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Gli atti del convegno su Lingua e stile di Giacomo Leopardi (Firenze, Olschki, 1994)
costituiscono una prova della differenza, vigente in àmbito ferroviario, tra stazione di testa
(richiamo antidinamico, immagine della fine d’un viaggio) e stazione di transito: alla seconda
specie, ed è un bene, appartiene un volume che, nel presentare il coagulo scientifico di ampie e
convergenti indagini sul Leopardi linguista, metalinguista ed elaboratore in proprio di materiali
letterarî, apre (o riapre), com’era negli auspici, una serie di problemi che davvero legittimano una
così prestigiosa segnalazione collettiva. Le acquisizioni e i risultati di questo convegno
rappresentano un momento importante della critica leopardiana, non soltanto (ma già molto
sarebbe) perché tale approdo è frutto di lunghi e rigorosi itinerari di ricerca, di protratti esercizi di
fedeltà metodologica, ma anche, e direi principalmente, perché la ricchezza di stimoli culturali
fornita da queste relazioni, ivi comprese quelle brevi, sarà fonte, lo prevediamo, d’ulteriori e
rinnovate prospettive di sondaggio; sarà, insomma, mappa d’accesso a percorsi di ricerca e di
riflessione che ancora invitano i leopardisti ad un intenso impegno teorico ed applicativo. Una
stazione, per rimanere nella metafora locomotoria, che serve a programmare la nuova partenza, non
meno che a riconsiderare il tragitto già compiuto.
Il succedersi delle relazioni è governato da una fitta serie d’incrociati rinvii (esemplare in tal
senso la ricorrenza di quell’autentica linea conduttrice del Leopardi linguista che è
l’antifrancesismo); l’organicità del volume è insomma favorita dall’unità strategica che qualifica
l’esperienza artistico-intellettuale leopardiana. Ma i singoli affondi di ricerca, suddivisi per area e
per angolazione, manifestano, ciascuno in base al proprio statuto di specialistica peculiarità, una
sostanziale autonomia di procedimento e di scrittura. Le grandi linee tendenziali della linguistica e
della prassi d’arte (poetica e prosastica) sono così ricostruibili a partire dalla molteplicità d’approcci
metodologici, dai loro grafici disciplinari non sovrapponibili se non per aree di parziale
coincidenza. E va rimarcata la continuità teorica e operativa nella quale ogni studioso inserisce il
suo contributo; di più, un rilievo assai intrigante per la comunità scientifica (che già annovera nel
proprio patrimonio cognitivo gli esiti di ricerca di Nencioni, di Dardano, di Gensini e degli altri
convegnisti) è costituito dalla dimensione mista e variabile (e pur sempre organica) delle relazioni
tenute: ora esse sono l’ampliamento di precedenti apporti di ricerca, ora sono la sintesi di lavori
leopardiani di più vasto impianto e di più complessa e dettagliata progettazione. Anziché la
prerogativa d’unicità di questo opus magnum di studî sulla lingua e sullo stile leopardiani
(prerogativa che pure il volume olschkiano può legittimamente rivendicare), preferiamo insomma
sottolineare, e convintamente, il suo ruolo d’importante tramite fra passato e futuro delle indagini
scientifiche su Leopardi. Grande giovamento dunque proverrà, a leopardisti e non, da questi Atti,
che, già nell’articolazione dei contributi, centrano davvero il punto di equilibrio, l’ubi consistam di
due forze tra loro differenti, sì, ma indispensabilmente sinergiche: da un lato, una sintesi
d’orientamenti e d’esperienze applicative passate e contemporanee su concetti e strumenti
linguistici del Recanatese, e dall’altro, ma in un legame di amalgama fortemente coeso,
l’indicazione del molto che c’è ancora da fare in aree di studio e con metodi di lavoro che
l’avvenire del leopardismo dovrà necessariamente coltivare. Per dire in anticipo di due palesi
urgenze di ricerca, ricorderemo l’ulteriore, auspicabile approfondimento del legame di Leopardi con
le concezioni linguistiche del materialismo sensistico sei-settecentesco e, insieme, la realizzazione
delle Concordanze zibaldoniane, opera attesa da tutti (ma si rinvia alle parole di Giovanni Nencioni,
a p. 20 degli Atti ).
Il volume, insomma, può essere fruito anche come rassegna del nostro più recente leopardismo,
considerato in alcune delle sue più insigni figure. E in nota insistono, insieme a quelli di altri, i nomi
degli anticipatori o degli iniziatori di varie linee di ricerca: da Giuseppe a Domenico De Robertis,
da Fubini a Binni, da Bolelli a Peruzzi a Timpanaro. Ci si poteva aspettare, semmai, una maggiore e
più frequente presenza bibliografica di Gianfranco Contini1. I suoi interventi su Leopardi2, con il
loro valore fondamentale e in parte istitutivo nella definizione della critica variantistica italiana,
conservano un intatto significato d’incertamento e d’inveramento delle dinamiche linguistiche della
poesia, e non soltanto di quella di Leopardi; basti un accenno alle Implicazioni, alla distinzione,
certo non preclusa a reciproche osmosi, d’interventi linguistici provocati da contiguità
sintagmatico-contestuale e d’interventi dovuti alle “istituzioni” grammaticali e semantiche
dell’autore: tale distinzione supera le ragioni dello stile o della pura fonologia timbrica, rendendo la
lingua fattore genetico-istitutivo d’interni riequilibrî lessicali e versificatorî, e talvolta addirittura
causa “superiore”, come esterno modello paradigmatico, preesistente «incartamento memoriale» (o,
se si preferisce, «tic espressivo» d’individuale cultura, come lo chiamerebbe Isella), di scelte e
d’opzioni, di selezioni e d’acquisti poetici. La ricostruzione del percorso volontà artistica -
esecuzione linguistico-correttoria, nelle intuizioni (in questo caso leopardiane) di Contini, deve
spesso, e come persuasivamente, capovolgersi in una direzione lingua-stile, ovvero lingua non quale
conseguenza o complemento oggetto, insomma natura naturata, bensì quale ratio di sistema
artistico-creativo, essa stessa sistema d’una natura naturans. E la stessa lingua è, nel tramando
metodologico di Contini, veicolo di dinamizzazione degli studî sulla testualità leopardiana: una
dinamizzazione non diremo storica, ma “diacronica”, armonizzata, quindi, con l’interno ritmo
temporale dell’arte dello scrittore. La poliedricità di ruolo della lingua illumina molteplici sfere
disciplinari: accertamento stilistico, filologia delle varianti, cultura letteraria, e via scrivendo.
Proprio il convegno recanatese esibisce una possibilità di ricerca a trecentosessanta gradi su un
Leopardi che in questo senso si palesa come terreno culturale fecondo, poderosamente complesso e
insieme delicato, anche per le future analisi. Il riferimento continiano può, del resto, essere sotto
molti profili sottinteso: tuttavia l’esemplarità continiana rimane largamente sfruttabile ed
estensibile, se non altro come indiretta e distillata sollecitazione metodologica.
Al tema del convegno si dedicano, dunque, competenze scientifiche plurime: linguistica e storia
della linguistica, italianistica ed esegesi letteraria, metricologia, filologia classica, lingue e
letterature non italiane, antiche e moderne. Nelle Relazioni brevi, anticipiamolo, si desidererebbe un
capitolo su “Leopardi e la lingua francese” (mentre vi sono i contributi di GIANCARLO BOLOGNESI su
Leopardi e l’armeno. Le «Annotazioni sopra la Cronica d’Eusebio», di GIUSEPPE E. SANSONE su
Leopardi e la lingua spagnola e di MARÍA DE LAS NIEVES MUÑIZ MUÑIZ su Lo stile dei «Canti» in
spagnolo, di GABRIELLE BARFOOT su Leopardi e la lingua inglese, di GAIO SCILONI su Leopardi e
l’ebraico, di HELMUT ENDRULAT sulle Esperienze di un traduttore dei «Paralipomeni»). Ma
numerosissimi e significativi sono i riferimenti al francese nel testo di molte relazioni (ad esempio,
in quelle di Gensini e di Moreschini); se ne evince, insieme ad altri concetti, quello, basilare, del
giudizio negativo che Leopardi emette su una lingua codificata in pieno esprit de geometrie e
parametrata sui presupposti, sulle sillogistiche “premesse maggiori” della Grammaire di Port-
Royal: la sua orologeria razionalistico-analogistica ne fa un perfetto strumento, ma strumento, in
buona misura rapportabile ai congegni di rigida gerarchizzazione sintattica del latino e
contrapponibile (oltre che all’italiano) all’inglese, lingua «colta per indole e per fatto la più libera di
tutte». Anzi, l’italiano è libero «per natura, ma non per fatto», mentre il francese non lo è «né per
natura né per fatto», ed è addirittura «la più timida serva [...] di tutte quante le lingue antiche e
moderne, colte e incolte»3. La ricorrenza del pattern comparativo di italiano (o inglese) da una
parte, e francese dall’altra, avrà un riscontro, come si potrà vedere, in un altro pattern (latino-
greco), che annovera il greco come lingua ammirata senza eccezioni ed oggetto d’un culto
argomentatamente espresso e sostenuto da profonda conoscenza letteraria. Notevolmente intensa, si
potrebbe aggiungere, anche l’ammirazione per il sanscrito («sascrito», nel lessico di Leopardi),
lingua qui non presente come oggetto di singolo paragrafo di ricerca; ma si può citare, quale
riferimento recente, GHAN SINGH (autore in questi Atti d’un breve intervento su Leopardi e lo stile
poetico), che in suo articolo intitolato Leopardi e l’India4 si sofferma sull’apprezzabile conoscenza
che Giacomo ebbe dell’antico idioma; il motivo principale dell’interesse risiedeva, non a caso, nella
relazione tra il sanscrito da una parte e, dall’altra, la lingua latina e la lingua greca5.
Veniamo alla sostanza degli Atti, ovvero dello sforzo più imponente che si sia finora compiuto
per inquadrare la lingua e lo stile “di” Giacomo Leopardi. Ma il titolo promette forse un po’ meno
di quanto il volume olschkiano riesca a dare. Al Leopardi produttore e, per così esprimersi,
operatore testuale (e già qui sono incluse poesia lirica, poesia satirica, prosa d’arte, prosa epistolare,
prosa zibaldoniana), si unisce infatti il Leopardi studioso, il letterato che mira anche (e sia pure con
uno scopo che, spesso, è di carattere personale, privato e autocomunicativo) a determinati contenuti,
a una precisa concrezione scritta delle riflessioni che le letture gli suggeriscono. La fisionomia
intellettuale del Leopardi studioso è in questi atti particolarmente messa in luce e rigorosamente
esaminata: ne risulta che il teorico e l’operatore, il filologo-linguista e l’erudito nell’antichistica non
sono disgiunti dal supremo artigiano lirico della materia memoriale, dell’αρετη agonistico-eroica,
della disperata filosofia che rilancia un laico e non teleologico messaggio proprio nel momento più
alto del pessimismo cosmologico e antropologico. Il centro del compasso d’indagine è questa volta
lo studioso; e l’ingente laboratorio culturale rappresentato dallo Zibaldone (la cui edizione a cura di
Giuseppe Pacella è uscita nel 1991, a stretto ridosso della data in cui il convegno si è materialmente
tenuto), insieme, è ovvio, alle altre opere, fornisce non soltanto l’immagine, già affermatasi, d’un
Leopardi filologo, ma quella d’un «filosofo» che si definisce soprattutto sul piano della filosofia
linguistica: più che di filosofo e linguista, parlerei esattamente della figura, che lo Zibaldone ci
restituisce, d’un “filosofo linguista”. E nel sintagma la figura del filosofo s’avvantaggia non meno
dell’altra, poiché il concetto di lingua come principio formatore di conoscenza acquista Leopardi
alla linea di riflessione materialistico-sensistica del Sei-Settecento. Più volte, infatti, ritorna il nome
di Locke come formulatore, nel III libro dell’Essay, della validità gnoseologica delle operazioni
linguistiche umane: il generale e l’universale sono invenzioni e creature dell’intelletto, realizzate
ad uso di questo, e riguardano soltanto segni, ovvero parole e idee (per parafrasare Essay, III, 11). La
lingua riveste insomma una funzione prioritaria nella produzione, non soltanto nell’articolazione
del pensiero: «il materialismo leopardiano ha un’origine gnoseologica e linguistica», scrive
MAURIZIO DARDANO (p. 30), nel suo contributo intitolato Le concezioni linguistiche del Leopardi. La
definizione di filosofo linguista costituisce davvero un’acquisizione notevole della recente
leopardistica; e grosso merito di questo convegno è quello d’averla codificata in modo
inequivocabile. In quest’ottica, ogni sottolineatura, peraltro doverosa, dell’arretratezza di certi
riferimenti bibliografici, dei limiti obiettivi che il Recanatese si trova di fronte, si ribalta, direi
automaticamente, in un riconoscimento della grandezza, della genialità leopardiana nel superare la
“siepe” dell’erudizione con una vis intuitiva che riesce a divinare alcune delle successive conquiste
della scienza linguistica. Ancora Dardano, ed è solo un esempio, ricordando uno spunto di Lo
Piparo sulla lettera a Giordani del 13 luglio 1821, rileva che il progetto del Parallelo delle cinque
lingue (greco, latino, italiano, francese, spagnolo) «ponendosi nei campi della storia e
dell’antropologia, presuppone una teoria generale del linguaggio» (p. 29). La concezione linguistica
di Leopardi, quindi, oltre ad evincersi dalla produzione propriamente artistica, è indagabile
nell’àmbito della prosa dello Zibaldone, come in quella, diremo così, saggistica, e in genere nella
prosa di studio. Leopardi è anche un competente e scrupolosissimo studioso della lingua altrui: ecco
perché scrivevamo che il titolo promette meno di quanto in realtà il volume offra. Le relazioni si
soffermano sul Leopardi linguista e sul Leopardi creatore: ebbene, il filosofo, e in particolare il suo
nucleo legittimante ed originario, ovvero il filosofo-linguista, può ambire, oltre che alla titolazione
di «Lingua e stile di Giacomo Leopardi», alla titolazione, questa sì omnicomprensiva, di “Lingua e
stile in Giacomo Leopardi”. Sarebbe un modo, se non m’inganno, di rendere completo onor di
dizione a Leopardi e a quell’autentica costellazione della leopardistica internazionale che vediamo
orbitare in questi Atti.
Delle Relazioni presenti nel volume, a quella introduttiva di GIOVANNI NENCIONI, Fatti di lingua e
di stile nelle correzioni autografe dello «Zibaldone» (visti in fotografia) e a quelle incentrate sui
concetti linguistici generali (il citato contributo di Dardano e in parte quello di STEFANO GENSINI,
Leopardi e la lingua italiana) fa riscontro un gruppo di indagini sul rapporto di Leopardi con le
lingue della tradizione classico-italiana (la stessa relazione di Gensini, quindi quelle di CLAUDIO
MORESCHINI, Leopardi e la lingua greca, e di ALBERTO GRILLI, Leopardi e la lingua latina); inizia, a
questo punto, la serie di analisi sulla testualità artistica leopardiana: LUIGI BLASUCCI, Lingua e stile
delle canzoni; EMILIO PASQUINI, Lingua e stile nei «Canti» pisano-recanatesi; MAURIZIO VITALE,
Lingua e stile nelle «Operette morali» di G. Leopardi; FIORENZA CERAGIOLI, Lingua e stile nei canti
fiorentini e in «Aspasia»; MARIO MARTI, Lingua e stile del Leopardi “napoletano”; EMILIO BIGI, La
metrica dei «Canti»; FRANCO BRIOSCHI, Le lettere di Giacomo Leopardi: problemi di genere e scelte
di stile. Queste, insieme alle Relazioni brevi (di cui accenneremo più oltre), compongono l’ottavo
volume di Atti di convegni internazionali di studî leopardiani.
Illuminante la relazione di Nencioni che, fruendo dell’edizione Peruzzi dello Zibaldone, si
propone di offrire specimina dell’attività correttoria leopardiana, soprattutto di quella effettuata “a
caldo”, contemporanea al primo getto. Dagli interventi còlti «in flagrante», come scrive Nencioni,
emergono correzioni di vario tipo, da quelle nate dalla dotta memoria letteraria dell’autore
(«Driadi» sostituito con «Amadriadi», allusione mitologica richiamata dal ricordo di VERG., Ecl., X,
62 e del commento di Servio) alla modifica semantica d‘una protasi di periodo ipotetico dalla sfera
della possibilità a quella dell’irrealtà, dall’amplificazione sintattica a scopo di compiutezza logica
(ed anche d’efficace preparazione, fin dalle premesse, dello sviluppo di concetti antitetici) ai
procedimenti di «disambiguazione» (ad esempio, «odio degli altri» chiarito per genitivo oggettivo:
«odio verso gli altri»), dalle intensificazioni, dagli usi additivi e dall’inserzione d’enunciati
apposizionali ad esempi di triplicazione euritmica con ripresa della parola tema. Nello stesso modo,
vi è la ricerca di simmetria aggettivale negli ossimori (da «nessuna amara e tenera dolcezza» a
«nessuna amara e dolce tenerezza») e di simmetria nel senso d’euritmia chiastica; ma vi sono anche
esempi di mancata concordanza (serie di soggetti col verbo al singolare) e d’attribuzione di «gli»
per «le». Nencioni distingue a questo proposito tra correzioni dovute allo stile e correzioni dovute
alla grammatica; e in vista d’una ricostruzione del sistema grammaticale di Leopardi si renderanno
necessarie, come prima si è accennato, le concordanze a cui sta lavorando Fiorenza Ceragioli. Il
nome di Emilio Peruzzi, promotore d’opera così importante, ritorna come quello del curatore
dell’edizione fotografica dello Zibaldone, un’edizione di cui Nencioni sottolinea la fruibilità per il
lettore (in questa circostanza, il linguista) e, nel contempo, la differenza, l’eterogeneità rispetto a
un’edizione critica. Né una riproduzione fotografica può essere fondamento d’un processo di
constitutio textus, che impone invece al filologo interessato il concreto, direi tattile rapporto con
l’originale.
Abbiamo avuto modo d’accennare alla relazione di Dardano, che chiarisce i generali fondamenti
dell’esperienza di Leopardi linguista. Dardano compie una ricognizione degli studî che si sono
susseguiti sull’argomento, da quello di Salvatore Battaglia (che già coglieva alcune connessioni
decisive nel sistema leopardiano: rapporto tra lingua e struttura spirituale e politica d’una nazione,
contrasto fra natura e ragione, formazione dell’italiano, opposizione italiano-francese, «problema
del neologismo scientifico» e necessità di istituzione d’un lessico intellettuale europeo) a quelli più
recenti, che hanno dedicato sistematica attenzione alle note linguistiche zibaldoniane, sottraendole
all’esclusiva degli interessi estetico-letterarî e consegnadole alla competenza dei linguisti. Ma
Timpanaro6 aveva già sottolineato quanto fosse delicata un’operazione distintiva tra Leopardi
filologo e Leopardi linguista; e aveva passato in rassegna alcune considerazioni di Giacomo sul
latino volgare, sulla derivazione dell’italiano da quest’ultimo, sul «commercio» fra volgare greco e
volgare romano e su altri concetti che sarebbe impossibile non ascrivere anche all’àmbito culturale
della filologia. Non a caso il rapporto latino volgare-italiano s’era affacciato anche in un contributo
di Bolelli7, più orientato, com’è naturale, sulla trattazione linguistica: insieme ai rilievi
sull’arbitrarietà del segno e sulla tipologia delle lingue non mancano espliciti accenni ad una
concezione non unitaristica, ma anzi policentrica della realtà dialettologica italiana, una realtà
recepita da Leopardi in termini che lo assimilano alla linea di Graziadio Isaia Ascoli più che a
quella di Manzoni. L’intervento di Dardano, coerentemente con queste premesse, può soffermarsi su
altri importanti aspetti della ricezione di Leopardi linguista nella cultura italiana:
dall’individuazione, nel nome dello stesso Leopardi, d’un quadro europeo di riferimenti filosofico-
linguistici («Bacone, Locke, Vico e Leibniz, filosofi concordi nel riconoscere la funzione
condizionante della parola sul pensiero», p. 28) alla legittimazione d’una parziale continuità tra
philosophes, idéologues e la linguistica del romanticismo; dalla prospettiva interdisciplinare
(ampiamente evidenziata da Leopardi) alla sua dettagliata fenomenologia in quel «grande diario
culturale» che è lo Zibaldone; dalle note di teoria linguistica alle considerazioni sul problema
nazionale dell’italiano; dalle osservazioni tipologiche alla focalizzazione di parallelismi e differenze
tra varî idiomi (a conferma della grande vocazione comparatistica di Leopardi). Più che mai valida,
quindi, e si può dire irrinunciabile, è la connotazione leopardiana che scaturisce dallo studio di
Dardano come da quello, immediatamente successivo, di Gensini; il filosofo-linguista promuove lo
studio del meccanismo e dello spirito delle lingue ad autentica dimensione di cultura lato sensu
concepita: e la consapevolezza del tardivo sviluppo di questa linea di ricerca su Leopardi
accompagna, in parte anche segnandola, la maturazione degli studî di teoria e di storia linguistica in
Italia. Una linguistica filosofica, concetto chiave del sistema culturale e intellettuale, ma anche
etico-ideologico e civile di Leopardi, tutto è meno che un’arida e sterile vena erudita (magari
aggravata dallo scarso aggiornamento bibliografico, dato il timbro di biliare dilettantismo
filoecclesiastico degli scaffali monaldeschi), né può identificarsi in un filone d’oziose indagini
soggette ad appiattimento estetico-letterario o grammaticale-ideologico. È proprio qui che il
dibattito, nella relazione di Dardano, entra nel vivo. Riferendosi al ben noto lavoro leopardiano di
Gensini8, Dardano ne rileva il grado d’attualizzazione, a suo dire eccessivo, d’alcuni spunti offerti
dalla dottrina linguistica del Recanatese; l’interdisciplinarietà dell’epistemologia settecentesca, ad
esempio, non è assimilabile alla temperie gnoseologica del Novecento, ben altrimenti suddivisa, ma
anche parcellizzata, in una pluralità di settori scientifici; nello stesso modo, la «didattica
contrastiva» dialetto-lingua è una definizione che acquisisce a recenziore nomenclatura un
suggerimento di pedagogia linguistica contenuto nella Dissertazione (cap. XIX) del Cesari9; ed i
concetti di «registri» e di «spazio linguistico», usati da Gensini10, non appaiono, a Dardano,
omologabili al protocollo storico della concezione linguistica di Leopardi. Altre osservazioni di
Dardano concernono il legame, troppo stretto, che molti recenti studî hanno stabilito fra teorie del
linguaggio e riflessione politica.
Chiarita la situazione di complessivo progresso degli studî di linguistica leopardiana, Dardano
(insistiamo sulla sua relazione, data la virtus riepilogativa che essa mostra della recente storia critica
sull’argomento, e così si dica della virtus espositiva delle direttrici tematiche e metodologiche dei
futuri sviluppi) richiama, oltre ad un suo contributo zibaldoniano sulla formazione di parole e
composti11, la ricerca da lui iniziata sulla manualistica filosofica, sulle grammatiche e sulla
trattatistica divulgativa, soprattutto francese, a cavallo tra Settecento ed Ottocento; sono quei «testi
minori», quell’apprezzabilissimo πλαγκτον medioinformativo che ha permesso a Leopardi di
risalire per li rami da Recanati all’Europa, dall’arretratezza all’aggiornamento alla contemporaneità.
E alcuni rami sono stati superati d’un balzo anche grazie all’offerta della cultura del tempo: offerta
promiscua, microenciclopedica, sinotticamente fruibile, d’un variegato materiale disciplinare12.
Così, motivi quali l’interesse per la semantica, la polemica nei riguardi della geometrizzazione e
della dottrina dei principî comuni della mente umana e delle lingue (aspetto logicizzante che
caratterizza, in Francia, anche il sensista Condillac), e, nello stesso modo, l’analisi
dell’immaginazione, si rivelano come caratteri presenti nella pubblicistica dell’epoca, in uno
Zeitgeist culturale nel quale Leopardi è sia pure indirettamente reinseribile: un Leopardi un po’
meno isolato, insomma, e storicizzato nel rapporto con la cultura coeva in base ad una più equa
valutazione del suo contesto cronologico di riferimento. Si tratta di ricostruire un ambiente
intellettuale, come anche di chiarire le origini della filologia leopardiana, la genesi del suo primo
purismo, il suo rapporto con Perticari13; e ancora, si tratta di condurre «sistematici confronti» con
Compagnoni, con Di Breme, con Hermes Visconti. Perfino l’interesse per i verbi frequentativi e
continuativi del latino, per portare un altro esempio, ha riscontri in alcune grammatiche francesi14.
Una ricca ed aggiornata bibliografia, sia su aspetti generali sia su questioni specifiche concernenti
Leopardi linguista, accompagna il contributo di Gensini su Leopardi e la lingua italiana, un
contributo che si allinea, anche nel criterio di successione degli argomenti, all’imprescindibile
volume, già citato, Linguistica leopardiana. Inutile sottolineare l’importanza, prestigiosamente
riconosciuta, di questa “voce” della bibliografia su Giacomo. Le due fondamentali chiavi d’accesso
al pensiero linguistico di Leopardi rimangono la riflessione generale sugli idiomi e la filosofia del
linguaggio; sulla base di questa consapevolezza, Gensini articola la propria relazione in tre punti:
l’angolazione comparativa delle varie lingue, l’ideario linguistico di Leopardi sull’italiano, la
«collocazione» di Leopardi nel quadro della questione della lingua nel primo Ottocento. Grandi
fonti di queste considerazioni sono la lettera a Giordani del 13 luglio 1821 e un abbondante
campionario di pensieri zibaldoniani, sempre scritti in quell’anno decisivo per la peculiare
speculazione filosofica leopardiana. In questo senso, le acquisizioni di ricerca di Gensini
s’intrecciano, con reciproci richiami, a quelle d’altri studiosi e d’altre relazioni (e ciò conferma i
meriti di chi ha prodotto il contributo di ricerca a tutt’oggi più completo in questo settore d’indagini
leopardiane). Innanzi tutto la distinzione tra «parole» e «termini»; le prime sono «vaghe», e
suscitano, proprio in quanto radicate nel vissuto individuale e nella memoria del parlante, idee
accessorie e concomitanti, rivestendo perciò un valore creativo, istitutivo di significanza (giova
molto a questo processo la metaforicità, l’ampliamento di significato delle radici originarie, ovvero
«l’intuizione di nessi fra entità eterogenee» che non sono collegate «in re », ma, appunto, dal
linguaggio; cfr. p. 48); i termini sono invece le nomenclature tecniche, gli «europeismi» che
«identificano il massimo di convergenza d’una lingua con altri idiomi e culture» (p. 50). Peculiarità
e convergenza: sono gli aspetti entro i quali si muove ogni lingua di natura, nel suo fondo
«idiolettale» e in quello «pantolettale». Ne discende la basilare distinzione d’idiomi d’indole
popolare, formati da «parole», e lingue geometrizzanti, segnate dal prevalere della ragione, forzate
dalla società e dagli istituti letterarî alla rigida obbedienza a canoni fissati. I ricorrenti paragoni fra
greco e italiano, e tra queste due lingue e quelle “non libere” (latino e francese), s’iscrivono nella
tendenza antirazionalistica (non irrazionalistica, giustamente ricorda Gensini a p. 51) che Leopardi
costantemente manifesta a fronte delle dottrine analogistiche, ai modelli francesi della Grammaire
générale. Il francese è «un gran termine», mentre Leopardi valorizza al massimo il concetto
linguistico di popolarità, conferendogli uno sviluppo segnalato dalle definizioni, straordinariamente
illuminanti, di «familiare» e di «peregrino». Parola antica e parola popolare sono spesso estremi che
si toccano, e l’utilizzo d’una lingua autenticamente italiana non è affatto operazione limitata e
banale, bensì peregrina ed anticonformistica rispetto al forestierismo, a quell’appiattimento lessicale
che per Leopardi s’identifica nel pericolo francesizzante. Una posizione, quella leopardiana, che si
riallaccia al dinamico rapporto del Recanatese con il Vocabolario della Crusca; in lotta con la
tendenza selettiva e spesso escludente dello staccio linguistico, Leopardi non mira alla
delegittimazione del Vocabolario, ma anzi al suo allargamento, ad un Vocabolario più grande:
Giacomo è un geniale avvocato difensore del diritto di cittadinanza di parole particolarmente degne
d’ospitalità, e non soltanto nel lessico letterario. Tanto che uguale coerenza è applicata, senza
contraddizione, ma anzi in simmetrica armonia con la versione “naturale” e antiretorica del
purismo, al problema della formazione d’un lessico intellettuale europeo. La posizione di Leopardi
è, a questo proposito, saldamente attestata sull’accettazione dei grecismi, sulla fiducia nella
possibilità di conio e di diffusione d’una terminologia che, quanto è più dotta, tanto più è
comprensibile presso figure ed ambienti della cultura internazionale. Etimologia dotta e grecismo,
insomma, come veicolo d’incremento, non d’impedimento comunicativo; e l’origine culturale del
conio ben s’adatta alla novità del significato scientifico o filosofico che si vuole esprimere, poiché la
cultura, in questo caso, ricombina radici ed etimi appartenenti ad una “natura” linguistica
comunicativa ed eloquente nei riguardi di tutta l’intellettualità europea. La lingua nazionale può
essere preferita, secondo Leopardi, soltanto nel caso in cui essa già possegga la disponibilità alla
transcodifica nel proprio, autoctono lessico, del nuovo concetto. Altrimenti, la grecizzazione (con le
famose «-logie» accettate, e anzi caldeggiate dal Monti; differentissima la posizione del Giordani) è
l’unica via linguistica non depistante nella creazione d’un lessico critico della scienza. “Naturalità”,
peculiare «génie linguistique» d’ogni idioma, impulso alla codificazione non dequalificata d’un
esperanto dei savants europei: l’indicazione leopardiana restituisce ad ogni aspetto linguistico
(valorizzandolo nell’intrinseca peculiarità delle sue componenti) la propria connotazione, la propria
qualificante e non casuale identità filosofica. E come il greco è lingua d’infinite, anche postume
possibilità, l’italiano è anch’esso, variatis variandis, lingua infinita, immensa, di grandi potenzialità,
ma condannata dalla storia a mantenere per lungo tempo inespresse ed ancillari le sue risorse
sintattiche e lessicali. Torna, quindi, il concetto dell’omologia greco-italiano, a vantaggio della
divina lingua ellenica e in un rapporto di significativa differenziazione d’ambedue rispetto al latino
(il francese dell’antichità), ammirato da Leopardi negli alti risultati poetici di Virgilio e d’Orazio,
ma caratterizzato da una serie di lacerazioni di tessuto, di dicotomie strategico-programmatiche tra
lingua scritta e lingua parlata; le diversificazioni a cui allude Leopardi sono di carattere diastratico,
diatopico e diacronico, e forse in questo caso l’uso di tale metodologia non costituisce incauta
modernizzazione. Tanto più doloroso è allora il dramma capitale della cultura italiana: pur non così
vicina all’uso popolare quanto lo era nel Trecento (e si ricordi il costante paragone con la prosa
greca), la lingua italiana non registra un’antitesi, come invece accadeva nel latino classico, fra
letteratura e uso parlato. Eppure la letteratura italiana è ormai divenuta elitaria, e in mano ad una
sola classe. Nella mancanza d’un’autentica società nazionale, d’una conversazione cólta e civile,
d’una classe che “faccia nazione” in una comunicativa linguistica efficace e riconoscibile anche
nelle sue più defilate propaggini, risiede l’origine d’un generale scacco, linguistico, letterario, civile
e storico, delle speranze d’Italia. Il problema, com’è visibile e com’era prevedibile, s’allarga. Si
tratta di ricollegare «cultura di tutti» e «cultura specialistica», «lingua antica» e «cultura
moderna» (p. 58). Leopardi, insomma, come ben scrive Gensini, attraversa «lemmario critico e
principî del purismo negandone i presupposti ideologico-linguistici di fondo, ma insieme
riprendendone e rivitalizzandone un’istanza centrale» (p. 60). Si può discutere, com’è avvenuto,
sull’indole del purismo leopardiano nelle sue varie fasi. Ma rimane vero che Leopardi è purista sui
generis, in una partita che va giocata al livello più alto; ed è significativo che Gensini riprenda,
come già nella sua monografia, il tema dell’ammirazione per Dante proprio in quanto
“intellettuale”, “filosofo linguista” fautore d’una «lingua moderna illustre» in sostituzione del
latino, e capace di convogliare nel suo poema, dimostrandone così l’universale esprimibilità, le
varie linfe d’uno scibile epocale, dotto e popolare, teologico e laico-profano.
Tale conclusione s’innesta organicamente nella relazione di Moreschini. La lingua e la letteratura
greca comunicano infatti a Leopardi la loro connotazione di paradigma fascinoso e istitutivo della
vitalità congiuntamente popolare e artistica (artistica perché popolare) d’un idioma. La Grecia non
ha avuto un centro unificatore dal punto di vista della capitale, della società e della grammatica, e
nello stesso tempo ha avuto grandi scrittori; la sua letteratura è anteriore all’opera di codificazione
metalinguistica ed al condizionamento della società. Atene è, sì, da un certo periodo in poi, il
centro prevalente, ma non ha, per fortuna del composito strumento linguistico ellenico, la funzione
che in séguito sarà di Roma o di Parigi nei rispettivi dominî linguistici. Il greco è dunque “lingua”
già da molto tempo prima dell’era ateniese: è lingua prima che ratio grammaticale, e i dialetti sono,
e in definitiva rimarranno, pienamente e compiutamente legittimati (Leopardi troverà in seguito,
nella democratica pariteticità e nella funzionalità quotidiana ed estetica delle διαλεκτοι greche, una
pregressa esemplificazione della dottrina cinquecentesca di Gian Giorgio Trissino). Il rischio che
non è stato corso dalla Grecia, e che invece è stato in maniera non indenne attraversato da Roma e
dalla Francia, è quello, potremmo aggiungere noi, che con modalità assolutamente singolari
correranno l’Italia e l’italiano fiorentinocentrico della soluzione manzoniana; non certo a caso, bensì
con straordinaria coerenza argomentativa e non retorico ardore di persuasione, Manzoni indica,
auspicandola anche per l’Italia, la positività d’un paradigma linguistico accentratore e unificante,
del tipo, appunto, Roma-latino e Parigi-francese: e la lettera a Giacinto Carena, come pure la
Relazione al ministro Broglio, portano a esempio costante e a proposta di confronto storico e
politico proprio i bersagli polemici della concezione geolinguistica leopardiana. L’Italia, che in
realtà non è nemmeno una patria (mentre la Grecia lo era, anche grazie, secondo Leopardi, alla
mancanza d’un cogente modello di capitale), finirebbe in tal modo per circoscrivere la propria
libertà al paradigma fiorentino: nell’ottica leopardiana, si tratta d’una limitazione ridicola,
d’un’incongrua ricerca unitaristica in un contesto già ampiamente disgregato e segnato
dall’eterogeneità. Firenze, sulla base di queste premesse, risulterebbe mitizzata come un’Atene
senza Grecia, come una capitale senza patria, come il modello selettivo d’una lingua che non c’è.
Non è a dire quanto il fiorentinocentrismo fosse da molti considerato fattore unificante d’una realtà
costituita da disiecta membra, da una radicata situazione plurilingue. Ma basterebbe l’eco del
dibattito (approdato sulla stampa quotidiana) tra le posizioni linguistiche di Gian Luigi Beccaria e
quelle di Maria Corti, ad attestare in questo senso la virtus precorritrice di Leopardi (e d’altri
intellettuali) nella proposizione del problema; o, se si vuole, a dimostrare quanto ancora sia
complesso e intricato il generale nodo della struttura linguistica italiana.
La relazione di Moreschini (Leopardi e la lingua greca) riprende alcuni dei temi principali e
caratterizzanti del convegno: la paradigmatica contrapposizione greco-francese15, la teoria degli
“ardiri” espressivi come fattore di bellezza e d’originalità d’una lingua (soprattutto letteraria),
l’intuizione da parte di Leopardi della triplice diatesi del greco e quindi della triplice valenza di
molti verbi (attiva, mediale e passiva: incomparabilmente minore, ancora una volta, la ricchezza del
latino), la possibilità d’alterazione della forma esterna delle radici (i verbi in -ανω, -αινω, -σκω), la
feracità linguistica del greco nella produzione di composti e derivati (con aumento qualitativo, non
cumulativo e retorico, delle combinazioni di significato), le «tre lingue» del Fedro di Platone (il
dialogo in se stesso, il discorso di Lisia e il primo discorso di Socrate, e, infine, il discorso di
Socrate a magnificazione dell’amore: Moreschini precisa che Leopardi avrebbe in tal senso potuto
parlare di “stile” e non di “lingua”). Una volta di più, valga ricordare la capacità leopardiana di
comprendere, dalla specola di Recanati, le grandi linee di fondo d’una disciplina, e, in particolare,
d’una lingua. La conoscenza del greco era infatti, in Leopardi, limitata, soprattutto da principio, agli
autori tardi; come ricorda Timpanaro16, la biblioteca di Monaldo era «poverissima di classici greci»;
assenti i tragici (eccetto una cinquecentina sofoclea con Aiace, Antigone ed Elettra), Aristofane,
Erodoto, Tucidide, Senofonte. Tucidide, richiesto al libraio Stella, non approdò mai a palazzo
Leopardi, il cui padrone (peraltro poco abile nella sua gestione finanziaria) ritenne di comprare un
Euripide a Giacomo soltanto nel 1829: edizione cinquecentesca, che non stonasse nell’esposizione
antiquaria degli scaffali, con il testo greco ed il testo latino, come va bene ad ogni erudito che pensa
di poter estetizzare la cultura (si ricordino i visitatori del museo di provincia ne La nausée di
Sartre). Luogo dell’acquisto, Roma, culla dell’antiquaria italiana. Viene da pensare che, potendo
avvalersi d’una biblioteca meno pretenziosa e più “professionale”, come ad altri meno capaci di lui
era invece concesso, Leopardi avrebbe recato un impressionante contributo agli studî classicistici e
filologici (oltre che linguistici) italiani. La nostra stessa cultura umanistica ottocentesca sarebbe
stata parzialmente diversa da come è stata, anche se è vero che «l’Italia della Restaurazione»,
sostanzialmente ignara del secondo umanesimo tedesco, «era sotto questo aspetto ancor più indietro
dell’Italia del Poliziano»17.
Sono comunque numerosissime nello Zibaldone le note di carattere prettamente linguistico
riguardanti il greco; e non soltanto le osservazioni di teoria delle lingue o il materiale che si offre
agli interessi comparativistici, bensì i rilievi puntuali, le considerazioni su parole, frasi, derivazioni
da una lingua all’altra. Richiamiamo, da una nota del 30 aprile 1820, il «Gridare a testa o Quanto
se n’ha in testa »: «frase antichissima e greca. Manca ne’ lessici greci e latini, ma si trova in Arriano
(Ind., c. 30): οσον αι κεϕαλαι αυτοισιν εχωρεον αλαλαξαι: Quantum capita ferre poterant
acclamasse interpreta il traduttore» (l’opera di Arriano è ovviamente l’ Ινδικη, cioè L’India,
appendice monografica all’Anabasi di Alessandro; dall’India Leopardi trae, com’è noto, molte
considerazioni su una società libera ma senza uguaglianza, priva di schiavitù proprio perché
suddivisa in sette caste: ες επτα µαλιστα γενεας)18. E vorremmo anche ricordare, da una nota del
23 gennaio 1822, le considerazioni su λειχω, francese lécher, italiano «leccare», e latino lingo
come degenerazione di λειχω, poiché quest’ultimo, di cui Leopardi postula un equivalente nel
latino popolare, rimase escluso dalle polite scritture (ma anche lingo, aggiungeremmo noi, è usato
in senso osceno da Marziale: cfr. il famosissimo Epigr., I, LXXVII, 6). Così, il 9 luglio del 1822,
Leopardi si sofferma sulla preposizione compositiva di- o dis-, su δυς greco, su dis- latino, sui
valori di quest’ultimo (dis- latino è più disgiuntivo che negativo), su ex (vedi discalceatus /
excalceatus: «è lo stesso»), sull’analogia del valore di dis- in discalceatus, discingo, con il greco
απο (αποζωννυµι, αποζωννυω), sull’α− privativo, sull’uso latino popolare di dis- in senso
negativo. Ma per la definizione dei rapporti di Leopardi con la lingua greca rimane in ogni modo
essenziale e determinante l’analisi dell’intensissimo e amoroso legame («fontale», lo
denominerebbe una certa esegesi platonica) con la letteratura, con l’espressione artistica ellenica;
scelta creativa e scelta di personale traduzione si saldano in un processo d’autentica simultaneità
ispirativa. In tal senso, vorremmo rammentare, e avremmo voluto veder rammentati, gli studî di
Gilberto Lonardi su Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, studî fortemente intriganti
proprio sul piano linguistico: si ricordi il passaggio da una ripresa del tipo di αµα δ’ηελιω
καταδυντι come in Il., I, 592, di εδυ φαος ηελιοιο come in Il., XXIII, 154 e in Od., X, 183, di ες
ηελιον καταδυντα come in Il., XXIV, 713 (cfr. la canzone Ad Angelo Mai, v. 79) all’efflorescenza
letteraria del motivo del «cuore» nelle citazioni da Od., IV, 481, VI, 154-157, XX, 9-24; da Il., XXII, 98 e
122, e XXIV, 321; da ARCHILOCO, fr. 67 Diehl (si veda l’occorrenza, il significato e l’utilizzazione
letteraria di ϑυµος, ητορ, κραδιη)19.
Il contributo di Alberto Grilli (Leopardi e la lingua latina) incentra la propria ampia trattazione
sulle osservazioni di storia linguistica e sulla filologia correttoria del Recanatese. Leopardi è
attentamente studiato nelle sue stentate cognizioni di fonetica, nel suo interesse per i participi e
nelle sue intuizioni sulla diatesi verbale e sulla differenza tra infectum e perfectum. Grilli sottolinea
in particolar modo gli aspetti di «regolarità» e «normalizzazione» che Leopardi costantemente
ritrova nella lingua latina; lo studioso introduce a questo proposito il concetto della diversificazione,
nel pensiero di Giacomo, tra sfera della linguistica e sfera dello stile: alla prima pertiene la serie
d’osservazioni e di studî sulla regolarità, alla seconda l’attribuzione del difetto, riscontrato da
Leopardi in alcune lingue moderne, della monotonia. Tale difetto è da lui ampiamente esteso al
latino come lingua di ragione, non disponibile, nella ratio grammaticale che l’ha codificata, alla
Graeca ubertas di naturale libertà, allo spirito ellenico d’una lingua di democrazia agoraica, ch’è
coniugio di popolo e di cultura; e, se è vero che Leopardi nell’osservazione della regolarità s’attiene
rigorosamente ai rilievi linguistici, alla fenomenologia diacronica e sincronica dei fatti di Latinus
sermo e di Latinae litterae nella loro peculiare realtà d’autonoma area d’indagine, è altrettanto certo
che la regolarità costituisce un problema per lo stesso latino, poiché nel periodo ch’è invalso
definire “classico” dell’idioma romano si crea un’orologeria linguistica di alta compiutezza
sintattica, e la frattura tra espressione letteraria e espressione parlata (dalla colloquialità cólta a
quella popolare) s’accentua in un modo non più ricomponibile, al punto che solo nel latino tardo
può riaffiorare un autentico e vivissimo patrimonio che aveva trovato le sue esplicite affermazioni
nel latino arcaico. La regolarità, insomma, crea la monotonia, e adempie un ruolo genetico-
costitutivo d’una lingua, come appunto quella latina classica, progettualmente sottratta al
commercio intralatino con altri registri comunicativi, con altre sponde sociolinguistiche. E la
situazione della lingua riverbera il suo effetto sullo stile, in un rapporto, se non esattamente
denotabile come di filiazione diretta, almeno valutabile come filiazione indiretta, si dica pure
nepotale. Regolarità è anche “non libertà”, mentre, come benissimo scrive Grilli, è il passaggio
latino volgare-idiomi romanzi a porsi quale vera origine e reale prospettiva dell’interesse
leopardiano per il latino come organismo linguistico in sé (e non come letteratura, o, se si vuole,
come fonte d’interventi di filologia testuale). La selettività sociolinguistica del latino classico,
luminosamente evidenziata da Leopardi, richiama invece l’immagine d’una lingua gerarchizzata,
ipotattica, metafora d’una struttura militare o ingegneristica. Vorrei richiamare il commento di
Umberto Eco ad un periodo del De bellico Gallico (III, 24, 1): «Prima luce productis omnibus copiis,
duplici acie instituta, auxiliis in mediam aciem coniectis, quid hostes consilii caperent expectabat».
L’ablativo assoluto, «capolavoro di realismo fattuale - espresso sintatticamente - [...] stabilisce che
qualcosa, una volta fatto, o presupposto, non può essere più messo in questione»20; nel brano
la sintassi dice che Cesare ha compiuto la quarta azione solo dopo che ha compiuto le prime tre, che
ne erano la precondizione, ed è indiscutibile che Cesare ha irreversibilmente fatto quello che è stato
fatto prima, e la necessità logica del suo fare futuro nasce dalla necessità temporale che l’ablativo
assoluto ha espresso.
Analogo ragionamento Eco aveva condotto sull’importanza del finis romano, del confine nel senso
spaziale-politico. E si veda come Eco accenni a sua volta ad un parallelo tra il «pensare in latino»
ed altri modelli gnoseologici:
Il pensiero latino è ricerca della identità, sul modello della logica greca: A è uguale ad A e tertium
non datur. Ma la Grecia non aveva solo offerto il modello del principio di identità e del terzo
escluso. La Grecia aveva anche elaborato l’idea della metamorfosi continua, simbolizzata da
Hermes. Hermes è volatile, padre di tutte le arti ma dio dei ladri, iuvenis et senex a un tempo.
Ermetiche saranno le metafisiche della trasmutazione e dell’alchimia e il principio fondamentale del
Corpus Hermeticum - la cui scoperta rinascimentale sancisce la fine del pensiero scolastico - è il
principio della somiglianza e della simpatia universale che domina la magia rinascimentale e
barocca [...]. Il principio latino della identità viene riasserito, oggi, forse solo dalla logica formale,
la quale ha offerto un modello al funzionamento dei computers. Non è detto che i computers,
almeno sino a questa generazione, pensino in modo umano, ma è curioso osservare che essi
“pensano” ancora in latino21.
Sullavirtus ufficializzante, legalizzante dell’ablativo assoluto (italiano, in questo caso), vorrei anche
citare la lucida e condivisibile analisi condotta dal Pasolini di Petrolio sul cursus diplomatico-
catechistico d’un discorso politico:
[...] il lettore è pregato di notare il valore eufemistico degli ablativi assoluti (“Constatati i danni”, e
“constatate le manchevolezze ecc.”). La dignità linguistica ‘ricalcata’ con spirito notarile dal latino
conferisce alla materia quell’ufficialità che all’esame dei fatti indubbiamente manca loro nel modo
più totale. Fuori dell’ablativo assoluto, quei «danni» e quelle «manchevolezze» sono |
indubbiamente| criminali; dentro l’ablativo assoluto invece si normalizzano, divengono momenti sia
pur deplorevoli di ‘negatività’ necessaria o inevitabile.
Gli Atti si chiudono con le relazioni di SERGIO SCONOCCHIA (Tessuto linguistico e parola poetica
nei «Canti»: l’incidenza dei classici), del citato GHAN SINGH (Leopardi e lo stile poetico) e di
MARIO VERDUCCI (Lingua e stile: presenze e apporti dialettali negli scritti leopardiani). La prima
opportunamente ricorda la ricchezza di riprese dai classici (Teocrito, Virgilio, Lucrezio), rilevando
che i termini che direttamente si rifanno ai modelli classici (greci e latini) sono spesso απαξ,
ovvero realtà linguistiche stabilite una volta per sempre (e costituiscono, in un certo senso,
l’assoluto linguistico leopardiano, il registro delle scelte immutabili, almeno quando viene attivata
la chiave stilistica del peregrino). Verducci, da parte sua, rileva l’occorrenza di voci dialettali
nell’opera del Recanatese e invita a proseguire, in modo ampliato, lo studio della dialettografia
leopardiana. L’intervento di Singh, invece, riprende alcune idee leopardiane sullo stile (differenza
prosa / poesia, valorizzazione della misura breve della lirica rispetto alle macrostrutture epico-
poematiche, sostanziale inscindibilità di lingua e stile, poeticità dell’italiano rispetto al francese,
concetto di stile poetico come espressione della maturità dell’uomo Leopardi). Ma di Singh pare
opportuno riportare, da un già citato contributo (cfr. qui sopra, n. 4), una composizione creativa
nella quale lo studioso della Queen’s University di Belfast riflette sull’affinità tra le Operette morali
e la Bhagavad-Gita. Nella poesia, che s’intitola Leggendo le «Operette morali», si coglie il duplice
valore dell’operazione concettuale e linguistica di Leopardi, della sua capacità di “derubare” e di
“arricchire” il lettore, di rigenerarlo proprio nell’atto con cui lo precipita nell’abisso dello sconforto:
Se «i fanciulli trovano il tutto nel nulla,
gli uomini il nulla nel tutto»,
il Conte trovò entrambi in ogni cosa
contemporaneamente.
Qualche linea di sintesi sui metodi e sui contenuti che emergono da questi Atti di convegno
l’abbiamo anticipata all’inizio e sarebbe inutile ripeterla adesso. Lo spunto più circospetto e
discreto che a nostro avviso si possa sfruttare nel momento di congedo dal volume olschkiano
consiste nell’individuazione d’un’interna armonia, nel contempo immissaria ed emissaria del
grande lago testuale leopardiano. Il produttore di lingua, il filosofo della linguistica, il filologo delle
lingue sono guidati, in Leopardi, da un impulso alla perfezione, alla realizzazione umanamente
massima della potenza del linguaggio: il filologo la richiede alla testualità altrui, l’autofilologo la
agogna nella sincronia e nella diacronia della propria variantistica. E nella produzione poietica di
lingua rientra più che mai, carta nautica d’innumerevoli rotte letterarie, irripetibile cosmo
simbiotico di studioso e di artista, lo Zibaldone, l’unicum testuale che fonde oggetto e soggetto
(propensione ctonia della poesia e obiettiva probità dell’erudizione), l’opera di vero affiatamento
intercodicale del lettore Leopardi con il linguista, con lo scrittore come persona “storica”, con
l’autore interno e con la materia letteraria: la lingua da tutte le angolazioni, dalla fruizione
all’analisi, dalla rielaborazione all’animazione dei fermenti creativi. Una straordinaria esperienza
intercodicale, si diceva, e, aggiungeremo, un’esperienza senza riscontri, neanche nella cosiddetta
letteratura diaristica: nulla di realmente simile, infatti, nei Journal di Henri Beyle o di André Gide.
Ma quando si scrive «perfezione» non s’intende, trattandosi di Leopardi, una clarté di geometrica
e compiuta ineccepibilità, così come per «classicità» si intende, rammentiamolo, l’Orazio degli
“ardiri”, dei viaggi strofici da sostantivo ad aggettivo fra loro distanti, separati da altri termini che in
rapporto alla partenza e all’arrivo animano tutto un mondo lirico d’attese e di ricomposizioni
testuali. Si tratta, insomma, d’una perfezione che tiene del rigore e della fantasia, della modulazione
armonica e della risonanza vaga e fascinosa, della lucidità concettuale e della rifrazione
sentimentale e lirico-emotiva. È qui la perfezione dinamica ricercata dal sommo ammiratore del
greco, dal Leopardi linguista e metalinguista, e dal Leopardi operatore linguistico: nitida disciplina
di sterminata fantasia. Proprio questa interdipendenza del rigore demistificante e del riposto
schermo interiore in cui si proiettano, rifiorenti immagini, i pascoli chiari delle illusioni, abbina
ragione e cuore in una filosofia, in una cultura testuale (ed autotestuale) che divarica senza appello
le rotte del pessimismo da quelle della negatività. Fondo vivido della personalità leopardiana, e
consustanziali al suo pessimismo, le larve laicamente risorgono non dalla morte, ma da appartate
crisalidi d’ibernazione, dal «Kamciatka intellettuale», direbbe Giacomo Debenedetti. E se esse
rimagono sempre vive, non è meraviglia «che negli accenti estremi di Tristano, il disilluso filosofo
dagli occhi asciutti, si avverta, nel suo inno alla morte, non già il tono di una gelida cancellazione di
sé e dell’esistere, bensì l’ansia ardente e inesausta di un desiderio inappagato»46. E il fascino della
ricerca, dell’esplorazione dell’ignoto nell’àmbito dell’esistente, spiega la passione leopardiana per
grandi fioriture linguistiche “barocche” come quelle del greco di Isocrate e dell’italiano di Daniello
Bartoli (posposto - questo italiano seicentistico -, all’ “atticismo” galileiano, quando Leopardi avrà
maturato un nuovo criterio di crestomazia della prosa). Il ragionamento metalinguistico dello
Zibaldone mira, già dal 1821, alla sfida che fra loro sincronizza uniformità e difformità, cittadinanza
ed esilio della parola rispetto alla logica delle regole, alla siepe dei confini reali o immaginarî47.
NOTE
1. L’eccezione più consistente è in tal senso la relazione di di EMILIO BIGI, La metrica dei «Canti», pp. 278-279, nn. 1 e 3.
2. Cfr. infatti GIANFRANCO CONTINI, Implicazioni leopardiane, in ID., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi
(1938-1968), Torino, Einaudi, 1992 (rist. dell’ed. 1970), pp. 41-52; ID., Radiografia di Leopardi, in Ultimi esercizî ed elzeviri
(1968-1987), ibid., 1989 (rist. dell’ed. 1987), pp. 285-291; Varianti leopardiane: «La sera del dì di festa», ivi, pp. 293-298. Sullo
scambio di opinioni leopardiane fra De Robertis e lo stesso Contini cfr. la riproduzione dei testi dei due studiosi in D’ARCO
SILVIO AVALLE, L’analisi letteraria in Italia. Formalismo, strutturalismo, semiologia. Con un’appendice di Documenti, Milano-
Napoli, Ricciardi, 1970, pp. 178-204, e cfr. altresì la trattazione che ne conduce lo stesso Avalle nel capitolo Ragioni strutturalistiche,
alle pp. 59-70. Ancora su Contini, in particolare sulla figura del linguista e del glottologo, cfr. AURELIO RONCAGLIA, Ricordo di
Gianfranco Contini, in GIANFRANCO CONTINI, La critica degli scartafacci e altre pagine sparse, con un ricordo di AURELIO
RONCAGLIA, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1992, pp. VII-XXXV, segnatamente le pp. XVI-XIX.
3. Cfr. la relazione di GABRIELLE BARFOOT, Leopardi e la lingua inglese, pp. 375-380: le citazioni, tratte dallo Zibaldone, sono
alle pp. 375 e 377-378. Sulla fortuna di Leopardi in Inghilterra cfr. due contributi di GHAN SINGH: Leopardi e l’Inghilterra,
Firenze, Le Monnier, 1968, e I Canti di Leopardi nelle traduzioni inglesi, Recanati, Transeuropa, 1990. Cfr. inoltre, ora, Inghilterra,
in NOVELLA BELLUCCI, Giacomo Leopardi e i contemporanei. Testimonianze dall’Italia e dall’Europa in vita e in morte del
poeta, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996, pp. 475-523. Sul problema, prima accennato nel testo, del rapporto con la Francia,
considerato non sotto il profilo linguistico, ma, più in generale, della cultura, della letteratura, della storia critica e editoriale, cfr.
Francia, ivi, pp. 353-425. Per il rapporto con la cultura tedesca, cfr. ivi, Germania, pp. 427-473.
4. Cfr. GHAN SINGH, Leopardi e l’India, in «Esperienze letterarie», XVIII, 2 (aprile-giugno 1993), pp. 3-15, in part. 3-5.
5. Sul rapporto di Leopardi con il sanscrito cfr. SEBASTIANO TIMPANARO, La filologia di Giacomo Leopardi, Bari, Laterza,
19782, e TRISTANO BOLELLI, Leopardi e e le lingue antiche, in Leopardi linguista ed altri saggi, Messina-Firenze, D’Anna,
1982, pp. 29-52: 30-34.
6. La filologia di Giacomo Leopardi, cit., pp. 51-61.
7. Leopardi linguista e altri saggi, cit., pp. 23-24 e 47-52.
8. STEFANO GENSINI, Linguistica leopardiana. Fondamenti teorici e prospettive politico-culturali, Bologna, Il Mulino, 1984.
9. Ivi, p. 198 n. 4.
10. «Spazio linguistico», in particolare, è nozione che Gensini riprende dal De Mauro di Minisemantica dei linguaggi non verbali e
delle lingue: «realtà bidimensionale dell’uso e della vita della lingua»; De Mauro a sua volta la riprende da Wittgenstein (cfr.
STEFANO GENSINI, Linguistica leopardiana, cit., p. 239).
11. Cfr. MAURIZIO DARDANO, «La necessità de’ composti», in «Nuovi annali della Facoltà di Magistero dell’Università di
Messina», 5, 1987, pp. 33-68.
12. Si tengano presenti tre realizzazioni manualistiche alle quali Dardano fa riferimento: M.-J. DE GÉRANDO, Des signes et de
l’art de penser considérés dans leur rapports mutuels, 4 tomes, Paris, Goujon, AN. VIII; D. THIÉBAULT, Grammaire
philosophique ou la métaphisique, la logique et la grammaire, réunies en seul corps de doctrine, Paris, Courcier, 2 TOMES,
AN.-1802; A.-F. ESTARAC, Grammaire générale, 2 tomes, Paris, H. NICOLLE, 1811.
13. Sulla rete di relazioni romagnolo-marchigiane del Perticari si cfr. ora PANTALEO PALMIERI, Occasioni romagnole. Dante
Giordani Manzoni Leopardi, Modena, Mucchi, 1994, passim (cfr. il cap. IV di questo volume).
14. Cfr. GIOVANNI NENCIONI, Tra grammatica e retorica. Da Dante a Pirandello, Torino, Einaudi, 1983, pp. 261-265.
15. Allineato allo stereotipo d’una grecità puramente razionalistica, il Malaparte di Maledetti toscani riprende, è noto, un concetto
ampiamente vulgato nella tradizione classicistica europea: quello del legame Grecia-Francia, tramite la Toscana, come attestazione
della civiltà e dell’arte segnate dalla misura, dalla proporzione antropocentrica: «E qui mi fermo all’Inferno. Voglio dire che tralascio
di salire al Purgatorio e al Paradiso, perché a far le scale mi viene l’affanno. Ma tutto Dante è lì, in quel suo toscanissimo senso della
misura, che soltanto i greci hanno avuto prima dei toscani, e dopo i toscani i francesi» (cfr. CURZIO MALAPARTE, Maledetti
toscani, Firenze, Vallecchi, 1959, p. 39). A paragone con la pregiudiziale classicistica, con la topica del ne quid nimis, assume
maggiore risalto la peculiarità della posizione culturale di Leopardi, profondamente convinto della necessità di scindere il binomio
lingua greca-lingua francese, e pronto, in base ad una ben più originale concezione, ad associare il greco all’inglese.
16. Cfr. SEBASTIANO TIMPANARO, La filologia di Giacomo Leopardi, cit., pp. 15-18.
17. Ivi, p. 17.
18. Leopardi si riferisce alla Amstelodunensis editio (Amsterdam, 1757) della ’Ινδικη συναγωγη (XI, 1), unita all’ ’Αναβασις του
Αλεξανδρου (ARRIANUS, Expeditio Alexandri e Historia Indica).
19. GILBERTO LONARDI, Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, Firenze, Olschki, 1969 (rist.: 1986), in particolare il
primo dei due capitoli, Storia e strutture dell’omerismo leopardiano (1. Dalla traduzione impropria all’appropriazione fedele, pp.
4-17; 2. Sondaggi e implicazioni intorno al ‘20: Omero nazionale e privato; il vitalismo e i limiti della letteratura, pp. 18-45; 3.
1828-1835: Nel “sistema” di Omero. Il pessimismo e l’utopia. L’epos deflagrato e l’eredità dei Canti, pp. 46-110). Al motivo del
«sole» si allude in part. a p. 11; al motivo del «cuore» si allude alle pp. 102-110 di Classicismo e utopia. Ricordiamo ovviamente
anche WALTER BINNI, Lezioni leopardiane, a cura di NOVELLA BELLUCCI con la collaborazione di MARCO DONDERO,
Firenze, La Nuova Italia, 1994, in particolare le Lezioni dell’anno accademico 1964-’65: II. 1813-’15. Filologia ed erudizione:
primi schemi intellettuali, pp. 11-28 (soprattutto 12-23), e III. 1815-’16. Traduzioni poetiche e primi tentativi di poesie originali, pp.
29-33 (sull’importanza degli idilli di Mosco; e si vedano le pp. 33 ss. sui legami con Gessner).
20. Questo passo di Eco, come anche il seguente, si trova in un’antologia latina di destinazione scolastica: Conoscere Roma, a cura di
GIUSEPPE AUGELLO, ALBERTO e IOLANDA GIACONE, MAURIZIO LANA, con un saggio di UMBERTO ECO, Torino,
Paravia, 1988; il saggio di Eco (Pensare in latino, pp. 5-14) è articolato in paragrafi; la considerazione sull’ablativo assoluto è in Il
confine temporale, p. 7.
21. Cfr. UMBERTO ECO, Utrum ..., in Pensare in latino, cit., p. 12. Sui rapporti tra Leopardi e la letteratura latina, in particolare
con Virgilio ed Orazio, cfr. ANTONIO LA PENNA, Leopardi fra Virgilio e Orazio, in «La rassegna della letteratura italiana», 86
(1982), pp. 31-84 (relazione letta il 24 settembre 1980 al V Convegno internazionale di studî leopardiani, e pubblicata negli Atti:
Leopardi e il mondo antico [Recanati, 22-25 settembre 1980], Firenze, Olschki, 1987, pp. 149-210, sempre con il titolo Leopardi fra
Virgilio e Orazio ); ora in ID., Tersite censurato e altri studî di letteratura fra antico e moderno, Pisa, Nistri-Lischi, 1991, pp .
249-320; in Tersite censurato cfr. anche Albe tragiche (da Virgilio a Leopardi) , pp. 321-336, e L’«Iliupersis» virgiliana e la rovina
di Roma. Una nota sul «Bruto minore» di Leopardi, pp. 337-344. Imprescindibile rimane il riferimento alla Nota introduttiva di
PIERO TREVES ai brani zibaldoniani riprodotti in Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento. II. La Restaurazione, Milano-
Napoli, Ricciardi («La letteratura italiana. Storia e testi», n. 72), 1962; la Nota introduttiva con Bibliografia e testi, è ristampata nei
«Classici Ricciardi-Einaudi» (n. 83), Torino, Einaudi, 1978, pp. 471-485 (Bibliografia: pp. 485-489).
22. Per il brano sulla connotazione criminale di certi ablativi assoluti, cfr. PIER PAOLO PASOLINI, Petrolio, a cura di MARIA
CARERI e GRAZIELLA CHIARCOSSI, con la supervisione e con Nota filologica di AURELIO RONCAGLIA, Torino, Einaudi
(«Einaudi Tascabili. Letteratura», n. 156; I ed. «Supercoralli»: 1992), 1993, pp. 527-528. E si cfr., sul “metodo” del Trombetti,
ANTONIO GRAMSCI, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Roma, Editori Riuniti, 1991, pp. 230-235; Gramsci si
riferisce, in particolare, ad una nota del grande glottologo VITTORE PISANI, Divagazioni etrusche, in «Nuova Antologia», 1
marzo 1929; si ricordi, comunque, che Trombetti è tuttora menzionato nei manuali ufficiali di glottologia e in quelli dedicati alla
linguistica ed alla filologia: cfr. infatti CARLO TAGLIAVINI, Introduzione alla glottologia, 2 voll., Bologna, Pàtron, 19697,
passim, e ID., Le origini delle lingue neolatine. Introduzione alla filologia romanza, ibidem, 19726, passim; non figura invece in
VITTORE PISANI, Glottologia indeuropea. Manuale di grammatica comparata delle lingue indeuropee con speciale riguardo del
greco e del latino, Torino, Rosenberg & Sellier, 1984, rist. della IV ed. riveduta del 1971). Riguardo all’ablativo assoluto come
nobilitazione linguistica d’un atto sanguinosamente ineluttabile, si ricordi lo «Spenti adunque questi capi» del Principe (cap. VII).
23. Cfr. LUIGI BLASUCCI, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985 (rist.: 1989), in particolare pp. 9-11, 14-20
e 31-95; ID., I titoli dei «Canti» e altri studî leopardiani, Napoli, Morano, 1989 (in part. i primi quattro capitoli, pp. 11-90); cfr.
anche WALTER BINNI, Lezioni leopardiane, cit., pp. 109-258; si ricordino GIACOMO LEOPARDI, Canti, a cura di
GIUSEPPE e DOMENICO DE ROBERTIS, Milano, Mondadori, 19872 (I ed.: Firenze, Le Monnier, 1978) ed il sempre valido
GIACOMO LEOPARDI, Canti, introduzione e commento di MARIO FUBINI edizione rifatta con la collaborazione di EMILIO
BIGI, Torino, Loescher, 19712 (I ed. Loescher: 1964).
24. Si cfr. il passo di Zibaldone [20-21], riportato e commentato in WALTER BINNI, Lezioni leopardiane, cit., p. 72; ma converrà
rinviare, più in generale, alle pp. 69-73.
25. Per una trattazione del tema e del motivo del “brutto” (visti, in questo caso, in un’angolazione realistico-descrittiva) cfr.
GIORGIO PASQUALI, Omero, il brutto e il ritratto, in ID., Terze pagine stravaganti, Firenze, Sansoni, 1942 (ora in ID., Pagine
stravaganti 2. Terze pagine stravaganti e Stravaganze quarte e supreme, ivi, 1968, pp. 99-118); si ricordino inoltre, sulle figure
“negative” e potenzialmente oppositrici degli assetti etici o naturali predominanti, i saggi di ANTONIO LA PENNA in Tersite
censurato, cit. (cfr. Dal Tersite omerico al Drance virgiliano, pp. 113-120; Un Tersite nell’esercito di Alessandro Magno?, pp.
121-129; Fra Tersite e Drance. Note sulla fortuna di un personaggio virgiliano, pp. 130-153; l’eponimo Tersite censurato, pp.
154-168).
26. Condividiamo in questo senso il richiamo di Pasquini (pp. 194 n. 196 n.) al lavoro del suo allievo PAOLO ROTA: dapprima
come tesi di laurea (Un fiume sotterraneo: la Bibbia in Leopardi, anno accademico 1990-1991), in seguito come pubblicazione di
estratto di tale tesi in «Italianistica», XXI, 1 (gennaio-aprile 1992: Presenze della Bibbia in Leopardi), pp. 27-43. Ci sia permesso
ricordare, come leopardiana benemerenza di Pasquini, almeno Leopardi e i poeti antichi italiani, in Leopardi e la letteratura italiana
dal Duecento al Seicento. Atti del IV Convegno internazionale di studî leopardiani (Recanati, 13-16 settembre 1976), Firenze,
Olschki, 1978, pp. 507-542; chi guardi in filigrana la metodologia di questi ed altri contributi leopardiani di Pasquini non tarderà a
scoprirvi la limpida restituzione espressiva del suo ampio approccio alle personalità poetiche ed ai singoli testi, alle intersezioni di
codici linguistici e all’impegno elaborativo (o rielaborativo) delle officine interletterarie e metaletterarie: un approccio che, pur in un
differente contesto, immediatamente collega lo studioso della Crestomazia leopardiana e dei «cinque canti supremi» (dai quali, con
raro senso di discrezione, si era fino a adesso tenuto ufficialmente lontano, come ricorda all’inizio della sua relazione, a p. 173) con il
ricostruttore delle “botteghe della poesia” (cfr. EMILIO PASQUINI, Le botteghe della poesia. Studî sul Tre-Quattrocento italiano,
Bologna, Il Mulino, 1991).
27. Firenze, La Nuova Italia («Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Milano», CXLVII; Sezione a cura
dell’Istituto di Filologia Moderna, n. 18), 1992; si tratta, rammentiamolo, della stessa collana che ha pubblicato, nel 1989, PAOLA
AMBROSINO, La prosa epistolare del Foscolo.
28. In ID., Saggi linguistici e stilistici, Firenze, Olschki, 1972, p. 412.
29. GIANFRANCO CONTINI, Antologia leopardiana, Firenze, Sansoni, 1983, p. 96 n. 7.
30. Pasquini, nella sua relazione, pur ammettendo una possibilità di composizione a Firenze nel 1832, propende invece per la
composizione a Napoli nel 1833-1834 (cfr. p. 174).
31. Marti ripropone qui l’ipotesi già avanzata in Leopardi, due sepolcri e un passero, raccolto in ID., I tempi dell’ultimo Leopardi,
Galatina, Congedo, 1988, pp. 47-70; ora nella silloge Critica e linguistica fra Settecento e Novecento, studî in onore (e poi in
memoria) di Mario Puppo, Genova, Tilgher, 1989, pp. 191-287. Perplesso su questa ipotesi si mostra Pasquini, nella sua citata
relazione: cfr., in questi Atti, p. 174 n. 2. Allineato alla proposta di Marti il recente intervento di MICHELE DELL’AQUILA,
Leopardi: l’elegia sepolcrale, in «Esperienze letterarie», XVIII, 3 (luglio-settembre 1993), pp. 117-139.
32. Si rammentino Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954; La genesi del «Canto notturno» e altri studî
leopardiani, Palermo, Manfredi, 1967; Poesia e critica tra fine Settecento e primo Ottocento, Milano, Cisalpino, 1987.
33. Secondo FRANCESCO BAUSI-MARIO MARTELLI, La metrica italiana. Teoria e storia, Firenze, Le Lettere-Università,
1993, p. 238 (nel capitolo L’Ottocento ) le stanze della canzone All’Italia sono «strutturate» sul «modello della canzone seicentesca
praticata, ad esempio, da Vincenzo da Filicaia».
34. A proposito di Sopra il monumento BAUSI e MARTELLI (La metrica italiana, cit., p. 238) notano modelli duecenteschi
(Chiaro Davanzati), quattrocenteschi (Angelo Galli), e, insieme, quelli cinque, sei e settecenteschi più noti a Leopardi. GIOSUE
CARDUCCI (cfr. Dello svolgimento dell’ode in Italia, in Opere, E. N., Bologna, Zanichelli , 1944, vol. XV, p. 80) indica invece la
canzone Alla morte di Pandolfo Collenuccio, scoperta nel 1816, come «esempio» delle «canzoni-odi» 1818-1822; Carducci in tal
senso antepone Collenuccio a Chiabrera.
35. Riguardo all’Ultimo canto di Saffo (strofe di endecasillabi sciolti con clausola rimata) BAUSI e MARTELLI (La metrica
italiana, cit., p. 239) indicano tra i precedenti tecnici cinque e seicenteschi Giovanni Rucellai, Lorenzo Strozzi, Giovan Vincenzo
Imperiali ed il Chiabrera.
36. BAUSI e MARTELLI risalgono, per l’idillio in sciolti, al Fantoni (citato come esempio), ovvero alla fine del Settecento. Ma
cfr., sull’Infinito, CHRISTOPHER WAGSTAFF, L’infinito ritmico, in «Strumenti critici», n. s., XVI, 1 (gennaio 1992), pp. 45-61;
l’articolo nasce da una riflessione sulla «nozione di ritmo nella poesia e nella musica» (p. 45: ne era stato occasione il XIV Congresso
dell’Associazione Internazionale per gli studî di Lingua e Letteratura italiana, Odense, Danimarca, luglio 1991). Facendosi guidare
«dalla metrica implicita nella sintassi» (p. 50), Wagstaff conduce sull’Infinito un’analisi serratissima e inclusiva della cronologia
variantistica, fino a poter affermare la «tesi di un livello metrico sotto quello dell’endecasillabo, che si fa valere tramite le
convenzioni sintattiche. Le correzioni, insomma, dimostrano che l’intreccio dei metri funziona come istruzioni per l’esecuzione
ritmica della poesia» (p. 55). Nello stesso numero della rivista segnaliamo l’artcolo di SERGIO CÈ, Montale e Debussy: verso
l’uniformità di suoni e strutture, pp. 129-156 (a proposito di Minstrels e d’altro ancora).
37. Meno propensi alla valorizzazione di Guidi come modello tecnico leopardiano, BAUSI e MARTELLI (La metrica italiana, cit.,
p. 240) recuperano un’indicazione carducciana (espuntiva del paradigma guidiano della «canzone a selva»), per contrapporre ai
«massicci organismi del Guidi» il «metro madrigalesco libero» (siamo sempre nell’àmbito della favola e del melodramma) adoperato
dal Marino «in gran parte degli idilli della Sampogna ».
38. Bigi, nella sua costante e feconda indagine leopardiana, nella sua incessante rilettura, interviene talvolta, anche su precedenti
suoi lavori di studioso. È il caso del citato commento loescheriano di Fubini, che il prestigioso collaboratore alla seconda edizione
del 1964 continua ancora oggi ad integrare (come si constata in queste pagine), sviluppandone alcuni spunti e rettificandone altri di
paternità propriamente fubiniana. Si veda, a proposito di A Silvia (in questi Atti, a p. 304), la definizione di climax ascendente per le
prime tre strofe e di «figura circolare» per le altre tre, e, insieme, l’accentuazione del senso di regolarità metrica data dal settenario
finale sempre in rima (mai, però, con il penultimo verso; e cfr. il commento loescheriano ai Canti, p. 167); così, riguardo ad Alla sua
donna (Atti, p. 291), Bigi esprime netta perplessità sull’ipotesi che le singole strofe della canzone si articolino in due parti, come
fossero fronte e sirma (queste ultime, addirittura, sarebbero suddivisibili in piedi e volte; cfr. il commento loeschriano, p. 146). Bigi
sottolinea invece che la costanza metrica risiede, oltre che nel numero di versi (uguale in ogni strofa, compresi i non rimati) e nella
clausola a rima baciata, anche negli ultimi quattro versi (FEGG; FeGG nella prima strofa, quindi con “e” settenario: «or leve intra la
gente»). E si tenga presente la trattazione della metrica delle Ricordanze (Atti , pp. 308-309), molto più ricca ed estesa del capoverso
presente nel commento dell’edizione fubiniana (p. 72).
39. Accenni all’influenza leopardiana sui poeti novecenteschi (vedi, ad esempio, Montale) sono disseminati in PIER VINCENZO
MENGALDO, La tradizione del Novecento, nuova serie, Firenze, Vallecchi, 1987, passim. I concetti finali formulati dal Bigi
trovano accenti assolutamente concordanti in BAUSI-MARTELLI, La metrica italiana, cit., p. 191 (nel capitolo Il Seicento), in una
considerazione che muove dalle “canzoni libere” di Ciro di Pers, in particolare da Della miseria e vanità umana: «Un esperimento,
questo, che interessa non solo in se stesso, ma anche e ancor più in quanto documenta il coesistere, all’interno di una medesima
lirica, delle due contrastanti spinte cui più volte si è fatto riferimento a proposito della metrica italiana dal Cinquecento in poi: anche
la canzone libera, infatti, almeno presso i poeti più scaltriti e consapevoli, si caratterizza per la tendenza a controbilanciare l’ampia
libertà formale con l’adozione di sottili accorgimenti strutturanti, secondo una dialettica interna che si ritroverà nel massimo cultore
di questo metro, Giacomo Leopardi».
40. Lo studio di Valentini si basa su pagine dello Zibaldone, sugli Abbozzi e sul Discorso di un Italiano intorno alla poesia
romantica (citati, gli ultimi due, da GIACOMO LEOPARDI, Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, a cura di O.
BESOMI e altri, Bellinzona, Casagrande, 1988).
41. Per quanto concerne l’intento leopardiano di «destabilizzare le convenzioni linguistiche su cui poggiano le ipocrisie della vita
sociale attraverso un procedimento paradossale che oggettivamente metta a nudo il rapporto falsato tra i nomi e le cose» (p. 448) si
può richiamare un analogo meccanismo spiegato da UMBERTO ECO in un famoso saggio (Del modo di formare come impegno
sulla realtà) apparso in «Il Menabò», 5 (1962), poi ristampato in ID., Opera aperta, Milano, Bompiani, 19672; l’artista appartenente
all’avanguardia, «per far presa sul mondo vi si cala assumendone dall’interno le condizioni di crisi, usando per descriverlo lo stesso
linguaggio alienato in cui questo mondo si esprime: ma, portandolo a condizione di chiarezza, ostentandolo come forma del
discorso, lo spoglia della sua qualità di condizione alienanteci, e ci rende capaci di demistificarlo» (in «Il Menabò», cit., p. 228). Sui
gruppi dell’avanguardia dei primi anni Sessanta cfr. ora GIUSEPPE LEONELLI, La critica letteraria in Italia (1945-1994), Milano,
Garzanti, 1994, pp. 101-106 (sul passo di Eco cfr. in particolare pp. 103-104).
42. Palmieri, autore del citato Occasioni romagnole (cfr. qui sopra, n. 13, e il cap. IV di questo volume), si sofferma, nel suo
volume, su varî aspetti dei legami che uniscono Leopardi e Giordani alla Romagna; si tengano presenti, in special modo, i seguenti
capitoli: Umori giordaniani (pp. 61-77); Lettere forlivesi di Leopardi (pp. 95-137: compiuto resoconto informativo e riordinativo del
materiale epistolare leopardiano presente nella Biblioteca «Aurelio Saffi» di Forlì, con indicazione delle sezioni d’appartenenza, da
«Autografi del secolo XIX» a «Carte Romagna», dagli «Atti dell’Accademia dei Filergiti» al «Fondo Versari», con l’aggiunta di un
album miscellaneo che annovera un foglietto autografo di Leopardi; alle pp. 107-137 è pubblicato il testo di diciassette lettere, tre
mancanti nell’edizione di Flora e già edite, ma in modo scorretto, da Fiorenzo Forti, e quattordici di cui Palmieri fornisce gli
originali, mai ritrovati da Flora, il quale si era quindi basato su apografi); Schede cesenati per Leopardi (pp. 139-173; è la
delineazione di una serie di figure del classicismo romagnolo con le quali Giacomo fu direttamente o indirettamente in contatto); In
morte primogeniti (pp. 173-181; comprende una lettera di Monaldo Leopardi ad Epifanio Giovanelli, dal 16 luglio 1837, con
l’annuncio della morte di Giacomo, avvenuta due giorni prima); l’Appendice: Carteggio Monaldo Leopardi-Luigi Nardi (pp.
183-229; si entra, grazie, alle lettere qui pubblicate, nel mondo epistolare e culturale di Monaldo).
43. Lo studioso si era precedentemente occupato, nella stessa ottica («uno studio grammaticale secondo le categorie tradizionali»)
dell’opera in versi: cfr. GIULIO HERCZEG, Sintassi del periodo nelle opere poetiche del Leopardi, nel citato Saggi linguistici e
stilistici.
44. Traduzioni spagnole di poesie leopardiane sono apparse anche nei canali librarî maggiormente vocati allo scambio fra le due
culture, ivi comprese le pubblicazioni di carattere divulgativo. La versione del Sabato del villaggio da noi riprodotta nel testo si
trova, ecco la curiosità, in un volume di didattica dello spagnolo: CARLO BOSELLI, Lo spagnolo per l’italiano autodidatta,
Milano, Edizioni Le Lingue Estere, 1943, pp. 262-263. Boselli, rammentiamolo, è anche autore, presso le stesse edizioni (1943),
d’una Storia della letteratura spagnola, realizzata in collaborazione con CESCO VIAN. JUAN LUIS ESTELRICH è presente
all’appello di Boselli a p. 263. Ed è presente anche FERNANDO MARISTANY (citato dalla studiosa a p. 529), come traduttore del
dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare.
45. Cfr. GHAN SINGH, Leopardi e l’India, cit., pp. 14-15.
46. Cfr. GINO TELLINI, Introduzione a GIACOMO LEOPARDI, I Canti e le Operette morali, a cura dello stesso Tellini, Roma,
Salerno, 1994, p. XXXIX.
47. Cfr. ora, sul Bartoli leopardiano, MARINO BIONDI, Da Leopardi a Carducci: giudizi sullo stilista e il gesuita, paragrafo
dell’Introduzione, intitolata L’Istoria italiana di Daniello Bartoli, a DANIELLO BARTOLI, Istoria della Compagnia di Gesù.
Dell’Italia, scelta dei brani, introduzione e nota bibliografica a cura dello stesso Biondi, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994, pp. 19-20,
75 n. 18 e nn. 20-22.