
:
è
questione,
qui,
del
debito
contratto
con
francese
e
provenzale
dalle
«
lingue
volgari
italiane
»,
come
le
aveva
chiamate
il
Galvani
(cit.
a
p.
191),
intese
ovviamente
nel
loro
complesso.
14
ma
anche
autori
letterari
e
non
letterari
d’altra
provenienza,
da
Iacopone
da
Todi
ai
poeti
dell’Italia
settentrionale
quali
l’Anonimo
veronese
del
secolo
XIII
o
l’estensore
degli
Aneddoti
in
romanesco
del
secolo
XIV
trasmessi
da
un
manoscritto
della
Vaticana.
Nel
libro
della
Ageno,
gli
scrittori
toscani
sono
naturalmente
i
più
spesso
menzionati
per
la
buona
ragione
che
la
letteratura
di
quell’area
ha
un’assoluta
predominanza
quantitativa
nei
corpora
dei
testi
italo-‐romanzi
medievali
:
ma
ciò
non
toglie
che
numerosi
riferimenti
coinvolgano
autori
di
differente
origine
geografica.
Essi
sono
convocati
per
illustrare
fenomeni
o
costrutti
che
non
possono
essere
considerati
locali
o
marginali.
Così,
il
primo
esempio
che
Brambilla
Ageno
dà
nel
capitolo
iniziale
del
libro
viene
da
un
poeta
della
scuola
siciliana
–
Rinaldo
d’Aquino
–
e
illustra
l’uso
transitivo
del
verbo
crescere,
attestato
anche
in
Guittone
e
in
Dante 34 .
D’altra
parte,
discutendo
della
costruzione
di
un
verbo
come
ragionare
(nel
senso
di
‘parlare’,
‘discutere’,
come
spesso
nei
testi
dell’italiano
antico
d’ogni
provenienza),
la
studiosa
dà
una
lista
d’esempi
che
comprendono
il
Laudario
urbinate,
il
Decameron
e
la
Cronica
di
Mantua
di
Bonamente
Aliprandi35.
In
molti
casi,
Brambilla
Ageno
propone
una
comparazione
tra
antichi
volgari
italiani
(per
esempio,
nel
discutere
l’assenza
del
condizionale
nei
dialetti
italiani
meridionali).
Ancora
più
spesso,
poi,
confronta
l’antico
e
il
moderno,
non
solo
in
funzione
contrastiva
ma
anche
nell’intento
di
documentare
una
perfetta
continuità
dei
fenomeni
sintattici
:
«
non
esemplificheremo
la
bivalenza
diatetica
di
AUMENTARE,
anche
odierna
»
(p.
86).
In
apparenza,
il
procedere
di
simili
accertamenti
–
anche
in
relazione
al
confronto
tra
lingua
due-‐trecentesca
e
lingua
novecentesca
–
non
è
troppo
diverso
rispetto
a
quello
tipico
di
opere
di
tutt’altro
impianto,
pur
essendo
di
solito
più
disteso
nell’esemplificazione.
Effetto,
si
dirà,
del
diverso
respiro
dei
singoli
lavori.
Eppure,
nel
capitolo
della
GIA
dedicato
alla
Struttura
argomentale
dei
verbi,
Elisabetta
Jezek
affronta,
in
un
paragrafo
intitolato
La
costruzione
inergativa
SN-‐V-‐prep-‐SN
(pp.
77-‐122) 36
gli
stessi
problemi
e,
in
molti
casi,
gli
stessi
verbi
già
inquadrati
nel
capitolo
Transitività
e
diatesi
del
Verbo
nell’italiano
antico.
Per
verbi
come
adorare,
aiutare,
offendere,
pregare,
34
Cfr.
F.
Brambilla
Ageno,
Il
verbo
nell’italiano
antico.
Ricerche
di
sintassi,
Roma-‐Napoli,
Ricciardi,
1964,
p.
28.
35
Ibid.,
p.
48.
36
Sul
ricorso,
da
parte
della
GIA,
a
un
metalinguaggio
non
sempre
immeditamente
comprensibile
ai
non
avvezzi
agli
studi
di
Grammatica
generativa
si
è
soffermato
non
senza
una
certa
asprezza
E.
Blasco
Ferrer,
Tendenze
recenti
della
grammaticografia
italiana,
in
«
Zeitschrift
für
Romanische
Philologie
»,
129/1
(2013),
pp.
142-‐66.
Per
contro,
come
si
vedrà,
lo
scrupolo
di
rendere
il
testo
accessibile
a
un
lettore
ideale
induce
gli
autori
della
GIA
a
tradurre
sistematicamente
termini
e
nozioni
abituali
al
fruitore
di
testi
medievali,
prefigurando
un
pubblico
tanto
ferrato
in
linguistica
(rectius,
in
una
certa
linguistica)
quanto
disarmato
di
letture
italiane
antiche.
15
dei
quali
Jezek
si
limita
a
osservare
che
«
l’it.
mod.
ha
solo
la
costruzione
transitiva
»
(p.
98),
Brambilla
Ageno
poteva
fornire,
sulla
base
di
un
ampio
confronto
tra
testi
italiani
di
varia
origine
e
del
sistematico
confronto
con
il
latino
classico
e
con
quello
medievale
(oltre
che
delle
altre
varietà
romanze),
una
caratterizzazione
storica
dettagliata,
utile
a
illuminare
di
maggior
luce
la
specificità
dei
costrutti
antichi.
Si
veda,
ad
esempio,
la
scheda
di
offendere
:
«
a
parte
altri
significati,
ha
già
in
latino
quello
moderno
di
‘dispiacere’,
‘ferire’,
‘recare
offesa’,
con
complemento
sia
in
accusativo
(«
quos
offendit
noster
minime
nobis
iniucundus
labor
»,
Cic.
De
fin.
1,3),
sia
in
dativo
(«
Sin
quid
offenderit
….,
nihil
tibi
offenderit
»,
Cic.
Fam.
2,18,3)
»37.
Segue
un
generoso
mannello
di
esempi
veneti,
umbri
e
toscani.
Metterà
conto
ricordare,
a
onore
dell’autrice,
che
si
tratta
ovviamente
di
specimina
raccolti
senza
l’ausilio
di
nessuno
dei
potenti
corpora
informatici
che
consentirebbero
oggi
di
selezionarli
con
ben
maggiore
facilità.
In
effetti,
un’altra
delle
caratteristiche
che
distinguono
tanti
lavori
recenti
(soprattutto
quelli
prodotti
da
non-‐filologi)
è
la
disponibilità
a
discutere
della
lingua
di
testi
che,
grazie
alla
possibilità
di
essere
interrogati,
offrono
il
dubbio
vantaggio
di
poter
rimanere
non
letti
:
ciò
che
risultava
materialmente
impossibile
per
le
fonti
spogliate
con
l’ormai
superato
sistema
della
lettura
e
schedatura38.
Una
prospettiva
come
quella
adottata
da
Brambilla
Ageno
non
sembra
solo
più
produttiva
di
dati
e
di
risultati,
ma
mette
anche
al
riparo
da
un
pericolo
sempre
incombente
su
una
trattazione
che
non
tenga
conto
–
per
assunto
metodologico,
non
per
insufficienza
documentaria
o
per
carenza
di
mezzi
–
della
distinzione
tra
fenomeni
caratteristici
e
peculiari
del
solo
fiorentino
antico
(e
dunque
significativi
nel
confronto
non
tanto
tra
l’antico
e
il
moderno,
ma
tra
la
varietà
di
quella
città
e
quella
di
altri
luoghi)
e
fenomeni
di
rilevanza
generale
dell’Italoromania
(o
addirittura
della
Romania)
medievale,
ben
altrimenti
significativi
nel
confronto
tra
antico
e
moderno.
Tale
è
il
caso
della
GIA,
in
cui
troppo
spesso
si
resta
col
dubbio
se
i
fatti
descritti
come
contrastivamente
rilevanti
distinguano
fiorentino
antico
e
italiano
moderno
nel
senso
che
si
tratta
di
elementi
locali
abbandonati
da
una
successiva
de-‐fiorentinizzazione
della
lingua
comune,
o
viceversa
di
elementi
comuni
alle
varietà
medievali
superati
nell’àmbito
di
riassetti
complessivi.
Non
è
differenza
da
poco,
in
termini
storici.
Né
è
questione
di
poco
conto
il
fatto
che
un
certo
tratto
sintattico
–
per
altro
ancora
37
Brambilla
Ageno,
Il
verbo
cit.,
pp.
49-‐50.
38
Da
utente
abituale
dei
nuovi
mezzi
di
ricerca
testuale,
vorrei
che
il
rilievo
sonasse
anche
come
una
contrita autoammonizione.
16
parzialmente
conservato
in
italiano
moderno
–
non
sia
interessante
solo
da
un
punto
di
vista
cronologico/contrastivo,
ma
anche
nel
quadro
di
un
confronto
romanzo
da
cui
una
grammatica
non
solo
sincronica,
ma
anche
rigidamente
sin-‐topica
(mi
si
passi
questo
termine)
prescinde
in
ogni
caso.
Così,
se
è
vero
che
il
verbo
andare
ha
in
italiano
antico
un
uso
pronominale
più
esteso
che
in
italiano
moderno
(«
Ella
si
va,
sentendosi
laudare
»,
GIA,
p.
103
:
uso
sintattico
già
notato
da
Contini
in
una
pagina
famosissima39),
non
sarà
privo
di
conseguenze
osservare
che
lo
stesso
tipo
pronominale
è
condiviso
da
varie
altre
lingue
romanze,
alcune
delle
quali,
putacaso
il
francese
antico,
potrebbero
condizionare
più
d’una
delle
ricorrenze
osservate
nei
testi
antichi
italiani
:
Tanto
gentile
e
tanto
onesta
pare,
in
effetti,
non
è
certo
un
testo
documentario
al
riparo
da
qualsiasi
influsso
estraneo
al
fiorentino
municipale.
Il
risultato
di
un
simile
modo
di
procedere
può
consistere
in
generalizzazioni
del
tutto
incongrue
rispetto
alla
portata
dei
fenomeni,
e
tanto
più
insidiose
perché
presentate
sotto
le
vesti
di
accertamenti
puntuali.
Nello
stesso
saggio
della
Jezek,
così
parco,
lo
s’è
visto,
d’informazioni
storicamente
pertinenti
per
altri
elementi,
al
verbo
mutare
càpita
d’essere
inquadrato
come
segue
:
«
mentre
mutare
vale
in
it.
ant.
‘cambiare’,
mutare
in
vale
‘diventare’,
e
in
particolare
mutare
in
debolezza
vale
‘diventare
debole,
affievolirsi’
»40,
dove
il
senso
delle
proporzioni
tra
ciò
che
è
caratteristico
dell’antico
in
quanto
tale,
ciò
che
risulta
da
accidenti
del
corpus
e
ciò
che
semplicemente
non
rileva
in
termini
generali
rischia
di
smarrirsi.
Ecco
Brambilla
Ageno
:
«
il
latino
mutare
è
uno
dei
verbi
per
cui
esiste
dai
tempi
più
antichi
(Livio)
un
uso
mediale
senza
riflessivo
espresso.
In
volgare
mutare
‘modificarsi’
e
‘modificare’,
di
cui
crediamo
inutile
fornire
documentazione
[in
realtà
ce
n’è
parecchia
in
nota,
con
esempi
da
Percivalle
Doria
a
Bianco
da
Siena].
Anche
il
riflessivo
è
diffusissimo
(basti
ricordare
Inf.
25.68)
»41.
Difficile
non
scorgere
in
inconvenienti
procedurali
come
quelli
ora
indicati
la
conseguenza
del
concepire
l’indagine
sincronica
come
attenzione
esclusiva
alle
relazioni
interne
tra
gli
elementi
del
sistema,
a
prescindere
dal
suo
contesto
storico
(che
non
è
fatto
solo
di
elementi
trascorsi
e
quindi
assenti,
visto
che
ad
esempio
il
latino
non
può
essere
certo
considerato
come
una
fase
anteriore
rispetto
all’italiano
antico,
ma
come
39
Cfr.
G.
Contini,
Esercizio
d’interpretazione
sopra
un
sonetto
di
Dante
(1947),
ora
in
Id.,
Varianti
e
altra
linguistica.
Una
raccolta
di
saggi
(1938-‐1968),
Torino,
Einaudi,
1970,
pp.
161-‐68.
40
GIA,
p.
101.
41
Brambilla
Ageno,
Il
verbo
cit.,
p.
74.
17
una
presenza
almeno
latente
in
tutti
i
parlanti
e
concretamente
attiva
in
quasi
tutti
gli
scriventi
dell’epoca)
e
ai
sistemi
interferenti.
Più
che
di
“architettura”
(nel
senso
di
Coseriu,
che
Salvi
e
Renzi
richiamano
per
giustificare
la
presenza
appunto
di
latinismi
e
gallicismi
quali
elementi
non
estranei
alla
lingua,
ma
diafasicamente
marcati,
e
in
quanto
tali
isolabili
:
ma
lo
sono
davvero?
e
lo
sono
allo
stesso
modo
in
cui
lo
sarebbero
in
una
moderna
lingua
standardizzata?42),
sembra
essere
semplicemente
questione
di
distanza
culturale,
o
se
si
preferisce
di
scarsa
confidenza
con
l’oggetto
trattato,
come
cercherò
di
documentare
con
i
tre
esempi
seguenti.
Primo.
Nel
capitolo
dedicato
alla
Frase
relativa,
Paola
Benincà
e
Guglielmo
Cinque
osservano
che
«
mentre
in
it.
mod.
casi
di
discontinuità
tra
antecedente
e
frase
relativa
(detta
anche
estrazione
o
estraposizione
della
frase
relativa)
sono
soggetti
a
limitazioni
(cfr.
È
venuto
un
uomo
da
noi
ieri
che
cercava
di
te
[…]),
in
it.
ant.
la
discontinuità
appare
normale
e
più
comune
».
Per
documentare
tale
affermazione,
gli
autori
allineano
ben
dodici
esempi
fiorentini
antichi,
quattro
dei
quali
provengono
dalla
Rettorica
di
Brunetto
Latini,
tre
da
Bono
Giamboni,
due
da
Fiori
e
vita
di
filosafi
e
uno
ciascuno
da
Novellino,
Tesoro
volgarizzato
e
Sommetta
(pp.
504-‐505).
Si
sarebbe,
naturalmente,
potuto
cercare
(e
forse
con
successo)
esempi
anche
nei
testi
pratici,
ma
già
questa
disposizione
del
materiale
suggerisce
a
chiunque
abbia
un
minimo
di
confidenza
con
la
trattatistica
medievale
che
siamo
davanti
a
un
caso
palmare
di
ripresa
di
moduli
sintattici
tipicamente
latini
(«
In
questa
parte
dice
Tulio
che
non
vuole
ora
provare
perché
quello
sia
genere
di
rettorica
che
detto
è
davante
»
:
manteniamo
i
corsivi
della
GIA,
omettendo
l’integrazione
[Cicerone]
dopo
Tulio,
che
peraltro
è
rivelatrice
di
tendenze
didascaliche
qui
continue,
e
tali
da
prefigurare
un
pubblico
caratteristicamente
ignaro
di
chi
possa
essere
Tulio
in
un
testo
del
Duecento).
Le
condizioni
contrattuali,
per
così
dire,
di
chi
adotta
il
concetto
di
analisi
sincronica
fatto
proprio
dalla
GIA
prevedono
l’esclusione
tassativa
di
qualsiasi
riferimento
al
latino
che
non
valga
l’esilio
nell’Architettura
(cioè
fuori
dalla
Struttura,
nel
senso
appunto
di
Coseriu).
Per
conseguenza
di
ciò,
gli
autori
si
devono
qui
rassegnare
a
documentare
come
caratteristica
del
fiorentino
duecentesco
una
fattispecie
sintattica
che
effettivamente
le
è
propria
solo
nella
misura
in
cui
movenze
sintattiche
di
questo
tipo
42
GIA,
pp.
13-‐14.
Per
il
riferimento
a
Coseriu,
cfr.
Das
romanische
Verbalsystem,
Tübingen,
Narr,
1976,
pp.
17-‐35.
18
sono
endemiche
in
qualsiasi
varietà
legittimata
a
riprodurre
movenze
latineggianti,
nel
passato
non
meno
che
nel
presente
(si
pensi
a
testi
giuridici
in
cui
simili
costrutti
possono
occorrere
ancora
oggi,
non
saprei
più
dire
se
nella
Funktionnelle
Sprache
o
in
quale
altro
comparto
della
teoresi).
Secondo
esempio.
Nel
medesimo
capitolo
dedicato
alla
Frase
relativa,
un
intero
e
non
breve
paragrafo
è
dedicato
al
nesso
«
che
fu
»
in
espressioni
designanti
persone
defunte.
È
ben
noto
a
chiunque
abbia
consuetudine
con
i
testi
antichi
che
tale
nesso
corrisponde
alla
poco
meno
comune
espressione
latina
(medievale)
quondam
nel
tipo
«
Johannes
filius
quondam
Petri
»,
cioè
‘G.
orfano
di
P.’,
ossia
in
volgare
«
G.
figlio
che
fu
di
P.
»,
oppure
«
Berta
uxor
quae
fuit
Caroli
»,
cioè
‘B.
vedova
di
C.’,
ossia
in
volgare
«
B.
moglie
che
fu
di
C.
».
Orbene,
riferendosi
a
un
registro
d’entrate
e
uscite
della
fiorentina
Santa
Maria
di
Cafaggio,
Cinque
e
Benincà
stabiliscono
inopinatamente
che
«
dal
contesto
si
comprende
che
negli
ess.
(63a-‐b)
il
defunto
è
il
referente
dell’antecedente
della
relativa,
mentre
negli
ess.
(63
c-‐e)
le
persone
che
sono
designate
dall’antecedente
della
relativa
sono
viventi,
ed
è
defunto,
invece,
il
referente
dell’argomento
del
predicato».
Ecco
dunque
gli
esempi
(dai
quali
espungiamo
direttamente
le
‘traduzioni’
fornite
nella
GIA
tra
parentesi
quadre
per
le
parole
ritenute
poco
chiare
per
il
lettore
moderno),
limitandoci
al
solo
esempio
(c)
per
la
seconda
fattispecie
ipotizzata
da
Cinque
e
Benincà43:
(63)
a.
It.
per
anima
di
monna
Giovanna,
f.
che
fu
di
Stefanello
da’
Cerchi,
dì
xxj
di
luglo,
s.
viiij
e
d.
x.
b.
It.
per
anima
di
monna
Venna,
moglie
che
fu
di
Goccia,
dì
xiiij
di
maggio,
s.
vij.
c.
Monna
Lapa,
moglie
che
fu
d’Aldieri
da
S.
Pietro
Sceraggio,
dee
avere
tre
fiorini
d’oro
nuovi.
Ora,
se
è
evidente
che
Monna
Lapa
vedova
di
Aldieri
è
talmente
viva
da
poter
ricevere
tre
fiorini
d’oro,
e
se
è
altrettanto
evidente
che
sono
morte
monna
Giovanna
e
monna
Venna
per
le
cui
anime
si
celebrano
messe,
non
si
vede
perché
esse
non
possano
essere
designate
come
‘figlia
del
fu
Stefanello’
e
‘moglie
del
fu
Goccia’,
continuando
a
riferire
quel
fu
al
referente
dell’argomento,
e
mantenendo
intatto
il
buon
uso
per
cui
i
figli
possono
essere
indicati
col
riferimento
al
loro
defunto
genitore
e
le
mogli
con
quello
al
loro
defunto
marito
anche
dopo
la
loro
(dei
figli
e
delle
mogli)
morte44.
E
ciò
valga
a
43
Fonte
:
Registro
di
Entrata
e
Uscita
di
Santa
Maria
di
Cafaggio
(REU)
1286-‐1290.
Trascrizione,
commento,
note
e
glossario
a
cura
di
E.
M.
Casalini,
Firenze,
Convento
della
SS.
Annunziata,
1998
(tràmite
la
banca
dati
del
TLIO
:
www.vocabolario.org).
44
Tra
i
molti
esempi
possibili
che
documentano
inequivocabilmente
questo
uso,
si
veda
la
cedola
testamentaria del veneziano Pietro Zen, che nel 1314 dispone che una rendita lasciata in eredità dalla
19
documentare
il
fatto
che
la
lettura,
pur
occasionale,
del
«
contesto
»
(o
del
cotesto?)
può
trarre
in
inganno
anche
i
più
volenterosi,
quand’essi
non
siano
avvezzi
alla
lingua
e
ai
testi
di
cui
discutono.
Terzo
esempio.
Nel
capitolo
della
Morfologia
dedicato
alla
formazione
delle
parole,
Antonietta
Bisetto
afferma
che
«
il
suffisso
avverbiale
–mente
in
it.
mod.
è
soggetto
a
una
restrizione
per
cui
non
si
può
aggiungere
ad
aggettivi
che
terminano
in
–mente
(come
fremente
/
*frementemente)
;
in
it.
ant.
invece
la
restrizione
non
vale
e
abbiamo
clementemente
»
(GIA,
p.
1508).
Seguono
due
esempi
dai
soliti
Fiori
e
vita
di
filosafi
e
dalla
Deca
terza
di
Tito
Livio,
ma
in
questo
caso
non
è
questione
di
fonti,
giacché
è
ben
noto
che
il
formante
avverbiale
mente
in
italiano
antico
semplicemente
non
può
essere
considerato
un
suffisso,
essendovi
svariate
prove
del
fatto
che
esso
era
percepito
come
un
elemento
ancora
separato
(si
pensi
alle
ben
note
coppie
d’aggettivi
con
un
solo
–
mente)45
:
ed
è
ben
noto
ai
romanisti
che
di
tale
natura
restano
ancora
tracce
evidenti
in
varie
lingue
neolatine
contemporanee.
Del
resto,
anche
sul
piano
dell’italiano
odierno
il
ragionamento
forse
non
funziona,
visto
che
frementemente
non
è
in
senso
proprio
agrammaticale
nel
senso
in
cui
i
generativisti
impiegano
questo
termine,
ma
semplicemente
cacofonico,
e
perciò
naturalmente
evitato
dai
parlanti.
Per
tale
via,
disancorata
dall’accertamento
pieno
e
consapevole
del
suo
contesto
culturale,
la
degnità
grammaticale
diventa
nulla
più
che
illusione
ottica
:
a
meno
che
davvero
non
si
voglia
credere
che
il
formante
–mente
in
antico
si
poteva
applicare
all’aggettivo
clemente
e
oggi
non
più.
Non
sarà
forse
un
vantaggio
se,
in
compenso,
una
trattazione
di
questo
tipo
può
essere
accolta
(e
forse
addirittura
redatta)
da
utenti
al
tutto
digiuni
di
latino
–
e
di
francese
antico,
e
di
provenzale,
e
di
storia
–
senza
che
ciò
susciti
in
loro
il
minimo
senso
vedova
–
evidentemente
morta
–
di
un
nipote
pervenga
alla
figlia
:
«
et
voio
che
la
dita
mia
fiia
ebia
et
seali
dato
de
tuti
li
mei
beni
sì
mobele
co'
stabele
libr.
XXV,
li
qual
eo
recevi
per
ela
dali
Precoratori
de
sento
Marco,
che
li
lagà
Catarina
muier
che
fo
de
meo
nevo
Nicoleto
Çen
»
(Testi
veneziani
del
Duecento
e
dei
primi
del
Trecento,
a
cura
di
A.
Stussi,
Pisa,
Nistri-‐Lischi,
1965,
p.
105).
O
ancora
l’annotazione
contenuta
nelle
memorie
del
camarlingo
Agniluzzo
di
Pietro
di
Loddo,
da
Orvieto,
a
proposito
di
una
donazione
da
parte
di
una
vedova
ormai
defunta
:
«
Donna
Amata,
moglie
che
fu
di
Pietro
d’Allievi,
[lassò]
all’uopera
di
sancta
Maria
la
sua
dota,
e
fu
lxxx
lb.
»
(cfr.
S.
Bianconi,
Ricerche
sui
dialetti
d’Orvieto
e
di
Viterbo
nel
medioevo,
in
«
Studi
linguistici
italiani
»
III
(1962),
pp.
1-‐192
:
167).
45
Cfr.
B.
Migliorini,
Coppie
avverbiali
con
un
solo
–mente,
in
Saggi
linguistici,
Firenze,
Le
Monnier,
1957,
pp.
149-‐55.
Il
tema
è
toccato
con
ben
maggiore
proprietà
nel
capitolo
di
Davide
Ricca
dedicato
al
Sintagma
avverbiale
(GIA,
p.
752),
in
cui
l’autore
prescinde
intelligentemente
dalla
sola
considerazione
del
corpus
fiorentino
duecentesco
(che
non
offre
esempi
per
il
fenomeno)
e
si
allarga
all’esame
di
testi
senesi
(e
in
bibliografia
rinvia
al
saggio
di
Migliorini).
20
d’inadeguatezza
alla
lettura
e
alla
piena
intelligenza
dei
testi
antichi46.
Ma
tale
è
forse
già
oggi,
e
più
ancora
sarà
nel
prossimo
futuro,
la
condizione
tipica
in
cui
quei
testi
si
leggono
e
si
leggeranno,
finché
si
leggeranno.
*
*
*
La
sintassi,
tra
eredità
del
latino
e
innovazioni
strutturali
romanze,
è
invero
il
dominio
in
cui
è
più
agevole
identificare
tratti
comuni
che
distinguano
antico
e
moderno,
ed
è
questa
la
ragione
per
cui
il
tradizionale
commento
linguistico
di
un
testo
medievale
italiano
si
presenta
di
norma
sul
piano
della
fonetica
e
della
morfologia
come
una
rassegna
d’informazioni
sui
tratti
che
caratterizzano
geograficamente
la
lingua
del
testo,
e
quanto
alla
sintassi
una
rassegna
–
sovente
troppo
sintetica
–
dei
caratteri
che
distinguono
un
testo
antico
da
un
testo
moderno.
In
questo
senso,
gli
studi
improntati
al
metodo
storico-‐comparativo
manifestano
da
sempre
una
notevole
asimmetria
tra
solidità
e
ampiezza
delle
acquisizioni
nel
campo
della
fonetica
e
della
morfologia
e
complessiva
episodicità
o
addirittura
fragilità
delle
descrizioni
sintattiche
(pur
con
numerate
eccezioni).
Si
tratta,
senza
dubbio,
di
un
limite,
che
tuttavia
è
spiegabile
piuttosto
con
gli
scopi
prioritari
in
quel
tipo
di
analisi
che
con
un
difetto
intrinseco
al
metodo
stesso.
In
altre
parole,
l’intento
prevalentemente
comparativo
(come
si
diceva,
per
fini
di
localizzazione,
o
in
subordine
di
datazione)
della
ricerca
basata
sulla
grammatica
storica
ha
concentrato
naturalmente
l’attenzione
sui
livelli
in
cui
i
risultati
contrastivi
sono
più
abbondanti
e
più
produttivi
:
giacché
dittongamento
e
metafonesi
distinguono
bene
un
testo
toscano
da
un
testo
emiliano,
mentre
l’enclisi
nelle
condizioni
della
legge
Tobler-‐Mussafia
ha
un
debole
valore
cronologico
e
una
portata
anticamente
pan-‐romanza.
Ciò
non
ha
impedito
–
l’esempio
del
Verbo
nell’italiano
antico,
di
mezzo
secolo
anteriore
alla
GIA,
sta
a
dimostrarlo
–
di
conseguire
risultati
solidissimi
anche
in
assenza
46
Poco
oltre
il
passo
appena
citato,
ulteriori
giudizi
di
accettabilità
e
marginalità
sono
prodotti
in
modo
del
tutto
indipendente
da
un
riferimento
alla
varia
intensità
del
modello
sintattico
latino
a
proposito
della
Doppia
dipendenza,
o
concorrenza,
del
relativo
:
«
È
possibile
in
it.
ant.
un
tipo
di
relativa,
del
tutto
marginale
in
it.
mod.
(v.
Gr.
Gramm.
vol.
I,
IX.1.1.11),
nel
quale
il
pronome
relativo
è
anteposto
a
una
frase
subordinata
da
cui
dipende
»,
ad
es.
:
«
Non
ti
ponere
in
casa
troppo
alta,
ne
la
quale
chi
vi
sta
il
convegna
temere
»
(p.
505).
Una
malintesa
concezione
di
grammaticalità
–
e
probabilmente
di
normalità
dei
testi
antichi
–
è
poi
quella
che
incombe,
nelle
stesse
pagine,
sulla
valutazione
di
esempi
come
questo,
ancora
da
Bono
Giamboni
:
«
Dicendo
oscuro,
si
fa
quando
il
dicitore
pone
alcuna
parola
che
si
può
trarre
a
.ddue
intendimenti,
ma
il
dicitore
la
trae
là
ove
vuole,
in
questo
modo
»,
dove
il
segmento
evidenziato
mostrerebbe
un’ellissi
(di
trarla)
«
non
possibile
in
it.
mod.
».
Ciò
che
evidentemente
non
è.
21
di
schemi
teorici
talmente
rigidi
da
risultare,
per
avventura,
astratti,
cioè
separati
dalla
realtà.
Dal
punto
di
vista
dello
sviluppo
storico
della
sintassi
romanza,
l’Italia
medievale
mostra
in
effetti
un’ampia
serie
di
caratteri
comuni,
uniformemente
diffusi
nei
testi
italiani
dei
primi
secoli
e
sistematicamente
comparabili
ai
tratti
corrispondenti
dell’italiano
attuale.
Gli
stessi
curatori
della
GIA,
nell’articolo
Italiano
antico
da
loro
redatto
per
l’Enciclopedia
dell’italiano,
hanno
proposto
una
breve
lista
dei
tratti
distintivi
tra
l’italiano
antico
(inteso
ancora
come
fiorentino
antico)
e
l’italiano
moderno.
Quanto
alla
sintassi,
essi
ne
menzionano
solo
due,
cioè
la
cosiddetta
«
struttura
a
verbo
secondo
»
e
la
differente
posizione
dei
clitici47.
Si
tratta
in
entrambi
i
casi
di
comparazioni
estensibili
dal
fiorentino
antico
all’intero
dominio
italoromanzo,
a
tutto
vantaggio
della
profondità
prospettica
e
della
chiarezza
del
quadro.
La
coppia
di
macro-‐fenomeni
indicati
nell’Enciclopedia
dell’italiano
potrebbe
poi
facilmente
diventare
una
più
corposa
lista
aggiungendo
i
numerosi
altri
tratti
sintattici
che,
al
pari
di
quelli
ricordati,
condividono
la
natura
contrastiva
rispetto
all’italiano
moderno
e
al
tempo
stesso
caratterizzano
l’intero
dominio
italoromanzo
in
età
medievale,
quali
la
paraipotassi
(comunque
la
si
voglia
descrivere
e
interpretare48),
l’uso
del
condizionale,
quello
del
trapassato
remoto
e
i
molti
altri
tratti
condivisi
dalla
grande
maggioranza
dei
testi
volgari
dell’Italia
–
se
non
proprio,
come
si
è
visto,
della
Romània
–
medievale.
La
stessa
introduzione
alla
GIA
ne
cita
svariati,
senza
peraltro
rilevarne
la
portata
non
solo
toscana
e
non
sono
fiorentina.
Tale
è
il
caso
dei
costrutti
pensare
di
/
a,
per
i
quali
è
indispensabile
osservare
la
perfetta
congruenza
della
doppia
costruzione
con
la
situazione
romanza
(penser
de
e
penser
à
sono
ancora
possibili
in
francese
moderno),
e
considerare
parimenti
la
stessa
alternanza
in
tutti
i
testi
dell’Italoromania
medievale.
Questi
e
molti
altri
possibili
esempi
mostrano
chiaramente
come
una
coerente
descrizione
contrastiva
di
antico
e
moderno
attenta
ai
fatti
sintattici
possa
delinearsi
anche
indipendentemente
dai
vincoli
imposti
a
un
corpus
di
riferimento
i
cui
criteri
di
selezione
somigliano,
per
curiosa
coincidenza,
a
quelli
che
servirono
al
purismo
italiano
per
individuare
l’oro
nella
lingua
(ma
era
piuttosto
l’elitropia)
:
il
condizionamento
culturale
che,
forse
inconsapevolmente,
sembra
aver
agito
sui
dissettori
della
sincronia
47
Cfr.
G.
Salvi
–
L.
Renzi,
Italiano
antico
cit.
48
Si
vedano
da
ultimo
C.
De
Caprio,
Paraipotassi
e
«
sì
»
di
ripresa
:
bilancio
degli
studi
e
percorsi
di
ricerca
(1929-‐2010),
in
«
Lingua
e
Stile
»,
XLV
(2010),
pp.
285-‐328,
e
I.
Consales,
Coordinazione
e
subordinazione,
in
Sintassi
dell’italiano
antico
cit.,
pp.
99-‐119
:
117
s.
22
sembra
avere
radici
ben
più
profonde,
cioè
anteriori,
rispetto
alla
teoresi
linguistica
cui
essi
esplicitamente
si
riallacciano.
La
presenza
di
tratti
sintattici
comuni
all’Italoromania
medievale
e
perciò
utili
a
una
caratterizzazione
dinamica
di
antico
e
moderno
non
comporta,
ovviamente,
che
i
volgari
italiani
di
quell’epoca
non
abbiano
alcuna
differenza
reciproca
sul
piano
della
sintassi.
Al
contrario,
è
ben
possibile
caratterizzarli
contrastivamente
anche
da
questo
punto
di
vista,
verificando
–
da
un
lato
–
nell’Italia
del
Due
e
del
Trecento
varie
particolarità
che
marcano
ancora
ai
nostri
giorni
le
varietà
locali,
e
al
contrario
isolando
condizioni
distintive
peculiarmente
medievali,
e
distinte
dal
panorama
dialettale
odierno.
Vi
sono,
inoltre,
varie
importanti
differenze
che
raggruppano
l’insieme
dei
volgari
antichi
da
una
parte
e
il
fiorentino
della
stessa
epoca
da
un’altra,
e
tra
questi
si
può
annoverare
il
diverso
ordine
delle
sequenze
di
clitici
tra
dialetti
meridionali
e
fiorentino
aureo
(è
appunto
il
tratto
che
Castellani
considerava
come
la
sola
traccia
sintattica
di
continuità
tra
il
fiorentino
argenteo
e
l’italiano
senz’aggettivi).
Nella
lingua
di
Dante
e
Petrarca
la
sequenza
normale
dei
pronomi
clitici
è
infatti
accusativo
+
dativo,
(«
lo
me
»,
«
lo
ne
»)49.
Al
contrario,
in
italiano
moderno
si
ha
dativo
+
accusativo
(«
me
lo
»,
ecc.).
Questo
passaggio
si
produce
in
fiorentino
tra
il
secolo
XIII
e
il
XIV,
ma
se
si
considera
la
situazione
degli
altri
volgari
italiani,
si
osserva
che
nell’Italia
settentrionale
come
in
quella
centro-‐meridionale
e
in
Sardegna
la
sequenza
dativo
+
accusativo
è
la
sola
attestata
nei
testi
più
antichi
:
«
quelo
qe
tu
me
daras
tu
me
lo
emprestaras
»
(Pamphilus
in
antico
veneziano)
;
«
Non
bisogna
che
tu
me
lo
doni,
ca
quello
che
io
me
guadagno
colla
spada
in
mano
non
bisogna
che
me
sia
donato
»
(Cronica
di
anonimo
romano).
Sembra
legittimo
domandarsi
se
la
diffusione
di
questo
modulo
sintattico
nell’italiano
comune
possa
essere
determinata
dall’accordo
della
quasi
totalità
dei
volgari
medievali
al
di
fuori
della
Toscana,
più
che
dall’evoluzione
relativamente
tardiva
del
fiorentino
verso
questa
costruzione.
Se
si
ammette
questa
possibilità,
la
produttiva
sensatezza
dello
schema
delle
«
successive
sincronie
»
dovrebbe
confrontarsi
con
un
elemento
di
discontinuità
geograficamente
e
storicamente
determinata
che
rischia
di
sfuggire
alle
maglie
di
un’analisi
che
procede
per
spaccati
sincronici,
o
di
risultarne
frainteso.
Anche
da
questo
punto
di
vista,
l’analisi
del
solo
fiorentino
antico
e
la
comparazione
tra
esso
e
49
Per
una
descrizione
aggiornata
dell’ordine
dei
clitici
nel
fiorentino
antico
cfr.
R.
Cella,
I
gruppi
di
clitici
nel
fiorentino
del
Trecento,
in
«
Bollettino.
Opera
del
Vocabolario
italiano
»,
Supplemento
III
(2012)
:
Dizionari
e
ricerca
filologica.
Giornata
di
studi
in
memoria
di
Valentina
Pollidori
(Firenze,
26
ottobre
2010),
pp.
113-‐98.
23
l’italiano
contemporaneo
finisce
forse
per
dare
un’impressione
parziale
e
deformante
della
storia
linguistica.
Un’ultima
osservazione
ci
spinge
ad
uscire
dal
dominio
della
sintassi
per
tornare
a
quello
della
fonetica
e
della
morfologia,
dominî
che
ovviamente
non
sfuggono
alle
nuove
proposte
di
descrizione
grammaticale
dell’italiano
antico.
Nell’articolo
dell’Enciclopedia
dell’italiano
in
cui
Renzi
e
Salvi
identificano
assai
precisamente
i
caratteri
sintattici
che
abbiamo
visto,
essi
propongono
al
tempo
stesso
una
breve
descrizione
dei
caratteri
fonetici
del
fiorentino
antico,
e,
tra
essi,
dei
tratti
che
il
toscano
antico
condivideva
con
i
volgari
dell’Italia
centrale
e
meridionale,
come
il
raddoppiamento
fonosintattico
o
la
pronuncia
di
/s/
intervocalica,
nonché
dei
tratti
condivisi
con
le
varietà
settentrionali,
come
la
caduta
delle
vocali
finali
in
certe
circostanze.
Passando
dalla
sintassi
alla
fono-‐
morfologia,
è
assai
difficile
–
o
assolutamente
impossibile
–
identificare
fenomeni
veramente
comuni
che
non
siano
poco
meno
che
pan-‐romanzi
(e
quindi
:
che
non
implichino
l’assunzione
di
una
prospettiva
geoculturalmente
più
ampia
di
quella
pregiudizialmente
fissata
dai
principi
ispiratori
della
GIA),
e
soprattutto
che
non
costringano
a
porre
in
maniera
completamente
diversa
la
questione
del
confronto
tra
antico
e
moderno.
Varrà
comunque
la
pena
di
osservare
che
nel
campo
della
fonetica
e
della
morfologia
il
metodo
storico-‐comparativo
ha
già
offerto
strumenti
sicuri
e
risultati
tangibili
derivanti
proprio
dal
confronto
tra
fasi
cronologiche
successive
di
alcuni
volgari
italiani.
Se
il
progetto
delle
successive
sincronie
enunciato
in
apertura
della
GIA
è
probabilmente
destinato
a
non
realizzarsi
compiutamente,
la
descrizione
organica
e
perfettamente
comparabile
di
tranche
cronologicamente
distinte
della
stessa
varietà
locale
esiste
già,
ad
esempio,
proprio
per
il
fiorentino,
la
cui
fase
aurea
e
argentea
sono
state
convenientemente
esaminate,
specie
in
relazione
a
fatti
fonetici
e
morfologici,
adottando
la
griglia
descrittiva
della
grammatica
storica.
Se
tale
griglia
si
fonda
su
quella
che
potremmo
chiamare
triangolazione
tra
le
varietà
considerate
e
la
comune
base
etimologica,
presa
come
punto
di
riferimento
nella
descrizione
del
cambiamento
linguistico
–
per
cui
di
esiti
si
tratta,
ad
esempio
mettendo
a
confronto
quelli
delle
vocali
soggette
a
dittongamento
–,
ciò
non
impedisce
in
alcun
modo
un
confronto
tra
piani
cronologici
distinti.
Ciò
che
vale,
a
Firenze,
per
i
lavori
di
Castellani
e
Manni50,
vale
a
50
Per
il
primo
mi
riferisco
ovviamente
ai
Testi
fiorentini
del
Dugento,
Firenze,
Sansoni
;
per
la
seconda
alle
24
Venezia
per
quelli
di
Stussi
e
Sattin51
:
e
nulla
osta
a
che
un’analoga
griglia
descrittiva
possa
applicarsi,
senza
particolari
restrizioni
e
senza
vincolanti
petitiones
principii
a
stagioni
successive
della
storia
linguistica
delle
due
città,
o
di
quella
di
altri
centri,
che
è
ovviamente
parte
integrante
della
storia
dell’italiano,
antico
e
moderno.
Beninteso
che
un’estensione
dal
campo
prevalente
o
esclusivo
della
fonomorfologia
a
quello
della
morfosintassi
sarebbe,
in
casi
simili,
auspicabilissima.
Non
troppo
diversamente,
del
resto,
la
comparazione
sincronica
–
e
relativa
al
presente
–
di
diverse
lingue
romanze
nello
stadio
attuale
(poniamo
:
della
morfologia
spagnola
e
di
quella
italiana)
è
ben
realizzabile
attraverso
un
accostamento
contrastivo
degli
esiti
della
comune
base
storica
di
quelle
due
varietà,
senza
che
ciò
chiami
in
causa
necessariamente
la
storia
–
cioè
le
fasi
anteriori
documentate
–
di
quelle
due
lingue.
È
ciò
che
faceva
già
più
d’un
secolo
fa
il
Grundriss
der
Romanischen
Philologie
nel
descrivere
partitamente
le
lingue
neolatine
contemporanee,
ed
è
ciò
che
fanno
ancora
oggi
tutti
i
migliori
manuali
di
linguistica
romanza
in
circolazione
(persino
quelli
che
contrappongono
un
paradigma
storico
a
un
paradigma
moderno
che
del
primo
sarebbe,
più
che
l’erede,
il
sostituto52)
:
ferma
restando,
come
è
ovvio,
la
piena
legittimità
di
griglie
o
metodi
descrittivi
e
interpretativi
di
altra
natura,
che
muovano
da
una
preliminare
considerazione
dell’oggetto
di
studio,
storicamente
e
geograficamente
determinato,
e
a
quest’ultimo
adattino
il
metodo
di
lavoro,
anziché
supporre
che
sia
la
realtà
a
potersi
o
doversi
adeguare
a
una
griglia
interpretativa
costituita
per
la
descrizione
di
oggetti
qualitativamente
diversi.
In
qualsiasi
ricerca
orientata
alla
convalida
di
un
metodo
anziché
alla
coerente
interpretazione
di
dati
preesistenti
al
metodo
stesso,
la
realtà
finirà
per
conformarsi
alla
teoria
solo
se
–
più
o
meno
consapevolmente
–
distorta.
51
Cfr.
Testi
veneziani
cit.,
e
A.
Sattin,
Ricerche
sul
veneziano
del
sec.
XV
(con
edizione
di
testi),
in
«L’Italia
25