Uno degli aspetti dominanti della cultura del Cinquecento è costituito
dalle discussioni linguistiche che si dimostrarono di particolare importanza per un paese come l’Italia che era privo di unità politica e di uno stabile punto di riferimento culturale.
Inizialmente il latino era stato scelto come strumento della
comunicazione letteraria, compiuta dagli intellettuali del primo Quattrocento ed esprimeva l’esigenza di un’unità letteraria anche se raggiunta in modo forzato e artificiale. In un secondo momento si riconobbe la pari dignità del volgare al latino. La letteratura italiana aveva raggiunto un grado di perfezione che gli permetteva di essere considerata allo stesso livello del latino.
Questo grado di perfezione formale permetteva alla cultura del
Cinquecento di elaborare la teoria del classicismo volgare che si rifaceva ai canoni del classicismo rinascimentale.
Affinché si affermasse una poetica del classicismo, era necessario
individuare dei modelli di riferimento da imitare, così come era stato per il latino. Pietro Bembo e le Prose della volgar lingua
Pietro Bembo si fa carico di questo compito ed elabora le Prose
della volgar lingua (1525), in cui propone una soluzione puristica che individua alcune esperienze del passato come modelli di imitazione per la produzione letteraria.
Bembo riconosce l’eccellenza del fiorentino letterario usato da
Petrarca e Boccaccio che individua come i due modelli da seguire: il primo per la poesia e il secondo per la prosa. I versi petrarcheschi fornivano l’esempio di un linguaggio poetico scorrevole e musicale e permetteva di indentificarvi il senso dell’equilibrio e delle proporzioni tipiche della concezione rinascimentale. Dal punto di vista tecnico, la poesia era più facilmente imitabile in quanto si basava su catalogo omogeneo di vocaboli selezionati (monolinguismo).
Questa concezione prevedeva l’esclusione di Dante dal canone degli
autori «classici», in quanto il suo «plurilinguismo» era considerato una scelta rozza e primitiva. Per quanto riguarda la prosa, era necessario far riferimento a Boccaccio, ma non al Boccaccio delle novelle che, per certi punti di vista, si avvicinava a Dante, bensì al Boccaccio della cornice e in particolare delle novelle tragiche (Tancredi e Ghismunda).
In queste parti del Decameron, lo stile si dimostrava più elevato
e ricercato, lontano da una riproduzione diretta della quotidianità. Le teorie linguistiche del Cinquecento • Pietro Bembo: Prose della volgar lingua fiorentino classico di Boccaccio e Petrarca
• Gian Giorgio Trissino: Il castellano il linguaggio letterario deve
• Baldassar Castiglione: Cortegiano ispirarsi a quello in uso nelle corti italiane.
• Niccolò Machiavelli: Discorso intorno alla nostra lingua il modello
linguistico è il fiorentino realmente parlato e vivo.