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Il Racconto dell’

dell’Albero
Som
Sommerso

di Eli Daddio
Il Racconto dell’Albero Sommerso 2008
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Copyright © 2008 Eli Daddio


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Ultima Revisione: Aprile 2008

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Il Racconto dell’Albero Sommerso 2008
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Prefazione
Ormai è passato qualche anno da quando io ed Eli abbiamo lavorato insieme a questo racconto. Era-
vamo ancora entrambi alle scuole superiori, maggio del 2003, infatti il racconto stesso è stato scritto
per un concorso scolastico.
Un bel giorno Eli mi chiama e mi dice che la sua insegnante di italiano gli ha proposto di partecipare a
questo concorso a scuola in cui si doveva presentare un racconto breve o una poesia su un dato tema,
e che può essere una buona possibilità per iniziare a farsi un nome, dato che il suo sogno è sempre sta-
to quello di diventare uno scrittore affermato, e secondo me ha tutto il talento necessario. Aveva un
solo problema, il tema: “I luoghi della memoria e del cuore”.
Questo è quello che dice ora a riguardo: “Quando mi diedero la traccia, io mi chiesi: ma cosa può mai
significare? La risposta è: nulla. Era solo la traccia di un concorso truccato: meno significato aveva la
traccia, più facile sarebbe stato per i membri di quella scuola vincere il premio.
Infatti il concorso era stato bandito da un’altra scuola, di cui ora nessuno di noi due si ricorda né il
nome né il paese.
In ogni caso la cosa che più ricordiamo è che il concorso era palesemente truccato; non solo per il
fatto che a vincere i premi furono tutti membri di quella scuola, ma per il fatto ancora più eclatante
che un membro della giuria non accorgendosi che aveva il microfono ancora acceso, quando venne
nominato questo racconto per il premio di consolazione si lasciò scappare queste testuali parole: “Però
che peccato, questo racconto era sicuramente il migliore e meritava di vincere.
Questo a dimostrare la meritocrazia che c’è in Italia ed in particolare in Campania.
Per gli scettici che non ci volessero credere dovremmo avere anche un video della premiazione na-
scosto da qualche parte.
Comunque non volendo fare un’analisi sull’attuale situazione meritocratica in Italia continuo a rac-
contarvi di come è venuta fuori la storia.
Praticamente a questo punto Eli viene a casa e iniziano a pensare al tipo di racconto da fare… ecco il
sunto dei pensieri di Eli: “Mi applicai con caparbietà e feci questo ragionamento: i luoghi della memo-
ria eccetera, fa pensare a un luogo lontano, perduto. Magari uno cui si guarda con nostalgia. Quindi
non ci si può tornare, no? Allora mi sono detto: questi qui si aspettano qualche stupidaggine del tipo
Salvatore che manca dalla Sicilia da trent’anni per fare il metalmeccanico a Perugia, ma a me storie co-
sì ammorbano. Mi sono detto invece: pensa a un posto che non potrai mai ma proprio mai più rag-
giungere in nessun modo. Atlantide! Ottimo! Feci quindi una profonda seduta di brainstorming con il
mio caro amico, dalla quale tirai fuori questa storia.
Ovviamente cercammo di adattare il tema ad un campo che ci era molto più familiare: il fantasy.
Così dopo un’intera giornata a scrivere appunti, tra alberi di “pappacefalo” e altri strani termini frutto
del brainstorming, uscì la prima bozza di racconto poi raffinata e rivista.
In ogni caso, dopo averla rispolverata ultimamente io ed Eli ci siamo detti: perché non sistemarla e
pubblicarla su internet, dato che è una storia veramente carina? Detto, fatto.
Dopo questa piccola prefazione (che per un racconto così piccolo direi anche esagerata), vi lascio al
racconto. Buona lettura!

Luca Porrino

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Il Racconto dell’Albero Sommerso


di Eli Daddio

L
e acque del Mediterraneo lambivano dolcemente la costa, lungo la quale sorgeva
un piccolo villaggio di pescatori, identico ed indistinguibile da qualunque altro. Un
bambino, piccolo e magro, stava correndo allegramente per la spiaggia sfrecciando
accanto alle barche dei pescatori, mentre altri bambini lo seguivano ridendo. Im-
provvisamente, il bambino si fermò, tenendo lo sguardo fisso verso l’orizzonte, do-
ve scorse qualcosa; era un uomo, ormai di età molto avanzata, prostrato da evidenti fatiche, vesti-
to di stracci e con i segni di molte avventure sulla pelle, bruciata dal sole, quando il vecchio vacillò
sulle gambe malferme e cadde riverso sulla sabbia umida della sera. Il bambino corse a chiamare i
suoi genitori, che lo presero e portarono al villaggio. Ripresosi, diverse ore dopo, si ritrovò steso su
una pelliccia calda nella capanna principale del villaggio dove, per la notte, la gente del villaggio si
era riunita per bere e chiacchierare. Inizialmente, nessuno sembrò badare a lui, che si mise seduto
in un angolo silenzioso, finchè il bambino che lo aveva visto per primo gli andò vicino.
“Chi sei?” gli chiese.
“Sono solo un vecchio viaggiatore.” rispose il vecchio carezzandogli i capelli.
“Da dove vieni?” chiese ancora il bambino.
“Vorresti davvero saperlo? È una storia lunga e triste, sai.” Gli rispose allora il vecchio, guardan-
do nel vuoto.
“Si, lo voglio sapere!” insistette il bambino.
Sorridendo con amarezza, il vecchio si sistemò meglio.
“Allora ti racconterò la mia storia, perché sono vecchio e so che non rimarrò qui ancora a lungo e
voglio che la mia storia continui ad essere ricordata. La storia del luogo che più ho nella memoria e
nel cuore. La storia di Atlantide, la sua grandezza, la sua gloria e, ovviamente, la sua fine…”. Pren-
dendo fiato, continuò.

“Atlantide, come un gioiello magnifico, splendeva incastonata al centro di questo mare, sulle rot-
te delle navi di tutti i regni ed i popoli che lo circondano, come gli achei, gli egizi, i fenici ed altri
che non sto ad elencare. Era un’isola, grande e pianeggiante, ricoperta di verdi pianure e vasti frut-
teti. Le sue città, poi, erano ancor più incantevoli, con mura bianche, palazzi maestosi e giardini
tanto colmi di colori, odori e docili creature che non ne saresti mai voluto uscire. La più bella e
grande di tutte le sue città era Idillia, con le sue immense statue, i templi ricoperti di oro puro che
splendeva al sole fino ad abbagliarti, alti palazzi e torrioni dalle immacolate mura, stendardi e ves-
silli che, animati dal vento, potevano essere visti da distanze incalcolabili. Il suo porto, vasto e atti-

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vo, era il più fiorente di tutto il mare, ad esso attraccavano navi di ogni dove, grandi e piccole, por-
tando prodotti nuovi e scoprendo le incredibili meraviglie della nostra terra.
“Ah!, le fantastiche conoscenze che possedevano i Saggi di Atlantide! La loro scienza non aveva
limiti, superiore di certo a quella di tutti gli altri popoli di questo mondo; avevamo macchine incre-
dibili, tutta la nostra isola era colma delle nostre invenzioni, tutte mirabolanti, tutte alimentate
dall’inesauribile energia del più misterioso e magico di tutti i metalli: l’oricalcum, un metallo da cui
ricavavamo energia sufficiente a sostenere tutta la nostra civiltà, brillante più dell’oro e splenden-
te come il sole.
“La cima più alta dell’isola era il grande faro, una torre alta quanto una montagna, tutta bianca e
levigata, tanto da splendere al sole. Di notte, con l’energia dell’oricalcum, mille luci l’avvolgevano,
rendendola più splendente della luna e delle stelle, guidando sulla rotta sicura tutte le navi che
riuscivano a scorgerla già fin dall’orizzonte. Quanto dolore, mi fa, ripensare ora alla più grande di
tutte le torri, con le sue luci ed i suoi specchi, le mirabili costruzioni e gli ornamenti di oro e
d’argento, che mai più ho potuto rivedere.”

Il vecchio sospirò, chiudendo per un momento gli occhi. Al bambino si erano aggiunti altri spetta-
tori di questa cronaca di tempi andati. “Se Atlantide era così grande e potente, poteva conquistare
certamente tutto il mondo, no?” chiese allora un altro bambino.
“Vedi” gli rispose il vecchio, “Atlantide era sì grande e forte, ma aveva anche grandi ideali, tra cui
la pace. Vivevamo bene, nel nostro regno, e avevamo alleanze e negoziati con tutte le altre civiltà.
Non avevamo certo la necessità di sottomettere a noi genti libere che poi sarebbero diventate per
noi una minaccia. Se ci serviva qualcosa, la creavamo da noi o la barattavamo con le nostre mera-
viglie.
“E allora, come ha potuto una così grande forza vacillare? Come mai il tuo regno è caduto?”
chiese con incredulità un uomo. Il vecchio lo guardò fisso per qualche istante, quindi parlò:
“L’Odio. L’Odio, che non conosce barriere, ha potuto fare questo. L’Odio, che può soffocare im-
peri e popoli, come fiamme spente dal vento.” Un’ombra velò il volto del vecchio.
“Tutto ebbe inizio a causa di un’altra isola, a poca distanza da Atlantide, simile eppur diversa da
questa. Tutto ebbe inizio con Mu…

“Mu. Questi era il nome dell’altra Grande Isola, due ve ne erano. Atlantide e Mu erano vicine, ma
molte differenze albergavano tra esse.
“Mu, per cominciare, era molto più grande di Atlantide, con una popolazione ben più numerosa.
Inoltre, mentre Atlantide era verde e pianeggiante, nonché fertile come poche altre terre, Mu era
brulla, rocciosa ed in gran parte sterile. I suoi abitanti, per sopravvivere, poterono contare su pochi
aiuti dall’esterno, poiché essa si trovava lontano dalla maggior parte delle rotte dei grandi popoli,
solo noi avevamo con essa un commercio. Ciononostante, i signori di Mu lottarono, e con pochi

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mezzi riuscirono, con sforzi disumani, a raggiungere una potenza non indifferente, simile alla no-
stra, seppur con la differenza che la loro scienza, evoluta ormai anch’essa quanto la nostra, mirava
soprattutto alla creazione di armi sempre più letali e distruttive. Mu, difatti, doveva le proprie ric-
chezze alla sua forza militare, i suoi guerrieri erano i più richiesti mercenari ed assassini e la sua
flotta terribile. Solo Atlantide ne era una degna avversaria, poiché alla fine le nostre forze si equi-
valevano. Per questo, non vi furono, all’inizio, dissidi tra noi. Niente guerre né lotte, seppur sem-
pre tra le nostre terre rimase un’aria come di sfida, una tensione che non svaniva mai del tutto.
“Passarono molti anni in cui le cose rimasero così tra i nostri popoli, e nessuno si aspettava mai
che potesse veramente esserci la guerra tra noi.
“Ed è qui che cominciò l’inizio della fine delle Grandi Isole.
“Io ero figlio di un ricco mercante, conosciuto ed apprezzato sia in Atlantide che in Mu, dove
continuamente si recava per commerciare, e dove io l’accompagnavo quale apprendista. Ero nel
pieno della giovinezza quando, durante uno di questi viaggi, sull’isola di Mu conobbi una dolce
fanciulla. Accadde mentre, sotto il sole cocente, avevo appena scaricato delle merci dalla nave di
mio padre e, cercando riparo dalla calura eccessiva, mi rifugiai sotto la rinfrescante ombra di un
albero di quercia, un albero molto vecchio, era grosso e nodoso, tanto da formare una vasta om-
bra sotto la quale molti oltre me potevano trovare rifugio. Tra la gente, notai subito questa ragaz-
za, bella come poche altre ne avevo mai viste. Era vivace, i suoi occhi lucenti e profondi, tanto che
mi ci persi fin da allora. La conobbi e tra noi fiorì subito un forte sentimento. Da allora, approfittai
di ogni occasione per recarmi a Mu con mio padre, col solo intento di incontrarla nuovamente.
“Ogni volta, ci incontravamo sotto l’albero di quercia, che divenne presto il simbolo del nostro
amore. Alla sua fresca ombra passammo momenti stupendi che mai dimenticherò, raccontandoci
storie o perdendoci l’uno nello sguardo dell’altro. Giunsi fin’anche ad incidere, nella nodosa e dura
corteccia del custode dei nostri pensieri, i sentimenti che provavo per lei. Trascorsero così gli anni
più belli della mia esistenza. Furono anche, credo, i più brevi, come brevi sono le nostre gioie.

Una lacrima solitaria aveva cominciato a solcare il volto rugoso del narratore. Ora tutti i presenti
pendevano dalle sue labbra vissute.
“Cosa accadde alla ragazza?” chiese una bambina.
“Vi sposaste?” chiese una ragazza.
Il vecchio tacque per qualche momento. Quindi alzò lo sguardo.
“Lo saprete presto.

“Erano ormai passati diversi anni dal nostro primo incontro.


“Finalmente, ebbi nuovamente occasione di recarmi con mio padre, che ormai era diventato
vecchio, a Mu, con la nave di cui ormai ero io il capitano. Giunto che fui, mentre i miei uomini sca-
ricavano le merci, non esitai ad andare al solito posto, sperando di trovarla sotto l’ormai familiare

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ombra della quercia. Li, inizialmente, non la trovai, e temetti il peggio. Poco dopo, però, mi sentii
meglio quando la vidi giungere. Purtroppo, però, mi disse che non aveva tempo per parlarmi, ma
che ci saremmo dovuti vedere quella notte, sotto l’albero. Così, attesi tutto il tempo necessario,
finchè l’ombra della quercia non fu proiettata dalla fuggiasca luna. Allora, avvolta dalle tenebre, la
mia amata mi raggiunse, e tra le lacrime e il panico, mi confidò la verità.
“Lei era figlia del Grande Sacerdote di Mu, l’uomo più potente ed importante dell’isola, e ca-
sualmente avea scoperto il terribile progetto di suo padre; questi, difatti, mirava a sottomettere,
con la forza d’armi di Mu, l’intero bacino del mediterraneo. Per farlo, però, aveva bisogno di scon-
figgere Atlantide, che da anni impediva questo progetto. Ora, a quanto pareva, aveva trovato il
modo di farlo. Lei mi raccontò di un assalto a sorpresa che, nel cuore della notte, Mu avrebbe sfer-
rato contro Atlantide. A quanto pareva, Mu possedeva ora un’arma di sufficiente potenza da di-
struggerci. Dovevo fare qualcosa, sicché la convinsi ad aiutarmi a scoprire cosa di preciso tramasse
suo padre, in modo da fermare la guerra sul nascere. Seppur tra le lacrime, lei decise di tradire suo
padre per aiutare me, così con il suo aiuto entrai nel palazzo del Tempio di Mu.

S’interruppe.
“Va avanti, cosa aspetti?” lo incitò un uomo.
“Cosa accadde nel palazzo?”
“Scopersi, non ha importanza come, i progetti del nemico. Essi avevano creato un’arma deva-
stante, un’arma meccanica che poteva distruggere, con l’energia dell’oricalcum, l’intera isola di At-
lantide!”
Un silenzio inorridito accolse questa affermazione. Nessuno poteva credere che un’arma potesse
distruggere un’intera isola.
“Proprio così” confermò lui, “Simile ad un gigantesco pesce di metallo, avrebbe viaggiato
sott’acqua fino a giungere ad Atlantide, dove avrebbe scatenato la sua potenza e distrutto l’isola.
Ci fu un altro lungo silenzio.Tutti tacquero aspettando che il racconto avesse seguito.
Finalmente, il vecchio riprese a parlare.

“Non c’era tempo da perdere. Dovevo recarmi subito ad Atlantide ed avvisarli della minaccia.
Così, dissi alla mia amata che ci saremmo rincontrati appena possibile, e che ci saremmo ritrovati
sotto l’albero di quercia. Così, correndo contro il tempo, mi rimisi in viaggio per la mia terra natia.
Lì, subito diedi l’allarme e m’incontrai con il Consiglio dei Saggi. A lungo si discusse su come agire,
finchè non si prese una decisione: sull’isola sarebbero state approntate le difese per affrontare
l’attacco di Mu; poi, per eliminare la minaccia dell’arma che avrebbe potuto distruggerci, la nostra
flotta, con l’ausilio di un’alleanza di navi mercenarie, avrebbe lanciato l’attacco definitivo contro
Mu. Intanto, però, una squadra di arditi avrebbe avuto il compito di recarsi in segreto sull’isola per

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evitare che la macchina venisse scagliata contro di noi. Ovviamente, mi offersi come volontario per
guidare la spedizione, poiché conoscevo già Mu, e conoscevo chi avrebbe potuto aiutarmi.
“In breve tempo, mentre le difese dell’isola venivano innalzate, approntammo la nave e partim-
mo pieni di speranza. Mentre ci dirigevamo verso Mu, tenni lo sguardo sul Grande Faro, sulla sua
luce incoraggiante, ma affranto da tutto l’odio che si stava riversando nei nostri cuori. Fu l’ultima
volta ch’io lo vidi, l’ultima volta che la sua possente luce si innalzò sul mare.
“Purtroppo, il destino pareva contro di noi. Mentre eravamo a metà strada, una burrasca ci col-
se, causandoci grandi problemi, sicché perdemmo almeno una settimana di navigazione.
“Finalmente, una notte, giungemmo a Mu. Qui, con grande attenzione, ci muovemmo più velo-
cemente che potevamo per lanciare un attacco al sito di costruzione dell’arma, un cantiere navale
nascosto in un’insenatura. L’obiettivo era di danneggiare l’arma, in modo da dare ai nostri amici il
tempo di radunare le forze per sferrare un attacco devastante. Quando giungemmo, venimmo
scoperti dai nostri nemici, e lottammo senza posa. Poi, però, i nemici riuscirono a sopraffarci ed io
venni catturato per essere interrogato. Mentre mi portavano via vidi l’arma, e fu terribile. Era
grandissima, di metallo opaco, dalla forma molto simile a quella di un pesce, immersa nell’acqua
del porto, pronta a partire per la sua missione. Così, nello sconforto più completo, venni gettato in
cella. Quivi giacqui per delle ore, convinto che fosse la fine, finchè la porta non si aprì e non ne en-
trò la mia amata; allora la speranza tornò in me. Lei mi raccontò di essere venuta in gran segreto
da me non appena aveva potuto, e mi disse, dopo avermi liberato, di scappare e di mettermi al si-
curo. Ma non potevo farlo, e glielo dissi. Dovevamo fermare l’arma. Così decise di aiutarmi e mi
portò, per un passaggio solitario, fino al cantiere, ma fu troppo tardi: orami l’arma era ultimata,
troppo tempo ci era stato sottratto dal destino. Così, mentre la terra ci vibrava sotto i piedi, ve-
demmo l’immenso mostro metallico inabissarsi mentre la sua ombra sfrecciava verso Atlantide.
Un indicibile dolore mi colse, mi sentii morire dentro.
“Fu lei, però, che mi rialzò e che mi diede la forza di resistere, di non gettarmi all’attacco del ne-
mico verso morte certa. Decisi di ripartire subito per Atlantide, dovevo controllare che l’arma a-
vesse effettivamente avuto effetto, in cuor mio continuavo a sperare che non avesse funzionato.
Lei voleva accompagnarmi, ma glielo impedii, le dissi che sarebbe stata più al sicuro su Mu, le dissi
di aspettarmi. Le dissi che l’avrei rivista presto, perché l’amavo e non l’avrei abbandonata. Le dissi
che se mi avesse aspettato ancora un’ultima volta sotto l’ombra del nostro albero, sarei tornato e
insieme saremmo andati via, lontani da quell’odio distruttivo. Ma dovevo prima sapere se la mia
gente stava bene; lei, mi disse, avrebbe intanto cercato in tutti i modi di far cambiare le idee a suo
padre. Avrebbe fatto qualcosa, qualsiasi cosa. La baciai una volta, a lungo. Per un lungo momento
il resto del mondo non fu più cosa nostra, e Atlantide e Mu persero ogni importanza mentre noi
cercavamo l’uno nell’altro la forza di vivere e di sperare nel domani.
“Mi persi in lei come mai ci era successo.
“Poi partii, ed accadde l’irreparabile.

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“Come ebbi modo di scoprire in seguito, mentre io ero in viaggio verso Mu per compiere la mia
missione, i Saggi di Atlantide erano stati resi vittime dell’ira e della sete di vendetta. Con i progetti
che io gli avevo portato, crearono un’arma identica e più potente di quella di Mu, decisi a colpire
per primi, e l’avevano lanciata poco prima che Mu lanciasse la sua.
“Ero sulla mia nave, diretto a tutta velocità verso Atlantide, e all’orizzonte potevo ancora vedere
la sagoma di Mu. All’improvviso vidi un’enorme sagoma passare sotto di me, nell’acqua, e dirigersi
a velocità spaventosa verso Mu. Passarono lunghi, interminabili istanti in cui il mio cuore sembrò
fermarsi, mentre speravo di sbagliarmi. Poi, d’improvviso, tutto prese a tremare, le acque si alza-
rono in immense onde che distrussero la mi nave e mi afferrarono con violenza. L’acqua mi colpiva
con furia ineguagliabile e credetti di morire. L’ultima cosa che vidi prima di cadere nell’oblio, fu la
grande isola di Mu crollare, colpita da una forza ineguagliabile, con immense onde che la ricopri-
vano mentre la terra si spaccava con fragore terrificante. Mentre perdevo conoscenza, potevo ve-
dere il nostro albero che affondava con i resti della grande isola. Che affondava insieme a lei.

Nella capanna scese un lungo e denso silenzio, interrotto dal singhiozzare di qualche bambino.
Molte persone avevano gli occhi lucidi. Nessuno sapeva cosa dire, finchè il vecchio, che ora aveva
il viso ricoperto dalle lacrime, non riprese a parlare.
“Mi risvegliai su di una spiaggia di queste stesse coste, decadi fa. Da allora, ho girato per tutte le
terre conosciute, in cerca di altri sopravvissuti di Atlantide, e ho attraversato il mare in cerca dei
suoi resti. Nulla rimane, nemmeno una roccia, della più grande città mai esistita.
“Fu il mio un popolo di grande saggezza e conoscenza, e conobbi i sentimenti più nobili, l’amore
più puro. E nonostante tutto questo, bastò l’odio per distruggerlo. L’odio, che tutto ha sommerso
come le onde hanno sommerso le Grandi Isole.
“Come hanno soffocato, tra i mortali flutti, quell’antico albero di quercia alla cui ombra, ora e per
sempre, so che la mia amata mi aspetterà.

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