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Andrea Cecchinato

Dispensa del corso di Dialettologia italiana, n. 2/2 (3 CFU rimanenti per


studenti che fanno l’esame da 9 CFU), DISLL, Università di Padova.

1. La rivalutazione del dialetto nella cultura popolare nell’età della


“sdialettizzazione”

Bibliografia di riferimento:
M. Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani(testo d’esame), cap. 5.
I. Paccagnella, Un mondo di parole. Tra lingue e dialetti, a cura di A. Cecchinato e C.
Schiavon, Padova, Cleup, 2017.
L. Coveri, I dialetti della nuova commedia all’italiana (caricato sul Moodle del corso).
L. Coveri, Doppiare per diletto. Doppiaggi parodistici in dialetto nel web (caricato sul
Moodle del corso).

La sdialettizzazione del Novecento


Nel corso del Novecento, e ancora oggi, alla diffusione in Italia della lingua unitaria
come lingua di comunicazione orale e materna è corrisposto un evidente regresso nella
conoscenza e nell’uso dei dialetti. Tale processo di sdialettizzazione ha seguito le
seguenti fasi:
-Regionalizzazione: dal dialetto locale a quello di koinè. Per secoli, i dialetti locali sono
stati sottoposti a processi di livellamento ed eliminazione dei tratti fonologici e lessicali
più locali causati da scambi commerciali e culturali, dall’esigenza di comunicare ad un
raggio più ampio di quello compreso all’interno di una singola località e soprattutto
dalla frequente presenza, all’interno di una regione, di un polo d’attrazione e di
innovazione linguistica generalmente costituito dalla città politicamente ed

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economicamente egemone. Ad esempio, in Veneto e in Campania, i dialetti moderni
parlati nelle singole località sono molto diversi dai rispettivi volgari medievali perché
hanno perso diversi tratti caratteristici municipali e hanno subìto l’influenza del
veneziano e del napoletano.
-Diglossia senza bilinguismo: rigida distinzione dei domini d’uso e larga percentuale di
persone solo dialettofone. A cavallo tra Otto e Novecento, nei primi decenni dopo
l’unità d’Italia, la conoscenza e l’uso dei dialetti non erano ancora stati scalfiti dalla
diffusione della lingua unitaria ad opera della scuola dell’obbligo, che non riguardava la
popolazione adulta e anziana. Le persone che conoscevano l’italiano conoscevano bene
anche il loro dialetto e utilizzavano l’uno o l’altro a seconda della situazione (formale o
informale) in cui si trovavano, delle persone (amici e familiari, conoscenti o estranei)
con cui interloquivano e degli argomenti trattati.
-Diglossia con bilinguismo: rigida distinzione dei domini d’uso, larga percentuale di
persone competenti in entrambi i registri. Nei primi decenni del Novecento, con il
ricambio generazionale e il numero sempre più alto di italiani alfabetizzati e scolarizzati,
con la diffusione dei mass media e a causa di altri fenomeni storico-sociali (es.
migrazioni interne), molti italiani hanno una competenza attiva sia dell’italiano che del
dialetto e continuano a selezionare l’uno o l’altro in base al contesto diafasico. Anche le
persone “semicolte” iniziano ad utilizzare in tali contesti, ad esempio negli scritti
epistolari, un italiano che, benché popolare e infarcito di dialettismi involontari, è sentito
come il registro più adeguato a un certo tipo di comunicazione.
-Bilinguismo senza diglossia: labile distinzione dei domini d’uso, larga percentuale di
persone italofone con competenza dialettale passiva, il dialetto è limitato a sporadiche
commutazioni di codice, per “dare colore”. Nella seconda metà del Novecento, in Italia
la lingua unitaria conquista sempre più spazio come lingua della quotidianità a scapito
dei dialetti che, in molti casi, non sono più conosciuti o non sono più usati, tranne che in
isolate locuzioni gergali o proverbiali all’interno di un discorso in italiano.

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Le cause di questo processo di sdialettizzazione vanno individuate principalmente nel
fraintendimento, da parte della scuola pubblica post-unitaria e più in generale della
società italiana, della necessità della diffusione di una norma condivisa, promossa dai
maggiori intellettuali dell’età post-risorgimentale, primo fra tutti Alessandro Manzoni,
che per primo nella sua produzione letteraria aveva cercato di rifarsi a un modello
linguistico, il fiorentino colto moderno, che potesse andare bene per tutti gli italiani.
Travisando tale necessità di dare una lingua comune agli italiani, non si è mirato alla
creazione di uno stabile repertorio plurilingue, in cui italiano e dialetti potessero
convivere tranquillamente (così come si possono imparare senza problemi più lingue
straniere senza fare alcuna confusione) ma si è avviato un processo di sostituzione. In
che modo? Si è inculcata nelle classi popolari la vergogna sociale nei confronti del
dialetto, identificato come una sorta di marchio di ignoranza e di mancato progresso e
civilizzazione. Tale pressione culturale (o meglio anticulturale), favorita prima
dall’ideologia dominante durante il ventennio fascista e poi dal boom economico degli
anni Cinquanta – Sessanta, con l’urbanizzazione, l’industrializzazione e la
modernizzazione della società tradizionale, ha fatto sì che molte famiglie smettessero di
trasmettere il dialetto alle generazioni successive.

Il dialetto nella cultura “alta” del Novecento


Nel Novecento, proprio in corrispondenza con l’avanzata dell’italiano nella
comunicazione orale di massa, i dialetti italiani rivivono in molti settori della cosiddetta
cultura “alta” e in un canale di comunicazione linguistica prevalentemente scritto.
Innanzitutto il dialetto ritorna protagonista nelle produzioni letterarie, soprattutto
poetiche, dove viene utilizzato con diverse finalità:
-Espressionistica (es.: le poesie in dialetto milanese di Delio Tessa). L’uso di una varietà
linguistica diversa dall’italiano standard, meno codificata e quindi più manipolabile, si

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adatta meglio, con la sua espressività fonetica e ritmica, a descrizioni alterate, surreali e
oniriche della realtà, al gusto tematico per l’orrido e il macabro, il grottesco e il deforme.
-Memorialistica (ess.: frequente ricorso al dialetto alto-vicentino nei romanzi di Luigi
Meneghello, poesie in dialetto alto-trevigiano di Andrea Zanzotto). Il dialetto viene
utilizzato come registro linguistico ancestrale, della memoria, che si riappropria del
mondo perduto dell’infanzia come momento centrale per decodificare il senso della vita
e assaporarne la poesia.
-Intimista e selettiva (ess.: le poesie in dialetto tursitano di Albino Pierro e quelle in
friulano occidentale di Pier Paolo Pasolini). Varietà dialettali prive di tradizione
letteraria e diffuse in territori molto circoscritti costituiscono un terreno linguistico
letterariamente non inflazionato, vergine, non guastato dalle parole della modernità e
della tecnologia; il dialetto è utilizzato come una lingua d’arte (opposta alla prosaica
lingua di comunicazione che è l’italiano) che ben si adatta a trattare un numero molto
ridotto di argomenti attraverso una sorta di dialogo interiore, come una sorta di nuovo
petrarchismo.
Inoltre, naturalmente, il Novecento è il secolo in cui la Linguistica, e quindi anche la
Dialettologia, si sviluppa in modo esponenziale e vede la pubblicazione di tantissimi
studi. Pertanto il dialetto compare nelle opere scientifiche descrittive (grammatiche e
vocabolari dialettali, saggi) in ambito accademico e poi, di riflesso, anche per iniziativa
di colti appassionati che, pur non essendo degli specialisti, sentono il bisogno di
preservare le varietà dialettali dall’oblìo svolgendo ricerche sul campo, scrivendo
memorie sulla civiltà contadina (mestieri, utensili, ecc. e relative parole ed espressioni).
Trattando di cultura “alta” del Novecento, sarà opportuno includere i grandi maestri del
cinema neorealista, dove il dialetto assume una funzione mimetica, imitativa: i
protagonisti di questi film, personaggi realistici che rappresentano le parti più marginali
della società italiana ai tempi della Seconda guerra mondiale e del dopoguerra, sono
tratteggiati con estrema verosimiglianza, quindi non solo nell’aspetto, nel tenore di vita

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ecc. ma anche nel linguaggio, che a quest’altezza cronologica è prevalentemente
dialettale.

Il dialetto nella cultura popolare del XX-XXI secolo


Anche nella cultura popolare, di massa, spesso e volentieri avviene che il dialetto, “dopo
essere uscito dalla porta, rientri dalla finestra”: quella stessa cultura figlia del boom
economico, dell’urbanizzazione, della tecnologia e della modernità, che si era sostituita
alla cultura contadina sostituendo l’italiano al dialetto, ha più di un motivo per far
ricorso al dialetto:
-Dialettalità stereotipata (es.: la commedia all’italiana). I personaggi delle commedie
degli anni ’60-’70 presentano dei caratteri e dei modi di fare ricorrenti, sono quasi delle
maschere. Questa tipizzazione, come nella commedia plurilingue cinquecentesca, si
serve anche di stereotipi geografici e linguistici: l’industriale lombardo, la domestica
veneta, il coatto romano ecc. che ovviamente usano espressioni dialettali delle regioni di
provenienza.
-Dialettalità espressiva (ess.: film doppiati, filone lirico-nostalgico, film di Totò). Si
utilizza il dialetto al posto dell’italiano (o un preciso accento dialettale al posto della
pronuncia standard) per il suo maggiore impatto sullo spettatore, come nei film di Totò,
quindi con una semplice funzione teatrale, dove a volte l’incomprensione linguistica che
scatta nell’incontro di personaggi di diverse aree è fonte di comicità “anti-dialettale”.
Ma spesso tale espressionismo dialettale veicola anche un messaggio implicito, ha una
funzione simbolica, come in Amarcord di Federico Fellini o L’albero degli zoccoli di
Ermanno Olmi, o una funzione ideologica,come l’accento siciliano dei gangster dei film
americani doppiati, che non si possono considerare delle macchiette come i tipi della
commedia all’italiana.
-Dialettalità riflessa e caricaturale (es.: film comici). I dialetti vengono riprodotti
evidenziando, anzi estremizzando, i rispettivi tratti peculiari e distintivi nelle produzioni

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cinematografiche più esilaranti a partire dagli anni ’80, come il napoletano di Troisi, il
toscano rurale di Benigni, il romanesco di Verdone, il milanese di Pozzetto ecc. Si tratta
dello stesso meccanismo di ipercaratterizzazione delle commedie pavane
cinquecentesche di Ruzante o della Nencia da Barberino di Lorenzo de’ Medici ecc..
Questo uso caricaturale dei dialetti caratterizza anche il fenomeno, iniziato alla fine
degli anni ’70, del cabaret, che però in parte era già stato anticipato dalle trasmissioni
d’avanspettacolo già negli anni ’60: brevi monologhi comici che, partiti dai locali
milanesi e romani, conquistano poi il mondo della televisione (Zelig, Colorado Cafè),
del teatro e del cinema (dai primi film di Verdone a Checco Zalone).
Parallelamente, si sviluppa anche il fenomeno dei doppiaggi parodistici, che ha una sua
evoluzione interna. All’inizio esso riguarda il cinema (es.: il cartone animato Gli
Aristogatti) e la tv (es.: I Simpson) e consiste nella traduzione, più o meno fedele, della
sceneggiatura originale, in cui all’italiano si alternano sprazzi di dialettalità a scopi
umoristici: il gatto Romeo de Gli Aristogatti parla in romanesco1, mentre ne I Simpson il
bidello scozzese, il poliziotto e l’amico afroamericano di Homer hanno rispettivamente
accenti, forme e lessico sardi, napoletani e veneziani.
Negli ultimi anni l’arte del doppiaggio parodistico si è diffusa sul web con una
differenza sostanziale: si tratta di una finta traduzione, che stravolge il contenuto
originale trasformando in un siparietto comico una sceneggiatura che in origine non lo
era. Oltre alle parodie di film, specialmente su Youtube si trovano quelle di cartoni
animati, telefilm, canzoni, programmi televisivi, interviste ecc. Oltre alle finte traduzioni
in italiano, spesso e volentieri i doppiaggi parodistici avvengono in una varietà dialettale
o in un italiano fortemente connotato in senso regionale. Un esempio sono gli episodi di
Peppa Pig, che in dialetto veronese diventa Pepa Porsela2, e il doppiaggio parodistico
del film Dracula che diventa un esempio comico dell’ospitalità ligure3.

1 Vedi ad esempio https:/ / www.youtube.com/ watch?v=3Eab73Xy58Q .


2 https:/ / www.youtube.com/ watch?v=ybDkn6T5tG0 .
3 https:/ / www.youtube.com/ watch?v=1t_Eyl6jXsk .

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2. Il dialetto “studiato” dai comici

Dalla comicità in dialetto alla comicità sul dialetto


Da quanto finora è emerso risulta evidente che i comici hanno sempre usato il dialetto
come mezzo per dare colore alle battute. Il meccanismo consiste in una sorta di pseudo-
realismo linguistico che, in realtà, è lingua riflessa, ipercaratterizzata e quindi
intrinsecamente comica: una barzelletta o un aneddoto giocoso, se raccontati con un
accento regionale o in dialetto, ricevono un surplus di comicità, specialmente se
l’argomento in questione riguarda proprio gli usi e costumi, i vizi e le virtù degli abitanti
di una certa città o regione.
Ma negli ultimi tempi, ovvero da alcuni decenni a questa parte, e soprattutto dopo il
Duemila, si sta facendo strada un fenomeno nuovo: diversi comici presentano
monologhi che non hanno a che fare con i dialetti semplicemente perché recitati in
dialetto ma perché hanno nel dialetto l’OGGETTO stesso della comicità.
Osservando tale novità in una prospettiva socio-linguistica, si può affermare che
l’argomento ‘dialetto’, accanto all’effetto principale di far ridere, ha un effetto
collaterale: l’analisi pseudo-scientifica di fenomeni linguistici ed extralinguistici
riguardanti la struttura e l’uso delle varietà dialettali. Questa analisi, anche quando
inconsapevole, anche se completamente priva di conoscenze derivanti da istruzione
accademica, spesso finisce per cogliere le stesse questioni del linguista basandosi solo
sull’osservazione, sull’ascolto, sulla sensibilità e sulle capacità riflessive del comico
stesso.

I principali comici - linguisti


Ad un primo sondaggio risulta poco significativa la distinzione tra chi parla di dialetti in
generale e chi si concentra su un singolo dialetto, anche perché alcuni comici hanno nel
7
loro repertorio pezzi diversi in cui si cimentano in entrambe le possibilità (es.: Enrico
Brignano) e alcuni si pongono a metà strada perché trattano le varianti locali di una
singola regione (es.: Pino Campagna con la Puglia).
Piuttosto, sarà opportuno distinguere le seguenti due tipologie di comici che nelle
proprie esibizioni parlano dei dialetti o di un dialetto: 1 quelli che usano
quest’argomento come pretesto per imbastire una scenetta divertente senza la pretesa di
fare dei discorsi realistici; 2 quelli che, pur avendo e raggiungendo il medesimo
obiettivo di provocare le risate dell’uditorio, denotano una consapevolezza delle
questioni legate al dialetto tale da indurre osservazioni piuttosto interessanti.
Semplificando al massimo questa divisione, si può affermare che alcuni comici hanno
creato delle finte lezioni di dialetto (o sui dialetti), altri delle lezioni vere e proprie.

Per quanto riguarda il primo insieme, forse si può individuare come apripista di questo
sottogenere cabarettistico il trio Aldo, Giovanni e Giacomo.
Già ai tempi della trasmissione televisiva Mai dire gol, Aldo, Giovanni e Giacomo
impersonavano tre improbabili sardi i quali, tra i tanti luoghi comuni legati a questa
regione, si occupavano di questioni linguistiche, sostenendo, con esempi fittizi, che il
sardo è una lingua (mentre l’italiano è un dialetto) perché ha una parola per qualsiasi
tipo di referente, senza bisogno di ricorrere a perifrasi4.
Nella più recente tournée teatrale Tel chì el telun, il trio ricavava uno spazio “culturale”
per finte lezioni di siciliano5 in cui un sedicente esperto (impersonato da Aldo) che ben
presto si rivela un millantatore, anziché tradurre in siciliano i brevi dialoghi che gli
vengono sottoposti, improvvisa lunghi litigi (tra madre e figlio, tra vicini di casa ecc.) in
italiano, che del siciliano hanno solo la cadenza.

4 Es.: https:/ / www.youtube.com/ watch?v=jdlbyraFBV4 .


5 Es.: https:/ / www.youtube.com/ watch?v=XllqjH619fE
8
In entrambi i casi si tratta di finte lezioni di dialetto, una sorta di topos su cui costruire
l’effetto comico. Pur costituendo delle negazioni della dialettalità, da tali lezioni,
involontariamente, emergono tuttavia dei temi reali: il riconoscimento come lingua del
sardo per la sua specificità strutturale (specialmente fonetica e lessicale), che consente al
finto insegnante di inventarsi delle parole senza rischiare di essere smentito; il contesto
d’uso informale del dialetto che, come si è ricordato sopra, anche in una fase di regresso
torna utile per la sua maggiore espressività in situazioni che presuppongono confidenza
tra gli interlocutori.
Lo stesso schema, ovvero la finta lezione dialettale basata su “traduzioni” dall’italiano
che costituisce il presupposto per una serie di battute, viene riproposto da Enrique
Balbontin nel suo format Sì, io parlo savonese 6 ospitato nelle trasmissioni televisive
Bulldozer e Colorado Cafè. Tali traduzioni, in realtà,come nel siciliano di Aldo,
esprimono i concetti della frase di partenza in italiano regionale, con delle rese molto
libere, basate su metafore e similitudini gergali a volte brillanti a volte di cattivo gusto; il
tutto mostrando un cartello con le ultime parole della traduzione rappresentate con segni
alfabetici “strani” (lettere accentate, sbarrate ecc.).
Anche in questo caso, però, da tali sketch emergono degli aspetti tutt’altro che avulsi
dalla riflessione scientifica sui dialetti. Innanzitutto il problema della standardizzazione,
ovvero il drastico regresso dei dialetti in alcune regioni (a cominciare proprio dalla
Liguria), in cui per le ultime generazioni, così come per il nostro docente di savonese, la
parlata locale di fatto coincide con l’italiano regionale e il concetto di dialetto si
confonde con quello di italiano popolare. Inoltre Balbontin, sebbene di fatto non utilizzi
autentico lessico dialettale, nel modo di pronunciare le parole evidenzia l’esistenza, nelle
varietà liguri, di vocali arrotondate (o palatali). Inoltre i suoi cartelli denotano la
consapevolezza dell’esistenza di differenze nel repertorio fonologico di una varietà
locale rispetto all’italiano e dell’esigenza di ricorrere a un alfabeto «fonetico».

6 Es.: https:/ / www.youtube.com/ watch?v=LqmRMCXAprs .


9
Concludiamo questa prima parte della breve rassegna di comici linguistici con due
monologhi, molto simili nella struttura, di due distinti comici: Pino Campagna 7 e
Gennaro Calabrese8.
Il primo fa una dissertazione per dimostrare che la gente va in Puglia per imparare le
lingue del mondo e, facendo leva su esempi scelti ad arte per ottenere determinati effetti
fonici, “dimostra” che a foggia si parla l’arabo, a Barletta il francese, a Molfetta
l’inglese, a Bari nuova l’inglese U.S.A., a Bari vecchia il polacco, in provincia di Lecce
il giapponese e a Bitonto il tedesco. Il secondo allarga la prospettiva a livello nazionale e
sostiene che molte lingue del mondo sono state inventate in Italia facendo leva su
analogie nell’intonazione tra il giapponese e il napoletano, l’inglese e il romanesco, il
russo e il torinese, il portoghese del Brasile e il genovese, il francese e il pugliese,
l’arabo e il calabrese.
Se in quest’ultimo caso non c’è granché da rilevare oltre alle percezioni fonetiche basate
sull’intonazione di dialetti e lingue, il monologo di Pino Campagna è senz’altro
linguisticamente più interessante in quanto le percezioni fonetiche che egli condivide
con il pubblico sono basate su effettivi tratti del sistema vocalico delle varietà pugliesi
alto-meridionali, con la presenza, a livello locale, di varianti del sistema panromanzo:
dittongazioni, inversioni di medio-alte e medio-basse, centralizzazioni di vocali atone
anche non finali.

Il secondo gruppo di comici-linguisti si distingue perché rivela, accanto a spiccate doti


teatrali e comiche, un’acutissima sensibilità linguistica e una notevole lucidità
nell’interpretare determinati fenomeni socio-linguistici.
Iniziamo da Carlo Verdone, che ha iniziato la sua carriera proprio come autore e
interprete di brevi sketch già alla fine degli anni ’70 ma che, a quanto mi consta, si

7 https:/ / www.youtube.com/ watch?v=cDH4Vf8qCAQ .


8 https:/ / www.youtube.com/ watch?v=amuErtr_GPw .
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cimenta per la prima volta in una riflessione sul dialetto in epoca più recente e in un
ambito un po’ diverso da quello finora trattato: una scena del film Italians di Giovanni
Veronesi del 20099 in cui il personaggio da lui interpretato tiene una lezione sulle varietà
linguistiche d’Italia a un pubblico straniero composto principalmente da bambini.
Ne viene fuori una macro-classificazione delle aree dialettali che, a parte qualche
omissione, di fatto ricalca quella di G.B. Pellegrini: area settentrionale, Toscana, area
mediana, Meridione intermedio, Meridione estremo, sardo; inoltre, per ogni area
Verdone fa degli esempi significativi (un po’ come Dante nel De vulgari eloquentia) o
cita esplicitamente un tratto linguistico caratteristico e distintivo, rifacendosi
implicitamente al concetto di isoglossa:
-Area settentrionale. Di fatto Verdone si riferisce all’area gallo-italica, con espressioni
che evidenziano le vocali arrotondate e l’apocope.
-Toscana. Per quest’area viene descritta la cosiddetta gorgia di cui, con parole semplici
(“i Toscani certe parole non riescono a dirle bene”), si specifica che si tratta di un
fenomeno non fonologizzato.
-Roma. Benché non rappresenti perfettamente l’Italia mediana non toscana, è pur vero
che la capitale costituisce un polo di attrazione per le varietà dell’alto Lazio,
dell’Umbria meridionale e delle Marche occidentali, che ne sono fortemente influenzate.
Del romanesco si segnalano in realtà tratti sovrasegmentali come l’intonazione e il
volume; quindi viene delineata una varietà, sostanzialmente identificabile con l’italiano
popolare, che, come sosteneva nell’’800 il poeta G. Belli, non è più dialetto ma neppure
lingua.
-Campania, Napoli. Si tratta del principale centro di attrazione e innovazione linguistica
dell’alto Meridione. Nella scena in questione Verdone ne mette in evidenza
esplicitamente la componente pragmatica (la gestualità) ma, negli esempi, sottolinea

9 https:/ / www.youtube.com/ watch?v=GnXrGL-hBl4 .


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tratti tipici e distintivi dell’intera macro-area quali la dittongazione metafonetica in
sillaba chiusa e la centralizzazione di vocale finale.
-Sicilia. Qui l’analisi è molto netta: si cita il tipico esito LJ > [gj] (figghio, famigghia
ecc.).
-Sardegna: Per la parlata di questa regione si fa riferimento alla geminazione
consonantica (sedutto), che in realtà è un ipercorrettismo dell’italiano regionale sardo,
per la tendenza all’indebolimento (sonorizzazione e/o spirantizzazione) delle occlusive
intervocaliche; ma anche se si tratta di una dialettalità secondaria, anche in questo caso
non si può dire che non sia stata centrata una reale ed effettiva questione linguistica.
Molto meno famoso ma ancora più interessante dal punto di vista linguistico è il comico
Enzo Fischetti con la sua lezione di napoletano 10 , che esplicita una serie di pseudo-
regole che, pur essendo in gran parte non condivisibili, indicano in modo nascosto quelle
che sono delle effettive generalità delle varietà campane. È significativa anche questa
trovata di individuare delle generalità un po’ assurde (ovviamente con lo scopo di far
ridere!), come “le g- iniziali spariscono”, “le s- iniziali diventano n- con l’apostrofo”, “il
verbo eccere”, che ricorda il processo di rianalisi (reinterpretazione di una regola),
ovvero uno dei fattori di evoluzione linguistica che, come l’analogia, il prestito e
l’etimologia popolare, fanno inceppare e rendono meno prevedibile il meccanismo di
evoluzione regolare basato sull’applicazione inconsapevole e acritica di leggi fonetiche
che era stato individuato dai Neogrammatici.
La dissertazione di Fischetti parte dal corretto presupposto che il dialetto, dal punto di
vista strutturale, è una lingua a tutti gli effetti, con una propria grammatica e dei parlanti
nativi che ne hanno competenza. Tale grammatica, intuita ed esposta da Fischetti, tocca
un po’ tutti i livelli della struttura linguistica e individua con precisione effettivi tratti
peculiari del napoletano:

10 https://www.youtube.com/watch?v=zbATu5QyNGg .
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Fonologia. Esito di PL > [kj] (chiove, chiagnere, chiummo). Confluenza di G davanti a
vocale palatale e di DJ iniziali in [j] (jennero, juorno). Vari tipi di indebolimento:
dileguo di [g] intervocalico con ripristino in [j] o [v] (a jatta ‘la gatta’, pavà ‘pagare’);
aferesi di [i] nel prefisso (I)N- (‘n coppa, ‘nzurato ‘sposato’, lett. ‘in giurato’); apocope
sillabica dell’infinito (ì ‘andare’, lett. ‘ire’); centralizzazione delle vocali finali (pàt t
‘padre tuo’) e semplificazione di nessi consonantici (TR >[t]) con eccezioni dovute a
fonosintassi (padr ‘e chille).
Morfosintassi. Raddoppiamento di aggettivi e avverbi per rendere l’intensificazione
semantica (mo mo ‘proprio adesso’). Tripartizione deittica degli avverbi di luogo con
pronome enclitico (i corrispettivi dell’italiano ‘eccolo, eccoli’) che crea una flessione
“pseudo-verbale” perché composta da sei forme distinte. Aggettivo possessivo in enclisi
al nome (pat m ‘mio padre’).
Lessico. Espressioni metaforiche sintetiche che rendono con una parola un concetto che
in italiano deve essere spiegato con una perifrasi. Quest’idea che i dialetti siano più
sintetici dell’italiano è quasi un topos, lo stesso usato dal trio nella gag dei sardi (vedi
sopra) e, tra gli altri, dal compianto Gigi Proietti in un suo spettacolo di qualche tempo
fa a proposito del romanesco. Certamente, anche in questo caso, qualcosa di vero c’è:
essendo l’italiano l’esito di una codifica letteraria avvenuta nel Cinquecento che ha
generalmente escluso le espressioni gergali della lingua parlata, le varietà retrocesse al
rango di dialetto, compreso il toscano parlato, hanno sicuramente mantenuto questa
caratteristica che l’italiano per sua natura possiede in quantità inferiore.
Concludiamo questa rassegna con Enrico Brignano, il comico che forse più di tutti ha
dimostrato, nelle sue battute, di saper cogliere con grande lucidità fenomeni linguistici
ed extralinguistici riguardanti i dialetti.

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È imperdibile il suo monologo sui dialetti11 che, dopo una premessa “teorica” in cui egli
dichiara che l’italiano è una lingua malata perché figlia di lingue morte, perché pervasa
di anglismi e francesismi e soprattutto perché trascurata a vantaggio dei dialetti, sfocia in
una performance teatrale da attore consumato in cui, senza dire sostanzialmente nulla,
riproduce un po’ tutte le varietà della penisola passando in modo sfumato dall’una
all’altra. Al netto di alcune imprecisioni, questo monologo tocca diverse questioni reali:
-Le varietà italo-romanze sono dialetti primari: esito dell’evoluzione diacronica da una
lingua madre rispetto alla quale hanno subìto un cambio di tipologia e costituiscono uno
stacco. Ciò è detto a proposito dell’italiano ma riguarda anche (e soprattutto) i dialetti.
-La standardizzazione dovuta ai prestiti dalla varietà di prestigio; anche questo è detto a
proposito dell’italiano ma il discorso vale anche per i dialetti che subiscono l’influenza
dell’italiano.
-L’interferenza dei dialetti sull’italiano. Apparentemente Brignano, dicendo che
l’italiano è vittima dei dialetti, sembra dire un’inesattezza; tuttavia è indubbio che
l’italiano standard è quasi estinto proprio perché in realtà gli italiani parlano tutti una
forma più o meno colta di italiano regionale che risente di tratti fonetici, morfosintattici
e lessicali della varietà dialettale soggiacente.
-Uso del dialetto in contesti colloquiali, informali e per evidenziare alcuni concetti.
Brignano, soprattutto nella parte della sua performance in cui imita romanesco, campano
e siciliano, adotta un tono litigioso, cioè un tipo di comunicazione decisamente
informale e colloquiale; oppure, sempre con il siciliano e con il sardo, accenna un’altra
forma di espressione informale che è il canto popolare. Inoltre, quando dice che per
spiegare meglio le cose gli italiani usano il dialetto, Brignano coglie il fatto che, anche
dove l’uso del dialetto è limitato, esso compare in casi di code-switching per “dare
colore” e espressività alla frase.

11 https://www.youtube.com/watch?v=HU1S76fx-ZM
;https://www.youtube.com/watch?v=_VFV5D1JLAM .
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-La frammentazione dialettale. Nella sua introduzione, il comico romano afferma che i
dialetti sono tantissimi, iniziano entrando in un paese e finiscono subito dopo. Dicendo
ciò egli sembra far riferimento alla distinzione tra dialetto di koinè e dialetti locali
all’interno della quadripartizione del repertorio linguistico degli italiani di Pellegrini.
-Il continuum linguistico. La bravura attoriale che Brignano sfoggia nel passare da un
dialetto a un altro senza stacchi bruschi sottolinea un concetto cardine della Dialettologia
italiana: l’impossibilità di stabilire dei confini netti tra aree dialettali perché località
contigue hanno generalmente (tranne in corrispondenza di confini naturali, dove passano
i fasci di isoglosse) la quasi totalità dei tratti linguistici in comune e il cambiamento si
percepisce solo a grande distanza.
Di Enrico Brignano vale la pena citare anche un breve passaggio del suo lungo
monologo sul matrimonio, all’inizio della seconda parte (2/3) 12, dove il comico fa la
parodia della cerimonia di nozze in chiesa. Oggetto della sua bonaria ironia è il
sacerdote meridionale13 che sbaglia le vocali finali delle parole perché, come spiega il
comico con estrema disinvoltura, non è abituato a usarle perché da Frosinone in giù in
dialetto la vocale finale non si pronuncia mai. In questa gag, quindi, Brignano spiega
con parole semplici ma esatte il fenomeno della centralizzazione della vocale finale nei
dialetti alto-meridionali. Inoltre egli comprende appieno l’essenza del concetto di
italiano regionale, generato dall’interferenza dialettale sull’italiano parlato in una
determinata regione.
Infine, di Enrico Brignano, citiamo la partecipazione a una trasmissione di Serena
Dandini in cui egli fa delle interessanti considerazioni sul romanesco14. L’attore osserva
che questa parlata nel corso del tempo è cambiata, nel senso che si è livellata, ha perso
molti tratti caratteristici, perché è la lingua italiana del cinema. Questa sua ricostruzione

12 https://www.youtube.com/watch?v=QwfMyc8wR5o .
13 In uno di questi spettacoli Brignano fa notare che i sacerdoti italiani sempre più spesso sono stranieri o del sud
Italia.
14 https://www.youtube.com/watch?v=yKeRxexzrOw .
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è degna di considerazione: la storia dei volgari italiani mostra proprio che, quando
qualcuno di questi viene adottato come lingua di cultura (i volgari illustri nel Medioevo,
il veneziano con l’espansione della Repubblica Serenissima verso l’entroterra, il
fiorentino dell’Ottocento ecc.), esso si diffonde, si preserva ma al tempo stesso, essendo
diventato patrimonio di una comunità più ampia composta da persone che non ne hanno
una competenza nativa, esso si modifica livellandosi e cristallizzandosi in frasi fatte,
gergali ecc. Infatti di seguito Brignano critica l’uso eccessivamente gergale e
stereotipato che molti romani fanno del loro dialetto, specialmente in contesti informali
che, acutamente, egli identifica non nella famiglia (dove i romani parlano in modo anche
troppo forbito) ma nelle compagnie di amici. Questo discorso evidenzia con grande
acume il concetto di diglossia, ovvero la differenziazione del registro (italiano – dialetto
ma anche italiano sorvegliato – italiano popolare o dialetto “pulito” – dialetto “volgare”)
sull’asse diafasico, in base alla situazione, all’argomento, agli interlocutori.

Questo primo sondaggio sui “comici – linguisti” è provvisorio e potrà essere certamente
integrato e corretto con altri contributi. Tuttavia esso mostra abbastanza chiaramente
come, in un importante settore della culturale popolare contemporanea italiana, quello
degli attori comici, sussista un rinnovato interesse per il mondo dei dialetti che fa ben
sperare per quanto riguarda la permanenza, per gli anni a venire, dei dialetti stessi
all’interno del patrimonio culturale degli italiani.

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