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IL LATINO VOLGARE

Anzitutto, per “latino volgare” non s'intende il latino dei bassifondi: difatti, questa
formula nasce dalla traduzione letterale del tedesco vulgärlatein 'latino di tutti i
giorni, ordinario'. D'altra parte, già Cicerone parlava di plebeius sermo e di sermo
vulgaris inteso come 'lingua popolare', un concetto ripreso dagli umanisti e mutuato
dai primi studiosi di linguistica storica, il quale è giunto fino ai giorni nostri in tutta la
sua complessità. Per comprendere come le lingue volgari non costituiscano una
diretta filiazione della lingua degli autori latini di cui possediamo una vasta
conoscenza documentaria, basti pensare al fatto che i verbi potere e vedere nelle
lingue neolatine non partono, rispettivamente, da VĬDĒRI e POSSE, ma da forme non
attestate *POTĒRE e *VIDĒRE.
Per comprendere a fondo il passaggio dal latino cosiddetto volgare ai volgari
romanzi, bisogna anzitutto chiarire alcuni mutamenti dello stesso latino, che come
lingua indoeuropea parlata da un nucleo originario di pastori stanziatisi presso il
Tevere, evolvette di pari passo con la società romana e con l’accrescimento della
popolazione e il suo progressivo inurbamento. Si dovrà dunque ricordare che la storia
del latino si sviluppa in due fasi:
1) l'unificazione o romanizzazione;
2) la disgregazione, con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, della
civiltà a esso indissolubilmente legata e la conseguente frammentazione linguistica.
Quindi, particolarmente dal VI al III sec. a.C., nel latino intervennero dei
fenomeni di mutamento strutturali, che investirono soprattutto fonetica e morfologia e
che, dal III sec. in po,i rallentarono per quasi arrestarsi, almeno così parrebbe,
nell’epoca di Cesare e Cicerone (I a.C) nel latino letterario: si ebbe in tal modo una
divaricazione sempre maggiore fra latino classico e latino volgare, ovvero fra la
norma scritta e fortemente codificata dalla grammatica da una parte, e la lingua

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comune, ordinaria, dall'altra. Nel periodo altomedievale (dal VII sec. d.C. in poi) si
trovano due filoni:
1. la lingua della conversazione, ovvero un latino fortemente regionalizzato e
prossimo al volgare;
2. il latino letterario e giuridico, impartito dalla scuola e comunque per via
prevalentemente libresca per chi ne poteva usufruire, ovviamente.
Ciò implica che il latino grammaticalizzato e quello volgare dovettero convivere e
non che essi furono due enti separati, in quanto era impossibile che l’evoluzione del
volgare non trasferisse suoi propri fenomeni evolutivi alla lingua di cultura. Dunque,
risulta inattuale una recisa distinzione fra latino classico e volgare, in quanto il primo
rappresenta la transizione fra l'indoeuropeo e i volgari, i quali sono definibili come
dei dialetti del latino sviluppatisi in epoca medievale.

Il latino dev'essere considerato, come qualsiasi lingua, lo specchio di una società


che si andava evolvendo e che passò dalla sbrigativa semplicità degli auctores arcaici
alla sempre maggiore ricercatezza formale. Data fondamentale fu soprattutto la
battaglia di Pidna del 168 a.C., che vide Roma sottomettere la Grecia e importare un
nuovo ideale di cultura, fondato sull’elegantia: la propria massima espressione di
questo ideale si incarnò nei poetae novi e, in generale, nel cenacolo d’intellettuali che
gravitava intorno al Circolo degli Scipioni, impersonato massimamente da Scipione
Emiliano (185-129a.C.), che promosse con decisione la cultura ellenistica a Roma.
Soprattutto il fascino dell’eloquenza greca condusse alla permanenza nell’Urbe di
numerosi filosofi e retori greci e a tale movimento, che favorì anche un certo livello
di bilinguismo latino-greco, oltre alla generale penetrazione del lessico e perfino di
strutture sintattiche greche, reagì con veemenza il conservatore Catone il Censore
(234-149a.C.), il quale tentò in due occasioni di espellere filosofi e retori dalla città, a
causa della loro pericolosa capacità persuasiva.
Man mano che il latino scritto si codifica e grammaticalizza, si può osservare un
atransizione: dall’antica suddivisione fra urbanitas e rusticitas, ovvero dal latino

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parlato nell’Urbe a quello importato dai paesi finitimi e che non si adeguava alla
norma vigente in Roma – si pensi alla patavinitas dello storico Tito Livio (59a.C.-
17d.C.), ovvero a una sua riconoscibile appartenenza linguistica e culturale alla natia
Padova di cui testimonia Quintiliano (35-40 d.C.-96d.C.) – si giunge a un altro tipo di
suddivisione: quella fra colti e incolti o semicolti, ovvero non solo gli strati più
bassi della popolazione, ma anche militari, medici, tecnici in generale, i quali non
avevano accesso alla cultura alta. Va anche detto che il latino classico aveva
raggiunto lo status di lingua per eccellenza principalmente grazie a Cicerone (106-43
a.C.), ma non grazie alle grammatiche o alle scuole, bensì attraverso un uso della
lingua adatto alle occasioni ufficiali e più solenni per la comunità, cioè quelle legate
all’oratoria, politica come giudiziaria, a cui difatti Cicerone, come l’élite in generale
di Roma, si dedicavano.
Difatti, man mano che la società romana andava evolvendosi in forme di
organizzazione sociale sempre più complesse, la lingua si adeguava a tale evoluzione,
trasformandosi in un sistema sempre più compatto ed economico, nel quale gli
elementi sovrabbondanti venivano pian piano meno. Nel periodo arcaico, in
fonetica:
Gli antichi dittonghi indeuropei si semplificano:
ei > ī (deico > dico);
oi > ū (oinos (cfr. greco) > unus);
ou > ū (douco > duco).
Il dittongo più resistente è AU, sopravvissuto fino all'epoca dei volgari, e
precisamente nell'Italia meridionale, in ladino e occitano antico, mentre in portoghese
passa a ou: es. lat AURUM > rum., lad., prov. aur, port. ouro. Invece, nella Romania
occidentale l'esito au > o è più tardo e mostra uno sviluppo indipendente in ciascuna
lingua. Già in epoca latina, tuttavia, si aveva notizia di questa semplificazione,
avvertita come un provincialismo linguistico e, successivamente, colloquiale. Si ha
inoltre la riduzione di AU in A in sillaba iniziale: ad es. nei graffiti di Pompei si trova
Agusto per Augustus, da cui la forma romanza agosto, e così ascultare per auscultare,

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secondo una tendenza osservbile nella forma ascoltare ecc.
Nel II sec. a.C. altri dittonghi arcaici si semplificano e forme verbali come gli
infiniti pass. in -ier (audier) e i gerundi in -undo scompaiono; ancora, la sequenza
vo passa a ve (vorto > verto) ecc. Dal I sec. in poi le innovazioni registrate dai testi
scritti diminuiscono, fino quasi ad azzerarsi, e si limitano grosso modo alle seguenti:
1. desinenze indoeuropee -os -om > -us, -um dopo temi uscenti in u (equos >
equus);
2. scempiamento di ss dopo vocale lunga o dittongo (causa per caussa);
3. omissione di h-, ormai non più pronunciata come aspirata, confermata da
ipercorrettismi come humerus, dove /h/ è superfluo ecc.

Morfologia
1. locativo e strumentale vengono a cadere e dal sistema a otto casi, tipico
dell’indoeuropeo, si passa a quello semplificato esacasuale, poiché soprattutto
l’ablativo e l’accusativo + preposizione assorbono le funzioni dei due casi
scomparsi;
2. sistema verbale: l’ottativo confluisce nel congiuntivo;
3. l’accento indouropeo dalla prima sillaba (non a caso il greco è ricco di
ossitoni) retrocede sulla seconda, la cui quantità giunse a determinare la
posizione dell’accento: se la vocale della seconda sillaba era lunga, la parola
era parossitona, altrimenti si spostava sulla terzultima, ovviamente se la parola
era almeno trisillaba: SALŪTEM ma MÌLĬTES. Tuttavia, contava anche la
posizione: una vocale breve + due consonanti diventava lunga, quindi se si
trovava in penultima posizione era accentata: ARĬSTA = ARÌSTA.
Ancora, in età imperiale, sotto Augusto, vigeva anche la cosiddetta muta cum
liquida (= r): se la vocale breve era seguita da un’occlusiva (muta) + r (liquida) la
sillaba non era considerata chiusa e restava breve: ÌNTĔGRU, n o n INTÈGRU.
Evidentemente però, nelle lingue romanze, le quali a parte l'ossitonia obbligata
presente nel francese conservano più o meno bene la posizione dell’accento latino, la

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regola muta cum liquida non valse più e le sillabe brevi vennero considerate lunghe,
dunque it. int(i)èro, sp. entéro, fr. entier, sardo intrégu, rum. întreg, mentre la forma
ìntegro è un cultismo che non appartiene al linguaggio popolare.
Con la scomparsa della quantità vocalica, l'accento latino crebbe in intensità, con
la conseguenza della cessazione della regola della penultima e, soprattutto,
dell’indebolimento delle sillabe atone, cui fa séguito la caduta delle vocali
postoniche, ad es. ŎCŬLUM > oclu, attestato già nelle iscrizioni pompeiane, lessema
base da cui derivano le forme romanze, CĂLĬDUM > caldu (utilizzato da Augusto) ecc.
Vi sono però lingue neolatine che subiscono maggiormente le conseguenze di questo
fenomeno, ad es. il francese, basti pensare al passaggio dal lat. FĪCĀTUM (termine
culinario indicante 'fegato d'oca ingrassato con fichi' che sostituisce il lemma di
origine indoeuropea IĔCŬR-ŎRIS) a foi, da QUĬRĪTĀRE a crier ecc. Per questo motivo il
francese, viste le numerose sincopi delle sillabe postoniche e finali, utilizza un nuovo
accento fisso in posizione ossitona che consente l'utilizzo di accenti secondari con
valore stilistico, ad es. s'émerveillEr 'stupirsi'.

Le fonti del latino volgare


L'indagine sul latino volgare consiste essenzialmente nella ricerca delle deviazioni
dalla norma classica, deviazioni che spesso trovano un riscontro nelle lingue
romanze. Anzitutto, va detto che l’evoluzione di queste ultime non passa solamente
attraverso il dialogo fra lingua classica e volgare, ma si ricollega al latino arcaico:
quando si parla degli autori arcaici, insieme a Terenzio (190ca.-159a.C.), l'esempio
maggiormente noto è quello di Plauto (254-184a.C.,), un commediografo che, vista la
prossimità col parlato insita nel genere in questione, utilizzava una molteplicità di
registri linguistici, compreso quello popolare. Ad esempio, Plauto era solito utilizzare
dei diminutivi che non erano abituali nel registro aulico della lingua: in quanto si
trattava di un registro proprio non dei rapporti privati e familiari, ma della vita in
comunità. Tuttavia i diminutivi erano tipici del linguaggio familiare e, spesso, da
questi ultimi derivano le forme nominali dei volgari romanzi: AURIS = ‘orecchio’ lat.

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class. non spiega le forme romanze it. orecchio, fr. oreille, sp. oreja, ecc., mentre la
forma diminutiva AURĬCŪLUM/AURĬCŪLA lo consente, con la caduta della vocale
postonica > auricla e la chiusura del dittongo AU > o. Di fatto, la forma aurĭcūla-ae
'padiglione auricolare' era già ben attestata nel latino arcaico e classico. Oltre al fatto
di essere particolarmente espressivi e dunque molto presenti nel parlato, uno dei
motivi per cui i diminutivi costituiscono la base dei lemmi romanzi (es.
AVIS/AUGELLUS > uccello, VETULUS/SENEX > vecchio, con passaggio in postonia di tul
> tl > cl), è il fatto che essi mantenevano solitamente una forma fonica più estesa
rispetto al grado 0 che ne evitava l’assottigliamento dovuto alle varie sincopi
consonantiche e vocaliche successive all'intensificazione dell'accento latino, tanto che
suffissi diminutivi latini divennero produttivi in romanzo, come accade negli esempi
citati.

Grammatici latini
Le opere dei grammatici sono molto utili perché si trattava generalmente di puristi
della lingua che sottolineavano le forme errate in uso in rapporto a quelle corrette: il
testo più noto è senz'altro la Appendix Probi o Appendix Bobbiensis (V-VI sec. sec.
d.C.), glossarietto trascritto in calce a un codice contenente la grammatica dello
pseudo-Probo, conservato in un manoscritto che si trova presso la Biblioteca
Nazionale di Napoli. Qui un purista, probabilmente di origine africana o visigota,
redasse una lista di forme corrette che, in realtà, non sempre sono conformi alle
regole della lingua classica, accanto a quelle scorrette, del tipo “si dice […] non si
dice”, dunque auris n o n oricla, calidus non caldus, cultellum non cuntellum,
columna non colomna ecc.

Glossari
Affini alle grammatiche si collocano i glossari latini, ovvero 'vocabolari
solitamente monolingui che traducevano parole o espressioni ormai fuori dall'uso
contemporaneo con altre più attuali'. Il lessicografo più noto della tarda latinità è

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Isidoro di Siviglia (570-636 d.C.), che nelle sue Etymologiae ci dà numerose
informazioni sul latino della sua epoca. In generale nelle glosse dinanzi a una parola
latina si offriva una traduzione o in un latino più comprensibile o direttamente in
volgare. Ad esempio, nelle Glosse di Reichenau (IX sec. d.C.) si spiegavano in
latino tardo espressioni della Bibbia troppo difficili, ad es. bella per pulchra, sabulo
per arena, ficato per iecore ecc. Di provenienza bavarese e della stessa epoca sono le
Glosse di Kassel, una sorta di prontuario romanzo-tedesco in cui si trovano tradotte
espressioni come: tundi meo capilli 'tagliami i capelli', radi meo barba 'tagliami la
barba', figido 'fegato' ecc. Infine, ricordiamo le Glosse emilianensi e le Glosse
Silensi del X sec. d.C., di area iberica, che presentano il primo uso cosciente del
volgare locale e che, rispetto alle glosse di area franco-germanica, sono considerabili
come testi pienamente romanzi o quasi romanzi.

Trattati tecnici
Nell'indagine sulle fonti del latino volgare si annoverano gli scriptores rei
rusticae, su tutti Marco Porcio Catone, autore del De Agri Cultura (160 a.C. circa), e
Marco Terenzio Varrone, che scrisse il De re rustica nel 37a.C., i quali dovevano
utilizzare espressioni popolari, altrimenti inusuali nei testi classici e nei generi più
nobili, come oratoria, storiografia, poesia, per redigere i loro rispettivi trattati. Grazie
a tali attestazioni sappiamo che fenomeni grammaticali tipici delle lingue neolatine –
ad esempio il che relativo polifunzionale romanzo – non erano innovazioni dei
volgari, in quanto già presenti nella fase arcaica della lingua. Più tardo ma
importantissimo è il trattato di veterinaria intitolato Mulomedicina Chironis (IV sec.)
che fu in séguito utilizzato da un veterinario di nome Vegezio il quale, però, ne
corresse alcuni volgarismi. Uno notevole è una sorta di articoloide, prefigurazione
dell’articolo determinativo: es. si dictaverit ipsum tempus ‘se lo richiederà il tempo’,
dove il pronome determinativo ipsum ‘stesso’ prefigura la forma di articolo che nasce
da essa e che viene attualmente utilizzato nel sardo (su, sa, sos, sas), a partire da una
funzione di articoloide di ipse sviluppatasi nel tardo latino africano, dove

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probabilmente il testo fu redatto.

Iscrizioni
Sono molto utili allo studio dei volgarismi anche le iscrizioni lapidee di cui il
territorio dell'Impero è disseminato, soprattutto quelle dal tono più modesto, redatte
in una lingua non sempre sorvegliata, come ad es. le iscrizioni di Pompei ed
Ercolano, città sepolte dall'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., contenenti messaggi di
natura privata (amore, antipatie personali, conti privati ecc.) oltre alle formule
magiche incise a graffio su lamine di piombo per gettare il malocchio sui nemici dette
tabellae defixionum, generalmente riposte in luoghi non immediatamente visibili e
ritenuti magici, come templi, fonti, tombe.

Autori classici e post-classici


Alcune opere letterarie latine utilizzavano per varie ragioni un latino meno
ufficiale rispetto a quello dei grandi auctores: si pensi al già citato Plauto, o allo
stesso Cicerone, se si vuole in maniera sorprendente, visto che questo
importantissimo oratore costituisce unanimemente il principale modello di classicità.
Ebbene, costui nelle Epistole ai familiari attesta volutamente espressioni colloquiali,
proprie del sermo cotidianus, ad es. bellus per pulcher, mi vetule 'vecchio mio' in
luogo di senex ecc. Importante è anche il Satyricon di Petronio (I sec. d.C.), un
romanzo che offre uno spaccato corrosivo della società romana, principalmente nella
cena di Trimalcione, un liberto arricchito che dietro pretese intellettuali commette un
ragguardevole numero di strafalcioni, insieme a una congrega di suoi pari che l'autore
si diverte a rappresentare in tutte le possibili sfaccettature linguistiche. Per questo vi è
anche chi considera il Satyricon l'unico testo volutamente redatto in latino volgare.

Traduzioni latine della Bibbia


Se si guarda al latino tardo, si trovano delle traduzioni latine della Bibbia nelle
quali la lingua degli autori cristiani mantiene, almeno inizialmente, un registro umile

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e popolare. La versione più antica è quella approntata nel II sec. d.C., detta Vetus
Latina, mentre risale al 383 la Vulgata di S. Girolamo: poiché il latino cristiano è
volutamente popolare e basso, in tali versioni non mancano dei fenomeni interessanti
per gli studiosi del latino volgare. Lo stesso S. Agostino d'Ippona (354-430 d.C.)
sottolineava l'utilità, più che la bellezza, della lingua, quando affermava: «Melius est
reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi».
Fra le fonti del latino volgare rientrano poi le attestazioni presso autori di non
grande cultura, come accade ad es. in un testo risalente al 417-18 d.C. che narra il
resoconto del viaggio in Terra Santa di una pellegrina probabilmente originaria del
Nord-Ovest della Spagna di nome Etheria o Egeria – probabilmente una monaca di
buona famiglia –, la quale nel suo resoconto del viaggio di ritorno intitolato
Peregrinatio Egeriae ad loca sancta impiega largamente espressioni che hanno un
ben maggiore riscontro nei volgari romanzi che nel latino classico. Il testo fu scoperto
da uno studioso italiano, F. Gamurrini, nel 1884, in un manoscritto cassinese dell'XI
sec. e suscitò ben presto l'interesse degli studiosi. Fra le molte di grande interesse, si
veda ad es. la frase in ecclesia maiore, quae appellatur Martyrio. La forma corretta
avrebbe dovuto essere Martyrium, in accusativo: Martyrio non è certo un ablativo,
bensì un lessema, cioè la forma unica che vale tanto per il soggetto quanto per
l’oggetto, e che può essere distinta al singolare o al plurale attraverso una marca o
terminazione aggiuntiva, quale ad esempio una -s. Ciò attesta che nel parlato (quae
appellatur) si era fatta strada la resa del soggetto all’accusativo e la perdita di
distinzione fra questo caso e il nominativo. Oltre a ciò, nella Peregrinatio è attestata
la sostituzione del genitivo con il costrutto preposizionale: sancto episcopo de Arabia
per Arabiae e altri fenomeni ancora, come l'utilizzo in forma di articolo dei pronomi
ille e ipse che saranno analizzati più avanti.

Latino tardo
Ci riferiremo ora a quei documenti che furono redatti quando i volgari dovevano
essere presumibilmente già nati e utilizzati nella comunicazione: il fatto è che

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nell'Alto Medioevo il latino era rimasto la lingua della cultura, ma spesso nei
documenti pervenutici si impiegava un latino modesto, fortemente condizionato dalla
mancanza di scuole e di istruzione, almeno fino alla rinascita carolingia del IX secolo
ma anche ben oltre, quando cioè si diede il via a una riforma classicista che mirava
alla costruzione di un impero cristiano romano e germanico e che vide una
restaurazione della norma linguistica antica. Anzitutto, bisogna chiarire che esiste
uno scarto abbastanza ampio fra la registrazione dei primi documenti in volgare (IX
sec.) e l'utilizzo dei volgari a livello del parlato, in quanto essendo il latino la lingua
della cultura, ciò ne favorì l'impiego ben oltre il suo utilizzo spontaneo presso la
comunità dei parlanti. In séguito alla riforma culturale voluta da Carlo Magno, che
sancì la proscrizione dello scorretto latino merovingico a favore del latino riformato
e, come conseguenza, una più netta separazione fra latino e volgare, il processo di
scrittura di quest'ultimo fu accelerato e diede origine ai primi documenti, i quali per
forza di cose erano fortemente dipendenti dal latino. Perciò, si spezza in qualche
modo il legame fra il volgo e il latino nella sua prosecuzione naturale, imbarbarita e
scorretta, e si rende necessario l'utilizzo, anche scritto, di una lingua comprensibile.
Così, durante il Concilio di Tours dell'813, nel quale si riunirono vescovi provenienti
da tutto l'Impero, si ha la presa d'atto di quanto appena detto e, al fine di rendere
accessibile a tutti i principi della fede cattolica, dunque di garantire la salvezza dei
fedeli, si proclama:

Et ut easdem omelias quisque aperte transferre studeat in rusticam Romanam linguam aut
Thiotiscam, quo facilius cuncti possint intellegere quae dicuntur.
'E anche [è parso opportuno a tutti noi] che quelle stesse omelie ciascuno di essi [i vescovi] si
applichi a tradurle apertamente nella lingua romana parlata dai 'rustici' ovvero in [lingua] tedesca,
affinché tutti senza eccezione possano comprendere senza difficoltà ciò che viene detto loro'.

Fra i documenti antecedenti la riforma in questione abbiamo la Historia


Francorum del vescovo francese Gregorio di Tours (538-594), redatta in quel latino
fortemente regionalizzato e imbarbarito noto come merovingico: l'autore era ben

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consapevole dei volgarismi di cui la sua opera era intrisa e si dice dispiaciuto,
confessandosi al contempo incapace di porvi rimedio.
Sempre di area francese è la Lex salica, una raccolta di leggi degli antichi franchi
Salii tramandata in più redazioni successive, la cui più antica versione è risalente a
Clodoveo (muore nel 511 d.C.). Ad es., XXX, De convitiis: «Si quis alterum
concagatum (cf. ant. fr. conchier 'disonorare', insozzare') clamaverit, sunt CXX
denarios qui faciunt solidos III culpabilis iudicetur». Molto interessante anche la
parodia della Lex Salica, redatta intorno all'VIII sec. da un copista della Lex forse
irritato dallo stile giuridico dell'opera, a mo' di burla, secondo un uso comune
all'epoca. Se ne vedano alcuni stralci in traduzione:

In nomine Dei patris omnipotentis: Così piacque alla volontà di Laidobrando e di Ado, che (per
quanto concerne) il patto salico […] stendessero con l'aiuto di Dio, nel detto patto un capitolo, che
se alcuno avesse, in casa propria o fuori casa, una bottiglia piena, sia del loro sia dell'altrui, non ne
versino nella coppa neanche una goccia. Se alcuno presumesse di fare ciò, soddisfi un risarcimento
di quindici soldi, e la detta coppa la rompano tutta, al bottigliere rompano il capo, al coppiere
tolgano le bevande [& ipsa cuppa frangant la tota, ad illo botiliario frangant lo cabo, at illo
scanciono tollant lis potionis]. Così si convenne di osservare, (che) bevano dal calice e dentro
facciano la zuppa col vino […] Io che scrissi, non scrissi qui il mio nome. Il colpevole sia giudicato.

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SISTEMA FONOLOGICO
VOCALISMO TONICO

Tipi di vocalismo
Fra i cinque fonemi vocalici di base, in latino vi era una distinzione fra vocali
lunghe e brevi, e si giungeva quindi fino a dieci fonemi. D'altra parte, il sistema
romanzo è basato non sulla quantità vocalica, ma sulla sua apertura o chiusura, quindi
sul timbro, tenuto conto della seguente corrispondenza:
1. vocali lunghe latine = vocali chiuse nel sistema vocalico romanzo;
2. vocali brevi latine = vocali aperte romanze.
Inoltre, dal I sec. d.C. si registra in latino una semplificazione fonologica che
porta alla predicibilità dell'opposizione fra vocali lunghe e brevi in base al
contesto sillabico, per cui la quantità vocalica era lunga in sillaba tonica aperta e
breve in sillaba tonica chiusa.
L e vocali finali, lunghe o brevi, ricoprivano in latino un'importante funzione di
marca morfematica ereditata dall'indoeuropeo, poiché a seconda della lunghezza o
brevità delle stesse il parlante poteva attribuire alla parola in oggetto un preciso
valore semantico all'interno del discorso. Mentre nell'italiano è evidente il passaggio
delle desinenze vocaliche dalla funzione casuale a quella di distinzione fra genere e
numero, nel francese ad es., dove le vocali finali, insieme alle consonanti, hanno per
lo più un valore grafico, è necessario l'inserimento di una preposizione come
l'articolo che possa esplicitare genere e numero (la rose, une rose, les roses).
Prendiamo ad es. la declinazione di un nome della prima declinazione latina:
amică 'l'amica'
amicae 'dell'amica'
amicae 'all'amica'
amicăm 'un'amica'
amică 'oh amica!'

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amicā 'per l'amica, con l'amica' ecc.

Come si può vedere, non è necessario l'utilizzo dell'articolo che difatti il latino, al
contrario del greco, non possedeva, per poter comprendere quale funzione la parola
potesse avere all'interno del discorso. Tuttavia, esistevano delle preposizioni del tipo
per, cum, de ecc. le quali si collocavano prima della parola a cui si riferivano e che
contribuirono a creare una struttura preposizionale parallela al quella
casuale/sintetica la quale, una volta venuta meno la distinzione fra vocali lunghe e
brevi, prevalse sul sistema casuale e permise al sistema morfologico latino di
evolversi in preromanzo, vale a dire uno stadio linguistico nel quale, appunto, le
antiche desinenze persero il loro valore in quanto ormai superflue. Riprenderemo più
avanti il discorso sulle desinenze; si vedano ora i più importanti sistemi del
vocalismo tonico romanzo:

1. Il principale sistema vocalico è quello detto romanzo comune, a 7 fonemi:

ī ĭ ē ĕ ā ă ŏ ō ŭ ū

i e ε a ɔ o u

Ī: FĪLUM > filo.


Ĭ: NĬVEM > neve.
Ē: MĒNSEM > mese.
Ĕ: BĔNEM > bεne.
Ŏ: PŎRTUM > pɔrto.
Ō: SŌLEM > sole.
Ŭ: NŬCEM > noce.
Ū: MŪRUM > muro.

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Probabilmente tale semplificazione è dovuta anche al fatto che le vocali lunghe,
prodotte con un maggior sforzo muscolare, tendono all'innalzamento e alla
chiusura, mentre quelle brevi, all'opposto, si abbassano e diventano aperte, già a
partire dal latino tardo. Si verifica dunque una defonologizzazione in cui l'esito di Ĭ e Ŭ
coincide con quello di Ē e Ō e la conseguente opposizione fonologica presente nella
lingua italiana fra vocali medie aperte /ε/ /ɔ/ e chiuse /e/ /o/.
2. Tipo sardo, a 5 fonemi, diffuso, oltre che in Sardegna, anche in una zona al
confine fra Calabria e Lucania (zona Lausberg) e nei dialetti corsi meridionali. Qui
ogni coppia di vocali si fonde in un unico fonema, senza distinzione degli esiti in
base alla lunghezza della vocale latina. Potremo quindi dire che in questo caso non è
giunta l’innovazione ĭ > e e ŭ > o:

ī ĭ ē ĕ ā ă ŏ ō ŭ ū

i e a o u

Quindi, in sardo avremo filu < FĪLUM ma nive < NĬVEM e furca < FŬRCAM.

3. Tipo: balcanico, presente in rumeno, oltre che albanese e dalmatico, e in


Italia nella Basilicata orientale. Si tratta di un sistema misto, poiché
corrisponde a quello romanzo comune nella serie anteriore, con
defonologizzazione di Ĭ e Ē > e, e a quello sardo nella serie posteriore, con il
mantenimento della distinzione fra Ō e Ŭ:

ī ĭ ē ĕ ā ă ŏ ō ŭ ū

i e ε a ɔ u

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Ī: FILUM > rum. fir, ma Ĭ NĬVEM > nea, come Ŭ > u FŬRCAM > furca.

4. Tipo siciliano comprendente oltre alla Sicilia, la Calabria meridionale e il


Cilento (intorno a Salerno). In quest'area si raggruppano i tre fonemi anteriori e
posteriori in un unico esito e le vocali mediane evolvono regolarmente secondo
lo schema ĕ, ŏ > ε, ɔ:

ī ĭ ē ĕ ā ă ŏ ō ŭ ū

i ε a ɔ u

Esempi: filu, nivi, misi, ma: BĔNEM > bεni; CŎREM > cɔri, ma SŌLEM > suri.
Agli albori della letteratura italiana, ovvero nella Scuola poetica siciliana, quello
illustrato era il vocalismo tonico utilizzato, per cui TENĒRE e VENIRE > tiniri e veniri.
Quando i copisti toscani trascrissero le liriche siciliane, adattarono il sistema vocalico
peculiare di quest'area al proprio sistema fonologico, per cui le rime originarie amicu
: micu, ciascunu : donu furono rese in amico : meco e ciascuno : dono, poiché si
pensò che fosse normale far rimare e : i e o : u, tanto che lo stesso Dante fa rimare
noi : fui (Inf., IX, 20-22). Il dato storico più rilevante è che le copie toscane dei poeti
siciliani (che non erano però tutti di origine siciliana), avevano indotto a credere che
già nel Duecento si utilizzasse una koinè di base toscana.

Anafonesi
Questo il prospetto delle principali evoluzioni vocaliche presenti nelle lingue
romanze. Tuttavia, si trova un'importante eccezione a quanto detto nel toscano
fiorentino denominata anafonesi: davanti a gruppi consonantici come nj, lj, skj, nc e
ng, si ha il passaggio di Ĭ e Ē > i invece che ad e, come accade nel sistema vocalico
del romanzo comune, ad es. tosc. famiglia, lingua ecc., mentre in veneto si ha la

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trafila fonetica regolare Ĭ > e: lengua, fameja.

Dittongamenti
Riduzione dei dittonghi latini: molti erano già semplificati in latino tardo, ad es.
AE > E, EI > I ecc. Il dittongo au si conserva in latino volgare, successivamente si
riduce a o in spagnolo, francese e italiano, mentre in rumeno e occitano in generale si
conserva (AURUM > aur). In italiano la sua permanenza segnala un cultismo: es.
oro/aureo.
In italiano, francese e spagnolo Ĕ ed Ŏ toniche hanno dato luogo a dei dittonghi.
Vediamo i principali casi:
Toscano: si ha dittongamento di ε ed ɔ (< Ĕ,Ŏ) in /jε/ /wo/ solo in sillaba libera:
MĔLEM > miele; PĔDEM > piede; FŎCUM > fuoco; NŎVUM > nuovo ecc.
Francese: a differenza dell’italiano dittongano sia le vocali lunghe, sia quelle
brevi latine in sillaba libera: miel, piè, feu, neuf per la serie delle brevi. Vocali
lunghe: HABĒRE > a. fr. aveir, fr. mod. avoir. FLŌREM > fleur ecc. Una peculiarità del
francese è di far dittongare anche a latina in sillaba libera + nasale: CANEM > chien,
altrimenti MARE < mèr.
Castigliano: in questa lingua, non essendovi vocali aperte, dittongano quelle
chiuse, sia in sillaba libera, sia implicata: FŎCUM > fuego, e così nuevo, ma ŎS/SUM >
hueso, PŎR/TAM > puerta ecc.
Sardo: non fa dittongare le vocali medie aperte e chiuse né in sillaba aperta (pède,
bène, bónu, fócu, tènnere, fròre-i < FLŌREM ma log. fiòre per influsso del tosc.), né in
sillaba chiusa (ossu, ortu).

Metafonesi
Un fenomeno vocalico ampiamente diffuso nella penisola italiana è la metafonesi:
si tratta di un fenomeno indotto, cioè non spontaneo e determinato da cause esterne,
che porta, ad eccezione della Toscana, le vocali toniche chiuse e, o + -i, - u > i, u:
DIGNUM > degno ma al plur. digni a causa della -i metafonetica; DULCEM > dolce ma

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dulci (Giacomino da Verona, XIII sec.). Quando agisce la sola -i la metafonesi è detta
settentrionale o veneta, diffusa nell'area di Vicenza, Padova e Rovigo e attualmente
connotata come rusticismo, ad es. coro 'io corro' ma te curi 'tu corri'. In generale la
metafonesi è un innalzamento della e > i e della o > u indotto dalla presenza di una
vocale anteriore (i) o posteriore (u), cioè dei timbri chiusi, nella sillaba seguente e in
questa tipologia rientra la
Metafonesi meridionale o napoletana. PLENAM 'piena' > femm. sing. ['kjenɘ], ma
masch. PLENUM 'pieno' > ['kinɘ], plur. PLENI > ['kinɘ]. Dunque, si ha una distinzione
metafonetica fra i nomi femminili, la cui desinenza non corrisponde a vocale
metafonetica, e i maschili, dove invece la metafonesi si realizza tanto al singolare,
quanto al plurale.
ε, ɔ in sillaba chiusa + i, u dittongano ad es. CŎLLUM > [kwɔllɘ], TĔMPUS > [tjεmpɘ]
ecc.
Infine, nel cosiddetto gruppo calabro-siculo o dei dialetti meridionali estremi e, o
toniche evolvono in i, u spontaneamente, ovvero senza che la vocale post-tonica
debba necessariamente essere i o u: SOLEM > suli, TELA > tila.
La metafonesi in Sardegna: essa è presente in tutte le varietà linguistiche che
definiamo sarde, mentre è assente nel sassarese e nel gallurese: qui il timbro di e o
toniche dipende dalla vocale postonica: se quest'ultima è i o u, allora la tonica
precedente sarà chiusa, mentre in tutti gli altri casi sarà aperta: [ó]mine/i ‘uomo’;
f[é]mina ‘donna’/’femmina’; b[ó]nu ‘buono’; b[é]llu ‘bello’ ma b[ɔ́]na ‘buona’;
b[ɛ]lla ‘bella’; k[ɛ]ra ‘cera’; b[ɛ]nnere ‘venire’; m[ɔ]rrere ‘morire’; b[ɔ]nos ‘buoni’;
b[ɛ]llos ‘belli’. Nell'area centro-meridionale dell'isola le finali latine -E, -O, che si
conservano nel dominio centro-settentrionale > -i, -u e queste non agiscono sulla
tonica, che rimane aperta: kɔru, frɔri, mentre sarà la U etimologica a determinare la
chiusura: óllu < OLEU(M) , m a ɔllu < *VOLEO. Si creano così coppie minime, ad es.
tεmpus sing. < TEMPUS e tεmpus plur. < *TEMPOS.
In definitiva, la metafonesi non è altro che un fenomeno sincronico di
armonizzazione della lingua, così come altri fenomeni sia vocalici, sia consonantici

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(rispettivamente la nasalizzazione e la lenizione delle occlusive sorde intervocaliche)
che cerca di adeguare organicamente ed economicamente il proprio sistema secondo
tendenze prevalenti, nel modo più economico possibile in funzione della lingua
parlata.

Vocalismo atono
Altri fenomeni vocalici importanti, principalmente sincopi, sono:
La caduta della vocale postonica, soprattutto in parole proparossitone:
(DOMINA > domna, OCULU > oclu, già in Petronio, Satyricon, Coena Trimalkionis) ecc.
Sincope delle vocali di sillaba intertonica: l’intertonica è la sillaba che si colloca
fra l’accento primario e quello secondario: BON(I)TATE > a. it. bontate, fr. bonté, sp.
bontad ecc. Tranne la a, le altre vocali in questa posizione spesso tendono a cadere.

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CONSONANTISMO

Semivocali
Già in latino le semivocali palatale j e velare w tendevano a cadere o a rinforzarsi
diventando consonanti a causa della loro difficoltà a fungere da frontiera sillabica,
come dimostrano forme quali quetus per quietus > it. cheto ma quieto per trafila
colta. Quanto alla w, essa si pronunciava come fricativa labiovelare (cfr. ingl. wind),
finché dall'epoca imperiale in poi si trova la confusione dei suoni w e b (il latino non
possedeva la fricativa labiodentale sonora v, dunque via si pronunciava [wia]), ad es.
nelle iscrizioni pompeiane baliat per valeat, berus per verus ecc. Da queste iscrizioni
si capisce come si sia verificato il passaggio di -b- e -v- intervocaliche alla fricativa
bilabiale sonora [β] (pronuncia dello spagnolo di nuevo), e in séguito alla fricativa
labiodentale sonora [v] nella gran parte del dominio romanzo, ad es. HABERE > lat.
volg. [aβere] > it. avere, fr. avoir, rum. avea, ma sp. haber [β]. Anche il sardo
conserva per lo più la fricativa intervocalica [β], ad es. [binu] e [su βinu]. A conferma
della contiguità fra v e b si trova il betacismo, ovvero il 'passaggio di v a b’,
soprattutto dopo l, r, ad es. nella Appendix Probi «alveus, non albeus» 'alveo', poi,
nelle lingue romanze, CORVU > rum. corb, ant. fr. corb e corp, poi fr. mod. corbeau <
CORVELLU, sardo corbu/crobu [β], ma it. corvo, sp. cuervo.
Quanto a j, pronunciata come nel fr. payer, era indicata dai grafemi <I> <i> già
utilizzati per indicare la vocale i, per cui IANUAM ['januam]. A partire dal I sec. d.C. j
si consonantizza principalmente in posizione intervocalica, dove tende a evolvere in
geminata, come palesano grafie del tipo maiior. Il passaggio successivo, soprattutto
in italiano, francese, ladino, provenzale, è quello alle affricate [dƷ] e [dz]: IOCUM > it.
gioco, fr. jeu, occit. jòc, port. jogo [Ʒ], rum. joc, mentre nelle varietà del sardo di area
centro-orientale j si conserva in nuor. joku (varietà centro merid. giògu) e, a sua volta,
lo spagnolo realizza una fricativa velare sorda [x] in juego .

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Labiovelari kw e gw
La labiovelare sorda kw tende a perdere l'appendice labiale, a eccezione di sardo
e rumeno, che invece labializzano kw e gw se seguite da a: AQUA > sardo centro-
settentrionale abba, rum. apa. Pertanto, a Pompei si trova comodo per QUOMŌDO;
Appendix Probi «equs non ecus» mentre nelle lingue romanze, si sono avuti risultati
alternanti: dalle forme COQUI e COCI si ha it. cuoco e cuocere, rum. coace, fr. cuire, sp.
cocer ecc., o, ancora, QUATTUOR > it. quattro, sp. quatro, fr. quatre [katR], sardo
battoro. Davanti a i il nesso labiovelare alterna mantenimento (QUĪNDECIM > it.
quindici) o riduzione (QUI, QUID > it. chi), fino a QUINQUE > it. cinque, forma
documentata già in latino (CIL VI 17508, Roma) con cīnque/cīnquaginta. La
labiovelare sonora gw si trova in latino solo preceduta da n, ad es. lingua, e tende a
conservarsi, mentre nel sardo centro-settentrionale e in rumeno si ha la
labializzazione, ad es. LINGUA > limba.

Fenomeni prosodici tra vocalismo e consonantismo


Si è detto come sia fondamentale ricordare il passaggio dalla quantità sillabica
latina al timbro vocalico:
1. vocali lunghe latine > vocali chiuse romanze;
2. vocali brevi latine > vocali aperte romanze.
Abbiamo poi riepilogato le norme accentuative del latino:
1. l’accento cadeva sulla penultima sillaba se questa era lunga, altrimenti sulla
terzultima;
2. vocale breve + due consonanti > lunga (per posizione)
3. muta cum liquida, es. catĕdra, dove la tonica resta breve.
Già nel latino volgare si verificavano degli spostamenti d’accento: il più
importante riguarda quello in cui, in latino classico, la penultima sillaba con ĕ, ŏ era
preceduta da i, e senza che ciò desse vita a un dittongo e in questo caso abbiamo lo
iato: FI-LÌ-O-LUM, MU-LÌ-E-REM, PA-RÌ-E-TEM ecc. Nel latino volgare si eliminano

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progressivamente gli iati formati da ĭ, ĕ + vocale, a causa della difficoltà ad articolare
tali nessi, generalmente attraverso lo sviluppo di un elemento semivocalico e la
riduzione sillabica conseguente a tale sviluppo (FAC-Ĭ-O > fak-jo). Dunque, già nel
latino imperiale le vocali palatali i, e divennero semivocali, per cui lo iato venne a
mancare e si ebbe lo sviluppo di un dittongo: quindi cade la sillaba in più determinata
dallo iato e l’accento non può che risalire di una posizione, con la conseguenza di una
palatalizzazione della consonante precedente: FI-LÌ-O-LUM > *FI-LIÒ-LUM > fi-gliò-
lo, LIN-TE-O-LUM > *LIN-TEÒ-LUM > len-zuò-lo. I nessi formati da consonante +
semivocale coinvolti sono le occlusive velari k, g, dentali t, d, nasale n e liquida l + j,
sibilante s.
L + J > [λ] FOLIUM > it. foglio, fr. feuille, sp. hoja, port. folha, rum. foaie.
T + J > [ts], PUTEÒLI > Pozzuoli ecc. Normalmente, allo spostamento d’accento
segue una modifica nella consonante che precede la semivocale, la quale dapprima si
allunga e poi si palatalizza: PUTEUM > *put-tju > *put-tsu > pozzo ['pottso], a.fr. puis
[uj] (fr. mod. puits), sp. pozo, rum. puţ. Tale evoluzione è attestata già dal II sec. d.C.,
mentre risulta documentata più tardi, intorno al V-VI sec. d.C., l'evoluzione
dell'occlusiva velare sorda, ad es. *FACIAM [fakiam] > it. faccia [tʃ], e in [ts], ant. fr.
fas [fatsə], fr. mod. face [fas], sp. haz, rum. faţă ecc.
D + J > [dƷ] e [dz]: l'esito è coevo dell'esito T + J > [ts]: HODĬE > oggi, fr. hui [uj],
sp. oy [j], sardo oje [j], ma j può anche dileguare e dare oe.
N + D + J: VĔRĔCUNDĬA > [ŋ] : it. vergogna, ant. fr. vergoigne o, più tardo,
vergonde, ma sp. vergüenca [θ].
N + J > [ŋ]: VINEAM > it. vigna, fr. vigne, sp. viña, port. vinha ecc.

L'aspirata
In latino esisteva un'aspirata iniziale di origine indoeuropea <h> e la tendenza alla
deaspirazione, ritenuta di origine etrusca, si nota già in epoca repubblicana con
ipercorrettismi vari. A Pompei (79 d.C.) forme come hire per ire segnalano la
scomparsa dell'aspirata nella pronuncia. Invece, in posizione intervocalica l'aspirata

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era scomparsa già in epoca preletteraria, come si vede dai composti come NEMO <
*ne-hemo (= -homo) e non la si pronunciava neppure in mihi, nihil ecc.

Palatalizzazione delle occlusive velari


L'occlusiva sorda [k] + [e], [i] era pronunciata in latino come mediopalatale (come
nell'it. chiaro, finché non tende a realizzarsi come palatale vera e propria intorno al
III sec. d.C. nell'area del cosiddetto romanzo comune e a evolvere ulteriormente, a
eccezione del sardo e dell'estinto veglioto, ad es. CERVUM -, it. cervo, rum. cerb [tʃ],
f r . cerf, port., cervo[s], sp. ciervo [θ], ma sardo centro-sett. ['kerβu]. Tuttavia,
nonostante la vastità del fenomeno, in latino si hanno indizi grafici modesti e tardi,
ad es. intcitamento per INCITAMENTO (V sec. d.C.). Probabilmente, l'innovazione non
si diffuse fino ai gradi più alti della società e dunque il valore velare poté durare più a
lungo di quanto non sia dato ipotizzare, per presentarsi così in prestiti latini ad altre
lingue che, difatti, mantengono la pronuncia velare, ad es. ted. keller < CELLARIUM.
Inoltre, si è già detto della palatalizzazione delle occlusive velari sorda e sonona
davanti ad a in francese, del tipo CANEM > chien, che si è verificata anche in
engadinese, friulano, ladino dolomitico, provenzale settentrionale e franco-
provenzale, realizzandosi in maniera peculiare a ciascuna di queste aree.

Lenizione delle consonanti occlusive


A proposito della suddivisione fra lingue romanze occidentali e orientali si è
parlato della lenizione delle consonanti occlusive intervocaliche, che consiste
nell’indebolimento (lenizione appunto) di queste ultime nel passaggio dal latino al
romanzo in:
1. Penisola iberica,
2. Francia
3. Italia settentrionale;
4. varietà retoromanze (romancio, ladino e friulano);
5. parzialmente in sardo, dove il fenomeno è più recente, viste le

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attestazioni documentarie medievali che tendono a conservare le occlusive
intervocaliche senza che esse sonorizzino.
Al di sotto della linea La Spezia-Rimini o Massa-Senigallia, che dovrebbe
grosso modo segnare il passaggio dal dominio linguistico dei dialetti settentrionali a
quelli dell'area centromeridionale, toscano compreso, la lenizione è limitata di
conseguenza ai dialetti che stanno al di sopra di questa linea di isoglosse, per quanto
tale suddivisione risulti più sfumata di quanto non sembri.
In breve, lo schema della sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche
è il seguente:
[t] > [d], [δ], [ø]
[p] > [b], [v]
[k] > [g], [γ], [ø]

lat. ROTA; rum. roată; it. ruota; fr. roue; sp. rueda.
SAPONE; rum. săpun; it. sapone; fr. savon; sp. jabón.
URTICA; rum. urzică; it. ortica; fr. ortie; sp. ortiga.

La documentazione latina in merito diventa abbondante solamente a partire dal V


sec. d.C., dunque è difficile stabilire una cronologia precisa del fenomeno.
-s- latina era pronunciata solo sorda, come nello spagnolo, ma finisce per
sonorizzarsi nelle varietà gallo-romanze e nei dialetti italiani settentrionali.
L’italiano si trova in una posizione ambigua: CAUSA > cosa [s], ROSA > rosa [z], ma
presenta sempre [z] quando la sibilante è seguita da consonante sonora (ad es.
sbaglio, trasmettere ecc.), mentre si realizza come [s] quando segue una semivocale
(ad es. siamo).

Fra gli altri fenomeni consonantici si può ricordare rapidamente l’esito di TL > cl:
VETULUM > *vetlu > *veclu > vecchio, passaggio che si ritrova in tutto il dominio
romanzo, trattandosi di un fenomeno che agiva già nel latino arcaico: *POTLOM >

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POCULUM > poclum. Si tratta di una intolleranza a un gruppo consonantico
secondario, cioè formatosi in séguito a una sincope e sostituito con un nesso più
facilmente pronunciabile.
Semplificazione del nesso -ns-: si tratta di un tratto molto ricorrente nei
documenti volgari, attestato fin dal II sec. a.C. Nell'Appendix Probi si trova «mensa
non mesa», e tale assimilazione è attestata in maniera compatta nelle lingue romanze:
SPONSUM > it. sposo, sp. e port. esposo, fr. époux, sardo (i)sposu ecc.

Consonanti finali latine


In generale le consonanti finali sono deboli dal punto di vista articolatorio e sono
dunque portate a subire delle modificazioni, soprattutto in fonosintassi, ovvero in
base alle parole seguenti. Già in latino sappiamo che -m e -s tendevano a cadere, il
che creava problemi di chiarezza in merito ai morfemi flessionali, poiché ad esempio
-m finale, da tempo elisa in metrica e caduca già in iscrizioni del III sec. a.C., era
specialmente deputata alla connotazione del caso accusativo, dunque del
complemento oggetto, al singolare, mentre la -s era la marca dei plurali. Più stabile,
ma anch’essa soggetta a caduta, era -t finale, presente nelle terze persone singolari e
plurali dei verbi. Questo fatto di natura fonetica ebbe forti ripercussioni a livello
morfologico: la declinazione casuale ne risultò assai indebolita tanto che, per iniziare
a distinguere le forme di accusativo e le funzioni grammaticali di un lessema come
amicu si dovette aggiungere una preposizione o uno specificante che precisasse quale
ruolo il lessema ricoprisse nella frase. Un esempio significativo dell’indebolimento
della -m finale e delle sue conseguenze a livello morfologico è fornito da un fascicolo
di 5 lettere risalenti al II sec. d.C., scritte dal soldato di marina Claudio Terenziano al
padre Claudio Tiberiano. Si tratta di una rara attestazione del latino parlato allora in
Egitto e il fenomeno più evidente che si può constatare è proprio la tendenza alla
indistinzione fra nominativo e accusativo, ad. es. saluta Saturninum scriba,
Capitonem centurione … Terentium gubernatorem et Frontone …et Marcellu
collega tuum. Evidentemente, alcune forme sono in accusativo ma quelle successive,

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che dovrebbero concordare nello stesso caso, mancano della -m: es. Saturninum
scriba, Capitonem centurione… Ciò significa che veniva marcato col morfema
accusativale -m solo il primo elemento del sintagma, mentre il secondo era ritenuto
superfluo, quindi eliminato, e si realizzava quindi come lessema, cioè nella forma
base.
Nelle lingue romanze -m finale non lascia traccia, se non in alcuni monosillabi,
trasformata spesso in n: REM > fr. rien; cum > it. sp. con, port. com, sardo kun, ma
rum. cu; QUEM > sp. quien. In SUM/SUNT > it. sono, sardo soe/seu, sun(u), si nota la
presenza della vocale paragogica finale.
La -s finale in latino era più stabile rispetto alla -m e su questa base la Romania si
trova ripartita in due aree, ovvero l'area occidentale, che la conserva e che
comprende anche il sardo, oltre a una parte del ladino, all'ibero-romanzo e al gallo-
romanzo, e l'area orientale, rappresentata da italiano e rumeno, in cui -s > -i o cade.
In breve, nella morfologia nominale l'area occidentale presenta un plurale sigmatico,
così come la 2a pers. sing. dei verbi, mentre quella orientale mostra un plurale
vocalico cui corrisponde la terminazione, sempre vocalica, della 2a pers. sing. NOS
'noi', CANTAS 'canti': sp., port. nos, cantas; cat. nos, cantes; prov. nos, cantas; fr. nous,
chantes (ant. fr. con -s articolata); engad. nus, soprasilv. contas; sardo no(i)s, cantas,
ma it. noi, canti; rum. noi, cînţi. Dunque, il plurale sigmatico, più esteso rispetto a
quello vocalico, deriva dall'accusativo plurale latino, mentre la terminazione -i
(masch.) e -e (femm.) della Romania orientale ha un'origine più controversa: la
terminazione in -i potrebbe derivare regolarmente da AMICI = nom. plur. con
palatalizzazione di [k] + [i] latino e successiva estensione analogica anche ai nomi
della III declinazione (CANES > it. cani, rum. câini). Per i femminili è plausibile la
derivazione da acc. plur. AMICAS > *AMICAJ ([j] < [s] in dileguo, come NOS > noi) >
amicae, dopo però che era terminato l’effetto palatalizzante di [k] + [e], [i]. Infine,
parrebbe che nella Romania orientale si sia generalizzata la caduta di -s dapprima
davanti a consonante sonora. Sembra dunque che sia l'area orientale asigmatica ad
avere innovato, mentre la Romania occidentale, col plurale sigmatico, attesterebbe la

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forma più antica.
La -t si conserva bene in latino, con omissioni solamente sporadiche, mentre nelle
lingue neolatine essa permane nelle desinenze di 3a sing. e 3a plur. in antico francese
e ancora oggi in liaison (croit-il, aiment-ils), ma non negli altri casi, e permane in
sardo (cantat), mentre nel resto della Romania la forma canta/cantan(o) è quella
prevalente. Si veda inoltre l'evoluzione della 3a pers. sing. del verbo essere latino, est,
che evolve in ant. fr. est, poi fr. mod. con articolazione solo in liaison (est-il), prov.,
cat., sp. es, port. é, it. è, rum. e, este, sardo este, esti.

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MORFOSINTASSI

Nelle lingue romanze a eccezione del rumeno non si trovano più i casi e gran parte
dei lemmi di origine latina derivano dall’accusativo singolare e plurale; si trovano
talvolta sporadici residui lessicali di altri casi, ad es. nom. HOMO > it. uomo, fr. on,
rum. om, mentre dall'acc. HOMINEM > fr. homme, sp. hombre, sardo ómine e così per
MULIER > moglie, SANGUEN > sangue ecc. In latino quindi una parte delle funzioni
sintattiche di sostantivi e aggettivi era espressa tramite desinenze: a sei casi
corrispondevano le varie funzioni sintattiche, ma il problema fondamentale nasceva
allorché si creavano pericolosi sincretismi, principalmente l’uso della stessa forma
per più casi. A ciò si sommava il fatto che, con la semplificazione da 8 a 6 casi, molte
delle funzioni grammaticali degli antichi casi locativo e strumentale erano confluiti
nell’ablativo, il che creava un sovraccarico e una complicazione innaturali nel
principio di economia delle lingue; perciò, si può dire che l'attuale situazione delle
lingue romanze, in cui i casi sopravvivono solo nel rumeno, è il risultato di un'antica
e inarrestabile evoluzione. Così, derivante dalla necessità di precisare meglio la
funzione e il valore dei casi e di fianco al cosiddetto sistema sintetico, in cui a una
terminazione casuale corrispondeva una precisa funzione grammaticale, si era però da
tempo sviluppato un sistema analitico, che esprimeva cioè alcune funzioni
grammaticali tramite preposizione. In particolare, la tendenza dell'accusativo a
diventare caso obliquo universale determina una sua sostituzione ai danni
dell'ablativo quando preceduto da preposizione, finché i costrutti preposizionali si
impongono definitivamente sulle forme sintetiche.
Prendiamo quindi in esame i seguenti fattori fonetici:
1. debolezza di -m e successivamente di -s, con difficoltà di distinzione fra
nominativo e accusativo;
2. neutralizzazione della quantità vocalica.

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Il processo di disintegrazione del sistema si verifica però solo a partire dal sec. IV
d.C., mentre in precedenza le attestazioni di confusione fra casi sono talmente
sporadiche da far pensare più a una semplificazione che a una crisi vera e propria.
Invece dal sec. IV d.C., eccezion fatta per la Gallia, si realizza l’indistinzione fra i
casi retti nominativo e accusativo: da quest'ultimo caso deriva una forma invariabile
a marca ø, che non connota cioè in alcun modo genere e numero e che definiremo
lessema. Potremmo dire, quindi, che mentre il latino adottava il sistema specificando
+ specificante, cioè parola + morfema desinenziale, il sistema romanzo invertì:
specificante (preposizione) + specificando (parola), e ciò particolarmente nei casi
obliqui, con l'adozione di sintagmi retti da una proposizione.
Passiamo a soggetto e oggetto: vengono fissate delle posizioni precise nell’ordine
sintattico, che riducono l’estrema libertà che caratterizzava la sintassi latina, da cui
deriva la costruzione bloccata SVO, che rese superflue le marche casuali. Bisogna
chiedersi però se i fenomeni fonetici di cui sopra riescano da soli a giustificare questa
fondamentale trasformazione: pensiamo ad esempio che se leggiamo un periodo
latino comprenderemo più lentamente il significato delle frasi, soprattutto a causa del
fatto che, visto il sistema casuale che favoriva una grande libertà sintattica, quindi
forti separazioni fra soggetto verbo e oggetto, il discorso diventa più lento da
immagazzinare, poiché il significato pieno si avrà solo alla fine del periodo, un po’
come avviene nel tedesco, ad esempio. Perciò la realizzazione fonica di tali periodi
dovrà essere più lenta, per favorire la comprensione, appunto. In una frase romanza
invece il tempo di realizzazione fonica è indubbiamente minore: le lingue romanze e
le innovazioni che le contraddistinguono sono finalizzate a un minor costo di
realizzazione e fanno sì che la parte atona delle parole sia portata a termine con minor
energia articolatoria, quindi in tempo più rapido, il che comporta la caduta delle
sillabe atone, soprattutto nel francese (es. CLAVEM > clef, o QUIRITARE, it. gridare, sp.
critar, fr. crier ecc). Alla minore forza articolatoria nella parte finale della parola,
quindi delle informazioni grammaticali in essa contenute, corrisponde un inevitabile
rafforzamento delle preposizioni, quindi degli specificanti: così, potremo ipotizzare

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che le innovazioni volgari si affermano in funzione della maggiore rapidità del tempo
del discorso conforme alla nuova sintassi. Difatti, mentre il latino prediligeva l’ordine
SOV, secondo l’ordine tipicamente indoeuropeo, le lingue romanze prediligono
l’ordine bloccato SVO, col verbo non più in clausola ma al centro della proposizione.
Si è detto che lemmi romanzi derivano quindi dall’accusativo, con la caduta di -m
e -s. Tuttavia in antico francese e antico occitano si formò una declinazione
bicasuale:

Antico Francese
Singolare Plurale
Nom. li (< dativo ĬLLĪ) murs < MURUS li mur < MURI
Acc. le mur < MURU(M) les murs < MUROS

Idem per l’occitano:


Nom. amics < AMICUS amic < AMICI
Acc. amic < AMICUM amics < AMICOS

Il caso retto o cas sujet corrisponde a soggetto e vocativo, il cas régime o caso
obliquo a tutti gli altri casi. Nella fase moderna della lingua, tanto il francese quanto
l'occitano persero questa distinzione, facendo derivare quasi tutti i lemmi dal caso
obliquo e parificandosi quindi col resto del dominio romanzo. Ciò poiché andava
scomparendo nella pronuncia la -s, che era l’unica marca distintiva rispetto al grado ø
e, difatti, spetta all’articolo il compito di distinguere i singolari dai plurali (es. la
mère, les mères).
La seconda classe nominale non presenta -s al nominativo singolare e rappresenta
solo alcuni nomi latini uscenti in -er:

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Sing. Plur.
Nom. li frere 'fratello' li frere
Acc. le frere les freres

L a terza classe nominale raccoglie i sostantivi e gli aggettivi ad alternanza


radicale:

Sing. Plur.
Nom. l'enfes < INFANS li enfant
Acc. l'enfant < INFANTEM les enfanz

Declinazione nel rumeno


Il rumeno possiede ancora oggi un sistema casuale basato sulla suddivisione fra
nominativo/accusativo e genitivo/dativo, più l’articolo, posposto al nome, nei
femminili, mentre i maschili non sono modificati a seconda del caso, ma solo
nell'articolo:

Maschile (lup 'il lupo'):


Sing. Plur.
Nom. Acc. lupuL lupiI
il lupo' 'i lupi'
Gen. dat lupuLUI lupiLOR
'del, al lupo' 'dei, ai lupi'

Femminile (casa)
Sing. Plur.
Nom. Acc. casĂ cáseLE
'la casa' 'le case'
Gen. dat casEI caseLOR
'della, alla casa ' 'delle, alle case'

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Se però si declina il nome con l'articolo indeterminativo – anch'esso declinabile –
si può vedere meglio come il femminile conservi la distinzione fra casi diretti e
obliqui al singolare, neutralizzandola al plurale, mentre il maschile la neutralizza
comunque e affida la distinzione all'articolo:

Sing. Plur.
Nom. Acc. o (< UNA) casă nişte case (manca l'articolo)
'una casa' 'alcune case'
Gen. dat unei case unor < *UNORUM case
'di, a una casa' 'di, a alcune case'

In più, il rumeno possiede un caso vocativo: omule! 'uomo! in cui la terminazione


in -e è latina e slava, mentre i vocativi terminanti in -o, ad es. bunico 'nonna!' sono di
provenienza unicamente slava. Infine, questo sistema di declinazione è presente solo
nel dacorumeno, mentre gli altri dialetti, ovvero arumeno, istrorumeno e
meglenorumeno, hanno perduto i casi.

Pronomi
Trattandosi di elementi del discorso utilizzati di continuo, nel passaggio dal latino
ai volgari i pronomi conservano le forme flessive che invece andarono perdute nei
nomi e negli aggettivi: ad es. io < EGO; me ogg. dir. < ME, acc. mi ogg. indir. < MIHI, e
cosi per i pronomi di 2a e 3a persona. Per il pronome di 1a sing. io, sardo (d)eo, fr. je,
s p . yo, rum. eu ecc. si parte da una forma *eo: in latino letterario il pronome
personale era utilizzato raramente, mentre nel parlato esso doveva avere un impiego
espressivo assai diffuso, finché non si posizionò prima del verbo, ormai privo di
connotazione espressiva o semantica. In particolare, in latino era presente l'impiego
anaforico del pronome e aggettivo ille e tale uso va consolidandosi nei volgari, tanto
che esso si diffuse come articolo, assente in latino, in tutta la Romania, ad eccezione

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del sardo e di alcune varietà guascone e catalane. Tra le forme dei dimostrativi, si
possono ricordare il dat. ILLĪ che passa al pronome enclitico it. fr. li, sp. le, rum. i,
mentre da illae > it. e sp. le. Peraltro, ILLĪ è analogico sul relat. QUI > it. egli, poi gen.
illuius, dat. illui > it. fr. rum. lui, dat. *illaei > it. lei, ant. fr. *liei > li, rum. li ecc. Il
sardo parte da ipse: IPSUM, IPSAM, IPSOS, IPSAS > issu, issa, issos, issas 'lui, lei, loro';
gen. plur. IPSORUM issoro 'loro', mentre le altre lingue neolatine partono da ILLORUM,
che sostituisce in parte il possessivo suus e perdura nell'it. loro, fr. leur, rum. lor,
eccezion fatta per la Penisola Iberica. Vi sono inoltre delle forme rafforzate con
ecce o eccum + iste/istorum, ille/illorum > it. questo, quello, coloro, costoro; sp.
aquesto, aquello; sardo custu, cuddu, mentre il fr. ant. utilizza le forme, cist, cil > fr.
mod. ce, cet, celui ecc.

L'articolo
L'articolo è un determinante che accompagna obbligatoriamente il sostantivo nelle
lingue neolatine, ma già in latino si aveva un uso similare di ille anaforico, ad es.,
Antimo 84: «Mela bene matura in arborem quae dulcia sunt; nam illa acida non sunt
congrua» '[…] ma quelle acide non convengono'. Un esempio di articoloide nella
Peregrinatio Aetheriae, 15.1: «Requisivi de eo, quam longe esset ipse locus. Tunc ait
ille sanctus presbyter...» 'chiesi […] quanto fosse lontano quel luogo. Allora disse
quel santo vescovo...'. Infine, nella parodia della Lex Salica, metà dell'VIII sec., si
trova un articolo ormai formato: «[...] & ipsa cuppa frangant la tota, ad illo botiliario
frangant l o cabo, at illo scanciono tollant lis potionis» 'e la detta coppa la rompano
tutta, al bottigliere rompano il capo, al coppiere tolgano le bevande'.
È probabile che ille e ipse diventino veri e propri articoli a partire dal VI sec.,
quando cioè i due pronomi, che nel mentre vedono indebolirsi la funzione
pronominale primaria, si riducono allo stato monosillabico, il che spiega le forme
romanze, perlopiù monosillabiche appunto, e i conseguenti rafforzamenti con
ecce/eccu, necessari per evitare la scomparsa dei lemmi e rivitalizzarne il valore
pronominale.

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Va ricordato che, mentre tutte le lingue romanze prepongono l’articolo al
sostantivo, in rumeno esso è posposto come enclitico, analogamente ad altre lingue
baltiche quali albanese e bulgaro, finitime del rumeno e che potrebbero quindi indurci
a spiegare come reazione di sostrato questo fatto. Per quanto concerne la derivazione
dell'articolo da ipse 'stesso' anziché da ille, bisogna precisare che ipse assorbì idem
'medesimo', andando a designare un elemento già noto del discorso in funzione
anaforica, ovvero di ripresa o ripetizione. Infine, si sviluppò l’articolo
indeterminativo del tipo un, uno-a a partire dal numerale latino, già documentato in
epoca arcaica, quando unus = ‘uno solo’ venne ad assumere il senso di quidam,
ovvero del pronome indefinito, quindi ‘uno qualsiasi’.

Generi
Dei tre generi latini il neutro, connotante cose e oggetti, è andato perduto nelle
lingue romanze, a eccezione del rumeno, lingua che conserva una categoria di nomi
cosiddetti ambigeneri, vale a dire maschili al singolare, femminili al plurale,
formandone anche di nuovi (ad es. masch. scaun, femm. scaune < SCAMNUM,
*SCAMNAE per SCAMNA 'sedia') e in alcuni dialetti meridionali italiani, che conservano
un’uscita in -u per i maschili latini (lu vientu) e in -o per i nomi che erano neutri: lo
fierro. In italiano si hanno esempi del tipo braccio-braccia, uovo-uova, labbro-
labbra < BRACHIUM-BRACHIA, OVUM-OVA, LABIUM-LABIA, come pure in fr. feuille, rum.
foaie, sp. hoja, port. folha, sardo foza, folla, singolari che derivano da FOLIA neutro
plur. Tuttavia, rispetto al rumeno, si tratta di fossili e non di forme produttive. È noto
che già in latino si ebbero numerosi passaggi da un genere all’altro, e ad es.
diventarono maschili arbor e vari nomi di piante, mentre neutri plurali del tipo folia,
mirabilia passarono al femminile: foglia, meraviglia. Ciò implica che nelle lingue
romanze i passaggi di genere non fossero sempre uniformi, per cui il neutro mare-is
diventa maschile in italiano e spagnolo ma femminile in fr. (la mer), mentre ad es
tempus passa al maschile in tutte le lingue romanze per influsso dell’uscita in -us,
caratteristica di tale genere in tutte le lingue romanze.

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Crisi del comparativo
In latino classico il comparativo era sintetico, come pure il superlativo: dunque,
esso si otteneva con l’alterazione di grado dell’aggettivo, il quale dal grado 0, altus,
passava al grado positivo, il comparativo altior/-us e al superlativo altissimus,
reintrodotto per via culta in italiano, spagnolo e portoghese. Ancora nel IV d.C. il tipo
analitico, formato da magis + agg. nelle lingue iberiche e nel rumeno (sp. más alto,
port. mais alto, rum. mai înalt) e da plus nei restanti domini romanzi, non si trova che
sporadicamente, mentre accade di frequente che il morfema che denuncia il
comparativo sintetico, es. altior, sia affiancato da magis e plus: una forma come plus
altior chiarisce che il morfema a grado positivo non era più inteso nella sua funzione,
poiché in generale si andava formando una struttura nella quale il morfema
specificante, che connotava cioè in qualche modo, non poteva più essere posposto
allo specificato: nel caso di altior lo specificante era la terminazione -ior, mentre lo
specificando era alt. Idem per il superlativo assoluto, già da tempo in concorrenza
con altre forme quali l’iterazione del grado positivo dell’aggettivo (altior altior), che
si riflette in formule altamente espressive, come ad es. alto alto, costruzioni con
magis ecc. Una volta introdotto l’articolo, questo venne a connotare il superlativo
assoluto rispetto al relativo, il quale per recupero dotto ritornò alla forma sintetica:
altissimo. Si hanno inoltre dei relitti dei comparativi sintetici maior, minor, minus,
peior o peius che dànno in ant. fr. maire, moindre, meilleur, mieux, pire ecc., it.
maggiore, minore, meno, migliore, meglio, peggiore, peggio ecc. In sardo le forme
mezus, peius derivano dai neutri melius, peius. Infine, mentre attualmente magis +
agg. è presente nelle aree laterali della Romania, nel loro stadio più antico le lingue
della Penisola Iberica hanno utilizzato anche plus + agg. il quale a sua volta, rispetto
a magis, s'instaura in luogo del comparativo sintetico in epoca imperiale, da
Tertulliano in poi (160-220 d.C.).

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Il verbo: le coniugazioni
Nell’evoluzione del latino delle 4 coniugazioni (-are, -ēre, -ĕre, -īre), sono la
prima e la quarta a restare più stabili, mentre fra seconda e terza si hanno le
oscillazioni più marcate, a causa della distinzione affidata alla sola quantità vocalica,
tanto che si registrano esitazioni fin dal periodo arcaico. Successivamente, a causa di
processi analogici, i cambiamenti di coniugazione hanno favorito la classe con uscita
in -ĕre, ad es. RIDĔRE in luogo del più corretto RIDĒRE > i t . ridere, fr. rire ecc.
Tuttavia, in spagnolo e portoghese la terza coniugazione è confluita nella seconda
(LEGĔRE > sp. leér, port. ler), mentre in sardo abbiamo I, III e IV, ad es. HABĒRE >
['aεr(ε)], TENĒRE > ['tεnnεrε] ecc.
Inoltre, nell’economizzazione del sistema non c’è posto per gli irregolari di
grande uso a partire dai presenti anomali possum, potes e volo, vīs < POSSE, VELLE, i
quali si modificano a partire dal perfetto potui e volui e dal participio presente potens,
volens in poteo, potebas, ecc, dunque anche nell'infinito *POTĒRE, *VOLĒRE > it.
potere, ant. fr. podeir, pooir, fr. mod. pouvoir, sp. poder, rum. putea, sardo pòder o
pòter, e it. volere, fr. vouloir, sp. cat. voler, rum. vrea. Ugualmente, l'infinito esse
'essere' si regolarizza in it. e sardo essere, ant. fr. estre > être, cat. occit. esser, mentre
esse in area iberica è rimpiazzato da SEDĒRE > sp. seer > ser. Nella Penisola Iberica e
nell'Italia Meridionale, Sicilia esclusa, all'it. e fr. esse+re > essere e être,
corrispondono i verbi ser, estar in sp. e port., esser, estar in catal. Per quanto
concerne habere, si ha haber/tener in sp., haver/ter in port. (haver è ormai un
arcaismo), aver/tenir in catal. Dunque, in sp. ser = 'essere', mentre estar = 'stare', per
cui estamos en casa è utilizzato in luogo di somos < ser. Inoltre, come nell'it. merid.,
tener sostituisce avere non ausiliare, ad es. tengo sed 'ho sete' e si utilizza anche nel
significato di 'dovere' nel tipo tengo que irme 'devo andare'. In francese si registra
l'utilizzo di habere + stare nel tipo avoir été 'essere stato'.

Il passivo
In latino il passivo personale era proprio solo dei verbi transitivi, mentre quello

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impersonale, del tipo itur 'si va', poteva essere costruito con transitivi e intransitivi.
Successivamente, le voci passive sintetiche del tipo amor = ‘sono amato’, amaris 'sei
amato', amatur 'è amato' ecc., scompaiono a favore della forma perifrastica
declinabile amatus -a -um + sum, che in latino classico corrispondeva però al
perfetto passivo ‘fui amato’. Essendo sum un presente, tale forma fu considerata a
sua volta un presente, quindi atta a sostituire amor. Passata così al presente, la forma
del perfectum fu sostituita con amatus fui, che dava bene l’idea di ‘compiuto nel
tempo’. Quindi tutto il passivo organico venne ricostruito in questo modo: participio
perfetto + sum.

Futuro
Il futuro in latino era organico, ma mancava evidentemente di omogeneità nelle
varie coniugazioni: amabo, monebo, legam, audiam, mentre del futuro del verbo
essere, ero, si trova una traccia nell'ant. fr. (i)er, poi sostituito da serai. Inoltre, forme
di fut. pres. come amabit si confondevano con l'ind. pres. amavit, così dices e dicet
con dicis e dicit, oltre alle numerose forme concorrenti perifrastiche che esistevano
già in latino, ad es. gerundio + sum e altre ancora, finché non si diffusero dei futuri
perifrastici i quali sono presenti nelle lingue neolatine, secondo il tipo infinito +
habeo: amabo > amare habeo > *amarabeo > *amarejo > *amaraio > amerò, fr.
amerai, sp. amaré ecc. Tuttavia, in spagnolo e portoghese antichi era possibile
separare le due parti: dar-me-as 'tu mi darai'. Ci è noto un esempio preromanzo di
futuro perifrastico in cui i due elementi sono già fusi e lo si trova nello storico
burgundo Fredegario, che nella sua Cronaca redatta nel VII sec. d.C., 85, 27, scrive:
«Et ille [il re dei persiani] respondebat: “Non dabo”; Iustinianus dicebat: “daras”». Si
tratta di un dialogo fra l'imperatore Giustiniano e il re dei Persiani, appena sconfitto
dal primo che chiede dunque la restituzione delle province. Il re dei persiani rifiuta
(non dabo) e Giustiniano replica con daras, che secondo Fredegario resterà come
nome della città in cui si tenne l'incontro. Inoltre, bisogna chiarire che l'uso di habeo
nella costruzione del futuro perifrastico dipende dalla considerazione del futuro come

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di qualcosa di imposto dal destino, che si esprimeva anche con verbi come debeo e
volo e, difatti, esistono anche forme con inf. + velle: rumeno voi cânta 'lett. voglio
cantare', o con habere a, ad + inf. , come nel sardo sardo appo a cantare ['ap:a
k:an'tare], mentre il dalmatico, anch'esso resistente rispetto al modello romanzo più
diffuso, usava la forma non perifrastica kantu(o)ra < fut. ant. CANTAVERO.

Condizionale
Sullo stesso modello infinito + habeo nacque il condizionale, assente nel latino,
che troviamo nell'apodosi del periodo ipotetico (lo farei, se potessi): la sua
formazione è del molto simile a quella del futuro, in quanto può essere costruito con
infinito + imperfetto o perfetto indicativo di habeo = habebam/habui: es. CANTARE
HABEBAT > fr. chanterait, sp. port. occit. cantaría, oppure, esso poteva essere formato
da CANTARE HEBUIT > it. canterebbe. Come accade per il futuro, nelle fasi antiche di
spagnolo e portoghese gli elementi potevano essere tenuti separati. Inoltre, per quanto
riguarda le tre aree già resistenti al tipo prevalente di futuro, sardo, rumeno e
dalmatico, esse formano il condizionale in maniera peculiare: in rumeno si ha la
costruzione invertita ausiliare ‘avere’ + infinito: am cânta 'canteremmo' o canta am.
In sardo cantare dia o dia a cantare si spiega a partire da DEBERE > déppere 'dovere',
mentre in dalmatico e in alcune aree centromeridionali italiane non è attestato il
condizionale perifrastico o analitico. Invece si è conservato in piuccheperfetto o
trapassato, ad es. CANTAVERAM > dalm. kant(u)ora, che coincide col futuro.

Perfetto
Si veda l'evoluzione delle desinenze latine:
-avi > ai; -ii
-a(vi)sti; -isti
-avit > ait, -aut, -at; -iit > -it
-a(vi)mus; -iimus > -imus
-a(vi)stis; -istis

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-arunt; *-irunt.
In particolare la terminazione della 3a sing. evolvette in -ait > -ò = *cantaut > it.
cantò, sp. cantó, port. cantou, mentre passò a -a(t) in fr. chanta e cat. cantá. A sua
volta -iit (it. partì, fr. partit) si diffuse massicciamente, salvo in sp. e port., dove
prevalse -iut (sp. partió, port. partiu). Assai produttivi furono i perfetti forti
sigmatici del tipo DĪXĪ > dissi, sp. dije, fr. dis ecc. come pure i tipi in -ui, es. fui,
sebbene vada detto che il perfetto tende a perdere terreno a favore del passato
prossimo o perfetto composto, anch'esso perifrastico. Tale erosione del perfetto
semplice è poligenetica nella Romania, poiché avviene secondo modalità differenti
nelle diverse aree linguistiche: ad es. non essa non si è verificata nell'Iberoromania
(portoghese, spagnolo), in occitano, nell'Italia centromeridionale e nel toscano , oltre
che nella lingua letteraria italiana. In Sicilia invece è accaduto il contrario, per cui il
perfetto composto è stato rimpiazzato dal perfetto semplice.

Sintassi
Un cenno riepilogativo va fatto sulla sintassi, quindi sulla posizione occupata dai
vari elementi del discorso: in generale il latino sembra preferire la posizione del
verbo in clausola (S O V oppure O S V), e comunque è ben nota a chi ha tradotto un
po’ di latino l’estrema libertà degli elementi del discorso; un classico esempio è la
frase di Virgilio tacita per amicae silentia lunae ‘per i taciti silenzi dell’amica luna’:
il soggetto silentia è separato dall’aggettivo per la frapposizione del genitivo amicae
lunae: solo, anche lunae e amicae sono separati fra loro, e infine la preposizione per,
che in italiano collocheremmo in principio di frase, è posposta a tacita. In generale
sostantivo e attributo o aggettivo possono stare distanti fra loro: non si faceva ad
esempio troppa distinzione fra urbis salus o salus urbis = ‘la salvezza della città’.
Nelle lingue romanze è invece diffusa la costruzione SVO e l’articolo precede
sempre il nome, con l'eccezione del rumeno (es. lupul = ‘il lupo’). Inoltre, a parte
eccezioni della lingua letteraria o burocratica, (es. il di lei coniuge) l’aggettivo segue
il nome, altrimenti cambiano le sfumature di significato: ad es. un uomo buono è

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diverso da un buon uomo.
Nella fase medievale, le lingue romanze si presentano più libere a livello
sintattico, sebbene anche in questa fase vigessero delle regole abbastanza rigide che,
tuttavia, vedevano prevalentemente il verbo in seconda posizione, mentre la fluidità
maggiore era relativa alla prima posizione, che poteva essere occupata da vari
elementi del discorso e non solo dal soggetto (oggetto diretto e indiretto, avverbi,
soggetto ecc.). In generale, l'ordine SVO era sì presente, ma non frequente come nelle
lingue moderne. In particolare, il francese è l'unica lingua ad ammettere un solo
ordine sintattico preciso, ovvero l'oggetto diretto o ordre direct, ereditato dai
grammatici del '700 i quali ritenevano che la successione SVO fosse l'unica
riconducibile alla logica (langue de la raison). Tuttavia, anche questa lingua presenta
delle eccezioni a tale regola, a partire dalle interrogative, dove il verbo è anteposto al
nome, ad es. Pierre, où est-il? Marie, va-t-elle bien? Sempre per il francese, si può
ricordare la peculiarità della negazione in cui sono presenti obbligatoriamente gli
elementi ne … pas o point: Je n'irai pas là o je n'irai point. 'non ci andrò', sebbene la
presenza di ne si stia indebolendo, soprattutto a livello colloquiale. In francese
moderno è dunque obbligatorio l’ordine SVO, es. tu dis des choses bien dures;
durante il Medioevo era praticamente regolare la seconda posizione del verbo o verb
second, mentre in apertura potevano stare tanto un avverbio, quanto soggetto o
oggetto. Tale relativa libertà nel primo elemento era dovuta al mantenimento della
declinazione bicasuale, che favoriva appunto una comprensione da parte del
ricevente a prescindere dalla posizione di soggetto e complemento. Essa però viene
fortemente minata dalla perdita della -s e della -t finali, cui seguono a ruota quella di
-nt nelle 3e plurali (disent) e della -e, per cui nella pronuncia si avevano
numerosissimi omofoni (je dis, tu dis, il dise, ils disent, con l’eccezione di 1a e 2a
plur.: disons, disez) che era necessario distinguere tramite la dislocazione a sinistra di
un elemento del discorso chiarificatore e obbligatorio: il cosiddetto prenom sujet.
Così, mentre in italiano diremo volentieri mangiano per loro mangiano o essi
mangiano, in francese è obbligatorio e necessario specificare che ils mangent,

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altrimenti potremmo dire, col solo mangent, ‘io mangio, tu mangi, egli mangia, essi
mangiano’.
Sempre in epoca medievale vigeva la legge di Tobler-Mussafia: tale legge
stabilisce la posizione dei pronomi atoni rispetto ai verbi di modo finito nell'it. del
Duecento e del primo Trecento, sebbene tale norma vigesse anche in antico francese
e occitano. All'inizio della frase l'enclisi è obbligatoria: «Ruppemi l'alto sonno nella
testa» (Dante, Inf., IV, 1), come pure dopo congiunzioni del tipo e, ma, o: «E
cheggioti, per quel che tu più brami», Purg. XIII, 148; «Mal volentier lo dico; ma
sforzami la tua chiara favella» Inf., XVIII, 52-53. Negli altri casi si utilizza la proclisi.
Nella lingua odierna tracce di tale norma vigono negli imperativi, ad es. dimmi, nei
modi indefiniti (dirmi), nel gerundio (muovendosi) e nelle formule cristallizzate
vendesi, dicesi ecc.
Un cenno finale alla subordinazione: mentre in latino era normale dopo i
cosiddetti verba dicendi, sentiendi, sperandi ecc., esprimere la proposizione
subordinata tramite oggetto + infinito, la cosiddetta infinitiva o oggettiva (censeo
Carthaginem esse delendam o delendam esse 'penso che Cartagine debba essere
distrutta') le lingue romanze non continuano affatto tale costruzione, e sostituiscono
l’infinito con un quod che introduce un verbo di modo finito: credo che tu sia… Il
quod diventa che, fr. que sp. que, sardo ka, più antico, e ki, di derivazione italiana o
spagnola (que) ecc., e diventa polifunzionale, atto cioè a ricoprire varie funzioni
sintattiche all’interno del discorso.

Principali teorie sul passaggio dal latino ai volgari


In conclusione del discorso sul latino volgare, vediamo poi un quadro rapidissimo
delle principali teorie sviluppatesi sul passaggio dal latino alle lingue romanze.
1) Ad esempio si pensò che il latino fosse stato corrotto dalle invasioni barbariche
e che quindi, a partire dalle diverse popolazioni germaniche stanziatesi in ogni punto
dell’impero, corrispondesse un dato tipo di corruzione del latino. Ciò non è affatto
comprovabile, poiché è impossibile che una famiglia linguistica assai differente

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rispetto a quella latina potesse scalzare quest’ultima, dando però esito a lingue che
sono comunque la prosecuzione del latino.
2) Si pensò poi che già in epoca classica vi fosse una perenne diglossia fra il latino
alto e letterario e quello quotidiano o latino volgare: da ciò sarebbe nata la distinzione
fra latino grammaticale, immobile, e quello parlato, dal quale originerebbero i volgari
romanzi. Chiaramente non abbiamo alcuna prova di una simile diglossia; inoltre,
come ha efficacemente dimostrato Michel Banniard, c’è molta più continuità nel
sistema fra latino arcaico, classico, imperiale, tardo (IV sec in poi) e protoromanzo, di
quanto una simile teoria, molto accreditata nella communis opinio, lasci
minimamente trasparire. Banniard ritiene a ragione che niente provi che la
metamorfosi del latino parlato tardo in protoromanzo derivi da una evoluzione che
riguardi il solo latino degli illetterati; a ciò va aggiunto che:
1. il latino resta lingua di comunicazione molto più a lungo di quanto sia opinione
comune;
2. che il distacco fra lingua popolare e lingua colta sia avvenuto molto meno
repentinamente di quanto si dica;
3. il latino resta a disposizione, sebbene semi-diretta, per le élites laiche anche nel
tardo Medioevo come superstrato più o meno latente.
3 ) Abbiamo poi visto come l’Ascoli abbia sviluppato con generale profitto la
teoria dei sostrati, per cui si evinse che la differenziazione fra i vari latini fosse
addebitabile in buona misura alle lingue palate in precedenza nelle varie provincie
colonizzate. Il fatto è che, mentre nel caso di alcuni specifici fenomeni la teoria dei
sostrati può essere di una qualche utilità, nel caso della differenziazione all’interno
del latino nei vari “latini” da cui deriverebbero le lingue romanze, è difficilissimo
ricondurre il tutto a lingue praticamente sconosciute come i dialetti italici o il non
attestato antico germanico: non vi è insomma base d’appoggio. Inoltre, viene da
chiedersi come mai nella Romània nuova non vi sia che un debole influsso delle
lingue indigene preesistenti alla colonizzazione spagnola, portoghese o francese nei
vari domini coloniali.

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4 ) A partire da una teoria esposta da Gustav Gröber su una differenziazione
cronologica della latinizzazione delle varie provincie, per cui il latino giunto in
Sardegna nel III sec. era più arcaico di quello importato in Gallia nel I, da cui
derivava la maggiore conservatività del sardo, Wilhelm von Wartburg pensò che la
Romània occidentale (Gallia, Iberia e ovviamente Italia) fosse stata colonizzata da
ceti più colti e quindi più ligi alla grammatica, mentre la Romània orientale da soldati
e contadini che parlavano una varietà meno normativizzata. Da ciò si sarebbe avuto
un primo discrimine fra lingue romanze occidentali e orientali, cui si sarebbero poi
sovrapposti i parlari dei vari superstrati germanici, che avrebbero completato la
frantumazione latina. L’ipotesi non è affatto sciocca nel principio di una relativa
differenziazione dei latini all’interno delle provincie, tuttavia non vi sono documenti
che possano giustificare di per sé la nascita dei volgari a partire da una netta
suddivisione fra latino colto e latino popolare in questa o quella regione.
5) Infine, il linguista inglese R. Wright ha ipotizzato che i volgari romanzi non
costituiscano la continuazione del latino tout court, ma di quello medievale,
merovingio, carolingio ecc. Secondo Wright, difatti, fra VIII e IX secolo si scriveva
in un romanzo cammuffato da latino, il quale, difatti, non si leggeva più secondo la
sua grafia, come accade oggi, ad esempio, per inglese e francese, scritti in modo assai
difforme rispetto alla pronuncia. Una volta che la corte carolina decise di re-istituire
la norma latina classica, si creò così la frattura fra il latino restaurato e quella
competenza, ormai indebolita ma ancora esistente, di questa lingua secondo la sua
realizzazione tarda, e quindi si “inventarono” i volgari. Wright coglie nel giusto
quando rimarca il fatto che il latino non era più letto secondo la grafia ancora in uso,
ma non spiega affatto come da una differenziazione fra scripta e pronuncia nel latino
si sarebbe giunti ai volgari, che per lui sarebbero il frutto della necessità di trovare
una grafia corrispondente ai nuovi suoni. Ciò accadde anche in epoca pienamente
latina, come dimostra il tentativo di introdurre il digamma per indicare la labiodentale
sonora v da u, eppure il sistema entrò in crisi molti secoli dopo.
Diciamo insomma che, finché il latino corrispose ad un’entità politica e statuale

42
precisa come l’Impero, le evoluzioni si verificarono compatibilmente con una norma
linguistica rappresentata dal latino imperiale e sancita dagli auctores, pur con forti
variazioni, ad esempio, fra latino d’Africa e latino d’Iberia, senza che però potesse
nascere una varietà talmente individualizzata da originare un parlare nuovo, anche
per il contributo delle lingue di sostrato. Fino al III d.C. quindi, possiamo dire che il
latino è, in generale, un sistema differenziato al suo interno ma ancora organico e
coeso, sebbene già dagli ultimi anni del II sec. d.C. la decadenza della classe
dirigente, il clima di anarchia politica e militare, cui conseguiva la crescente
indipendenza delle provincie, si potesse presagire la mancanza di uno stato capace di
tenere insieme l’enorme gigante dai piedi d’argilla che era il tardo Impero. E in
effetti, è opinione diffusa che il grande Tacito (muore nel 117 d.C.) sia stato l’ultimo
autore ad utilizzare il latino classico “con naturalezza”, cioè senza che esso fosse
impartito dalla scuola e dai libri, quindi quale lingua che si andava artificializzando.
Dopo questo periodo, una volta caduto l’impero nel 476, venne a cadere la stessa
entità statuale, quindi il centro attorno al quale gravitava l’unità culturale e
linguistica, cui si sovrappose la frammentazione determinata dalle invasioni
barbariche. Con la suddivisione in più regni, le entità statuali divennero molteplici:
quella gotica, franca ecc. In Italia vi fu la spaccatura fra impero bizantino, grecofono,
(da Roma a Venezia) e il regno Longobardo, germanofono, nella pianura padana e
oltre. Roma non fu che il simbolo di un tempo ormai lontano, e venuta a mancare la
norma linguistica latina della capitale, si ebbero i latini parlati dai ceti dirigenti nei
diversi regni, ora sì con forti differenziazioni, cui si aggiungevano quelle preesistenti,
riconducibili alle differenti colonizzazioni: pensiamo oggi ai vari italiani regionali,
per cui determinati vocaboli od espressioni saranno comuni a Roma, ma molto meno
a Cagliari; eppure, non è compromessa la comprensione reciproca fra un romano e un
cagliaritano, a meno che entrambi non intendano non farsi capire. Quindi, tali
differenziazioni, senza una norma unitaria, passarono da eccezione a regola, dando
quindi vita ad un protoromanzo diverso in ogni regione, e che poté evolversi di
conseguenza in maniera indipendentemente da zona a zona, con tratti di continuità

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rispetto alla lingua madre, ma anche di grande innovazione. Venuta meno la
corrispondenza fra Roma e romanus, venne meno anche il principio di unità
linguistica che, dopo la riforma carolinga, impedì ulteriormente la comprensione del
latino se non ai ceti più colti. Da ciò derivò un’ancor più profonda specializzazione
dei diversi pre-volgari, e la definitiva cancellazione del senso di appartenenza al
vecchio impero, quello dei Cesari, e non di Carlo Magno e Papa Leone, sancito il 25
dicembre dell’800, in un’epoca ben lontana dai fasti prima repubblicani, poi
imperiali.
Oltre a ciò è opportuno ricordare che la crisi della familia romana, la quale era un
raggruppamento reso unito non tanto dai vincoli di sangue, ma dalla soggezione
totale nei confronti del pater familias (spiegare gen. familiai > familias, sopravvissuto
solo in questa espressione). La dissoluzione di questa struttura, associata alla crisi dei
valori determinata dal cristianesimo, minarono alle fondamenta la cultura
propriamente romana. Tuttavia, l’avvento del latino volgare non nasce a partire da
una decadenza dell’Impero, bensì dalla nuova cultura originatasi dal contatto con la
civiltà greca. L’innesto del greco fu decisivo, e prestiti in settori del lessico in cui non
esisteva il corrispettivo in latino dànno la misura della loro importanza: idea,
fantasia, ma anche vocaboli che sostituiscono quelli preesistenti e latini: cataunus per
quisque, > catà > sardo e sp. cada, plaga ecc, oltre a diverse costruzioni sintattiche.
Quindi possiamo vedere il greco, rappresentante di un cosmopolitismo che spingeva
a d emanciparsi dal culto delle tradizioni locali, come un importante impulso al
rinnovamento che, assieme ad altri fattori storici (invasioni barbariche), culturali
(avvento del cristianesimo) e fonetico-morfologici di cui sopra, possono aiutarci a
completare il quadro della rivoluzione che ci conduce ad essere continuatori neolatini
di una madre progenitrice indoeuropea che si fa custode di noi stessi.

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