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LETTERATURA ITALIANA: DAL DUECENTO AL

CINQUECENTO
La poesia in versi ha una preminenza nella storia letteraria italiana delle Origini, attestando
una sua egemonia che già era detenuta nel sistema della retorica della letteratura latina.

In Italia soprattutto, qualsiasi testo volgare è adattato sul sistema retorico latino.
Anche l’avvio tardivo della letteratura è dovuta al fatto che la letteratura non era popolare
in Italia, ma con il Romanticismo e l’idea di un genio nazionale —e anche linguistico —si
radicano le storie letterarie dei paesi nel popolo.
Questo è semplice per le nazioni di lingua germanica —che riprendono ad esempio dai
Nibelunghi— e di lingua francese —che riprende dalla Chanson de Roland, di carattere
epico— poichè non hanno un’attinenza con la latinità.

In Italia invece la componente latina viene poi dominata da popolazioni germaniche nel
corso del Medioevo, che indeboliscono l’identità nazionale della Penisola e
contribuiscono ad una di erenziazione delle comunità.
Nel caso stesso quindi della letteratura in volgare, l’omogeneità viene raggiunta solo
nel Cinquecento con la proposta di una lingua letteraria uni cata.

Se quindi abbiamo delle lingue d’uso nazionali nel resto dei casi, in Italia questo non
avviene.

La storiogra a della letteratura italiana


L’imposizione di una sistematica disamina della vicenda letteraria italiana è molto
precoce, così che come primo esempio di storia letteraria italiana retrospettiva è
riscontrabile nel De vulgari eloquentia di Dante, in cui egli risponde al quesito del
perché si sia iniziata la lirica in volgare attraverso l’identi cazione del contenuto e
soprattutto del destinatario della lirica stessa: un contenuto amoroso, rivolto alle donne
illetterate e quindi quasi impossibilitate a leggere il latino.

Dante inoltre aggiunge un’indicazione cronologica, attestando l’inizio di questa tradizione


a circa 150 anni prima della sua esperienza, ossia alla ne dell’XI sec., in cui orisce la
poesia trobadorica con Guglielmo IX d’Aquitania.
Dante è quindi fornito di una documentazione a lui disponibile, che collima con quella
a nostra disposizione nei canzonieri trobadorici.
Nel De vulgari eloquentia inoltre viene proposto un repertorio di letterari e poeti
classi cati, consegnando una coscienza retrospettiva anche al dibattito linguistico
successivo.
La soluzione bembiana —imposta dalle Prose della volgar lingua— ha sempre infatti una
prospettiva retrospettiva.

Altro embrione della storiogra a letteraria dipende dallo studio del RVF di Petrarca, già
analizzato nel Cinquecento.
Petrarca recupera versi trobadorici, così che nell’esegesi petrarchesca ci si interessa
nuovamente della lirica trobadorica, arrivando all’elaborazione di un’ipotesi da parte di
Giovanni Maria Barbieri, erudito cinquecentesco che scrive una Storia della volgar
poesia, partendo dai trovatori e continuando poi sulla linea italiana.
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Tuttavia, un’analisi sistematica della letteratura è possibile solo dal Settecento, in cui
però non viene analizzata solo la letteratura volgare, ma vengono anche rintracciati gli
stadi letterari della penisola n dalla più remota antichità.
Alla ne dell’Ottocento, per in uenza della lologia romanza, si hanno le prime cattedre
di Letteratura italiana, prima assorbite all’interno di cattedre più generalmente legate
all’eloquenza.
Vengono quindi riesumati testi inediti e viene messo in discussione il canone stesso.

Le principali storie della letteratura italiana sono legate ad alcuni eventi collaterali del
Settecento della Francia: una comunità di monaci benedettini di Saint-Maure, per
ragioni di polemica religiosa con i protestanti, i quali contestavano l’autenticità di alcuni
documenti ecclesiastici, procedono ad una ricerca d’archivio su materiali che
attestino l’autenticità.
All’interno di questi archivi vengono rinvenuti molti testi latini e volgari, che vengono
recuperati; da qui nascono quelle discipline che sono la paleogra a —studio della
gra a dei manoscritti antichi— e la diplomatica —studio della formulazione dei
documenti.
Forti di questa nuova conoscenza, si dedicano dagli anni ’30 del Settecento poi alla
stesura di una “Storia letteraria della Francia”, partendo dall’antichità classica della
Gallia e con l’ambizione di arrivare progressivamente alla contemporaneità, ma
arenandosi negli anni ’60 del Settecento ai 12 volumi completati.

L’eredità dei Maurini rispetto all’esperienza italiana analoga consiste soprattutto nella
metodologia di ricerca: nel Settecento una scuola legata al nome di Ludovico Antonio
Muratori pubblica progressivamente delle edizioni di Rerum Italicarum Scriptores, che
si pre gge di pubblicare sia documenti di archivio sia testi letterari inediti, soprattutto
pertinenti al Medioevo.

Alla ne del secolo si procede quindi verso questa catalogazione sistematica, che vede al
suo interno l’azione di molteplici interpreti della storiogra a:

• Gli scrittori d’Italia, (1753-1763) in 6 volumi di Giovan Maria Mazzucchelli, ossia


l’elaborazione di schede biogra che per autore che ripercorrono la storia letteraria
italiana, considerando qualsiasi testo come letteratura.

• Storia della letteratura italiana (1772-1782), in 13 volumi di Girolamo Tiraboschi,


gesuita modenese che pubblica una storia critica che addirittura fonda le sue
radici nella pre-latinità.

• Manuale della letteratura del primo secolo della lingua italiana (1837) di Vincenzo
Nannucci, toscano emigrato nelle isole Ionie, che per la prima volta si focalizza non
tanto sulla geogra a, ma sulla lingua come criterio di selezione. Viene utilizzato
come manuale di studio universitario no al 1880 circa, malgrado fosse un prontuario
scolastico.
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• Storia della letteratura italiana (1870-71), in 2 volumi di Francesco De Sanctis, con
un impianto hegeliano e romantico che vuole dimostrare la spontaneità e la
componente demotica della letteratura in volgare, ovviamente sulla scorta degli
avvenimenti risorgimentali della Penisola.
N.B. Il Contrasto —dialogo tra un amante e una donna recalcitrante— di Cielo
d’Alcamo è per De Sanctis il primo esempio di questa letteratura demotica,
poichè anti-cortese nel suo contenuto, cercando poi di riportarlo
anacronisticamente alla situazione a lui contemporanea evidenziandone il
carattere universale —il litigio, riscontrabile ad esempio nelle “pastorelle”
provenzali e su vari contrasti medio-latini.

• I primi due secoli della letteratura italiana (1880), in 2 volumi di Adolfo Bartoli,
ossia un manuale universitario che sostituisce quello del Nannucci e che si focalizza
sul pro lo storico-linguistico.

• Manuale della Letteratura italiana (ad uso delle scuole secondarie) (1887) di
Francesco Torraca, esponente della Scuola storica, ossia quella linea critica che
censisce i materiali sulla scorta del positivismo, per poi inquadrarli in una storia
complessiva; viene quindi riconosciuta un’iniziale eterogeneità della situazione
linguistica in Italia —dove erano usati anche il francese e il provenzale in certi generi,
come appunto la lirica cortese.

Successivamente la storiogra a letteraria italiana si concentra sugli albori della letteratura


in volgare, pescando dalla letteratura disponibile:

• Crestomazia italiana dei primi secoli (1889) di Ernesto Monaci, ossia un’antologia
d’uso commentata linguisticamente, concentrata sui primi secoli, arrivando a
coprire un periodo tra il 960 d.C. (Placito di Capua) e le prose di Guittone d’Arezzo,
morto nel 1294.

• Letteratura italiana delle origini (1970) di Gianfranco Contini, ossia un’antologia in


più volumi di testi commentati, ormai estesa no al XIV sec., muovendosi però dalle
Laudes creaturarum di San Francesco, databile con una certa precisione al 1224.
N.B. La scelta di questo testo è peculiare poichè malgrado esso sia spesso sentito
come in uenzato da una vena popolare e istintiva, questo cozza però con quei
cultismi —ossia elementi prettamente latini, come l’utilizzo di clausole ritmiche e la
connessione con i Salmi— già studiati dallo stesso Contini.
Inoltre, l’elaborazione del testo risponde ad un’attenta calibratura dell’ordine
delle creature, quindi sempre di matrice culta.
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Prime attestazioni del volgare in Italia
Innanzitutto, è bene premettere che il latino in età classica era una lingua sia parlata che
scritta, ma già all’epoca di Cicerone vi era una situazione di diglossia, per cui le due
varietà —quella orale e quella scritta— erano percepite di erentemente.
ES. Cicerone stesso si so erma su queste di erenze, come ad esempio la
riduzione del nesso -NS- ad -S-, per esempio da FORENSIA a FORESIA

Questa condizione di diglossia rimane comunque entro i cardini del sistema latino
almeno no a quando non crolla il sistema scolastico e culturale romano,
conseguentemente al collasso delle istituzioni stesse dell’Impero romano.
Inoltre, il venir meno anche dell’e ciente sistema viario romano provoca un isolamento
che ha ricadute anche a livello culturale e linguistico, portando alla di erenziazione
del latino in diverse varietà di volgare, che sfociano poi nelle odierne lingue romanze.

Vi è quindi una progressiva confusione tra il latino parlato e il suo impiego scritto,
come si può ben evincere dall’Appendix Probi, un’appendice posta al termine di una
grammatica latina attribuita erroneamente a Valerio Probo, ma più probabilmente
attribuibile ad uno Pseudo-Probo del III-IV sec. d.C.
Questa appendice mette in evidenza degli errori di gra a probabilmente frequenti
all’epoca della sua stesura, i quali riproducono in maniera esemplare l’interferenza tra
oralità e scrittura.
ES. speculum non speclum
vetulus non veclus
Questo documento e delle glosse analoghe permettono di dedurre che un corso
naturale della storia linguistica del latino l’avrebbe probabilmente portato all’altezza
della ne del primo millennio ad essere quasi coincidente con il volgare.
Tuttavia, nel Medioevo il latino classico è conservato nella sua forma standard
parallelamente all’evoluzione della varietà volgari di erenziate diatopicamente, e
questo è dovuto ad un’operazione di carattere politico-culturale attuata da Carlo Magno.

➡ La riforma carolingia
Incoronatosi imperatore nell’800 d.C., Carlo Magno vuole proporre il suo dominio come
un continuum dell’esperienza della romanità, e quindi decide di introdurre una politica
di ripristino delle strutture culturali della latinità e della sua forma linguistica.
Rivolgendosi quindi a quelle comunità ecclesiastiche monacali —Bretagna, Irlanda, ma
anche in Italia come a Bobbio, Nonantola,…— che avevano conservato le vestigia della
cultura classica e le avevano protette dai burrascosi avvenimenti conseguenti alla
deposizione di Romolo Augustolo, l’imperatore decide di istituire una cerchia di
intellettuali —Alcuino di York, Rabano Mauro— alla sua corte di Aquisgrana,
incaricandoli di restaurare il latino nella sua forma canonica classica.

Questa operazione viene varata attraverso un capitolare, De litteris colendis, scritto da


Alcuino di York, e nella quale viene anche speci cata la distinzione tra lingue che
possono essere messe per iscritto e lingue che invece non possono essere messe
per iscritto.
Alcuino distingue tra 4 varietà linguistiche, o dialetti ordinati gerarchicamente: in primis
vi è una lingua litterata, ossia una lingua grammaticale e scritta, e una lingua illetterata,
che quindi non segue regole precise e non può essere messa per iscritto.
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Questa operazione è volta a risolvere una situazione linguistica che è ben testimoniata da
documenti scritti precedenti all’epoca carolingia, come ad esempio il Breve de
inquisitione (715 d.C.), ossia un testo giuridico che non contiene solo il dispositivo —
la soluzione del contenzioso o la pena— ma anche gli atti del processo, come ad
esempio le testimonianze.
Questo breve è scritto in un latino ormai profondamente mutato nel suo assetto —
scomparsa di desinenze, riduzione del sistema dei casi—, ma soprattutto è peculiare
poiché, citando l’idioma di coloro che testimoniano, si utilizza il glottonimo latino circa
romançum, ossia un latino vicino ad un’altra varietà linguistica —il romançum inteso
a questa altezza cronologica come una generica lingua parlata nei territori italiani, e quindi
storicamente romani.
N.B. Questo termine è l’anticipazione dell’odierno aggettivo romanzo,
impiegato per designare gli sviluppi de nitivi del latino nelle varie aree linguistiche
europee.

Dopo la rinascita carolina quindi, le varietà linguistiche vengono distinte proprio grazie
alla scrittura e alla recuperata preminenza del latino classico all’interno del sistema
scrittorio, impedendo l’intromissione di varietà parlate e non sorvegliate all’interno di
documenti scritti e provocando quindi una netta riduzione delle testimonianze volgari
successive e prossime a questa svolta culturale.

➡ Le testimonianze del volgare


Tuttavia, le testimonianze del volgare a orano o per necessità pratiche o per
accidentalità, soprattutto in zone marginali e poco soggette al controllo.
Esempio di ciò è ad esempio l’Indovinello veronese, ossia un testo ritmato in forma di
enigma, conservato in un codice liturgico compilato a Toledo nell’VIII sec., denominato
Orazionale mozarabico, spostandosi poi in Sardegna e poi a Pisa in epoca longobarda,
arrivando poi a Verona dove è ancora conservato nella Biblioteca Capitolare.

Verona è inoltre il luogo dove è stato aggiunto al codice l’Indovinello stesso, e ciò lo si
deduce da delle caratteristiche di alcuni vocaboli:
• Pareba nell’accezione di “spingere”, dal verbo “parar” tipico dei dialetti veneti
• Pratalia per indicare i prati
• Versorio per indicare aratro, dal sostantivo “verso” tipicamente veneto
Dal punto di vista linguistico, il testo presenta quindi interferenze tra latino e volgare,
dove quest’ultimo è ben evidente nella morfologia —riduzione del sistema dei casi— e nel
lessico —lemmi tipicamente veneti.

Questo indovinello inizialmente è stato individuato da Luigi Schiaparelli negli anni ’20
del Novecento, ma inizialmente era stato classi cato come un segmento di un
componimento poetico più lungo, la cosiddetta Cantilena del Bovaro, ossia un
componimento che celebrava appunto il lavoro nei campi.
Tuttavia, durante un corso universitario tenuto da Vincenzo de Bartolomeis a
Bologna negli anni ’20 del Novecento, è stato possibile grazie all’intervento di un’allieva
riconoscere questo testo come un indovinello dell’area settentrionale, dove l’atto
dell’arare viene paragonato enigmaticamente a quello della scrittura.
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Questo Indovinello era quindi probabilmente una prova di penna, seguita da
un’invocazione in latino; l’indovinello ha invece una veste linguistica volgare poichè
probabilmente colui che lo ha scritto ha voluto imitare la lingua illetterata tipica dei
contadini, dato anche il contenuto popolare e villico —l’aratura.

L’impiego del volgare per ragioni di necessità trova invece un esempio nel testo dei
Giuramenti di Strasburgo, risalenti all’842 d.C.
In questo caso si hanno degli inserti volgari nel testo latino cronachistico redatto da
Nitardo, membro della corte carolingia al seguito di Carlo il Calvo, nipote di Carlo Magno
e glio di Ludovico il Pio.
N.B. Anche Nitardo è nipote illegittimo di Carlo Magno
I protagonisti di questo giuramento sono appunto due dei nipoti di Carlo Magno, ossia
Carlo il Calvo —re dei Franchi occidentali— e Ludovico il Germanico —re dei
Franchi orientali—, stretti in un’alleanza contro Lotario, il primogenito di Ludovico il
Pio. Il testo dei Giuramenti ripercorre le vicende che portano all’alleanza tra gli eserciti di
Carlo e di Ludovico, incontratisi nell’842 d.C. nelle pianure di Strasburgo lungo il con ne
dei rispettivi territori.
Il con ne sul corso del Reno diventerà segnante a livello politico-geogra co dopo il
con itto tra i tre fratelli e la spartizione dei territori dell’Impero carolingio conseguente alla
pace di Verdun (843 d.C.), ma è anche segnante dal punto di vista linguistico: i
Franchi occidentali parlano una lingua romanza, mentre i Franchi orientali parlano
una lingua germanica, de nita tiothisca.

I due sovrani si promettono reciproco sostegno contro il terzo fratello e, per dare un
vigore ulteriore al giuramento, decidono di giurarsi reciprocamente anche nella lingua
del fratello, di fronte al suo esercito: Carlo il Calvo giura in francone renano, quella
lingua de nita thiotisca, mentre Ludovico il Pio giura in un’idioma gallo-romanzo, la
romana lingua, ed il tutto viene trascritto fedelmente da Nitardo attraverso l’espediente
retorico della barbarolessi, ossia l’intromissione di un’idioma diverso da quello in cui
è redatto il testo nel suo insieme.
L’impiego del volgare è giusti cato dalla solennità dell’atto e dal suo valore e ettivo e
pratico, ed inoltre la declamazione del giuramento evidenzia una probabile messa per
iscritto preventiva del giuramento stesso, quindi una certa progettualità della cerimonia.

La più antica attestazione di un volgare italiano è invece quella rinvenuta nel Placito di
Capua (marzo 960 d.C.), ossia un documento notarile conservato nell’abbazia di
Montecassino e che riguarda una controversia riguardante alcuni possedimenti,
contesi proprio tra l’abbazia di Montecassino e il suo abate Aligerno e un certo
Rodelgrimo, probabilmente un possidente longobardo che rivendica la proprietà dei
terreni.

La controversia viene presentata al giudice Arechisi, il quale fa stilare questo verbale in


latino, dal quale si evince che è richiesta la presenza di 3 testimoni che possano
parlare a favore dell’abbazia, ossia pronunciare una formula ben precisa —che è
riportata in volgare— che certi chi il possesso dell’abbazia di quelle terre per 30 anni
N.B. 30 anni corrispondono alla prescriptio long temporis, ossia un principio
di usucapione per cui un bene non rivendicato per un certo lasso di tempo dal
legittimo proprietario, passa ad essere proprietà di colui che ne sta traendo
bene cio.
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Nel contesto pienamente latino ria ora il volgare, anche qui per una necessità
pratica: i testimoni di Aligerno sono chierici e quindi conoscono il latino, ma devono farsi
capire dalla controparte della causa —Rodelgrimo— che probabilmente non
conosce il latino.
Nello stesso periodo e in aree vicine all’abbazia di Montecassino, vengono prodotti dei
documenti analoghi, che vengono quindi denominati Placiti campani e che sono stati
addirittura ritenuti una contra azione, ossia è stata ipotizzata una creazione a tavolino
di queste controversie ttizie al ne di utilizzarle per controbattere a possibili
controversie reali.

Un altro esempio di utilizzo del volgare è quello di un gra to presente nella catacomba
di Commodilla a Roma (VIII-IX sec.), redatto sopra un a resco risalente al VI sec.
Nella cornice interna è stata infatti incisa una frase “non dicere ille secrita abboce”,
rinvenuta nel 1904 da Orazio Marucchi, archeologo che cerca di datare il testo in
volgare sulla base delle sue scarse conoscenze.

I testo si riferisce alla liturgia, poichè cita le secrita, ossia le orazioni segrete pronunciate
dall’o ciante sulle o erte portate all’altare.
È quindi una precisa di da ma soprattutto un promemoria alla metodologia della
liturgia, particolare che ha permesso una datazione più a dabile del gra to stesso alla
prima metà del IX sec.
Infatti, se no a quel periodo nella liturgia romana le orazioni segrete erano pronunciate a
voce alta, con una riforma liturgica d’Oltralpe della prima metà del IX sec. si era
stabilito che venissero pronunciate a voce bassa.
Tra le particolarità linguistiche che certi cano la veste volgare del testo abbiamo:
• Imperativo negativo
• Dicere e secrita, volgare tipicamente romanesco
• Raddoppiamento fonosintattico di abboce, rappresentato anche gra camente

Questa iscrizione è in volgare probabilmente per la sua funzione pratica di promemoria


per gli o cianti, ma soprattutto è stato ipotizzato l’utilizzo del volgare al ne di
ra orzare l’impatto del messaggio stesso.

Un altro esempio è riscontrabile nella Basilica inferiore di San Clemente a Roma, in cui
all’interno di un a resco che ra gura la vicenda agiogra ca del santo: il patrizio romano
Sisinnio dà ordine ai suoi sgherri di far incarcerare il santo poichè egli non vuole
omaggiare come divinità l’imperatore, ma miracolosamente si sostituisce al corpo legato
del santo una colonna, che gli sgherri trascinano inconsapevolemente con molta fatica.

Sono presenti delle iscrizioni in volgare riferite ai personaggi coinvolti nella vicenda, in
particolare ai 3 sgherri Gosmanio, Albertello e Carboncello, ai quali Sisinnio si rivolge
invocando scurrilmente che essi portino il corpo del santo imprigionato —ossia la
colonna.
Il santo in carne ed ossa non è rappresentato ma parla e svela l’inganno miracoloso,
dichiarando che essi hanno meritato di trascinare il peso di un sasso.
I testi volgari sono stati introdotti in questa veste linguistica per alcune motivazioni:
• Sisinnio e gli sgherri si danno un gran da fare per trasportare il corpo del santo, quindi
il volgare servirebbe a rappresentare icasticamente la confusione della vicenda.
• Il volgare potrebbe essere stato usato per identi care la lingua dei pagani e dei
malfattori e quindi per contrapporlo al latino, lingua della Chiesa e quindi del santo.
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È quindi un caso di notatio, ossia di coerenza espressiva rispetto al personaggio che
si sta ra gurando, un crudele patrizio romano, oltretutto di fede pagana.

Per quattro riguarda la datazione, essa è incerta, ma il muro su cui è stato realizzato
l’a resco è un muro di sostegno realizzato per puntellare lo spazio superiore dopo la
devastazione dell’XI sec. che aveva d’interessato la basilica e altre chiese romane,
ad opera di un signore normanno.
Inoltre, sappiamo che all’inizio del XII sec. la messa smette di essere celebrata
all’interno della Basilica inferiore, così che possiamo collocare in questo lasso
cronologico l’iscrizione.
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I ritmi
Un impiego consapevole, formale e letterario è collocabile invece alla ne del XII sec.
con i cosiddetti ritmi, ossia testi che corrispondo ai primi impieghi poetici dei volgari,
provenienti da parti diverse dell’Italia —e quindi presentano forme volgari di erenti.
Questi testi non hanno intestazione, ma la loro designazione come ritmi è posteriore ed
il termine è volto ad indicare testi in versi con una struttura stro ca relativamente
irregolare.

➡ Ritmo bellunese

I nostri hanno conquistato Castel Dardo, lo hanno distrutto e gettato completamente nel
ume Ardo e i nostri cavalieri hanno condotto con sè sei cavalieri di Treviso fra i più nobili
di loro.

Questo componimento è noto come Ritmo bellunese poiché si trova all’interno di una
cronaca latina relativa a fatti d’arme intervenuti tra il comune di Belluno e il comune
di Treviso e relativi ad alcun postazioni di con ne, attorno agli anni ’90 del XII sec.
N.B. La distruzione del Castello di Ardo è databile al 1193 nella cronaca latina
che fa da contorno al ritmo.

L’estensore della cronaca non spiega il passaggio dal latino al volgare, così che si è
pensato che egli abbia semplicemente citato un componimento poetico composto in
quel di Belluno per celebrare la campagna militare vittoriosa.
Arrigo Castellani ha ricostruito la struttura metrica di questi versi, riconoscendovi una
metrica che riprende l’andamento prosodico tipico della chanson de geste, ritenendo
quindi che essa circolasse oralmente nelle zone bellunesi in una forma forse più
sviluppata.

➡ Ritmo laurenziano
Il ritmo laurenziano prende questo nome dal luogo dove è conservato, ossia la Biblioteca
Medicea Laurenziana di Firenze, e corrisponde ad un testo che è stato trascritto lungo i
margini di un codice contenente testi latini —in particolare è un martirologio di
Sant’Adone, proveniente da un convento orentino.

Il testo volgare del ritmo è stato elaborato in Toscana, non a Firenze ma probabilmente
nei dintorni di Volterra.
L’autore del ritmo si rivolge a qualcuno salutandolo e chiamandolo vescovo senato,
ossia “assennato”, poichè sarebbe il migliore che mai sia nato, e poi viene largamente
lodato.

In particolare, dall’analisi linguistica del testo emerge che:


‣ senato è stato inteso anche come aggettivo etnico, ossia sarebbe riferibile al
vescovo di Jesi
‣ Fisolaco e Cato sono metonimie per indicare due opere ben precise, ossia
- il Fisiologus, un trattato di zoologia con interpretazione morale,
originariamente greco e compilato nei primi secoli dell’era volgare, nel quale
una serie di animali viene esaminata sulla basa dei loro contegni e delle loro
abitudini, lette poi in chiave morale e allegorica; è quindi un riferimento culturale
di largai di usione che sottolinea l’intelletto del vescovo.
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ES. Il leone è solito cancellare con la coda le sue tracce, quindi è
interpretato come un demonio, che tenta i fedeli nascondendosi però; è
però anche simbolo del Cristo poichè ruggendo risveglia la cucciolata nata
morta.
- Catone, che nel Medioevo è associato ad una serie di distici elegiaci
moraleggianti, destinati al glio, confondendo erroneamente Catone il Censore
con Dioniso Catone, e ettivo autore dei Distica Catonis, testo latino utilizzato
nelle scuole come sussidiario per l’apprendimento della lingua latina.

Questi indizi coinvolgono la cultura dell’anonimo estensore dei versi, per cui la massima
rappresentanza intellettuale consiste in realtà in testi di istruzione primaria.

‣ L’apostolico romano è il Papa, ed è bene ricordare che nel Medioevo, la sede


principale del papato a Roma era San Giovanni in Laterano, ossia la prima chiesa
fondata nella quale appunto sono conservate le reliquie di S. Pietro e S. Paolo. Il
Papa avrebbe quindi consacrato l’uomo a cui è dedicato il ritmo, mentre i due santi
protettori dell’ordine benedettino —S. Benedetto e S. Germano— lo avrebbero invece
destinato a diventare a sua volta ponte ce, in una sorta di augurio.
‣ Vi è poi un toponimo di una cittadina nei pressi di Ancona, Lornano, da cui proviene
l’uomo in questione.

Alla ne delle lodi sperticate, arriva una richiesta: se l’uomo darà allo scrivente un
cavallo balzano —ossia un cavallo di pregio, con zoccoli di colore diverso— egli lo
mostrerà come segno di generosità al vescovo di Volterra, a cui l’autore è sottoposto.
L’autore è quindi probabilmente un vassallo del vescovo di Volterra.

‣ Grimaldesco è il nome di battesimo del vescovo senato, il quale non si preoccupa


di avere alla sua mensa una grande quantità di cavalieri a cui o re il vitto, secondo
una consuetudine delle corti più importanti dell’epoca, le quali avevano uno stuolo di
vassalli.

Evidentemente la richiesta non è commisurata alla condizione del richiedente, così che
qualcuno —gli arcadori, ossia la guardia armata del vescovo— ne è risentito e si agita.
A sedare gli animi però interviene il vescovo in persona, che comanda all’autore di sellare
il cavallo che preferisce e di andarsene.

La richiesta del cavallo è una proposta abituale da parte di quegli uomini che
praticavano saltuariamente le corti, esercitando le loro arti —ossia la gura del
giullare, da intendere non solo come professionista della musica o un cantore, ma
anche come un esperto nell’uso della parola che spesso i signori inviavano come
ambasciatori ad un’altra corte. Il ritmo è quindi probabilmente un ritmo giullaresco.
Ai giullari interessava avere un cavallo per uno spostamento più agevole nelle loro
mansioni, ed era interesse del signore ospitante di mostrarsi accondiscendente e
generoso, per dimostrare la sua potenza e la sua ricchezza.
In alternativa, i giullari si potevano anche accontentare di vesti di pregio dismesse o
consunte.
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Per quanto riguarda la cronologia e l’identi cazione del destinatario, è utile l’analisi
dell’aggettivo senato, a lungo inteso come “assennato” poichè avrebbe una derivazione
dal francese senè, e sottolineerebbe i rapporti dell’autore con l’Oltralpe, ma sulla base
di altri passi è stato utilizzato per identi care il vescovo in questione:
‣ Un’ipotesi vuole che il vescovo sia tale Villano Pannocchieschi, vescovo
e ettivamente attivo nell’Italia centrale
‣ Un’ipotesi vuole che senato sia appunto toponimo di Jesi, e quindi il vescovo
sarebbe un “jesinate”, tale Grimaldesco dei conti di Lornano, che i documenti di
archivio attestano come vescovo di Jesi all’altezza della ne del XII sec., tra il 1175 e il
1207.

Per Arrigo Castellani, l’allusione al Laterano è interessante poichè la corte ponti cia nel
Medioevo era itinerante all’interno dei domini della Chiesa, e la restituzione del
Laterano come sede papale è dovuta a Clemente III, che la ripristina nel 1188.
Inoltre, a restringere ulteriormente la cronologia vi è l’augurio riferito al soglio ponti cio,
poichè per Castellani questo sarebbe stato possibile solo entro il 1198, anno in cui
muore Celestino III ormai ultra novantenne. Il successore è invece Innocenzo III, giovane e
con una speranza di vita molto lunga, quindi probabilmente il ritmo è databile alla ne
del periodo del ponti cato di Celestino III, allo scadere del XII sec.

Per quanto riguarda la metrica, vi è un’alternanza di ottonari e novenari, così che si


può parlare di anisosillabismo tipicamente giullaresco, che diventerà poi uno stigma
poetico nei secoli a venire.

L’autore è quindi un giullare legato al vescovo di Volterra e dotato di un’infarinatura


culturale primaria, ma è la forma stessa del ritmo ad evidenziare la sua condizione,
poichè è una struttura tipica delle epistole latine, così come si era con gurata e
standardizzata nel corso del Medioevo.
La tecnica di scrittura delle epistole era chiamata ars dictandi, ed era impartita in
numerose sedi, ma che proprio tra XI e XII sec. conosce uno sviluppo signi cativo a
Bologna, città universitaria specializzata anche nel diritto e dalla quale provengono
numerosi notai.
N.B. La teoria epistolare è invece chiamata ars dictaminis.
Una lettera era quindi così strutturata, e il Ritmo laurenziano riprende da questa stessa
conformazione:
‣ Salutatio, importante soprattutto per i titoli che si utilizzavano nello speci co per il
destinatario, per rispettare le convenzioni diplomatiche
‣ Narratio, in cui si introducevano uno o più aneddoti —personali, circostanziali o
ricavati da repertori aneddotici o proverbiali tradizionali.
‣ Petitio, ossia la richiesta concreta e la motivazione della lettera
‣ Conclusio, che rinnova le lodi e gli auspici

Anche un testo modesto nella sua struttura, nella sua formulazione e soprattutto nella sua
irregolarità, partecipa di una matrice culta e soprattutto la sua veste linguistica volgare
necessita di un’autorizzazione. La giusti cazione del volgare non è quindi ancora
autonoma, ma è sempre legittimata dal contesto in cui è inserita; anche la sua
circolazione non è indipendente, ma appunto si aggrappa clandestinamente al margine di
un altro manoscritto, per essere conservato.
N.B. Per alcuni studiosi è un testo autografo, che l’autore ha voluto lasciare ai
posteri per trasmetterlo.
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➡ Ritmo cassinese
Il Ritmo cassinese è un componimento conservato nella carta di guardia di un
sermonario ecclesiastico conservato nell’archivio dell’abbazia di Montecassino.
La gra a è una benedettina cassinese, il che colloca la sua origine precisamente nel
centro-meridione, quindi appunto nelle zone limitrofe di Cassino e forse proprio
nell’abbazia stessa, anche per via dei riferimenti culturali religiosi del testo.

Il testo è costruito su lasse di due rime, con quindi versi monorimi chiusi
sistematicamente da 2 o 3 decasillabi o endecasillabi in rima.
La datazione è condotta su base paleogra ca e attesta il componimento a cavallo tra XII
e XIII sec., mentre il contenuto è di stampo moralistico.

Tra le particolarità linguistiche:


‣ Fabello per favello, spia linguistica che sottolinea il betacismo e l’appartenenza del
testo all’area linguistica cassinese.
‣ Flagello come fascio di candele
‣ Encastello è stato interpretato come un rinvio al Vangelo di Matteo, dove si parla della
Civita super montes posita, ossia una città della parabola evangelica che è visibile e
raggiungibile a tutti.
‣ Scriptura è termine ambiguo ma allude ad una fonte letteraria preesistente a cui il
componimento si ispirerebbe
‣ Fegura indica l’allegoria
N.B. Per Auerbach l’interpretazione gurale consiste nel guardare ad un testo
per ricavarne uno spunto di interpretazione allegorica, spesso coincidente con una
profezia destinata ad avverarsi in un secondo tempo ed inconsapevole, così che la
lettera del testo era compiuta solo se sottoposta ad una lettura allegorica.
Ad esempio, nella mitologia classica Ercole scende agli Inferi, così come Cristo
che scende per redimere i padri antichi dell’Ebraismo. Ercole è quindi allegoria in
factis del Cristo che verrà.
L’allegoria del testo è l’elogio della vita ultraterrena e di una vita terrena ispirata
all’ascesi e al distacco dalla mondanità.

Vi sono poi due personaggi, che fanno parte probabilmente dello spunto narrativo da cui
è tratto il ritmo: uno positivo ed orientale, ed un altro occidentale, i quali all’alba
arrivano in un luogo convenuto per l’incontro e subito si rivolgono delle domande.
Dopo uno scambio di battute, l’occidentale riprende parola e fa una domanda all’altro,
volendo sapere che tipo di vita conduce quell’altro per stare così bene.
L’orientale risponde in maniera accesa e sdegnosa, spiegando che ha una vigna sempre
carica di frutti, da cui attinge per qualsiasi bisogno.
L’occidentale è confuso, ma l’orientale gli risponde di ascoltarlo attentamente: l’uomo
che non ha mai fame né sete, che bisogno deve avere di mangiare e bere?

La contrapposizione tra orientale e occidentale è utile a riconoscere la narrazione a cui


il ritmo si ispira, poichè:
✤ La distinzione geogra ca riprende il mito del giardino dell’Eden, il quale secondo i
miti e le leggende medievali era collocato nell’Estremo Oriente, luogo mitico ed ideale
al quale gli uomini non potevano avere accesso.
✤ Il termine di paragone della vigna riprende il testo evangelico in cui Cristo si
paragona alla vigna e paragona i suoi discepoli ai tralci della vigna, sparsi per il
mondo
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Si è pensato, per via del colloquio diretto tra i due personaggi, che la fonte da cui il
ritmo trae spunto siano i Dialogi di Sulpicio Severo, autore della tarda cristianità, nei
quali spesso mette a confronto monaci di diversa provenienza.
In particolare, in uno di questi dialoghi si mettono a confronto un monaco delle Gallie
di nome Gallo ed un monaco reduce da una visita nella Tebaide, di nome
Postumiano.
Postumiano parla del vitto scarso delle popolazioni della Tebaide, ma Gallo è scettico che
essi possano sopravvivere così.

Un altro testo interessante è relativo alle campagne orientali di Alessandro Magno,


gura che nel Medioevo assume dei tratti leggendari grazie anche al romanzo dello
Pseudo-Callistene, che parla della nascita di Alessandro e dove la sua realtà storica è
già mitizzata e tras gurata.
Nelle rielaborazioni latine del testo, quando Alessandro si spinge verso l’India viene a
sapere di una popolazione favolosa, ossia quella dei Bracmani, i quali vivono in uno
stato di natura: non lavorano, non coltivano la terra, ma traggono sostentamento dalle
fertili terre dove abitano, cariche di frutti e altre cibarie, ma spendono la maggior parte del
loro tempo a meditare.
Alessandro intraprende quindi uno scambio epistolare con il re di questa popolazione,
tale Dindimo.
N.B. Anche Petrarca conosce la versione latina dell’opera, poichè questa
popolazione diventa allegoria di un’esistenza continente e morigerata, virtuosa.

Lo scambio epistolare dà luogo ad un’operina latina che prende il nome di Collatio


Alexandri Regis cum Dindimo rege, ossia “Confronto tra Alessandro Magno e il re
Dindimo”.
Alessandro si rivolge a Dindimo, invitandolo ad essere parte della sua corte con la
promessa di ricchezze in nite, ma Dindimo non cede alle lusinghe mondane poichè
preferisce lo stile di vita della sua cultura.
Si ritrova quindi un sottofondo culturale simile al ritmo, in cui un orientale e un occidentale
si confrontano sui rispettivi stili di vita.

Il Ritmo cassinese inoltre condivide con il Ritmo laurenziano il fatto di essere un


ritmo giullaresco, qui evidenziato dalla presenza di un formulario preciso, come ad
esempio l’apostrofe iniziale che si rivolge ad un pubblico di uditori.
Il fatto che tuttavia il contenuto non sia un contenuto comico ma bensì moraleggiante
non è tuttavia in contraddizione con la professione del giullare: da documenti risalenti
all’XI sec. si evince che l’ordine benedettino —soprattutto nell’Italia centrale, nei
pressi dell’abbazia di Farfa (Rieti)— spesso si appoggiava a questo genere di
professionisti della parola per tenere dei sermoni al popolo che fossero gradite anche
in ragione del loro accompagnamento musicale.

! La gura del giullare


La cultura giullaresca non è esente da contaminazioni culturali alte o dotte; la
gura del giullare è infatti un intermediario omiletico e culturale posto tra le sfere
alte e il popolo
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Le Laudes Creaturaru
I documenti coevi parlano dei sermoni pubblici di S. Francesco facendo riferimento alla
parodia delle tecniche giullaresche che Francesco inscenava durante queste orazioni.
N.B. Per Tommaso di Spalato, un membro dell’Ordine francescano, Francesco
per richiamare l’attenzione degli astanti aveva preso una volta due pezzi di legno,
mimando l’atto di suonare una viola.
Vi è quindi una consapevolezza in S.Francesco di una possibile ed e cace commistione
tra prediche edi canti e tecniche giullaresche.
Le Laudes Creaturarum sono state intese dalla critica come la miglior rappresentazione
della simplicitas culturale di S. Francesco, dove l’utilizzo del volgare è volutamente
degradante poichè inserito nelle logiche dell’umiliazione francescana.
Il corpus dell’opera scrittoria francescana è infatti prevalentemente in latino, quindi S.
Francesco non era del tutto sprovvisto di un’infarinatura culturale dotta e
classicheggiante.

Inoltre, Francesco ha quasi sicuramente una formazione culturale basilare poichè


appartiene a quella borghesia cittadina orente sul nire del XII sec., la quale aveva
necessità pratiche di alfabetizzazione.
Da parte di madre inoltre potrebbe avere avuto un’infarinatura della poesia trobadorica,
poichè madama Pica proveniva sicuramente da Oltralpe, probabilmente dalla
Provenza, ma è altrettanto appurato che la fortuna documentata della lirica provenzale
e dei romanzi arturiani in Italia possa essere stata su ciente per garantire a Francesco
una conoscenza della stessa.
N.B. Da alcune biogra e di S. Francesco si evince come egli tendesse ad imitare
con i suoi fratelli il rapporto di compagnonaggio che intercorreva tra Artù e i
suoi cavalieri; vi era poi un trasferimento mimetico anche rispetto alla gura di
Cristo e dei suoi apostoli.

Le Laudes Creaturarum sono state a lungo intese come una lode religiosa spontanea
intervenuta in circostanze particolari, che sono raccontate nella Vita Maior di Tommaso
da Celano, principale biografIsta di Francesco.
Il testo è stato composto attorno al 1224, poco tempo prima della morte di Francesco:
egli è ormai cieco e gravemente malato, ritirato sull’eremo di S. Damiano (Assisi) e
durante una notte di tribolazione su un pagliericcio misero, prorompe in questo canto di
lode verso il Signore e le sue creature.
N.B. Il canto doveva essere tale, in quanto il manoscritto più antico che lo
conserva —situato nel Convento francescano di Assisi— denota come il testo
fosse destinato ad avere anche una notazione musicale.
Per Gianfranco Contini, il testo è tuttavia una prosa assonanzata, ossia
un’approssimazione delle rime che dimostra comunque la presenza di una struttura
nell’opera.

I primi 4 versetti riguardano Dio, che viene descritto nelle sue caratteristiche consuete e
soprattutto che viene identi cato come unico tributario delle lodi.
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Le creature sono chiamate al loro compito speci co, ossia quello di lodare il Signore, e
vengono enumerate ad una ad una, seguendo un ordine dall’alto verso il basso:
N.B. Nella concezione aristotelico-tolemaica, la Terra è centrale e circondata
dalla sfera dell’acqua, dalla sfera dell’aria e dalla sfera del fuoco, oltre le quali
si trovano le sfere planetarie, costituite da un materiale speciale detto etere, nel cui
spessore sono incastrati gli astri. Le sfere si muovono attorno alla Terra secondo
un moto regolare guidato dall’Empireo, un cielo estremo ed immateriale, sede di
Dio.

‣ Il fratello Sole, che illumina —con riferimento alla creazione della luce nella Genesi, e
che porta il signi cato di Dio stesso —con riferimento all’inno del teologo francese
Alano di Lilla, dove le cose vengono de nite come rappresentazioni di altro, ossia Dio
nelle sue varie cause manifeste.
N.B. Alano di Lilla appartiene al lone neoplatonico della scuola di Chartres,
proponendo una rivalutazione della concretezza mondana all’interno della
dottrina cristiana. Altra opera della stessa scuola è il De mondi civitate di
Bernardo Silvestre ( ne XII sec.), opera signi cativa per la sua rivalutazione radicale
dell’atto sessuale.
‣ La sorella Luna e le stelle
‣ Il vento e il maltempo, poichè anche’esso partecipa alla vita sulla Terra.
‣ La sorella acqua
‣ Il fratello fuoco, che serve ad illuminare e che porta quindi anche’esso signi cazione
di Dio
‣ La sorella e madre terra, che sostenta e produce frutti e ori, con quindi anche una
sorta di parentesi estetica.

Si esaurisce il novero delle creature convocate a lodare Dio, passando ad un’altra


tematica, strettamente autobiogra ca se si presta fede all’occasione della scrittura del
testo tramandataci da Tommaso da Celano: vi è una so erenza che è utile a perdonare
e che viene cristianamente sopportata.
In alcune agiogra e francescane questo particolare segmento testuale è stato interpretato
come un’aggiunta successiva, introdotta da S. Francesco dopo essere riuscito a
riappaci care tra loro il podestà e il vescovo di Assisi.

L’argomento è il destino umano nel mondo ultraterreno e in questa parte del testo
l’ordine è inverso rispetto a prima, ed è quindi ascendente.
Per Francesco, chi saprà perdonare e seguire le parole di Dio, sarà allora incoronato
alla destra di Dio stesso: chi si sarà attenuto al volere divino non avrà pena nel
momento della morte secunda, ossia della morte dell’anima. In ne il testo si conclude
con un invito a ringraziare Dio.

Il Cantico delle creature va interpretato non come una personale esigenza di Francesco in
un momento di di coltà, ma piuttosto come un testo che a ronta delle tematiche di
dibattito che interessavano la religione e la politica ecclesiastica in quel periodo.

Tra le particolarità:
‣ Per è interpretabile sia come una preposizione introduttiva a proposizioni con
funzione causale, sia come una funzione strumentale, ma questa ambiguità
potrebbe essere stata ricercata da Francesco, poichè si riconosce all’interno
dell’interpretazione strumentale un richiamo a:
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- Cantico dei tre fanciulli della fornace, che si trova all’interno del libro di
Daniele, nella Bibbia. Questi tre fanciulli ebrei, inservienti alla corte di re
Nabuccodonosor, vengono sollecitati a rendere omaggio al re come se fosse
una divinità, ma la loro religione glielo vieta. Essi vengono quindi condannati
alla morte all’interno di una fornace, ma un angelo del Signore interviene in
loro aiuto, così che gli astanti li vedono aggirarsi nel forno rovente mentre
intonano un cantico, la cui vicinanza al testo francescano è evidente.
- Salmo 148, che si conclude con un invito a lodare Dio rivolto a più creature.
All’interno delle opere latine di Francesco poi, esiste una sorta di parafrasi del cantico,
che passa sotto il nome di Exhortatio ad laudem Dei, costituita da frammenti di testi
scritturali.

Per quanto riguarda la struttura del cantico invece è utile sottolineare la sua somiglianza
con il genere ecclesiastico della sequenza, ossia un componimento in versi ritmici
latini che prende piede dalla ne del IX/X sec. poichè l’introduzione di un testo permette
di memorizzare i lunghi melismi che seguono il canto dell’Alleluia.
ES. Sequenza pasquale di Wippo di Borgogna, dove nei primi versetti vi è quindi
un’esortazione, mentre il resto del testo è uno svolgimento del tema dato.
Le sequenze ebbero molta fortuna anche come genere paraliturgico, quindi non
necessariamente come testo cantato esclusivamente durante la messa, ma ad esempio
anche durante processioni che comprendevano anche l’assemblea dei fedeli,
secondo una pratica predicativa sussunta poi anche da S. Francesco.
Non è quindi un caso che tra i testi versi cati più antichi risalenti al Duecento vi siano
anche delle sequenze in volgare.

Essendo poi una prosa assonanzata anisosillabica, è presente un cursus, ossia la


presenza di clausole ritmiche di struttura ssa per dare enfasi al discorso.
Il testo quindi rinvia a delle strutture formali latine e soprattutto di grande prestigio.
N.B. È una presenza stabile e obbligatoria nella cosiddetta ars dictandi
Il cursus è dato da una sequenza di accenti: ad esempio, il cursus velox è dato da un
polisillabo sdrucciolo e un quadrisillabo piano (la gloria e l’onore), mentre il cursus planus
è dato da un polisillabo piano e un trisillabo piano (grande splendore, pretiose e belle).

Per quanto riguarda i contenuti, l’invito a lodare Dio risponde alla volontà di S. Francesco
di contrastare una teoria che squali cava l’intero Creato, poichè lo riteneva
creazione del demonio, sostituitosi a Dio con l’inganno nella creazione del mondo.
In particolare, Francesco è polemico rispetto all’eresia catara, ossia un’eresia
particolarmente di usa in Provenza tra XII e XIII sec.
La chiesa catara —dal greco “puro”— si distingue rispetto alla cristianità poichè ritiene di
aver riconosciuto la natura diabolica del mondo e di aver scelto uno stile di vita
manicheo, di totale rinuncia verso il mondo.
N.B. Tuttavia, l’ascesi catara è radicale: i catari perfecti —ossia coloro che
seguono la dottrina alla lettera— potevano arrivare al digiuno totale, al ri uto totale
del cibo no alla morte, nella cosiddetta endura.
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! L’eresia catara
Questa eresia era particolarmente interessante per le autorità ecclesiastiche non
tanto per le teorie religiose, ma per interessi di tipo economico-politico.
I Catari infatti rinunciavano anche al versamento delle decime ecclesiastiche,
al tempo indispensabili per il sostentamento del clero.
Tra XII e XIII sec. le autorità ecclesiastiche intraprendono una vera e propria lotta
all’eresia catara, in primis attraverso la gura di papa Innocenzo III.

L’eresia catara proponeva, tra le varie teorie, quella per cui gli astri come Sole e
Luna sarebbero stati Satana ed Eva, congiunti mensilmente in un connubio
peccaminoso; gli altri astri sarebbero invece stati i rimanenti demoni.
Dall’unione carnale dei due astri, deriverebbe poi la rugiada che di disperde sulla
terra.
Con S. Francesco invece abbiamo una completa rivalutazione di questi elementi
naturali e in primis dei 4 elementi del mondo, che sono subito posti in evidenza
nel cantico attraverso entità naturali speci che —ad esempio il Sole è il fuoco.

Se quindi le Laudes sono state concepite anche in un’ottica anti-catari —presenti in


Umbria in quel di Foligno al tempo— allora anche gli altri elementi conclusivi —
considerabili come aggiunte successive— sarebbero invece organici ad un’unica
composizione, soprattutto per ciò che riguarda le due morti.
L’eresia catara infatti era anche convinta rispetto all’apocatastasi, ossia la salvezza
universale delle anime, al di là dei meriti o dei demeriti della singola anima.

Le laude
Tra le prove più antiche di componimenti in volgare arrivati no a noi, un insieme di testi
molto nutrito è quello delle laude.
Queste laude vanno a ermandosi a partire circa dal 1233, momento storico in cui l’Italia
centro-settentrionale è interessata dalla presenza del movimento dell’Alleluia, ossia un
movimento sollecitato dal francescanesimo stesso.
N.B. Proprio in quegli anni l’ordine francescano diventa legittimo grazie
all’intervento papale; a Parma addirittura vengono incaricati due francescani di
sostituire l’amministrazione podestarile cittadina.
L’Italia è quindi solcata da processioni di fedeli che intonano dei canti di lode al
Signore, invitando alla redazione, al perdono, all’astensione dal peccato.

Il Francescanesimo si propone quindi come una realtà importante al tempo, sia dal
punto di vista socio-politico, sia dal punto di vista culturale.
I canti che vengono intonati quindi da queste comunità di laici sfociano poi in una forma
strutturata come quella della lauda.
➡ Dalla lauda Altissima luce col grande splendore
Questa lauda è contenuta in un manoscritto databile attorno al 1275, quindi
contenente testi precedenti a quell’anno.
N.B. La lauda è rmata da tale Garzo, ossia ser Garzo dell’Incisa, antenato
di Petrarca
Il manoscritto è il Laudario cortonese, un manoscritto legato ad una
confraternita di laici che si impegnavano alla celebrazione di u ci religiosi e
all’intonazione di testi in volgare, data ovviamente la cultura medio-bassa della
borghesia cittadina.
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Nei manoscritti di laude possiamo riconoscere un’organizzazione:
‣ Le laude sono disposte in maniera tale da corrispondere all’anno liturgico, ossia
alle varie forme di liturgia che si susseguono nel corso dell’anno.
‣ Le laude sono distinte per il contenuto in laude mariane, ossia dove la Madonna è
invocata, e laude agiogra che, legate alla celebrazione del santo del giorno.

Molto rapidamente la lauda assume la struttura metrica della ballata profana,


probabilmente per via del fatto che esse erano dottate di un accompagnamento
musicale, ma anche per via del fatto che le ballate erano eseguite tramite
un’alternanza di coro per il ritornello e di uno o più solisti invece per le strofe.

Inoltre, nella struttura della ballata l’ultimo verso della ripresa rima
obbligatoriamente con il primo di ogni strofa.
Una strofa con 3 versi monorimi e poi un quarto verso che riprende la rima della ripresa è
de nita strofa zagialesca
N.B. Con zajal si intende un componimento poetico profano sviluppatosi nella
Spagna araba con 3 versi scritti in arabo e un ultimo verso in un volgare romanzo.
Questo tipo di strofa si di onde in Europa in ambito ecclesiastico tra XI e XII sec.,
lasciando esempi di strofe zagialesche con alternanza tra latino e volgare.
ES. Nell’abbazia di Limoges si trova un componimento relativo all’Incarnazione di
Cristo.
È quindi la tipologia di strofa preferita nella produzione laudistica italiana.

Inoltre, vi è una notevole somiglianza tra la struttura della lauda e quella della
sequenza latina, così che l’interferenza tra cultura profana e volgare e cultura alta e
tradizionale è comunque presente.

Jacopone da Tod
Le circa 90 laude attribuibili a Jacopone da Todi hanno caratteristiche formali che
corrispondono alla struttura della lauda ballata, con una predilezione per la strofa
zagialesca —simile al sirventese.
Per quanto riguarda i contenuti, troviamo in queste laude un autobiogra smo spiccato:
non sono laude concepite per l’esaltazione di santi e festività, ma come meditazioni
interiori corrispondenti all’aura mistica del personaggio; sono quindi testi privati,
personali ed intimistici.
La di usione delle laude stesse è quindi collocabile al Trecento, quando le comunità
francescane rigorose praticano la trascrizione delle laude di questo personaggio, ormai
de nito Beato e assurto a santità.
N.B. L’avversione della Chiesa tradizionale per Jacopone è dovuta alla sua
severa esigenza di applicare la regola francescana in maniera rigorosa; tant’è che
l’Ordine francescano si suddivide a metà Duecento tra spirituali —tra cui appunto
Jacopone— e conventuali —ossia coloro i quali non devono seguire la povertà
dettata dalla regola francescana.

Se le laude laiche erano cantate, in Jacopone il genere laudistico è piegato ad


esigenze puramente letterarie, sebbene qualche lauda —di incerta attribuzione— sia
stata poi musicata.
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Jacopo dei Benedetti —vero nome di Jacopone— nasce negli anni ’30 del Duecento in
un ambiente notarile e viene istruito in Diritto. Egli esercita questa attività come
procuratore scale a Todi e, dato il prestigio sociale e lavorativo, riesce a sposare una
certa Vanna di Coldimezzo.
Nel 1268, durante una festa, il crollo di una volta provoca la morte della moglie; Jacopone
la soccorre e —secondo la storia tramandata— scopre che la donna portava un cilicio.
Inizia quindi la conversione di Jacopone e il suo ingresso nell’ordine dei Frati minori.

Jacopone aderisce in toto agli ideali dei Francescani spirituali e quando sul nire del
Duecento Celestino V abdica il soglio ponti co, gli subentra Bonifacio VIII, che porta
avanti uno scontro con correnti a lui avverse nella Curia romana, come la famiglia
Colonna che ne invalida l’elezione.
Al seguito dei Colonna —esiliati nel castello di Palestrina— vi è anche Jacopone,
divenuto u cialmente nemico del Papa; nel 1297 Palestrina viene assediata poichè i
Colonna hanno stilato il cosiddetto Manifesto di Longhezza, ossia un documento
rmato da diverse personalità che certi ca la non-vigenza del papato di Bonifacio.
Una volta espugnato il palazzo, i Colonna vengono incarcerati e giustiziati e Jacopone
viene condannato al carcere a vita, all’interno di un convento francescano in condizioni
di estrema deprivazione.
Nel 1306 Jacopone è riscattato dalla prigionia e riabilitato dalla Chiesa, ma egli muore.

Jacopone passa alla storia più come gura politica e mistica che come letterato —anche
per via della privatezza dei suoi scritti.
Tra le caratteristiche delle sue laude troviamo inoltre una netta diversità linguistica —
Jacopone parla umbro: è una lingua aspra, tesa al realismo, con profusione di alterativi
e accrescitivi, che tendono anche al basso-volgare, ma si intende anche una cultura
poetica in Jacopone.

Molti testi di Jacopone ricalcano la strutturazione degli inni, nell’espressione e nei


sintagmi; egli conosce poi la letteratura mistica intesa come meditazione volta al
contatto diretto con la divinità, ricca di esclamazioni.
N.B. Molte laude trattano la divinità in senso apofatico, ossia tacendone piuttosto
che parlandone, o esaltando ciò che non è possibile dire.
Vi sono poi richiami alla lirica cortese, che segnalano una conoscenza delle liriche
trobadoriche abbastanza sentita.

Tra le laude troviamo le laude penitenziarie, che descrivono con minuzia e soggettività le
pene e le malattie a cui la prigionia lo costringe; Jacopone addirittura ne implora di
nuove ed ulteriori di queste pene.
Sempre al periodo della carcerazione corrispondo alcune laude che —in forma di epistola
— vengono indirizzate a Bonifacio VIII per chiedere l’amnistia dalla scomunica e alcune
invettive dirette verso Bonifacio.

Per quanto riguarda ancora l’esecuzione, Jacopone si ispira ad una lunghissima


produzione poetica in latino dove si ra gurava la Passione vista dalla prospettiva di
Maria, attraverso dei canti corali dialogici, che però non hanno una fruizione orale nel
suo operato.
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➡ Dalla lauda “Quando t’alegri, omo d’altura”
In questa lauda ballata viene messa in atto una contrapposizione tra un vivo e un
morto, al ne di proporre un memento mori.
In questa lauda convergono varie tradizioni, tra cui soprattutto si nota la
convergenza con la Leggenda dei 3 morti e dei 3 vivi, una leggenda orientale
che aveva già conosciuto delle stilizzazioni poetiche nell’Ovest francese.
La leggenda narra di 3 aristocratici che si imbattono in 3 sepolcri con dei morti in
diverse fasi della decomposizione, che li ammoniscono riguardo alla loro
inevitabile ne, che devono sempre tenere a mente per non incappare nella
dannazione.

Il realismo di Jacopone è icastico e serve a dare una valenza concreta


all’ammonimento, così che alcune laude —quelle relative ai vizi— sono elaborate
rispetto ad una struttura arborea: un tema principale da cui si diramano diversi vizi,
diverse virtù e diverse condizioni.
Questa strutturazione ha dei precedenti nelle serie predicative e serve ad una
meditazione personale, per ricordare più facilmente la scansione di queste serie.

! Nonostante le posizioni politiche a ni e l’inimicizia comune verso il Papa, Jacopone


latita totalmente dalle carte dantesche e dalla Comedia. Questo è interessante poichè
solitamente siamo portati ad immaginare lo sviluppo letterario come qualcosa di coeso e
lineare, ma spesso autori contemporanei non si conoscono tra loro a questa altezza
storica ed oltre, poichè vi sono esperienze varie e capillari in volgare.
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Esperienze volgari settentrional
Nel XIII sec. tra la Lombardia e il Veneto vi sono esperienze in volgare variegate.
ES. Il codice Saibante-Hamilton 390 è presente a Berlino —a Verona no
all’Ottocento— e presenta una vasta gamma di testi in volgare, allestiti in area
veneta attorno al 1280.
È un codice notevole perché appartiene anche al veneziano Albertino Morosini,
podestà di varie città italiane nonché podestà di Pisa nella battaglia della
Meloria nel 1284 —a cui segue la stesura del Milione di Marco Polo da parte di
Rustichello.
I più recenti editori del codice a ermano che, viste le parentele illustri di
Albertino, è possibile che questo codice nemente intarsiato sia stato fatto allestire
per la formazione culturale del nipote Andrea III, poi re d’Ungheria.

Il codice si apre con i Distica Catonis, sia in veste latina che volgare; vi sono poi
una lista di presagi latini in ordine alfabetico; in ne vi sono altri scritti —ricette,
oracoli,…— no ad arrivare ad un libro di Uguccione Da Lodi, ossia un testo
volgare che invita al disprezzo del mondo e che dipende da alcuni Vers de la
mort di un monaco francese.

Vi sono poi un libro di proverbi di Salomone volgarizzato dal cremonese Girardo


di Patecchio, che nel 1229 è interpellato come testimone di una pace giurata tra
Cremona e Parma. È un libro in distici alessandrini.

Vi è poi un testo misogino di sentenze, riguardanti la natura delle donne, in


quartine di doppi settenari, un modello che rimanda a tradizioni poetiche francese,
in particolare al testo francese Castiga-bricconi, ossia colui che si da delle
donne.

Vi è poi un Panphilus de amore, ossia una commedia elegiaca —molto di use


nell’Europa del XII/XIII sec.— che racconta una tresca amorosa sia nel testo
latino, sia nella traduzione veneziana interlineare.

Vi è in ne la Cagnetta piangente, una serie di esempi fortemente misogini.

Chi ha fatto allestire questo codice dimostra sensibilità per una tradizione locale,
ormai su cientemente a ermata a tale altezza storica.

Tracce di questa letteratura didascalica e protesa all’insegnamento morale sono


riscontrabili in Girardo Patecchio, che si fa autore anche delle cosiddette Noie,
tramandate tardivamente.
Quest’opera intende la noia come disgusto, proponendo con una certa misantropia la
di coltà a trovare una buona compagnia negli uomini e nei loro comportamenti meschini;
queste sono accompagnate dalle Noie di Ugo di Perso, che suggerisce la presenza di
una scuola poetica in quel di Cremona.
N.B. Questo genere non è originale, ma si rifà alla poesia trobadorica nel suo
sottogenere dell’enueg, che ha questa stessa struttura: sono lamentazioni ad
elenco. Il genere nasce dal monaco di Mont-Audon sul nire del XII sec.
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Dalla lirica provenzale a quella in volgare
Vi è quindi una testimonianza della circolazione in Italia della poesia trobadorica, ma
soprattutto della presenza di imitatori della poesia stessa, ma in volgare locale.

In Italia vengono composte delle grammatiche provenzali, talvolta molto note come il
Donato provenzale, ad opera di Uc Faidit, identi cabile nella gura del trovatore Uc de
Saint-Circ, attivo fra la Provenza e l’Italia settentrionale nel XIII sec.
La grammatica è dedicata a Jacopo di Morra e Corraduccio di Sperletto, due baroni
del Meridione che furono impegnati come podestà nelle città dell’Italia centro-
settentrionale. Essi sono italiani ma praticano il provenzale con nalità letterarie.

Uno dei testi più antichi prodotti in provenzale in Italia risale alla ne del XII sec. ad
opera di Pietro della Ca’ Varana, collocabile in Lombardia, che scrive un sirventese per
esortare gli italiani alla resistenza contro l’esercito imperiale di Arrigo VI.

Nel XIII sec. vi sono moltissimi trovatori italiani, come Sordello da Goito, soprattutto nel
Settentrione: Bonifazi Calvo, trovatore genovese; Bertolomè Zorzi, patrizio veneziano;
sono rimasti poi alcuni compianti funebri anonimi per la morte di un feudatario friulano,
Giovanni di Cuccagna.
Questo componimento provenzale di compianto —assieme ad un altro relativo alla
morte del patriarca di Aquileia—ci mostra la colonizzazione trobadorica di una regione
come il Friuli, che nella prima metà del secolo aveva prodotto letteratura autoctona in
lingua tedesca.
Questo è ascrivibile al quadro storico: a metà del secolo la linea di patriarchi tedeschi si
interrompe, venendo continuata da patriarchi italiani legati più al Papato che alla
Chiesa di Bisanzio.
N.B. Il patriarca Wolfgero von Erla sollecita la trascrizione di manoscritti esistenti al
ne di costituire un corpus di testi poetici tedeschi che oggi è conosciuto come il
Canto dei Nibelunghi.
Tra gli autori friulani abbiamo Tommasino di Cerclaria, autore del poema didascalico
L’ospite italiano; inoltre nell’ambiente patriarcale circolavano i minnesanger, ossia la
controparte tedesca dei trovatori provenzali.

Le due opere —le Noie—sono quindi eccezionali nel panorama italiano, poiché un lirica di
quel tipo —ispirata a modelli trobadorici— si manifesta in un volgare italiano distinto dal
provenzale.
Vi è infatti una sorta di koinè poetica del Settentrione, la quale si dimostra impermeabile
rispetto alla lirica provenzale, rimasto poi circoscritto a quel secolo.

Questa eccezionalità si coglie bene negli sviluppi della poesia nell’Italia settentrionale a
cavallo tra Duecento e Trecento.
Ad esempio nell’operato di Bonvesin de la Riva, autore milanese vissuto tra il 1250 e il
1315, di cui si hanno notizie come insegnante di grammatica —ossia insegnante di latino
elementare.
La sua produzione consiste in una ventina di poemetti suddivisi tra l’impiego del latino
—in una versi cazione però ritmica— e l’impiego del volgare, con tratti marcatamente
lombardi.
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Questi poemetti hanno contenuti edi canti: sono ispirati a motivi religiosi oppure
riproducono tematiche già a rontate dalla tradizione versi catoria latina, nel caso di quelli
in volgare.
ES. Disputatio musce cum formica, in cui lo scontro tra formica e mosca viene
piegato per instaurare un confronto tra l’uomo retto e il peccatore, con una
metrica di quartine monorima in alessandrini —ossia settenari doppi, con questo
nome poichè impiegati per la prima volta nel Roman d’Alexandre.
Il carattere didascalico dei poemetti è evidente n dai primi versi, in cui viene dichiarata
la loro corretta interpretazione.

Ad esempio anche nell’operato di Giacomino da Verona, un frate che scrive due


poemetti in quartine monorima di alessandrini:
• De Ierusalem celesti, sulla Gerusalemme celeste, già decantata da Agostino come
città eterna e perfetta.
• De Babilonia civettate infernali, ossia una descrizione dell’Inferno, improbabilmente
sfruttata da Dante per la sua.

Riguardo alle Noie, la scelta del genere rispetto al contenuto —ossia l’enumerazione dei
fastidi quotidiani del corpo e dello spirito— non è casuale: la tematica realistica è
lontana dall’astrazione cortese e trobadorica, e proprio per questo è probabile che i
due autori si siano sentiti legittimati a praticare questo genere trobadorico in una lingua
diversa dal provenzale.
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La scuola siciliana e i trovatori
Tuttavia, la situazione sarebbe stata stabile se questo stadio poetico fosse perdurato, ma
a modi care le fondamenta di questo sistema subentra l’esperienza della Scuola
siciliana.
I poeti di questo gruppo sono legati indissolubilmente alla gura di Federico II, re di
Sicilia e dal 1220 imperatore del Sacro Romano Impero.
N.B. La sua gura replica all’interno della Penisola italica quell’ambiente cortese
dove la poesia trobadorica aveva avuto sviluppo, mentre nel resto d’Italia vi era
una situazione comunale del tutto diversa.
Nelle situazioni in cui invece si ricrea un ambiente cortese —come nel caso dei
signori di Ezzelino— si recupera integralmente anche la lingua provenzale.

Questo ambiente cortigiano era misto, poiché il potere imperiale e regale erano riuniti
sotto l’unica gura di Federico, nato e Jesi (Marche) dall’unione di Arrigo VI di Svevia e
Costanza d’Altavilla, erede normanna del regno di Sicilia.
Inoltre, appro ttando della sintonia sociale che si era già creata nel dominio normanno
siciliano, Federico si dota anche di truppe scelte di origine araba, rimanenze della
precedente dominazione dell’isola.

Egli quindi possiede una mescolanza etnica — sia individuale che all’interno della sua
corte— che si riverbera anche sul piano culturale e linguistico, poichè nella sua corte
si parlano svariate lingue come:
- Arabo, con una continuità poetica e letteraria
- Greco, per una precedente dominazione bizantina
- Latino, lingua dell’amministrazione e delle cancellerie

Inoltre, i rapporti tra Federico II e i trovatori provenzali non sono stati paci ci: fuoriusciti
dalla Provenza per motivazioni politico-storiche e sparpagliati in varie signorie alla
ricerca di accoglienza, i trovatori in Italia vengono accolti dagli Ezzelini —nella marca
veronese e trevigiana— e anche da Federico, che tuttavia non si dimostra così a abile
con questa categoria.
ES. Falquette de Romans si lamenta della tirchieria di Federico II in una sua
lirica
Le ragioni di questa avversità sono a noi sconosciute, sennonché Federico II aveva una
situazione politica e culturale di necessità: era divenuto infatti regnante in età minore ed
era quindi stato a ancato da un tutore d’eccezione, ossia papa Innocenzo III.
N.B. Il tutto ovviamente è da inquadrare all’interno di una volontà del Papato
stesso di uni care sotto il Triregno sia il potere spirituale che il potere temporale.
Federico II ha quindi una formazione culturale eccellente, ma una volta raggiunta la
maggiore età cerca di a rancarsi da questa tutela ecclesiastica attraverso diverse
modalità:
‣ Varo delle Constitutiones melphitanae, ossia un corpo di leggi che ra orzano il suo
potere soprattutto entro i con ni dell’isola di Sicilia.
‣ Acquisizione di mode letterarie prestigiose —come appunto quelle provenzali— al
ne di dare lustro alla propria sede.

La lirica trobadorica si sviluppa durante tutto il XII, conoscendo una battuta d’arresto
durante il XIV sec., dopo il quale si assiste piuttosto ad un fenomeno di di usione e
imitazione in altre lingue e in altri territori di questa esperienza.
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Questa lirica trobadorica viene fatta risalire al primo trovatore di cui si hanno notizie,
ossia Guglielmo IX d’Aquitania, di cui si possiede un corpus ristretto di “vers”, nei
quali si declina un amore ancora scarsamente idealizzato e anzi largamente carnale.
N.B. Tuttavia, le generazioni successive di trovatori sono composte da
vassalli, non da grandi signori come in questo caso, per poi addirittura assorbire
anche gure di giullari e uomini di bassa estrazione, che tentano con l’esercizio
poetico una propria promozione sociale.

Il termine “trovatore” probabilmente ha un etimo dal latino TROPARE, ossia TROPUM


INVENIRE, ossia inventare un testo.
N.B. Con “tropi” si indicano quei testi elaborati con funzione mnemonica sotto i
lunghi melismi del canto gregoriano.
Questa invenzione del testo viene trasferita al dominio provenzale col signi cato di
“scrivere, inventare dei testi”, unendo però anche il concetto di testo e di melodia: la
lirica provenzale nasce come poesia destinata ad una di usione performativa.

La condizione vassallatica che contraddistingue le generazioni di trovatori è


determinante per la de nizione stessa dei contenuti della lirica: il vassallo è normalmente
il giovane cavaliere, di provenienza nobiliare ma cadetto e quindi non avente diritto
all’eredità paterna; egli deve quindi trovare le sue fortune altrove, fornendo un servizio
militare presso altre corti.
Il rapporto di sudditanza del cadetto rispetto al signore feudale si ripropone rispetto
anche alla consorte del signore, che diventa oggetto di desiderio e del canto lirico del
vassallo.
N.B. Vi è quindi una conversione sul piano a ettivo del legame di sudditanza
sul piano giuridico; inoltre con cucurbitatio (“inzuccamento”) si identi ca il reato
di adulterio del vassallo con la moglie del signore, che comporta la cacciata o
peggio del vassallo stesso.

Nei Libri feudorum si esplica poi anche la reciprocità che intercorre tra signore e
vassallo: se il vassallo rende omaggio al signore prestandogli servizio totalmente, il
signore deve promettergli protezione, sussistenza e anche dei bene ci attivati a
determinate condizioni. La violazione di questa reciprocità comporta lo scadimento del
patto tra signore e vassallo.

Parallelamente, la reciprocità tra la consorte e il trovatore ha luogo nella corresponsione


dell’a etto da parte della donna, ossia accettando e ammettendo il sentimento del
trovatore.
Questo è idealmente il massimo bene cio di cui il trovatore può giovare, ma egli non
cela che è sua ambizione avere un rapporto pieno e carnale con la signora, da cui
ovviamente scaturisce una tensione emotiva insoddisfatta che provoca un
perfezionamento spirituale e morale del trovatore stesso.
Inoltre, la personi cazione dell’Amore diventa incarnazione del signore feudale
stesso, a cui il trovatore si sottomette.

Questo concetto di amore cortese viene de nito dai trovatori come namor, ossia un
amore puro e ne nell’accezione di disincarnato, totalmente spirituale, corredato
ovviamente da una sua loso a e da una trattatistica.
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ES. Andrea Cappellano, gura indistinta e forse riconoscibile in un ciambellano
della regina di Francia, scrive il trattato De amore, in cui raccoglie il diritto
consuetudinario intorno al rapporto fra trovatore, donna e Amore.
Per Cappellano, l’amore nobile e ne consiste in una passione connaturata
all’uomo nobile, che procede dalla visione della bellezza di un soggetto
femminile e dall’intensa ri essione e tensione riguardo a quell’aspetto.

L’amore carnale è invece plausibile solo se sfogato attraverso donne di rango


inferiore, come nel genere della “Pastorella”: il vassallo che gira a cavallo nei boschi si
imbatte in una pastorella, rozza ma avvenente, con cui intrattiene uno scambio di
battute per convincerla a giacere con lui, con gli esiti più disparati —vi è quindi un
tentativo di di erenziare il contenuto:
• La pastorella si concede, e il trovatore conclude la lirica con il ricordo gradito di
questo connubio e l’auspicio della sua ripetizione
• La pastorella reagisce, sicamente scappando o verbalmente distanziando il
trovatore
N.B. Il trovatore guascone Marcabru, di umile estrazione, appartiene alla seconda
generazione trobadorica e contesta dall’interno il concetto di namor,
ritenendolo ipocrita, scrivendo quindi una Pastorella polemica.
Inoltre, rispetto alle liriche di Guglielmo IX si ha con Marcabru una ricerca di
tensione formale, esplicata nella ridondanza di metafore, circonlocuzioni,
allegorie e allusioni alle Sacre Scritture, coniando quindi un modo di poetare più
ermetico, più chiuso, passato alla storia come trobar clus, contrapposto all’usuale
trobar leu (“lieve”), e che ha come massimo esponente Arnaut Daniel.
Arnaut Daniel è inoltre il creatore di una forma di canzone nuova, ossia la sestina,
ossia una canzone in stanze di 6 versi con parole-rima, ossia parole rimanti
che si ripetono —secondo la retrogradatio cruciata— al termine di ogni verso
di ogni stanza, e si ripetono anche nel congedo, al ne di indicare l’ossessività
del pensiero amoroso.

Fin da subito quindi i trovatori si accorgono della problematicità legata all’unicità


dell’argomentazione, cercando quindi un’articolazione sempre più minuta del discorso
amoroso, a partire da una ricerca della de nizione stessa di Amore che provoca spesso
dispute tra i trovatori stessi, generando un altro genere, ossia quello della tenzone.
La tenzone consiste in uno scontro, una discussione a colpi di componimenti poetici
avente un proprio tema e una struttura de nita da colui che inizia la tenzone.
N.B. Questo genere può complicarsi nel partiment, ossia una situazione in cui i
due trovatori disputanti chiamano in causa un terzo trovatore con funzione
arbitrale.
Oltre al contenuto amoroso, la tenzone può avere anche un tema politico —derivante
dalla frammentazione feudale delle corti provenzali.

Vi è poi il serventese, ossia un componimento di natura politica avente spesso stile


satirico, e l’alba, ossia un canto in cui si immagina che una sentinella sia posta a
vegliare sull’incontro di due amanti, per fare da sveglia ai due amanti stessi prima del
sorgere del sole.
N.B. Spesso l’alba si traduce in un travestimento spirituale del rapporto tra i
due amanti, dove quindi il sorgere del Sole corrisponde all’avvento del Cristo —
come nel famigerato caso dell’alba di Giraut de Bornhel.
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Tutti questi sottogeneri della canzone sono conclusi da un congedo, detto envoi, avente
una struttura metrica inferiore alle strofe e signi cativo nel segnalare la modalità di
trasmissione di queste liriche, ossia attraverso i giullari, citati esplicitamente e
incaricati di portare il componimento a un certo destinatario.

Per quanto riguarda invece la metrica, la forma prediletta della canzone è quella a rimas
unisonnans, dove quindi le rime incontrate nella prima stanza si replicano per le stanze
successive.

La ne dei trovatori
La lirica trobadorica decade per via di contingenze politiche: fra XII e XIII sec. la
Provenza diventa ricettacolo dell’eresia catara, suscitando quindi molti sospetti alla
Chiesa di Roma, che decide di bandire una Crociata contro i catari di Provenza,
coadiuvata dal re di Francia, il quale ovviamente partecipa con mire espansionistiche, che
avranno seguito: l’eresia catara viene esaurita e con essa anche l’indipendenza delle corti
provenzali.
Vi è quindi una diaspora trobadorica, poichè vi è l’esigenza di nuovi protettori, ricercati
nelle regioni limitrofe (Penisola iberica, Italia settentrionale,…).

Spesso le dinastie neonate —come quella degli Ezzelini— accoglievano i trovatori per
darsi lustro e legittimare la loro potenza.
In particolare, presso gli Ezzelini si accasa Uc de Saint Circ, importante poichè egli,
resosi pienamente conto della suggestione dell’ambiente italiano rispetto alla poesia
trobadorica, si preoccupa di riunire il corpus disperso delle liriche trobadoriche nei
Canzonieri provenzali, prime attestazioni di una tradizione poetica volgare in Europa.
Inoltre, Uc correda le liriche con commenti inerenti a informazioni sull’autore —le
cosiddette vidas— e sulla composizione e su altre vicende legate alla lirica stessa —
le cosiddette razos— in maniera più o meno romanzata, come avveniva nella letteratura
classica.

➡ Dalla canzone Madonna dir vo voglio di Giacomo da Lentini


Madonna dir vo voglio è una canzone attribuita a Giacomo da Lentini, poeta della
Scuola siciliana, e tramandata dai 3 maggiori Canzonieri delle liriche del Duecento,
ossia:
• Vaticano Latino 3793, nella Biblioteca Vaticana
• Laurenziano Redi 9, alla Biblioteca Laurenziana di Firenze
• Banco Rari 218, alla Biblioteca Nazionale di Firenze
Questi Canzonieri, confezionati alla ne del Duecento, sono fondamentali poichè
antologizzano la lirica italiana delle Origini.

La canzone è in apertura al Vaticano Latino 3793 e, a di erenza degli altri due,


questo Canzoniere è ordinato cronologicamente, segnalando quindi questa
come la prima lirica.
La canzone è rubricata sotto il nome di “Notaro Giacomo”, la cui provenienza
dalla città siciliana di Lentini era nota già al tempo, ma mancavano notizie
biogra che su questo personaggio.
L’amore del poeta è un amore negativo, poichè egli vive in una condizione di
pena che porta il suo cuore paradossalmente a morire spesso —metaforicamente;
inoltre, il poeta dice di sopportare le pene solo per la donna amata, che tuttavia lo
sdegna.
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Madonna, dir vo voglio
como l’amor m’à priso,
inver’ lo grande orgoglio com’on che pinge e sturba,
4 che voi, bella, mostrate, e no m’aita. e pure li dispiace
Oi lasso, lo meo core, 44 lo pingere che face, e sé riprende,
che ’n tante pene è miso che non fa per natura
che vive quando more la propïa pintura;
8 per bene amare, e teneselo a vita. e non è da blasmare
Dunque mor’e viv’eo? 48 omo che cade in mare a che s’aprende.
No, ma lo core meo
more più spesso e forte Lo vostr’amor che m’ave
12 che non faria di morte naturale, in mare tempestoso,
per voi, donna, cui ama, è sì como la nave
più che se stesso brama,
52 c’a la fortuna getta ogni pesanti,
e campan per lo getto
e voi pur lo sdegnate:
di loco periglioso;
16 Amor, vostra ’mistate vidi male.
similemente eo getto
56 a voi, bella, li mei sospiri e pianti.
Lo meo ’namoramento Che s’eo no li gittasse
non pò parire in detto, parria che soffondasse,
ma sì com’eo lo sento e bene soffondara,
20 cor no lo penseria né diria lingua; 60 lo cor tanto gravara in suo disio;
e zo ch’eo dico è nente che tanto frange a terra
inver’ ch’eo son distretto tempesta, che s’aterra,
tanto coralemente: ed eo così rinfrango,
24 foc’aio al cor non credo mai si stingua, 64 quando sospiro e piango posar crio.
anzi si pur alluma:
perché non mi consuma? Assai mi son mostrato
La salamandra audivi a voi, donna spietata,
28 che ’nfra lo foco vivi stando sana; com’eo so’ innamorato,
eo sì fo per long’uso, 68 ma crëio ch’e’ dispiaceria voi pinto.
vivo ’n foc’amoroso Poi c’a me solo, lasso,
e non saccio ch’eo dica: cotal ventura è data,
32 lo meo lavoro spica e non ingrana. perché no mi ’nde lasso?
72 Non posso, di tal guisa Amor m’à vinto.
Madonna, sì m’avene Vorria c’or avenisse
ch’eo non posso avenire che lo meo core ’scisse
com’eo dicesse bene come ’ncarnato tutto,
76 e non facesse motto a vo’, isdegnosa;
36 la propia cosa ch’eo sento d’amore;
c’amore a tal l’adusse
sì com’omo in prudito
ca, se vipera i fusse,
lo cor mi fa sentire, natura perderia:
che già mai no ’nd’è quito 80 a tal lo vederia, fora pietosa.
40 mentre non pò toccar lo suo sentore.
Lo non-poter mi turba,

Testo: Roberto Antonelli: Giacomo da Lentini, Poesie. Edizione critica a cura di R. A., Roma 1979 (Instrumenta
Philologiae, 1), p. 1. – Rialto 20.ii.2002.

La seconda strofa si so erma sull’ine abilità di questo stesso amore: non bastano
parole per descrivere quello che il poeta prova, e il poco che riesce a dire non è nulla
rispetto alla forza dell’amore stesso.
Vi sono poi alcuni tentativi di approssimare verbalmente questo Amore —il fuoco che
non si estingue e si ra orza, con un riferimento alla salamandra stessa, che vive intatta
nel fuoco; allo stesso modo il poeta vive nel fuoco d’Amore ma non sa parlarne, così
che il suo frumento cresce ma non matura.

La terza strofa insiste nel cercare di dire: il poeta esplicita l’ine abilità, per poi proporre
un ulteriore esempio naturalistico legato al prurito, che malgrado il grattarsi non si
estingue.
Questa non-potenza infastidisce il poeta, come un pittore che dipinge e disfa quando non
riesce a dipingere un soggetto.
Si paragona poi alla condizione del naufrago, che si a erra ad ogni relitto per
salvarsi; in questo caso i relitti sono i tentativi lirici del poeta per descrivere il suo amore.
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La quarta strofa riprende l’immaginario del naufragio, suggerendo però un’ulteriore
similitudine: l’amore che il poeta prova è una sensazione che ricorda la situazione di una
nave persa nei utti, in cui l’equipaggio si libera del proprio carico per alleggerirsi e
mettersi in salvo; allo stesso modo infatti il poeta cerca di alleggerire la propria pena
con le parole che riesce a usare —sospiri e pianti.
Inoltre, così come la tempesta marina smorza la sua violenza una volta giunta a terra, allo
stesso modo il poeta trova riposo proprio nel sospirare e nel pianto.

La quinta ed ultima strofa è conclusiva: il poeta dichiara di essersi mostrato alla donna,
mettendola al corrente del suo Amore e della qualità dello stesso, ma nota che la donna
continua a sdegnarlo, poichè sa di darle fastidio anche se fosse dipinto.
Vi è un’interrogativa: perché il poeta non abbandona questo Amore? Perché l’Amore
l’ha vinto e sopra atto totalmente.
N.B. Vinco riferibile anche a vincire, ossia avvincire, con riferimento al legame
feudale.
Il poeta auspica però una prospettiva: egli vorrebbe che il cuore gli uscisse dal petto e
solo così la donna, solamente guardandolo, potrebbe capire la condizione a cui l’ha
ridotto, a tal punto che anche una vipera diventerebbe pietosa.
N.B. La vipera nei bestiari medievali è l’animale più crudele: si riteneva che la
vipera femmina concepisse uccidendo la vipera maschio, ingoiandone la testa;
inoltre, i nuovi nati sarebbero fuoriusciti dal ventre della madre lacerandolo, e
uccidendo la stessa.

La canzone è composta da 5 strofe singulars in 16 versi, ossia con una sequenza di


rime stabile ma di erenti di stanza in stanza.
Tra le rime è bene segnalare la particolare rima siciliana —:tutto/ :motto—, tipica di
questa Scuola: con rima siciliana si intende una rima imperfetta ma ammessa e
praticabile nella tradizione lirica successiva, giusti cata infatti dalla fonetica del
dialetto siciliano.
N.B. La lingua con cui i testi della Scuola siciliana sono stati tramandati non
corrisponde —proprio per via dei copisti toscani dei Canzonieri— infatti con la
lingua con cui essi sono stati redatti.
Intervengono poi alcune rime interne —:forte/ :morte— e anche i condizionali sono di
tipo meridionale, formati con [in nito+HABEBUAM].

Attraverso un’accurata ricerca di Albino Zenatti nel repertorio di documenti prodotti dalla
cancelleria di Federico II, sono stati trovati alcuni documenti risalenti al 1233 rmati
appunto da un tale Notaro Giacomo, quindi egli era un pubblico u ciale legato
all’imperatore, che rmava quindi editti imperiali.
N.B. La sede entro cui sono rmati questi documenti cambia: la sede u ciale
della corte di Federico II era infatti a Palermo, ma la sua corte aveva la
peculiarità di essere itinerante entro i domini imperiali, tanto siciliani quanto
continentali.
Nel 1241 la corte stazionava nei territori limitro allo Stato ponti cio, a Tivoli, e vi è
prova per via di una tenzone di Giacomo da Lentini e un certo Abate di Tivoli, che
risponde al poeta siculo e dimostra quindi un precoce epigonismo rispetto a questa
corrente poetica in lingua di sì.
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Il sonetto come forma poetica è attribuito inoltre proprio a Giacomo da Lentini: esso
sarebbe un adattamento locale della cobla singular dei provenzali —ossia la singola
stanza di canzone—, a cui però questi poeti delegano una grande concentrazione
concettuale rispetto all’uso che se ne faceva in area provenzale.
I sonetti —e i sonetti tenzonanti— sono infatti spesso utilizzati per la trattazione di una
loso a amorosa, oppure anche per esaminare questioni relative alla sica naturale e
a fenomeni del reale.

Lirica siciliana e lirica provenzale: il legame


Folchetto di Marsiglia è un trovatore vissuto tra XII e XIII sec., diventato sul nire della
vita vescovo di Tolosa.
N.B. Egli inoltre partecipa in prima linea alla Crociata contro i catari
Di questo trovatore è pervenuto a noi un grande corpus di componimenti, e una
canzone di cui si conservano soltanto le prime due strofe, che permettono però di
a ermare che la canzone Madonna dir vo voglio di Giacomo da Lentini si con gura
come la traduzione di questa canzone di Folchetto, con alcune innovazioni:
• Nella metrica, vengono usati gli endecasillabi al posto dei decasillabi e vengono
inseriti anche versi brevi (settenari).
• Nella rimica, vengono inserite rime al mezzo
• Dal punto di vista contenutistico, vi sono alcuni riadattamenti lessicali: Folchetto
utilizza il termine cantare per parlare della donna, mentre Giacomo utilizza il termine
dire; questo suggerisce che la tradizione trobadorica sia arrivata ai poeti della
Scuola siciliana attraverso la scrittura, e non quindi secondo l’usuale
performatività trobadorica.
N.B. L’articolazione metrica più complessa è stata interpretata anch’essa come un
segno della disponibilità manoscritta di testi provenzali, su cui era possibile
quindi operare con maggior complessità che rispetto a testi ricordati a memoria.

È stata formulata un’ipotesi —sul lavoro di Aurelio Roncaglia— sulle circostanze che
avrebbero innescato la poesia della Scuola siciliana: nel 1232 Federico II avrebbe
infatti raggiunto il patriarcato di Aquileia per una dieta con i baroni d’Oltralpe; inoltre, nel
1232 gli Ezzelini decidono di schierarsi alleati perpetui dell’Imperatore, e
raggiungono Pordenone per prestargli omaggio.
Inoltre, il Canzoniere provenzale D —che tramanda le stanze di Folchetto— ha delle
somiglianze con un canzoniere andato perduto, ma che ha lasciato traccia indiretta di sè
poichè denominato Liber domini Alberici, ossia Alberico da Romano.
È stato quindi ipotizzato che il contatto tra gli Ezzelini —già a contatto con la lirica
provenzale— e Federico II possa aver innescato la nascita della lirica siciliana, forse
attraverso una donazione di un canzoniere in loro possesso.

Tra i personaggi della Scuola siciliana degni di nota gurano:


✤ Pier delle Vigne, nato nel 1190 e formato nell’arte notarile a Bologna, intraprendendo
una carriera di successo presso la corte siciliana no a raggiungere il rango di
logoteta, ossia di consigliere personale dell’Imperatore. Di lui ci rimangono le sue
Epistole latine; egli inventa infatti uno stile di scrittura epistolare latina molto
elaborato, rimanendo come modello no alla ne del Cinquecento. Muore nel 1249
suicida, poichè sospettato di tramare contro l’Imperatore.
✤ Stefano Protonotaro, di cui rimangono due liriche, una delle quali nella forma
originale e genuina.
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✤ Re Enzo, poeta e glio di Federico II, catturato dai bolognesi nel 1249 durante la
battaglia di Fossalta e morto lì nel 1272.
✤ Odo delle Colonne, menzionato nei canzonieri come “Odo giudice da Messina”.
N.B. Importante è notare come questa ricorrenza della formazione legale delle
gure della Scuola siciliana possa essere stata veicolo pressoché indispensabile
per la di usione delle liriche stesse: le conoscenze retoriche apprese nella
formazione giuridica infatti coadiuvano alla retorica delle liriche.
✤ Jacopo Mostacci, falconiere dell’Imperatore

Se la prima generazione inoltre vede gurare personalità vicine all’imperatore Federico


II, le generazioni di poeti successive si allontanano da questo centro originario,
segnalando l’autonomia ormai raggiunta da questa lirica, come avviene ad esempio
nel caso di Percevalle Doria, poeta genovese attivo verso la metà del Duecento, di cui
rimane un lascito poetico misto, diviso tra liriche trobadoriche e liriche siciliane.
N.B. Percevalle entra al servizio di Manfredi, glio bastardo di Federico II, e questo
servizio lo mette in contatto con una tradizione lirica che decide di sperimentare

Solitamente, la ne dell’esperienza lirica siciliana viene datata al 1250 —anno della


morte di Federico II—, anno dopo il quale il Regno di Sicilia viene annesso ai
possedimenti di Carlo d’Angiò.
Tuttavia, l’esperienza di questi rimatori rimane probabilmente in attività —se ne ha notizia
dai registri angioini—, sempre riguardo ad una tematica cortese.

Le tematiche
Le tematiche delle liriche della Scuola siciliana si attengono al canone amoroso creato
dai rimatori provenzali, da cui non si deroga in maniera signi cativa, tranne che per
alcune sporadiche tematiche sempre provenzali: temi politici —sempre in maniera
allusiva— o canzoni di crociata —declinate dal punto di vista della donna.
N.B. Le ragioni dell’abbandono delle tematiche politiche sono da ritrovare
probabilmente nello stretto legame che intercorre tra i poeti e il potere imperiale,
oltre che con le loro stesse occupazioni.
Tuttavia, alcuni poeti —Giovanni Grasso, Giorgio di Gallipoli, Nicola d’Otranto— si
dedicano alla poesia di tema politico, declinandola però in lingua greca; probabile che
quindi non vi sia una tradizione in volgare poichè il greco era percepito come idioma
esclusivo di questa trattazione.

Per Gianfranco Folena inoltre, studiando il rapporto di lessico e di argomenti della


cultura poetica siciliana rispetto a quella trobadorica, sarebbe di cile ritradurre in
provenzale le liriche siciliane, poichè si avverte una volontà di originalità nei siciliani.
ES. La descrizione dell’amore nei Siciliani presenta una maggiore
interiorizzazione, una maggior meditazione rispetto alla poesia trobadorica.
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Tenzone in sonett
Vi è una tenzone in sonetti tra Giacomo da Lentini, Pier delle Vigne e Jacopo
Mostacci, tramandata da un manoscritto trecentesco, di area settentrionale e fatto
allestire da Niccolò de Rossi, giurista e poeta trevigiano.
Questo tenzone si sviluppa su un concetto intellettuale e loso co: l’Amore ha una
natura di Dio —ossia esiste nella realtà— oppure no?

• Per Jacopo Mostacci, l’amore è una sensazione piacevole, quindi non una sostanza
ma una qualità dell’uomo, una sorta di “amorosità” che segue la loso a aristotelica.
• Per Pier delle Vigne, l’amore esiste come sostanza separata, ossia non ha una sua
sicità ma esiste di per sè ed ha una potenza, come un magnete che attira il ferro con
una forza invisibile.
• Per Giacomo da Lentini, in questo caso arbitro del partimento, l’amore si lega alla
siologia dell’innamoramento: esso è un desiderio che proviene dal cuore per una
sensazione scaturita dalla vista.
N.B. Al tempo, la patologia amorosa era considerata secondo la medicina come
segue: la vista incamera l’immagine dell’oggetto d’amore; l’immagine rimane
ancorata —e blocca— la vis imaginativa, ossia una parte del cervello legata a
funzioni di pensiero e siche.
Il corpo quindi si ammalava no ad una plausibile morte, se non si riusciva a
rimuovere l’immagine prima.

La canzone ravennate
Nei primi anni Duemila sono state fatte alcune scoperte:

✦ È stato recuperato un foglio di pergamena che contiene un atto di compravendita


datato al 1127. In questa stessa pergamena si trovano due testi poetici, che
consistono in una canzone cortese riconducibile all’area di Ravenna, tra la ne del
XII e l’inizio del XIII sec. Questa canzone è in volgare locale, ma soprattutto è
anteriore all’avvio della Scuola siciliana, presentando una notazione musicale
riferita a questo testo e al secondo testo più breve.

✦ Da un archivio di Piacenza è stata recuperata invece un’altra carta —da un codice


liturgico— contenente una ballata in volgare locale, databile ai primi del Duecento e
sempre a ancata da notazione musicale.
N.B. La presenza «Quando
della musica suggerisce
eu stava», v. 11 che il contatto tra imitatori e modelli è
avvenuto per di usione orale.
[Studi di filologia romanza offerti a Valeria Bertolucci Pizzorusso, 2 volumi, Lucca, Pacini 2006, I, pp. 653-56]
Tuttavia, siamo già ad un livello di elaborazione contenutistica e formale già
sviluppato: l’autore anonimo conosce molti modelli trobadorici e ha avuto 1modo di
Trascrivo dall’edizione Stussi i primi quattordici versiedella
svilupparli farli canzone
con uireQuando eu stava
nella veste :
volgare; questo
Quando eu stava in le tu’ cathene,
evidenzia il contatto ad esempio con il trovatore
oi Amorẹ, me fisti demandare Peirol, che utilizza lo stesso avverbio temporale.
s’eu volesse sufirir le pene
ou le tu’ rechiçe abandunare, ➡ La canzone ravennate rinvenuta nel 1999 da
5 k’ènno grand’e de sperança plene,
cun ver dire, sempre voln’andare.
Alfredo Stussi.
Non [r]espus’a vui di[ritamen]te Il trovatore Peirol comincia la sua analoga canzone di
k’eu fithança non avea niente crociate —una tenzone ttizia— con l’avverbio
de vinire ad unu cun la çente temporale quand.
10 cui far fistinança non plasea.
Null’om non cunsillo de penare
contra quel ke plas’al so signore,
ma sempre dire et atalentare,
como fece Tulio, cun colore.
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La metrica è in decasillabi, sempre avendo come modello di riferimento la metrica
provenzale.

Vi sono delle di erenze signi cative però rispetto ai luoghi comuni delle lirica
trobadorica:
- Evitata l’apertura primaverile
- Sviluppo cronologico: si parte da un nucleo temporale traumatico nel passato, per
poi passare ad un’illusione onirica nel presente e in ne sfociare in un’incerta
prospettiva futura, condita da una prudenza rispetto ai lauzengier.
- Richiami alla classicità : l’ultima stanza è corrotta, ma permette un paragone tra la
fedeltà dei due amanti e quella tra Paride ed Elena; tuttavia la cultura classica non era
spesso menzionata nei trovatori, mentre qui viene —nella seconda strofa—
menzionato anche Cicerone (Tulio) e i suoi colori retorici.

Il testo B è invece di una mano di erente e di poco successivo, ed è una professione di


fedeltà amorosa. Il testo è accompagnato da notazione musicale ed è stato interpretato
come un ritornello aggiuntivo, così da costituire una chanson a refrain, ossia non una
ballata vera e propria ma una canzone in cui è introdotta —in un secondo tempo— una
ripresa.
Possiamo quindi evincere che a Ravenna vi fosse un’apertura anche verso la Francia
settentrionale, dove appunto la forma della chanson a refrain era praticata tra i trovieri.

Riguardo alla preesistenza di una corrente poetica rispetto alla Scuola siciliana possiamo
quindi ipotizzare che vi siano stati dei tentativi letterari, ma soprattutto che queste liriche
sono state trasmesse in maniera frammentaria e a latere di testi di altra natura.
Sono quindi relitti di una pratica —più di usa di quello che noi possediamo— destinata
innanzitutto ad un’esecuzione, sopravvissuta solo in questi “vuoti” di altri testi.

Per quanto riguarda la musica, a lungo si è parlato del divorzio —nei Siciliani— tra i
testi e la loro esecuzione musicale, salvo qualche ritrattazione. Tuttavia, l’interesse
principale dei Siciliani nella di usione dei loro testi è quello relativo alla letterarietà, e non
della musicalità.
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La di usione in Toscan
Tra i Siciliani —data l’adesione al lone trobadorico a partire dalle loro attestazioni
letterarie— non è inoltre praticato il genere della ballata, tra l’altro poco frequentato
anche dai trovatori e solo nella fase più tarda.
N.B. La ballata è un genere di importazione dal settentrione francese.
Alla conclusione dell’esperienza siciliana, vi è però un ritorno di amma della ballata; non
è quindi casuale che Bonagiunta Orbicciani —poeta lucchese attivo fra la metà del
Duecento e gli anni ’80 dello stesso secolo— pratichi largamente la ballata.

Questo fenomeno è probabilmente dovuto alla di usione della poesia dei trovieri in
Toscana, così che la ballata —testo destinato all’esecuzione— sia probabilmente giunta
in Italia sull’onda dell’interesse degli usi e costumi cortesi.
N.B. Le ballate più antiche hanno un carattere
propagandistico nei contenuti.

➡ Da Molto si fa brasmare chi loda lo su’ a are… di


Bonagiunta Orbicciani
La ballata si innesta nel motivo cortese di mesura,
ossia di discrezione e comportamento equilibrato che
deve osservare il buon amante, salvo poi sfociare in
tematiche di politica contemporanea, in particolare
verso le magistrature comunali.
Vi è in ne il congedo.

Si evince quindi che in Toscana vi è un recupero sintonico dei modi siciliani, oltre che
n dagli inizi —per Contini Bonagiunta è l’ìipotetico traghettatore— vi è anche
un’immediata innovazione metrica —nella ballata— e contenutistica—con una
discreta polemica politica.
N.B. Firenze non subisce subito questa in uenza letteraria; è invece la Toscana
occidentale —Pisa e Lucca—, ghibellina e allineata alla politica di Federico II.

Bonagiunta arriva addirittura al moralismo politico,


servendosi di un sonetto epigrammatico e lapidario.

➡ Da Saver, che sente un piciolo fantino di


Bonagiunta Orbicciani
Vi è un invito verso i potenti alla prudenza e alla
modestia tipicamente infantile, che si chiude con
una sentenza proverbiale, ossia un motto (catel
battuto fa Leon temente).
Bonagiunta si riferisce alla credenza secondo la quale
bisognasse prendere di cagnolini e bastonarli davanti
ad un leone per farlo ammansire, ricavata dalla
letteratura enciclopedica.
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La letteratura enciclopedica era atta all’istruzione delle magistrature comunali,
composte da una borghesia cittadina che doveva colmare il divario culturale rispetto alla
classe politica precedente.

In Toscana quindi la lirica cortese inizia ad assumere dei tratti originali, come appunto la
presenza massiccia della tematica politica, sia di sponda guelfa che di sponda
ghibellina
➡ Da Sovrana ballata placente
Questa ballata è composta per la discesa di Corradino di Svevia, ultimo
rappresentante della casata sveva dopo la caduta della genealogia siciliana.
Corradino tuttavia non riesce a radicare il suo potere e viene scon tto ed
imprigionato da Carlo d’Angiò, per poi essere decapitato.
Un anonimo rimatore compone questa ballata per la sua campagna, innestando
quindi nuovamente un contenuto politico.

Guittone d’Arezz
Guittone nasce ad Arezzo attorno agli anni ’20/’30 del Duecento, morendo poi nel 1294.
Sotto il suo nome è conservato un folto corpus di componimenti, circa 296 fra canzoni,
sonetti, ballate e laude ballate, fra cui si annoverano anche delle innovazioni metriche.
N.B. Guittone è l’inventore del sonetto rinterzato, ossia con un innesto di
settenari.
Guittone intende prendere la tradizione lirica italiana a sua disposizione per trasformarla in
qualcosa di e ettivamente originale, soprattutto sul piano contenutistico: per Guittone
la tematica amorosa —già incrinata nei primi imitatori toscani— è abbandonata a
favore di una poesia didascalica più aulica.

➡ Da Amor tanto altamente lo meo entendimento di Guittone d’Arezzo


La canzone ha una tematica amorosa e ricalca metricamente il componimento di
Giacomo da Lentini, ma propone un messaggio contrario al siciliano: Guittone
sostiene che il sentimento amoroso non debba essere proposto alla donna, poichè
l’a nità spirituale —tematica poi centrale— tra uomo e donna non necessita di
espressione verbale.
La canzone cita in ne il poeta messinese Mazzeo di Ricco, segnale di una
sopravvivenza della linea poetica siciliana.

Guittone ha una complessità sintattica e un uso frequente del paradosso e della


reticenza, che rispecchia l’elevazione e l’intricatezza delle sue argomentazioni di tipo
morale.
N.B. Guittone propone una lirica ermetica, riferibile al trobar clus, che possa
sollecitare solo le menti più ra nate.
Dal corpus di componimenti di Guittone d’Arezzo, sempre nello spazio della cortesia si
trovano le corone di sonetti, ossia serie di sonetti inanellati tra loro per il contenuto; vi
sono circa 80 sonetti che sono narrazione dell’amore nelle sue forme cortesi, no ad un
esito negativo ed inaspettato che vede la consumazione sessuale dell’amore e il
distacco degli amanti.

Nel 1265 circa Guittone —di formazione retorica colta e universitaria— si converte ed
entra nell’ordine monastico-cavalleresco dei Cavalieri di Santa Maria, istituto da due
bolognesi —ricordati da Dante nell’Inferno tra gli ipocriti.
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Questo ordine si propone come garante della paci cazione tra i Comuni in lotta, ma
soprattutto di una paci cazione tra le fazioni cittadine e le lotte intestine a queste
annesse.
N.B. Guittone diventa un cosiddetto frate gaudente, ossia un membro del clero
minore che però non apparteneva a nessuna aggregazione, ma anzi risiedeva in
casa propria.
Da questo momento le composizioni di Guittone sono rubricate nella tradizione
manoscritta riferendosi a lui come Fra Guittone; inoltre, vi è da parte di Guittone una
drastica presa di posizione anti-erotica, in particolare contro l’ipocrisia cortese legata
al ne ultimo della carnalità.
➡ Dal trattatello Reprobatio amoris di Guittone d’Arezzo
Questa forma letteraria di usa riprende l’iconogra a di Amore del tempo —
bendato, alato e armato di frecce— e comprende una serie di testi guidoniani che
sviluppano allegorie negative dagli attributi di Amore, svalutando la lirica
stessa.

Si cimenta poi nel genere della lauda ballata, compone liriche a San Francesco e altre,
cercando nella sua estenuante composizione di saturare la lirica coi suoi componimenti,
proponendosi come caposcuola e creando un nuovo tipo di letteratura.
Inoltre Guittone si cimenta anche nella prosa letteraria —solitamente negletta al volgare
—, in particolare quella di tipo epistolare.
Guittone elabora una serie di lettere in volgare ma rispettando i canoni dello stile
epistolare latino —attenzione negli epiteti; struttura ben de nita; inserimento di cursus,
ossia clausole ritmiche; inserimento di interi versi.

Guittone punta a rivalutare la scrittura


prosastica, in cui trova il miglior mezzo
per la di usione delle sue tematiche
moralistiche, al centro della sua
ri essione.
N.B. La personalità di Guittone
diventa indispensabile da
comprendere poichè rimane un
modello con cui fare i conti per
tutti, persino per generazioni
successive come quelle di Dante,
per cui sarà una sorta di idolo
polemico.

➡ Da una lettera di Guittone a


Marzucco Scornigiani,
aristocratico pisano e gura di
rilievo nella Pisa del tempo, noto
soprattutto poichè è ricordato
nel Canto VI del Purgatorio da
Dante per la forza d’animo con
cui aveva a rontato la morte del
glio Gano, a seguito di una
delle tipiche faide comunali.
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Vi è una tipica salutatio che è
ampiamente rispettata da Guittone
secondi i precetti retorici che dimostra
conoscere.
Egli distingue tra il magno seculare e il
picciulo religioso, secondo la modestia
richiesta dalla retorica epistolare.
In d’amore e d’onore fabricatore vi è
un un omoteleuto, poichè spesso la
prosa di Guittone è rimata.

Guittone si lamenta di dover essere il solo a doversi lamentare del destinatario, che tutti
gli altri apprezzano. Questo poichè il padre di Guittone, Viva di Michele, attorno al 1249
aveva prestato (improntare, ossia prestare a usura) 100 lire a Marzucco, il quale non
aveva mai saldato il debito, né al padre ormai defunto, né a lui che ne è diventato ormai
l’erede.
N.B. Probabilmente segnato in uno dei tipici Libri delle ricordanze che ogni
famiglia di un certo rango soleva redarre per tenere nota di cronache e registri.
Guittone quindi sollecita il debitore rispettando la circostanza e il rango del
destinatario, ma soprattutto utilizzando tutto il garbo retorico e prosastico che può
esercitare nella stesura della lettera stessa.
N.B. Marzucco era stato assessore di Arezzo, ossia una carica di magistratura
che coadiuvava il podestà, e con lui aveva lavorato anche il padre di Guittone.

Guittone gli aveva già richiesto una volta il debito, per poi però non ricordarsene più;
infatti, attribuisce a se stesso la mancata retribuzione del debito e si accolla l’onere di
essere colui che, non avendo ricevuto il pegno, arreca un pregiudizio alla fama di
Marzucco stesso. Si reputa poi un indegno creditore, ma reputa Marzucco un degno
debitore e datore, muovendo però sempre dalla fama della gura di Marzucco a suo
favore.
N.B. Non obria mai bene cio, con un richiamo al De Bene ciis di Seneca,
sempre a segnalare la profonda cultura di Guittone, che a volte menziona anche
liriche d’amore italiane e provenzali nelle sue lettere.

Guittone trasla metaforicamente gli attori che solitamente intervengono nella


riscossione di un debito insoluto per richiamare Marzucco a pagare:
• Il contratto, ossia la memoria e il ricordo di Marzucco, di cui Guittone si da
• L’avvocato, ossia la coscienza di Marzucco
• Il giudice, ossia la discrezione e la lealtà di Marzucco
Guittone conclude dicendo che se non gli verrà restituito il denaro prestato, egli non solo
non lo chiederà più ma dispone il proprio al servizio di Marzucco, sempre per la fama e il
pregio dell’uomo politico aretino.

La lettera è interessante per la prosaicità dell’argomento, poichè Guitone produce un


esercizio retorico di grande sostenutezza formale.
In particolare possiamo notare dei versi dissimulati:
- d’amore e d’onore fabricatore
- mette se stesso, con cursus planus
- Sequenza nale al paragrafo 13
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Guido Guinizzelli
Guittone poteva suscitare l’impressione nei contemporanei di voler chiudere il capitolo
della versi cazione in volgare per poi seguire nuovi generi.
Tuttavia, abbastanza precocemente nell’ambiente bolognese si manifesta la poesia di
Guido Guinizzelli, il quale nella storiogra a letteraria occupa il ruolo del cosiddetto
iniziatore dello Stilnovo.
N.B. Premettendo che questa etichetta è elaborata a posteriori rispetto alla
stagione poetica in sè, e soprattutto si riferisce a Dante, con Guido Guinizzelli si
ha invece una generazione coeva a quella di Guittone.

Guinizzelli era nato probabilmente attorno al 1230-1240 e muore nel 1276 in esilio a
Monselice —poichè era giudice di fazione ghibellina—, e la sua nascita bolognese
dimostra la frequentazione delle aule universitarie bolognesi, quindi la sua formazione
e la sua conoscenza delle artes, compresa quella della loso a.

! L’ambiente culturale e universitario di Bologna nel Duecento


In questi anni arriva a Bologna la conoscenza di quei trattati aristotelici che erano
stati divulgati sia in arabo che in latino.
Nel Duecento le opere naturalistiche e siche di Aristotele si di ondono,
sconvolgendo il tranquillo assetto delle scienze e delle discipline dell’epoca,
ponendo imbarazzanti questioni relativamente all’e ettiva immortalità
dell’anima.

Il naturalismo aristotelico era arrivato nelle aule accompagnato da commenti, tra


cui quello di Averroè, secondo il quale l’anima razionale —ossia l’intelletto
possibile che porta in atto la conoscenza degli universali, la componente umana
immortale— non era individuale, ma condivisa da tutti gli uomini.
Le conseguenze della di usione di questo pensiero non si fanno attendere e ad
esempio alla Sorbona la sica aristotelica viene bandita, ma l’in uenza di
questa loso a causa una diaspora di studenti in altre università francesi e
anche italiane (Padova, Bologna)

A Bologna in particolare, oltre allo studio della sica aristotelica si studiava un’altra
corrente di pensiero legata al neoplatonismo e che si rifaceva all’insegnamento di
una scuola orita alla ne del XII secolo, ossia la Scuola di Chartres.
Questa scuola predicava il neoplatonismo e soprattutto reputava la natura non
solo come degna di studio ma anche come un qualcosa di estremamente
positivo, arrivando addirittura alla rivalutazione dell’amore carnale come
necessario alla riproduzione della specie umana.

L’ambiente bolognese è quindi predisposto a so ermarsi sul concetto di amore,


inserendo tuttavia questo concetto entro un’osservazione generale della
natura, e quindi interrogandosi non più su una sublimazione individualistica
dell’amore.
Guido Guinizzelli è il rappresentante maggiore di questa lirica amorosa piegata
ad una nuova concezione.
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Guinizzelli è glio di Guinizzello di Magnano, ma si emancipa economicamente dal
padre poichè in un documento il padre risulta mentecatto.
Questa gura paterna decaduta segna il rapporto che certe liriche di Guinizzelli
stabiliscono con Guittone, ormai riconosciuto come caposcuola della poesia in volgare
ben al di fuori dalla sua sede aretina. Guinizzelli si rivolge a lui infatti con il termine
“padre”.

La posizione di Guinizzelli è quella di un rivalutazione del ruolo dell’amore nel Creato e


di un rivalutatore della lirica amorosa.
N.B. Anche nella descrizione miniata dei manoscritti Guinizzelli non è
rappresentato in cattedra ma in un’ambientazione naturalistica.

➡ Da Donna,l’amor mi sforza di Guido Guinizzelli


La lirica si misura attorno a quella indicibilità rispetto
all’amore, proponendo invece una discussione aperta
in merito all’amore, quindi in polemica rispetto a
Guittone stesso.
Si pone però la questione della modalità dell’elogio
dell’amore, e Guinizzelli bada alla posizione dell’amore
nell’ordine naturale: l’adeguato parlare d’amore è quello
che intesse una tta trama di analogie tra le qualità
della donna e le cose più
nobili del Creato stesso, tra cui gli astri, come nel
sonetto Vedut’ò la lucente stella diana.

✤ La polemica tra Guittone e Guinizzelli


Guittone si rende conto della rivalità del Guinizzelli e della misura della componente
loso ca guinizzelliana, quindi si confronta a lui sullo stesso piano: per Guittone l’uomo
è superiore in grado al resto del Creato, quindi Guinizzelli sbaglia nel trovare analogie
tra la donna e la natura, poichè esse riducono la donna stessa ad un qualcosa di
inanimato.

➡ Dal sonetto S’eo tale fosse, ch’io potesse stare


di Guittone d’Arezzo
Guittone risponde al Guinizzelli in questi termini. La
chiusa del sonetto tiene presente una questione
delle Sacre Scritture, ripresa anche dalla loso a
scolastica in San Tommaso e nell’ambiente
dominicano: a proposito della creazione di Eva a
partire dalla costola di Adamo, la donna era ritenuta
superiore in quanto creata a partire da un essere
senziente, mentre Adamo era stato creato da Dio
a partire dall’argilla.
Tuttavia l’uomo si ritiene comunque maggiore rispetto
alla donna.
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➡ Dalla canzone Lo n pregi’ avanzato di Guido Guinizzelli
La canzone riprende il componimento di Guittone Tuttor, s’eo veglio o dormo.
Ad accompagnare l’invio della canzone sta il sonetto O caro padre meo, de
vostra laude, forse implicitamente provocatorio verso il frate-poeta aretino, a cui
Guittone replica in maniera altrettanto provocatoria con il sonetto Figlio meo
dilettoso, in faccia laude.
In questo sonetto Guittone riconosce in primis il suo ruolo di caposcuola, ma
ammonisce Guinizzelli per la ridondanza della lodi e per la destinazione delle
sue poesie, poichè Guittone è diventato frate ed ha abbandonato la poesia
amorosa.

Non si sa la cronologia precisa della tenzone tra Guinizzelli e Guittone, ma è certo che
si possa collocare all’inizio della carriera di Guinizzelli, poichè egli stesso abbandona poi
le posizioni guittoniane, manifestando il suo pensiero lirico amoroso in maniera
innovativa.

➡ Dalla canzone Al cor gentile rempaira sempre


amore di Guido Guinizzelli

In questo componimento emergono le in uenze aristoteliche:


‣ L’elemento della Natura personi cata
‣ Il gentil core, che risente delle dispute del tempo sul
concetto di nobiltà, in cui si proponeva come possibile
de nizione di nobiltà una disposizione innata
dell’animo, una gentilezza connaturata all’uomo, ma solo
a certi uomini. Amore e cuore gentile sono consustanziali.

Il procedimento argomentativo della canzone procede da una


de nizione di amore no ad alcuni corollari che indagano il
concetto della gentilezza dell’amore stesso.

Si propongono alcune similitudini —il calore e il chiarore che


esistono solo in virtù del fuoco— per de nire questa
consustanzialità; inoltre entra in gioco una credenza
medievale per cui le pietre preziose esercitassero una
funzione bene ca o male ca grazie all’in uenza di un
particolare astro; allo stesso modo la donna interviene sul
cuore gentile e sull’amore con la sua in uenza.

Vi è poi un paragone negativo: l’animo disposto al peccato


estingue l’amore come l’acqua estingue il fuoco; invece così come il magnete sta nel
cuore della miniera., così l’amore sta nel centro del cuore.

Si recupera poi il paragone con le pietre preziose per


introdurre il concetto di nobità: colui che si crede nobile
senza avere virtù è paragonabile al fango.
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Si riteneva che al movimento dei cieli concorressero
delle intelligenze celesti, emanate direttamente da Dio.
Allo stesso modo la donna irradia e rende l’animo nobile
—predisposto ad amarla— atto veramente all’amore.
N.B. Donna già paragonata alle intelligenze
angeliche.

Guinizzelli poi immagina un dialogo tra l’uomo e Dio, che


lo rimprovera per aver lodato la donna e non il
Creatore, travestendo questo vano amore per un amore
divino.
Lui però risponderà che la donna gli pareva un angelo
del suo regno, quindi andando a discolparsi per questa
totale attenzione verso la donna.

La donna quindi non è semplicemente paragonata ad un angelo, ma con lo Stilnovo —


per Roncaglia— la donna-angelo è trasferita al piano meta sico, ossia nella catene
dell’essere svolge un ruolo rivelatore, spingendo lo sguardo dell’amante verso un ordine
cosmico più ampio e che deve essere ricostruito.
La donna-angelo è quindi e ettivamente messaggera dell’armonia cosmica del
Creato, per cui ogni cosa è interconnessa secondo uno schema provvidenziale; l’amore
quindi —anche nella sua connotazione erotica— trova una piena legittimazione,
percepito come vincolo tra le creature e il Creatore.

Guinizzelli a ronta la tematica della liceità o meno della lirica amorosa, riuscendo a
tenere in piedi gli argomenti tradizionali —il cantare d’amore— e quegli argomenti
moralmente ineccepibili tanto cari a Guittone, non disdegnando anche però un amore
più erotico e carnale —già frequentato dal lone comico-realistico ad esempio.
➡ Dal sonetto Volvol te levi, vecchia rabbiosa di Guido Guinizzelli
Guinizzelli rivolge questo vituperio ad una donna anziana che aveva forse provato
a sedurlo, augurandole delle sventure e scendendo di registro.

Guinizzelli e i rimatori di questo Stilnovo quindi abbandonano il Guittone moralista sia


sul versante formale —il trobar clus di di cile interpretazione— che sul versante dei
registri —se Guittone propende per un monocromo espressivo, essi invece si a rancano
e dispongono di una tavolozza di stili e registri.
➡ Dal sonetto Chi vedesse a Lucia un var capuzzo di Guido Guinizzelli
Si manifesta il desiderio di un amore sico e forzato e anticipa di parecchio le Rime
petrose di Dante.

Per quanto riguarda la loso a amorosa di Guinizzelli, non mancano le prese di posizione
a lui contrarie. Guittone non reagisce, ma lo fa Bonagiunta Orbicciani, molto vicino al
frate-poeta aretino.
➡ Dal sonetto Voi, ch’avete mutata la mainera di Bonagiunta Orbicciani
Bonagiunta taccia Guinizzelli di aver mutata la mainera in cui concepisce l’amore
e in cui lo rappresenta versi cato, quindi mutando la sostanza d’amore per
dimostrarsi superiore ad ogni altro poeta.
Guinizzelli si so erma sull’ontologia dell’amore, discostandosi dall’usuale
rappresentazione sica che invece era mutuata sulle teorie di Andrea Cappellano.
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Bonagiunta loda la scuola toscana, dove vi è già un chiarore a far luce.
Egli forse si riferisce in maniera anagrammatica a Chiaro Davanzati, poeta della
scuola siculo-toscana; tuttavia è più probabile che Bonagiunta si riferisca proprio a
Guittone d’Arezzo.
Inoltre, Guinizzelli si sarebbe macchiato di argomentazioni troppo ni, non
conformi al parlar poetico —si parla di sottigliansa, più adatta alla prosa— e di
essersi allontanato dalle consuetudini —dissimigliansa— di scrivere canzoni
senza alludere alle Sacre Scritture e alla loso a.

La novità dello Stilnovo


In termini retorici, lo stile piano e comprensibile si dice dulcedo —contrapposta alla
asperitas dello stile ermetico. Nella de nizione dantesca di dolce Stilnovo, Dante
a erma che la novità di questo stile è insita nei contenuti, ossia nella piena
legittimazione dell’amore sul piano della Creazione.
Il parlare d’amore come di essenza voluta da Dio permette di continuare la pratica poetica
oltre dei limiti anagra ci, poiché il parlare d’amore era ritenuto consono entro certi
limiti di età. Tuttavia se l’amore entra nella sfera loso ca, si può sdoganare la rimeria
d’amore anche per chi è vecchio —e quindi saggio e adatto alla loso a.

➡ L’incontro con Bonagiunta Orbicciani (Purgatorio XXIV)


Nel XXIV canto del Purgatorio (composto tra 1314 e 1316 circa) Dante si trova nel
Girone dei golosi, imbattendosi in Forese Donati con il quale aveva tenzonato in
gioventù.
N.B. I golosi sono presentati come
anime smagrite dalla fame e
condannati a vedere alberi carichi
di frutta, senza potersene cibare.

Dante si imbatte poi in un’anima


mormorante, che nomina tale Gentucca, una
donna che a detta dell’anima farà apprezzare
la città dell’anima —Lucca— al sommo
poeta.

L’anima chiede a Dante se è lui l’innovatore della


poesia, riferendosi alla Canzona della loda, contenuta
nella Vita Nova dantesca (cap. 19 secondo Barbi).
Dante risponde a ermativamente ma in maniera
indiretta, dando una de nizione di se stesso in quanto
cantore ispirato direttamente dall’amore e dal
sentimento concreto.
L’anima allora si riferisce a se stesso come colui che sta
—assieme a Giacomo da Lentini e Guittone— al di qua
dal dolce stil novo.
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Questo stil novo è la novità dello stile inaugurato da Guinizzelli, che concepisce l’amore
come sentimento vero e soprattutto come intuizione della presenza di Dio nella
donna e sublimazione della stessa ad angelo, capace di ascendere ai ranghi divini
dell’essere.
N.B. nodo e penne hanno una voluta ambiguità riferibile
alla pratica della falconeria.
Bonagiunta riconosce che la poesia della sua linea è stata
probabilmente disimpegnata o comunque non strettamente
legata all’amore, quindi poi abbandonata dopo la gioventù.

➡ L’incontro con Guido Guinizzelli (Purgatorio XXVI)


Guinizzelli è collocato nel girone dei lussuriosi, e Dante
è emozionato per l’incontro con il suo padre poetico.

Le prime opere di Dante


Per Gianfranco Contini, vi sono alcune opere minori attribuibili a Dante Alighieri, in
particolare Il ore e Detto d’amore. Sono opere giovanili, probabilmente attestabili agli
anni ’80 del Duecento, che risentono fortemente dell’impianto guidoniano e
consistono in parafrasi del Roman de la rose.
N.B. Il Roman de la rose è un poema allegorico con due autori che narra la
conquista di una rosa —metafora del successo amoroso, anche carnale— posta al
centro di un giardino, sorvegliata da personi cazioni allegoriche con le quali il
protagonista si deve confrontare.
In questo poema la nobilitazione d’amore propria della Scuola di Chartres è un
sottofondo costante.
Esso arriva precocemente in Italia, già coevamente a Guinizzelli.
Questi poemetti sono conservati da un unico testimone databili ad inizio Trecento e
consistono in una corona di 232 sonetti di stampo guittoniano nella forma, ma di
contenuto innovato.
Il Detto d’amore è invece un poemetto in 480 settenari, guittoniano nel ricorso a rime
frante e oscure, ma innovato anch’esso nel contenuto.

Dante quindi nasce innestato nella forma guittoniana ma con contenuti guinizzelliani; nei
primi anni ’90 poi, dopo la dipartita di Beatrice, dimostra nella Vita Nova, di aver
assorbito ulteriori in uenze, prima fra tutte quella dell’amico e poeta Guido Cavalcanti.
! Guido Cavalcanti
Cavalcanti pratica una poesia guinizzelliana, a rontando l’amore e la sua natura da
posizioni loso che, ma tuttavia portatore di istanze negative riguardo all’amore,
derogabili probabilmente dalla sua posizione averroistica, quindi eretico.
Cavalcanti dà una descrizione siologica dell’amore, dandone un’immagine di
a ezione patologica dell’anima, ossia una malattia e modi cazione dell’anima
vegetativa e dell’anima sensitiva.
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➡ Dalla canzone Donna me prega di Guido Cavalcanti
Secondo Cavalcanti, da un’emanazione astrale e oscura di Marte si crea una
predisposizione all’amore. L’uomo interiorizza l’immagine della donna, la quale
immagine blocca le funzioni vitali, soprattutto interrompendo l’intervento degli
spiritus, che erano —secondo l’interpretazione siologica del tempo— vapori
prodotti dal corpo che mettevano in comunicazione gli organi fra loro.
L’amore è quindi concretizzato in un accidente materiale, spesso crudele e
pericoloso.

Per Cavalcanti, l’in uenza di Marte si esercita soprattutto nella cellula della
memoria, una delle due cellule cerebrali dopo la cellula immaginativa, dove il
pensiero ossessivo della donna blocca l’immaginazione e il resto delle facoltà
siologiche atte alla sopravvivenza dell’organismo.

Vita Nova
Nella Vita Nova (1292-1295) Dante descrive dapprima il suo incontro all’età di 9 anni con
Beatrice, descrivendo i sintomi sici dell’apparizione della donna, parlando degli spiriti
cavalcantiani, sconfessandone però gli elementi poetici: nel prosimetro dantesco
l’amore non è patologia, bensì viene attuata a pieno una spiritualizzazione dell’amore.
La novità introdotta in quest’opera è la prosa sciolta, solamente di accompagnamento e
spiegazione alle liriche.
N.B. Come modello vi sono altri prosimetri consolatorii, uno fra tutti la Consolatio
philosophiae di Boezio; tuttavia anche le vidas e le razos tipicamente trobaoriche
sono uno spunto funzionale simile.

Lo stile con cui Dante elabora questa prosa esegetica delle sue stesse liriche dipende
notevolmente dal commento ai Salmi di Tommaso d’Aquino; questo si evince
dall’abitudine dantesca di scansionare in parti le proprie liriche, operazione attuata
proprio dallo stesso Tommaso.
N.B. La ripresa di questo stile mutuato su un’opera spirituale sottintende le
intenzioni dantesche: nobilitare la propria esperienza amorosa al grado di
esperienza mistica.

! La spiritualizzazione e numerologia di Beatrice


Secondo Guglielmo Gorni, moderno editore della Vita Nova, il nome latino Beatrix
è signi cativo poichè “colei che beati ca” va a connaturare nella donna la sua
funzione salvi ca; inoltre nella desinenza vi è IX, ossia quel numero 9 che ricorre
suggestivamente nella poetica dantesca come simbolo della perfezione, in
quanto quadrato del 3, numero della Trinità.
Alla morte di Beatrice (8 giugno 1290), Dante si impegna a circoscrivere
l’avvenimento entro una logica del 9, servendosi di ulteriori calendari.

In tutta la Vita Nova, Dante ha una cura estrema nel mostrare la natura miracolosa
della donna-angelo, la cui matrice divina è potenziata: Beatrice è una sostanza
divina incarnata, no a trascendere nella gura redentrice del Cristo.
Questo però comporta che l’amore di Dante debba superare la mera
dimensione individuale, coinvolgendo l’intera umanità.
Per fare ciò Dante dissemina l’opera di indizi.
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➡ Dal cap. III, Vita Nova — Secondo incontro con Beatrice
Il secondo incontro tra Dante e Beatrice avviene a 18 anni e il poeta vive un
turbamento psicologico, legato ad un sogno.
Dante si ritira infatti a meditare in camera e si addormenta, sognando Amore che
—disceso dal cielo— tiene in braccio Beatrice, nuda e avvolta da un leggero
drappo rosso. Amore nutre Beatrice con il cuore stesso di Dante e in ne Amore
piange e ascende.
N.B. Pasto eucaristico che è rivisitazione della vidas di Guglielmo di
Cabestang, quindi topos trobadorico

Questo sogno è suscettibile di un’interpretazione che si


proietta come presagio: Dante sottopone questa visione
all’ermeneutica dei poeti attraverso un sonetto, ossia A
ciascun’alma presa e gentil core.
Questo sonetto è diviso da Dante in due parti: nella
prima parte saluta e interpella i poeti, mentre nella
seconda presenta la premonizione oggetto dell’analisi dei
poeti stessi.
Al sonetto rispondono molti e in maniera diversa; tra gli
altri gli risponde Cavalcanti, con cui stringe amicizia
poichè interpreta al meglio il sogno.

Cavalcanti interpreta il sogno secondo la sua personale


loso a, ma Dante —pur discostandosene— gli dà ragione per quanto accadrà in
seguito.
N.B. Il divorzio di pensiero tra i due è testimoniato da alcuni sonetti, in particolare
da uno di Cavalcanti che si dichiara deluso da Dante, non partecipe della sua
concezione elitaria attorno all’amore ma anzi partecipe di una concezione
dell’amore positiva e pienamente cristiana, con la pretesa di divulgarla e
proporla a tutti. Ecco che emerge quindi il progetto universale di Dante.

Dante riceve un saluto da Beatrice, che lo rallegra ma che sottintende ad una salvezza,
ad un saluto di redenzione. Dante è quindi ancora legato ad un amore cortese, intriso di
convenzioni e gestualità, tra cui l’occultamento della donna amata e quindi la
creazione di una donna schermo —come il senhal dei trovatori.

Questo apre a degli interessanti capitoli della Vita Nova: ad un certo punto la donna-
schermo si allontana infatti da Firenze e Dante ha una visione di Amore, che apre ad
uno snodo signi cativo.
➡ Dal cap. IX, Vita Nova —La visione d’Amore
Amore appare a Dante ricoperto di cenci e stracci, come un pellegrino, e a capo
chino. Amore chiama Dante per nome e si presenta imbarazzato per l’abbandono
della prima donna-schermo, proponendo a Dante una seconda donna-schermo.
La situazione in realtà prelude ad un evento drammatico.
Per tenere viva la nzione, Dante compone dei testi poetici per la seconda donna-
schermo, commettendo però una scortesia verbale verso questa donna. Beatrice, che
non tollera i vizi, punisce Dante togliendogli il saluto.
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Dante si sente smarrito poichè il saluto nella Vita Nova non verrà mai ripristinato, ma
sarà riproposto solo nella Comedia —alla conclusione dell’ascesa del Monte Purgatorio,
con il passaggio di guida da Virgilio a Beatrice.
N.B. Quando Beatrice compare nella Comedia, ella suscita un amore puro in tutti
gli animi presenti, proprio come il Cristo.

Dante è quindi evangelista di questa nuova apparizione del Cristo; inoltre la realtà
soprannaturale dell’aura di Beatrice comporta la di coltà nel resistere alla donna
stessa, tanto che Dante sviene se Beatrice è nei pressi.
➡ Dal cap. 14 , Vita Nova —L’episodio del gabbo
Durante uno sposalizio si erano radunate molte donne e uomini, ma succede che
Dante viene deriso poichè il suo amore viene riconosciuto. Le donne poi
chiedono al poeta come può amare se non riesce nemmeno a stare in presenza
della donna; Dante ri ette su questo interrogativo e, nei pressi di un corso d’acqua,
trova ispirazione.

A riguardo, Dante compone la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, in cui si


rivolge alle donne che sanno amare per parlare di Beatrice.
Questa canzone è condotta secondo le linee della canzone-manifesto di Guinizzelli,
instaurandosi come lirica centrale della cosiddetta poetica della loda.
Si presenta una gura angelica, che reclama la
presenza —dovuta— di Beatrice nel Paradiso.

La meraviglia ne l’atto indica un miracolo e ettivo,


ossia l’anima di Beatrice.

Tutto il pantheon cristiano reclama Beatrice, ma Dio


invita alla pazienza: Beatrice rimarrà sulla Terra dove vi
è chi potrà dire di averla conosciuta —pur nendo
all’Inferno.

Dante poi ne descrive le caratteristiche: Beatrice può


redimere i cuori peccaminosi, annullando i pensieri
cattivi; la sua visione provoca mancamenti e altre virtù
sgorgano dalla sua persona verso gli altri.

La canzone vuole rispondere alla domanda delle donne,


a ermando che la felicità è ottenuta dalla lode della
donna, quindi appunto come cantore —ed evangelista
— di Beatrice.
Si evince inoltre che la morte di Beatrice è inevitabile
per riportarla al suo luogo naturale.
N.B. Vi è un avvicinamento progressivo al lutto
della donna, segnato da presagi come la morte
di una sua amica e del padre di lei.
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Nella seconda parte della Vita Nova Dante è introverso e addolorato per la morte di
Beatrice, avvenuta prima del risarcimento del saluto.
Dopo aver nuovamente parlato di Beatrice con uno stuolo di pellegrini a Firenze, il
sommo poeta ricapitola le virtù terrene e ultraterrene della donna.

La tristezza di Dante trova un momentaneo sollievo in una donna che si dimostra pietosa
nei suoi confronti: avvilito dal lutto, la donna lo guarda con occhi di comprensione; ella è
la cosiddetta donna gentile.
È una fase di traviamento, risolta da una visione di Beatrice, che lo riporta sulla strada
dell’amore per lei —e quindi dell’amore divino.

Redento da questo momentaneo innamoramento, Dante si propone di cantare quando


avrà sviluppato uno stile pienamente degno di Beatrice
stessa.
➡ Dal cap. 41/42, Vita Nova — Oltre la spera che
più larga gira
Dante compone questo sonetto conclusivo in cui
comprende di aver elaborato uno stile paradisiaco,
incomprensibile ai terreni; questo è avvenuto perché
il suo pensiero ha incontrato Beatrice ed è poi
tornato, donandogli dolcezza e conforto.

Vi è un’anticipazione del viaggio della Comedia,


riscontrabile nello splendore che emana Beatrice,
insostenibile alla vista.
Si anticipano anche le rime più impegnative che
seguiranno nella Comedia.
N.B. Il sonetto è commentato polemicamente
da Cecco Angiolieri, che contesta la
contraddizione insita nell’incomprensibilità.

Dante conclude con una visione mirabile e si propone di non dire più altro su Beatrice
nché non avrà trovato parole adeguatamente sublimi alla descrizione di lei. Inoltre,
Amore si personi ca in Dio, attraverso una perifrasi formulare latina “che è benedetto
per tutti i secoli”.

La conclusione crea una serie di di coltà rispetto al prosieguo della carriera letteraria di
Dante, poichè:
‣ La Comedia ha una cronologia ben precisa, situata nella Settimana santa del 1300,
quindi di cilmente questa chiusa si riferisce a quella visione ultraterrena.
‣ Dante comincia la stesura di un altro prosimetro —incompiuto— nel 1304-1307, ossia
il Convivio, dove Dante abbandona temporaneamente la militanza amorosa; sono
inoltre presenti solo canzoni distese e l’Amore è tras gurato allegoricamente,
poichè si propone un amore per una donna simbolica, la Filoso a. Questa donna
emerge nei 4 trattati —dei 14 che si era proposto di stendere, con altrettante canzoni
di virtù materiali, come l’etica e altre virtù loso che.
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Il Convivi
➡ Dal Convivio:
‣ Voi che ‘stendendo il terzo ciel movete
La prima canzone del Convivio è una canzone d’amore, che si rivolge agli esseri
angelici del cielo di Venere—i cosiddetti troni.
‣ Amor che ne la mente mi ragiona
La seconda canzone è comunque a tema amoroso, ma si rivolge metaforicamente
alla Filoso a.
‣ Le dolce rime d’amor ch’i solia
La terza canzone vede invece il distacco dalla tematica amorosa, poichè ritiene
che la Filoso a sia troppo complessa per essere trattata sotto l’allegoria amorosa.

Con il Convivio Dante ha un’involuzione guittoniana, abbandonando le rime amorose per


dedicarsi a rime di carattere morale.
N.B. Le 14 canzoni che si era proposto di comporre e commentare sono rimaste a
noi ed e ettivamente sono pertinenti a tematiche profane —come la giustizia, la
leggiadria,…

Nel Convivio si parla della Vita Nova, dicendo che l’opera è fervida e passionata, quindi
adeguata all’età in cui era stata composta poichè dettata dagli impulsi, mentre il Convivio
si prospetta essere un’opera temperata e virile, quindi opera della maturità.
Dante a erma di essersi accostato alla Filoso a per elaborare il lutto di Beatrice: inizia a
frequentare il Convento di Santa Maria Novella —scuola di losofanti— e capisce il ruolo
della Filoso a nella società civile.

Dante aggiunge inoltre che la donna gentile della Vita Nova era già l’allegoria della
Filoso a; questo tuttavia complica la chiusa della Vita Nova stessa, poichè è
inconciliabile la compresenza dell’amore razionale per la Filoso a e il ritrovato
amore divino per Beatrice.
È stata quindi avanzata l’ipotesi che la Vita Nova abbia avuto due nali:
• Un nale originale che prevedeva la consolazione di Dante attraverso la donna
gentile, la Filoso a —e quindi tenuto buono no al Convivio.
• Un nale ulteriore, elaborato per far corrispondere la Vita Nova —abbandonato il
Convivio— con la nuova stesura della Comedia.
Tuttavia, è di cile pensare a questa ipotesi come plausibile, poichè non è rimasta
traccia del primo nale.

La complicazione si può spiegare quindi con l’intenzione di Dante nel Convivio di


diventare maestro loso co della nuova società cittadina: il IV trattato è probabilmente
intrapreso nel 1307 —dopo una sosta per la stesura del De Vulgari eloquentia—,
momento in cui Dante sente l’importanza sociale della loso a.

Nel proemio, Dante pensa al Convivio come un banchetto, un simposio di richiamo


platonico in cui proporre come vivande le sue canzoni, accompagnate
adeguatamente dal pane, ossia il commento prosasistico in volgare, per permettere
l’accesso alla loso a a coloro i quali sono stati impediti nell’acquisizione della loso a
stessa.
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Dante quindi si propone come maestro per coloro che sono stati distratti dallo studio
per vari motivi, uno fra tutti l’impegno politico.

! Dante politico
Dante viene esiliato nel 1302, ma prima vive una carriera politica ascendente,
culminata nell’estate del 1300 con l’elezione tra i Priori, massima magistratura
orentina —e sarà lui a bandire Guido Cavalcanti.
La città di Firenze era guelfa dal 1289, dopo la vittoria nella Battaglia di
Campaldino —a cui Dante partecipa—, ma all’interno di questa parte si erano
sviluppate due correnti, quella dei guel bianchi —a cui appartiene Dante— e
quella dei guel neri —legati alla gura di Corso Donati e sostenitori di una totale
passività verso il Papa.
All’elezione di Bonifacio VIII, il Ponte ce chiede un ausilio militare alla città di
Firenze per tutelarsi contro i conti Aldobrandeschi. Dante è priore ma vota contro
questa alleanza militare, così che nel 1301 —a seguito di contrasti cittadini— egli
viene relegato in un’ambasciata presso il Ponte ce mentre a Firenze prevalgono i
Guel neri, che bandiscono i Guel bianchi, tra cui Dante.

Dante si interroga sulle rivalità e i dissidi comunali che dilagano in Italia, trovando come
risposta la cupidigia e soprattutto l’assenza di morale presso i governanti, pregiudicata
dalla mancanza di conoscenza; ecco quindi che si giusti ca la volontà di istruire il ceto
politico, ignorante degli obiettivi tesi al bene comune.
Dante imbandisce questo Convivio, ponendosi tra gli e ettivi loso e coloro i quali non
sono istruiti a riguardo.

Nel trattato proemiale, Dante si trova quindi obbligato a giusti care la scelta del volgare
per stendere un’opera dotta di loso a.

! Dante e il volgare —
L’opinione di Dante sul volgare è interessante anche per i successivi sviluppi
relativi alla Comedia: inizialmente lo considera ancillare alla nobile lingua
arti ciale del latino, creata dai sapienti per comunicare in maniera agevole oltre i
limiti linguistici; successivamente nel De vulgari eloquentia, la gerarchia si
rovescia e tutti i volgari sono più nobili del latino in quanto lingue naturali,
largamente dipendenti dall’atto della Creazione divina.

Nel De vulgari eloquentia, Dante intende adoperare lo spazio della versi cazione
per ragionare di tematiche loso che e umane, ad esempio traendo spunto
dalla Genesi per ragionare riguardo all’evoluzione linguistica dell’intero
mondo.
Le Sacre Scritture giusti cano la variegata schiera linguistica con il peccato di
Nimrod, edi catore della Torre di Babele, dopo il cui crollo si muove la storia
linguistica dell’umanità attraverso un idioma tripharium —ossia una lingua
tripartita— che poi avrebbe raggiunto l’Europa, frazionandosi in più lingue:
‣ Il tedesco —a cui accomuna le lingue slave
‣ La lingua d’oc e la lingua d’oil
‣ L’italiano —nella sua multiforme realtà dialettale
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Proprio riguardo all’analisi dei dialetti italiani, Dante cerca di evidenziare un
volgare letterario di carattere universale, comprensibile da tutti i rimatori italiani.
Tuttavia, la conclusione di Dante è che questo volgare si sia andato concretizzando
attraverso la smunicipalizzaione dei volgari locali e la convergenza verso tratti
comuni. L’esperienza poetica duecentesca è tacciata da Dante come negativa in
quanto incapace di superare il localismo, quindi in un’ottica antimunicipalista.

Nel secondo trattato —interrotto e incompiuto— è dedicato all’identi cazione dei


temi adatti alle canzoni loso che, ossia i magnalia:
‣ Salus, ossia salvezza nel senso di sopravvivenza —postillato come
valore nelle armi, poichè spesso si identi ca nell’autodifesa
‣ Venus, ossia l’amore e la procreazione
‣ Virtus, ossia le qualità morali e l’etica
Dante ricerca eventuali precedenti poetici e letterari a riguardo, così che:
‣ Salus è postillato come valore nelle armi, poichè spesso si identi ca
nell’autodifesa, quindi trova riscontro nell’epica.
‣ Venus è postillato come procreazione, quindi pertinente alla letteratura
d’amor cortese.
‣ Virtus è relativo alla morale già praticata da Guittone e dallo stesso
Dante nel Convivio.

Riguardo al canone letterario del volgare relativo ai magnalia, Dante osserva


come al di fuori dell’Italia queste tre tematiche siano state già a rontate,
riconoscendo tre gure d’Oltralpe, una per ogni tematica:
‣ Bertran de Born per la salus, poeta di sirventesi e militare legato a
Riccardo Cuordileone
‣ Arnaut Daniel per la venus, poeta provenzale e cantore d’amore
‣ Giraut de Bornelh per la virtus, poeta moralistico

Dante suggerisce una prospettiva tematica ascendente, che culmina con la


virtus, riproponendo questa tripartizione nel panorama italiano:
‣ Per la salus, non identi ca nessuno
N.B. Dalla prospettiva della Comedia intesa come guerra interiore,
potrebbe essere lui ad essere identi cato come tale.
‣ Per la venus, indica Cino da Pistoia, poeta e amico di Dante
‣ Per la virtus, indica se stesso come esponente

Per convalidare la sua gura di nuovo cantore della


loso a, gli interventi di Dante sono ampiamente
distribuiti anche nelle sue liriche, come ad esempio
avviene nella tenzone con Cino da Pistoia, giurista e
poeta amico di Dante, anch’egli esiliato dalla natia
Pistoia. I due discutono della possibilità della
rigenerazione del sentimento amoroso, così che vi
sia un nuovo amore a sostituire un vecchio amore,
attraverso delle confutazioni loso che.
La risposta di Dante tramite sonetto è una
retrospezione rispetto a tutto il suo operato poetico
no ad allora, partendo dall’innamoramento per
Beatrice.
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Dante propone la forza dell’amore a cui è impossibile sottrarsi menzionando una
credenza superstiziosa dell’epoca, secondo la quale si riteneva possibile evitare una
grandinata suonando le campane, mentre il libero arbitrio non ha potere contro l’amore.
N.B. Proponendo questa strapotenza d’amore, Dante ritorna rispetto al Convivio
alla tematica amorosa ripudiata, mentre nel trattato era mosso da urgenze politiche
—legate alla sua natura di esule speranzoso di essere richiamato.

Sempre nel Convivio, Dante propone come obiettivi di una buona amministrazione
cittadina quelli di consentire all’uomo i conseguimento della felicità mentale,
concepita in relazione al pensiero aristotelico riguardo all’anima razionale.
N.B. Aristotele già insegnava come scopo il raggiungimento della perfezione
dell’essenza propria, così che nel caso dell’uomo lo scopo è lo sviluppo razionale
tramite speculazione loso ca.

La perfezione dell’animo è intaccata da


distrazioni e lusinghe che non
permettono anche la paci cazione
politica, presupposto necessario alla
speculazione loso ca.

Dante si pre gge di portare l’insegnamento


a coloro che sono impossibilitati per varie
ragioni, come la cura familiare e civile e
mancanze di ceto.

N.B. A Firenze era stato prescritto con norme anti-magnatizie di lasciare il potere
in mano alle arti, ma il potere era condiviso in maniera eterogenea

Parlando poi dei suoi testi poetici, Dante


trapianta per la prima volta un’allegoria dalle
Sacre Scritture, indicando come pane le sue
liriche, atte appunto al nutrimento loso co
degli ignoranti.

N.B. Nel Tesoretto di Brunetto Latini vi sono allegorie; egli è autore di trattati
allegorici come il Favolello; altro testo interessante a riguardo è il combattimento
allegorico tra vizi e virtù contenuto nel Libro de’ vizi e delle virtudi di Bono
Giamboni, ispirato alla Psichomachia di Prudenzio.

La novità di Dante è che i testi sono suscettibili di una lettura piana, così che è proprio
il commento a dare una rilettura allegorica delle stesse —ad esempio nella seconda
canzone abbiamo un tema amoroso che diventa allegoria della Filoso a, che apre poi ad
una digressione sulla descrizione del Cosmo, allegoricamente paragonato alla
suddivisione delle artes.
! Francesco da Barberino e i Documenti d’amore
Francesco da Barberino è un notaio che scrive questi Documenti d’amore, dove
propone un’interpretazione allegorica in latino ad una scelta di componimenti
d’amore.
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Dante giusti ca l’abbandono del Convivio poichè deve dedicarsi ad altra e ben più alta
scrittura, ossia la Comedia.
Nell’epistola a Cangrande —andata perduta— Dante a erma che la lettura della
Comedia deve passare attraverso 4 sensi:
‣ Senso letterale e storico
‣ Senso allegorico, ossia un signi cato sottinteso al viaggio
‣ Senso morale, ossia la salvezza dell’uomo e il rischio della perdizione
‣ Senso anagogico, ossia la rivelazione di ciò che accadrà oltre la morte

Nel IV trattato del Convivio vi è una ri essione sulla nobiltà ed è inaugurato da una
canzone con solo senso letterale.
Trattando del tema della nobiltà, Dante parla anche della poetica, introducendo il
concetto della necessità della monarchia universale, ossia dell’Impero, che
risolverebbe le controversie riguardo al potere, accentrato in un’unica persona.

Dante ritiene che Dio crei delle anime predisposte al seme della felicità mentale, che è
collegata alla nobiltà stessa. Vi sono però delle incongruenze e dei ripensamenti con
quanto detto prima:
• Parlando delle anime redente da Beatrice, Dante aveva escluso la necessità
di una predisposizione.
• Incongruenza con i propositi di partenza, in cui voleva insegnare a tutti senza
distinzione; qui invece si propone un’aristocrazia dell’anima.
Probabilmente Dante abbandona il Convivio anche in attesa di chiarire queste stesse
incongruenze di pensiero.

Per quanto riguarda le forme espressive del Convivio —e non solo—, Dante a erma che il
volgare non possiede un lessico codi cato e quindi inferiore al latino.
Vi è quindi un interrogativo profondo in Dante, che si chiede se scrivendo in volgare non
si mirasse a risultati e caci ma di breve durata, destinati a non avere una tradizione e
quindi una gloria postuma, oltre ad un’e cacia limitata.

La stesura quindi immediata della Comedia dà da pensare: l’universalità del messaggio


comporta ovviamente l’impiego del volgare, ma la struttura metrica della terzina
concatenata per un poema è stravagante, malgrado dimostri le mire di Dante ad
associarsi ai grandi poeti di poemi.
N.B. Dante assurge anche alla gura di profeta
In tutti questi poemi classici, Dante ritrova il carattere di universalità e ritrova anche una
consonanza con il pensiero dantesco.
N.B. Nella Tebaide di Stazio Dante vede il destino della città di Pisa, sperimentato
da lui stesso a Firenze.

Il poema della Comedia poteva quindi ambire a sopravvivere alla contingenza, ma


necessitava di un commento, tanto che si è ipotizzato che Dante volesse coadiuvarlo di
un’auto-esegesi, come era sua pratica abituale.
Tuttavia, vediamo come nel Trecento vi fosse già un commento alla Comedia,
signi cativo poichè lo promuove alla classicità e lo consegna ai posteri.
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La scelta del titolo richiama alla teoria degli stili della Rota Vergilii, riferibile alle 3 opere
di Virgilio e ad altrettanti stili ad esse associate:
- Eneide, poema epico con uno stile tragico
- Georgiche, manuale di agricoltura con uno stile mezzano
- Bucoliche, opera sui pastori in esametri con uno stile comico
Tuttavia, dietro alla semplicità stilistica delle Bucoliche in epoca medievale si tende a
scorgere un piano allegorico e profondo, pregno di insegnamenti sapienzali.
N.B. Qui si trova quella che si vuole vedere come predizione della nascita di Cristo

Dante quindi sceglie proprio Virgilio come accompagnatore in quanto rappresentante di


quell’estremo di perfezione razionale a cui era potuta arrivare l’umanità non ancora
redenta —così che infatti nel Paradiso è Beatrice la guida di Dante.
N.B. In Purgatorio XXI essi incontrano Stazio che sta per ascendere al Cielo; egli
può ascendere perché grazie a Virgilio ha intuito la rivelazione del Cristo —
convertendosi quindi al cristianesimo.

Particolare dello stile comico è l’incipit drammatico con un esito felice, utile al percorso
che Dante traccia nella Comedia; è inoltre utile anche all’eterogeneità di gure
incontrate e di temi trattati, che ripercorrono tutte le a nità letterarie già praticate da
Dante —ad esempio quella politica.
➡ Da Purgatorio XVI
Ci si trova nella balza degli iracondi, circondati da un fumo nero e spesso —
allegoria dell’ira che acceca; Dante si imbatte in Marco Lombardo,un uomo di
corte, a metà tra novellatore e uomo d’armi e quindi un diplomatico.
Marco Lombardo ha estrazione popolare ma ha un’indole nobile ed è chiamato a
risolvere un dubbio relativo alle in uenze celesti sulle sorti umane e sul libero
arbitrio.
Alla soluzione del dubbio, Dante sa che le sfere intervengono nell’anima al
momento della generazione, mentre l’anima progredisce inconsapevole del suo
libero arbitrio.
Per Dante manca un ordinamento politico corretto, ossia si pone il dilemma tra
potere temporale e potere spirituale, così che si propone ancora una esclusività
dell’Imperatore per il buon funzionamento dell’ordine e la felicità dell’anima.
Il canto si chiude ricordando 3 gure che sono proposti come modelli della
cortesia, della liberalità cavalleresca ormai perduta in favore del mercantilismo,
malattia di Firenze.

Rimane il fatto che nella Comedia il concetto di amore torna ad essere quello della Vita
Nova, ossia in caritas, amore gratuitamente speso per l’umanità.
➡ Da Purgatorio XXVI
Dante incontra il suo padre poetico e viene ride nita una certa gerarchia poetica
simile a quella del De vulgari eloquentia relativamente ad Arnaut Daniel, de nito
miglior fabbro del parlar materno.
Si cita poi quel del Limosin —ossia Giraut de Bornelh— ma viene tacciato come
gura secondaria, benché elevato da certi stolti; vi è una palinodia: il vero poeta è
il poeta d’amore, capace però di condensare lo scibile umano nel suo cantare
amoroso.
È quindi pienamente superata l’involuzione guittoniana maturata precedentemente.
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Il lascito della Comedia e il Canzonier
Nel tardo Ottocento il lologo romanzo ed esponente della scuola storica Pio Raina ha
intrapreso un commento della Comedia, chiedendosi le possibili conseguenze nello
studio letterario della eventuale mancanza dell’opera dantesca; sorgerebbero infatti
secondo Raina numerose di coltà nell’analizzare la svolta letteraria drastica in stile e
contenuti tra il Duecento e il Trecento.

La presenza della Comedia comporta infatti varie conseguenze:


✤ Apertura ed elevazione della letteratura volgare, emancipata rispetto alla
subordinazione a cui il latino la relegava
✤ Potenzialità del volgare, utilizzato per creare un’opera estesa e organica.
✤ Possibilità di trasporre lecitamente l’Io autoriale nell’opera
N.B. Nel Convivio Dante parla del parlare di sè come di una macchia —macula—
da levare, poichè secondo la retorica convenzionale l’immissione dell’Io autoriale
era sconveniente e possibile solo in un travestimento allegorico.

Lo stesso Canzoniere di Francesco Petrarca presenta infatti un’organicità strutturale,


poichè è un libro di rime che —a di erenza delle precedenti antologie— delinea una
narrazione interna ai componimenti, legata all’evoluzione dell’amore per Laura —dal
6 aprile 1327 no alla morte della donna, protagonista spettrale e fugace della
narrazione lirica attraverso cenni anatomici o nel ricordo del poeta.
N.B. L’amore prosegue nella memoria del poeta, no al tentativo ultimo e non
risolutore con la Preghiera alla vergine (canzone 366 del RVF) —sulla scorta del
canto 33 del Paradiso dantesco di Bernardo di Chiaravalle.

In Petrarca vi sono delle tendenze derivate sicuramente dalla Comedia, così che
Petrarca presenta se stesso in maniera generale nelle sue opere, con un protagonismo
autoriale marcato.
Tuttavia vi è una trasposizione problematica della persona in Petrarca, poichè la
responsabilità ricade sul lettore: si introduce il frammentismo.
N.B. Secondo l’autografo Vaticano Latino 3195, il titolo è Rerum Bulgaria
fragmenta, poichè sono componimenti frammentari e slegati rispetto ad una
scrittura volgare più larga, selezionata ed esclusa in parte.
Altre opere che si sviluppano secondo questa novità sono:
‣ Familiares, ossia 24 libri di epistole alla cerchia di conoscenti e amici
‣ Seniles, ossia 17 libri di epistole della vecchiaia, probabilmente incompiuti
nel 18esimo libro —con una sola epistola ai posteri.
‣ Variae, ossia 65 lettere di vario contenuto.
‣ Sine nomine, ossia epistole compromettenti in cui si tace il destinatario per il
carattere politico del testo —ad esempio uno degli interlocutori è Cola di
Rienzo, gura della Roma repubblicana.
Questo frammentismo deve essere inquadrato nel canone petrarchesco, poichè
coadiuva la ricostruzione di eventi e personalità utili alla fruizione del Canzoniere

Per quanto riguarda le dirette in uenze di Dante su Petrarca, troviamo quindi:


✦ Diretta in uenza della Vita Nova, dove però l’amore per Laura è limitato all’ambito
terrestre, privo quindi di spunti teologici e di una provvidenzialità.
✦ Questione linguistica, ossia la rappresentazione di se stesso tramite il volgare, con la
di erenza che Petrarca pratica uno stile esclusivamente sublime ed elevato.
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La lettera 15 del libro 21 delle Familiares è un’epistola a Giovanni Boccaccio —amico
e con dente di Petrarca dopo il 1351— in cui egli deve rispondere di alcune calunnie
riferitegli dall’amico e riguardanti la teorizzata invidia nei confronti di Dante.
Petrarca risponde di non poter provare invidia per Dante in quanto non ha mai letto la
Comedia, ma anzi lo stima in quanto compatriota —Dante è glio di fuoriusciti di Arezzo
— e dice di averlo conosciuto in gioventù.
Petrarca dice di essersi preoccupato di recuperare i classici dimenticati e non ha quindi
interesse nei testi coevi e quindi fruibilissimi al tempo; inoltre, aggiunge che se mai gli
fosse capitato di leggerla, inevitabilmente sarebbe stato in uenzato dallo stesso.
N.B. Così facendo Petrarca loda Dante e al contempo a erma con forza la propria
originalità letteraria.

Tuttavia è falso che Petrarca fosse ignorante della Comedia, poichè la sua lettura si
evince dalla scrittura dei Triumphi, poema allegorico in 6 fasi steso proprio in terzine
dantesche.
È signi cativo infatti che quest’opera è esclusivamente lavorata sul senso allegorico,
mentre il senso letterale è totalmente trascurato nella nzione poetica.
L’opera tuttavia presenta un discrimine tra una cultura dantesca e una cultura in
accezione petrarchesca: questi trion hanno come soggetto e ispirazione le vittorie dei
generali romani, così che le personi cazioni allegoriche —Amore, Pudicizia, Morte,
Fama, Tempo ed Eternità— sono rappresentate su carri trionfali avanzanti, contornati
dai prigionieri di guerra.
N.B. Tra i vinti di Amore vi è lo stesso Petrarca.

La negazione di Dante ha a che vedere sicuramente con la fondazione culturale


umanista del Petrarca —inauguratole consapevole dell’Umanesimo—, poichè
sicuramente prevale l’operato latino su quello volgare e poichè vi è un prevalere
dell’ambito terreno.
Negli ambiti loso ci si punta sull’etica, ma non una morale collettiva e rinnovativa
rispetto all’umanità, ma bensì un miglioramento interiore e personale, la ricerca dell’Io
nel frammentismo individuale.
N.B. Petrarca ha una buona competenza legale —studia a Montpellier e Bologna
—, ma dice che il formalismo lo disgusta: non ci si preoccupa della loso a legale,
ma della catalogazione e sfruttamento della legge per mera ambizione pecuniaria.
Le di coltà esistenziali di Petrarca lo portano alla mitizzazione dell’Età repubblicana
romana, così che si ha una preferenza dettata dall’individualità repubblicana volta al
bene comune.

La precedenza di Petrarca all’assetto umanista rispetto alla partecipazione discussa di


Dante è dovuta alla critica alla cultura universitaria che Petrarca muove, parlando di
uno svuotamento di auto-coscienza.
Questa proiezione nel passato proviene a Petrarca dalla sua formazione d’Oltralpe, tra
l’area campestre di Valchiusa e la città di Avignone, dove vive una temperie culturale
eterogenea, frutto delle corti dei cardinali lì presenti in virtù della sede papale.
Petrarca accede alle biblioteche cardinalizie e ai testi di vario genere, come anche ad
esempio a opere profane —una fra tutti l’Ab urbe condita di Tito Livio.
N.B. La storia di Livio parla della Roma pre-imperiale, permettendo al Petrarca di
costruire la sua personalità politica.
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Petrarca si apre poi a testi dimenticati dal Medioevo, portatori di un nuovo messaggio,
così che nel 1333 scopre alcune Orationes di Cicerone, fra cui trova la Pro Archia
poeta, a difesa di un poeta e ad elogio della gura del poeta nella struttura sociale e
civile, persuadendo l’uomo alle virtù civili.

Petrarca quindi decide di scrivere un’opera incentrata sulla vittoria repubblicana contro
Cartagine, nel poema in esametri latini Africa.
Petrarca vuole innanzitutto innalzare la grandezza di Roma e Scipione e contrastare un
poema scritto alla ne del XII sec. e avente come protagonista Alessandro Magno,
esaltato come miglior condottiero della storia umana, ossia l’Alexandreis di Gualtiero di
Chatillon, poeta francese.
Petrarca a anca l’opera con un commento in cui traccia dei ritratti di uomini virtuosi
della romanità, che con uiscono nel De viribus illustribus.

Alla ne degli anni ’30 del Trecento, la notorietà di Petrarca è tale da permettergli una
convocazione dalla Sorbona, che gli propone una laurea; tuttavia da Roma gli
propongono l’incoronazione a poeta laureato sul Campidoglio —rito estintosi con la
romanità stessa.
N.B. Petrarca decide di farsi esaminare da re Roberto d’Angiò a Napoli prima di
andare a Roma; il sovrano è cultore di loso a e scienze, possessore di una
vasta e fornita biblioteca.

Nel 1341 Petrarca viene incoronato —malgrado le opere rimarranno incomplete— poeta
et historicus, pronunciando un discorso ad elogio del ruolo del poeta, avanzando
richieste pratiche a riguardo: egli richiede le prebende ecclesiastiche, ossia dei sussidi
patrimoniali che la Curia concedeva ai raccomandati investiti di qualche titolo
ecclesiastico.
N.B. Petrarca aveva già preso gli ordini di chierico minore, mentre di Dante non
ne siamo sicuri; inoltre Petrarca ha sempre vissuto all’ombra di potenti che lo
foraggiavano —addirittura sotto Giovanni Visconti, ritenuto un tiranno, così come
faranno i futuri umanisti coi mecenati; in ne, Dante si sente cittadino di Firenze,
mentre Petrarca si ritiene pellegrino di ogni luogo, gura internazionale.

Petrarca attacca inoltre le istituzioni universitarie, colpevoli di so sticatezze della


logica aristotelica; attacca anche i medici, accusati di esagerare le potenzialità della
medicina; in ne, dopo essersi stabilito a Venezia, attacca i loso aristotelici che gli
impedivano il lascito librario alla città ritenendolo ignorante, per poi trasferirsi ad Arquà
sotto i conti Carraresi.
N.B. La scelta di abitare realtà campestri, solitarie e minori è signi cativamente
in contrasto con la cittadinanza di Dante, perdurata anche nell’esilio, dove cerca
comunque realtà cittadine o di caratura politica rilevante.
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Il Canzoniere
Il Canzoniere quindi rappresenta la parte più esigua dell’operato petrarchesco, tanto che
nei frontespizi degli incunaboli cinquecenteschi Petrarca è salutato come losofo
moralista.

La lettura del Canzoniere va analizzato sulla scorta dello sviluppo narrativo che si
delinea n dal proemio, dove Petrarca parla di un pentimento: esso è costruito
retrospettivamente sui frammenti esistenziali del poeta.
I componimenti 2 e 3 invece danno delle coordinate rispetto all’innamoramento: esso
coincide con un Venerdì santo —apice della meditazione sulla passione di Cristo.
Seguono poi componimenti in cui si evocano personaggi dell’esistenza di Petrarca,
come appunto i Colonna.
N.B. Il gruppo iniziale di componimenti non è ordinato a caso, bensì fornisce le
informazioni necessarie alla corretta lettura dell’opera.

La storia dell’amore per Laura, benché declinata in forme vicine allo Stilnovo, non è atta
alla positività dell’amore, bensì alla corruzione dell’animo di Petrarca.
N.B. Il suo messaggio viene frainteso peraltro dalla critica successiva, poichè ad
esempio nel componimento 366 Petrarca insiste sulla di coltà di un amore che
perdura innaturalmente oltre la morte, proprio per la volontà deleteria di
Petrarca, che trascura il fuoco della meditazione sulla morte e su Dio.
Se quindi vi è un percorso delle aspirazioni di Petrarca tra il sonetto 1 e la preghiera
alla Vergine, l’opera nel suo concludersi rimane inevitabilmente aperta, poichè Petrarca
non è ancora riscattato dal suo traviamento.

Dopo la morte nel 1384, i suoi scritti si disperdono e in particolare va persa un’opera
necessaria alla rilettura negativa del Canzoniere, ossia il Secretum, in cui Petrarca
intrattiene un dialogo ttizio ma spiritualmente sincero con S. Agostino, dove in 3
giornate emerge chiaramente il dissidio interiore di Petrarca.
N.B. S. Agostino è per Petrarca l’esempio da cui prendere coscienza per una
conversione dal peccato.
Dal Secretum emerge un Petrarca insoddisfatto e oppresso dal giogo di due catene di
diamante, ossia:
- L’amore per Laura, che lo allontana da Dio
- Il desiderio di Gloria letteraria, per le opere incompiute
S. Agostino dice che Petrarca ama Dio solo di ri esso tramite il sentimento per Laura.
Petrarca quindi riconosce la scissione del suo Io e successivamente la necessità di
una ricomposizione della sua coscienza; tuttavia la giornata conclusiva si chiude
realmente —e sinceramente—con la presa di coscienza della sua volontà negativa,
ostacolo ai suoi obiettivi virtuosi.
Si promette quindi di riunire gli sparsi frammenti della sua anima, frase che richiama
palesemente alla composizione del RVF.
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Boccaccio in latino e il debito con Petrarc
Tra Petrarca e Boccaccio si instaura dal 1351 una relazione amicale ed epistolare, con
anche frequentazioni di persona.
Se no a quel momento Boccaccio si era dedicato alla scrittura di opere in volgare,
pare essere proprio l’in uenza di Petrarca a spingerlo alla stesura di opere in latino, o
comunque Boccaccio risponde ad un’esigenza di classi cazione e divulgazione della
nuova cultura umanista proposta da Petrarca.

Boccaccio si cimenta nella prosopogra a, tracciando i ritratti di donne famose e


virtuose, con il De mulieribus claris, descrivendo gure femminili dell’antichità ma anche
della sua contemporaneità.
Egli inoltre scrive il De casibus virorum illustrium, analizzando i destini nefasti di alcuni
uomini illustri; sulla scorta poi delle scoperte a lui coeve circa la vita dei Romani,
Boccaccio scrive un trattatello di toponomastica, al ne di trovare corrispondenze tra
toponimi antichi e moderni, ossia il De montibus.
L’opera principale in questo ambito divulgativo sono le Genealogia deorum gentilium,
un’opera di mitogra a classica in 15 libri in cui Boccaccio —lavorando su vari materiali
— ricostruisce le genealogie dei miti classici per singoli personaggi.

All’interno di quest’opera Boccaccio dà anche una de nizione di poesia come


creazione letteraria, introducendo un principio basato sulla distinzione dell’allegoria.
Per Boccaccio ogni opera può avere una sua polisemia —come già detto da Dante—,
ma egli distingue inoltre tra due analogie di erenti:
‣ Allegoria dei teologi, basata sulle Sacre Scritture e in cui vi è un senso letterale
stringente.
‣ Allegoria dei poeti, dove il senso letterale è creazione autonoma del poeta
stesso.
Boccaccio ritiene che l’allegoria dei poeti, benché pervenga dalla nzione, si può caricare
di un valore sapienziale, cercando quindi un riscatto alla scrittura poetica in un momento
di crisi della stessa.

Boccaccio riallaccia un discorso con la sua esperienza letteraria del primo Trecento,
in cui aveva ampiamente scritto in volgare.
Tra le sue prime opere giovanili troviamo però già un poemetto allegorico di impronta
dantesca, ossia la Caccia di Diana, dove immagina alcune ninfe —travestimenti di
gentildonne napoletane e ettivamente esistite— accompagnano Diana in una battuta di
caccia, facendo varie bestie prigioniere, salvo poi però abbandonare la castità e
convertirsi a Venere. Ecco quindi che le prede si trasformano in giovani promessi sposi
di queste stesse donne.
N.B. Per Branca la stesura dell’opera corrisponde agli inizi degli anni ’30 del
Trecento.

Boccaccio è quindi già precocemente debitore a Dante, anche nel suo capolavoro
Decameron, in cui vi sono intenzioni riallacciatili all’impiego allegorico, rendendo
quindi l’opera non un semplice rispecchiamento della realtà, ma una tras gurazione
della contemporaneità di Boccaccio.
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Boccaccio in volgare
Il Decameron viene steso tra il 1348 e il 1351, prendendo avvio al momento della
pestilenza: è infatti una raccolta di novelle a cornice tenuta assieme da un racconto
generale, che spiega l’abbandono di Firenze da parte di un gruppo di giovani —
menzionati con pseudonimi per evitarne il riconoscimento— che decidono di tutelarsi
sicamente e moralmente andandosene dalla città colpita dalla disgrazia pestilenziale per
raggiungere dei possedimenti nel contado, dove trascorrono il tempo con attività
ricreative ed oneste, che rallegrino gli animi.

Il titolo è eloquente: Decameron da “dieci giornate”, ossia quelle trascorse a raccontare


—anche se il soggiorno dura 2 settimane—, indebitandosi inoltre con l’Hexameron di
Sant’Ambrogio, opera mistica in cui si descrivono i 6 giorni della creazione del mondo,
ri ettendo allegoricamente sulle giornate.
L’opera ha quindi degli obiettivi impegnativi e ambiziosi, essendo stesa anche in prosa
volgare; l’opera ha una connotazione quindi anche moralistica.

L’organizzazione del testo rimanda alla Commedia dantesca: ogni giorno ha un re o


regina di giornata, che indica il tema delle novelle che verranno raccontate —tranne
nella I e nella IX giornata.
Le prime 50 novelle sono dominate dalle categorie della fortuna e dell’amore, mentre le
ultime 50 novelle si ripiegano a vantaggio delle categorie dell’ingegno e dell’eloquenza.

Il meccanismo narrativo dell’opera si snoda in 3 livelli:


1. Rappresentato da Proemio, Introduzioni e Conclusione
È il livello dell’Autore, inteso non come Boccaccio in sè, ma come l’Autore che si
rivolge direttamente al suo pubblico di lettori, le donne.

2. Rappresentato dalla Storia portante


È il livello del Narratore, costituito dai momenti in cui Boccaccio interviene come
narratore nelle cornici

3. Rappresentato dalle singole Novelle


È il livello dei Novellatori, ossia narratori di secondo grado che vanno a raccontare
le 100 novelle dell’opera.

➡ da Novella I Giornata VI
Si incontrano le novelle di motto, ossia dove un’espressione ben pensata risolve una
situazione compromessa, dimostrando la facondia di chi ricorre a questi motti per
rovesciare la fortuna a suo favore.
L’inizio delle giornate è contrassegnato dall’intervento autoriale, che introduce la
novella con didascalie introduttive esplicative, e spiega cosa sta succedendo ai giovani.
N.B. Il manoscritto autografo Hamilton 90 è databile agli ultimi anni di vita di
Boccaccio, fatto interessante poichè negli ultimi anni egli si dedica ad una
produzione colta in latina e poichè dimostra la lunga limatura che Boccaccio
opera sulla sua raccolta.
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La VI giornata è sotto il reggimento di Elissa, nome che richiama l’Eneide virgiliana in


quanto è l’altro nome di Didone.
Nella stessa introduzione della giornata si vede che Boccaccio intende sottolineare il
rilievo che ha un uso discreto della parola, mettendo a confronto registri stilistici
di erenti: quello basso dei servitori della brigata e quello alto della regina di giornata,
cercando però di rivalutare la lingua bassa per la sua fantasiosa creatività di parole.
Il volgare prosastico viene nobilitato da Boccaccio, poichè solitamente questa prosa
aveva caratteristiche strumentali; vi è quindi ad esempio l’inserzione di un locus horridus.

Dalla cucina viene un gran frastuono, che obbliga la brigata a interrompere la narrazione:
la cucina non era mai stata evocata prima, se non attraverso metafora da Dante —ad
esempio nei canti di Malebolge, in cui si immagina che i peccatori immersi nella pece
bollente vengano a errati con uncini da dei diavoli se osano alzare la testa; li
descrive quindi come pezzi di carne nella caldaia, messi a bollire.
La cucina quindi emerge come contesto narrativo: viene chiamato il siniscalco per
capire la ragione del rumore, ed egli spiega che è in corso una contesa tra servi —
Licisca e Tindaro— di cui non sa le motivazioni.
I servi vengono chiamati a spiegare le loro ragioni, inserendo quindi una sorta di
narrazione nella narrazione stessa, per poi congedare la serva stessa dandole ragione.

La controversia riguarda una condizione di una loro conoscente reciproca, e riguarda


la verginità o meno della stessa prima delle sue nozze.
La serva descrive l’atto sessuale con circonlocuzioni comiche per la loro forzata
magniloquenza, oltre che per la metafora cavalleresca —l’irruzione di un cavaliere in un
castello— che nasconde allusioni al sesso maschile e femminile.
Licisca elabora quindi una costruzione a suo modo retorica, a ermando che la giovane
era già da tempo non più vergine; le donne apprezzano la discrezione edulcorata della
serva, quindi reagiscono ridendo.
La giusti cazione della precocità della donna di cui si tratta —la moglie di Sicofante— è
legata alla lunga durata dei tempi del maritamento.

La prima a narrare è Filomena. Filomena è la più anziana delle donne e, durante una
discussione con Pampinea riguardo al morbo che a igge Firenze e ad una possibile fuga
nel contado, interviene chiedendo di dotarsi di uomini, per evitare una mancanza di
giudizio nelle situazioni che potrebbero veri carsi.
Le altre approvano e i giovani maschi vengono chiamati tra parenti e conoscenti per
dare una garanzia formale al gruppo.

➡ La novella di Madonna Oretta


L’inaugurazione di questa sezione da parte di Filomena è signi cativo proprio per
questo, poichè la donna dimostra più assennatezza.
La donna racconta la novella di madonna Oretta, moglie di un nobile citato
precedentemente in un’altra novella, tale Geri Spina.

Per Filomena, le parole usate al momento giusto sono dimostrazione di una


capacità morale e di un’integrità spirituale; inoltre, aderendo allo stereotipo
medievale della donna muta, Filomena assegna questi brevi motti proprio all’abilità
delle donne.
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Vi è poi un topos della decadenza morale contemporanea —topos che in realtà
permea tutta l’opera, a partire proprio dalla decisione del viaggio nel contado.
La brigata ricostruisce a parole quella società che si era dissolta in città, andando
quindi a ricostituire una società in regressione —e recessione— per
mantenere acceso il fuoco della civiltà.
N.B. Nel ritorno in città, i giovani sono inghirlandati di quercia: questo
simbolicamente è una corona civilis, ossia quell’onori cenza data ai
soldati romani che avevano salvato da morte un cittadino.
I giovani novellatori hanno quindi simbolicamente salvato la civiltà attraverso
la loro discrezione, attraverso l’impiego ponderato delle loro parole.

La novella è inoltre una novella meta-narrativa, poichè spiega come è


opportuno raccontare novelle: madonna Oretta, trovandosi nel contado e
dovendo a rontare una passeggiata, viene a ancata da un cavaliere che le
propone di alleviare la fatica raccontandole una novella.
N.B. Motto latino: il compagno che sa raccontare, durante il cammino fa le
veci del mezzo di trasporto, poichè appunto distrae.
Il cavaliere è probabilmente scarsamente atto sia al combattimento che al
racconto, poichè all’interno della sua elocuzione incappa nel difetto della
ripetizione, nella discontinuità del racconto, e nella confusione dei nomi, oltre
che un difetto di prosopopea —fa parlare i personaggi come essi parlano.
N.B. Dalla prospettiva di Boccaccio, questo è inammissibile poichè egli è
abile —come dimostrato nell’introduzione— nell’adeguare il registro
alla persona, e anche adeguare la forma all’uditorio.

La donna è annoiata e stanca e deve trovare un modo per accomiatare il


cavaliere con una formula adeguata: ella decide di utilizzare la stesa metafora
della cavalcatura usata dal cavaliere, chiedendo di essere deposta e di poter
continuare a piedi.

L’importanza dell’uso della parola ha a che vedere con gli scopi complessivi della
raccolta di novelle.
Vi è infatti un incipit tragico —la grande pestilenza— nendo però con una prospettiva
positiva —il ritorno a Firenze.
L’opera contiene una dedica alle leggiadre donne: per Boccaccio infatti, così come la
pestilenza è un morbo che a igge il corpo, l’amore è una malattia che a igge l’animo;
potendo quindi trovare dei rimedi alla pestilenza, allo stesso modo vi sono rimedi anche
rispetto alla passione amorosa.
Boccaccio osserva però che se per gli uomini il distrarsi dall’amore è abbastanza
facile —poichè sono inda arati nei loro negozi e occupazioni—, per le donne —
disoccupate e spesso sole in casa—i rimedi sono molto più circoscritti.
Egli vuole quindi distrarre le donne so erenti d’amore con queste novelle, che
tutelano le donne anche dall’eventualità che l’insoddisfazione amorosa ricerchi delle
scappatoie lussuriose.
Il Decamerone quindi ambisce a distrarre e salvare l’anima dal peccato, ma per fare
ciò occorre un’accurata calibrazione dell’uso della parola.
N.B. Esso è il vertice dell’oratoria volgare, diventando modello di lingua poi nel
Cinquecento per la prosa.
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! La cornice
La cornice -o storia portante- è il livello della struttura narrativa dove si parla delle vi-
cende dei 10 giovani: è il 1348 ed essi sono fuggiti dalla realtà pestilenziale e pande-
mica di Firenze, rifugiandosi per due settimane nelle colline esolane, con la speranza
di scampare alla devastazione.

È inoltre un “racconto del racconto”, poichè scandisce la vita della narrazione, ossia i
ritmi e i modi con cui vengono narrate le storie: solitamente i giovani si riuniscono dopo
pranzo, nel giardino dai connotati paradisiaci, raccontandosi storie no ad ora di
cena; una volta calata la sera, gli uomini suonano strumenti mentre le donne cantano del-
le ballate, il tutto no al servizio della cena da parte dei servi.
Questo meccanismo narrativo serve anche a contestualizzare i racconti delle novelle in
un piano superiore alla loro semplice narrazione.

La funzione della cornice è quindi sfaccettata e plurima:


• Risponde ad un principio di ordine: le storie non sono coese e necessitano di un lo
che le leghi nelle tematiche, nei momenti.
• Separa e ltra le novelle l’una dall’altra, precedendole con un’introduzione del nar-
ratore e poi una conclusione.

! Tipi di cornice
Secondo Michelangelo Picone, 3 tipi di cornice:
• Costruita per ritardare il compimento di un’azione
ES. Mille e una notte, dove il racconto ritarda il giorno dell’esecuzione
Il Decameron non è del tutto diverso, perché la cornice e il racconto in sè è un
espediente che tiene i giovani lontano dalla peste
• Costruita per essere didascalica e di insegnamento
ES. Raccolta di Barlaam, racconti del giovane Buddha
• Costruita per superare la noia del viaggio, per intervallare le tappe di un
viaggio
ES. Racconti di Canterbury di Caucher

Il Decameron non rientra nella prima tipologia (i giovani sono allontanati dal destino
mortale ma non sono condannati), non rientra nella seconda tipologia (non vi è un
giudizio di valore o un insegnamento da recepire), bensì rientra nel terzo tipo,
poichè riempie lo spazio temporale della peste e possiede quindi una cornice
peragratoria, tipica sempre di novellistica orientale, che installa quindi
completamente la narrazione all’interno di un viaggio.

Nell’eleborare questa cornice, Boccaccio si ispira a una tradizione novellistica


precedente. Si è soliti riferirsi a Le mille e una notte, che però sono una raccolta risalente
al Settecento; tuttavia vi sono modelli orientali simili, dove le narrazioni sono
contenuti all’interno di un obiettivo di allontanare la morte, come ad esempio:
• Libro dei Sette Savi, ossia la storia di un principe a dato dal padre ai saggi,
che lo educano; uno dei Savi però ha visto nelle stelle che quando il fanciullo
verrà riconsegnato al padre, egli avrà delle stelle avverse: se parlasse,
nirebbe per morire. Il principe è concupito dalla matrigna del padre, ma egli è
renitente: la donna accusa quindi il principe di aver tentato di violentarla. Il
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padre le crede ma il principe non può parlare, quindi i Sette Savi cominciano a
raccontare delle novelle allusive alla situazione creatasi, dove descrivono la
crudeltà e la bassezza morale delle donne, inclini agli inganni. La matrigna
tuttavia replica con altre novelle, che quindi contrastano le convinzioni del
re e il contenuto delle novelle dei Savi. Si arriva poi al termine dell’e etto
della congiunzione astrale, quindi il principe prende parola e racconta
l’intera vicenda: la matrigna è condannata a morte e il principe è assolto,
dimostrando anche di aver raggiunto un certo grado intellettuale.

• Disciplina clericalis, scritta nel XII sec. da Pietro Alfonsi, in cui si immagina un
vegliardo che sul letto di morte istruisce il glio con novelle esemplari.

Anche nel Decameron vi è una disciplina impartita dall’autore, ravvisato proprio nel
gradiente degli argomenti attribuiti nelle varie giornate:
- Giornata I: tema libero, ma comunque moralistico e religioso, a dato a
Pampinea
- Giornata II: casi di fortuna sfavorevole, piegata poi ad una condizione di
vantaggio, a dato a Filomena.
- Giornata III: l’abilità e l’ingegno nel conquistare qualcosa che si vuole, a dato
a Nei le.
- Giornata IV: amore con epilogo negativo, ossia la morte degli amanti, a dato a
Filostrato.
- Giornata V: amore con lieto ne, a dato a Fiammetta
- Giornata VI: novelle di motto, a dato a Elissa
- Giornata VII: le be e delle donne agli uomini, a dato a Dioneo
- Giornata VIII: le be e in generale, a dato a Lauretta
- Giornata IX: tema libero, a data a Emilia.
- Giornata X: il tema della magnanimità, a dato a Pan lo
N.B. La Giornata X ha un’escursione cronologica molto ampia, dalla
classicità alla contemporaneità

Boccaccio ha cura di far corrispondere alle narrazioni stili e registri di erenti, creando
l’esempio di una prosa volgare impostata retoricamente.
Questo è volto a risolvere una situazione a lui precedente, poichè ad esempio nel
Novellino, libro a cavallo tra Duecento e Trecento scritto in volgare orentino —con stile
pedestre e sciatto— dove vi è infatti un’ordinazione disparata delle varie novelle,
poichè:
- Non vi è una cornice
- Vi è una volontà di ordinamento tra novelle contigue
ES. Novella di Messer Azolino da Romano (Ezzelino da Romano) e un suo
faulatore (favolatore)
Il favolatore racconta di un contadino che compra una gran quantità di pecore. Un
giorno deve guadare un ume e per risolvere l’impiccio chiede ad un pescatore di
passare una pecora per volta —sono 200.
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La narrazione si interrompe, e alle richieste di Ezzelino egli risponde di lasciar
passare le pecore, e poi racconterà. È quindi un espediente per giusti care la
mancanza di argomenti.
Inoltre:
- È brevissima
- Ricorre a personaggi storicamente esistiti ma senza descriverli a fondo
- La narrazione potrebbe elaborarsi ma rimane schematica, rimanendo anche
inconcludente

Queste novelle quindi sembra vogliano fornire temi da raccontare, ma senza


elaborarli, lasciando quindi quasi alla disponibilità del lettore l’eventualità di
raccontare nuovamente quanto appreso, in orando la narrazione a sua
descrizione.
È quindi un semplice repertorio tematico, volgarizzamento di Flores narrationum
dell’autore francese Vincenzo di Beauvais.

Boccaccio prende quindi le distanze dal genere novellistico precedente, che


consisteva soprattutto in volgarizzamenti di raccolte pre-esistenti, come anche i Conti
morali senesi, o i Conti di antichi cavalieri —con titolazione moderna.
Queste raccolte di novelle in realtà lasciano le novelle abbastanza slegate l’una dall’altra,
andando quindi infatti a riprendere da altri riferimenti: nel Medioevo infatti l’aneddotica
doveva rispondere ad alcuni requisiti:
- La brevità della narrazione
- La rispondenza a 3 speci che categorie di narrazione, quindi detta anche narratio
in negotiis, ossia racconti di garbuglio, distinti in:

‣ Historia, si fa riferimento al realismo della novella, ossia la nzione del reale, il


legame con una dimensione concreta e speci ca, seppur proposta in maniera
ttizia.
‣ Fabula, si fa riferimento alle novelle d’invenzione, ossia quelle a sfondo
fantastico- abesco
‣ Argumentum, si fa riferimento alle novelle didattiche, che ricalcate sulle
parabole evangeliche vogliono proporre non tanto una morale, quanto un
modello, uno stile del buon vivere.

L’applicazione concreta di queste categorie —poco la fabula— era stata praticata


presso l’omiletica religiosa, soprattutto a carico dell’ordine dominicano, ordine religioso
di predicatori che per tenere alta l’attenzione degli astanti aveva cura di introdurre
aneddoti pertinenti al tema del sermone, al ne di attenuare l’impegno pubblico.
Presso i predicatori si a erma quindi come genere letterario —in latino— quello delle
raccolta di argumenta, ordinati tematicamente e dette anche Alfabeta narrationum.

Nella creazione del genere novellistico come genere confacente all’arte retorica applicata
la volgare, Boccaccio dimostra un’attitudine già praticata in altri generi letterari, ossia
quella di nobilitare una tradizione pre-esistente.
Ad esempio, durante il suo soggiorno a Napoli al seguito del padre —dipendente del
banco orentino di prestito dei Bardi— Boccaccio ha modo di sfruttare la biblioteca
della corte angioina, presieduta da Paolo da Perugia e ricca anche di testi in volgare
francese.
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Boccaccio riesce quindi ad accedere ai romanz, narrazioni in versi o in prosa, come
ad esempio il Roman de Troie.
Quest’opera inserisce —secondo la prassi della letteratura francese del XII sec.— anche il
tema amoroso. Boccaccio la riscrive in volgare orentino e ne crea il Filostrato nei
primi anni ‘30: Troiolo è innamorato di Criseide RIVEDI.
Egli quindi non traduce fedelmente, ma anzi ampli ca la vicenda insistendo ancora di
più sull’argomento amoroso della vicenda stessa.

Per la stesura del Filostrato, egli inaugura l’ottava come forma metrica, ancora
dibattuta riguardo alla sua paternità.
Il titolo inoltre dimostra la contaminazione di ambiti culturali eterogenei all’interno di
quest’opera:
‣ Ispirazione da un poemetto in lingua d’oil del XII sec.
‣ Tematica della lirica cortese privilegiata, con una riscrittura di una canzone di Cino
da Pistoia
‣ In uenze classiche, poichè lostrato si costruisce su elementi greci e latini e
dovrebbe signi care “il vinto d’amore”
Questa strati cazione è riscontrabile anche dal ritrovamento di due Zibaldoni autogra
del Boccaccio, che corrispondo a questi anni di tirocinio napoletano: all’interno di questi
quaderni Boccaccio ricopia testi a cui vuole ispirarsi —come le Ecloghe dantesche—
e si allena riguardo alla prosa latina.

Nel 1339 quindi Boccaccio —prima di tornare in toscana— scrive un’epistola latina
indirizzata al Petrarca, ma mai spedita. Egli già quindi coltiva il mito del poeta, e gli si
rivolge attraverso un’epistola dantesca che ricombina altre opere all’interno.
Inoltre, appro ttando della larghezza culturale della biblioteca, Boccaccio dimostra una
preferenza per la prosa enfatica del latino argenteo —come Apuleio—, ricca di
preziosismi lessicali e quindi di erente dall’asciuttezza ciceroniana ad esempio.
Egli declina questa in uenza scrivendo il Filocolo, primo romanzo della letteratura
italiana scritto in 5 parti e caratterizzato da una prosa ridondante e contaminata da
fonti più disparate, dalla latinità alla letteratura volgare francese.
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In generale, tra le opere di Boccaccio in volgare ricordiamo, in ordine:
• Caccia di Diana (1334): poemetto allegorico in terzine dantesche in cui si celebra
Diana come regina dell’amore sublimato -dea vergine- e celebra la perfezione dell’a-
more.
• Filocolo: romanzo in prosa in 5 libri
N.B. è il primo romanzo della letteratura italiana
• Filostrato: poema in ottave sulla storia greca di Troilo e Criseide
N.B. è il primo poemetto epico in ottave
• Teseida: poema in ottave di 12 libri sulle imprese di Teseo e le Amazzoni
• Comedia delle ninfe orentine: prosimetro in terzine che parla del perfezionamento
spirituale del pastore Ameto.
• Amorosa visione: poema allegorico-trionfale di 50 canti in terzine, con delle visioni di
Boccaccio stesso
• Elegia di madonna Fiammetta: romanzo in prosa in cui si racconta dell’amore infeli-
ce della nobildonna napoletana Fiammetta per il giovane toscano Pan lo.
N.B. è la primissima opera della letteratura in cui l’io narrante è una donna ed
inaugura il genere elegiaco
• Ninfale esolano: poemetto eziologico che narra l’origine di Fiesole e parla dell’amo-
re tra un pastore e una ninfa.
N.B. Archetipo del genere bucolico

Interessante —vista anche la dedica alle donne del Decameron— è poi il caso del
Corbaccio, operetta allegorica narrata in prima persona e risalente al 1366.
In quest’opera Boccaccio descrive il sogno di un uomo che, disperato per l’amore non
corrisposto di una vedova, invoca la morte; addormentatosi, riceve in sogno il marito
defunto della donna, che lo ammonisce riguardo ai mali causati dalle donne.

Vi è quindi una profonda misoginia che permea l’idea dell’opera e risente di una
concezione medievale del losofo, di separatezza dell’intellettuale dagli impegni
sociali: si propone un’invettiva contro Amore al ne di dissuadere l’uomo al prendere
parte a questo gioco labirintico e dannoso.
N.B. Si scaglia palesemente anche contro gli esempi di amor cortese della
letteratura romanza.

Per Francesco Bruni, l’opera non è tuttavia in contraddizione con la poetica del
Boccaccio e anzi ne rappresenta quella tendenza alla letteratura mezzana.
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L’imitazione delle 3 Corone nel Quattrocento
Il Quattrocento è stato bollato da Benedetto Croce come un “secolo senza poesia”,
ossia un secolo privo di quella originalità e innovazione letteraria che invece era legata
proprio alle gure delle Tre Corone.
N.B. Non manca una letteratura in volgare, ma tuttavia questa letteratura si trova
a fare i conti con l’insorgenza di quella cultura umanistica che si trova a doversi
occupare della riscoperta dei testi classici. I due ambiti però saranno poi
coniugabili.

L’epigonismo relativo alle Tre Corone in realtà non colpisce in maniera diretta Dante,
che mantiene una certa fama ma viene percepito come inarrivabile e quindi impossibile
da imitare.
N.B. Qualche tentativo con Petrarca (Trion ) e Fazio degli Uberti (Dittamondo,
poema geogra co-allegorico in terzine) o ancora con Federico Frezi (Quadriregio,
poema didascalico)
Viene recuperata però la terzina dantesca: alcuni canti della Comedia di Dante
diventano modello metrico per quelli che vengono denominati capitoli in terza rima —di
carattere moralistico, satirico, narrativo—, che nel Quattrocento vengono prediletti in
quanto paragonabili agli esametri di Orazio.
N.B. Anche lo stesso Machiavelli utilizza la terzina in materiale narrativo
(Decennale)

Per quanto riguarda invece le altre due Corone:


✦ Il Canzoniere di Petrarca viene preso a modello per elaborare libri di rime a tendenza
narrativa, ossia libri che contengono lo sviluppo di una vicenda amorosa.
N.B. Nel Quattrocento vengono scritti diversissimi canzonieri, che saranno poi a
loro volta modello di imitazioni successive —come ad esempio nel caso di
Giusto de Conti, nobile laziale che elabora La bella mano, canzoniere che sfrutta
l’attenzione per il dettaglio; oppure gli Amorum libri tres di Boiardo, di ispirazione
elegiaca latina e anche ispirato al de Conti.
! Nel Quattrocento vi è inoltre una lingua letteraria che risente già fortemente dei
modelli toscani a cui si ispira attraverso la fruizione letteraria.
Sul principio del Cinquecento poi la questione della lingua riemergerà come argomento
centrale nella ri essione culturale, imponendo proprio la lingua delle Tre Corone come
lingua letteraria peninsulare.

✦ Boccaccio viene innalzato con il suo Decameron, nel quale si scorgono numerose
innovazioni.
N.B. Ad esempio la metatestualità, presente nella novella di Bergamino che si
ritrova a raccontare un’altra novella per descrivere la sua condizione.

Tuttavia, nel Quattrocento vi è un abbandono della struttura narrativa a cornice, così


che si vengono a creare dei semplici serbatoi di narrazioni brevi slegate.
ES. Trecento novelle del poeta orentino Franco Sacchetti, autore anche di un
libro di Rime; l’autore si dichiara nel proemio come incolto rispetto al modello
boccacciano, che scrive recuperando anche materiale autobiogra co e aneddoti
della Firenze del tempo.
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La novellistica dopo Boccaccio
Nel corso del Quattrocento si assiste al proliferare di novelle spicciolate, ossia di novelle
isolate di provenienza toscana, mentre nel resto d’Italia vi è una rinuncia alla scrittura in
prosa e al confronto col modello decameroniano. La scrittura prosastica non appare
impegnativa, poichè viene intesa come un genere poco letterario, di facile esercizio.
ES. Malizia Barattone è autore di uno dei rari libri di novelle —50— a cornice, il
Pecorone, il quale era probabilmente un giullare orentino che scrive questa storia
d’amore non esaurita tra una monaca di Forlì e un uomo di nome Auretto.

I casi di imitazione di Boccaccio sono quindi estremamente rari e corrispondono alla


metà del secolo: nel regno aragonese di Napoli troviamo Masuccio Salernitano, la cui
opera il Novellino viene stampata nel 1476 a Napoli; esso è un libro di novelle ma anche
uno spaccato della corte aragonese del tempo, poichè ogni novella è dedicata ad un
membro.
La corte di Aragona è quindi la cornice ideale alla narrazione, così che la raccolta si
propone come tributo e viene dedicata ad Ippolita d’Aragona, moglie del principe
designato alla successione.

Le decadi delle 50 novelle della raccolta sono organizzate tematicamente, così che
troviamo:
- 10 novelle pertinenti ai vizi dei religiosi
- 10 novelle relative alle be e
- 10 novelle di soggetto misogino
- 10 novelle relative ad amori tragici
- 10 novelle relative ad esempi di magnanimità
ES. Queste ultime 20 novelle sono strettamente ispirate alle tematiche del
Decameron, ma anche le tematiche più generali ricalcano l’immaginario della
novellistica boccaciana, ad eccezione della misoginia.

Per quanto concerne lo stile, Masuccio si attiene al modello boccacciano ma si apre ad


alcuni manierismi della predicazione volgare, molto in voga nel Quattrocento. È stato
quindi evidenziata una correlazione con i sermoni di Bernardino da Siena, riformatore e
autore.
Altre raccolte —prive di cornice ma tematicamente ben individuate— tendono a
privilegiare le novelle di motto di Boccaccio, come ad esempio la raccolta di Angelo
Poliziano con i Detti piacevoli —recuperata solo nel 1929—, ossia narrazioni brevi e
scabrose, chiuse da un motto sentenzioso.
Vi sono poi i Motti e facezie di Piovano Arlotto, ossia il religioso Arlotto Mainardi, e le
Facezie dell’umanista Poggio Bracciolini.
N.B. In questa forma vi è un’in uenza anche derivante dal genere classico dei
motti di spirito —recuperato dagli umanisti.

Altri esempi posteriori di recupero decameroniano sono le Novelle porretane di


Sabadino degli Arrienti, segretario della famiglia Bentivoglio, i signori di Bologna.
La raccolta ha come cornice una riunione di personaggi presso i Bagni della Porretta,
sull’Appennino emiliano, ed è notevole per la sua referenza rispetto alla cronaca
contemporanea e la citazione di molti umanisti.
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Tra gli altri esempi di novellistica troviamo inoltre:

✤ Il Novelliere di Giovanni Sercambi, opera in 150 novelle in cui si racconta il viaggio


in Italia di una comunità in fuga dalla peste. L’opera tuttavia ha due notevoli di erenze
rispetto a Boccaccio in quanto presenta un unico narratore, che traveste la corte
lucchese —provenienza dell’autore— con i membri della comunità in fuga.

✤ Le Trecento novelle di Franco Sacchetti, opera priva di cornice e a narratore


unico che però ha una motivazione simile al Boccaccio —ossia alleviare le pene
umane che si sono aggravate nei tempi correnti; tuttavia l’autore si discosta dalla
cultura boccacciana, rivendicando la sua estrazione discola e grossa.

Nella novella di Frate Taddeo ad esempio assistiamo ad una parodia relativa al


commercio di reliquie: dei predoni portano un braccio a Frate Taddeo, dicendogli di
mostrarlo e assicurando che è di Santa Caterina; il frate è restio poichè è stato in visita al
reliquiario di S. Caterina e l’ha vista intera, ma alla ne viene convinto e propone ai fedeli
il braccio come terzo braccio della santa.

Franco Sacchetti pone quindi come principio unitario dell’opera la sua centralità
individuale in quanto autore, narratore e talvolta personaggio delle novelle
presentate.
Da qui deriva la prossimità temporale delle vicende raccontate, che si svolgono nella
seconda metà del Trecento e limitrofe a Firenze; inoltre Sacchetti presenta un commento
morale ed edi cante alla ne di ogni novella, tuttavia sostenendo una presenza
costante del male nell’umanità, a cui l’uomo non può sottrarsi.
N.B. Non vi è quindi una funzione salvi ca e rigeneratrice nel suo novellare, a
di erenza del Boccaccio.

✤ Lo Specchio di vera penitenza del predicatore e frate Iacopo Passavanti, il quale


raccoglie la materia delle sue prediche in dei trattateli, con moltissimi esempi
moralizzanti di natura novellistica.

Ne Il cavaliere dissoluto egli propone un contenzioso tra angeli e Diavolo per l’anima
di un cavaliere scellerato e peccaminoso, pentitosi solo alla morte. Il diavolo quindi se la
prende con un visitatore della tomba, perché è infastidito che l’uomo con tre semplici
parole —a lui proibite— si sia salvato.
Passavanti cita in ne S. Agostino, ponendo la sua decisione sul contenzioso: colui che
incertamente si è pentito solo poichè ravvisando la morte, non dovrebbe essere salvato;
deve infatti essere salvato non chi ha paura della pena, ma chi invece ha amore della
giustizia.
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L’Umanesimo
Con Umanesimo —termine ottocentesco di conio tedesco— si intende una temperie
culturale tra Quattrocento e Cinquecento; lo stesso termine “umanista” comparso per
la prima volta nelle Satire di Ariosto— è ricalcato su altri termini a conferma della
professionalizzazione di questo ruolo, inteso come quello di un intellettuale in cattedra.
L’istituzionalizzazione del ruolo e del rango dell’umanista è un fatto notevole:
precedentemente a ciò infatti, chi coltivava le umanae litterae procedeva autonomamente
e senza una forma istituzionale, mirando comunque alla ricostruzione e riproposizione
lologicamente accurata di una cultura classica e antica andata dimenticata.

Tra le varie gure in gioco, quella di Lorenzo Valla è signi cativa per la ricostruzione in 6
libri della grammatica latina, proponendo “l’eleganza” della lingua latina, quindi
correggendo errori morfologici e sintattici intervenuti a guastare il latino no a quel
punto. L’opera ha quindi anche una prospettiva diacronica nell’analisi del latino.
Questa competenza delle lettere antiche ha anche un versante militante politicamente:
proprio dalla conoscenza della rivoluzione stilistica del latino, Valla scrive il famoso
trattatelo che smentisce la donazione di Costantino, teoricamente documento
fondante del potere temporale dei ponte ci.
N.B. Il documento era già stato contestato da Dante nella Monarchia, ma solo in
termini di legittimità.
Per Valla, il testo contiene troppi anacronismi per essere del IV sec.

➡ Nuovi generi
La riscoperta dei classici porta nel Quattrocento all’esperienza di generi nuovi:
- Ritorno della tradizione oratoria latina, con il rispolvero di Cicerone
- Epistologra a, sempre secondo lo stile ciceroniano.
- Dialogo loso co
Questi generi si introducono anche nella letteratura volgare e anzi la vanno a dignitare, a
nobilitarne la prosa.

Si punta quindi ad un recupero culturale delle civiltà classiche nella loro interezza,
quindi non puramente con ni letterari e soprattutto coniugando la ricerca con una
storicizzazione coerente —legata ad esempio all’epigra a, alla numismatica e
all’archeologia in generale.

➡ Le biblioteche monastiche
Le humanae litterae vengono quindi recuperate anche attraverso un’attività di ricerca sul
campo, andando a scandagliare le biblioteche di monasteri e conventi europei che a
causa del loro isolamento avevano preservato —spesso senza mai fruirne— numerosi
manoscritti antichi.
Gli umanisti italiani vengono in contatto con queste realtà attraverso una rinnovata
mobilità dovuta ad una stagione di concili religiosi in Europa, a seguito di diatribe legate
alla sede papale; ad esempio è famoso il concilio di Costanza (1415), in Svizzera,
durante il quale Poggio Bracciolini —facente parte della curia papale— ha modo di
visitare alcuni monasteri e di scoprire ad esempio l’opera prima di Lucrezio, il De rerum
natura —fondamentale per la riquali cazione dell’epicureismo; oppure anche De re rustica
di Columella, De lingua latina di Varrone.
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➡ La riscoperta dei Greci
La pressione turca sull’impero di Costantinopoli fa sì che gli imperatori bizantini —a
partire dal Trecento— mandino ambascerie verso gli Stati europei.
Queste legazioni di uomini di cultura arrivano negli ambienti culturali italiani e ne in uenza
la temperie in atto, come avviene ad esempio a Firenze, dove Emanuele Crisolora
inaugura la prima cattedra di greco e stringe un sodalizio con Coluccio Salutati,
intellettuale e uomo politico orentino che nutriva grande interesse verso questi testi
classici, a tal punto da comporre un epistolario latino conforme allo stile ciceroniano.
N.B. Già Petrarca e Boccaccio avevano cercato di aprire verso questa prospettiva,
coadiuvati dal monaco Leonzio Pilato, incaricato dal Boccaccio di tradurre in
latino i poemi omerici.
Nel 1453 Costantinopoli viene conquistata e ne segue una diaspora di uomini e codici:
da quel momento il greco diventa una lingua base per qualsiasi umanista.

➡ Le biblioteche pubbliche
Se precedentemente le biblioteche non erano presenti nei luoghi del potere —Impero e
Papato fra tutti—, nel corso del Quattrocento è la Chiesa in primis a creare una raccolta
libraria coesa e fruibile pubblicamente.
Ne segue a ruota la nascita di numerosi luoghi culturali simili a questi, come ad esempio
la Biblioteca Marciana a Venezia, istituita a partire dalla gura del cardinale Bessarione,
che cede in eredità i suoi codici alla Serenissima.
Sarà invece papa Niccolò V il fondatore della Biblioteca Apostolica Vaticana, arricchita
e amministrata da una schiera di umanisti.

Bisogna sottolineare come l’età dell’Umanesimo è legata anche ad un’attenzione verso


il libro nella sua materialità. Ad esempio la gura del orentino Niccolò Niccoli è legata
al suo operato di ricerca: egli raccoglie e fa trascrivere agli inizi del secolo un gran numero
di codici di cultura classica; inoltre stila una sorta di itinerario catalogato delle biblioteche
europee e dei principali codici in esse contenuti.
Niccoli è inoltre protagonista di un dialogo di Leonardo Bruni, allievo del Salutati e
umanista di spicco. Nella nzione del dialogo Ad Petrum Paulum Istrum, Bruni si
immagina che alcuni allievi di Salutati vadano a far visita al maestro, che li incita a
praticare il genere della disputa loso ca.
Il Niccoli però interviene, contestando la mancanza di testi su cui porre le basi delle
dispute. Salutati chiama allora in causa le Tre Corone, rivendicano la oritura di questi
talenti al di fuori della cultura classica, ma ottenendo solo una censura minuziosa e
critica da parte del Niccoli, che infatti:
- Reputa Dante un ignorante, poichè dimostra di non conoscere la classicità in
almeno due punti —ossia quando intende “sacra fame dell’oro” come un’ambizione
consacrata, quando invece per Virgilio è esecrabile il desiderio dell’oro; inoltre quando
rappresenta Catone Uticense come un anziano barbuto, quando invece in Livio si
evince che Catone muore a 40 anni.
- Non considera Boccaccio degno di una minima ri essione a riguardo
- Contesta al Petrarca la poca accuratezza storica nell’Africa.

Salutati allora lo incarica di mostrare il pregio di questi autori, così che il Niccoli si troverà
a lodare Dante per i contenuti loso co-allegorici della sua opera, loderà Petrarca in
quanto padre e precursore dell’Umanesimo e in ne recupererà Boccaccio per il suo
lascito librario alla città di Firenze.
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La disputa sul volgare
Dalla disputa ttizia e pretestuosa si nota che tra la pratica letteraria in latino e la
letteratura volgare titolata vi è un profondo dissidio.
N.B. Contini parla di una situazione linguistica “bilingue o variamente
monoglotta”, ossia propone dei raggruppamenti —faziosi— tra gure intellettuali,
dividendo in:
- Umanisti esclusivi, solo in greco o solo in latino
- Umanisti praticanti del volgare
- Lettarati in volgare, distinti tra toscani e non toscani

Questo dissidio sicuramente non interviene in termini così perentori: l’umanista


orentino Cristoforo Landino in una sua raccolta di elegie latine sostiene di “escludere in
partenza il volersi cimentare con la scrittura in volgare”, ma nel 1471 è impegnato proprio
in un commento in volgare del Canzoniere di Petrarca, no ad arrivare nel 1481 al
commento colossale della Comedia dantesca.
N.B. Il commento di Landino è cruciale nell’interpretazione dell’opera dantesca
perché la ltra attraverso le lenti di quella loso a neoplatonica che nel corso del
Quattrocento andava a ermandosi —sempre sulla scorta di ritrovamenti letterari
classici.

Nel 1435 si riunisce a Firenze —dopo essere passato per Basilea e Ferrara— un concilio
cardinalizio che produce una ri essione decisiva nei ragionamenti “scienti ci” ed
obiettivi sul volgare.
Si discute delle tematiche più di erenti —lo scisma d’Occidente in primis— ma si
appro tta della presenza di eminenze bizantine per mediare lo scisma d’Oriente del
1054, ma invano.

Al concilio sono presenti inoltre due personalità dell’Umanesimo orentino:


- Leonardo Bruni, che si era cimentato nella stesura di una Historia orentini populi,
ossia una storia umanistica dello Stato toscano, e una Laudatio orentina urbis, oltre
che numerose opere in volgare, tra cui due Vite relative a Dante e a Petrarca.
N.B. Bruni contesta alcune inesattezze biogra che fornite al pubblico da
Boccaccio, grazie anche alla sua posizione politica che gli permette l’accesso agli
archivi orentini.
- Biondo Flavio, umanista di Forlì che conosce molto bene la storia del latino e di
Roma (Roma restaurata, Italia illustrata).

Queste due personalità entrano in con itto rispetto alla storia del latino:
- Bruni sostiene che il volgare esiste già presso i Romani, tale per cui esso
coesisteva con il latino, lingua dei dotti.
- Biondo Flavio sostiene che il latino della Roma antica era parlato da tutti, popolo
e ceti dotti. L’arrivo al volgare è dovuto ad una catastrofe, ossia le invasioni
barbariche che hanno dissolto le istituzioni culturali e scolastiche romane.
ES. Porta a sostegno della tesi le commedie di Plauto e Terenzio, dove emerge una
lingua arcaica.
N.B. Valla sostiene che il latino è superiore al greco: se infatti il greco si
suddivide in una serie di dialetti, il latino invece è unitario e monolitico.
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Viene accolta in maniera unanime la tesi di Biondo Flavio, mentre in realtà la tesi del
Bruni —valida— viene a ossata perché svaluta il volgare, ritenendolo agrammaticale;
accogliendo la tesi del Flavio invece si può vedere il volgare come continuazione del
latino, potendolo quindi nobilitare e riportandolo ad una nezza formale ed
espressiva, grazie alla migliore conoscenza della sua base latina.

Nel 1433, l’umanista Leon Battista Alberti —intellettuale di origine orentina ma esule,
polimor co ed eccentrico sia negli spostamenti che negli interessi culturali, autore ad
esempio dei dialoghi Intercenales (un dialogo in cui i due personaggi —Libripeta e
Lepidus— intrattengono un dialogo assurdo e onirico, in cui Libripeta a erma di aver
viaggiato nella terra delle cose perdute, trovando anche quella cultura classica) e di
trattati come il De pictura— coltiva l’ambizione di ridare alla luce una letteratura in
volgare che possa pareggiare le letterature classiche.

Egli abbandona i modelli volgari disponibili e si rifà ai contenuti della poesia e prosa
antica, rimodulandoli in volgare; per fare ciò però necessita di dare al volgare una
regolamentazione grammaticale, andando quindi a scrivere una Grammatichetta
basata sul orentino d’uso.
Inoltre, ispirandosi all’Economico di Senofonte, Alberti scrive in volgare i 4 Libri della
famiglia, un dialogo intervenuto a Padova negli anni ’20 alla morte del padre, in cui si
ragiona dell’amministrazione famigliare.
È un testo didascalico-pedagogico, che discute dell’educazione dei gli, delle scelte
matrimoniale, dall’amministrazione del capitale mercantile famigliare, dell’amicizia con
altre famiglie.

Nella premessa del libro III, Alberti si rivolge ad un parente che si era cimentato in alcune
opere in volgare e giusti ca l’impiego del volgare in un’opera del genere: la perdita del
latino è peggiore della perdita dell’Impero, inoltre critica gli umanisti che disprezzano il
volgare e hanno la presunzione di dominare un buon latino; si cerca inoltre di
rivalutare il volgare, attraverso proprio la necessità di un corpus di intellettuali che
scrivano in volgare e gli diano lustro.

Alberti si rende conto che la poesia è cruciale per esporre le qualità del volgare, quindi nel
1441 indice un Certame coronario, una gara di poesia in cui la Curia papale avrebbe
giudicato gli scritti in latino e soprattutto in volgare sul tema dell’amicizia.
Alberti partecipa e crea inoltre una nuova struttura metrica che ricalchi nel toscano la
metrica quantitativa latina.
ES. Quello che per il Carducci è la “metrica barbara”
La gara è combinata, ma gli umanisti della Curia decidono di non assegnare il premio,
perché non ritengono gli scritti in volgare degni di una vittoria.

! La produzione in volgare a Firenze no al tempo era dispari: Giovanni Gherardi da


Prato cerca di riproporre il lustro delle 3 Corone; altri utilizzano il volgare per scrivere
testi comici e senza senso, come il Burchiello, un barbiere che scrive sonetti caudati; le
tensioni politiche delle famiglie magnatizie —con l’ascesa della casata dei Medici a
scapito degli Albizzi— generano inoltre una lotta culturale tra fazioni, così che Cosimo
de Medici favorisce studi attorno al greco e al latino.
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➡ La gura di Lorenzo de Medici umanista
Sarà solo con Lorenzo de Medici (1469) a cambiare la situazione: dopo la sua vittoria in
una giostra, Luigi Pulci scrive un poemetto in ottave in volgare che rappresenta
questa giostra —come i cantari cavallereschi.
Nel 1475 durante un torneo vinto da Giuliano de Medici viene composto un cantare
composto da Angelo Poliziano, umanista ed erudito del Quattrocento che innova i
cantari attraverso dei versi ricchi di latinismi e uno stile ornato, dandogli lustro
attraverso questa commistione tra classico e orentino moderno.
N.B. Il poemetto di Poliziano è allegorico, ricco di richiami mitologici che
vengono recuperati per tras gurare Giuliano come un cacciatore
impermeabile alle lusinghe di Venere, a cui viene mandata una cerva-ninfa di cui
Iulio —alterego di Giuliano— si innamora perdutamente.

Tutto ciò è possibile grazie alla gura di Lorenzo e soprattutto grazie a Marsilio Ficino,
losofo della sua cerchia di posizioni neoplatoniche, così che anche lo stesso principe
pratica la poesia in volgare, attraverso componimenti in versi più beceri all’inizio, per poi
ra narsi in piena chiave stilnovista, arrivando no a spendersi nel commento loso co-
prosimetrico ai propri sonetti selezionati.
Lorenzo quindi crede nella dignità del volgare, che suddivide in 4 tipologie:
- 2 dignità intrinseche, ossia legate alle caratteristiche del orentino, che è
sovrabbondante di vocaboli e possiede una dolcezza, una musicalità e
armoniosità espositiva.
- 2 dignità estrinseche, ossia che il volgare ha una sua letteratura e che ha
conosciuto e assecondato l’espansione politica del suo Stato.

Nel 1476, Lorenzo ribadisce le sue posizioni e licenzia Poliziano di una raccolta di testi
poetici che va dalla lirica duecentesca no a lui, ossia la cosiddetta Raccolta
aragonese, dedicata infatti all’allora duca di Calabria Federico —erede di Aragona—, con
il quale era stata stipulata un’alleanza.
Questa raccolta cela delle motivazioni implicite nella sua stesura:
- È dedicata ad un erede, ma comunque ad un re di una certa caratura
- Nella corte aragonese si era sviluppata una sensibilità verso il volgare —percepito
come poetica dell’amore cortigiano— contaminato e ibridato dai volgari locali e
dal latino, così che Lorenzo sembra quasi voler proporre il predominio del volgare
orentino, fornendone le prove attraverso una selezione di testi.
N.B. Queste lingue ibride sono quelle koinè cortigiane presenti anche in altre
corti.

Negli anni ’70 infatti Giovanni Brancati, umanista napoletano, viene incaricato di
volgarizzare la Naturalis Historia di Plinio, un testo latino poderoso e lessicalmente
articolato. Lorenzo quindi vuole proprio sfoggiare la predominanza del volgare
orentino sugli altri volgari italiani in via di sviluppo, incaricando quindi Cristoforo
Landino di una traduzione analoga dell’opera di Plinio, ma in volgare orentino.
Lorenzo muore nel 1492 e poco dopo lo segue Poliziano nel 1494, gettando Firenze in un
declino culturale e politico: vi è la breve esperienza di Savonarola, a cui segue la piena
istituzione repubblicana no al 1512, al momento del ritorno dei Medici.
L’involuzione culturale —dovuta anche a dei roghi di testi letterari— è dovuta anche alla
riduzione del peso orentino nella politica italiana, dovuta alla calata di Carlo VIII in
Italia.
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Pulci e Poliziano
Angelo Poliziano è stato un grande lologo e autore, grazie anche alla sua istruzione tri-
lingue (latino, greco e volgare).
Tra le sue opere in volgare vi sono le Stanze, l’Orfeo -prima tragicommedia in volgare- e
una raccolta di Rime volgari, tra cui gura anche lo strambotto in questione
N.B. Strambotto: componimento di 8 versi endecasillabi, quindi un’ottava scorpo-
rata e lirica-amorosa, diversa quindi da quella tipicamente narrativa del poema ca-
valleresco.

Poliziano si rivolge a Eco, ninfa che incarna la ripetizione acustica e che anche nel
componimento funge da voce di risposta alle domande del poeta.
Il dialogo che ne emerge è quindi un gioco letterario ra nato, dove l’e etto ecoico
della risposta genera un’incomprensione: la donna -incarnata da Eco- sembrerebbe
dichiarare con le sue risposte brevi e ripetitive l’amore per un altro uomo.

La poesia ha un modello letterario altissimo, derivante dagli epigrammi greci, in partico-


lare da un epigramma dell’Antologia palatina costruito allo stesso modo.
N.B. Antologia palatina: celebre raccolta di epigrammi, assieme all’Antologia
planudea
Tuttavia Poliziano adatta e rielabora il modello greco su una forma metrica tipicamente
bassa, orale e popolare come lo strambotto, declinandolo inoltre nella lingua volga-
re.
La poesia laurenziana ha infatti tipicamente una costruzione simile: un tipo di poesia
semplice e immediata, adattabile al canto che ha però allo stesso tempo un rimando col-
to e complesso, più o meno esplicito.

Luigi Pulci è un intellettuale del Circolo laurenziano, al quale però non aderisce ideolo-
gicamente, ri utando il pensiero di Ficino e il neoplatonismo, e nemmeno formal-
mente, scegliendo come genere prediletto il poema comico.

La sua opera più famosa è il Morgante, un poema comico in ottave di ispirazione ca-
rolingia, ossia quella tradizione letteraria perlopiù francese di poemi epici e romanzi ri-
guardanti le vicende di paladini al servizio dell’Imperatore
ES. Chanson de Roland: cristianità contro i miscredenti islamici
N.B. L’altro importante ciclo è quello arturiano, dove invece la dimensione
bellica non è preponderante ma crea solo un immaginario dove instaurare le
vicende amorose dei paladini e delle loro dame; inoltre è costituita da ro-
manzi in prosa e in poesia

L’innovazione di Pulci sta nel sovrapporre all’ispirazione carolingia una propria inno-
vazione letteraria, di stampo comico-fantastico.

Il protagonista del poema è infatti Morgante, un gigante pagano convertito al cristia-


nesimo dal paladino Orlando.
Caratteristica peculiare, che connota il personaggio in senso comico ma che funge anche
da motore degli eventi della storia, è la costante fame del gigante: tutte le avventure
nascono da spostamenti dovuti al bisogno di rifocillarsi.
Morgante simboleggia l’eccesso, la sproporzione e
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Il compagno di viaggio di Morgante è un altro essere fantastico, Margutte.
Egli è un gigante nano, ossia un mezzo gigante che incarna in se stesso la coabita-
zione degli opposti.
La sua gura è legata alla parodia e al riso, in quanto dalla sua bocca Pulci fa uscire una
dichiarazione di fede parodiata, in cui alla Trinità viene sostituita una triade culinaria: la
torta, il tortello e il fegatello.
N.B. Pulci verrà accusato di eresia e vilipendio, venendo poi seppellito in terra
non consacrato come i miscredenti
Inoltre, l’elemento comico del poema è anche causa della morte stessa di Margutte, che
nisce so ocato dalle sue stesse risate.

Pubblicato per la prima volta nel 1478 -tuttavia l’editio princeps è perduta-, il poema è
pervenuto a noi nella seconda stampa del 1481, composta da 23 cantari.
A questa seguirà poi nel 1483 una nuova edizione in 28 cantari.

Il poema è in ottave, un genere tipicamente a dato alla tradizione orale, ma l’operazione


del Pulci consiste proprio nel formalizzare e stabilizzare in una dimensione scritta un
testo del genere.
N.B. I cantari erano appunto componimenti in ottave recitati pubblicamente dai
canterini a memoria, in cui era però permesso l’inserimento di novità o stravolgi-
mento del componimento stesso.

Il procedimento della trama segue anch’esso la tradizione orale: come i cantari e le ot-
tave popolari -nate in primis dal Filostrato e dal Teseida boccacciani- si svolgevano nel-
l’arco di qualche ora, concludendosi in momenti salienti, così Pulci decide di chiu-
dere la narrazione di ogni cantare su un evento eccezionale che rimane sospeso.
L’interesse del pubblico è quindi carpito non attraverso descrizioni minuziose o scavi psi-
cologici, bensì con un inserimento spropositato della dimensione magica, propria del a-
besco, il tutto all’insegna dello sperimentalismo.
I personaggi sono poi profondamente connotati e variegati, ma senza un approfon-
dimento psicologico: vi sono creature, paladini,…

Dalla tradizione del Morgante ha preso spunto la tradizione eroicomica italiana del ro-
manzo picaresco, ma alcune modalità narrative sono state riprese anche dal Boiardo e
dall’Ariosto stessi.
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La questione della lingu
In questo periodo si pone quindi come problema quello dell’uniformità del volgare
letterario: serve un riconoscimento omogeneo per permettere al volgare un pieno
sviluppo.
Si innesca quindi la cosiddetta questione della lingua, la quale innanzitutto cerca di
ridurre la cerchia delle potenziali candidature linguistiche, tra cui guravano:
✦ Fiorentino d’uso, ossia il orentino argenteo, che però aveva come di coltà la
mancanza di modelli scritti.
✦ Koinè cortigiana, che venivano proposte per via della sua derivazione a partire da
basi aristocratiche eterogenee, ed era quindi frutto di un conguaglio linguistico;
tuttavia questa commistione consisteva prettamente nella semplice eliminazione dei
localismi e una ripatinatura attraverso il latino.
✦ Fiorentino del Trecento, ossia il orentino aureo, che era una lingua consolidata
nella letteratura ma al tempo stesso passata e quindi priva di modi che.

Sarà proprio a partire da questa proposta linguistica che Pietro Bembo, patrizio veneto,
irromperà con le sue tesi nella questione della lingua, grazie anche al possesso del
Canzoniere autografo del Petrarca (VL 3195), trovato a Padova.
Bembo infatti possiede un’opera che non presenta derive e modi che linguistiche
dovute alla copiatura, ma anzi presenta una lingua immacolata e soprattutto relativa
ad un’opera cardine della letteratura del Trecento —e dei secoli a seguire, utile quindi a
costruire una grammatica per il volgare, rendendo fruibile a tutta la Penisola il volgare
orentino.
Bembo quindi opera una ricerca di testi nel orentino del Trecento —anche attraverso altri
testi— e stila un trattato in forma dialogica, che saranno poi le Prose della volgar
lingua, pubblicate a Venezia nel 1525, sotto forma di un dialogo in 3 giornate:
✦ Si convince il latinista Ercole Strozzi che il volgare ha la sua eleganza se proviene
da testi garantiti e congelati nel tempo.
✦ Si compara il volgare orentino con le lingue romanze —ad esempio analizzando i
debiti verso il provenzale.
✦ Si parla delle elegantiae del Petrarca —presenti nel Codice degli Abbozzi— e quindi
una sorta di stilistica della lingua italiana, mettendo a confronto le Tre Corone e i
loro usi.
N.B. Il libro III è il fulcro grammaticale dell’opera, proposta in maniera non
schematica e quindi di di cile uso.
N.B. Bembo aveva restaurato —coadiuvato da Manuzio— il RVF di Petrarca.

Per la prima volta quindi la letteratura italiana diventa una letteratura nazionale,
monolinguistica e compatta.
N.B. Rimangono sacche reazionarie, anche illustri —ad esempio Machiavelli che
rivaluta il orentino d’uso.

L’opera di Bembo ha una sensibilità diversa da quella contemporanea per vari motivi:
- Interesse esclusivo per la lingua scritta
si deve a Bembo crea il divario netto tra una lingua scritta, perfettamente codi cata ed
esclusiva, e una lingua parlata, maggioritaria nell’uso ma frammentata nei dialetti.
- Rigida selettività degli auctores, del lessico e del poetabile.
- Arcaismo e ri uto del plurilinguismo
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Tuttavia le Prose però ebbero grande fortuna in tempi antichi poichè:
• il volgare viene difeso con le stesse tesi con cui gli umanisti avevano individuato il
canone classico, quindi gradito alla classe colta abituata al culto del classico.
• predilezione per il monolinguismo petrarchesco
• modello facilmente imitabile in tutta la Penisola

Un esempio dell’in uenza dell’opera di Bembo è fornito dal comportamento di Ludovico


Ariosto. Egli stima Pietro Bembo e lo inserisce nel suo pantheon a ne poema.
Le prime due edizioni (1516, 1521) dell’Orlando Furioso risentono della koinè padano-
emiliana, la lingua di riferimento della corte ferrarese.
ES. Forme non dittongate o non anafonetiche (gionco)
Futuro ne condizionale in -ar-
La terza edizione invece (1532) ha una connotazione toscana che riguarda tanto il les-
sico quanto le varianti fono-morfologiche.
ES. ora per adesso adesso è sostituito con ora
tosto per presto presto è sostituto da tosto
leggiadro per liggiaro

! Altre teorie linguistiche


Ovviamente Bembo non era l’unico a proporre una teoria linguistica, così che
rimangono sacche reazionarie, anche illustri —ad esempio Machiavelli che rivaluta
il orentino d’uso. Nel particolare troviamo:
✤ Teoria cortigiana
La teoria cortigiana propone una koinè orale, su una base toscana ma dove
vengono a introdursi apporti diversi, forniti proprio dalla grande circolazione di
genti alla corte papale.
La teoria si presenta agli antipodi con quella proposta da Bembo.
Viene promossa da Calmeta e da due autori:
- Mario Equicola nel De natura de amore dove utilizza una lingua “commune”
- Baldassar Castiglione nel Cortegiano

✤ Teoria italiana
Promossa dall’umanista vicentino Giovan Giorgio Trìssino.
Trìssino condivide con Bembo un modello scritto basato sugli auctores, tuttavia
propone un canone eclettico, contrapposto a quello rigido proposto dal Bembo.
La teoria di Trissino ha come presupposto la riscoperta ed edizione in volgare da
lui fatta nel 1529 del De vulgari eloquentia: nel trattato dantesco Trissino
fraintende e crede di riconoscere, oltre ad un ri uto categorico del primato
letterario del orentino, una dichiarazione di italianità, poichè nel capitolo nale
Dante arriva al volgare latium, italiano nel senso di non proprio di nessuna
speci ca area, ma di tutta la penisola.
Nel 1529 pubblica anche altre due opere:
➡ il Castellano
Dialogo in cui nega la orentinità della lingua dei trecentisti (soprattutto
di Petrarca) che de nisce invece “italiana” nel suo lessico.
N.B. al tempo il termine italiano esisteva come aggettivo, ma non come
glottonimo.
➡ Grammatichetta
Nella grammatica Trissino ammette ancora una volta il plurimor smo e
registra varianti concorrenti.
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Trissino propone inoltre una riforma ortogra ca del volgare che possa
conformare gli usi fonologici e ortogra ci, con l’obiettivo di creare una
corrispondenza biunivoca tra grafemi e fonemi.
In particolare, egli propone l’inserimento di due nuove lettere, Epsilon e Omega
(<ɛ> e <ω>) inizialmente associate alle due vocali medio-basse, poi però
Omega si associa alla medio-alta posteriore, in quanto in greco corrisponde ad
una O lunga.
Introduce poi <k> per la velare sorda e <ʃ> per la sibilante sonora.

La teoria di Trissino fu però minata alla base, in quanto gli umanisti del tempo non
riconobbero come autentica la sua edizione del De vulgari eloquentia
(pubblicato in latino solo nel 1577), proprio per l’inconciliabilità delle tesi
anti orentiniste e la scelta poi dello stesso orentino per la Commedia.

✤ Teoria orentinista
La teoria orentinista sosteneva un modello di orentino integrabile
continuamente con autori e usi parlati della Firenze del tempo, quindi orale e
non strettamente riferita al canone scritto delle Tre corone.
Difensori di questa tesi furono Machiavelli e gli intellettuali dell’Accademia
orentina (Lenzoni, Giambullari, Gelli,…)

Le idee di Bembo si scontrano nel corso del Cinquecento con questa corrente
orentinista, che aveva il vantaggio di considerare il orentino nella sua
completezza, sia nella dimensione scritta che in quella parlata e viva.
A proposito di questa teoria —e in antagonismo e polemica con Trissino— vi è la
pubblicazione anonima nel 1524 —ma probabilmente l’autore è Machiavelli—
di un Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua.
Attribuito a Machiavelli già anticamente, rimasto inedito no al Settecento.
Il discorso tratta della lingua usata dai poeti, ri ettendo sulla natura orentina,
toscana o italiana di essa. Il bersaglio del discorso è quindi Trissino, anche se
questa invettiva è precedente alle teorie scritte dall’umanista.

È impostato come un dialogo ttizio tra l’autore e Dante riguardo al De vulgari


eloquentia.
N.B. in questa prima fase al trattato è ancora riconosciuta autenticità e
paternità dantesca, anche se ritenuto successivo alla Commedia; poi verrà
invece ritenuto un falso.
Dante difende le idee da lui espresse, sostenendo di aver scritto in una lingua
curiale, ma l’autore lo “sganna”, dimostrandogli come egli abbia scritto in
orentino.
Dante arriva quindi a riconoscere che tutte le lingue curiali hanno comunque
una derivazione dall’opera degli scrittori orentini e del orentino in generale.
N.B. Machiavelli utilizza un orentino a lui coevo, lontano da quello delle Tre
corone. Muore nel 1527 e non ha modo di approfondire la questione della
lingua.
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Benedetto Varchi e l’apertura orentina al bembism
Dopo che l’Accademia orentina —in particolare il gruppo intellettuale de nito degli
Aramei, protetto da Cosimo I de’ Medici— si era scagliata a difesa dei bersagli di
Bembo, presa coscienza dell’insuccesso si decide di trovare un compromesso con le
teorie di Bembo.

Nel 1543 Cosimo de’ Medici richiama Benedetto Varchi, un repubblicano in esilio che
conosceva bene le idee linguistiche di Bembo e che quindi nel 1545 viene incaricato -in
veste di console dell’Accademia- di curare l’edizione orentina delle Prose bembiane,
edite poi nel 1549.
Varchi conosceva Bembo poichè nella sua esperienza fuori Firenze aveva soggiornato
anche a Padova, frequentando l’Accademia degli In ammati, importante accademia
padovana.

Varchi dà lezioni in cui cerca di conciliare le idee di Bembo con quelle dell’Accademia
orentina, idee che verranno raccolte postume in un trattato:
➡ Hercolano (1570)
Trattato inizialmente dialogico nella sezione in risposta alle Prose, poi composto
da 10 quesiti relativi a questioni di metrica e stile, dove interviene l’interlocutore,
ossia il conte Ercolano.
Varchi scrive questo trattato in difesa dell’amico Annibal Caro, a seguito della
polemica avvenuta tra Ludovico Castelevetro, oppositore di Bembo, e Annibal
Caro.
Le posizioni espresse nell’Ercolano sono:

‣ rivalutazione dell’uso vivo


ES. Quesito quarto: le lingue fanno gli scrittori o viceversa?
Varchi rovescia la concezione di Bembo e prende la posizione condivisa con i
contemporanei: le lingue fanno gli scrittori e possono esistere senza di essi; gli
scrittori le nobilitano.
N.B. concezione moderna, riprende l’odierna priorità ontogenetica del
parlato.

‣ supremazia del orentino scritto


ES. Quesito ottavo: modello della lingua: gli scrittori o il popolo?
Varchi distingue scritto e parlato: pur rivalutando l’uso vivo, in letteratura bisogna
rifarsi però al modello del canone di autori orentini.

Varchi non risolve la contrapposizione poichè ad esempio non si so erma sulla


selezione del canone, ma il suo è un tentativo molto rilevante poichè trova una sintesi e
una continuità positiva tra le Prose bembiane e il orentinismo:
- La lingua parlata va conformata agli usi del popolo, ma non del “popolazzo”,
quindi conformata all’uso nobile e colto
- La lingua scritta si rifà agli scrittori, che però risentono ed esistono solo
attraverso la lingua parlata.

La concezione di Varchi prevale e permette alle teorie del Bembo di fare breccia nella
di denza orentina, seppur attraverso questa interpretazione travisata e moderata.
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Machiavell
Niccolò Machiavelli vive a Firenze in un contesto culturale profondamente di erente: egli
si trova a fronteggiare le di coltà di una Firenze post-medicea, essendo di estrazione
borghese e di posizioni anti-medicee, simpatizzando invece per l’oligarchia aristocrati-
ca orentina.

Machiavelli ha una formazione irregolare: frequenta studi privati ma non di stampo


umanistico, conosce il latino ma non si dedica al greco. Tutta la sua produzione letteraria
ha una dimensione secondaria rispetto alla dimensione politica.
Le prime prove poetiche di Machiavelli sono poesie comico-giocose in volgare, secon-
do un modulo tradizionale; questo lo di erenzia rispetto a Boiardo e Ariosto, che dedica-
no le loro prime composizioni alla lirica latina.
L’esistenza di Machiavelli può essere riassunta da 3 date che segnano punti di svolta esi-
stenziali e lavorativi:
‣ 1494: discesa delle truppe francesi di Carlo VIII e caduta del potere del glio di
Lorenzo de’ Medici.
Cadono i Medici, a Firenze viene instaurata una Repubblica, che riprende una dimen-
sione reale, concreta, pratica e non solamente di facciata rispetto all’e ettivo dominio
mediceo. Nel 1498 diventa segretario della Seconda cancelleria e membro dei Dieci
-ossia l’èlite politica e diplomatica. Nel 1502 diventa braccio destro di Pier Soderini,
divenuto gonfaloniere della Repubblica a vita per fronteggiare ala debolezza istituzio-
nale. Machiavelli diventa una gura di primissimo rilievo politico in Italia.
‣ 1512: rientro a Firenze dei Medici, appoggiati dalla Lega Santa, un’alleanza di Stati
italiani con lo Stato ponti cio, di matrice anti-francese. Machiavelli viene destituito,
incarcerato e torturato, no all’espulsione e all’esilio con l’accusa di congiura. Egli si
ritira in un paese di campagna, in cui nel 1513 scrive la celeberrima lettera del 10 di-
cembre a Francesco Vettori in cui racconta la sua vita al con no in questo paesino
in cui non c’è niente da fare, e dove di sera, ritornato a casa sua, abbandonati i panni
da “gaglio o” che la vita lo ha costretto ad indossare, legge i classici e scrive il
Principe
‣ 1527: sacco di Roma e restaurazione della Repubblica orentina, ma Machiavelli è
morto.
La vicenda biogra ca di Machiavelli si interseca con queste date in maniera tragico-
mica, sempre in controtempo, aderendo al potere vigente sempre nei momenti della
sua imminente caduta.
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➡ Il Principe
L’opera -inizialmente con un titolo latino De principatibus- è la summa dell’esperienza
politico-pratica di Machiavelli ed è un tentativo di riottenere una posizione politica, an-
che per via della dedica ai nuovi signori di Firenze, in particolare a Giuliano de’ Medici.

Nel 1532 vede la luce la prima edizione, postuma, con il titolo in volgare Il principe. L’o-
pera si compone come un opuscolo, un trattatello tecnico-politico in 26 capitoli, ac-
compagnati da rubriche e titolati in latino.
I capitoli possono essere divisi in due macrosezioni:
• I primi 14 capitoli sono dedicati alla trattazione delle tipologie di principati e al
loro mantenimento.
• Gli ultimi 12 capitoli sono dedicati alla gura del Principe, alle sue caratteristiche e
agli obiettivi che deve porsi.
La principale fruizione dell’opera non è quindi in una dimensione ludica e letteraria, bensì
è una lettura d’utilità pratica, a scopo didattico e rivolta ai volti del potere, in quanto
tratta delle tipologie di principati e delle modalità di acquisizione e mantenimento del po-
tere.

La dimensione letteraria si è aggiunta in seguito all’opera per via della forma in cui è
composta e per l’insieme di elementi di matrice letteraria con cui Machiavelli trasmette
la propria idea di politica.
Al centro dell’opera c’è una ri essione sulla realtà e ettuale, su ciò che l’uomo si trova di
fronte nella concretezza dell’esistenza. A Machiavelli interessano in particolare modo le
logiche sottostanti al mantenimento di un principato nuovo, conquistato con la for-
za e mantenuto.

I temi sono quindi quelli del principe nuovo e delle milizie, strumento di mantenimento
del potere. Per Machiavelli le milizie devono essere eserciti regolari e fedeli, poichè la
scelta di milizie mercenarie è sempre perdente: chiunque agisce dietro pagamento può
essere facilmente corrotto o scegliere che la propria vita vale più del prezzo pagato.

L’idea di fondo è che la storia abbia un andamento ciclico: la conoscenza della storia e
della natura immutabile dell’uomo permette al buon politico di anticipare gli eventi e ri-
spondere ad essi con tutti gli strumenti necessari.
Il principe deve essere un centauro, una gura ibrida mezzo bestia e mezzo uomo, poi-
chè deve far coesistere in sé la capacità di impiegare la violenza nei casi in cui è ne-
cessaria, e l’astuzia, la razionalità in altri per prevedere gli eventi.

Il tema della Virtù e della Fortuna -tema che domina anche la Mandragola- è poi declinato
in maniera di erente dal solito: la virtù dell’uomo non è la virtù cristiana, la virtù dell’eti-
ca, bensì è la capacità di confrontarsi con le circostanze, cioè di mutare in base alle
condizioni esterne e indipendenti dell’esistenza, la Fortuna appunto.

N.B. Secondo la norma del polipo di Teognide, saper adattare il proprio colore ad
ogni scoglio, in un intreccio di spire e tentacoli che simboleggiano la capacità di
adattamento.
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Se la realtà è in continuo mutamento, allora l’uomo virtuoso è colui che sa adeguarsi
alla sorte, la sa cavalcare invece che farsi travolgere.
➡ La Mandragola
Insieme a molte altre opere politiche, una componente non secondaria della produzione
letteraria di Machiavelli è rappresentata dal teatro.
Il teatro messo in scena da Machiavelli è incarnato principalmente dal suo capolavoro, la
Mandragola, il quale sviluppa tematiche e ideali paralleli a quelli del Principe, tuttavia in
forma teatrale e narrativa.

È una commedia in volgare, pubblicata nel 1518 ma sceneggiata in prosa già nel
1504. Si divide in 5 atti, secondo la partizione classica propria del teatro antico, rifacen-
dosi al teatro latino -così come il nuovo teatro ferrarese- declinato però in chiave novelli-
stica e boccacciana.
La struttura gioca infatti intorno alla riproposizione in forma di commedia di una novel-
la di stampo boccacciano, con gli stessi espedienti comici delle novelle del Boccaccio:
vi è un gioco di equivoci e intrecci amorosi, al centro del quale sta una sostituzione di
persona.

I personaggi sono una coppia sposata e senza gli di Firenze: la bella e giovane Lu-
crezia e Messer Nicia, vecchio, ricco e sciocco. Intorno a loro orbita il tipico personag-
gio parassitario della commedia classica, in questo caso rappresentato dal factotum della
loro abitazione, Ligurio, arte ce e regista della vicenda, dietro il quale opera l’autore
stesso.

N.B. Tutti i nomi hanno una forte connotazione classica, a partire da Lucrezia
che è ricalcata in tutto e per tutto sul modello di matrona romana per eccellenza,
Lucrezia madre dei Gracchi

La vicenda è incentrata sull’impossibilità della coppia di avere un glio, cosa che viene
rimproverata da Nicia come una colpa della moglie, ma tutta l’opera è costellata di allu-
sioni ad una presunta impotenza -e tendenza omosessuale- del vecchio marito.

All’interno di questa situazione si inserisce il giovane venturo Callimaco, il quale si inva-


ghisce di Lucrezia e vuole a tutti i costi conquistarla; per farlo egli chiede aiuto a Ligu-
rio.
Ligurio innanzitutto convince Nicia che Callimaco sia un medico in grado di risolvere il
loro problema di infertilità: egli possiede la ricetta di una pozione fertilizzante a base di
radice di mandragola, la quale se bevuta permetterà a Lucrezia di rimanere incinta. L’in-
truglio ha però un e etto collaterale: il primo uomo che giacerà con la donna che ha
bevuto la pozione, morirà subito dopo avvelenato.
Nicia viene quindi convinto a desistere e sostituirsi con un altro uomo: gli viene detto che
il prescelto sarà un povero garzone raccattato dalla strada e incappucciato, ma in realtà
sarà Callimaco stesso a farsi trovare travestito nel posto e all’ora concordati.
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Nel mentre Ligurio riesce anche a corrompere con del denaro anche il disonesto Fra’ Ti-
moteo, confessore di Lucrezia che riesce appunto a persuadere lo scetticismo della
donna e a convincerla della correttezza morale di giacere per una notte con un uomo
diverso. Anche la madre è compiacente, poichè desidera un nipote che suggelli il matri-
monio e garantisca una stabilità economica alla famiglia.

N.B. La madre ragiona in un’ottica utilitaristica che risponde bene all’individuali-


smo e al clima sociale della Firenze vissuta dal Machiavelli. La necessità di un ere-
de è legata al mantenimento dei beni di Nicia, ormai anziano e prossimo alla morte.

Attraverso questo espediente comico, Callimaco riesce quindi a farsi introdurre sotto
mentite spoglie e con il benestare del marito nel letto di Lucrezia.

La vicenda naturalmente si scioglie: Callimaco rivela la sua identità a Lucrezia, la qua-


le però dimostrerà la sua Virtù, adattandosi alle circostanze e cavalcando lei stessa
le redini della be a che le è stata ordita. Poichè Callimaco è forte e vigoroso, le saprà
certamente dare un glio, come infatti avviene.

In conclusione, la vicenda ha un’explicit positivo: il glio viene creduto del vecchio Ni-
cia e la famiglia ritrova compattezza e serenità.
➡ Atto V, scena II (il racconto di Nicia)
In questa scena Nicia, dopo essersi liberato del falso garzone, racconta a posteriori
l’avvenimento a Ligurio e Siro, un altro servo. Tutta la scena è narrata dal vecchio
sciocco in maniera boriosa, credendosi falsamente più furbo degli altri, ed è costruita su
continui doppisensi di stampo omosessuale. La gura di Nicia in quanto marito tradito
ma contento poichè inconsapevole, è tipica del teatro classico.

N.B. La lingua è ricchissima di espressioni idiomatiche del orentino parlato (ES.


mogliama per mia moglie), poichè Machiavelli propugna una propria teoria lingui-
stica che vede nel orentino parlato a lui coevo la lingua letteraria prescelta.
Nicia racconta di come la moglie fosse distesa nel letto al buio e di come lui abbia allora
portato il “garzone” in uno sgabuzzino illuminato da luce oca, in modo da non essere
riconosciuto. L’intento di Nicia, almeno u cialmente, è veri care che questo garzone pre-
so dalla strada sia prestante al suo intento, e per fare ciò lo fa spogliare e lo controlla
nudo.

Pur reputandolo brutto in viso, ne de nisce la pelle candida e morbida con termini che
rimandano a una bellezza femminile di tipo agreste e bucolico.

Egli controlla anche l’apparato genitale, poichè voleva veri care non avesse malattie ve-
neree, ma vi è grande insistenza sul tema del tatto, che gioca volutamente su doppi sensi
palesi
ES. dopo aver messo mano in pasta, io ne volsi toccare il fondo
Dopodichè, lascia il garzone-Callimaco con Lucrezia per tutta la notte, mentre lui sta al
focolare con la suocera, compacendosi già del futuro bambino. Il mattino seguente egli
caccia l’uomo di casa, ma racconta di aver fatto molta fatica a staccarlo dal letto della
moglie.
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Tutta la commedia è giocata attorno a questo paradosso e a quest’ironia di fondo:
Nicia si sente furbo ma in realtà è la vera vittima della vicenda, il primo tru ato. Inoltre, la
scena mette bene in risalto la vena sessualmente ambigua e lubrica del vecchio Nicia.

➡ Atto V, scena IV (notte d’amore raccontata da Callimaco)


In questa scena Lucrezia non prende la parola in prima persona, ma il tutto viene narra-
to in maniera indiretta da Callimaco stesso, che interloquisce con Ligurio.

La scena è composta perlopiù da un lunghissimo periodo senza sospensioni, in cui


Callimaco racconta di essere stato male, sulle spine no a quando non si è rivelato alla
donna, a cui ha dichiarato il suo amore e che è riuscito a persuadere a prenderlo come
amante, promettendole che una volta morto il marito lui sarà disposto a sposarla,
ma soprattutto mettendole di fronte le di erenze tra una relazione con un vecchio
sciocco e una con un giovane prestante.

Lucrezia accetta la situazione, dandole una spiegazione celeste e quindi dettata dal vo-
lere divino, dichiarando di prendere Callimaco come padre e padrone.
A questo punto però è Lucrezia a prendere in mano la situazione, dando indicazioni
pratiche a Callimaco: egli dovrà diventare compare del marito, stipulando un legame
sociale ben de nito che gli permetterà di stare in compagnia di Lucrezia senza destare
infamie e sospetti.

N.B. La vicenda ha un lieto ne amaro, basato sull’inganno: Lucrezia rimane incinta


di Callimaco, che farà anche da padrino al battesimo del bambino.

In questa scena emerge bene la di erenza tra il tono di Callimaco e quello di Nicia: se
il vecchio stolto ha un lessico basso e triviale, giocato su espressioni demotiche e
an bologiche, il tono del giovane Callimaco è quello invece di un damerino, di un inna-
morato da operetta; Callimaco parla del suo amore sempre in una maniera sovradimen-
sionata, intrisa di pathos lirico ma marcatamente falso e menzognero.

L’opera ha chiaramente dei rimandi tematici con il Principe.

L’interpretazione più ricorrente paragona Lucrezia alla città di Firenze, poichè entrambe
vivono un gioco di scambi di dominio; inoltre, la scelta di Lucrezia di adattarsi alle cir-
costanze in cui è posta, riprende il concetto di Virtù che il Machiavelli propone per il bra-
vo Principe, ossia questa duttilità che permette di trarre vantaggio anche da un inizia-
le intoppo di percorso.

In e etti, l’inganno permette a Lucrezia di avere il glio tanto desiderato, ma ad un livello


concreto e utilitaristico le permette di preservare nel tempo il proprio status e il patri-
monio del marito, oltre che nell’immediato di godere del piacere sessuale che non ot-
teneva dal rapporto coniugale.

Lucrezia è quindi vincitrice in tutto e per tutto, portatrice della Virtù, ma non manca una
nota d’ironia: Lucrezia porta il nome di un’eroina classica, morta suicida proprio
dopo essere stata violata.
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Francesco Guicciardin
Nato da una facoltosa famiglia lomedicea, Francesco Guicciardini impersoni ca al
meglio il concetto di politico italiano del suo tempo, dove la scrittura è ancillare e
ausiliaria al suo operato come giurista e cortigiano.

Nel 1508 Guicciardini inizia a stilare le Ricordanze, opera portata avanti no al 1527 e in
cui condensa le sue esperienze biogra che e professionali.
Nel 1511 inizia la sua carriera politica: viene eletto ambasciatore presso il re di Spagna,
ma tuttavia il suo operato è reso di coltoso ed ine cace dalla scarsa comunicazione con
la patria.
Guicciardini ha tuttavia modo di dedicarsi alla prima stesura di un’opera —de nita
ghiribizzo— atta alla regolamentazione della vita e dell’operato politico, suo e delle
generazioni a venire, ossia i Ricordi, in cui a orano le tematiche principali della sua
loso a politica: riduzione del potere della Chiesa corrotta, contrasto della tirannide
e auspicata libertà d’Italia.

Guicciardini è inoltre sostenitore del buon governo repubblicano, così che spesso
troviamo —ad esempio nel discorso Del modo di ordinare il governo popolare— cenni
ad una costituzione mista, frutto della fusione tra monarchia, aristocrazia e democrazia.
Nel nuovo assetto politico mediceo Guicciardini è gura centrale nelle magistrature
cittadine.
N.B. Inviato a Parma e Modena, riesce con successo a resistere agli attacchi
francesi.
Nel 1523 rimette mano ai Ricordi, in una nuova compilazione che dà luce alla
consapevolezza dell’autore circa la sionomia e l’autonomia dell’opera.
Il ricordo viene proposto come regola —salvo poche eccezioni—, con quindi un
richiamo diretto all’esperienza pratica da cui sono derivate e con un focus maggiore
sulla relazione tra principe e ministri.

Guicciardini si avvicina quindi sempre di più alla consapevolezza della durezza della
realtà politica e dell’impossibilità di salvare sia la coscienza che lo Stato,
a ancandosi quindi al Machiavelli.
Dopo però una campagna lopapale rovinosa contro Carlo V —e la conseguente
restaurazione della repubblica in Firenze—, Guicciardini ritorna a Firenze desolato e
compone quindi un trittico di discorsi —Consolatoria, Accusatoria, Defensoria— in
cui emerge l’animo travagliato del politico e generale scon tto e da cui soprattutto egli
pratica un esame di coscienza sul suo operato.
Compila poi sul piano storicistico le Cose di Firenze (1528-1529), in cui abbozza una
storia di Firenze dalla fondazione tramite una tta ricerca d’archivio.

Nel 1529 i Medici tornano a Firenze: Guicciardini entra sotto la loro ala e quindi deve
schierarsi contro la repubblica; nel mentre riscrive i Ricordi, in un’accezione più
meditativa e personale.
Emerge uno dei temi di fondo dell’opera, ossia il confronto tra saggezza e pazzia, ossia
un tentativo di confortare la razionalità con una realtà disgregata e frammentata in
circostanze casuali.
L’opera quindi diventa una raccolta di meditazioni —a rontate a più riprese— circa i
principi che interferiscono sull’operato dell’uomo, scadendo della sua accezione
ferrea e rigida di manuale di regole.
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L’ultima opera di Guicciardini è invece la Storia d’Italia, compilata con il metodo storicità
già attuato nella stesura delle Cose e portato a termine tra il 1537 e il 1538.
In questa Storia in 20 libri, Guicciardini —ritiratosi a vita privata dopo alcune contingenze
e dissidi con il restaurato potere mediceo— ricostruisce la vicende italiane tra il 1490 e il
1534, non riuscendo a vederne la pubblicazione.

L’opera esce —seppur largamente censurata— nel 1561 e nel 1565, articolandosi nel suo
racconto tratto dall’esperienza diretta di Guicciardini in 4 parti:
‣ Prologo sullo stato dell’Italia no al 1494
‣ L’occupazione francese di Milano e l’occupazione spagnola di Napoli
‣ L’avvio verso la ne della libertà italiana
‣ L’Italia asservita

Per Guicciardini —con un incipit che detiene un giudizio di responsabilità politico-


storica— le cause contribuenti allo sfacelo dell’Italia —prima uni cata nelle sue di ormi
realtà cittadine dalla deterrenza reciproca dei suoi principi— stanno proprio nei
principi, che hanno distrutto la loro stessa libertà.
Per Guicciardini sono state le azioni sbagliate dettate da interessi personali e
l’incapacità politica, condotte in rovina dalle cause naturali e fortunose della realtà.

Nonostante quindi la fortuna irrompa in maniera violenta nelle vite umane, per
Guicciardini la storia si fa e si disfa attraverso la storia degli individui illustri, veri
responsabili della storia.
Ecco quindi che la singola mancanza di discrezione diventa motore di nefandezze e
disastri politici, ma rimane il fatto che l’uomo non è arte ce consapevole della sua
storia.
N.B. Il ruolo dello storico è quindi quello di ssare lo sguardo sull’instabilità delle
cose umane, al ne di ricondurre il disordine ad un’analisi riordinata e ad un
controllo intellettuale.
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Baldassarre Castiglione e il Libro del Cortegian
Baldassarre Castiglione è legato indissolubilmente alla sua gura di cortigiano:
frequentando le corti d’Europa egli sperimenta —pur non essendo un letterato— sia la
prosa che la poesia, spesso a ni encomiastici.

La sua opera più celebre è sicuramente il Libro del Cortegiano, un trattato in forma
dialogica ambientato nel 1507 ad Urbino, ma edito solo nel 1528.
Castiglione condensa la sua esperienza al seguito di signori e uomini d’arme all’interno
della trattatistica, al ne di individuare un modello cortigiano perfezionato e
riproducibile, fornendo quindi una grammatica comportamentale preziosa per
qualunque membro della corte.

Egli frequenta sia la corte degli Sforza —dove compie il suo cammino educativo
umanistico— sia la corte dei Gonzaga —casata mantovana vicina alla sua provenienza
aristocratica.
È però dal 1504 al 1513 nel suo soggiorno ad Urbino che Castiglione entra a contatto
con una folta schiera di intellettuali, tra cui lo stesso Pietro Bembo.

In questo soggiorno si cimenta in rime d’occasione e opere minori, come ad esempio il


Tirsi, un’ecloga pastorale a 4 mani simile all’operato di Sannazaro, in cui la corte
urbinate assume caratteri mitici.
Allo stesso tempo pratica altri generi molto in voga come la ritrattistica biogra ca di
uomini potenti, stilando un suo ideale corollario del principe nella Vita di Guidubaldo
duca di Urbino.

La sua vita segue poi un itinerare tra varie corti, da Roma alla Spagna, sempre al
seguito dei Gonzaga. Riesce in ne a pubblicare nel 1528 a Venezia la sua opera
cortigiana, per poi morire nel 1529 in Spagna.

➡ Il Libro del Cortegiano


L’opera maggiore di Castiglione ha una lunghissima gestazione, evolvendosi di fatto
parallelamente all’esperienza cortigiana diretta acquisita dal suo autore.

Diviso in 4 libri di natura dialogica di derivazione platonico-ciceroniana, Castiglione


inscena discussioni entro la corte urbinate, trattando ad esempio:
‣ Libro I: si discute della natura del perfetto cortigiano, dotato ad esempio di grazia,
bon giudicio e sprezzatura.
‣ Libro II: si discute dei modi e dei tempi di azione del cortigiano
‣ Libro III: si discute dell’ideale donna di palazzo
‣ Libro IV: si discute dei rapporti tra principe e cortigiano

Tra le tematiche che l’opera a ronta nel suo lungo scorrere all’interno dell’ambientazione
ideale —innalzata ma qui non mitizzata— di Urbino troviamo ad esempio:
‣ La regolamentazione e riabilitazione della gura del cortigiano, presente nelle
corti ma spesso fraintesa e disrispettata dai principi;
N.B. Castiglione parla di sprezzatura: il cortigiano deve mostrarsi disinvolto e
abile nelle armi, malgrado i suoi impegni civili.
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‣ La questione della lingua, discussa nei termini per cui Castiglione propone una
soluzione osmotica tra scritto e parlato, ma anche osmotica rispetto agli usi
contemporanei e alle altre varietà della Penisola.
N.B. A ciò si lega la facezia e la bu oneria del cortigiano, che però non deve
sfociare nel ridicolo.
‣ L’amore, nei termini entro cui si discute della donna di palazzo: per Castiglione
l’amore è ludico, ossia è un gioco con proprie regole; in ne nella conclusione
lasciata a Bembo si parla dell’amore divino come superiore a quello sensuale.

In termini generali il libro presenta poi un’eterogeneità e uno squilibrio nel suo insieme,
dovuta alle innumerevoli tensioni e temperie che lo hanno prodotto —frutto del girovagare
di Castigilione— e dovuta anche alla trasversalità e riadattabilità dell’esperienza
urbinate.
Il libro viene infatti n da subito percepito e accolto come un classico, tanto da essere
tradotto e imitato nelle corti europee.
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Iacopo Sannazaro e l’Arcadi
Negli stessi anni di Boiardo, alla corte angioina di Napoli di Ferdinando d’Aragona, opera
Iacopo Sannazaro, lologo e autore che dà il via ad un nuovo genere letterario, quello del
romanzo pastorale, con l’Arcadia.
La scelta riprende la memoria boccacciana del prosimetro Commedia delle ninfe
orentine, ma Sannazaro innova il genere e lo proietta in una dimensione moderna che
verrà poi ripresa nel Settecento proprio dall’Accademia dell’Arcadia.

È autore anche di spettacoli teatrali e appartiene all’Accademia di Pontano, accademia


di stampo classicista del regno di Napoli, in cui è conosciuto con lo pseudonimo di
Actius Sincerus.

L’opera è costruita su un modello classico che vede 12 sezioni prosimetriche,


all’interno delle quali stanno anche un prologo e un congedo.
La prima redazione è collocata tra il 1482 e il 1486, ma la stampa autoriale de nitiva risale
al 1507.

L’opera di Sannazaro racconta la storia mitologizzata di poeti e ninfe in questa regione


mitica della Grecia, l’Arcadia, un ambiente bucolico e pastorale dove si vive di canti e
d’amore, senza la preoccupazione della guerra e della miseria.

L’Arcadia si concentra sulla vicenda pastorale del protagonista, Actius Sincerus,


contro gura del poeta, che si esilia volontariamente per un amore non corrisposto in
questo luogo favoloso e antirealistico dove i pastori -dietro le cui descrizioni è
possibile scorgere personaggi reali coevi a Sannazaro- cantano le loro pene
amorose. L’opera ha tuttavia una connotazione amara e pessimistica, in cui ritornano i
temi della morte, della tristezza e della negatività, con un epilogo doloroso che
prospetta il timore verso la decadenza della poesia e di tutta la civiltà stessa: egli
torna a Napoli e scopre che l’amata è morta.

La dimensione allegorica, apparentemente collocata nel passato, è in realtà


dipendente non solo da un’immaginario di persone coeve a Sannazaro, ma anche dalla
sua vicenda autobiogra ca, poichè l’amata è la donna del poeta, Carmosina Bonifacio.
L’opera consiste quindi in un percorso allegorico di educazione sentimentale e
poetica che il poeta attraversa.

Sannazaro opta con originalità per una lingua “italiana”, ossia una lingua colta e costruita,
che cerca di far convivere elementi linguistici diversi tra loro.
Non vi è quindi nessuna preferenza per una lingua locale napoletana, né per il modello
toscano di lingua d’uso.
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Matteo Maria Boiard
La corte ferrarese della famiglia d’Este è al centro di un piccolo stato solido dal punto di
vista economico-politico, a tal punto da diventare anche un centro importante della cul-
tura e della letteratura.
N.B. La stabilità politica ferrarese dipende molto anche dallo stretto legame con
lo Stato ponti cio, tanto che all’estinzione della famiglia d’Este Ferrara verrà rian-
nessa al dominio papale.

Tra i nomi più illustri dei duchi ferraresi gurano:


• Leonello: con lui inizia l’umanesimo ferrarese, poichè allestisce una biblioteca e fa ar-
rivare a Ferrara grandi maestri di scuola
• Borso, Ercole e Alfonso: a loro sono dedicate le 3 grandi opere, i 3 grandi poemi ca-
vallereschi nati nella corte ferrarese.

Ferrara nasce sotto il segno dell’umanesimo greco e latino, grazie all’azione di Guarino
Veronese, docente e fondatore dello studio di greco e di loso a della città, a cui lo
stesso Leonello d’Este parteciperà.

Il gusto ferrarese è quindi di matrice classica, ma la corte ferrarese predilige in par-


ticolare modo la tradizione letteraria cavalleresca francese, di cui la biblioteca era
ben fornita.
N.B. La Francia, sia per un gusto letterario che per questioni di matrimoni, ha un
ruolo fondamentale per Ferrara.

Non è quindi un caso che l’Orlando innamorato e il Furioso siano nati proprio da autori di
questa corte, perché rispondono proprio al gusto e all’interesse della corte per questi
temi.

Matteo Maria Boiardo vive nella seconda metà del ‘400 ed appartiene alla piccola nobiltà
ferrarese, essendo conte del piccolo borgo di Scandiano.
Egli ha quindi un rapporto diretto e feudale con gli Este, anche poichè svolge delle
mansioni amministrative e istituzionali, che anzi occupano la maggior parte del suo
tempo.

Egli ha una formazione assolutamente umanistica, avendo come zio e precettore il più
celebre dei poeti latini della corte ferrarese, ossia Tito Vespasiano Strozzi.

Boiardo ha quindi una formazione a tutto tondo, che gli permette anche di cimentarsi
come traduttore: volgarizza su richiesta dei duchi testi greci e latini -soprattutto testi
storici-, sempre nel segno dello stretto legame tra politica e cultura, per cui vi è inte-
resse anche politico nel rendere fruibile la cultura elitaria umanistica.
N.B. Volgarizzamento: traduzione di un testo da greco/latino al volgare, poichè
inizialmente erano solo semplici traduzioni dal greco al latino.

Boiardo vive molto tempo alla corte di Ferrara, producendo in continuazione ogni sorta di
componimento (liriche, epigrammi, carmi,…) e celebrando il signore della sua epoca, os-
sia Ercole d’Este.
Da ricordare è poi la sua partecipazione nella rinascita del teatro laico.
Se infatti a Firenze rinasce la tradizione letteraria del greco, Ferrara è la capitale del teatro
moderno.
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N.B. Il teatro si era immobilizzato nel Medioevo, rimanendo unicamente nella
dimensione religiosa, come spettacolo religioso che rappresenta i momenti
principali dell’anno liturgico attraverso passi biblici o episodi esemplari.

A Ferrara si sviluppano quindi le prime commedie laiche in volgare, anch’esse inizial-


mente frutto di semplici traduzioni e adattamenti delle commedie latine di Plauto e Te-
renzio, salvo poi evolversi in un teatro autonomo e originale, con nuove forme teatrali che
sono proprie del tempo.
Boiardo scrive la commedia Timone, una delle primissime commedie in volgare scritte da
un dialogo di Luciano.

L’opera lirica più importante è l’Amorum libri, un canzoniere in volgare di liriche intreccia-
te in un’unica storia d’amore proprio sul modello petrarchesco.
Egli racconta il suo amore per Antonia Caprara, ma lo fa discostandosi dalla forma tragi-
ca e inappagata dell’amore petrarchesco: l’amore sperimentato dal Boiardo è un amor
fole, quindi un amore folle e connotato dalla dimensione sensuale e dalla realizzazione
sica della passione.
Vi è quindi una profonda innovazione tematica ma dentro una struttura tradizionale,
suddivisa nelle varie fasi che si incontrano nella passione amorosa (gelosia, rimpianto,
abbandono,…).

L’ Inamoramento de Orlando è un poema cavalleresco incompiuto, interrotto al terzo


libro e stilato in circa 30 anni, durante le svariate attività pratiche e letterarie che occu-
pavano Boiardo.
Solitamente i poemi o romanzi in versi avevano una divisione in canti, ossia capitoli posti
sullo stesso livello, tuttavia Boiardo applica una duplice divisione:
‣ Prima suddivisione in sezioni, dette libri
‣ Seconda suddivisione dei singoli libri in canti
L’opera è sopravvissuta in soli 3 libri, di cui l’ultimo è incompleto e si ferma a 9 canti,
mentre il primo libro è in 29 canti e il secondo in 31.

L’interruzione è ascrivibile al 1494, non solo per la certezza riguardo la data di morte del
Boiardo ma anche per l’ultima ottava del poema, che cita un fatto contingente all’epoca
del Boiardo, ossia la discesa in Italia dei “Galli” -le truppe francesi di Carlo VIII- e la con-
seguente devastazione.

La trama
L’opera tratta della cosiddetta “Bela historia”, ossia la storia riguardo la passione e
l’innamoramento di Orlando, il più famoso e valoroso tra i paladini della cerchia di Carlo
Magno, i quali sono intenti a combattere i Mori per mantenere unita la cristianità.

Tuttavia, qui il paladino non emerge nella sua dimensione di guerriero, bensì in quella
di amante, costituendo con la sua vicenda amorosa solamente il centro di una tta rete
di amori e passioni che coinvolgono gli altri paladini e personaggi.
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Boiardo mette in scena questa trama attentamente intessuta grazie ad un meccanismo
narrativo di origine francese chiamato entrelacement, una tecnica narrativa complessa
che non prevede una narrazione lineare, bensì una saldatura minuziosa di storie diver-
se, legate in maniera tale che una storia si sospenda ad un punto cruciale del suo
svolgimento e venga ripresa poi -dopo aver raccontato altre vicende di altri perso-
naggi- in quello stesso punto, e così via per tutte le vicende.

Con questo espediente narrativo si ottiene la percezione di un mondo caotico e com-


plesso, dove la cronologia naturalistica a cui siamo abituati de agra e le storie sem-
brano tendere all’in nito proprio per le loro continue interruzioni.
Il paradosso sta proprio nell’apparente sincronia delle vicende ma allo stesso tempo
nel loro sviluppo percepito come temporalmente illimitato.
N.B. Questo meccanismo verrà ripreso da Ariosto

Un altro elemento importante all’interno dell’opera -sul modello del Pulci- è la nzione
orale.
Il poeta canta una storia, non impiegando metafore del testo ma del racconto orale; ad
esempio i canti si interrompono con interventi autoritari, in cui si a erma di non po-
ter più “decantare” il racconto e di doverlo riprendere il giorno seguente, come se si
fosse davvero incastrati in una rappresentazione orale

Altro elemento -in questo caso comune anche agli altri poeti della corte estense, come
Ariosto- è la dimensione encomiastica.
Boiardo celebra gli Este, introducendo personaggi esterni alla tradizione carolingia, ma
inventati ad hoc come predecessori della dinastia estense, per nobilitarne i natali.
ES. come Enea padre della romanità
Boiardo introduce il cavaliere Ruggiero, discendente di Ettore e futuro progenitore
della famiglia d’Este. Egli è inizialmente pagano, ma destinato a convertirsi con Brada-
mante, madre della dinastia, in matrimonio.
N.B. Gli Este si smarcano dalla tradizione dispregiativa che li vedeva discendere
da Gano di Maganza, paladino cristiano traditore e fautore della morte dei pala-
dini a Roncisvalle.

1 Né altra possanza può mai far diffesa,


Signori e cavallier che ve adunati Che al fin non sia da Amor battuta e
Per odir cose dilettose e nove, presa.
Stati attenti e quïeti, ed ascoltati
La bella istoria che ’l mio canto muove; 3
E vedereti i gesti smisurati, Questa novella è nota a poca gente,
L’alta fatica e le mirabil prove Perché Turpino istesso la nascose,
Che fece il franco Orlando per amore Credendo forse a quel conte valente
Nel tempo del re Carlo imperatore. Esser le sue scritture dispettose,
Poi che contra ad Amor pur fu perdente
2 Colui che vinse tutte l’altre cose:
Non vi par già, signor, meraviglioso Dico di Orlando, il cavalliero adatto.
Odir cantar de Orlando inamorato, Non più parole ormai, veniamo al fatto.
Ché qualunche nel mondo è più orgo-
glioso,
È da Amor vinto, al tutto subiugato;
Né forte braccio, né ardire animoso,
Né scudo o maglia, né brando affilato,
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4 Né il brando, né il corsier puote acqui-
La vera istoria di Turpin ragiona stare;
Che regnava in la terra de orïente, Duo mercadanti erano coloro
Di là da l’India, un gran re di corona, Che vendean le sue merce troppo care:
Di stato e de ricchezze sì potente Però destina di passare in Franza
E sì gagliardo de la sua persona, Ed acquistarle con sua gran possanza.
Che tutto il mondo stimava nïente:
Gradasso nome avea quello amirante, 7
Che ha cor di drago e membra di gigan- Cento cinquanta millia cavallieri
te. Elesse di sua gente tutta quanta;
Né questi adoperar facea pensieri,
5 Perché lui solo a combatter se avanta
E sì come egli avviene a’ gran signori, Contra al re Carlo ed a tutti guerreri
Che pur quel voglion che non ponno ave- Che son credenti in nostra fede santa;
re, E lui soletto vincere e disfare
E quanto son difficultà maggiori Quanto il sol vede e quanto cinge il
La desïata cosa ad ottenere, mare.
Pongono il regno spesso in grandi errori,
Né posson quel che voglion possedere; 8
Così bramava quel pagan gagliardo Lassiam costor che a vella se ne vano,
Sol Durindana e ’l bon destrier Baiardo. Che sentirete poi ben la sua gionta;
E ritornamo in Francia a Carlo Mano,
6 Che e soi magni baron provede e conta;
Unde per tutto il suo gran tenitoro Imperò che ogni principe cristiano,
Fece la gente ne l’arme asembrare, Ogni duca e signore a lui se afronta
Ché ben sapeva lui che per tesoro Per una giostra che aveva ordinata
Allor di maggio, alla pasqua rosata.

L’incipit è costruito secondo gli obblighi retorici da rispettare (dichiarazione dell’og-


getto, del protagonista, del dove, del quando, riferimenti autoriali, ecc), ma Boiardo mo-
stra di aver operato una rivoluzione delle modalità narrative attraverso la fusione tra la
tradizione carolingia e la tradizione bretone, poichè parla di cavalieri innamorati e
calati in avventure anche fantastiche e parodiche, ma pur sempre in ambito cristiano e
franco.
Nel proemio viene presentato agli uditori della storia -consustanziali ai protagonisti del-
la storia, ossia sono signori e cavalieri anch’essi- il tema della vicenda.

Nell’incipit si parla dell'arrivo campo cristiano di Angelica, principessa del Catai che pa-
rodizza la donna angelo della tradizione con le sue caratteristiche siche e psicologi-
che: è infatti un’ingannatrice e adulatrice, che opera in maniera meschina ed egoista
per ottenere dei vantaggi personali.
Il tema ricorrente dell’incipit è quello dell’omnia vincit amor: l’amore vince su tutto ed è
riuscito ad insinuarsi anche nel cuore e nell’armatura di Orlando, che non può difen-
dersi in alcun modo da esso, ma solo farsi catturare e distruggere.

Viene menzionato Turpino, autore ttizio di tutte le opere cavalleresche, a cui l’autore
fa riferimento però in maniera ttizia, a ermando che quest’opera in particolare è stata
nascosta da Turpino stesso, temendo che la vicenda fosse poco gradita ad Orlando
stesso.
Il titolo
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Non si hanno certezze sul titolo autoriale, così dovendolo stabilire lologicamente si
hanno due possibilità:
• Orlando innamorato: titolo di matrice classica (nome del protagonista ed epiteto), ri-
calcato sul secondo verso della seconda ottava, come si trova nelle prime stampe
giunte a noi del poema.
• Inamoramento de Orlando, titolo assegnato a partire dall’edizione critica del 1999,
derivante da una lettera autografa scritta a Isabella d’Este, in cui Boiardo accenna
al poema e le dice che le leggerà presto il suo “Inamoramento di Orlando”.

Purtroppo, non sono sopravvissute stampe coeve al Boiardo:


‣ L’editio princeps del 1483 è andata perduta
‣ La prima edizione completa del 1495, allestita e commissionata dalla vedova del
poeta, è andata perduta.
Rimangono delle edizioni veneziane del 1487, e poi edizioni successive al 1495.

La mancanza delle prime edizioni sottolinea come questa fosse letteratura di consumo
e diletto, molto deperibile e utilizzata frequentemente: la stampa dell’opera -seppur
ridotta- è stata acquistata e successivamente conservata senza troppa cura, spesso
quindi dispersa.

La lingua
Boiardo proviene da un’area geogra ca lontana dalla veste linguistica toscano- o-
rentina, quindi scrive in una koinè padana, una lingua sovramunicipale con tratti comuni
al Nord Italia.
A seguito però dell’imposizione nel Cinquecento del modello toscano, l’opera del Boiardo
presentava una di cile leggibilità e quindi venne toscanizzata nel 1541 da Francesco
Berni.
Da quella forma si sono poi sviluppate tutte le edizioni successive, mentre solo nel 1830 il
lologo emiliano Antonio Panizzi ha fornito un’edizione ricostruita sulla base di alcune
stampe antiche.
Solo nel 1999 si ha in ne un recupero totale in tutti i minimi particolari -ad esempio le
scempie vengono mantenute tali- della lingua dell’opera.
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Ludovico Ariosto
Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia da una famiglia fortemente legata alla dinastia
estense, come Boiardo, e come quest’ultimo ha una formazione umanistica, anche se
meno globale.
Nel 1503 entra a servizio di Ippolito d’Este, fratello del duca, cardinale e vescovo di Ferra-
ra, quindi una gura profondamente legata allo Stato ponti cio, dedicatario del poema
cavalleresco che ha reso celebre Ariosto.
La sua produzione letteraria comincia con liriche in latino e volgare, per poi arrivare alla
lenta e complessa ideazione di quello che è la prosecuzione de l’Inamoramento de Or-
lando, ossia un poema cavalleresco che prenderà nome di Orlando furioso.

La sua posizione familiare gli impone di prendere una carriera politica, per cui assume
alcuni incarichi politici che lo portano fuori dall’orbita cortigiana ferrarese, precisamente
a stretto contatto con la Curia papale di papa Giulio II negli anni ’10.

N.B. Malgrado la sua posizione, Ariosto è capofamiglia di un nucleo famigliare nu-


merosissimo e avrà per tutta la vita dei grossi problemi economici

Nel 1517, per motivi personali-esistenziali, si ri uta di accompagnare Ippolito d’Este in


Ungheria, cosa che provocherà una rottura nel loro rapporto e un passaggio dell’Ariosto
al servizio del duca Alfonso I, evento che segnerà profondamente la sua carriera lettera-
ria e intellettuale.

Nel triennio 1522-1525 viene mandato come commissario in Garfagnana, una zona del-
l’appennino tosco-emiliano storicamente riottosa e piagata da gruppi di banditi.
A questo periodo risalgono le Satire, componimenti in terza rima in cui narra lo stress e la
di coltà di quel periodo.

➡ La stagione della commedi


Come Boiardo, è fortemente legato alla stagione teatrale ferrarese. Egli compone una se-
rie di commedie teatrali:
‣ La Cassaria (1508): ambientato nel mondo classico
‣ I Suppositi (1509): ambientato a Ferrara

Queste commedie seguono il modello classico della commedia plautina e terenziana:


vi è una coppia di innamorati ostacolata da qualcuno, spesso il padre di uno dei due; vi è
la gura del servo, aiutante e connotato positivamente; il nale è conciliante, sotto il se-
gno dell’amore e della lietezza.

Al rientro da Roma, la produzione teatrale risente positivamente del clima internazionale


respirato nella Curia papale e quindi Ariosto si apre a nuove modalità rappresentative, in-
nanzitutto con una riscrittura delle precedenti commedie sotto una nuova veste e la
composizione di altre commedie:
‣ Il Negromante
‣ La Lena (1528 e 1529): commedia più celebre, composta in endecasillabi sdruccioli
in occasione del Carnevale ferrarese.
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La trama parla di una vecchia prostituta ferrarese, sfruttata dal marito nullafacente che
continua a vivere alle sue spalle. Il suo intervento su una coppia di giovani innamorati
permette di mettere in mostra tutta la di coltà del vivere e la violenza dei rapporti in-
terpersonali nascosta dietro le apparenze di una Ferrara rinascimentale.
➡ L’Orlando Furioso
Quello per cui è più celebre Ariosto è quello che lui de nisce la Gionta al Boiardo, il pro-
getto lungo tutto una vita di continuare la storia interrottasi alla morte di Boiardo. L’opera
vede la luce per la prima volta nel 1516, a cui seguono altre due edizioni nel 1521 e 1532.
Sono tutte edizioni d’autore, sovrintese nella loro realizzazione concreta da Ariosto stes-
so.
N.B. Possedendo esemplari di ciascuna edizione, possiamo ricostruire una storia
lologica a stampa molto accurata.
In particolare:
‣ La prima e seconda edizione sono in 40 canti, mentre la terza è in 46
‣ Tutte le edizioni rimangono dedicate ad Ippolito d’Este, nonostante la rottura dei
rapporti.
‣ Possediamo solo 3 copie della seconda edizione, cosa che segnala una calorosa ac-
coglienza del pubblico: per questo tipo di letteratura de nita “di consumo”, la di-
spersione che segue l’uso indica generalmente un grande successo dell’opera.
‣ L’edizione de nitiva del ’32 è curata da Ariosto in ogni minimo particolare (tipo di
carta, impostazione del colofon, decorazione,…) e è stata pubblicata in due tirature
di erenti, che permettono un’analisi lologica ancora più accurata.
‣ Le prime due edizioni hanno una lingua impostata sul orentino letterario, ma su una
base sempre fortemente padana; nella terza edizione invece Ariosto aderisce alla ri-
forma attuata da Bembo e compie una profonda revisione linguistica, scelta che frutte-
rà dato che ne permetterà una fruizione su larga scala e un grande successo.
➡ La trama
La vicenda riprende appunto la guerra santa -già messa in scena da Boiardo- tra i pala-
dini di Carlo Magno, difensori della cristianità, e i saraceni al seguito di re Agramante.

Orlando, protagonista della vicenda, è ancora connotato nella sua dimensione di amante
ed è profondamente invaghito della bella principessa del Catai, Angelica. L’amore di
Orlando qui però raggiunge un nuovo livello, andando ad esacerbarsi in un sentimento
folle e distruttivo, che spinge il paladino ad azioni da pazzo e gesti estremi.

N.B. Ariosto gioca sull’autobiogra smo, andando a fare un parallelo tra la situa-
zione di Orlando e la propria: così come il paladino, anch’egli ha una vicenda
amorosa travagliata e folle che lo lega alla gura di Alessandra Benucci.

Dal poema del Boiardo rimangono anche Ruggiero e Bradamante, la coppia di innamo-
rati divisa dal destino e che funge da strumento di sviluppo del tema encomiastico del-
l’opera; in Boiardo questa celebrazione della casata D’Este era rimasta inconclusa, men-
tre in Ariosto troverà un lieto ne.
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È signi cativo inoltre che i 6 canti ulteriori della terza edizione -intrecciati abilmente
nella storia preesistente e non semplicemente giustapposti alla ne- contengano al loro
interno 4 dei più celebri episodi della trama arrostisca:
‣ Episodio di Orlando e Olimpia (Canti IX-XI): Olimpia viene abbandonata dal per do
danzato in un’isola deserta, per poi essere salvata da Orlando, che alla ne la ritrove-
rà di nuovo nuda ed esposta ai pericoli di un’Orca su un’isola del nord, nuda, esposta
ad un’Orca.

N.B. Questo episodio è il frutto della fusione di due grandi modelli mitologici
classici: Arianna abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso e il mito di Andromeda,
esposta nuda su uno scoglio, destinata a diventare pasto per un mostro mitologico
e salvata da Perseo.

L’episodio va poi a ricalcare un episodio già presente nelle precedenti edizioni, quan-
do Angelica si trova nuda ed esposta allo stesso mostro marino. Le due donne vengono
rispettivamente salvate da due eroi -Rinaldo salva Angelica e Orlando salva Olimpia- e
la trama duplicata crea dei nessi di signi cato tra i personaggi.
‣ Rocca di Tristano (canti XXXII-XXXIII)
‣ Episodio di Marganorre (canto XXXVII)
‣ Ruggiero e Leone (canti XLIV-XLVI)

➡ La struttura e i temi
Anche il Furioso, così come l’Inamoramento è costruito sulla tecnica narrativa dell’entra-
lacement, esplicitata nella metafora dei li di tessuto (canto II, ottava 30) che sottoli-
nea il lavorio e la tecnica dell’Ariosto. La struttura complessiva del poema apparentemen-
te è centrifuga e caotica, tuttavia è attentamente controllata dalla regia di Ariosto che è
in grado di portare ogni lo narrativo alla sua conclusione.

I 46 canti possono essere divisi in 4 blocchi simili tra loro, in una struttura volutamente
chiastica, poichè i due blocchi estremi hanno entrambi 12 canti.
‣ Il blocco iniziale di 12 canti si conclude con l’episodio del castello di Atlante e con la
perdizione dei paladini
‣ Il secondo blocco di 11 canti si conclude con la follia di Orlando, tema dell’opera nella
sua organicità.
‣ Il terzo blocco di 11 canti si conclude con il viaggio di Astolfo sulla Luna alla ricerca
del sennò di Orlando
‣ Il quarto blocco si conclude con un’immagine di Ariosto atteso dagli altri letterati al
compimento della sua impresa letteraria.

Analizzando la conclusione dei primi tre blocchi, emerge come centrale il tema della fol-
lia:
‣ Al centro del Castello di Atlante c’è la falsa convinzione da parte di tutti i cavalieri di
avere trovato ciò che stanno cercando
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‣ Nell’episodio di Orlando è proprio la follia l’unica tematica.
‣ Nell’episodio di Astolfo egli va sulla Luna a cercare l’ampolla che contiene il senno di
Orlando, per curarlo dalla follia.
Naturalmente la follia si incarna primariamente nella vicenda individuale di Orlando che
perde il senno per amore, ma è un tema che attraversa tutti i protagonisti del poema.
Questo tema di spessore loso co è al centro della ri essione negativa dell’Ariosto: in-
uenzato dalla loso a classica tardo-antica, Ariosoto crede che l’uomo perde il senno
ogni volta che insegue ambizioni che non può ottenere, esterne a sé, che lo portano
ad abbandonare l’ideale oraziano metriotes, la giusta misura personale oltre cui non
eccedere.

Questo concetto di follia umana è riassunto da una celebre ottava del canto XXXIV. La
Luna come satellite e pianeta opposto alla Terra è il luogo dove si trova tutto ciò che si è
perduto sulla Terra, Astolfo viene mandato sulla Luna -satellite e pianeta opposto alla Ter-
ra, quindi dove si trova tutto ciò che viene perduto qui- a recuperare il senno di Orlando
impazzito, ma trova anche altre cose, tutte connotate dalla loro vanità e dalla loro perdi-
ta. La prima cosa che si trova sono le lacrime e i sospiri degli amanti, ad indicare che la
prima delle follie dell’uomo è quella di credere nell’eternità e unicità dell’amore.
➡ L’inizio della follia
La follia di Orlando è sì una follia radicale e in sè e per sè, ma deriva da un evento scate-
nante: inseguendo Mandricardo, egli si imbatte per caso in una radura con un ruscel-
lo, entrando nella grotta vicino alla fonte, sui cui muri sono state lasciate le scritte
d’amore di Angelica e Medoro. Ogni lettera incisa è come un chiodo, una visione con-
creta dell’amoreggiamento dei due amanti con cui il dio Amore punisce e lacera Orlando,
portandolo alla follia.

Angelica infatti si era imbattuta in un umile fante pagano, bellissimo e ferito, ossia Medo-
ro, di cui si era subito invaghita. Dopo averlo curato, i due si erano uniti sessualmente
nella grotta -topos del locus amoenus-, avevano inciso i loro nomi sulla pietra in
mezzo a dei cuori e poi si erano sposati.

N.B. Vi è un rimando al topos della grotta classica come luogo d’incontro amoroso,
come in Didone ed Enea

Orlando si trova dunque di fronte alla dura realtà: la donna di cui è innamorato e che
crede lo ricambi, in realtà si è sposata con un umile fante. Egli cerca di persuadersi cir-
ca la reale situazione delle cose, inizialmente pensando che non sia la sua Angelica
quella che ha inciso il suo nome, bensì un’omonima, poi accettando il fatto che sia la sua
Angelica, ma convincendosi allora che Medoro sia uno pseudonimo con cui ella si riferi-
sce a lui stesso; tuttavia il sospetto si rinnova continuamente in lui, intrappolandolo nella
sua ossessione

N.B. La similitudine con l’uccello che rimane bloccato nel vischio è già presente in
Guinizzelli.
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Un aspetto signi cativo è quello legato allo sviluppo della follia attraverso l’atto della
lettura: Orlando è poliglotta e riesce a leggere le scritture straniere dei pagani, in un cli-
max ascendente di frustrazione dopo ogni parola scritta che legge.

Ariosto propone quindi l’idea che la conoscenza non porta alla felicità né è uno stru-
mento da opporre alla follia, ma anzi spesso ne fa da ampli catore. Il saggio è quindi
incarnato dall’ignorante, nel senso di non essere a conoscenza: Rinaldo, per esempio,
decide di non bere dal calice -il cosiddetto nappo- bevendo dal quale ogni uomo può ac-
certarsi della fedeltà della sua amata; tutti impazziscono dal dolore dopo aver bevuto,
tranne Rinaldo, capace di preservare se stesso e dotato di metriotes.

Orlando quindi legge e rilegge, non crede a quello che legge e rimane attonito di fronte
alla pietra della roccia, e man mano sente il cuore stretto da una mano fredda. Egli si la-
scia coinvolgere dal dolore, rimanendo senza voce né lacrime.
N.B. Ariosto interviene per dare una constatazione amorosa, che riprende bene la
matrice autobiogra ca su cui l’opera gioca.
L’autore interviene in prima persona.
Il dolore lo riempie completamente ma non riesce a fuoriuscire in alcun modo, se non
completamente in un unico istante. Vi è una similitudine tra il dolore psicologico e la
pressione dell’acqua: così come il dolore interno non trova via d’uscita nel grido o nel
pianto, così l’acqua non trova via d’uscita in un alambicco dal collo stretto, ma può solo
stillare in gocce.
Orlando ha però un altro sussulto di coscienza, si riprende un attimo e cerca una soluzio-
ne che neghi l’evidenza.
Come ultima ipotesi crede che qualcuno abbia voluto infangare il nome di Angelica,
magari per di amare lui stesso. Orlando però conosce la scrittura di Angelica e quindi
si convince che il dispettoso incisore abbia saputo copiare la gra a della principessa.
N.B. Anche qui, la conoscenza della gra a reca ulteriore di coltà nell’illudersi e
ulteriore dolore.

➡ L’ironia e armonia ariostesche


Benedetto Croce ha coniato la formula armonia ariostesca, per esprimere come Ariosto
riesca attraverso questa armonia formale a descrivere in maniera sostanziale e tota-
lizzante il Rinascimento italiano, scrivendo un poema che è un’interpretazione matura e
positiva dell’età rinascimentale.
Nella lettura di Croce, Ariosto rappresenta l’emblema dell’uomo rinascimentale che
assume in sé la dimensione classica-umanistica, scegliendo la letteratura come forma
di compensazione, di superamento del caos politico dell’epoca, e come sublimazione
dell’intera esistenza.
Tuttavia negli ultimi anni la critica è propensa a seguire l’idea proposta dallo studioso ita-
lo-americano Albert R. Ascoli nel suo saggio “Ariosto’s bitter Harmony” (1987), dove
viene messa in rilievo di una visione pessimistica, amara e cupa della realtà da parte di
Ariosto. Egli non è più visto come campione di un ideale rinascimentale di positività e
coesione, bensì come un poeta che mette continuamente in scena l’impossibilità umana
di raggiungere i propri desideri e la continua messa in ridicolo di qualsiasi ambizio-
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ne dell’uomo ad essere padrone della propria esistenza, o di approdare a qualche
forma di verità.

La follia di Orlando è giocata attorno alla grande chiave di lettura dell’opera, ossia l’iro-
nia. L’ironia è di per sè un processo retorico di distanziamento, tramite il quale si af-
ferma un concetto molto diverso e distante da quello della lettera del testo.

L’ironia di Ariosto sta quindi nell’atteggiamento disincantato con cui vengono descritte
le vicende, distanziandosi da quella visione del mondo: tramite l’ironia, Ariosto infatti
propone una visione disillusa e pessimistica del mondo, per cui la conoscenza uma-
na ha dei limiti e per cui la pretesa umanistica di conoscere appieno il mondo e
l’uomo sia destinata a fallire.

La mancata consapevolezza dei propri limiti è proprio la radice della follia: Orlando
impazzisce poichè non è in grado di dominare un fatto reale, secondo il concetto di Bitter
Harmony appunto.
➡ Il romanzesco
Alla base della teoria del romanzo di Bachtin sta l’assunto per cui il romanzo è il genere
della modernità poichè funge da cartina tornasole della realtà stessa, assorbendo
tendenze reali e generi letterari, prospettandosi in un continuo divenire, in una polimor a.
Il Furioso rappresenta appieno questo concetto, motivo per cui può essere de nito anche
romanzo cavalleresco: al suo interno coesistono elementi di epica, di lirica (i lamenti
d’amore), di elegia (amore sospeso di Bradamante, in attesa di compimento), di novelli-
stica (vi sono racconti di secondo grado), di comicità. fi
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Torquato Tasso e la Gerusalemme liberat
Torquato Tasso è glio d’arte, infatti il padre Bernardo era uno dei più importanti poeti
del Cinquecento, la cui ombra coprirà per molto tempo quella del glio.
La sua formazione ed esperienza biogra ca è di erente, poiché ha una vita errabonda,
di corte in corte, che ben ri ette la crisi cortigiana della sua epoca.

Tasso ha una formazione loso ca aristotelica, che rimane al centro della sua poetica
nella stesura delle opere.
Come ogni poeta del suo tempo, l’esordio di Tasso è lirico
N.B. L’esperienza lirica è palestra letteraria di molti intellettuali, poichè è ca-
nonizzata e anche perché è la forma più normata, dotata di un amplissimo ba-
cino topico e di precisi con ni metrici da seguire (sonetto, madrigale, ballata, ecc)

Successivamente passa al poema cavalleresco, con la composizione nel 1562 del


poema cavalleresco Rinaldo, che racconta vicende inedite della giovinezza del paladi-
no, secondo un modulo tipico dei cantari cavallereschi che permette di ampliare il ca-
none di invenzione.
Tasso scrive 12 libri, secondo una simbologia numerica non casuale ma che vuole far
transitare il poema cavalleresco verso una ripresa dell’epica classica.
N.B. L’Eneide ha 12 libri, Iliade e Odissea ne hanno 24 l’uno
A questo si accompagna un impiego preciso dei principi aristotelici (le 3 “unità”: tem-
po, spazio, azione; regolano lo svolgimento delle tragedie secondo una normativa della
materia narrata), così che il poema acquista un suo perimetro ben preciso contrappo-
sto al “disordine” che invece domina i poemi cavallereschi di Boiardo o Ariosto, co-
struiti secondo un accumulo apparentemente casuale di vicende, organizzate secondo
l’entrelacement

Tasso porta infatti avanti anche una ri essione teorico-critica oltre che pratica
Nei Discorsi dell’arte poetica (1562-1564), Tasso ri ette sulle caratteristiche del nuo-
vo poema epico-cavalleresco. L’opera si compone di 3 libri, suddivisi in base alla tratta-
zione di inventio, dispositio ed elocutio:

• Primo libro
è dedicato al tema, all’argomento, de nito verosimile: un argomento vero nel-
la sua apparenza ma lontano nel tempo, in tal modo da poter inserire elementi di
invenzione. Questa dimensione fantastica poi diventerà nella Gerusalemme liberata
il cosiddetto “meraviglioso cristiano”: sulla vicenda storica della prima crociata
vengono innestati degli elementi poetici, risultanti verosimili poichè frammisti al
dato storico reale e non decriptabili in maniera immediata.
• Secondo libro
è dedicato alla struttura testuale, secondo l’unità mista: l’unità di azione aristo-
telica viene declinata in maniera elastica, secondo lo schema di una storia portan-
te su cui si innestano vicende digressive ma comunque solidali e non quindi
super ue alla vicenda. Tasso lo teorizza con l’immagine del “picciolo mondo”:
l’opera letteraria è un ecosistema coeso di vicende

• Terzo libro
si occupa dello stile, della forma: Tasso teorizza uno stile alto e magni co, gio-
cato sulle gure retoriche dell’opposizione e del parallelismo.
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Tasso vive presso la corte estense a Ferrara dal 1565 al 1579: inizialmente la conviven-
za è felice, Tasso entra al servizio del duca Luigi e poi di Alfonso III.

Egli compone l’Aminta (1573), esempio più celebre e riuscito (dopo l’Orfeo di Poliziano)
di dramma teatrale pastorale: favola pastorale in forma di tragi-commedia —ossia il
terzo genere teatrale dell’antichità— che ha per oggetto storie mitologiche e pastorali.
ES. Il Ciclope di Euripide
L’opera si svolge in 5 atti e racconta la storia d’amore tra il pastore Aminta e la ninfa
Silvia. È una storia chiaroscurale, senza esiti felici ma anzi dominata dal con itto.
Altri due personaggi sono Tirsi e Dafne, coppia in parallelo a Silvia e Aminta.
N.B. Le vicende bucoliche sono rappresentazioni manierali di eventi reali.

Sempre a Ferrara, Tasso compie anche la tragedia Re Torrismondo e poi il celebre poe-
ma della Gerusalemme liberata.
N.B. Questa attenzione verso la materia teatrale ri ette il gusto tipico della corte
ferrarese.

➡ La Gerusalemme Liberata
La Gerusalemme liberata è un’opera che è stata canonizzata ed inserita nella tradizio-
ne in una forma spuria e non approvata dall’autore, rendendola un unicum letterario.
Le prime prove della Gerusalemme risalgono al 1559-1560, quindi parallelamente alla
composizione del Rinaldo. Il primo abbozzo porta il titolo di Gierusalemme e ne riman-
gono 116 ottave.

La conclusione dell’opera arriva solo nel 1575, poichè Tasso inizia la cosiddetta “revi-
sione romana” (1575-1576) : Tasso, schiacciato dalle ansie controriformistiche, sot-
topone il proprio poema al giudizio di una serie di intellettuali (come Sperone Speroni)
e ne rimane traccia nelle Lettere poetiche, una corrispondenza letteraria che testimonia il
logorio mentale di Tasso, il quale entrerà in una crisi profonda tale da spingerlo a ri u-
tare la stampa del poema e rivederlo maniacalmente.

Il poema però riesce a fuoriuscire in maniera parziale, con due edizioni anche integrali:
• Edizione 1581
• Edizione 1584
Nel frattempo Tasso, vittima di questa angoscia esistenziale, viene rinchiuso dai signori
di Ferrara a S. Anna, una prigione psichiatrica dove sarà costretto a stare dal 1579
al 1586.

Tasso intanto riscrive l’opera no all’edizione u ciale, edita nel 1593 sotto il nome di
Gerusalemme conquistata.
L’opera si presenta con una facies testuale completamente diversa e revisionata ri-
spetto alla Liberata, poiché ad esempio le gure femminili sono ridotte e viene elimi-
nato l’aspetto topico del meraviglioso cristiano e pagano, oltre che all’argomento ero-
tico dell’opera.
Vengono però ampliate le ri essione loso co-religiose e i fatti storici, così che la
dimensione allegorica acquista una posizione dominante nell’opera.
N.B. La Liberata è in 20 canti, mentre la Conquistata è in 24, secondo il model-
lo classico.
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Tasso stende anche parallelamente una revisione dei Discorsi, riproposti come Di-
scorsi del poema eroico, un trattato unicamente concentrato sul “poema eroico”.
La ri essione sul poema epico-cavalleresco trova la sua sintesi nel poema eroico, ciò ri-
guardante la gura dell’eroe, rappresentante ideale dei principi della Controriforma.

La Liberata ha una composizione atipica (20 canti), acuita dal fatto che l’acme della
vicenda non si concretizza a metà poema, bensì al 13esimo canto.
La prima parte si concentra sulla crisi dell’esercito cristiano, fermo ad assediare Geru-
salemme all’ultimo anno di battaglia della crociata.
Allo stallo tattico-militare corrisponde un allontanamento centrifugo dei paladini.
La seconda parte racconta il ritorno dei vari paladini nel campo cristiano, lo sciogli-
mento dell’incanto della selva e in ne la vittoria e la conquista del Santo Sepolcro.

In questa struttura, seguendo i principi dell’arte retorica:


• Evento storico concreto: Prima crociata (1095-1099), segue le vicende di Go redo
di Buglione, ricostruito attraverso le cronache storiche pervenute al Tasso.
• Unità di tempo: si concentra nel 1099, ultimo anno di guerra
• Unità di spazio: accampamento ed assedio nei dintorni di Gerusalemme, con
sviamenti nelle digressioni sui singoli paladini.
• Unità di azione: l’impresa militare della crociata stessa.

Nell’opera c’è anche una strutturazione precisa degli schieramenti, con una netta suddi-
visione tra bene e male: l’esercito pagano è legato alla dimensione satanica, contrappo-
sta al bene cristiano.
In particolare le coppie opposte sono:
• Dio-Plutone: vi è una commistione tra sfera cristiana e pagana, con Allah che assume
i tratti del dio pagano Plutone.
• Mago d’Ascalona-Mago Ismeno
• Go redo-Aladino (re di Gerusalemme)
• Rinaldo e Tancredi-Argante e Solimano
• Sofronia-Armida, Clorinda, Erminia: Sofronia è una vergine cristiana condannata al
rogo e poi salvata da Clorinda, al centro di una vicenda amorosa casta e pura, in cui si
autoaccusa di essere colpevole di un delitto per salvare i compagni.
N.B. La sovrabbondanza del femminile pagano rispecchia tre sfaccettature
della gura femminile:
- Armida è la maga pagana, seduttrice e subdola
- Clorinda è la gura topica della donna guerriera, lontana dall’amore e sim-
bolo della conversione nale di Tancredi
- Erminia è la timida vergine, innamorata di Tancredi.
L’amore nell’opera è un amore teso e sempre incanalato nelle gure femminili, ma ir-
realizzabile, mai felicemente compiuto.
N.B. Il femminile è quindi una potenzialità già annullata nella vicenda, e poi ma-
terialmente rimosso nella riscrittura della Conquistata.

Nell’opera gli elementi positivi riguardano la dimensione statica, mentre la devianza


dinamica è connotata in senso negativo: ogni vicenda che esce dalle unità è connotata
come un errore morale e quindi un peccato.
N.B. In Boiardo e Ariosto questo aspetto è quasi assente, anzi la tendenza domi-
nante è quella caotica e centrifuga.
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Tuttavia, le parti narrative più interessanti al pubblico risultano essere proprio le de-
viazioni dalla vicenda principale.
Questo non solo per il cambio del paradigma culturale, ma anche perché nel poema vi è
infatti una tangibile fascinazione di Tasso verso quegli snodi irrisolti che egli con-
danna come autore.
Il tema della frustrazione del desiderio è un tema ricorrente, declinato in un senso pe-
sante di autocastrazione dei desideri personali a ne morale, assoggettati alla norma
e al desiderio collettivo, al ne ultimo: la riconquista del Sepolcro.

Lo stile è nettamente diverso dai precedenti: i meccanismi retorici delle ottave del Tas-
so sono diversi dall’Ariosto, in quanto l’autore gioca continuamente sulla frammentazio-
ne del ritmo dell’ottava, secondo il “parlar disgiunto”; lo stile non gioca quindi sui pa-
rallelismi, bensì sui contrasti forniti da gure retoriche come il chiasmo, la ripetizione,
l’anastrofe.
Il lessico è molto alto e de nito “peregrino”, molto ricercato e a tratti astruso.

➡ Dal Proemio
1 tu spira al petto mio celesti ardori,
Canto l'arme pietose e 'l capitano tu rischiara il mio canto, e tu perdona
che 'l gran sepolcro liberò di Cristo. s'intesso fregi al ver, s'adorno in parte
Molto egli oprò co 'l senno e con la mano, d'altri diletti, che de' tuoi le carte.
molto soffrì nel glorioso acquisto; 3.
e in van l'Inferno vi s'oppose, e in vano Sai che là corre il mondo ove più versi
s'armò d'Asia e di Libia il popol misto. di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi e che 'l vero, condito in molli versi,
segni ridusse i suoi compagni erranti. i più schivi allettando ha persuaso.
2 Così a l'egro fanciul porgiamo aspersi
O Musa, tu che di caduchi allori di soavi licor gli orli del vaso:
non circondi la fronte in Elicona, succhi amari ingannato intanto ei beve,
ma su nel cielo infra i beati cori e da l'inganno suo vita riceve.
hai di stelle immortali aurea corona,

L’inizio è solenne, concentrato sul canto, tipico del poema epico e di rimando all’Eneide,
ma anche un rimando all’oralità.

Nella prima ottava vi è l’esposizione del tema:


‣ Si annuncia subito che il tema è militare e cavalleresco, legato ad un unico “capitano”
ossia Go redo di Buglione, contrapposto ai “compagni erranti” conclusivo
N.B. Ogni deviazione, dinamismo, erranza è connotato nel segno dell’errore, della
negatività, legata all’Islam
‣ L’azione bellica è sotto il segno della ratio (“senno”) e della so erenza legata all’im-
presa
‣ Gli ultimi quattro versi sono legati alla dimensione negativa e caotica: all’unico capita-
no si oppone il “popol misto” e “l’Inferno”, sottolineando l’eterogeneità del nemico
contrapposta alla compattezza dell’esercito cristiano.
Go redo vince ricompattando i “compagni erranti”, ossia i paladini che si erano disper-
si, e li riunisce sotto le insegne crociate della cristianità.
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N.B. Duplice accezione dell’errare, nella sua semantica: sia sico sia morale-
etico inteso come devianza dal valore cristiano.

Nella seconda ottava vi è l’invocazione alla Musa, ma di stampo cristiano-mariano: è


cristiana, ospitata tra i beati e agghindata con una corona di stelle, e non con una
corona di alloro.
L’invocazione, secondo il topos canonico della richiesta d’aiuto per avere ispirazione, ha
ancora 3 richieste, associate anche a 3 livelli retorici:
✦ Ispirami—> contenuto
N.B. Verso che echeggia al primo canto del Paradiso
✦ “rischiara il mio canto” —> forma
✦ Perdona la nzione
Questa richiesta che si discosta dalla tradizione, in cui Tasso si scusa per aver inserito
il meraviglioso, modalità di allietamento del lettore.
N.B. Questo tema verrà ripreso da un altro letterato come Manzoni, che ri etterà
sul vero e sull’oggetto della poesia

Nella terza ottava vi è una similitudine con cui Tasso giusti ca la dimensione di diletto:
così come si intinge di qualcosa di dolce il bicchiere di un bambino malato per fargli
bere la medicina, così si fa con la poesia.
In questo caso il bambino malato è un uomo malato, corrotto nella morale, che va indiriz-
zato verso il bene.
N.B. Vi è una ripresa da Lucrezio dell’immagine del miele (nella stessa posizione
in cui sta nel De rerum natura)
Dietro questa ripresa classica sta la concezione di una poesia (il “lusinghier Parnaso”)
che porta con sè l’utile e la verità, non solamente con una nalità di diletto.

Gli incipit dei modelli precedenti sono simili: Tasso rinnova il poema cavalleresco ma
mantiene una memoria letteraria ineludibile per quanto riguarda Boiardo e Ariosto
soprattutto.

Alla pluralità ariostesca, emblema dell’opera, contrappone la sua unità, nel segno del
Capitano Go redo.
—> le donne, i cavalier, l’arme, gli amor…. Il capitano
Al diletto di Boiardo, contrappone invece l’utilità della letteratura
—>signori e cavalier, per odio cose dilettose…. Il capitano

Lo scarto del Tasso non è solo la connotazione etica-morale negativa dell’amore, un


amore castrato, ma parallelamente vi è un approfondimento psicologico assente in
precedenza, andando a narrare l’interiorità di queste donne e facendo emergere una di-
mensione di fascinazione del proibito che risulta tanto più marcata e godibile, quanto
più è oppressa e negata.
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➡ Dal Canto 12, ottave 57, 64-66 — Il duello tra Tancredi e Clorinda
57 65
Tre volte il cavalier la donna stringe Segue egli la vittoria, e la trafitta
con le robuste braccia, ed altrettante vergine minacciando incalza e preme.
da que' nodi tenaci ella si scinge, Ella, mentre cadea, la voce afflitta
nodi di fer nemico e non d'amante. movendo, disse le parole estreme;
Tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge parole ch'a lei novo uno spirto ditta,
con molte piaghe; e stanco ed anelante spirto di fé, di carità, di speme:
e questi e quegli al fin pur si ritira, virtù ch'or Dio le infonde, e se rubella
e dopo lungo faticar respira. in vita fu, la vuole in morte ancella.
2 66
64 – Amico, hai vinto: io ti perdon...perdona
Ma ecco omai l'ora fatale è giunta tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
che 'l viver di Clorinda al suo fin deve. a l'alma sì; deh! per lei prega, e dona
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta battesmo a me ch'ogni mia colpa lave. –
che vi s'immerge e 'l sangue avido beve; In queste voci languide risuona
e la veste, che d'or vago trapunta un non so che di flebile e soave
le mammelle stringea tenera e leve, ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
l'empie d'un caldo fiume. Ella già sente e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
morirsi, e 'l piè le manca egro e languente.

Premessa: Tancredi, paladino di spicco, vede la prima volta Clorinda, principessa


etiope e guerriera, quando ella, vestita da paladino, si slaccia l’armatura per abbeve-
rarsi ad un ruscello, che richiama il topos del locus amoenus.
N.B. La femminilità di Clorinda riesce comunque ad emergere attraverso la conno-
tazione dell’armatura, che risplende argentea.
In un duello in singolar tenzone, Tancredi si scontra poi con Clorinda, di cui si è inna-
morato. Tancredi non la riconosce poichè Erminia, gelosa, ha rubato la sua caratteri-
stica armatura a Clorinda, che quindi ne indossa un’altra scura.
Tancredi combatte col nemico e lo uccide. Clorinda si rivolge, ferita a morte, a Tancredi
per poter ricevere il battesimo, egli le toglie l’elmo e la riconosce.

Il duello è costruito su modelli topici ricorrenti: due cavalieri che combattono per lun-
go tempo da soli, alla ne uno dei due soccombe non per debolezza ma per volere della
sorte.
N.B. La morte di Clorinda è voluta da Dio, che vuole per lei la conversione e la
salvezza

È un duello tragico, rei cazione concreta di una metafora sulla battaglia d’amore: at-
traverso il duello Tasso concretizza questa lotta d’amore, che evoca il contatto amoro-
so-erotico che i due non avranno mai, entrando a contatto sico solo nel momento del-
la morte, dell’uccisione.
La battaglia è quindi un’an bologia, un’allusione al contatto erotico-amoroso
N.B. Il tema dell’Eros e Thanatos è reso qui con una dimensione concreta che
allude invece a quella sessuale metaforica, con un ribaltamento del modulo tra-
dizionale
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I tratti di erotismo sono:
• Dispositio: il cavalier la donna stringe
• Nodi tenaci: abbracci erotici
• La spada ha una valenza sessuale, che allude a quell’ossimoro successivo dell’ot-
tava 65 “tra tta vergine”. La penetrazione è poi ovviamente allusiva all’atto sessuale,
con una forte connotazione concentrata nell’ottava 64

Clorinda è quindi tra tta a morte, ma perdona l’uccisore e nalmente, mossa da uno spi-
rito nuovo, uno spirito di fede, carità e speranza (3 virtù teologali), ossia Dio, chiede
qualcosa per la sua anima, per salvarsi.
N.B. Ottava 65: “ditta” è richiamo dantesco
“Rubella” e “ancella” marcano il destino della donna pagana nell’opera: pos-
sono riscattarsi solo attraverso la sottomissione ad un uomo che diventa salvatore;
Tancredi ne uccide il corpo ma ne salva l’anima.

Tancredi è turbato e commosso dal languore delle parole, ancora prima di avere una
completa agnizione scoprendole l’elmo, a dimostrazione della ra natezza psicologica dei
personaggi di Tasso.

! Secondo un modulo tradizionale, Clorinda chiede il battesimo poichè ha una sorta di


agnizione sulle sue origini.
Pur essendo etiope, è nata albina e con i capelli biondi e quindi la madre, temendo di
essere tacciata di tradimento, la abbandona e la sostituisce con una bimba di colore.
Clorinda viene quindi cresciuta da un servo, con la richiesta della madre di battezzar-
la e di farla crescere cristiana. Tuttavia Clorinda viene cresciuta come musulmana e
solo prima della battaglia, quando il servo è ormai vecchio, scopre le sue origini e la
sua vera fede.
Il battesimo segue quindi come conseguenza allo shock della scoperta della sua condi-
zione originaria.
Clorinda è protetta da S. Giorgio, che è protettore di Ferrara ma soprattutto è un pa-
ladino e guerriero per antonomasia, fatto che spiega la vocazione militare della vergine
amazzone.
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