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Scuola e dintorni

Sito dell'insegnante Rossana Cannavacciuolo

Sintesi di Storia della lingua italiana


Dal latino al volgare
Tra il terzo e il quinto secolo d. C. la progressiva decadenza dell’Impero romano rese
man mano più difficoltosa la circolazione del latino nei territori della Romà nia. Se la
lingua scritta rimase ancora a lungo e dovunque il latino classico, il parlato andò sempre
più differenziandosi dalla lingua ufficiale. Già nel terzo secolo un maestro di scuola,
probabilmente romano, invitava, contro le deviazioni del latino parlato o volgare, a
impiegare oculus non oclus (= occhio), vetulus non veclus (= vecchio), viridis non virdis (=
verde). Le invasioni barbariche e il crollo dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.)
portarono alla frantumazione definitiva dell’unità linguistica in Italia, sia perché gli
invasori, che pur avevano imparato il latino, lo parlavano a modo loro, sia perché alcune
particolarità della loro lingua penetrarono nelle parlate romaniche d’Italia. È questo il
caso ad esempio di diverse parole di origine longobarda (ciuffo, graffiare, guancia, ricco,
scherzare, schiena, zanna, zazzera) che vennero introdotte nel lessico italiano tramite il
latino parlato.

Le origini e il Duecento
Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente il latino rimase a lungo in Italia l’unica
lingua impiegata nella comunicazione scritta, la sola a essere utilizzata nella letteratura
e nei documenti ufficiali.

I primi documenti scritti in cui il volgare viene usato consapevolemente sono quattro
placiti (cioè sentenze) ritrovati a Cassino e risalenti al 960.

Uno di questi recita così:


“Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti
Benedicti“ (= So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, le ha
possedute per trent’anni l’abbazia di San Benedetto).

La lingua volgare scritta, da cui avrebbe avuto origine la lingua italiana, si afferma però
solo nel ‘200, quando viene utilizzata anche nei testi letterari. Del 1224 è il famoso
Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi, scritto in volgare umbro, di cui
riportiamo alcuni versi:

Altissimu, onnipotente, bon Signore,

tue so’ le laude, la gloria, e l’honore et onne benedictione.

Ad te solo, Altissimo, se konfano,

et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,

spetialmente messor lo frate sole,

lo qual’è iorno, et allumini noi per lui.

Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:

de te, Altissimo, porta significatione.

A questo documento fanno seguìto le liriche dei poeti siciliani della corte di Federico II
di Svevia. Essi si ispirano ai trovatori provenzali (iniziatori in Francia di una poesia in
una lingua letteraria neolatina in seguito scomparsa: il provenzale), e fondano una vera
e propria scuola poetica in volgare. La poesia dei Siciliani ha un tale successo che subito
viene imitata in Toscana, in particolare dagli scrittori del Dolce Stil Novo.

Nel corso del Duecento la grafia della lingua letteraria è ancora piuttosto incerta, e
presenta non poche oscillazioni. La k per esempio è spesso presente in alternativa con c,
il nesso -gn- viene riprodotto in modi diversi (bagno ma anche bango, bangno, bannio,
ecc.). Sopravvive ancora in molti casi la h etimologica latina (homo, honore). La grafia
latina si mantiene anche nella congiunzione et. Tra gli articoli predomina lo (lo quale, lo
frate). Accanto al condizionale toscano in -ei compare nelle poesie quello in -ia diffuso
dalla scuola poetica siciliana (saria = sarei, diviria = dovrebbe).

Nel lessico entrano numerosi francesismi, relativi soprattutto alla vita cavalleresca e alla
guerra (messere, cavaliere, scudiere, donzella, madama, ostaggio, stendardo).

La fortuna della poesia dei trovatori porta all’affermazione di molte parole provenzali
(mestiere, onta, pensiero, coricare, donneare). Agli Arabi (che sono presenti in Sicilia
dall’827 al 1091 e che hanno frequenti scambi commerciali con le città marinare) si
deve invece l’ingresso nella penisola di termini orientali, soprattutto di ambito
marinaresco, economico e scientifico, come magazzino, dogana, darsena, arsenale,
tariffa, ammiraglio, zenit, nadir, algebra, cifra, zero, alambicco, sciroppo, arancio,
albicocco, carciofo, zafferano.

Il Trecento
Nel quattordicesimo secolo si ha l’affermazione definitiva del volgare, la sua
consacrazione a lingua di uguale dignità rispetto al latino per l’uso letterario.

Ad avere il sopravvento tra i diversi volgari italiani è il tosco-fiorentino, e questo per


due ragioni fondamentali. In primo luogo perché i tre più grandi e famosi scrittori in
volgare del secolo, Dante, Petrarca e Boccaccio, sono tutti toscani; in secondo luogo
perché proprio nel quattordicesimo secolo Firenze raggiunge la supremazia economica
e culturale in Italia. La lingua del Trecento è ancora piuttosto instabile nella grafia e le
forme latine sono ancora piuttosto usuali (letitia, matre). Nell’articolo si oscilla ancora
tra il e lo. Nelle terminazioni verbali esistono molte varianti (abbiamo / avemo,
scrissero / scrissoro / scrissono, vediamo / vedemo, andarono / andaro / andorno /
andonno).

Nel lessico va aumentando la presenza di latinismi dotti, che danno eleganza e decoro
alla forma (circonferenza, esistenza, atroce, austero, vigilare, puerile, stirpe).

Il Quattrocento
Nel ‘400 si ha un ritorno al culto del latino. L’abbandono dello spiritualismo medioevale
e la rinnovata fiducia nella ragione dell’uomo si accompagnano alla riscoperta dei
classici greci e latini. Gli Umanisti si danno all’analisi e alla ricostruzione dei manoscritti
antichi, ritrovano testi che si credevano perduti o addirittura scoprono opere di cui si
ignorava l’esistenza. L’ammirazione per il mondo classico fa nascere il desiderio di
imitare gli scrittori antichi e provoca di conseguenza anche la ripresa del latino,
considerato come unica lingua degna di essere impiegata in letteratura.

Questa situazione di decadenza del volgare termina solo verso la fine del secolo, quando
alcuni grandi autori (Lorenzo il Magnifico, Poliziano, Boiardo e Sannazaro) tornano a
credere nelle capacità espressive del volgare e a usarlo nelle loro opere.

Intorno al 1470, con la diffusione della stampa anche nel nostro paese, si ha non solo
una maggiore diffusione dei libri, ma anche la ricerca di regole fisse che rendano più
stabile la grafia. Nonostante questo permangono ancora molte oscillazioni, ad esempio
nelle consonanti doppie (fuggiamo / fugiamo, abbiamo / abiamo). La punteggiatura è
scarsa e manca l’apostrofo (si scrive quindi lanima, lerrore per l’anima, l’errore).
Gli articoli el e il prendono il sopravvento su lo. Nell’imperfetto dei verbi comincia a
comparire la desinenza -o per la prima persona (io dovevo), ma nella lingua letteraria
prevale ancora la -a

(io doveva). L’imperfetto in –o, che è un «quattrocentismo» proprio del fiorentino


parlato del quindicesimo secolo, verrà accolto nella lingua letteraria definitivamente
solo nell’Ottocento con i Promessi sposi. In Toscana nel condizionale le forme in -ei
prevalgono su quelle in -ia della tradizione siciliana e letteraria.

Nel lessico, come conseguenza del culto della latinità , penetrano tantissimi latinismi
(applaudire, arboreo, epidemia, fanatico, insetto, prodigioso, trofeo, vitreo). I contatti con
gli altri paesi europei e con l’Oriente rendono comuni parole soprattutto francesi
(franco, arciere, farsa, regname), ma anche spagnole (marrano, giannetto = cavallo) e
arabe (moschea, tafferuglio).

Il Cinquecento
Il sedicesimo secolo si dedica appassionatamente alle discussioni sulla lingua:
riconosciuta ormai definitivamente la dignità letteraria del volgare, si tratta ora di
stabilire quale sia il volgare di cui si debba fare uso. Le posizioni assunte dai letterati
italiani del Cinquecento sono fondamentalmente tre: quella di chi ritiene che si debba
adottare il tosco-fiorentino dei grandi scrittori del Trecento (Dante, Petrarca e
Boccaccio), quella di chi crede che l’italiano debba far proprie le parole più eleganti di
tutte le parlate della nazione e infine quella di coloro che vorrebbero il predominio del
tosco-fiorentino moderno.

La polemica ha termine con il successo della prima proposta, soprattutto per merito di
Pietro Bembo, che, nelle Prose della volgar lingua (1525), propone come modello la
lingua di Petrarca per la poesia e di Boccaccio per la prosa. Ludovico Ariosto, poeta della
corte ferrarese e autore del famoso poema Orlando furioso, contribuisce
all’affermazione di tale proposta, correggendo la propria opera secondo le indicazioni
fornite dal Bembo.

La grafia nel Cinquecento è ancora in gran parte latineggiante, ma a partire dalla


seconda metà del secolo la h etimologica, la x e il gruppo ti al posto di z vanno a poco a
poco sparendo. La punteggiatura diventa più ricca e regolare e l’ortografia è resa più
chiara dall’introduzione dell’apostrofo.

Per quanto riguarda l’articolo si impone la regola sostenuta da Pietro Bembo: il davanti
a consonante, lo davanti a vocale e s impura (il tavolo, l’amico, lo stemma). Davanti a z si
usa invece ancora il.

Nell’imperfetto predominano le forme della prima persona in -a, mentre il condizionale


in -ia compare ormai soltanto in poesia.

Nel lessico entrano ancora molti latinismi (abolire, canoro, decoro, esagerare, penisola).
Le guerre e le dominazioni straniere portano in Italia un buon numero di francesismi
(convoglio, equipaggio, marciare, risorsa, trincea) e di spagnolismi (baciamano,
complimento, disinvoltura, vigliacco, puntiglio). Molte sono però anche le voci che l’Italia
esporta a causa della supremazia italiana in campo culturale e artistico: ad esempio
sonetto (spagn. soneto, franc. sonnet, ingl. sonnet), fuga (come termine musicale: spagn.
fuga, franc., fugue, ingl. fugue, ted. fuge), piedestallo (spagn. pedestal, franc. piedestal,
ingl. pedestal).

Il Seicento
L’età del Barocco è un periodo ricco di innovazioni linguistiche, molte delle quali
tuttavia, terminata la moda, finiranno per scomparire. L’esigenza di suscitare la
«meraviglia» nel lettore spinge gli scrittori a inventare in gran numero metafore ardite e
bizzarre, a inventare parole nuove, a mescolare nel lessico, opponendosi alla tradizione,
parole eleganti a termini quotidiani e concreti, voci dialettali e straniere a vocaboli
tecnici.

Ciononostante in alcuni ambienti il culto della tradizione è ancora molto vivo. Nel 1612
l’Accademia della Crusca pubblica infatti la prima edizione del suo Vocabolario, basato
rigidamente sulla lingua usata dagli scrittori fiorentini del Trecento. L’opera
dell’Accademia della Crusca contribuisce a regolamentare la grafia: gli Accademici
propongono ad esempio la conservazione della h etimologica solo in ho, hai, ha, huomo e
sostituiscono sistematicamente ti con zi (grazia).

Per quanto riguarda gli articoli, davanti a z si usa ancora il, ma nel plurale prevale gli.
Nell’imperfetto dei verbi lo stile solenne predilige la forma in -a per la prima persona,
ma sovente si trova anche la terminazione in -o (in Galileo: solevo, dicevo, ma anche
aveva).

Il condizionale in –ia, più frequente in poesia, si trova usato anche in prosa.

Nel lessico entrano molte parole nuove formate con l’aggiunta di prefissi e suffissi
(arcifreddissimo, oltrabello, Anticrusca, disamabile, impassibile, indispensabile, caffeista,
marinista, galileista, asineggiare, usignoleggiare). Dal latino vengono tratte molte parole
scientifiche (cellula, condensare, iniezione, iperbole, prisma, scheletro) e giuridici
(aggressione, censire, consulente, patrocinio). Al dominio delle potenze straniere si deve
infine l’importazione di spagnolismi, nella prima metà del secolo (brio, cioccolata,
nostromo, posata, risacca), e di francesismi nella seconda (azzardo, dettaglio, moda,
parrucca, plotone, reggimento).

Il Settecento
L’insofferenza nei confronti delle stravaganze barocche, già manifestatasi alla fine del
Seicento, si accentua all’inizio del diciottesimo secolo, quando, per l’influsso
dell’Illuminismo inglese e soprattutto francese, si diffonde il culto della ragione.

Gli Illuministi si propongono di portare ovunque la verità e i lumi della ragione, di


abolire le superstizioni e i pregiudizi per il miglioramento spirituale e materiale di tutti
gli uomini.

Questa nuova cultura, basata più sull’azione concreta che sulle parole, influenza anche
l’uso linguistico, che, in particolare nella prosa, privilegia l’utilità del contenuto rispetto
all’eleganza della forma.

Per ciò che concerne la grafia, si ha ormai una certa stabilità : l’h si adopera solo nelle
esclamazioni e nelle voci del verbo avere, e la grafia con zi ha completamente sostituito
quella latineggiante con ti.

Tra gli articoli prevale sempre il davanti a z, ma dominano lo e gli davanti a s impura.
Nei verbi c’è ancora una grande abbondanza di varianti (vediamo / veggiamo / vedemo).
La forma in -a della prima persona dell’imperfetto predomina su quella in -o e il
condizionale in -ia sopravvive sia in poesia che in prosa.

La forte influenza della cultura illuministica francese determina l’entrata nel lessico di
un grandissimo numero di francesismi, relativi a diversi settori, come la moda (ciniglia,
flanella, frisare, frisatura), la vita sociale (abbordare, madama, mademosella),
l’alimentazione (bignè, cotoletta, dessert, ragù), la vita militare (baionetta, mitraglia,
picchetto), il teatro e la musica (marionetta, minuetto, oboe, rondò). Moltissimi sono
anche i francesismi di carattere generale (allarmante, papà, rimpiazzare) e le locuzioni
che traducono modi di dire francesi (bel mondo, colpo d’occhio, colpo di mano, gioco di
parole, sangue freddo, dar carta bianca, far la corte).

L’Ottocento
L’inizio del diciannovesimo secolo è caratterizzato dalla polemica tra Classicisti e
Romantici. I primi, contrari all’abuso dei francesismi e alla trascuratezza formale dei
letterati del Settecento, predicano il ritorno all’eleganza della lingua della tradizione e
l’imitazione dei classici. I secondi, invece, vorrebbero una lingua moderna e fresca,
adatta a esprimere tutti i contenuti, capace di aderire alla realtà delle cose per divenire
uno strumento che contribuisca ad avviare l’Italia verso l’unità politica.

La crescita della media borghesia porta al successo della tesi romantica, perché
insegnanti, medici, notai, tecnici e militari sentono il bisogno di una lingua di tono
medio che sostituisca il dialetto, sia per le esigenze della loro professione, sia per la
semplice conversazione.

Mentre la poesia rimarrà ancora per decenni legata alla tradizione, nella prosa si attua
un definitivo rinnovamento linguistico. La testimonianza più autorevole al riguardo è
rappresentata dai Promessi sposi di Alessandro Manzoni, il quale, per l’edizione
definitiva del 1840, adotta non l’antiquata lingua della tradizione, ma il fiorentino
parlato dal ceto medio della città toscana.

Con l’unità politica e la proclamazione del Regno d’Italia inizia il lento ma continuo
processo di unificazione linguistica della penisola, un processo facilitato dalle più
frequenti occasioni di contatto tra persone di regioni diverse e dall’introduzione nel
1877 dell’obbligo scolastico per due anni. Malgrado le leggi, la piaga dell’analfabetismo
risulta comunque assai difficile da sanare: verso la fine dell’Ottocento la grande
maggioranza della popolazione non è ancora in grado di leggere e scrivere e parla solo il
dialetto.

Quanto ai fatti linguistici, la grafia va progressivamente stabilizzandosi, anche se


permangono alcune oscillazioni, ad esempio nell’uso delle consonanti doppie
(appostolo, proccurare, academia, catolico, publico).

Tra gli articoli si alternano il / lo e li / gli davanti a s impura e z. Molto comuni sono le
forme apostrofate delle preposizioni articolate (a’, co’, de’, ne’). Tra i pronomi si vanno
imponendo, anche per la scelta effettuata dal Manzoni nei Promessi sposi, lui e lei come
soggetti al posto di egli / ei ed ella. Nei verbi permangono ancora molte varianti
(abbiamo / avemo, deve / debbe / dee). All’imperfetto la prima persona in -o comincia a
imporsi (il Manzoni nell’ultima revisione del romanzo sostituisce faceva, non pensava
con facevo, non pensavo). Le forme in -ia del condizionale si trovano a volte anche in
prosa.

Nel lessico si vanno diffondendo parole dialettali relative all’amministrazione (ad


esempio i lombardismi accaparrare, caseggiato, ragioneria) e ai cibi tipici (i grissini
piemontesi e i cotechini emiliani). Molti latinismi entrano nel linguaggio della politica e
del diritto (costituzionale, dilapidare, plebiscito, refurtiva, socialismo), mentre continua
massiccia la penetrazione dei francesismi (ambulanza, bretelle, debutto, malinteso,
rendiconto, sorvegliare).

Il Novecento
Il Novecento porta a compimento in modo pressoché totale la diffusione della lingua
italiana a scapito dei dialetti. L’analfabetismo, soprattutto per l’aumentata
scolarizzazione e per l’opera dei mass-media, si riduce sempre di più . Dopo quello della
prosa, anche il linguaggio della poesia, con le esperienze dei Futuristi e degli Ermetici, si
libera definitivamente dai legami metrici e formali della tradizione.

La grafia e la morfologia hanno ormai raggiunto una notevole stabilità . Nella sintassi si
vanno diffondendo, sull’esempio dello stile giornalistico, le frasi di tipo nominale, cioè
senza verbo (Bellissima la cerimonia d’inaugurazione dei giochi olimpici).

Nel lessico il fenomeno più evidente è l’enorme afflusso di anglicismi, determinato dal
grande prestigio raggiunto in campo scientifico, tecnologico ed economico dai paesi di
lingua inglese, soprattutto d’oltreoceano (baby sitter, bestseller, blue jeans, clacson,
computer, guard rail, hostess, jeep, killer, pullover, quiz, rock, self service, spray, stop,
supermarket, week end).

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