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Letteratura Italiana

2021/2022
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Letteratura Italiana

LEZIONE 1
La letteratura delle Origini – le prime attestazioni, la Scuola Poetica Siciliana e il Dolce Stil Novo
La letteratura italiana parte più “lentamente” rispetto ad altri paesi = parte verso la fine del XII -
inizio del XIII secolo – per poi avere un enorme successo [= avvio tardivo che porta a un’evoluzione
rapidissima].
Le prime attestazioni – le tracce:
 Associate a testi latini e pratici – legame ancora con la cultura latina
 Forma scritta non primaria – trasmessi per via orale
 Cantati o recitati dai giullari – legame con l’oralità, testi rivolti alla recitazione e per questo
sono arrivati a noi grazie a un unico testimone/codice
 Testimonianza unica
 Ripresa di modelli gallo-romanzi – nonostante il legame con la cultura latina, è
fondamentale anche la conoscenza e la ripresa dei modelli gallo-romanzi [c’è già un
modo/codice in cui la letteratura ha imparato ad esprimersi]
L’indovinello veronese (primo documento della lingua italiana, VIII-IX secolo, versi affini
all’esametro):
«se pareba boves
alba pratalia araba
et albo versorio teneba
et negro semen seminaba»
[anteponeva a sé i buoi, bianchi prati arava, e un bianco aratro teneva e un nero seme seminava]
È una traccia di una lingua che si trova a metà tra il volgare e il latino. Quest’indovinello è
un’espressione metaforica per descrivere l’atto della scrittura. I “buoi” sono le dita e i “bianchi
prati” sono le pagine.
I ritmi (forme di espressione poetica di argomento religioso e con finalità didattica):
 Argomento religioso
 Finalità didattiche – uso del volgare per educare il popolo
 Anisosillabismo (irregolarità del verso) – caratteristico di questi componimenti e queste
irregolarità sono dovute alla presenza del giullare
 Legati al mondo giullaresco
 Dotati di una certa accuratezza retorica e stilistica – per via della cultura da cui provengono
(= sostrato latino)
 Ambiente monastico – ma si avvale della mediazione con il giullare = uso del volgare per il
destinatario = il pubblico
 Area centro-meridionale – lo spazio geografico in cui si sviluppano

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Due esempi noti:


1. RITMO SU SANT’ALESSIO (inizio nel XII secolo. Ascoli, Biblioteca Comunale, ms XXVI A 51,
257 versi) – dedicato alla vita del Santo, trasmissione agiografica delle vicende biografiche
(vita latina + fonte francese = cultura consolidata e bipartita). Lasse monorime di ottonari
e novenari concluse da due o tre versi decasillabi o endecasillabi con rima diversa. La
funzione didattica è la vita virtuosa del Santo che deve diventare un modello da seguire =
come strumento di educazione e di edificazione morale religiosa.
2. RITMO CASSINESE (fine del XII secolo. Ms Montecassino 552-32, 96 versi) – nasce dalla
tradizione dei contrasti (= cultura francese). Ha alla base una fonte latina (Collatio
Alexandri cum Didimo rege – dialogo tra Alessandro Magno e re Didimo dell’Oriente).
Finalità didattica (disprezzo della vita terrena, esaltazione della vita ultraterrena). È un
dialogo a due voci, modello tipico della cultura francese. In questo dialogo abbiamo due
uomini saggissimi – un orientale (manifestazione metaforica della vita
contemplativa/ultraterrena) un occidentale (manifestazione metaforica della vita attiva).

Ritmo cassinese:
Eo, sinjuri, s’eo fabello, Io, signori, se parlo (fabello),
lo bostru audire compello: sollecito (compello) il vostro ascolto:
de questa bita interpello depreco (interpello) questa vita (terrena), e
e•ddell’altra bene spello. dell’altra parlo bene. Dato che mi sono
Poi ke’ nn altu me’ncastello, arroccato in alto, ad altri faccio ritrovare la via
ad altri bia renubello (bia renubello), e
e•mmebe cendo [e] flagello. così mi incendio e brucio. La
Et arde la candela, sebe libera, candela arde, consuma sé
et altri mustra bïa dellibera. stessa, ma agli altri mostra la via sgombra.

→ È visibile e molto forte la mediazione della cultura giullaresca = l’incipit è affidato alla voce di un
giullare che si rivolge a un pubblico medio-alto (= signori). Forti sono le tracce lasciate dal latino in
questo dialogo. L’immagine di chi sta prendendo la parola si sovrappone a una candela che arde =
colui che inostra la retta via diventa una lucerna [funzione didattica].

Ritmi più noti – hanno una finalità più politica rispetto ai due precedenti:
 Ritmo laurenziano (1188/1207 ca.)
 Ritmo bellunese (= memorie di battaglie – Belluno contro Treviso)
 Ritmo lucchese (= memorie di battaglie – Lucca contro Pisa)

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Quando eu stava in le tu’ cathene (Archivio Storico Arcivescovile di Ravenna, 1180-1210). Canzone
di cinque stanze di dieci decasillabi con schema ABABAB (fronte tripartita) CCCD (sirma); la rima D
è irrelata. La nostra tradizione si consolida subito con la Scuola Poetica Siciliana → nel 1999,
questa nozione, è stata messa in discussione da Alfredo Stussi che fece riemergere questa canzone
e la sua importanza → prima canzone d’amore.
La modalità di espressione linguistica, per Stussi, era un problema e soprattutto complicata =
insieme al romagnolo vi erano tratti che “spingevano” più verso un’area settentrionale e altri legati
al volgare siciliano → l’esistenza di tutti questi elementi avevano spinto Stussi a pensare che fosse
una copia tardiva di un testo precedente al 1180 e affidata a mani romagnole che avevano lasciato
un forte segno nella copia. Inoltre, vi è la presenza di elementi della tradizione trobadorica.
Nino Mastruzzo e Roberta Cella hanno recentemente chiarito tutti gli enigmi dietro a questa
canzone ↓
Quando eu stava in le tu’ cathene (1220 ca. Ravenna, ambienta dei Traversari). Canzone di cinque
stanze di dieci a refrain (= questa canzone è dotata di un ritornello musicale). In primo luogo, vi è
stata un cambiamento relativo alla datazione → spostato al secondo decennio del Duecento. La
nuova datazione riesce a precisare l’ambiente in cui il testo si era fissato = la Ravenna dei
Traversari (= famiglia). Altra precisazione importante è che questa canzone nasce con un
accompagnamento musicale (= ritornello).
Mastruzzo e Cella, inoltre, portano alla luce la vera provenienza di questa canzone = cultura
federiciana = cultura della corte siciliana di Federico II tra il 2 aprile e il 7 maggio 1226. Altro
problema → anno 1226 = ancora non appartiene alla Scuola Poetica Siciliana, non è ancora quella
“vera”. Date le circostanze, non andrebbe più vista come “canzone d’amore” ma come “canzone
di fedeltà” = che, sotto la metafora dell’amore e con il ricorso ai generici topoi cortesi, fa appello
alle forze che tradizionalmente sostengono gli interessi imperiali. Dunque, l’anno 1226 ne fa la
prima lirica databile ascrivibile ai federiciani ma, probabilmente, non ancora lirica della Scuola
Poetica Siciliana. È un tipo di lirica debitrice piuttosto al francese, sia per la forma della canzone
con ritornello e musicata, sia per i prelievi dai trovieri allora più in voga.

LEZIONE 2
La Scuola Poetica Siciliana – origine e sviluppo, testimonianze, protagonisti, temi e forme, la
tenzone sulla natura d’amore
La nostra letteratura inizia con la Scuola Poetica Siciliana – fenomeno che avrà un esordio ben
compatto.
Questione delle testimonianze → prima della stampa ci affidavamo ai manoscritti → di un testo ci
possono giungere più copie manoscritte, tramandate da più codici e da più manoscritti.
Per i siciliani la testimonianza è nodale = importante per capire i testi. Prima dei siciliani, spesso, i
testi erano anonimi – con loro vi sono nomi e cognomi e alcune informazioni. Il tema principe della
Scuola Siciliana è l’amore, la dottrina d’amore.
La tenzone sulla natura d’amore è uno scambio di sonetti sul tema principale dei siciliani = amore.
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Origine e sviluppo → la Scuola Siciliana è strettamente legata alla figura di Federico II di Svevia
(1194-1250) e della sua corte (Magna Curia); re di Sicilia dal 1198 e imperatore dal 1220. Con il
suo impero si segna quasi tutto il Duecento. La sua corte – Magna Curia – ha dei tratti di
modernità e la sua costituzione si rifà all’assetto del diritto romano (= elementi di modernità e
novità) → la corte verrà spesso denominata come “primo stato moderno d’Europa”.
I poeti della Scuola Siciliana sono perlopiù riconducibili all’assetto politico del regno di Federico II =
elemento importante poiché la loro formazione – giuridica – si distingue dalla formazione
monastica precedente. All’interno della corte, è Federico II a voler dare questa formazione
culturale → la Scuola Siciliana è parte di un progetto politico e allo stesso tempo culturale voluto
Federico II (= cultura federiciana).
La scelta linguistica → volgare siciliano (= nella sua forma più raffinata, siciliano illustre) – questi
poeti avevano già a che fare con i trovatori e con la lingua d’oc della Provenza (= i canzonieri sono
alla base della cultura siciliana). I siciliani si staccano dal punto di vista linguistico e scrivono
esclusivamente in siciliano illustre (= scelta di monolinguismo in un periodo di plurilinguismo).
Problema per la scuola siciliana → abbiamo pochi referti su questo “siciliano illustre”. Un’antica
testimonianza è “Resplendiente” di Giacomino Pugliese.
Testimonianze/Codici:
 L (Laurenziano Rediano 9, toscano occidentale con apporti fiorentini
 P (Banco Rari 217, già Palatino 418, BNCF, pistoiese)
 V (Codice Vaticano Latino 3793, fiorentino) – il “principe” dei codici, ci illustra tutto il
patrimonio della cultura e della poesia dei siciliani. È un manoscritto di straordinaria
importanza = riconoscimento della compattezza della Scuola Siciliana. 190 fogli, 26
fascicoli, mille componimenti (canzoni e sonetti – ordinati in ordine cronologico). Ogni
sezione/blocco ci questo manoscritto si apre con un componimento chiave e
rappresentativo. Esordio importante con il capostipite della Scuola Siciliana = Giacomo da
Lentini – “Madonna, dir vo voglio” (= libera riscrittura di un componimento di Folchetto da
Marsiglia).
Il problema della lingua → ci troviamo in Toscana e questi testi siciliani vanno in mano a persone
che parlano e leggono in toscano = cercano di adattarli e cambiarli soprattutto per il problema del
vocalismo siciliano (= i testi siciliani verranno stravolti). Il siciliano ha un vocalismo ridotto, non
distingue tra e aperta e o chiusa. I toscani hanno, al contrario, un vocalismo completo.
RIMA SICILIANA → vale a dire la rima di i con e chiusa e di u con o chiusa [diri : taciri > dire :
tacere].
I protagonisti:
 Giacomo da Lentini
 Giacomo dalle Colonne
 Iacopo Mostacci
 Pier della Vigna / delle Vigne
 Stefano Protonotaro
 Rinaldo D’Aquino
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 Giacomino Pugliese
 Cielo D’Alcamo
I poeti di questa Scuola possono raggiungere il numero massimo di 25 autori (Vaticano Latino
3793).
I poeti siciliani si riconoscono per gli stessi ideali – imposti e non dalla Corte. Questi poeti non
necessariamente sono siciliani di nascita ma fanno parte della burocrazia della Magna Curia.
GIACOMO DA LENTINI – il “Notaro” (= professione importante dal punto di vista culturale).
Giacomo da Lentini ha composto 14 canzoni e 24 sonetti, produzione di cui abbiamo delle
testimonianze. È il caposcuola della Scuola Poetica Siciliana = colui che, in accordo con Federico II,
inizia a dare consistenza al progetto culturale. È consapevole dell’appropriazione della poesia
provenzale, dei trovatori. Da Lentini diventa inoltre un “modello” per gli altri poeti della Scuola
Poetica Siciliana – alcuni poeti si definiscono “lentiniani” (= i seguaci). Altro fenomeno per cui
viene ricordato Giacomo da Lentini è l’invenzione della forma metrica del sonetto (= forma nuova
per esprimere il tema della Scuola) → ha a che fare con la cultura dei trovatori della cobla esparsa
(= forma breve di dialogo che i trovatori usavano, ha una dimensione ridotta rispetto alla canzone).
Forma che Giacomo da Lentini adatta al nostro volgare, inventandosi questa forma breve
metrica – sonetto – che ricorda le cobla esparsa e una stanza di canzone.
Temi e forme:
 Dottrina amorosa (“amor cortese” – legame al vassallaggio) vs temi di attualità. Se la poesia
provenzale presenta tratti di erotismo fisico/concreto, i siciliani ne perdono la traccia per
arrivare a un amore di tipo intellettuale → il vero protagonista/interlocutore diventa
amore stesso, spesso la donna scompare. Altro elemento distintivo è che i siciliani
eliminano tutti i temi di attualità → lo spazio per la polemica o per la satira politica è
proibita da Federico II.
 Canzoni e sonetti (tenzoni) – due forme principali. Il sonetto spesso esce dalla sua
individualità e si organizza all’interno di strutture più complesse = tenzoni.

SONETTO → la forma normale del sonetto, alla quale si possono ricondurre tutte le varianti
possibili, è un testo di 14 endecasillabi, diviso in due parti, la prima di 8, la seconda di 6 versi. Lo
schema di rime più antico di questa prima parte è ABABABAB (articolato perlopiù in distici ben
riconoscibili nella struttura retorica e sintattica); più tardi, nel corso del Duecento e soprattutto
con lo Stil Novo, si afferma lo schema ABBA ABBA. La seconda parte del sonetto è analizzata in due
terzine. Gli schemi di rime più frequenti nel sonetto antico sono CDE CDE e CDC DCD.
Modernamente la prima parte del sonetto si dice ottava, o anche ottetto, oppure fronte – per
analogia con la prima parte della stanza della canzone. La seconda parte si dice sestina, o anche
sestetto, o anche sirma – per analogia con la seconda parte della stanza della canzone.

CANZONE → può essere definita nel modo più generale come “una forma lirica strofica”: lirica,
cioè originariamente destinata al canto (cui allude genericamente il nome), dotata di una certa
compattezza stilistica e tematica, e di estensione relativamente breve (se si pone una base di 5
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strofe, le varianti sono tanto più rare quanto più sono lunghe); strofica, in quanto l’essenziale nella
sua struttura è l’articolazione in strofe uguali fra loro, cioè di ugual numero di versi, composte
degli stessi tipi di verso nello stesso ordine e tutte con lo stesso schema di rime.
Le stanze di una canzone possono essere indivisibili, cioè prive di articolazione interna, oppure,
com’è il caso normale nella canzone italiana, divisibili. I nomi usati per questa divisione sono:
fronte per la prima parte della stanza, se questa parte non è ulteriormente divisibile. Sirma per la
seconda parte della stanza, anch’essa se non è ulteriormente divisibile. Piedi per due blocchi
identici di versi, che formano la prima parte della stanza opposta alla seconda, quest’ultima
divisibile o indivisibile; volte per due parti identiche, che formano la seconda parte della stanza
opposta alla prima, quest’ultima divisibile o indivisibile. Le rime mutano solitamente di stanza in
stanza. Sono rari i casi di canzoni senza divisione interna e con le stesse rime in tutte le stanze.
L’ENDECASILLABO è un verso di undici sillabe con accento principale obbligato in decima
posizione. L’articolazione ritmica dell’endecasillabo prevede, nel tipo prevalente (detto canonico),
oltre all’accento fisso di decima, almeno un accento principale di quarta o di sesta: nel primo caso
(4a, 10a) si parla di endecasillabo a minore (primo emistichio ritmicamente equivalente a un
quinario), nel secondo (6a, 10a) di endecasillabo a maiore (primo emistichio ritmicamente
equivalente a un settenario).
IL SETTENARIO è un verso imparisillabo di sette sillabe, con accento principale obbligato in sesta
posizione. Prima di quest’ultima, il verso contiene di norma almeno un altro accento, ma in
posizione del tutto libera.

La tenzone sulla natura d’amore (1241 ca. – momento centrale della Scuola Poetica Siciliana) ms.
Barberiniano Latino 3953 (1325-35) – codice “tardo” rispetto ai tre principali. È una tenzone
costituita da tre sonetti di tre poeti differenti:
1. Solicitando un poco meo savere (Iacopo da Mostacci)
2. Però ch’Amore non si pò vedere (Pier della Vigna)
3. Amor è un disio che ven da core (Giacomo da Lentini) – non è un caso che sia lui l’ultimo
poeta
L’idea che la poesia lirica non sia necessariamente una poesia individuale, chiusa – si “apre” al
discorso condiviso tra pari. I siciliani e gli stilnovisti ameranno usare lo strumento poetico per
intessere una sorta di dialogo a distanza. L’argomento principe di questa tenzone è l’amore e la
sua fenomenologia – i tre sonetti si interrogano su due posizioni opposte = sostanza e accidente.
Ci sono delle riprese interne ai sonetti delle rime – tra quartine e sestine – e riprese di rime che
sono comuni ai tre sonetti → non sono dei sonetti che si costituiscono sulle stesse rime.
L’argomento “amore” ha due posizioni:
 Amore = sostanza (ente dotato di una sua individualità ed incarnazione) → Iacopo da
Mostacci

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 Amore = accidente (qualità temporanea di una sostanza) → Pier dalla Vigna + Giacomo da
Lentini
L’essere amato diventa una forza superiore – “amore” diventa una sorta di sovrano dei cuori.
LEZIONE 3
Solicitando un poco meo savere di Iacopo da Mostacci:
Solicitando un poco meo savere A
e con lui mi vogliendo diletare,
un dubio che mi misi ad avere, A
a voi lo mando per determinare. B
On’omo dice c’amor à potere A
e gli coraggi distringe ad amare, B
ma eo no [li] lo voglio consentire, A
però c’amore no parse ni pare.
Ben trova l’om una amorositate C
la quale par che nasca di piacere, A
e zo vol dire om che sia amore. D
Eo no li saccio altra qualitate, C
ma zo che è, da voi [lo] voglio audire, A
però ven faccio sentenz[ï]atore. D
Iacopo da Mostacci → sonetto che pone la questione, apre il dibattito. L’io (= Iacopo da Mostacci)
che prende la parola dice che sollecitando il suo sapere/intelletto e volendomi dilettare con lui, ho
iniziato ad avere un dubbio, e lo mando a voi (= gli altri poeti interpellati) perché sia chiarito [forte
riferimento alla dottrina d’amore = alla sua filosofia]. Si dice (= on’omo, forma impersonale) che
amore abbia potere e i cuori costringa ad amare, ma non voglio essere d’accordo con questa
posizione, dal momento che amore non è mai apparso né appare. Tutti trovano una disposizione
amorosa, la quale sembra che nasca di piacere (= è l’effetto per la causa, metonimia – una
disposizione amorosa è generata dal piacere che riceviamo osservando la bellezza della persona
amata = il piacere è l’effetto che deriva dalla causa bellezza), e ciò qualcuno pensa che sia amore.
Io in realtà non li riconosco (= no li saccio è un sicilianismo) altra qualità se non questa, ma ciò che
è, lo voglio sentire da voi, per questa ragione ve ne faccio giudici.
Però ch’Amore non si pò vedere di Pier della Vigna:
Però c’Amore non si pò vedere A
e non si tratta corporalemente, B
manti ne son di sì folle sapere A
che credono c’Amor[e] sia nïente. B
Ma po’ c’Amore si face sentire A
dentro dal cor signoreggiar la gente, B
molto maggiore pregio de[ve] avere A
che se ’l vedessen visibilemente. B
Per la vertute de la calamita C
como lo ferro at[i]ra no si vede, D
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ma sì lo tira signorevolmente; B
e questa cosa a credere mi ’nvita C
c’Amore sia, e dàmi grande fede D
che tutor sia creduto fra la gente. B
Pier dalla Vigna → ritroviamo anche qui la rima siciliana, sonetto della prima disputa. Dal
momento che amore non si può vedere e non si tocca materialmente (= concretamente) molti (=
malti è un francesismo) follemente pensano che per questa ragione amore non sia nulla [amore
non c’è poiché non si può vedere]. Ma dal momento che amore si fa sentire dentro al cuore della
gente e signoreggia i cuori degli uomini, deve avere ancora maggior pregio che se l’avessimo visto
con gli occhi fisici (= il fatto che amore non lo possiamo vedere, data la sua potenza, ci deve far
credere ancora di più della sua esistenza). Per la virtù che è intrinseca alla calamita che attira con
la sua potenza il ferro senza essere visto (= noi non sappiamo come fa ad attirarlo), ma lo attira in
modo assolutamente irresistibile [immagine che va accostata alla potenza di amore]; e
quest’immagine che viene dalla natura mi spinge a credere che amore esista, e mi dà una
grandissima fiducia che sia sempre ritenuto esistente fra gli uomini (= l’amore come cosa di
tangibile che non si può né toccare né vedere – la sua potenza è la migliore prova che possiamo
avere della sua esistenza).
Amor è un disio che ven da core di Giacomo da Lentini:
Amore è uno desi[o] che ven da’ core A
per abondanza di gran piacimento; B
e li occhi in prima genera[n] l’amore A
e lo core li dà nutricamento. B
Ben è alcuna fiata om amatore A
senza vedere so ’namoramento, B
ma quell’amor che stringe con furore A
da la vista de li occhi ha nas[ci]mento: B
ché li occhi rapresenta[n] a lo core A
d’onni cosa che veden bono e rio C
com’è formata natural[e]mente; D
e lo cor, che di zo è concepitore, A
imagina, e [li] piace quel desio: C
e questo amore regna fra la gente. D
Giacomo da Lentini → unico sonetto in cui non si trova la rima siciliana. Essendo il maestro della
Scuola è la voce più autorevole di questo dibattito tra pari. L’incipit è un esordio letterario e che ha
una riconoscibilità poiché si rifà al testo capitale di definizione di amor cortese = “De amore” di
Andrea Cappellano. L’amore è un desiderio che viene dal nostro cuore che nasce dall’abbondanza
di gran piacimento (= generato dalla bellezza, qualcosa di concreto); e gli occhi, in primo luogo,
generano l’amore e poi successivamente è il cuore a nutrirlo (= idea che i sensi superiori, vista e
udito, siano l’accesso per l’amore per farsi strada e albergare nei cuori – ha un’incarnazione ben
precisa nell’oggetto d’amore che genera il piacere e da lì si infiamma il cuore e nasce amore).
Alcune volte ci si può innamorare senza aver visto l’oggetto del proprio innamoramento, ma
l’amore che è veramente capace di infiammare/stringere con furore i cuori degli innamorati ha

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origine dalla vista: perché è come se gli occhi proiettassero una visione al cuore il buono e il cattivo
di ogni cosa che vedono e come ogni cosa è fatta per natura; e il cuore, che è il contenitore
accoglie/raccoglie, immagina, e gli piace quella passione che vede dalla immagini che riceve: e
questa è la ri-prova che amore regna fra la gente (= gli occhi trasmettono al cuore l’immagine di
amore e il cuore è il contenitore che raccoglie queste immagini).
I Siculo-Toscani – Guittone d’Arezzo (1235 ca. – 1294), Bonagiunta Orbicciani (1220-1290), Chiaro
Davanzati (seconda metà del sec. XIII)
Si usa la formula compatta di Siculo-Toscani per esprimere l’eredità che nel passaggio dalla Scuola
Siciliana alla Toscana fa sì che quegli stilemi vengano recuperati e ripresi da autori pressoché
toscani.
Guittone d’Arezzo è un personaggio che ha un forte impegno/presenza di liriche di carattere
politico-civile e religiose (= ha un seguito di poeti, i “guittoniani”). Lo stile di questo autore, molto
oscuro e più “aspro” rispetto alla scelta dolce dello stile di Dante e dei suoi “amici” = lo rendono
una sorta di anti-modello.
I suoi scritti ci sono pervenuti grazie al codice Laurenziano Redi 9 = 24 canzoni e 90 sonetti. I
siciliani avevano scelto di eliminare le tematiche politiche-civili e Guittone d’Arezzo, al contrario, si
fa promotore di questi temi → dà alla poesia uno spazio politico.

IL DOLCE STIL NOVO (1280-1310) → è un movimento che ha coscienza di essere “nuovo” e


“moderno” rispetto alla Scuola Siciliana.
Origine e definizione → etichetta storiografica diffusa, a partire dal secondo capitolo della Storia
della letteratura italiana (1870) di Francesco De Sanctis, dedicato ai rimatori toscani amici di
Dante: “Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli, il fabbro fu Cino, il poeta fu
Cavalcanti. La nuova scuola non era altro che una coscienza più chiara dell’arte”. Vi è un problema,
non cita Dante che è il primo a dare una definizione di Dolce Stil Novo nel Purgatorio XXIV → parla
con Bonagiunta che si trova fra i golosi.
De Sanctis con – la nuova scuola non era altro che una coscienza più chiara dell’arte – apre uno dei
punti su cui i critici continuano ad interrogarsi = siamo in presenza di un fenomeno e di una
tendenza veramente compatta e unitaria come la Scuola Siciliana o se, invece, c’è una nuova
coscienza dell’arte del poetare che accomuna dei poeti che sono perlopiù “amici” e che
spontaneamente si aggregano intorno a questo nuovo modo di fare poesia.
Testimonianze → la maggior raccolta della tendenza stilnovista ci arriva grazie al Codice Chigiano
L VIII 305 (Biblioteca Apostolica Vaticana).
Temi e forme → centralità di amore (= promotore di un rinnovamento interiore) associato
all’immagine della donna-angelo. Idea che la gentilezza del cuore derivi dalla nobiltà d’animo e
non dalla nobiltà di stirpe. Le forme predilette sono sonetti, canzoni e ballate (= forma aperta al
dialogo, spesso c’è un rivolgersi al pubblico che viene chiamato in causa). Amore ha a che fare con
una dimensione di purificazione e di mediazione con il divino → la donna-angelo aiuta a

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raggiungere quest’ultimo obbiettivo. Lingue e stile → lo stile di questi autori mira alla chiarezza ed
eleganza, stile dolce. Uso di un volgare illustre e raffinato che ha una collocazione di base toscana.
Protagonisti → Guido Guinizzelli (il padre), Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Dante Alighieri, Lapo
Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi.
Guido Guinizzelli “Io voglio del ver la mia donna laudare”; “Al cor gentil rempaira sempre amore” e
Guido Cavalcanti “Biltà di donna e di saccente core”; “Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira”.
È lo stesso Dante a dare un auto-definizione delle caratteristiche che accomunano i poeti del
Dolce Stil Novo:
Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
“‘Donne ch’avete intelletto d’amore’”.
E io a lui: “I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando”.
“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo
che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!
[Purgatorio XXIV – vv. 49-57]
Dante incontra Bonagiunta tra i golosi. Bonagiunta si chiede se colui che sta incontrando è quel
poeta che fu capace di comporre quelle rime nuove (= individua subito le novità dello stile
dantesco), cominciando “Donne ch’avete intelletto d’amore” (= canzone più nota raccolta nella
Vita Nova). Dante a Bonagiunta: io sono uno che, quando amore mi ispira, prendo nota (= scrive
“sotto dettatura” di amore stesso), e scrivo esattamente ciò che lui mi detta dentro il cuore [modo
in cui Dante definisce i caratteri della poesia stilnovista che vuol dare voce a questa dettatura di
amore]. Bonagiunta: O fratello, ora capisco (= issa è un’espressione lucchese per indicare “ora”)
quale nodo ha trattenuto me, il Notaro (= Giacomo da Lentini) e Guittone d’Arezzo al di qua di
questo “Dolce Stil Novo” che sento!
Questo scambio di “battute” è una rappresentazione efficace del passaggio e di rotture rispetto
alla tradizione – Bonagiunta si sente prima di questa novità, prima del Dolce Stil Novo mentre
Dante sta dopo. Dante è la figura che meglio rappresenta il passaggio dal Duecento al Trecento.

LEZIONE 4
Il Dolce Stil Novo si descrive in maniera più incerta rispetto alla Scuola Poetica Siciliana = ha
un’andatura un po’ più effimera e volatile benché ci siano delle caratteristiche che accomunano i
poeti stilnovisti.
Il progenitore degli stilnovisti, Guido Guinizzelli, verrà accusato da Bonagiunta Orbicciani di una
poesia che non è poi così facile e immediata da comprendere.
Guido Guinizzelli si stacca, sia per età che per personalità, dagli altri poeti per varie ragioni. Una di
queste è per il modo in cui le sue poesie ci sono pervenute = Guinizzelli è l’unico ad essere
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rappresentato nei manoscritti di fine Duecento – anche per testimonianze sembra “staccarsi” dai
giovani amici di Dante. Altra ragione
Voi che avete cambiato lo stile
è la provenienza geografica = Guido
di parlare in poesia dell’amore
Guinizzelli nasce a Bologna tra il
della forma dell’essere precedente,
1230 e il 1240 – fino a poco fa si
per superare ogni altro trovatore/poeta,
riteneva che fosse morto a
avete fatto come la fiaccola,
Monselice ma ancora oggi non è ben
avete cercato di illuminare e dare splendore,
chiaro, si colloca comunque nel
ma non qui dove risplende una luce più potente,
1276. È un giudice di professione e
che sovrasta le altre luci più potenti.
di fazione ghibellina. Le
Superate gli altri di sottigliezza/sottiglianza,
testimonianze di Guinizzelli ci sono
e non c’è nessuno che riesca bene a spiegare quello che
pervenute grazie al Vaticano Latino
volete dire, dal momento che la vostra lingua è così
3793 e al Chigiano L VIII 350 → la
oscura. E questa è ritenuta una grave dissomiglianza,
sua produzione è un po’ “povera”
nonostante la vostra cultura venga da Bologna,
rispetto ad altri poeti – 5 canzoni e
trae ispirazione per le sue canzoni per forza di scrittura.
15 sonetti.

Bonagiunta Orbicciani in riferimento a Guido Guinizzelli:


Voi ch’avete mutata la mainera
de li piagenti ditti de l’amore
de la forma dell’esser là dov’era,
per avansare ogn’altro trovatore,
avete fatto como la lumera,
ch’a le scure partite dà sprendore,
ma non quine ove luce l’alta spera,
la quale avansa e passa di chiarore.
Così passate voi di sottigliansa,
e non si può trovar chi ben ispogna,
cotant’è iscura vostra parlatura.
Ed è tenuta grave ’nsomilliansa,
ancor che ’l senno vegna da Bologna,
traier canson per forsa di scritura.

È un sonetto di corrispondenza per via della risposta che darà in seguito Guido Guinizzelli.
Bonagiunta gli si rivolge sottolineando la modernità della sua poesia e del suo stile. È stata definita
come un’auto-dichiarazione di Bonagiunta sulla propria poesia che risplende dove Guinizzelli cerca
di far avanzare la propria luce o come un riferimento a Chiaro Davanzati → il “chiarore” potrebbe
riferirsi a lui. Vieni riconosciuto un desiderio da parte di Guinizzelli di farsi notare e di superare gli
altri poeti a lui contemporanei cambiando totalmente il codice. Bonagiunta trova una novità che
però non va nella direzione della chiarezza, al contrario, è oscura, poco chiara. “…per forsa di
scritura” ha due significati → Sacra Scrittura / la componente dottrinale di cui si nutre la poesia,

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Letteratura Italiana

l’oscurità della poesia stessa di Guinizzelli. È un sonetto in forte critica al poeta e allo stesso tempo
mette in evidenza che la sua poesia per i contemporanei era evidentemente moderna.
Guido Guinizzelli, in risposta a Bonagiunta:
Omo ch’è saggio non corre leggero
ma a passo grada sì com’ vol misura:
quand’ha pensato, riten su’ pensero
infin a tanto che ’l ver l’asigura.
Foll’è chi crede sol veder lo vero
e non pensare che altri i pogna cura:
non se dev’omo tener troppo altero,
ma dé guardar so stato e sua natura.
Volan ausel’ per air di straine guise Ti sazierò della volontà di sapere almeno chi sono io:
ed han diversi loro operamenti, sono Guido Guinizzelli; e adesso mi sto già purgando
né tutti d’un volar né d’un ardire. per essermi pentito prima di arrivare alla morte.
Deo natura e ’l mondo in grado mise, Come nella sua tristezza generata dal lutto
e fe’ despari senni e intendimenti: si fecero audaci i due figli nel momento in cui videro
perzò ciò ch’omo pensa non dé dire. la madre per difenderla, allo stesso modo mi feci io,
ma non mi spinsi fino a tanto, quando sentii
Il sonetto di risposta sembra presentarsi il padre mio e degli altri poeti migliori di
vaghissimo rispetto all’attacco di me che mai scrissero versi d’amore dolci e leggiadri.
Bonagiunta – vi è una presa di
posizione chiara di difesa sulle accuse arrivate. Nel sonetto si trova la tipica tradizione di
paragonare i poeti agli uccelli (= similitudine) – gli uccelli volano come vogliono e i poeti cantano
come vogliono. Guinizzelli riprende “senni” dal sonetto di Bonagiunta: “ancor che ’l senno vegna
da Bologna”.
Il vero artefice che aiuta a riconosce come “padre” dello Stil Novo Guinizzelli è Dante Alighieri in
un sonetto della Vita Nova → “Amore e ’l cor gentil sono una cosa, sì come il saggio in suo dittare
pone…” XX 3 – Guinizzelli viene definito come il “saggio”. Guinizzelli verrà anche citato nel
Purgatorio XXVI, vv. 91-99 → “…
È meglio non affrettarsi troppo ma muoversi
stesso il padre mio e de li altri miei
gradualmente: quando si ha veramente avuto modo di
miglior che mai rime d’amore usar
pensare, e di riflettere su quello che l’opinione che
dolci e leggiadre”. Nel Purgatorio XXVI
deriva dal vero allora ci si può muovere.
ci troviamo tra i lussuriosi circondati
È folle chi crede di vedere da solo la verità
dal fuoco e viene notata la natura di
bisogna pensare che anche altri hanno a cura la verità:
Dante – di essere “vivo”. Gli viene
l’uomo non si deve ritenere troppo sicuro, ma deve
spiegato chi sono i purganti che sta
guardare con attenzione il suo stato e la sua natura.
incontrando e i vari fenomeni che
Gli uccelli volano in aria nei modi più diversi e hanno
osserva.
diversi modi di comportarsi,
Farotti ben di me volere scemo: né volano o agiscono tutti allo stesso modo.
son Guido Guinizzelli; e già mi purgo Dio ha ordinato per gradi la natura e il mondo,
per ben dolermi prima ch’a lo e così ha reso diversi i senni e gli intendimenti: perciò
stremo». non si può dire a nessuno cosa debba pensare.
Quali ne la tristizia di Ligurgo
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Letteratura Italiana

si fer due figli a riveder la madre,


tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo,
quand’io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amore usar dolci e leggiadre.
Incontriamo una similitudine con riferimento alla Tebaide, a Stazio. È un riferimento a un episodio
in cui Licurgo punisce per la cattiva gestione del proprio figlio Isifile, alla quale aveva affidato il
proprio figlio – la donna ha fatto sì che il figlio venisse morso da un serpente e che morisse. “tal mi
fec’io” = Dante voleva spingersi per
abbracciare Guinizzelli, così come L’amore che ritrova la sua propria patria nel cuore
fecero i due figli che si buttarono gentile come l’uccello si va a riposare nel verde del
sulla madre, condannata a morte, bosco; la natura non fece l’amore prima del cuore per
difenderla. Guinizzelli viene definito gentile né fece il cuore gentile prima che amore il
“padre” per Dante e anche per altri non appena fu creato il sole, il suo splendore fu
poeti. subito lucente, l’amore trova la propria dimora
nella virtù dei cuori gentili
così propriamente
Guido Cavalcanti, citato anche lui da come il calore nello splendore del fuoco.
Dante nel Purgatorio canto XI, vv. 97-
99 – “Così ha tolto l’uno a l’altro
Guido la gloria de la lingua; e forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà del nido”. Guido Cavalcanti
nasce a Firenze intorno al 1258 – ivi, e muore nel 1300. È di famiglia mercantile e guelfa, figlio di
Cavalcante (Inferno X), fu promesso in matrimonio nel 1267 a Beatrice, figlia di Farinata degli
Uberti.
La sua è una poesia fortemente connotata dal punto di vista filosofico e della filosofia naturale.
Dante gli dedica la Vita Nova e lo definisce come il suo “primo amico”. Cavalcanti inizia a concepire
l’amore in contrasto con la ragione → Dante non potrà mai condividere questo pensiero, sarà
sempre convinto che l’amore debba essere guidato e accompagnato dalla ragione.

Guido Guinizzelli, al cor gentile rempaira sempre amore → è il manifesto dello Stil Novo e che
non a caso Dante citerà nella Vita Nova. È una canzone di sei stanze di dieci versi ciascuna, a
schema AB AB cDcEdE – endecasillabi e settenari (= i primi si indicano con la maiuscola e i secondi
con la minuscola). È una canzone che ricorda le coblas capfinidas provenzali = coblas unite da una
parola dell’ultimo verso che torna in un’espressione del primo verso della stanza successiva → non
è perfetta nella costruzione ma comunque ci sono dei forti rimandi ad eccezione dell’ultima strofa
che ha una natura diversa rispetto alle altre cinque. Si vede molto bene tra la prima stanza e la
seconda la ripresa di “foco” con cui si chiude l’ultimo verso della prima stanza e “foco” con cui si
apre il primo verso della seconda stanza.
Al cor gentil rempaira sempre amore
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Letteratura Italiana

come l’ausello in selva a la verdura;


né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’amor, natura:
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ’l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propïamente
come calore in clarità di foco.
Foco d’amore in gentil cor s’aprende
come vertute in petra prezïosa,
che da la stella valor no i discende
anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
poi che n’ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore:
così lo cor ch’è fatto da natura
asletto, pur, gentile,
donna a guisa di stella lo ’nnamora.
Amor per tal ragion sta ’n cor Il fuoco d’amore si accende nel cuore gentile
gentile come la virtù si ritrova connaturata alle pietre preziose,
per qual lo foco in cima del questa virtù procede dall’influsso di una stella che
doplero: discende fino a noi ancora prima che il sole la renda una
splendeli al su’ diletto, clar, sottile; cosa gentile; poi che il sole però l’ha depurata di ciò che
no li stari’ altra guisa, tant’è fero. ha di vile,
Così prava natura allora la stella lì [= nella pietra] le dà il suo valore:
recontra amor come fa l’aigua il così la donna, come una stella, fa innamorare quel cuore
foco che è creato dalla natura eletto, puro, nobile.
caldo, per la freddura.
Amore in gentil cor prende rivera
per suo consimel loco In modo in cui l’amore sta nel cuore gentile può essere
com’ adamàs del ferro in la paragonato al modo in cui il fuoco sta in cima al
minera. candelabro: risplende nei cuori gentili a suo piacere,
chiaro, sottile; non potrebbe starvi in altro modo, tanto
è fiero. In questo modo la natura malvagia si oppone
all’amore come l’acqua al fuoco che è caldo, a causa del
freddo.
PRIMA STANZA – L’uccello crea L’amore prende dimora nel cuore gentile
un perfetto parallelismo tra il per il suo modo di essere confacente/simile
ritornare alla propria patria come il diamante nella miniera.
dell’amore e il rifugiarsi nel verde
del bosco dell’uccello = una disposizione naturale del cuore a trovare il suo habitat nel cuore
gentile così come fa l’uccello. “Natura” è il soggetto. Idea che ci sia una sovrapponibilità tra amore
e gentilezza = siano una cosa inscindibile dall’altra = la natura ha creato contemporaneamente
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Letteratura Italiana

l’amore e il cuore gentile e non ha fatto il cuore gentile prima dell’amore stesso = sono
inseparabili, sono una stessa cosa. Sovrapponibilità tra amore e cuore gentile e tra luminosità del
sole/fiamma e il suo chiarore. È una canzone che gioca molto con le similitudine e i parallelismi
naturali.
SECONDA STANZA – Concezione del potere dei minerali e delle pietre preziose, per Guinizzelli era
molto efficace = le pietre erano delle vere e proprie virtù. Le virtù delle pietre sarebbero un
riflesso di una virtù che viene da diverse stelle. Processo di trasferimento di virtù che passa
attraverso una purificazione che viene dal sole e poi da una virtù che viene impressa dal sole. Si
riconosce al cuore gentile la capacità di innamorarsi – capacità ancora inespressa finché non
avviene la mediazione della bellezza e della donna. Quello che era amore impotenza diventa
amore in atto nel momento in cui la donna fa da mediatrice.
TERZA STANZA – ritorna l’immagine della prima stanza = modo di risplendere della fiamma del
sole = si può dire uguale dell’amore e della sua relazione con il cuore gentile. Non starà nel cuore
gentile come la fiamma sta sul candelabro dal momento che è così impetuoso (= immagine a cui al
poeta ricorre e alla potenza dell’amore che risplende nei cuori gentili). Nella “minera” = doppio
significato = miniera in cui si trovano le pietre preziose o alla potenza del diamante custodita in un
minerale. L’immagine è sovrapponibile tra amore e cuore gentile e tra la potenza della calamita (=
Però ch’Amore non si pò vedere di Pier della Vigna) – sta dicendo che amore trova perfettamente il
luogo più confacente nel cuore gentile così come il diamante si trova nella miniera. Altra
immagine, se amore è paragonabile al fuoco allora il suo opposto è l’acqua – l’uno è caldo e l’altro
è freddo e lo spegne come la natura cattiva non è accogliente all’amore. Perché l’amore trovi il suo
spazio ideale serve un cuore gentile, un cuore nobile.

Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:


vile reman, né ’l sol perde calore;
dis’ omo alter: «Gentil per sclatta
torno»; Il sole colpisce e ferisce il fango continuamente:
lui semblo al fango, al sol gentil valore: tuttavia esso rimane vile, e il sole non perde il suo
ché non dé dar om fé calore; un uomo presuntuoso disse: “sono nobile
che gentilezza sia fòr di coraggio per nascita”; lui lo posso paragonare al fango, e il
in degnità d’ere’ sole gentile può essere paragonato alla
sed a vertute non ha gentil core, virtù/nobiltà: per questo motivo non si deve
com’ aigua porta raggio prestare fede che la gentilezza possa esistere fuori
e ’l ciel riten le stelle e lo splendore. dai cuori virtuosi e che questa possa derivare dalla
dignità di un erede
se dalla virtù non si ha un gentile cuore,
come nello stesso modo l’acqua sopporta il
passaggio dei raggi del sole e il cielo trattiene lo
splendore e la potenza delle stelle.

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Letteratura Italiana

Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo


Splende l’intelligenza del cielo secondo i nostri
Deo crïator più che [’n] nostr’occhi ’l sole:
occhi secondo la volontà di Dio Creatore:
ella intende suo fattor oltra ’l cielo,
ed ella sembra intendere il suo fattore che è colui
e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
che l’ha creata rispecchiandosi nel modo in cui si
e con’ segue, al primero,
volge nel cielo, e da lì inizia ad obbedire a Lui; =
del giusto Deo beato compimento,
l’intelligenza celeste sembrerebbe realizzare da
così dar dovria, al vero,
subito ciò che il giusto Dio le ha dato come beato
la bella donna, poi che [’n] gli occhi
incarico/e ottiene immediatamente dal giusto
splende
Dio il compimento della propria beatitudine, così
del suo gentil, talento
in verità la bella donna, poiché negli occhi
che mai di lei obedir non si disprende.
risplende del suo innamorato un desiderio che
non si allontana mai da obbedire a lei.

Donna, Dio mi dirà: “Che cosa hai pensato di fare?”,


Donna, Deo mi dirà: «Che nel momento in cui la mia anima sarà davanti a lui.
presomisti?», “Hai osato passare i cieli e sei venuto fino a me e hai
sïando l’alma mia a lui davanti. paragonato l’amore con Dio stesso: a me (DIO) si
«Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti convengono soltanto le lodi e insieme a me la
e desti in vano amor Me per semblanti: Madonna che è degna del regno in cui si trova,
ch’a Me conven le laude grazie alla quale cessa ogni frode/inganno”.
e a la reina del regname degno, E io gli potrò dire: “Questa donna aveva le
per cui cessa onne fraude». sembianze di un angelo del regno di Dio;
Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza io non ho fatto un errore, se in lei ho riposto il mio
che fosse del Tuo regno; amore”.
non me fu fallo, s’in lei posi amanza».

QUARTA STANZA – viene subito esplicitata l’idea della gentilezza che prescinde la stazza. Il “sole”
è il soggetto della prima frase – colpisce il fango ma questo rimane vile = la potenza del sole e della
virtù colpisce ciò che è vile. “sed a” = la “d” è una “d” eufonica prima della vocale. La gentilezza del
cuore non si eredita per nobiltà di famiglia – è una virtù propria dei cuori.
QUINTA STANZA – “Lui” = Dio Creatore = fattore divino in cui l’intelligenza celeste si rispecchia e
da cui prende movimento. “e con’ segue, al primero, del giusto Deo beato compimento” =
l’intelligenza celeste sembrerebbe realizzare da subito ciò che il giusto Dio le ha dato come beato
incarico OPPURE e ottiene immediatamente dal giusto Dio il compimento della propria
beatitudine. C’è l’immagine che si sta spostando dell’astrazione del cuore gentile e della sua
disposizione ad amare alla mediazione della donna = la sua azione è paragonabile all’azione di Dio
Creatore sull’intelligenza divina. La donna accende nel gentil cuore dell’innamorato il desiderio di
non allontanarsi mai dall’obbedire a lei.
SESTA STANZA – diventa un piccolo dialogo in cui il poeta viene messo in discussione da Dio che è
stato scomodato nella stanza precedente. Il poeta immagina proprio un vero dialogo con Dio. Due
sono le entità a cui possiamo rivolgere le lodi = Dio e Madonna – il poeta ha osato rivolgerle a una

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Letteratura Italiana

donna. Le lodi, che si rivolgono a Dio e alla Madonna, sembrerebbero essere adatta anche alla
donna.
Voglio veramente lodare la mia donna e paragonarla
Guido Guinizzelli, Io voglio del ver la alla rosa e al giglio: risplende e si manifesta più
mia donna laudare: luminosa della stella Venere, e a tutto ciò che di
bello lassù appare voglio paragonarla.
Io voglio del ver la mia donna laudare La verde campagna a lei paragono e l’aria, tutti i
ed asembrarli la rosa e lo giglio: colori dei fiori, il giallo e il rosso,
più che stella dïana splende e pare, l’oro e l’azzurro e le belle/ricche gioie da donare:
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio. lo stesso amore grazie a lei diviene più perfetto.
Verde river’ a lei rasembro e l’âre, Passa attraverso la via così bella e così gentile che
tutti color di fior’, giano e vermiglio, riesce ad abbattere l’orgoglio a colui che saluta,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare: e lo converte alla nostra fede se non la crede;
medesmo Amor per lei rafina meglio. e non le si può avvicinare nessuno che sia vile;
Passa per via adorna, e sì gentile vi dirò che ha una virtù ancora più grande: nessuno
ch’abassa orgoglio a cui dona salute, può pensare male finché la vede.
e fa ’l de nostra fé se non la crede;
e no·lle pò apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’om pò mal pensar fin che la vede.
È un sonetto centrale per il tema della lode – concetto che verrà ripreso da Dante nella Vita Nova.
La stella Venere = prima stella a comparire e l’ultima a vedersi nel Firmamento = la più luminosa.
Testo molto strutturato e complesso.
LEZIONE 5
I cavalieri armati che siano nobili/gentili;
Guido Cavalcanti, Biltà di donna e
il canto degli uccelli e il ragionare d’amore; le barche
di saccente core:
adorne/belle che corrono in mare rapidamente; l’aria
Biltà di donna e di saccente core serena quando appare l’alba la neve che scende
e cavalieri armati che sien genti; bianca e silenziosa; l’acqua dei fiumi e i fiori che
cantar d'augilli e ragionar d'amore; adornano i prati; l’oro, l’argento, e le pietre azzurre
adorni legni 'n mar forte correnti; [lapislazzuli] che adornano i vestiti: la beltà e la virtù
aria serena quand' apar l'albore della mia donna superano tutto ciò e il suo nobile
e bianca neve scender senza venti; cuore, che sembrano vili a chi le guarda; e ogni altra
rivera d'acqua e prato d'ogni fiore; virtù conoscitiva che ella possiede supera ogni altra
oro, argento, azzuro 'n ornamenti: intelligenza quanto il cielo è maggiore della terra. E a
ciò passa la beltate e la valenza colei che ha simile natura sublime non è priva di
de la mia donna e 'l su' gentil nessun bene/virtù.
coraggio,
s' che rasembra vile a chi ciò guarda;
e tanto più d'ogn' altr' ha canoscenza,
quanto lo ciel de la terra è maggio.
A simil di natura ben non tarda.
Cavalcanti sarà per Dante un amico e anche un modello. Ha un personalità combattuta e
complessa rispetto a Dante stesso e al suo modo di scrivere – ci sarà una “rottura”, un “divorzio”
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Letteratura Italiana

tra i due in relazione al rapporto che esiste tra amore e ragione (= Dante sarà sempre convinto
che l’amore debba essere guidato e accompagnato dalla ragione). È un sonetto che rientra nel
genere del plazer di origine provenzale – la bellezza della donna viene messa a confronto con ciò
che di bello c’è in natura e nel mondo = la bellezza della donna supera tutte le bellezze.
Ha una costruzione complicata → prima si nominano tutti gli oggetti e le cose che sembrano
bellissime e poi vengono sminuiti dalla bellezza della donna che supera tutto.
Lo stile di Cavalcanti è molto raffinato, ricercato → si vede subito dal primo verso, dal primo
endecasillabo che ha una costruzione chiastica = è costruito in modo perfettamente speculare
rispetto ai due emistichi, le due parti che lo compongono “biltà di donna” “e di saccente core” si
rispecchiano l’una nell’altra → costruzione a chiasmo. Il CHIASMO è una figura retorica,
consistente nell’accostamento di due membri paralleli, in modo però che i termini del secondo
siano disposti nell’ordine inverso a quelli del primo (= costruzione a X). Dire “legni” per intendere
“barche” è un’altra figura retorica → METONIMIA = consiste nell’usare il nome della causa per
quello dell’effetto (vivere del proprio lavoro), del contenente per il contenuto (bere una bottiglia),
della materia per l’oggetto (sguainare il ferro).
Memoria poetica → “Sovra tutto ‘l
Chi è questa che procede, che a ognuno che la
sabbion, d’un cader lento, piovean di
guarda, fa tremare per il suo chiarore l’aria
foco dilatate falde, come di neve in
e porta con sé amore, tanto che nessuno osa più
alpe senza vento” [Inferno XIV]. La
parlare davanti a lei, ma tutti sospirano?
neve che scende silenziosa nel testo di
O Dio, che cosa sembra quando rivolge il suo
Cavalcanti colpisce Dante tant’è che
sguardo, lo dica amore, perché io non saprei
arriva a citarla in un verso dell’Inferno
raccontarlo:
XIV.
donna di tale umiltà/benevolenza essa mi pare,
Guido Cavalcanti, Chi è questa che che ogni altra donna al confronto di lei la chiamerei
ven, ch’ogn’om la mira: sdegno. Non si potrebbe raccontare la sua bellezza,
che a lei si deve riconoscere la sua inferiorità ogni
Chi è questa che ven, ch’ogn’om la
altra virtù di gentilezza, tant’è che la bellezza in
mira,
persona l’ha scelta come sua dea. La nostra
che fa tremar di chiaritate l’âre
intelligenza non fu così alta e non abbiamo tanta
e mena seco Amor, sì che parlare
salvezza, che in modo proprio ne avremo
null’omo pote, ma ciascun ne sospira?
O Deo, che sembra quando li occhi gira,
dical’Amor, ch’i’ nol savria contare:
cotanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei la chiam’ira.
Non si poria contar la sua piagenza,
ch’a lei’ s’inchina ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.
Non fu sì alta già la mente nostra
e non si posa in noi tanta salute,
che propiamente n’avian canoscenza.

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Letteratura Italiana

Altro esempio di memoria poetica/letteraria – già dalla prima quartina si può notare = “Chi è
questa che sorge come aurora” Cantico dei Cantici 6 9. Cavalcanti scrive un altro sonetto di lode, di
celebrazione della bellezza della donna amata. Fenomeno della “scintillazione” – “che fa tremar di
chiaritate l’âre” – di turbamento dei raggi della luce che creano una sorta di aurea attorno alla
donna. Tanta è la potenza e la virtù di amore che la lingua si tace e non riesce più a parlare. Il
“sospiro” degli uomini non è di sofferenza ma di incapacità di gestire la passione alla visione della
donna amata. Amore stesso può descrivere la bellezza di questa donna poiché gli strumenti umani
sono incapaci di farlo. Le altre donne non possono competere con la virtù della donna amata.
Sono due sonetti propriamente dimostrativi di quello che è il tema dello Stil Novo = la bellezza
come strumento di perfezionamento, qualcosa che dona salute e che consente un miglioramento
interiore – immagine ricorrente della donna-angelo.
La Poesia delle Origini, verso il Trecento – la Vita Nova
Primo libro scritto da Dante e che corrisponde agli anni di pieno sviluppo dello Stil Novo.
Testimonianze → la Vita Nova ci è arrivata attraverso 48 testimoni = testo che ebbe fin da subito
un enorme successo, tanti codici – 48 sono quelli arrivati a noi, molto probabilmente ce n’erano di
più. Uno dei codici che ci ha tramandato la Vita Nova è il Codice Chigiano L VIII 305 (Biblioteca
Apostolica Vaticana) – uno dei codici in cui ci sono state tramandate molte rime stilnoviste. Dante
stesso lo dichiara un libello, un estratto di un libro della memoria → l’intento è quello di mettere
insieme i ricordi di una vicenda personale che lo lega a Beatrice → la complessa storia d’amore.
Racconta questa sua storia personale partendo dalla sua storia poetica, dalle sue rime giovanili. “In
quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una
rubrica la quale dice Incipit vita nova. Sotto la quale rubrica io trovo scripte le parole le quali è mio
intendimento d’asemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sententia”.
Dante Alighieri nasce a Firenze nel 1265 e muore a Firenze nel 1321. Compose la Vita Nova tra il
1292-93/1294-95 → Beatrice muore nel 1290 e sicuramente la scrittura del libello avviene dopo il
primo anniversario della sua morte. La scrittura del libello avviene sicuramente prima del 1296
poiché Dante scrive, in questo periodo, le Rime Petrose. Il Convivio contiene canzoni allegoriche e
morali. Successivamente compose il De vulgari eloquentia e la Commedia.
Genesi, struttura e modelli della Vita Nova → il titolo potrebbe riferirsi alla “Vita Giovanile” (=
periodo della giovinezza) o a una “Nuova Vita” (= rinnovamento, svolta della vita). È composta da
31 poesie (23 sonetti, 2 sonetti rinterzati, 5 canzoni, 1 ballata) + Prosa di commento (= raccontano
la storia d’amore tra Dante e Beatrice, le vicende e contengono dei commenti puntuali ai
componimenti poetici con divisioni e suddivisioni espresse dallo stesso Dante) = Prosimetro (prosa
+ poesia, forma mista). Sonetto rinterzato → Innovazione guittoniana è anche il sonetto rinterzato
(cioè "rafforzato’), nel quale, su una base per lo più ABABABAB CDC DCD, si aggiunge un
settenario in rima col verso precedente dopo ogni verso dispari dell’ottava e dopo il primo e
secondo verso delle due terzine; in altre parole, ogni distico AB diventa AaB, le terzine diventano
CcDdC DdCcD. Una variante non esattamente guittoniana del sonetto rinterzato è presente in due
esemplari nella Vita Nova = O voi che per la via d’Amore passate (AaBAaBAaBAaB CDdC DCcD) e
Morte villana, di pietà nemica (AaBBbAAaBBbACDdCCDdC): in entrambi, nelle terzine è rinterzato
col settenario solo il secondo verso; nel secondo, la base dell’ottava è ABBA ABBA.

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Letteratura Italiana

I 42 capitoli che compongono la Vita Nova possono essere divisi in 3 parti – disegno tripartito:
1. Dal proemio alla crisi del “gabbo” – Beatrice e altre donne si prendono gioco di Dante per
la sua incapacità di reggere un confronto con la donna amata, “gabbo” = burla.
2. “Matera nova” della poesia della lode – idea della lode come unico scopo della poesia.
3. Dalla morte di Beatrice alla visione finale – la descrizione di quest’evento genera un altro
segmento all’interno della narrazione della Vita Nova a cui segue uno smarrimento dello
stesso Dante che viene consolato dalla cosiddetta “donna gentile” = sviamento. Dante dice
che non parlerà più di Beatrice finché non scriverà un’opera che sia in grado di scrivere
tutto di lei.

I modelli → De consolatione philosophiae (Boezio), vidas e razos (trovatori), Confessiones


(Agostino), Laelius de amicitia (Cicerone). Si può notare dai modelli classici il legame di Dante per
la tradizione classica – non può essere per nessuna ragione eliminata. Forte ancora la tradizione
dei trovatori.
Questione linguistica → essendo ancora nel periodo della poesia stilnovista, Dante sceglie il
volgare = per farsi capire da più persone e soprattutto da più donne (= legame nei confronti di un
pubblico femminile che a maggior ragione devono essere in grado di capire la poesia – cosa che in
latino non sarebbe stato possibile).
Tempi di composizione → Vita Nova (1292-1293). Il sonetto con cui si apre è “A ciascun’alma
presa e gentil core” (1283) – lo usa come prima visione di Amore. Un’altra data che ci aiuta è la
morte di Beatrice (8 giugno 1290) – “Era venuta nella menta mia”, dopo la morte della donna
amata. Infine, “Oltre la spera che più larga gira” (dopo giugno 1291) – la scrittura segue di poco la
morte di Beatrice. Sono tutti componimenti raccolti in un periodo di tempo piuttosto lungo che poi
Dante raccoglie e unisce.
La storia narrata (in breve):
 A 9 anni primo incontro con Beatrice
 Amore domina la sua mente ma con la guida della ragione
 9 anni dopo Beatrice gli concede il saluto – Beatrice viene sempre associata al numero 9
 Visione di Amore e composizione di “A ciascun’alma presa e gentil core”
 Le donne dello schermo – donne a cui Dante rivolge uno sguardo
 La perdita del saluto
 La lode di Beatrice
 La morte di Beatrice
 La donna gentile
 Annuncio di una nuova opera
LEZIONE 6
Vita Nova
Poi che fuoro passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appresso l’apparimento
soprascritto di questa gentilissima, ne l’ultimo di questi die avvenne che questa mirabile donna

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Letteratura Italiana

apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più
lunga etade; e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e
per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutoe molto
virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine. L’ora che lo
suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno; e però che quella fu la
prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che
come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puosimi a
pensare di questa cortesissima. E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale
m’apparve una maravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula di colore
di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la
guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea
molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: “Ego dominus
tuus”.
→ Erano passati nove anni dalla prima apparizione di questa virtuosissima donna/signora (= ora
hanno diciott’anni), apparve a me vestita di colore bianchissimo (= colore della purezza, candore e
virtù), e si presenta insieme ad altre due gentili, che sono un po’ più mature; e passando per una
via rivolse gli occhi nella mia direzione dove io mi trovavo tremante (= degna con lo sguardo Dante
= gli occhi sono una via di contatto), e per la sua ineffabile cortesia (= è difficile da raccontare), è
tanta che io non riesco a dirla a parole, che adesso è ricompensata nell’aldilà, mi salutò e così
virtuosamente, che allora mi parve quasi di toccare i limiti estremi della beatitudine (= esperienza
talmente forte). Certamente era l’ora nona (= le tre del pomeriggio, ora di grande importanza =
quando morì Dio). [Dante ha toccato il cielo con un dito ed è talmente forte questa beatitudine che
sente il bisogno di vivere questo momento da solo]. E dal momento che quella fu la prima volta che
le sue parole si mossero per venire verso le mie orecchie, mi prese tanta dolcezza, come se fossi
quasi ubriacato da questa esperienza, mi allontanai dagli altri, e giunto in un luogo solitario della
mia cameretta mi misi a pensare di questa cortesia. E pensando a lei, venni colto dal sonno,
durante il quale mi apparve una meravigliosa visione. Mi parve di vedere nella mia camera una
nuvola di colore del fuoco (= rosso, colore simbolico), e dentro a questa io vedevo l’immagine di
un signore (= Amore – prima manifestazione), e aveva un aspetto pauroso a chi lo guardava; e mi
sembrava però che fosse molto lieto nel suo aspetto quanto lui era lietissimo, ed era una cosa
miracolosa; e diceva tante cose, ma io ne capivo veramente poche (= difficoltà di interpretare a
parole Amore), e sicuramente mi disse “Ecco il tuo Signore” (= Ego Dominus tuus = io sono il
Signore Dio tuo = Primo Comandamento).

Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno
drappo sanguigno leggeramente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la
donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’una de le mani mi
parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole:
"Vide cor tuum".E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e
tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale
ella mangiava dubitosamente. Appresso ciò poco dimorava che la sua letizia si convertia in
amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi
parea che si ne gisse verso lo cielo; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto
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Letteratura Italiana

sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato. E mantenente cominciai a pensare, e
trovai che l’ora ne la quale m’era questa visione apparita, era la quarta de la notte stata; sì che
appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte. Pensando io a
ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello
tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per
rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore; e pregandoli che
giudicassero la mia visione, scrissi a·lloro [= il puntino indica la manifestazione grafica del
raddoppiamento fonosintattico] ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo
sonetto, lo quale comincia: A ciascun’alma presa.

→ Amore tra le sua braccia stringe una persona che dorme nuda, sembrava nuda tranne che era
leggermente avvolta da un drappo del colore del sangue (= Beatrice condivide con Amore il colore
del rosso); la quale riguardandola con molta attenzione, riconobbi che era la donna della salute (=
colei che dona saluto e salvezza), la quale mi aveva degnato di rivolgermi un saluto soltanto il
giorno prima (= riconoscimento della donna amata). Amore ha un cosa che arde nelle mani; e mi
sembrò che dicesse queste parole: “Guarda il tuo cuore!” (= Amore ha tra le mani il cuore di
Dante). Amore svegliò la donna che stava dormendo; e tanto si sforzava per il suo ingegno, di farle
mangiare questa cosa che teneva nella mani (= cuore, immagine che arriva dalla tradizione
romanza e rimanda all’idea della trasmissione delle virtù contenute nel cuore), la quale lei mangiò
con timore e orrore. La gioia iniziale di Amore si convertì in un amarissimo pianto; e mentre piange
riprende tra le sue braccia questa donna riabbracciandola, e con lei se ne va via come se andassero
verso il cielo (= modo per annunciare la morte di Beatrice). Non riuscì a sostenere l’angoscia di
questa visione, tanto che il debole sonno non riuscì a sopportarla, si rompe il sonno e mi svegliai. E
immediatamente cominciai a pensare, e mi accorsi che l’ora in cui mi era apparsa questa visione
era stata la quarta ora della notte (= alle 12), sicché appare con evidenza che essa fu la prima delle
ultime nove ore della notte. E dopo aver pensato a quello che mi era successo, pensai di farla
sentire a quelli che erano i poeti più famosi del tempo: e poiché io avevo già sperimentato la
poesia (= avevo già scritto delle poesie), pensai di fare un sonetto, in cui salutassi tutti i Fedeli
D’Amore (= devono avere la stessa capacità che ha Dante di scrivere facendosi ispirare da Amore);
e li pregai che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avevo visto nel mio sogno. E
cominciai questo sonetto, il quale comincia con: A ciascun’alma presa.

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Letteratura Italiana

A ciascun’alma presa e gentil core:


A ciascun’alma presa e gentil core
nel cui cospetto ven lo dir presente,
in ciò che mi rescrivan suo parvente,
salute in lor segnor, cioè Amore.
Già eran quasi che atterzate l’ore
del tempo che onne stella n’è lucente,
quando m’apparve Amor subitamente,
cui essenza membrar mi dà orrore.
Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia avea
madonna involta in un drappo dormendo.
Poi la svegliava, e d’esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir lo ne vedea piangendo.
Dante scrive questo sonetto quando ha veramente diciott’anni – potrebbe essere stato ideato
quando il poeta ancora non aveva idea di riunire tutte le sue poesie. Dante usa questo sonetto
come apertura del suo libello = Vita Nova. Questo sonetto è la traduzione in versi delle prose
precedenti dove Dante mette in scena il dialogo con i fedeli d’amore e mima un esordio tipico
dell’epistola = salutatio. A livello metrico troviamo una forma cara a Dante = quartine che rimano
ABBA ABBA e terzine che rimano CDC
CDC. Io porgo i miei saluti ad ogni anima e ad ogni nobile
Non solo il sonetto è preceduto dalla cuore preso [da Amore] in nome del loro signore,
sua anticipazione in prosa, viene anche cioè Amore, affinché mi scrivano la loro opinione su
seguito da una breve prosa che si questo sonetto che è indirizzato a loro.
concentra sul modo in cui è strutturato Era ormai trascorsa la terza parte delle ore del
– per ogni componimento della Vita tempo notturno in cui ogni stella è luminosa,
Nova vi è poi una divisione = commento quando mi apparve all'improvviso Amore, il ricordo
↓ della cui apparizione mi terrorizza ancora.
Amore mi sembrava lieto mentre teneva il mio
Questo sonetto si divide in due parti, cuore nella sua mano, e tra le braccia aveva la mia
che nella prima parte saluto e domando donna/signora che dormiva avvolta in un drappo.
risponsione, nella seconda significo a Poi la svegliava e di questo cuore che ardeva, lei
che si dêe rispondere. La seconda parte spaventosa con benevolenza si nutriva: dopo lo
comincia quivi Già erano. vedevo andare via piangendo.

Poi che dissi questi tre sonetti, ne li quali parlai a questa donna, però che fuoro narratori di tutto
quasi lo mio stato, credendomi tacere e non dire più, però che mi parea di me assai avere
manifestato, avvegna che sempre poi tacesse di dire a lei, a me convenne ripigliare matera nuova
e più nobile che la passata. E però che la cagione de la nuova matera è dilettevole a udire, la
dicerò, quanto potrò più brievemente. Con ciò sia cosa che per la vista mia molte persone
avessero compreso lo secreto del mio cuore, certe donne, le quali adunate s'erano dilettandosi

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Letteratura Italiana

l'una ne la compagnia de l'altra, sapeano bene lo mio cuore, però che ciascuna di loro era stata a
molte mie sconfitte; e io passando appresso di loro, sì come da la fortuna menato, fui chiamato da
una di queste gentili donne. La donna che m'avea chiamato era donna di molto leggiadro parlare;
sì che quand'io fui giunto dinanzi da loro, e vidi bene che la mia gentilissima donna non era con
esse, rassicurandomi le salutai, e domandai che piacesse loro. Le donne erano molte, tra le quali
n'avea certe che si rideano tra loro. Altre v'erano che mi guardavano, aspettando che io dovessi
dire.
→ [Tre sonetti precedono questa prosa e sono gli unici rivolti direttamente a Beatrice] Scrissi in
questi tre sonetti rivolgendomi direttamente alla mia signora, dal momento che erano narrate
quasi tutte le condizione del mio stato/il modo in cui mi trovavo e di non dover dire più, dal
momento che mi sembrava di avere già manifestato molto [del mio stato d’animo], sebbene mi
sembrasse di dover tacere di parlare rivolgendomi direttamente a lei, mi convenne trovare una
materia/via nuova e che fosse più nobile di quella che l’aveva preceduta. E dal momento che la
ragione della nuova materia è molto piacevole a sentirsi, la dirò, nel modo più breve possibile.
[Annuncia quale sarà la natura di questa sua nuova materia] Poiché dalla mia apparenza molte
persone avevano capito che segreto nascondevo nel mio cuore (= il fatto di essere innamorato di
Beatrice), alcune donne, che erano riunite gioendo l’una della compagnia dell’altra, conoscevano
bene in che condizione fosse il mio cuore, dal momento che ognuna di loro aveva assistito a molte
delle mie sconfitte amorose. [Queste sono le donne che capiscono la condizione di Dante] E passai
vicino a loro come se la Fortuna/Provvidenza mi avesse portato lì, fui chiamato da una gentile
donna; e questa che mi aveva chiamato era una signore dal parlato nobile (= spicca tra le altre).
Quando fui giunto davanti a loro, mi resi conto che la mia gentilissima signora (= Beatrice) non
fosse presente tra loro, questo mi rassicurò e lei salutai e mi misi a loro disposizione. [Queste sono
le donne che in assenza di Beatrice capiscono le lodi di Dante verso di lei] Le donne erano tante, e
alcune ridevano/scherzavano tra di loro. Altre mi guardavano, aspettando che dicessi qualcosa.

Altre v'erano che parlavano tra loro. De le quali una, volgendo li suoi occhi verso me e
chiamandomi per nome, disse queste parole: "A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non
puoi sostenere la sua presenza? Dilloci, ché certo lo fine di cotale amore conviene che sia
novissimo". E poi che m'ebbe dette queste parole, non solamente ella, ma tutte l'altre cominciaro
ad attendere in vista la mia risponsione. Allora dissi queste parole loro: "Madonne, lo fine del mio
amore fue già lo saluto di questa donna, forse di cui voi intendete, e in quello dimorava la
beatitudine, ché era fine di tutti li miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio
segnore Amore, la sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote
venire meno". Allora queste donne cominciaro a parlare tra loro; e sì come talora vedemo cadere
l'acqua mischiata di bella neve, così mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri.
→ Altre parlavano tra di loro, delle quali una, rivolse il suo sguardo verso di me e mi chiamandomi
per nome, disse queste parole: “A che fine tu ami questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere
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Letteratura Italiana

la sua presenza? Diccelo, spiegaci com’è fatto questo amore che deve essere assolutamente
insolito”. E dopo che mi disse queste parole, non solo lei, ma tutte le altre donne iniziarono ad
attendere una mia risposta. Allora io dissi queste parole: “Signore, lo scopo del mio amore era
stato il saluto di questa donna, di cui forse voi avete sentito parlare, e in questo stava la
beatitudine che era il fine stesso di tutti i miei desideri. Ma dal momento che le piacque negarmelo
[il saluto], il mio signore Amore, per sua grazia, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non
mi può essere negato (= la lode)”. Allora queste donne cominciarono a parlare tra loro. E come
talora vediamo cadere l’acqua mischiata da neve (= quest’immagine gli ricorda il brusio che sta
venendo dalle donne), così mi parve di sentire le loro parole uscire mischiate di sorrisi.
E poi che alquanto ebbero parlato tra loro, anche mi disse questa donna che m'avea prima parlato,
queste parole: "Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sta questa tua beatitudine". Ed io,
rispondendo lei, dissi cotanto: "In quelle parole che lodano la donna mia". Allora mi rispuose
questa che mi parlava: "Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n'hai dette in notificando la tua
condizione, avrestù operate con altro intendimento". Onde io, pensando a queste parole, quasi
vergognoso mi partio da loro, e venia dicendo fra me medesimo: "Poi che è tanta beatitudine in
quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?". E però propuosi di
prendere per matera de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima ;
e pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia
di cominciare; e così dimorai alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare.
→ E poi che ebbero parlato tra loro, mi disse questa donna, che prima mi aveva parlato, queste
parole: “Ti preghiamo di dirci da dove proviene/in cosa consiste questa tua beatitudine”. E io le
risposi: “In queste parole che lodano la mia donna”. Allora mi rispose questa che mi stava
parlando: “Se tu avessi detto il vero, allora quelle parole che ci hai detto per dichiararci la tua
condizione le avresti spese con altro intendimento” (= le avresti usate subito per lodare Beatrice).
Per cui, pensando a queste parole, quasi vergognandomi mi allontanai da loro e dicendo tra me e
me: “Dal momento che è tanta la beatitudine che viene dalle parole che lodano la mia signora,
perché ho parlato diversamente/perché non ho lodato subito Beatrice?”. E perciò mi proposi di
scegliere come materia del mio parlare per sempre soltanto quello che fosse la lode di questa
signora nobilissima; e pensando molto a questo, mi sembrava quasi di aver scelto una materia
troppo alta in quanto alle mie forze [continua necessità di esporre una sorta di modestia, di
incapacità di dire la grandezza della gentilezza di Beatrice = topos modestiæ], sicché non avevo il
coraggio di cominciare. E così passai molti giorni, con il desiderio di dire ma anche con la paura di
cominciare.
Avvenne poi che passando per uno cammino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto, a me
giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse; e pensai che
parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non
ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine. Allora dico
che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa, e disse: Donne ch’avete intelletto
d’amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio
cominciamento; onde poi, ritornato a la sopradetta cittade, pensando alquanti die, cominciai una
canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione. La
canzone comincia: Donne ch’avete.

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Letteratura Italiana

→ Avvenne passando per un cammino lungo il quale se ne andava un ruscello chiaro, e lì mi


sopraggiunse una tale volontà di dire/parlare, che cominciai a pensare al modo che io avessi per
parlare; e pensai che parlare di lei non era giusto, se io non trovassi il modo per esprimere questa
poesia rivolgendomi a delle donne usando la seconda persona (= il VOI – “Donne ch’avete
intelletto d’amore), ma non ad ogni donna, ma soltanto a quelle che sono gentili e che non sono
semplici femmine. Allora la mia lingua parlò quasi da sé (= come se fosse ispirata), e disse: “Donne
ch’avete intelletto d’amore”. Queste parole le riposi nella mente con gioia, pensandole come mio
incipit/primo verso; per cui, ritornato a Firenze, pensando per un po’ di giorni, cominciai una
canzone con questo incipit, strutturata nel modo che si vedrà di sotto nella sua divisione. La
canzone comincia: Donne ch’avete.
Donne ch’avete intelletto d’amore – è una canzone di cinque stanze di soli endecasillabi a schema
ABBCABBC CDDCEE. La canzone è incentrata sulla lode verso Beatrice. L’idea che Dante non possa
più rivolgersi a Beatrice fa sì che debba trovare altre interlocutrici/destinatarie.
LEZIONE 7
Donne ch’avete intelletto d’amore
Prima stanza:
Io voglio con voi parlare della mia donna/signora, non perché io pensi così di poter esaudire le sue
lodi, ma per dare sfogo ai miei pensieri. Io dico che pensando alla sua virtù l’Amore si fa sentire
così dolcemente, che se io non perdessi il mio coraggio riuscirei a fare innamorare di lei tutte
persone. E non voglio parlare in modo così profondo da diventare per timore insicuro; ma tratterò
della sua gentilezza rispetto a quanto è grande soltanto in maniera approssimativa (= la sua virtù è
troppo grande da poterla dire a parole umane), e parlerò a voi donne e donzelle amorose (=
giovani donne e donne sposate), dal momento che, non è un argomento di cui potrei parlare con
chiunque (= se non con voi).
→ Si ribadisce la grandezza della lode per Beatrice e ritorna il topos modestiæ. Le destinatarie di
questa canzone sono le donne che hanno intelletto d’amore, che conoscono amore e che ne
hanno conoscenza.

Seconda stanza:
Un intelligenza angelica si rivolge con disappunto all’indirizzo del divino intelletto e dice: “Signore,
nel mondo si vede un miracolo negli atti che procedono da un’anima che risplende fin quassù” (=
Beatrice). Il cielo (= dei Beati), che non ha altro difetto che non avere lei (= Beatrice), al loro
Creatore/Dio la chiedono, e ogni Santo la chiamano per grazia (= le chiedono come pegno). Solo la
Pietà che difende noi mortali, quando parla Dio, che intende parlare di madonna (= Beatrice) e
dice: “Miei diletti/Beati, ora sopportate con calma che la vostra speranza (= Beatrice) stia quanto
mi piace là dove si trova qualcuno che attende di perderla, e quando saranno condannati
all’Inferno (= i mortali) diranno: “O dannati/anime dannate, io ho visto la speranza (= Beatrice) che
attende i Beati”.

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Letteratura Italiana

→ Viene introdotta in maniera esplicita quest’immagine di Beatrice che è attesa in un mondo più
adatto a lei. È il cielo a volere Beatrice perché in Terra è un miracolo enorme di beatitudine e di
virtù. I mortali avranno Beatrice – in Terra – finché a Dio piacerà. In sintesi, Beatrice è contesa tra
Cielo e Terra.
Terza stanza:
La mia signora è desiderata dal sommo dei cieli: e ora voglio farvi sapere ancora qualcosa della sua
virtù/del suo valore. E vi dico che ogni donna che vuole essere gentile deve accompagnarsi a lei,
che quando attraversa la via Amore getta nei cuori vili/villani un gelo (= li ghiaccia). Per cui ogni
loro pensiero gela e muore; e qual sopportare se invece di contemplarla si trasformerebbe in una
creatura nobile, oppure muore. E quando trova qualcuno che sia degno di vederla, questi
sperimenta la sua virtù, e gli succede, che quello che gli dona, si trasforma in salute, e tanto si
abbassano le sue virtù negative, che dimentica ogni offesa. Ancora Dio le ha dato, per ulteriore
grazia/premio, che non può morire male (= non può essere dannato) chi ha parlato con lei.
→ Immagine emblematica = il passaggio di Beatrice che crea degli effetti straordinari. È il
passaggio di Beatrice che fa sì che Amore getti un gelo nei cuori dei villani. O si trasformano e
assorbono la virtù di Beatrice oppure muoiono. L’umiltà, altra grande virtù di Beatrice, si
trasferisce a coloro che vengono trasformati e diventano umili.
Quarta stanza:
Amore dice di lei: “Come può una creatura mortale essere così bella e pura?”. Poi la riguarda, e tra
sé stesso afferma che Dio intende farne un evento miracoloso. Hai l’incarnato che è simile al
colore delle perle, nella misura che conviene a una donna di avere, non fuori misura: lei è quanto
di bene può creare la Natura; al suo esempio si può far la prova di cosa sia la bellezza (= Beatrice è
il paragone per misurare la bellezza). Dai suoi occhi, quando li muove, escono degli spiritelli
infiammati d’amore, e feriscono gli occhi di colui che la guarda, e attraversano il cuore di ciascuno
(= gli occhi sono la via di accesso al cuore): voi le vedrete Amore dipinto nel viso, lì dove nessuno
può guardarla fisso (= negli occhi, nello sguardo).
→ È direttamente Amore a parlare di Beatrice. L’incarnato del colore delle perle = candore,
elemento tipico della descrizione delle bellezza femminile = ricorso alle perle = scegliere elementi
naturali per descrivere i colori e la bellezza delle donne.

Quinta stanza:
Canzone, so che tu parlerai, andrai parlando a molte donne, quando io ti avrò
indirizzata/spedita/mandata in mezzo alla gente/in giro per il Mondo. E allora ti esorto, dal
momento che io ti ho cresciuta come se fossi la figlia d’Amore giovane e semplice, e là dove
arriverai dì in tono di preghiera a coloro che ti accoglieranno: “Insegnatemi/indicatemi la strada,
poiché io sono mandata a colei delle cui lodi sono adornata”. E se non vuoi essere inutile, non
stare tra gente vile (= coloro che non sono adatti ad accogliere le lodi di Beatrice) che non ti può
accogliere: ingegnati, se puoi, di manifestarti con donne e uomini cortesi (= nobiltà d’animo), loro
ti condurranno a Beatrice là dove si trova per la via più rapida. Con lei (= Beatrice) troverai lo
stesso Amore: parla in mio favore come devi (= parla bene di me, Dante, ad Amore).
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Letteratura Italiana

→ Dante si rivolge direttamente alla canzone = come se fosse una persona ed è lei l’interlocutrice.
Si esplicita cosa deve fare la canzone e qual è il suo scopo. La canzone è fatta per cercare Beatrice.
Autocommento di Dante a fine della canzone:
Questa canzone, acciò che sia meglio intesa, la dividerò più artificiosamente che l'altre cose di
sopra. E però prima ne fo tre parti. La prima parte è proemio delle sequenti parole; la seconda è lo
intento tractato; la terza è quasi una servitiale (= un serviziale, sta al servizio delle altre) delle
precedenti parole. La seconda comincia quivi Angelo clama; la terza quivi Canzone, io so che. La
prima parte si divide in quatro...
Tanto gentile e tanto onesta pare – prosa che la precede:
Questa gentilissima donna, di cui ragionato è nelle precedenti parole, venne in tanta gratia delle
genti, che quando passava per via, le persone correvano per vedere lei, onde mirabile letitia me ne
giugnea nel cuore. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestà giugnea nel cuore di quello,
che non ardia di levare gli occhi, né di rispondere al suo saluto. E di questo molti, sì come esperti,
mi potrebbono testimoniare a chi no·llo credesse. Ella coronata e vestita d’umiltà s’andava, nulla
gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è
femina, anzi è de’ bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che
benedecto sia lo Signore, che sì mirabilemente sa operare!». Io dico che ella si mostrava sì gentile
e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e
soave tanto, che ridire no·llo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio
nol convenisse sospirare.
→ [Prosa in cui si anticipano gli effetti miracolosi del passaggio di Beatrice] La gentilissima donna,
riferendomi ai paragrafi precedenti, la sua gentilezza ha trovato tanta benevolenza tra le gente,
che quando passava per le vie, le persone correvano per vederla, [l’effetto che dà è quella letizia
che contraddistingueva anche Amore] il cuore di chi la vede viene attraversato dalla gioia che
dona. E quando si trovava vicino a qualcuno, tanta nobiltà giungeva nel cuore di chi le stava
accanto, che non sopportava di sollevare gli occhi (= non reggere il confronto con la virtù che
emana Beatrice dagli occhi), né tanto meno di rispondere al suo saluto. E di questo effetto molti,
dal momento che l’hanno sperimentato, mi potrebbero dare testimonianza a chi non crede di
questa sua potenza. Era addirittura coronata e vestita di umiltà (= effetto che ha lei stessa), tanto
che non si mette in mostra di quello che vede e ascolta. Molti dicevano, dal momento che era
passata: “Questa non è una donna/creatura umana, ma sembra uno dei bellissimi angeli del cielo”.
Altri dicevano: “Questa è un miracolo; e sia benedetto il Signore, che sa fare opere così mirabili!”
(= Beatrice è un’opera miracolosa di Dio). E lei si mostra piena di tutta la gentilezza e di tutta la
piacevolezza che ha, che coloro che la guardavano riuscivano ad accogliere il loro una dolcezza così
onesta e così soave che non riuscivano ad esprimerla, e anzi genera a coloro che la riescono a
guardare soltanto questo sospiro di beatitudine.
Queste e più mirabili cose da·llei procedeano virtuosamente. Onde io pensando a·cciò, volendo
ripigliare lo stilo della sua loda, propuosi di dicere parole nelle quali io dessi ad intendere delle
sue mirabili ed excellenti operationi, acciò che non pur coloro che la poteano sensibilemente
vedere, ma gli altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere. Allora dissi
questo sonetto Tanto gentile.

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Letteratura Italiana

→ Viene esplicitato il nuovo stile – della lode per Beatrice – e parlare di lei è un modo di farla
conoscere a coloro che non possono vedere sensibilmente e potranno conoscere attraverso la
lode di Dante = è la sua “missione”.
Tanto gentile e tanto onesta pare:
Tanto gentile e tanto onesta pare A
la donna mia quand’ella altrui saluta, B
ch’ogne lingua deven tremando muta, B
e li occhi no l’ardiscon di guardare. A
Ella si va, sentendosi laudare, A
benignamente d’umiltà vestuta; B
e par che sia una cosa venuta B
da cielo in terra a miracol mostrare. A
Mostrasi sì piacente a chi la mira, C
che dà per li occhi una dolcezza al core, D
che ’ntender no la può chi non la prova:
Tanto nobile e tanto virtuosa appare alla vista la
E
mia donna, quando saluta qualcuno, che tutti
e par che de la sua labbia si mova E
quanti, tremando, ammutoliscono, e abbassano gli
un spirito soave pien d’amore, D
occhi per paura di guardarla in volto.
che va dicendo a l’anima: Sospira. C
Ella cammina, ascoltando le lodi di chi la vede, in
→ La musicalità del sonetto sembra atteggiamento umile e benevolo e sembra che sia
quasi riprodurre il passaggio di Beatrice qualcosa di divino, una cosa scesa dal cielo sulla
tra le gente. La prosa precedente ha già terra per dare agli uomini la prova del miracolo.
preannunciato gli effetti miracolosi e il A chi la guarda si mostra così bella che attraverso
sonetto ne esalta attraverso la musica e gli occhi entra nel cuore una dolcezza che è
il ritmo. Il sonetto si conclude con incomprensibile a chi non ne fa diretta esperienza;
“sospira” così come si era conclusa la ed è come se dal suo volto uscisse uno spirito
prosa. soave carico d’amore che sembra dire all’anima:
“Sospira”.

Appresso questo sonetto, apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero
proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente
trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com'ella sae, veracemente; sì che, se
piacere sarà di Colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di
dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia,
che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna: cioè di quella benedetta
Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.

→ [Finale enigmatico e allo stesso tempo una delle tante idee geniali di Dante] Dopo il sonetto,
che ha preceduto l’ultima visione di Beatrice, nella quale io vidi cose che mi fecero pensare di non
dire più di questa benedetta (= Beatrice), fino a tanto che io potessi in modo più adeguato parlare
di lei. E io mi impegno quanto posso, di ottenere a fare ciò, davvero; come lei sa, cosicché se
piacerà a colui dal quale discendono tutte le cose (= Dio), che la mia viti per un certo numero di
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Letteratura Italiana

anni, io spero di dire di lei quello che non fu mai detto da qualcuno. E sempre piaccia a colui che
è signore della cortesia (= Dio), che la mia anima possa andare a vedere la gloria dei cieli della sua
signora: cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente guarda nella faccia di colui che è
per tutti i secoli benedetto (= Dio).
→ Il finale della Vita Nova è un’anticipazione della Commedia – così alcuni critici pensano.

LEZIONE 8
Il Trecento: Dante, Petrarca e Boccaccio – secolo delle tre corone fiorentine
 Dante Alighieri (1265 – 1321)
 Francesco Petrarca (1304 – 1374)
 Giovanni Boccaccio (1314 – 1375) → primo commentatore di Dante

DANTE ALIGHIERI – COMMEDIA (1304/08 – 1321)


Composizione → si colloca dopo l’esilio (1302) ma non è certo. A partire dal 1308 si sa per certo
che Dante si dedicherà interamente alla Commedia fino alla sua morte, 1321. È un opera
fortemente radicata nella storia = è importante capire la datazione. La presenza e il rapporto con
la storia è ben evidente – è un poema che parla dell’umanità e della sua salvezza e spesso lo fa
mettendosi a confronto con la realtà storica. Dante, dopo le Rime Petrose, inizia il suo periodo di
attivismo politico che combacia con lo studio della filosofia. Nel 1295 si iscrive all’Arte dei Medici
e Speziali = carriera politica che gli dà grandi successi. Nel 1300 entra nel Priorato = carica più alta
all’interno della carriera politica fiorentina.
La situazione politica di Firenze → vi erano ghibellini (= coloro che patteggiavano per l’Impero)
che furono scacciati dalla città, e i guelfi (= coloro che simpatizzavano per il Papa). Vi erano delle
tensioni → si crea una sorta di microfrattura interna = Donati (Fazione dei Neri) e i Cerchi (Fazione
dei Bianchi). Dante è un guelfo “moderato” – da un lato è legato per questioni famigliari ai Donati
(= poiché ha sposato Gemmai Donati) e dall’altro lato il suo più caro amico, Cavalcanti, è schierato
dalla parte dei Bianchi contro il Pontefice Bonifacio VIII. Nel 1300 i Priori decidono di allontanare
da Firenze i Bianchi = Cavalcanti. Lo stesso Bonifacio VIII cerca di esercitare il proprio potere su
Firenze. Sembrerebbe che a sanare le tensioni tra Neri e Bianchi, il Papa mandò Carlo di Valois (=
fratello del re di Francia) → in realtà sarà colui che determinerà l’avvento della Fazione dei Neri e
la disgrazia dello stesso Dante. Dante verrà mandato a Roma nel 1301 per cercare di ricomporre le
fazioni. Mentre Dante è lontano, Carlo di Valois aiuta i Neri a scalzare il governo dei Bianchi e a
nominare un nuovo Priorato = cerca di liberarsi dei vecchi Priori con varie accuse – tra cui Dante
che verrà accusato di baratteria nel 1302 → finirà poi per andare in esilio dove inizierà a scrivere.
Le datazioni:
1. Inferno (1304-08)
2. Purgatorio (1308-12 – 1313-15 prima diffusione delle prime due cantiche – circolano
manoscritte e volute/autorizzate dallo stesso Dante)
3. Paradiso (1316-1321) – accompagna gli ultimi anni della vita di Dante
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Letteratura Italiana

È il figlio Jacopo a farsi interprete degli ultimi manoscritti della Commedia e a pubblicarla. La
composizione, dunque, si può datare tra il 1304-1321.
Titolo → scelta dantesca o scelta imposta? Commedia o Comedìa? È un testo autorizzato da un
erede di Dante, il figlio, dunque non da lui stesso. La nota dell’epistola XIII a Cangrande della Scala
– Libri titulus est: “Incipit Comedia Dantis Alagherii, fiorentini natione, non moribus”. [...] e per le
note / di questa comedìa, lettor, ti giuro, / s'elle non sien di lunga grazia vòte, / ch'i' vidi per
quell'aere grosso e scuro / venir notando una figura in suso... (Inf. XVI, 127-131). Così di ponte in
ponte, altro parlando / che la mia comedìa cantar non cura, / venimmo... (Inf. XXI, 1-3).
[…] quando a Iacopo, il quale in ciò era molto più che l'altro fervente, apparve una mirabile
visione, la quale non solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove fossero li
tredici canti, li quali alla divina Comedia mancavano, e da loro non saputi trovare. (Trattatello in
laude di Dante, 69). La Divina Comedia di Dante, di nuovo alla sua vera lettione ridotta con lo aiuto
di molti antichissimi esemplari. Con argomenti, et allegorie per ciascun canto, & apostille nel
margine. Et indice copiosissimo di tutti i vocaboli piu importanti vsati dal poeta, con la sposition
loro, In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari, et fratelli, 1555. L’alta mia [di Virgilio] tragedìa
= Eneide (Inf. XX, 13). Definizione di genere di narrazione poetica (materia) o di stile modus
loquendi?
L’aggettivo “divina” deriva da Boccaccio – grande interprete, commentatore dell’opera di Dante.
“Comedìa” ha a che fare con il tipo di narrazione = la materia (= inizia dalla narrazione di
situazione difficili, ma la sua materia finisce bene) o se vuole essere un’indicazione allo stile (=
dimesso e umile perché si tratta della parlata volgare – l’umiltà non è un tratto negativo)? Si
adatterebbe più alla materia e allo stile trattato nelle prime tre cantiche. L’uso della lingua volgare
potrebbe essere legato al fatto di nominare l’opera “Commedia” = i personaggi della commedia
sono meno illustri rispetto a quelli della tragedia. Nel Paradiso troviamo altre citazione di come
Dante intendeva la sua opera. E così, figurando il paradiso, / convien saltar lo sacrato poema, /
come chi trova suo cammin riciso. (Par. XXIII, 61-63) – Se mai continga che 'l poema sacro / al
quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m'ha fatto per molti anni macro (Par. XXV, 1-3).
“Poema sacro” poteva essere il titolo alternativo = quello che aveva promesso a Beatrice di fare.

Struttura → è una struttura “parlante”, piena di significati studiati tutti nel minimo dettaglio. La
commedia è suddivisa in Inferno, Purgatorio e Paradiso → tre cantiche in terzine, 33 canti per
ogni cantica + 1 = 100 canti. Il viaggio narrato da Dante nel poema si svolge nell’arco di circa una
settimana, da venerdì 8 aprile (o 25 marzo) a giovedì 14 aprile (o 31 marzo) dell’anno 1300: è
l’anno del primo Giubileo indetto da Papa Bonifacio VIII. Invenzione dantesca → la terzina (= è
un’imitazione del serventese utilizzato già nella letteratura provenzale o è un prestito del
sonetto?).
La terza rima (o terzina incatenata, o terzina dantesca) è prima di tutto la forma metrica della
Divina Commedia, i versi, tutti endecasillabi, sono riuniti in terzine e queste in gruppi più ampi,
secondo lo schema ABA BCB CDC DED… YZY Z. Una serie di terzine chiuse formalmente all’inizio e
alla fine di una coppia di rime (A…A, Z…Z) è detta “canto” da Dante nell’Inferno XX, poi capitolo

31
Letteratura Italiana

ternario, o anche capitolo o semplicemente ternario. Un canto termina con un verso isolato in
rima con il secondo dell’ultima terzina, …YZY Z. Metro cantabile e in grado di reggere la narrazione.
↓ L’UNIVERSO DANTESCO ↓
Tutti e tre i regni fanno parte di una visualizzazione unica o concentrica. L’Inferno = Dante lo
immagina come se fosse un cono rovesciato che sorge sotto la città di Gerusalemme, più si scende
e più le pene peggiorano fino ad arrivare al peccatore per eccellenza ovvero Lucifero. Prima di
entrare vi sono due soglie = Antinferno in cui ci sono gli Ignavi (= coloro che hanno male impiegato
il loro libero arbitrio, non hanno scelto né il bene né il male) e dopo vi è il Limbo = piccola
“Invenzione di Dante” in cui si trovano i morti non battezzati e coloro che non hanno potuto
conoscere Dio (= per ragioni storiche o geografiche) nonostante la vita virtuosa che hanno vissuto
– tra i quali Virgilio stesso. Il vero ingresso parte dai Lussuriosi dove si trova Minosse, I-V è il
cerchio degli Incontinenti (= coloro che hanno sottomesso la ragione a delle passioni ma senza
malizia). Prima di entrare nel secondo blocco di dannati – i Violenti – Dante si inventa le Mura
infuocate della città di Dite = primo spartiacque all’interno della geografia fantastica. Tra gli
Incontinenti e i Violenti si collocano gli Eretici (= coloro che hanno negato la fiducia
nell’insurrezione). Il VII cerchio è quello dei Violenti (= coloro che si sono macchiati del peccato
della violenza nelle sue declinazioni). La zona più delicata e dove i peccati crescono di grado
ovvero il VIII cerchio quello dei Fraudolenti divisi in due = coloro che hanno ingannato chi non si
fida (= esercitato l’inganno all’indirizzo di chi non aveva ragione di fidarsi di loro) e contro coloro
che hanno ingannato chi si fidava di loro.
Infondo all’Inferno troviamo Lucifero = rappresentato con dei tratti che hanno a che fare con una
forte parodia verso Dio = rappresentato con tre teste e tre bocche che divora Bruto e Cassio ai lati,
Giuda al centro → parodia della santa trinità.
Nella sofisticata geografia del mondo dantesco, bisogna passare da Lucifero = Virgilio e Dante si
arrampicano su di lui per giungere alla montagna del Purgatorio.

LEZIONE 9
Non è futile imparare e cercare di immaginare il mondo che si immagina Dante → tutto ruota
intorno a una geografia simbolica.
32
Letteratura Italiana

Il cono dell’Inferno si è prodotto dalla caduta di Lucifero (= dopo essere stato cacciato) e le terre
emerse si sarebbero concentrate dall’altro lato rispetto al centro della terra (= dove si trova
Lucifero). Lo spostamento avrebbe generato la montagna del Purgatorio che si trova nell’emisfero
sud – la montagna del Purgatorio è un’isola immersa nell’oceano.
PURGATORIO → struttura articolata e divisa in parti. Abbiamo divisioni in zone e sottozone =
Dante e Virgilio arrivano dal mare dell’emisfero australe dove incontrano Catone (= sulla soglia,
nella prima zona – l’ANTIPURGATORIO dove si trovano le anime purganti che hanno tardato a
pentirsi). Il Purgatorio, nella concezione di Dante, non è un’altra sorta di Inferno ma è
un’anticipazione del Paradiso → chi si trova nel Purgatorio potrà ascendere, cambia solo il tempo
che impiegheranno per raggiungere Dio. Dopo l’Antipurgatorio si trovano le sette cornici del vero e
proprio Purgatorio in cui si purgano i sette peccati capitali. L’ultimo “spazio” è il Paradiso Terrestre
– soglia che prelude al regno di Dio = Paradiso.
Nella prima schiera dell’Antipurgatorio tutte le anime sono state negligenti, tarde nel pentirsi – in
questa prima schiera si trovano quelle che si sono pentite e sono morte scomunicate. Nella
seconda schiera troviamo i negligenti che hanno aspettato fino all’ultimo per pentirsi. Nella terza i
negligenti a pentirsi morti di morte violenta. Nella quarta i principi negligenti a pentirsi. La “valletta
fiorita” è uno spazio in cui si raccolgono questi spiriti nobili che si sono pentiti sempre troppo tardi.
Si passa poi ad una porta del Purgatorio, dopo il rito di purificazione imposto da Catone, si trova
un angelo che inciderà sulla fronte di Dante le 7 P (sette peccati capitali che poi verranno
cancellati dagli altri angeli – superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria).
Vi sono sette sottoinsiemi che vanno per due gruppi di tre e uno separato che si trova al centro =
i primi tre peccati ad essere purgati sono la superbia, l’invidia e l’ira (= queste anime hanno
peccato per un amore rivolto nei confronti del male altrui). Al centro si trovano accidiosi che sono
delle anime che hanno amato “male”, con poco vigore Dio. Gli altri tre peccati sono l’avarizia, la
gola e la lussuria i quali derivano da un amore eccessivo per i beni terreni, materiali. La
permanenza all’interno del Purgatorio dipende dalla gravità di una determinata colpa e il tempo
può essere accorciato dalle preghiere da parte di chi si trova in terra. Il tempo è variabile ma il
funzionamento delle cornici ruota intorno a delle costanti → in tutte le cornice si assiste ad esempi
di virtù contrari al vizio che viene purgato in quella determinata cornici. Vi sono anche degli
esempi delle conseguenze nefaste che vengono dal vizio, dal peccato specifico che viene purgato
in quella determinata cornice. Gli spazi si concludono con un canto che esalta una delle beatitudini
ricordate nel discorso evangelico della montagna = sono le virtù che si contrappongono ai vizi
capitali. La cantica funziona moltissimo sull’idea della rilevanza di certe immagini = gli esempi di
virtù e delle conseguenze dei vizi sono delle piccole narrazioni (exempla) per rappresentare la virtù
contraria al vizio.

PARADISO TERRESTRE → Virgilio qui cede il suo posto a Beatrice (= entità superiore, simbolo di
fede, rivelazione, grazia e teologia). Beatrice non accoglie Dante in maniera “serena” ma come una
madre che rimprovera il figlio di essersi perso – e per questo sarà colei che lo salverà e lo condurrà
fino al cielo dei Beati. Un passaggio importante è la Sacra rappresentazione sulla storia della
Chiesa – dalla sua fondazione fino alla degradazione in cui si trova secondo Dante (= supremazia

33
Letteratura Italiana

che il regno di Francia esercita sulla chiesa del tempo). Successivamente, Dante deve attraversare
due riti di purificazione mediante il passaggio di due fiumi → LETÈ (= cancella la memoria del
male compiuto) e il EUNOÈ (= rinvigorisce il ricordo del bene per prepararsi al terno regno).
PARADISO → geografia complessa e con una grande invenzione di Dante = i Beati dovrebbero
essere tutti allo stesso “livello” (= Empireo) – Dante trova un modo per incontrali tutti e perché
queste anime possano venirgli incontro. S’inventa una geografia basata sul numero 9 e sull’idea
che gli vengano incontro le anime a seconda dei Pianeti che di più hanno contraddistinto la natura
di queste anime beate. I primi sette cieli attraverso i quali Dante entra in contatto con le anime
rispondono ai vari pianeti → Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno – segue il Cielo
delle Stelle Fisse e il Cristallino Primo Mobile. Ancora più in alto troviamo l’Empireo con la rosa dei
Beati e la contemplazione di Dio. Vi è un tentativo di spazializzare questa beatitudine per rendere
possibile a Dante l’incontro con i Beati. I primi cieli, dal primo al terzo (Luna, Mercurio, Venere),
riuniscono i Beati i cui meriti furono oscurati da inclinazioni di natura terrena. Dal quarto al
settimo (Sole, Marte, Giove, Saturno) troviamo i Beati che hanno rivolto interamente le loro opere
a Dio = Prudenza, Fortezza, Giustizia e Temperanza (= quattro virtù cardinali). Dal settimo
all’ottavo (Stelle Fisse) troviamo Cristo, Maria, Pietro, Giacomo e Giovanni (= Fede, Speranza e
Carità). Nel nono cielo (Primo Mobile) Beatrice illustra a Dante le gerarchie angeliche.
Altra figura di guida all’interno della Commedia è San Bernardo di Chiaravalle = Beatrice lo affida a
Dante per l’ultimo passaggio. La sua scelta è dovuta al fatto che è stato un mistico (=
contemplazione di Dio) e per essere devoto alla Vergine Maria.
STRUTTURA DEI TRE CANTI:
1. INFERNO I (Prologo): Dante nella selva (vv. 1-12, 4 terzine), La piaggia e le tre fiere (vv. 13-
60, 6 + 10 terzine), Virgilio, profezia di un Giustiziere (= antagonista della lupa), proposta
del viaggio nell’Oltremondo (vv. 61-136, 25 terzine).
2. PURGATORIO I: Nuovo argomento e invocazione alle Muse (vv. 1-12, 4 terzine), Cielo
stellato (vv. 13-37, 5 terzine), Catone (vv. 28-108, 27 terzine), Rito di purificazione (vv. 109-
136, 9 terzine).
3. PARADISO I: Proposizione del tema (vv. 1-12, 4 terzine), Invocazione ad Apollo vv. 13-36, 8
terzine – Dio della poesia), Beatrice e Dante si innalzano verso i cieli (vv. 37-81, 15 terzine),
Ragioni di questo movimento, il gran mare dell’essere (vv. 82-142, 20 terzine).
PROTAGONISTI:
 INFERNO I (Prologo): Dante, le tre fiere, Virgilio
 PURGATORIO I: Dante, Virgilio, Catone
 PARADISO I: Beatrice, Dante

TEMI:
 Inferno I → Condizione di Dante e dell’umanità, i peccati che affliggono Dante (e
l’umanità), necessità di un nuovo equilibrio politico ed etico (immagine enigmatica che
rimanda al bisogno di un rinnovamento, un personaggio che rappresenti il rinnovamento

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Letteratura Italiana

politico e morale a cui Dante aspira), viaggio verso la salvezza. È un canto che ha delle forti
relazioni con la storia e con la condizione dell’intera umanità = doppia prospettiva.
 Purgatorio I → Il mondo dei purganti, valore della libertà (spirituale e politica), necessità di
una purificazione dal mondo infero, esule che torna alla patria (= condizione degli esseri
viventi). Catone rappresenta la libertà politica e richiama la libertà spirituale alla quale
Dante aspira – tutte le anime aspirano a questa per liberarsi dal peccato. Lo stile nel
Purgatorio è più elevato rispetto all’Inferno.
 Paradiso I → Necessità di un nuovo protettore per l’ultima fatica, trasumanare (= superare
la condizione umana per attraversare l’ultimo dei regni), equilibrio e armonia dei cieli. Qui
lo stile ha bisogno di strumenti linguistici differenti rispetto ai primi due regni = deve essere
degno delle cose trattate.
→ La lettura più accreditata per la definizione del tempo fa sì che Dante si trovi il 25 marzo del
1300 a raccontare il suo viaggio – Venerdì Santo ←
Dante nella selva (Inferno I vv. 1-12) → “Nel mezzo del cammin di nostra vita” = linguaggio
quotidiano che allude ai 35 anni di vita. “Di nostra vita” = esistenza di Dante personaggio e poeta e
si riferisce anche all’umanità che viene sempre citata, doppia prospettiva. “Selva oscura” =
rappresentazione del peccato, Dante che si trova in quella situazione di smarrimento della diritta
via. È difficile dire com’era questa “selva selvaggia” (= figura etimologica → è una figura retorica
grammaticale e insieme semantica che consiste nell’accostamento di due parole aventi la stessa
radice). I tre aggettivi = selvaggia, aspra e forte rendono chiaro quanto sia intricato lo spazio del
peccato in cui Dante si è ritrovato a 35 anni. “Tant’è amara” = “amaro” è un aggettivo che rimanda
allo sgomento che deriva dalla selva e all’amarezza che deriva dal peccato. Il “ma” serve spesso
per cambiare argomento. La prima sequenza ci mostra l’incipit con lo smarrimento della diritta via.
Vi è una preparazione di ciò che avverrà in seguito.
La piaggia e le tre fiere: la lonza (Inferno I vv. 31-36) → la lonza rappresenta la lussuria = il primo
dei peccati che affliggono Dante. La “piaggia” è una zona intermedia di salita tra la valle e il monte.
“Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta” = mi apparve, si presentò. La lonza è ricoperta da un pelo
maculato = allusione simbolica al peccato, alla varietà del peccato della lussuria. “…volte vòlto” =
figura etimologica.
La piaggia e le tre fiere: il leone (Inferno I vv.37-48) → il leone rappresenta la superbia.
L’apparizione del secondo animale è preceduta da altre indicazioni cronologico-temporali –
strumenti attraverso i quali ricostruiamo il viaggio di Dante. “…’n su con quelle stelle” = quando il
Sole entra in congiunzione con la costellazione dell’Ariete = era mattina e primavera = tempo di
rinnovamento che corrisponde al momento della creazione. “Gaetta pelle” è un francesismo.
“Desse, venisse, tremesse” = isse:esse = rima siciliana. L’immagine della testa alta richiama il
peccato della superbia.
La piaggia e le tre fiere: la lupa (Inferno I vv. 49-60) → la lupa rappresenta l’avarizia. “Dove ‘l sol
tace” = sinestesia → figura retorica che consiste nell’associare in un’unica immagine due parole o
due segmenti discorsivi riferiti a sfere sensoriali diverse.
L’apparizione di Virgilio (Inferno I vv. 61-90) → mentre Dante sta scivolando verso il basso lo
incontra. Virgilio rappresenta la ragione di cui Dante ha bisogno per affrontare questo viaggio –

35
Letteratura Italiana

ragione che ha a che fare con la poesia, con la saggezza poetica di cui il poeta ha bisogno.
Interessante l’immagine con cui Dante ci presenta Virgilio = è un silenzio lungo che deriva dalla
distanza temporale che separa Dante da Virgilio → Virgilio ha parlato in un tempo lontanissimo
per cui la sua voce è stata costretta al silenzio tanto a lungo da apparire tanto fioca quando si
riattiva OPPURE riferimento alla sua funzione all’interno della vita di Dante = la ragione che Dante
ha messo sotto silenzio quando ha smarrito la diritta via ed è rauca quando ricomincia a parlare.
Virgilio = ragione e personaggio storico. Il fatto di citare il luogo della propria patria è un tratto
distintivo dei personaggi che Dante incontra = elemento della loro “carta d’identità”. Quando
Virgilio nasce, Giulio Cesare è all’inizio della sua giovinezza e ancora non è quello che
successivamente sarà. Come si presenta Virgilio? Come poeta dell’Eneide. “Ilïón” = altro nome
per indicare la città di Troia. “Or se' tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo
fiume?” = immagine per descrivere l’eloquenza del poeta Virgilio che è una fonte che sparge della
parola un largo fiume. Dante riconosce Virgilio come autorità e come guida. Vv. 86 → quel “lo
bello stilo” è stato recentemente interpretato come un riferimento a quello stilo della lode che
segna una svolta all’interno della Vita Nova (continuità tra quest’ultima e la Commedia) –
riferimento al primo libro di Dante = libello. Dante riconosce Virgilio come autorità e come guida.
LEZIONE 10
Profezia di un Giustiziere (Inferno I vv. 91-111) → rimanda a una dimensione storica ed
esistenziale sempre presente nella Commedia, necessità che riguarda l’umanità di quel tempo.
Virgilio anticipa il fatto che Dante dovrà seguire un altro percorso, che sta per iniziare. Ritorno del
primo aggettivo “selvaggio” citato all’inizio per la selva. “Per la sua via” = cammino di chi sta
procedendo in cui Dante si identifica OPPURE come cammino della lupa stessa → in ogni caso
impedisce il passaggio. La bramosia è tipica dell’avarizia → la lupa non si sazia mai, nonostante
abbia mangiato = accumulare beni. “Molti” = riferimento agli uomini che si macchiano di questo
peccato = esseri viventi che si uniscono all’animale OPPURE riferimento agli altri vizi che
accompagnano la cupidigia.
“VELTRO” → animale/cane da caccia che farà morire con dolore la lupa, che finalmente la scaccerà
→ riferimento enigmatico di qualcuno che dovrà ristabilire un equilibrio morale e storico-politico.
“Tra feltro e feltro” = riferimento geografico → Feltre e Montefeltro = due toponimi reali dell’Italia
del tempo – figure più care al Dante esiliato = Cangrande della Scala o Arrigo VII – alcuni pensano
sia una divinità.
Proposta del viaggio nell’Oltremondo (Inferno I vv. 112-136) → rappresentazione del viaggio.
Virgilio anticipa le caratteristiche dei Regni che dovranno attraversare. La prima perifrasi si riferisce
all’Inferno, la seconda al Purgatorio e la terza al Paradiso = “breve presentazione” delle loro
caratteristiche. Il secondo canto dell’Inferno sarà simile alla funzione che hanno i primi due canti di
Purgatorio e Paradiso + incertezza di Dante per proseguire questo viaggio = è degno o meno di
compiere un viaggio che in passato è stato compiuto soltanto da Enea e San Paolo.
Dante per gli ultimi due regni – Purgatorio e Paradiso – si affida a una diversa nota coloristica e
luministica → ricorso alla luce come immagine della grazia di quella luce divina che illumina
coloro che si sono pentiti e coloro che sono beati – la luce crescerà d’intensità. Ci sono delle
somiglianze dal punto di vista dell’organizzazione = il primo riguarda la presenza dell’Invocazione
dal un lato alle Muse e dall’altro ad Apollo (= tipico del poema di intonazione alta). La lingua e lo
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Letteratura Italiana

stile saranno più adeguati a questi ultimi due regni, così come il rivolgersi alle divinità. La
connotazione dell’ambiente ha un grande spazio sia nel primo del Purgatorio che nel primo del
Paradiso.
CATONE (guardiano del Purgatorio) → scelta insolita e difficile da spiegare → uomo precristiano ed
è anche un suicida + un oppositore di Cesare = dell’Impero. Catone è comunque un immagine di
virtù e di un buon operare che anche se non illuminato dalla fede in Dio, in realtà è riconosciuto
dalle grandi braccia della misericordia divina. L’essere un suicida è un problema = i suicidi
vengono trattati violentemente da Dante. Il suicidio, data la motivazione di Catone, viene
compreso e “perdonato” dato che è stato generato/motivato da una forte ricerca di libertà. La
figura di Catone è centrale nel primo canto del Purgatorio e altrettanto sarà la figura di Beatrice
nel Paradiso. L’immagine del trasumanar è centrale nel primo canto del Paradiso e che consente a
Dante di uscire dai limiti della condizione umana per giungere a incontrare le anime beate + Dio =
per prepararsi alla visione mistica.
La conclusione del primo canto del Purgatorio è fortemente simbolica richiesta da Catone stesso =
rito di purificazione, passaggio da un’ambientazione oscura a questa luce che richiede di “ripulirsi”
= a Dante verrà chiesto di ripulirsi lo sguardo dalle ceneri lasciate dal passaggio dell’Inferno. Altra
immagine → giunco = simbolo di umiltà che sarà un tratto distintivo nell’atto della purgazione (= è
una pianta simbolica). Beatrice, nell’atto finale, spiegherà a Dante cosa fare, le nuove “regole” del
regno del Paradiso (come una paziente e saggia madre = forte mediazione).
Incipit Purgatorio I vv. 1-12 → inizio di un nuovo passaggio. La navicella/barchetta dell’ingegno del
poeta si lascia dietro un mare che era così crudele (= Inferno). L’Invocazione alle Muse = devono
aiutare Dante dal momento che sono le protettrici della poesia. “Calliope” = è la musa della poesia
epica = livello più alto della poesia → Dante, non a caso, la sceglie = Calliope diventa la
rappresentante delle Muse che devono innalzarsi nella seconda cantica del poema. Dante si
riferisce alla tradizione classica che sarà sempre un punto di riferimento nella Commedia. Le
Pieridi sono le figlie di Pierio = immagini di superbia che osano sfidare Calliope, verranno sconfitte
e trasformate in gazze/piche dal suono della poesia di Calliope.
Le Muse vengono chiamate in causa anche nell’ Inferno II vv. 7-9 = “O muse, o alto ingegno, or
m'aiutate; o mente che scrivesti ciò ch'io vidi, qui si parrà la tua nobilitate”.

Paradiso I vv. 13-27 → Non bastano più le Muse e Dante invocherà anche il Dio della poesia =
Apollo = virtù. Il Parnaso è il monte della poesia, abitato da un lato dalle Muse e dall’altro da
Apollo – riferimento alle due forme della poesia = forme terrestri (Muse) e poesia che canta cose
divine/celesti (Apollo) → Dante ha bisogno di entrambi. Immagine presente nella Metamorfosi di
Ovidio = Marsia che sfida Apollo → quest’ultimo lo scuoiò e lo cucì dentro la sua stessa pella.
Dante si inginocchierà davanti all’albero di alloro per essere incoronato e per essere degno della
protezione che gli viene offerta da Apollo stesso.
Purgatorio I, Il cielo stellato vv. 13-27 → mattutino e alba del 27 marzo, domenica. La dolcezza
con cui si apre la descrizione del cielo stellato è l’aggettivo che si adatta a tutto il mondo del
Purgatorio = dolcezza di quell’umiltà che i purganti hanno per purgarsi in maniera di essere degni
per il terzo regno. “L’oriental zaffiro” = modo per rappresentare l’azzurro partendo dal colore di
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Letteratura Italiana

questa pietra preziosa – questo azzurro si raccoglie nel sereno aspetto dell’aria = l’aria è
dolcemente azzurrata. Questa dolcezza ridà a Dante diletto. “Lo bel pianeto” = Venere = prima
stella del mattina e l’ultima a spegnersi la sera = pianeta più luminoso e faceva ridere tutto
l’Oriente → cambia la visione del cosmo che Dante e Virgilio hanno. Descrizione sofisticata per
descrivere l’ora del mattino = vv. 19-21. Le “quattro stelle” sono state interpretate con un valore
simbolico e rappresentano le quattro virtù cardinali = prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.
La nuova ambientazione diventa fondamentale per presentare Catone, il protagonista di questo
canto.
Purgatorio I, Catone vv. 28-108 → è una presentazione potente di virtù e saggezza. Dante si
rivolge là dove l’Orsa Maggiore non era più visibile = il tempo sta scorrendo. Catone è una figura
che si presenta piena di autorevolezza, Dante è come un figlio che riconosce l’autorità del proprio
padre (= in questo caso riconosce l’autorità di Catone). È importante la relazione con le quattro
stelle precedenti poiché risplendono sul volto di Catone e lo abbelliscono → come se avesse il sole
davanti o come se nel suo volto si rispecchiasse la luce del sole → immagine fortissima della virtù-
luce. Discorso = figura retorica dell’anafora (ripetizione di “chi”) → consiste nel ripetere, in
principio di verso o di proposizione, una o più parole con cui ha inizio il verso o la proposizione
precedente. Accenno all’ascesa di Beatrice che ha invocato Virgilio come “scorta” di Dante per il
viaggio.
La libertà per cui Catone può capire bene il viaggio di Dante è la stessa che cercava quando era in
vita = immagine di una libertà morale e dello spirito che Dante cerca. Altra figura importante a cui
Virgilio ricorre è Marzia = moglie di Catone – Marzia, secondo una prassi della Roma antica, si era
unita a un secondo marito (Quinto Ortensio) e dopo la sua morte tornò da Catone.
LEZIONE 11
Purgatorio I, Rito di purificazione vv. 109-136 → l’ultima terzina ha un valore tematico importante
per la cantica = idea che segna tutto il Purgatorio = ritorno alla propria sede attraverso la strada
che ha perduto = idea del pellegrino che ritorna a casa. Idea delle lacrime sporche di Dante che gli
rimasero dall’Inferno → immagine che prelude alla purificazione. Allusione al mito di Ulisse vv.
130-136 → in quel mare che non fu percorso da nessun uomo e che nessuno fu in grado di
raccontare = il destino di Ulisse si arresta e non può procedere oltre la montagna del Purgatorio →
il viaggio di Ulisse non è stato “benedetto”, voluto da Dio. In queste ultime terzine si consuma il
vero e proprio rito di purificazione = viene preso il giunco, simbolo dell’umiltà, e avviene un
miracolo = il giunco viene strappato da Virgilio e “risorge” → rimanda al viaggio di Enea,
nell’Eneide (= Enea strappa un ramoscello e questo risorge). Idea di una rinascita interiore (= alba,
primavera).

Paradiso I → l’invocazione ad Apollo occupa un grande spazio in questo primo Canto poiché Dante
ha bisogno di lui per trattare di temi alti e sacri = materia divina. Mito di Dafne che viene
trasformata in alloro = pianta sacra ad Apollo + Mito di Marzia (= osa sfidare Apollo e che viene
scuoiato).

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Letteratura Italiana

Purgatorio I / Paradiso II, vv. 1-9 → immagine dell’idea del testo come viaggio = immagine
fortunatissima che Dante usa per esprimere i suoi passaggi, il cambiamento di atmosfera e di
spazio. Dante è consapevole di tuffarsi in questo nuovo mare e i lettori sono coloro che hanno
seguito il suo viaggio.
Paradiso I → “Padre” = Apollo. L’alloro veniva usato per incoronare i poeti e i generali vittoriosi.
Potremmo pensare che quel “con miglior voci” si riferisca ai migliori poeti successivi a Dante = lui è
il primo e successivamente ne seguiranno di migliori OPPURE sono delle voci che si aggiungeranno
a quella di Dante = dopo di lui qualcuno farà da intermediario perché la sua preghiera trovi
ascolto, altri supplicheranno Apollo come fece lui.
Paradiso I, Beatrice e Dante si innalzano verso i cieli vv. 37-81 → la funzione di Virgilio prelude a
quello che fa Beatrice – quest’ultima diventa una vera e propria teologa = funzione della sua
natura = “mezza divinità”. La prima indicazione è relativa ad effetti di luce, secondo la
ricostruzione di Dante ci troviamo poco dopo il mezzodì del 30 marzo → forte caratterizzazione del
momento dell’ora e della stagione. Il viaggio inizia di notte (= oscurità, peccato) e segue il
momento di rinascita (= primavera) e qui siamo nel momento in cui il sole risplende al massimo =
rivelazione della beatitudine che attende Dante. Questo momento di luce corrisponde anche
all’equinozio di Primavera.
Il sole, astro più luminoso, sorge da punti diversi = Gerusalemme e l’Eden = il sole è all’apice → a
Terra = a Gerusalemme, è notte. Beatrice guarda verso Oriente e volge il suo sguardo verso il sole
→ la luce rappresenta la forza della virtù e della grazia divina. L’aquila non sarà in grado di
guardare verso il sole come fece Beatrice. Dante guarda Beatrice e lei guarda il sole →
mediazione per guardare Dio. L’immagine del pellegrino → due allusioni → una ripresa del
ritornare alla propria destinazione OPPURE presa dal mondo naturale e allude al falco pellegrino
che si lancia verso l’alto dopo aver catturato la preda. Nel passaggio tra l’Eden e il primo dei cieli
del Paradiso → luogo nel quale Dio creò l’uomo = Adamo ed Eva.
Dante non sopporta di tenere lo sguardo rivolto verso il sole → potenza del sole che sembra quasi
un ferro caldo incandescente che esce direttamente dal fuoco. La luce del giorno si duplica come
se Dio avesse aggiunto al sole un altro sole = simbologia della luce molto forte → Beatrice può
sopportare meglio di un’aquila il sole e Dante no il quale ci riesce solo grazie alla mediazione con
lo sguardo di Beatrice. Idea del riflesso di Dio che fa perdere ogni tratto di umanità.
MITO DI GLAUCO, Metamorfosi di Ovidio → Glauco, un pescatore della Beozia, vede i pesci che ha
pescato risorgere dopo che hanno mangiato un’erba incantata – ci prova anche lui e si trasforma
in una divinità marina. Trasumanar → Dante supera i limiti dell’uomo e si trova in uno spazio che
mai nessun uomo riuscì a descrivere – disputa teologica = è solo anima o anima e corpo?
L’esempio di Glauco basti a chi la grazia ha concesso quest’esperienza → mi basti usare il suo
esempio dal momento che la grazia divina mi ha concesso di vivere quest’esperienza → immagine
del trasumanar. Inciso dubitativo = solo Dio sa se è stata solo l’anima o anche il suo corpo a essere
“rapita in cielo”. Quando Dante arrivò nel primo dei cieli del Paradiso, di nuovo, la luce si fece
intensissima = come se fosse un lago di luce che nessuna acqua della pioggia o di un fiume può
ingrossare → similitudine geografica = come se il cielo fosse diventato un enorme luce. Novità di
suono = è cambiato il clima, ricorso alla descrizione dei suoni è tipica di tutte le cantiche, ogni
regno è anche accompagnato da una musica.
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Letteratura Italiana

Paradiso I, ragioni di questo movimento, il gran mare dell’essere vv. 82-142 → entra in campo la
Beatrice “madre” e guida → vedeva me stesso come mi vedo io (= Beatrice conosceva ogni
pensiero di Dante) = Beatrice previene i pensieri e le domande di Dante. Dante non è più in terra, e
Beatrice gli spiega cos’hanno fatto e cos’è successo fino ad ora. Il fulmine scende verso il basso e
Dante sale verso l’alto = immagine opposta. Dante si è liberato dal primo dubbio e ora ne arriva un
altro = io fui spogliato dal primo dubbio in virtù delle brevi parole pronunciate con un sorriso da
Beatrice. Dante ha un nuovo dubbio = già mi ritenevo tranquillizzato ma ora ammiro come io
faccia a salire attraverso l’aria.
Beatrice gli spiega che cosa governa il cosmo che sta per affrontare → attraverso delle immagini
→ immagine dell’orma (vestigium secondo S. Agostino) che Dio lascia su ogni creatura e queste
vengono orientate in modo diverso, ciò si manifesta da un attitudine che conduce tutti al gran
mare dell’essere – in cui ognuno è destinato a un porto diverso = immagine dell’acqua e della
navigazione = gloria di Dio che risplende nel creato in modo un po’ diverso. Idea di un cosmo che
rende Dio un grande arciere – la creatura viene orientata attraverso questo arco divino che scocca
e sempre va a segno. Tema importante → la creatura umana che viene indirizzata dalla volontà
divina, è comunque dotata di libero arbitrio = può deviare dal percorso che Dio ha immaginato per
lei. Problema stesso del peccato = il libero arbitrio deve essere usato con ragione – se si allontana,
usa male il libero arbitrio e incorre nel peccato.
L’atteggiamento di Beatrice cambia, come una madre pronta al rimprovero – dopo un “sospiro”. È
una madre paziente che spiega tutto al figlio. Tutte le cose del creato, tutte le creature hanno un
ordine armonico e questo è ciò che rende somigliante a Dio tutto l’universo. Le altre creature, in
quest’ordine, vedono l’impronta dell’eterno valore di Dio e in questo ordine sono inclinate tutte le
nature in modo differente per diversi modi = più o meno vicini al loro principio per cui sono state
create. Si muovono verso i diversi porti = gran mare dell’essere.
Questa virtù si manifesta in cielo e in terra agli uomini. Terza immagine = questa volontà diventa
un arco e raggiunge non soltanto le creature prive di intelligenza (animali) ma quelle che hanno
intelletto e amore (uomini). La provvidenza divina che ordina tutto questo e della sua luce rende
sempre calmo quel cielo nel quale si volge quel che ha maggior fretta = l’Empireo che ruota con
maggior fretta → cielo dei Beati. La corda rappresenta l’arco.
C’è una piccola eccezione molto importante per Dante → si è plasmati secondo l’orma che vuole
lasciare Dio ma gli esseri dotati di intelligenza possono impiegare male il libero arbitrio. La materia
non risponde correttamente a quella che è l’idea dell’arte/della volontà dell’artista = così le
creature indirizzate da Dio possono allontanarsi da quel corso e dirigersi da un’altra parte. Così
come si vede il fuoco che discende da una nube = fulmine che dovrebbe salire verso l’alto e invece
va verso il basso, così l’impeto primo porta verso terra l’uomo deviato da piaceri effimeri.
Continue immagini di alto-basso = il salire verso l’alto di Dante diventa un’azione quasi naturale
→ come non ti stupisce sulla terra quando vedi un fiume scorrere giù da una montagna. Sarebbe
degno di meraviglia se dopo aver attraversato i due regni del peccato e della purgazione, tu fossi
rimasto in basso = questo sarebbe degno di stupore come se in terra si osservasse la quiete in un
fuoco acceso (immagine che dente verso l’alto).

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Letteratura Italiana

LEZIONE 12
CANTO V DELL’INFERNO → Struttura e articolazione del canto = 142 versi > 47. Le prime 23 terzine
= I parte del canto (“pietà mi giunse e fui quasi smarrito”, v. 72). Terzine 24-47 episodio di Paolo e
Francesca (“E caddi come corpo morto cadde”, v. 142).
Le prime 23 terzine, I parte del Canto:
 Premessa
 Minosse – colui che giudica e manda i dannati al cerchio in cui sono destinati (“giudice
infernale”)
 Risposta di Virgilio
 Descrizione del luogo e della pena – fortissima simbologia legata ai suoni, alla vista e
all’ambientazione che coinvolge tutti i sensi
 I dannati della prima schiera (= quelli morti per amore) – Paolo e Francesca si allontanano
da questa schiera
Le terzine 24-47, episodio di Paolo e Francesca (costruzione simmetrica):
 Richiesta di Dante
 Risposta di Francesca
 Reazione e domanda di Dante
 Risposta di Francesca
 Reazione di Dante (= quando sviene)
Canto dedicato al peccato della lussuria.
Parte prima, premessa → informazione geografica di ciò che sta accadendo a Dante e Virgilio =
discendono dal primo cerchio al secondo, diametro del cono più piccolo = pena e punizione più
grave. Primo segnale di quella che è l’ambientazione ricca di suoni = lamenti e guaiti.
Minosse → giudice infernale che viene dalla tradizione classica. Minosse viene dalla tradizione
classico, già Virgilio l’aveva scelto come uno dei diversi guardiani nell’Eneide. Dante aggiunge alla
figura di Minosse dei tratti spiccatamente animaleschi, così come l’aggiunta della coda che si
attorciglia tante volte al corpo di Minosse quanti cerchi deve scendere il dannato. Minosse si trova
sulla soglia per esaminare le colpe. Minosse vede quale luogo dell’Inferno si addice di più ad ogni
anima = processo di torsione della coda e di moto a luogo verso il cerchio. Le anime vanno e
vengono per sottoporsi al giudizio di Minosse e ascoltano la pena che gli sarà data.
Successivamente saranno mandate al cerchio. Minosse prende la parola e si accorge
immediatamente della presenza di Dante → momento topico nell’Inferno, Dante non deve essere
giudicato da lui – riferimenti danteschi = la porta dell’Inferno, già dal Vangelo viene descritta come
ampia e spaziosa. Virgilio interviene e protegge Dante = Minosse non deve impedire il viaggio di
Dante che è voluto da Dio = dal fato.
Descrizione del luogo e della pena → ruota tutto attorno all’udito, la luce è assente ed è pieno di
suoni “forti” = suoni di dolori che incominciano a farsi sentire dal momento che Dante si trova
dentro l’Inferno (come se venissero feriti da questi suoni di dolore delle anime dannate). Il luogo
muggisce come fa il mare a causa della tempesta se è attraversato da venti contrari = il rumore
delle onde della tempesta che colpisce anche il lettore (udito).
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Letteratura Italiana

La bufera infernale non si ferma mai → è una delle tante pene, è una punizione che si rifà alla
caratteristica di questi peccatori. Dante capisce subito di quale peccato sono macchiati questi
dannati = quella frana ricorda la morte e la resurrezione di Cristo. Dante capisce che sono
condannati i peccatori carnali = lussuria poiché si sono lasciati trasportare dalla passione e hanno
sottomesso la ragione al desiderio/piacere. La bufera rende palese la causa della loro dannazione.
Due similitudini ornitologiche che descrivono, prima tutti i lussuriosi e tutti vengono paragoni agli
stormi che vengono portati in inverno e così quel vento conduce gli spiriti dannati → gli spiriti sono
in balia del fiato del vento della bufera che li trasporta = così come la passione gli ha causato il
peccato e non hanno speranza che la pena possa diventare minore. Seconda similitudine → “lai”
(origine provenzale) è il grido/canto delle gru e in aria fanno una lunga riga/linea (non sono
ammassati come gli stormi precedenti). “chi son quelle genti” → enjambement = procedimento
stilistico frequente nella poesia delle lingue sia classiche sia moderne, consistente nel dividere una
breve frase, o un gruppo sintattico intimamente unito (per esempio: un sostantivo e il suo
attributo, il predicato e il soggetto o il complemento oggetto), tra la fine di un verso e l’inizio del
verso successivo, operando così una legatura metrica che ha lo scopo di rendere più ricco e
sostenuto il ritmo dei versi, spec. di quelli brevi, oppure di dare un rilievo a una parola
particolarmente significativa, isolandola.
I dannati della prima schiera → Dante vuole sapere chi sono le anime simili alle gru e Virgilio glielo
spiega. La prima fu imperatrice di molti popoli = Semiramide (regina assira, Oriente e venne
accusata di incesto). L’altra, di cui Dante non fa il nome, fu colei che si uccise per amore = Didone
(IV dell’Eneide, “non servata fides cineri promissa Sycheo”). Hysteron proteron → figura retorica
per cui l’ordine delle parole è inverno rispetto all’ordine naturale delle azioni (che succedette a
Nino e fu sua sposa / s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo). L’ultima è Cleopatra =
notissima per la sua lussuria. Queste, sono le prime tre regine, le prime della prima schiera –
morte per gli eccessi dell’amore, della lussuria. Successivamente Virgilio prosegue con la
descrizione → Elena = morta per amore e che fu causa della guerra di Troia. Il valoroso Achille che
alla fine per amore si trovò a combattere e questo causò la sua morte provocata da Paride. Dante
aggiunge Tristano = primo cavaliere della tavola rotonda. Tutte queste anime sono morte per
amore, personaggi che appartengono a un passato e tutti a letture possibili di Dante = “bagaglio
culturale”.
vv. 69-72 = “pietà mi giunse” → turbamento (= che viene a Dante in presenza del peccato e della
dannazione) o compassione (= Dante si sente un po’ Francesca). Nonostante questo, Dante
condanna in ogni caso Paolo e Francesca per il loro peccato.
Seconda parte, episodio di Paolo e Francesca → struttura simmetrica, botta e risposta – richiesta e
risposta. La vera protagonista sarà sempre Francesca, l’unica a prendere sempre la parola – Paolo
è come se fosse un gregario rispetto a lei. Richiesta di Dante di voler conoscere questi due poiché
attirano la sua attenzione = sono inseparabili, vanno insieme = aggravare della loro pena = non
finisce mai la loro passione e tantomeno il loro peccato. Leggerezza di Paolo e Francesca (“sì al
vento essere leggeri”) = sembrano più leggeri rispetto agli altri e si lasciano andare alla dannazione
OPPURE dare maggior rilievo alla loro condanna, in balia della bufera. Momento di sospensione
che rende possibile l’incontro = come se la pena, magicamente, si interrompesse per dialogare con
Dante e Virgilio.

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Letteratura Italiana

Risposta di Francesca → si apre con la terza similitudine legata al mondo degli uccelli = come le
colombe portate dal desiderio vengono al dolce nido, attraverso l’aria dal volere di Dio, così
uscirono dalla schiera e vennero a noi attraverso il cielo maligno. Francesca si rende conto che
Dante è una figura “vivente” e lo riconosce. All’oscurità = nero, si aggiunge il rosso = sangue,
passione. Se ci fosse amico il re dell’Universo, noi pregheremmo a lui per la tua pace →
impossibile, chiede per Dante quello che lei non avrà mai = pace, quiete – la augura poiché Dante
ha pietà dei loro peccati.
Francesca usa sempre il plurale ma sarà sempre lei a descrivere e a parlare per entrambi.
Francesca, come succede sempre, descrive per prima cosa il luogo in cui è nata = Ravenna, la terra
in cui nacque si trova nella costa in cui il Po sfocia e trova pace insieme ai suoi affluenti ( questa
vicenda era talmente tanto nota all’epoca che basta solo questa piccola descrizione personale per
capire tutto). La descrizione successiva è dedicata alla ragione della sua morte.
Boccaccio commentò la commedia e racconta la storia di questo amore finito male = matrimonio
per procura, tra le due famiglie = matrimonio combinato. Francesca, dunque, è stata indotta al
peccato per via di queste nozze combinate.
Le famose terzine iniziano con l’anafora di “Amor” = sono infarcite di quella memoria letteraria
cortese → amore e cultura cortese. La parola amore è posta all’inizio per renderlo “colpevole” e si
riflette sul fatto che quell’amore che si accende rapidamente nel cuore gentile, prese Paolo del
mio corpo che mi fu tolto e ancora mi offende “modo” = intensità con cui Paolo si è innamorato
della bellezza di Francesca OPPURE modo violento con cui Francesca è stata uccisa. Francesca
inizia dalla passione che accende Paolo e che si infiamma nel cuore gentile/nobile di costui =
omaggio a Guinizzelli. Francesca racconta la sua vicenda come se fosse una lettrice con richiami
letterari espliciti. La seconda terzina, deriva sempre dalla tradizione cortese, la bellezza di Paolo
prese violentemente Francesca e questa passione ancora ora non la abbandona = riferimento al
De Amore di Andrea Cappellano ma Francesca lo modifica un po’ = per lei, l’amore è una passione
che costringe a riamare quando si è innamorati. La terza e ultima terzina sposta l’attenzione su
Gianciotto Malatesta e rimanda al Purgatorio XVIII = l’amore sì si accende nei cuori ma la ragione
deve comunque dominare su questo = modo di smentire Francesca e la propria poesia giovanile.
Reazione di Dante → quando ascoltai quelle anime, abbassai lo sguardo e lo tenni così finché
Virgilio mi chiese “cosa ne pensi?”. “Doloroso passo” = morte stessa OPPURE peccato che li ha
portati alla morte. Dante la chiama subito per nome, nonostante lei non lo abbia mai detto.
“Dubbiosi” = riferimento all’incertezza del manifestarsi OPPURE dubbio che viene dal timore.
Risposta di Francesca → preludio carico di memorie letterarie. Francesca usa un altro esordio che
richiama o Boezio o l’Eneide. Terzine → esperienza della morte, tutto ruota attorno alla centralità
della “lettura”. Leggevano per diletto, Francesca e Paolo, dei romanzi di Lancillotto, leggevano soli
e privi di ogni presentimento = Francesca è quella che legge. Si trovano in un luogo privo di ogni
sospetto (del loro peccato) = atto di lettura che si protrae nel tempo – il romanzo è il testo in cui si
racconta del famoso bacio tra Lancillotto e Ginevra. Francesca si sofferma anche sugli effetti della
lettura = spesso i loro sguardi si incrociavano ed entrambi impallidivano (si immedesimano nella
lettura). Quando lessero del bacio tra Lancillotto e Ginevra (= in realtà, è Ginevra a baciare
Lancillotto nel testo in prosa = Francesca è una lettrice che fa tutto a suo vantaggio), Paolo

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Letteratura Italiana

successivamente baciò Francesca. Galeotto diventa colui che rende possibile il bacio. Francesca,
per chiudere, utilizza di nuovo la lettura = “quel giorno più non vi leggemmo avante”.
Reazione di Paolo e di Dante → scioglimento sul tema della pietà, del turbamento. Idea di Paolo
come personaggio secondario in questa narrazione = lui piange mentre Francesca parla a Dante e
a Virgilio. Dante, successivamente, viene e cade a terra come cade un corpo senz’anima.
LEZIONE 13
Struttura dei Canti:
 Inferno X – Il cimitero di Epicuro, Farinata degli Uberti (antagonista ghibellino = fazione
opposta a quella di Dante), Cavalcante, Verso il settimo cerchio.
 Inferno XIII – La selva delle arpie, Pietro della Vigne, Chiarimenti sulla sorte dei suicidi, La
pena degli scialacquatori, Un suicida fiorentino.
 Inferno XXVI – Apostrofe a Firenze, L’ottava bolgia: gli inventori di insidie, Ulisse e
Diomede (grande simbolo dell’ingegno), Il racconto di Ulisse.
I grandi dell’Inferno rappresentano grandi passioni – da un lato sono personaggi “enormi” e
dall’altro lato vengono umiliati dalla frustrazione del peccato. La loro grande potenza poetica si
trova anche in questo grande paradosso = compassione ma in ogni caso Dante li condanna per i
loro specifici peccati.
INFERNO X → Farinata e Cavalcanti. È un canto di 136 versi > 45. Le prime 17 terzine = I parte del
canto (i seguaci di Epicuro + primo dialogo con Cavalcanti). Terzine 18-30 = incontro con
Cavalcanti. Terzine 31-41 = secondo dialogo con Cavalcanti. Terzine 42-45 = verso il settimo
cerchio. È un canto che, prima, ci dà indicazioni geografiche e quali dannati si trovano =
epicurei/eretici. Perfetto equilibrio tra la poesia e la politica = passioni di Dante. Ci troviamo nella
zona di passaggio tra l’incontinenza e la violenza – gli epicurei si trovano in mezzo → Virgilio
spiegherà a Dante il loro peccato. vv. 7 → Dante vede queste arche incustodite. Valle di Giosafat è
quella valle in cui avverrà il giorno del giudizio. Questi dannati non credono nell’immortalità
dell’anima, e quando avverrà il giorno del giudizio, la loro anima e il loro corpo verranno rinchiuse
per sempre = gli aspetta la sorte che si sono loro stessi immaginati. Sono assimilati agli epicurei =
eretici. Qui troviamo Farinata e Cavalcanti.
Questione ghibellini – guelfi → i primi sono coloro che difendono l’Impero, i secondi patteggiano
per il partito Papale. Il partito di Farinata ha avuto due momenti gloria sul partito dei guelfi nel
1248 e nel 1260 (= Battaglia di Montaperti). I guelfi ripresero potere con la battaglia di Benevento
(1266).
vv. 22 → terzine notissime, Farinata che riconosce Dante da come parla → “O Tosco” (Fiorentino).
Farinata lo riconosce poiché se ne va vivo parlando per la via del fuoco = città di Dite. Il tuo modo
di parlare rende noto che sei originario di quella città di cui forse fui troppo molesto = Farinata si
sente così nei confronti di Firenze. “Subitamente” = per esprimere le improvvise manifestazione
delle voci. Dante si sente chiamare poiché questa voce esce da una di queste arche incustodite.
Virgilio lo calma e gli spiega cosa sta succedendo e chi ha davanti (Farinata). vv. 34-51 → Io avevo
già il mio sguardo rivolto nel suo, e lui tutto sollevato come se avesse in dispetto l’Inferno stesso =
Farinata non perde la sua superbia, è uno spirito nobile nonostante si trovi tra i dannati. Virgilio

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Letteratura Italiana

spinge Dante fra le arche e gli dice di badare a come parla, deve avere un linguaggio misurato = sta
incontrando un grande avversario della sua vita politica. Ci troviamo “dentro” la storia di Firenze =
presenza di Cavalcanti. Dante-personaggio = rivela tutta la sua vita. Attenzione agli avverbi =
“fieramente” – gli Alighieri appartengono alla fazione opposta a quella di cui Farinata è
rappresentante. È uno scambio fulminante quello tra Dante e Farinata = Impero-Papato /
ghibellini-guelfi. Farinata e Cavalcanti rappresentano due passioni che per Dante sono importanti =
il secondo è il padre di Guido Cavalcanti.
vv. 52-72 → la postura di Cavalcanti è totalmente diversa rispetto a quella di Farinata = emerge
soltanto fino al mento, si era sollevato restando in ginocchio – maggiore è la sofferenza di
Cavalcanti. Cavalcanti vede Dante e il suo primo istinto è quello di guardarsi intorno = si aspetta di
trovare suo figlio, nonché l’amico di Dante, Guido. Si mise a piangere rendendosi conto di non aver
trovato anche il figlio e immediatamente gli chiede dov’è Guido. Dante gli dice che il suo non è un
viaggio che fa solo per le sue doti intellettuali, per la sua grandezza come uomo e poeta ma è lì
perché Beatrice e Dio glielo concedono. “Colui ch’attende là” → riferimento a Beatrice = Guido la
disdegnò. Dante capisce che si tratta del padre di Guido. Quel “ebbe” fa capire a Cavalcanti che il
figlio è morto e per questo motivo cade supino nella sua arca = poiché il figlio è morte e anche
perché non sta facendo lo stesso viaggio che sta facendo Dante.
INFERNO XIII → 151 versi > 50. Prime 36 terzine = I parte del canto (Pier delle Vigne). Terzine 37-
50 = Arcolano Maconi e Iacopo da Sant’Andrea = suicida fiorentino. Ci troviamo nel secondo girone
= violenti contro sé stessi. È un contrappasso efficacissimo → chi è stato violento nei confronti del
proprio corpo, diventa pianta = viene umiliato. Troviamo anche i violenti contro le proprie
sostanze = gli scialacquatori. Terzine 37-50 gli scialacquatori = apparizione di Arcolano di Squarcia
Maconi e Giacomo da Sant’Andrea + suicida fiorentino (Rucco di Cambio de’ Mozzi, Lotto degli
Agli).
Premessa → introduce la selva dei suicidi che è nota di essere priva di sentiero.
Descrizione del luogo e della pena, vv. 4-15 → uso dell’anafora, tutti i versi iniziano con “non” =
per indicare un luogo aspro per eccellenza. Perfetto parallelismo tra la negazione e il modo in cui è
caratterizzato il luogo = enfatizza il fatto che è un luogo non-positivo, non-vitale, scuro ed
impervio. Similitudine = non hanno una vegetazione così aspra né con delle erbacce così folte
quelle fiere selvagge (cinghiali) che abitano la Maremma (da Cecina a Corneto). Nonostante il
luogo sia così, è abitato dalle arpie che vi fanno dei nidi = riferimento all’Eneide. Le arpie hanno
ampie ali, zampe con artigli ma il collo e l’aspetto umano e fanno lamenti strani = sono metà
donne e metà uccelli, il verso si accompagna bene al loro aspetto → ci suggerisce tutta la loro
negatività. Virgilio gli spiega che si trovano nel secondo girone = Dante vedrà cose soprannaturali
che toglierebbero fede alla mia spiegazione. Si manifesta il tutto sempre attraverso l’udito,
nonostante non vedessero nessuno = smarrimento di Dante. “Cred’ïo ch’ei credette ch’io
credesse”, Poliptoto → figura retorica che consiste nel ripetere una parola già usata a breve
distanza, modificandone il caso (o, nelle lingue non flessive, la funzione sintattica), il genere, il
numero, il modo e il tempo. Se spezza (Dante) quei ramoscelli, i pensieri si riveleranno tutti vani.
Incontro con Pier delle Vigne, vv. 31-45 → uno degli incontri più efficaci, Dante spezza un
ramoscello “vivo” ed esce del sangue = reazione umanissima da parte di Pier delle Vigne → perché
mi spezzi? Infondo se fossimo delle serpi ci meriteremmo un trattamento migliore. La sua mano
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Letteratura Italiana

dovrebbe essere più pietosa = Dante dovrebbe essere più delicato → richiama la reazione di
Polidoro che venne schiantato dalla mano di Enea (riferimento all’Eneide). Le ultime terzine di
questa risposta = esce il sangue ma è come se uscisse un piccolo vento = descrizione di come esce
la voce di Pier delle Vigne (= uscivano insieme parole e sangue) → Dante ricorre a un lessico
vegetale per rimanere coerente allo stato del dannato.
Risposta di Pier delle Vigne, vv. 55-78 → terzine essenziali in cui Pier delle Vigne si descrive come
colui che ha tenuto entrambe le chiavi del cuore dell’Imperatore Federico = conosce tutti i suoi
segreti e si è ritrovato ad essere l’unico a conoscerli. Per la fede che ha portato questa sua
mansione, ha perso il sonno e la salute. La causa della sua disgrazia è stata l’invidia = la prostituta
che non ha mai allontanato i suoi occhi puttaneschi dalla casa di Cesare = potere, dallo spazio
riservato all’Impero. Non si sa bene quali furono le causa della rottura tra Pier delle Vigne e
l’Imperatore Federico = secondo quanto scritto da Dante è stata propria l’invidia. Nel momento in
cui perse il favore dell’Imperatore, si tolse la vita. Il disdegno è quello che sente e che lo induce a
rendersi ingiusto nei suoi confronti = si suicida. Pier delle Vigne non è mai stato infedele
all’Imperatore Federico, e spiega quale figura l’ha portato a suicidarsi = l’invidia che persiste nel
corpo morte. Giura sulla condizione che gli è toccata in questa nuova veste di ramoscello.
INFERNO XXVI, il canto di Ulisse → ci troviamo nell’ottavo cerchio, tra i consiglieri fraudolenti. È
un canto di 142 versi > 47. La prima parte = terzine 1-16. La seconda parte = 17-47. Invettiva
contro Firenze (4 terzine). Prologo = Dante e Virgilio si avviano nell’ottava bolgia (4 terzine).
Similitudine e descrizione del luogo/pena (8 terzine). Incontro con Ulisse e Diomede (intro: 12
terzine + discorso di Ulisse = 18 terzine).
Invettiva contro Firenze, vv. 1-12 → Dante rivolge un aspro rimprovero a Firenze, che può davvero
vantarsi della fama che ha acquistato in ogni luogo e persino all'Inferno, dove il poeta ha visto
(nella VII Bolgia) ben cinque ladri tutti fiorentini che lo fanno vergognare e non danno certo onore
alla città. Ma se è vero che i sogni fatti al mattino sono veritieri, allora Firenze avrà presto la
punizione che molti le augurano, compresa la piccola città di Prato: se anche già fosse così sarebbe
troppo tardi e più passerà il tempo, più il castigo della città sarà grave per il poeta invecchiato.
Incontro con Ulisse e Diomede, vv. 49-59 → Ulisse passa attraverso lo stretto di Gibilterra e si
dirige verso la Montagna del Purgatorio, qui è costretto a fermarsi poiché il suo viaggio non è stato
voluto da Dio – questo è il viaggio secondo Dante. Sono inseparabili così come Francesca e Paolo e
condivideranno la dannazione eterna. Immagine della fiamma separata ricorda a Dante il fuoco
bipartito dei due fratelli uccisi insieme (Eteocle e Polinice). I tre motivi per cui Ulisse e Diomede si
trovano lì (si geme, piangevisi, pena vi si porta):
1. Cavallo di Troia e alla porta della città da cui uscì colui che fu del gentil seme di Roma (=
Enea). Il cavallo fu frutto dell’astuzia, e della capacità di usare il proprio intelletto/ingegno.
2. Viene punita e quindi causa lacrime e tormento, quell’arte dell’eloquenza – perché il figlio
Achille non venisse ucciso in guerra, la madre Teti lo aveva nascosto alla corte del padre di
Deidamia fra le fanciulle e lì, Deidamia si innamorò di Achille e tuttavia si lamenta ancora di
questa astuzia di Ulisse e Diomede.
3. Il Palladio = Statua di Pallade ed Atena → Ulisse e Diomede la rubarono con un gesto
blasfemo (= furono violenti contro quelli che la proteggevano = sacerdoti).

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Letteratura Italiana

vv. 85-102 → la fiamma che consuma Ulisse e Diomede corrisponde a quell’ardore di conoscenza =
non si lascia convincere né dalla pietà nei confronti del padre, né dalla dolcezza del figlio e né dalla
moglie Penelope – è l’ardore che lo spinge ad affrontare l’estremo viaggio.
vv. 106-120 →
vv. 136-142 → il folle volo si concluse nel momento in cui vedono la Montagna del Purgatorio
poiché questo folle volo non è stato voluto da Dio.

LEZIONE 14
FRANCESCO PETRARCA (1304-1374)
Nasce ad Arezzo il 20 luglio del 1304, il padre era un notaio fiorentino (= guelfo bianco costretto
ad abbandonare Firenze). Il giorno della sua nascita corrisponde alla battaglia della Lastra = guelfi
bianchi subiscono una potentissima sconfitta. Nel 1312 il padre decide di trasferirsi ad Avignone (a
Carpentras) = i Papi avevano trasferito lì la loro sede (cattività avignonese) = legame al potere
papale. Il padre cerca di avviare il figlio verso gli studi giuridici → lo manda nel 1316 a Montpellier
e nel 1320 a Bologna. Proprio a Bologna, Francesco scopre altre sue passioni e stringe amicizia con
la famiglia Colonna, in particolar modo con Giacomo Colonna. Frequenta le lezioni di Bartolomeo
Benincasa su Cicerone e di Giovanni del Virgilio sulla poesia latina → legame con la tradizione
classica. Nel 1325 entra al servizio della famiglia Colonna. Nel 1326 muore il padre di Petrarca e
finalmente lascia gli studi giuridici. Evento fondamentale → il 6 aprile del 1327 Francesco incontra
Laura nella Chiesa di S. Chiara ad Avignone = personaggio storico o inventato? Nel 1330 assume lo
stato clericale e intraprende la carriera diplomatica al servizio di Giovanni Colonna e lo raggiunge a
Lombez.
La carriera politica e diplomatica porta Petrarca in diversi posti, a partire dal 1333 a Parigi, Gand,
Aquisgrana, Lione e Liegi = entra in contatto con tradizioni diverse da quella italiana, si definisce
come il primo intellettuale europeo. Altro viaggio importante è quello a Roma nel 1337 =
importanza di ripartire da quella cultura della Roma antica per una rinascita. Nello stesso anno,
torna ad Avignone e si trasferisce a Valchiusa = locus amoenus → inizia la stesura di opere
importanti = Africa (dovrebbe essere la nuova Eneide dedicata alla seconda guerra punica) e De
viris illustribus (biografie di tre grandi condottieri della Roma antica) = opere incompiute. Queste
due opere preludono la laurea poetica che riceve nel 1341 dopo aver ricevuto due proposte da
Roma e Parigi = accetta quella romana. La laurea arriva a Roma in Campidoglio, l’8 aprile del 1341
dopo un lungo dialogo tra Petrarca e Roberto d’Angiò. Tra il 1341 e il 1342 si trasferisce a Parma
ed è ospite di Azzo da Correggio. Nel 1342 torna ad Avignone e inizia un’altra opera latina = Rerum
memorandarum (di carattere didascalico). Nel 1343 muore Roberto d’Angiò e il fratello Gherardo
entra nell’ordine dei certosini. Nel 1345 nella Biblioteca Capitolare di Verona ritrova il manoscritto
delle Epistulae Cicerone → modello per = De vita solitaria e De otio religioso, 1347.
Nel 1347 la restaurazione repubblicana di Cola di Rienzo (rottura con i Colonna = costretto ad
allontanarsi da Avignone, si reca a Verona e a Parma + inizia la stesura del Bucolicum carmen = è
un adattamento dell’opera di Virgilio). Nel 1348 muore Laura e Giovanni Colonna → anno della
peste nera. Nel 1350 torna a Roma per il giubileo e passa da Firenze, momento importante poiché

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Letteratura Italiana

incontra Boccaccio → oltre a commentare la Commedia, copierà anche il Canzoniere. Nel 1350 ca.
il Secretum (1349-1353) = date importanti per la gestazione di quest’opera, continua
rielaborazione delle sue opere.

Il Secretum → notiamo dei segni del Canzoniere, è un dialogo in latino e avviene fra Francesco
(autore-personaggio) e Sant’Agostino sul conflitto interiore che agita l’anima di Francesco. La terza
presenza è quella della Verità che rimane silenziosa mentre ascolta il dialogo. Il dialogo si svolge in
tre giornate. È un’opera in cui abbiamo già l’amore per Laura (bivalenza, aspetto positivo per
Francesco e negativo per Sant’Agostino poiché allontana dall’amore per Dio). Un altro grande
tema è l’attenzione nei confronti della poesia e dei suoi onori = antagonistico verso una spiritualità
positiva. L’opera rimane irrisolta = l’indicazione di Agostino viene solo in parte accolta da
Francesco. Intorno agli anni ’50 vengono composte anche Familiares ed Epystole. Tra il 1351 e il
1353 avviene l’ultimo soggiorno in Provenza. Al 1353 risale il trasferimento a Milano presso i
Visconti = amici e parenti ci rimangono male che non si sia trasferito a Firenze. Nel 1353 viene
fatto risalire Triumphi = poemetto allegorico in terza rima, per lungo tempo è stato accostato al
Canzoniere. Nel 1368 si traferisce a Padova sotto Francesco I da Carrara che gli regalerà una
piccola dimora ad Arquà – Seniles, De remediis utriusque fortunae. Nel 1373 ultima missione
diplomatica a Venezia. Muore ad Arquà tra la notte del 18-19 luglio del 1374.
↓ RERUM VULGARIUM FRAGMENTA = CANZONIERE ↓
Composizione – alla fine del Secretum Francesco scrive: “Sarò presente a me stesso quanto più
potrò, e raccoglierò gli sparsi frammenti della mia anima e dimorerò in me, con attenzione. Ma
ora, mentre parliamo, mi aspettano molte importanti faccende, benché ancora mortali”. Sembra
già un progetto che collocano a partire degli anni ’30 e che da lì prende le varie forme. “Recolligere
fragmenta” (sonetti, canzoni e sestine composte per Laura a partire dagli anni Trenta). La “storia di
un’anima” = primo progetto di ordinamento 1342 (Wilkins, Rico, Santagata).
Titolo – Francisci Petrarche laureati poete Rerum Vulgarium Fragmenta [frammenti di cose volgari
di Francesco Petrarca, poeta laureato] → titolo che ci viene dato dal codice Vaticano Latino. Il
titolo è stato scelto da Petrarca stesso (situazione diversa rispetto a quella della Commedia).
Testimonianze – grazie al “codice degli abbozzi” = ms. Vaticano Latino 3196 (autografo). E la
forma definitiva = ms. Vaticano Latino 3195 (1366/67-1374; idiografo + autografo = documento
scritto da mano diversa da quella dell’autore ma sotto stretta sorveglianza di quest’ultimo). Il
“codice degli abbozzi” è come se fosse un quaderno personale degli appunti di Petrarca e contiene
20 carte sciolte, componimenti in brutta copia (e cancellati), componimenti in bella, postille di
commento in latino (= lingua di “lavoro” nonostante scriva le sue poesie in volgare, sono utili per
lo svolgimento del Canzoniere), primo abbozzo dei Fragmenta. Postille del “codice degli abbozzi”
(1347-1350) = silloge di 150 componimenti ca. (organizzazione narrativa, si intravede la distinzione
delle due parti che compongono il Canzoniere = “in vita” e “in morte” di donna Laura). Il sonetto
proemiale = Voi ch’ascoltate… (anche nella versione definitiva, idea di un pentimento necessario e
di una nuova configurazione di cosa sia l’amore – “prima” da ricordare e di cui pentirsi e un “dopo”
in cui raccogliere i frammenti sparsi della propria anima). Si nota il legame con la Vita Nova. Vanno
ricordati anche altri due manoscritti importanti = 1357 la “forma Correggio” di 161 componimenti

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Letteratura Italiana

per Azzo da Correggio e 1363 la forma “Chigi” ms. Chigiano L V 176 (trascritto da Boccaccio + 44
componimenti, in morte e in vita, carta bianca all’altezza della canzone 264, seconda parte con
I’vo pensando, et nel penser m’assale). La forma definitiva ci viene tramandata grazie al ms.
Vaticano Latino 3195 (1366/67-1374), contiene 72 fogli membranacei, idiografo + autografo =
Giovanni Malpaghini (trascrittore) e Petrarca → le liriche che si trovano nella parte in vita e in
morte di Laura.
Struttura – sono 366 liriche (sonetto proemiale + 365) = 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7
ballate e 4 madrigali. 1-263 = in vita di Laura / 264-366 = in morte di Laura.
Modelli – Idea di una raccolta organica di liriche che raccontano una vicenda autobiografica e
amorosa come se fosse una sorte di romanzo affidato alla lirica = organizzazione narrativa. Ci sono
dei trovatori = libri di poesia provenzale di Guiraut Riquier e Peire Vidal. Altro modello è il Codice
Laurenziano Rediano 9 di Guittone d’Arezzo (tema erotico distinto dalla morale cristiana). Altro
modello è il Canzoniere di Nicolò de’ Rossi. Ultimo modello è la Vita Nova (autobiografia
esemplare).
Temi – Il diario intimo di un’anima, amore per Laura (io lirico / ispiratrice-deuteragonista). Prima
parte = innamoramento per Laura, primo incontro il 6 aprile 1327. All’immagine di Laura si
sovrappone anche il mito di Apollo e Dafne (Laura/lauro – Laura evoca l’alloro ovvero l’albero
legato ad Apollo che corrisponde alla metamorfosi di Dafne), amore e ricerca della gloria poetica
(già presenti nel Secretum, e ritornano nel Canzoniere), morte di Laura il 6 aprile del 1348 (264-
266; 267). Altri temi → vanità dei beni del mondo, fragilità dell’uomo rispetto al tempo fugace,
amore come strumento salvifico, amore come allontanamento da Dio, sentimento religioso
totalizzante, testi occasionali ed encomiastici (nei confronti dei suoi protettori, morte di Cino da
Pistoia), sonetti contro la curia papale ad Avignone, tema politico (canzone all’Italia).
La lingua – Petrarca utilizza un volgare aulico = lingua unitaria (è importante capire le radici della
nostra lingua attuale). È un fiorentino pulito da qualsiasi tratto di oralità. È una lingua limpida,
armoniosa ed equilibrata. Notiamo l’unilinguismo di Petrarca a differenza del plurilinguismo di
Dante. La lingua di Petrarca ha un vocabolario limitato, una sintassi piana/lineare e una forte
letterarietà (classicismo volgare).
Lettera ai Posteritati 3 = “L’adolescenza mi ha illuso, la giovinezza tormentato, la vecchiaia però mi
ha corretto, sicché ho imparato sulla mia pelle che è vero ciò che un tempo avevo letto: che le
gioie della gioventù sono effimere” → temi del Canzoniere = fugacità dei beni terreni. Giovinezza
tormentata da questa donna amata che ha sia un aspetto positivo che negativo sul poeta.
LEZIONE 15
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono → sonetto 1, viene collocato da Petrarca in apertura del
Canzoniere. Non è il primo sonetto ad essere stato composto, gli studiosi lo collocano tra 1347
(Wilkins) e il 1349-50 (Rico e Santagata). Secondo Rico, i due sonetti successivi, andrebbero
collocati sempre tra il 1349-1350 (un prologo nel prologo, i primi dieci sonetti). La composizione
del sonetto viene collocata dopo la notizia della morte di Laura. Esordio tipico → rivolgersi agli
ascoltatori (primi quattro versi). È un inizio non strutturato. Richiesta nell’ottetto → bipartito,
auspicio di essere capito e di essere perdonato per il primo giovanile amore. I primi otto versi
danno subito il tono del Canzoniere = osservare tutta la propria esperienza, registrare il
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Letteratura Italiana

pentimento, capirlo e convertirlo in un sentiero corretto. Questo sonetto proemiale si “stacca” da


tutti gli altri.
Voi che ascoltate il suono di quei sospiri di cui nutrivo il mio cuore e lo ascoltate nelle rime sparse
(= Fragmenta) sul mio primo giovanile errore (= amore per Laura) e che appartiene a un tempo
quand’ero in parte un uomo diverso da quello che io sono adesso (= attenuazione dell’amore per
Laura, è cambiato ma non del tutto, legame con il giovane uomo che si è innamorato); spero
trovare pietà, nonché perdono del vario stile in cui io piango e mi esprimo fra le inutile speranze e
l’inutile dolore dove ci sia chi intende amore per averlo provato (= si rivolge a chi può capire cosa
significhi amare). Ma vedo bene ora come per tutto il popolo fui origine di commenti per cui
spesso di me stesso con me mi vergogno (allitterazione → Ripetizione, spontanea o ricercata di un
suono o di una serie di suoni, acusticamente uguali o simili, all’inizio (più raramente all’interno) di
due o più vocaboli successivi); però il frutto del mio inseguire cose vane questo genera la vergogna
e il pentirsi e il conoscere con chiarezza che quanto piace quando si sta al mondo è un breve
sogno.
Idea che il prendere coscienza dell’inseguire cose inutili faccia vergognare il poeta e di
conseguenza ne derivi il pentimento → il Canzoniere vuole ritrarre questo passaggio dal giovanile
errore al pentimento e al suo riconoscimento. Intorno a questo sonetto si organizza tutto il
progetto del poeta. La seconda quartina = “vario stile” → corrisponde a un riferimento etico =
riferimento duplice. “Piango e ragiono” → piangere e parlare (inferno V, evoca quanto dirà il
Conte Ugolino = non mancano le riprese alla Commedia di Dante).
Era il giorno ch’al sol si scoloraro → sonetto 3, amore per Laura = carico di significato. Si racconta
il momento in cui il poeta è stato preso dall’amore per Laura. Evocazione di un altro momento
storico = Venerdì Santo. Questione della datazione = 6 aprile 1327, i commentatori si resero conto
che non era effettivamente un Venerdì Santo. Il 6 aprile 1348 era veramente Venerdì Santo. È
molto probabile che la composizione avvenga dopo la notizia della morte di Laura – si colloca nel
1351. Gli occhi di Laura sono lo strumento attraverso cui Francesco viene catturato da Amore.
Era il giorno in cui si offuscarono per la pietà nei confronti del suo Creatore i raggi del sole (=
citazione del passo evangelico che riferisce della morte di Cristo), quando venni catturato [da
Amore] e non mi difesi perché i vostri begli occhi, o mia signora, mi legarono (= forte
contrapposizione il momento in cui accade ovvero il Venerdì Santo e il fatto che egli viene
catturato da Amore e non si difende). Non mi sembrava il tempo per difendermi perciò me nei
andai sicuro senza sospettare (Inferno V → esplicito rimando in cui Francesca ritrae sé stessa e
Paolo nel momento che diventano vittime d’amore) nulla per cui i miei lamenti incominciarono nel
dolore comune/universale (= legato alla morte di Cristo). Amore mi trovò del tutto disarmato e
trovò aperta la via verso il cuore attraverso gli occhi, che [gli occhi] sono porta e soglia per le
lacrime; perciò secondo la mia opinione non fu onore ad Amore ferire me con la sua freccia in
quello stato [di essere disarmato] e invece a voi che eravate armata non mostrare neanche l’arco
(= Amore si approfitta di colpire il poeta disarmato e non di colpire Laura che invece è armata e
resistente).
Quando io movo i sospiri a chiamar voi → sonetto 5, inizia a presentarci la relazione che si crea
con Laura = lode, elogio. È una vera e propria sciarada, un sonetto rebus sulle varie declinazioni del
nome della donna amata → nelle quartine emerge il nome “Lauretta” e nel sestetto emerge il
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Letteratura Italiana

nome “Laurea”. Il sonetto era pensato per nascondere il suo nome e la sua lode. Tema = amore
per Laura e per la gloria poetica = “Laurea”. Quando incontriamo “et” = si pronuncia “e” davanti a
consonante, mentre davanti a vocale si pronuncia “ed”. Secondo Isidoro di Siviglia, il lauro è
chiamato così dalla parola laude – dove Laura/alloro si sovrappone all’idea stessa della donna che
merita lode = Laura/alloro derivano dal verbo lodare. Topos modestiæ = quando parla delle spalle.
La fonazione (= rebus) diventa un vero e proprio processo di lode alla donna.
Quando inizio sospirando a pronunciare il vostro nome, che Amore mi ha scritto nel cuore, si
incomincia a udire da fuori lodando, il suono dei suoi dolci accenti (LAU). Il vostro stato REale, che
io incontro poi, raddoppia la mia virtù nel compiere quest’altra impresa (lodarvi); ma: TAci,
sembra dire il fine, perché renderle onore è l’impresa adatta ad altre spalle piuttosto che alle tue
(l’idea della perfetta aderenza viene dall’Ars poetica di Orazio). Così a lodare (LAU) e a riverire (RE)
insegna la voce stessa (Laura), basta che qualcuno vi chiami, o voi che siete degna di ogni
reverenza e di ogni onore: se non fosse che Apollo si sdegna che a parlare dei suoi rami sempre
verdi (alloro) venga una lingua mortale presuntuosa [alloro = divino, meriterebbe una lingua non
mortale].
Solo e pensoso i più deserti campi → sonetto 35, immagine della giovinezza tormentata
dall’amore del poeta = gli effetti di questa donna che vuole lodare. Si colloca prima del 16
novembre del 1337. Amore non abbandona mai il poeta, diventa un interlocutore con cui dialoga e
che lo accompagna nella solitudine. Il Secretum ci aiuta a capire la fonte letteraria che ispira
questo sonetto = Bellerofonte di Omero grazie alle Tusculanae disputationes di Cicerone. La
terzina conclusiva ci mostra il tormento interiore continuo che non abbandona mai il poeta.
Solo e pensieroso negli spazi più deserti, vado ossessivamente a passi tardi e lenti, e gli occhi
intenti a fuggire indirizzo lontano da dove si lasciano impronte umane. Altra difesa non trovo che
mi salvi dal rendermi conto degli altri, perché nel mio modo di comportarmi che è privo di ogni
allegrezza si legge nell’apparenza che io dentro avvampo d’Amore: cosicché io penso che ormai i
monti, le pianure, i fiumi e le salve sappiano di che tenore sia la mia vita, che a volte è ancora
nascosta tra la gente (= la natura conosce il tormento d’amore di Petrarca). Ma eppure per quanto
siano aspre e selvagge (Inferno XIII = descrizione della selva dei suicidi) le vie che percorro, non
riesco ad evitare che Amore sia sempre con me a parlare, e io con lui (= Amore insegue sempre
Petrarca e lo costringe a un dialogo continuo che non si interrompe nemmeno nella sua
solitudine).
LEZIONE 16
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi → sonetto 90, idea di tormento e di invocazione degli incontri
con Laura (ritratta come Venere dai bellissimi capelli d’oro che vengono sparsi al vento e che
accende la fiamma d’amore nel momento in cui Petrarca la vede per la prima volta). I suoi occhi
sembrano essere offuscati dallo scorrere del tempo ma questo non indebolisce la piaga d’amore.
Sonetto dedicato alla bellezza della donna e allo scorrere del tempo su questa bellezza – senza
attenuarla. È la stessa Venere, dea della bellezza, che appare ad Enea nell’Eneide (= memoria
letteraria). Il nome di Laura è dissimilato in questo incipit, “l’aura” = Laura donna + “d’oro” =
alloro, sono tutti stratagemmi per rimandare alla donna amata senza pronunciare il suo nome.

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Letteratura Italiana

Erano i capelli d’oro sparsi al vento che i mille dolci nodi gli avvolgeva, e la bella luce di quegli occhi
che ardevano fuori misura (= bellezza oltre misura, non ha l’equilibrio aristotelico che Dante dà a
Beatrice) che ora sono privi di quella bella luce (= offuscati dallo scorrere del tempo / non guarda il
poeta); e il suo viso sembrava accendersi di colori pietosi nei miei confronti, non so se questa mia
impressione fosse vera o falsa: io che avevo nel petto l’esca amorosa (= era predisposto ad
accendersi per Amore, come se fosse già lì ad aspettare l’incontro e la luce degli occhi di Laura
sono la scintilla), che meraviglia c’è se subito mi infiammai d’Amore? Il suo andare non era da
cosa/creatura mortale, ma di angelica forma (= era un angelo, forma platonica); e perfino la voce,
le parole suonavano diverse da una voce umana. Uno spirito celeste, è un sole vivente (= idea della
luminosità che contiene la fiamma d’amore) fu quello che io vidi: e se ora non fosse più così, la
piaga [d’Amore] non guarirebbe perché l'arco [che ha scoccato la freccia] si è allentato.

La vita fugge, et non s’arresta una hora → sonetto 272, fragilità dell’esistenza e dello scorrere del
tempo e della caducità dei beni. È un sonetto sull’idea dello scorrere del tempo = passato,
presente e futuro. Questo sonetto esprime il rimpianto per la vita trascorsa inutilmente nell’amore
vano per la donna ormai scomparsa e il timore della morte imminente, nella consapevolezza di
aver peccato e di essere prossimo a rendere conto della propria condotta di fronte a Dio. Il dissidio
interiore è espresso attraverso la metafora del viaggio in un mare tempestoso, in cui l’unica luce
era rappresentata dagli occhi di Laura. La consapevolezza dei propri errori crea questo sentimento
di pietà verso sé stessi. “Veggio-veggio” → sottolinea la ricerca di un ricordo che sia uno sprazzo di
dolcezza/tranquillità e invece trova davanti a sé un mare tempestoso.
La vita fugge, e non si ferma neanche un’ora, la morte ci segue a gran giornate (= a tappe forzate,
lessico bellico), le cose presenti e passate mi combattono, e perfino le cose che devono ancora
accadere (= le cose future); e il ricordare e l’aspettare le cose future mi fa soffrire, da un lato e
dall’altro (= idea che la battaglia interiore riguardi sia la proiezione verso il tempo passato e si
proietta nel futuro), in verità, se non avessi pietà per me stesso, io sarei già fuori da questi pensieri
(= suicidio potrebbe essere l’unica via di uscita). Mi si para davanti il ricordo, se il cuore aggravato
dal dolore almeno ha conosciuto un momento di dolcezza; vedo già i venti turbati per il mio
procedere (immagine della nave che procede = vita stessa come navigazione); vedo fortuna in
porto (la tempesta nel porto = luogo di arrivo che dovrebbe essere tranquillo, vede venti in
tempesta), e il mio nocchiero è stanco (come se Petrarca spostasse la sua stanchezza verso
qualcun altro che lo è già), l’albero della nave e le sue corde, sono state danneggiate, e i begli
occhi che solevo guardare ora sono spenti (la luce che veniva da Laura è finita = non concede la
dolcezza).

I’vo piangendo i miei passati tempi → sonetto 365, ci si affida a Dio e alla Vergine con la canzone
che chiude tutto il Canzoniere. Questo sonetto è particolarmente legato al precedente, 364 →
grazie a quest’ultimo ci risale la datazione = 1358 → Petrarca è stato tormento dall’amore per ben
21 anni e ne sono passati 10 da quando Laura è morta (insieme a lei anche il cuore del poeta). Li
scrive nel 1358 e li colloca alla fine della storia d’amore poiché è lì che devono stare a livello
narrativo. Idea del compianto sul tempo speso ad amare una donna mortale. “Non bassi” =

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Letteratura Italiana

Litote→ figura retorica che consiste nell’attenuare formalmente l’espressione di un giudizio o di


un predicato col negare l’idea contraria, ottenendo per lo più l’effetto di rinforzarla.
Io piangendo il tempo che ho passato amando una creatura mortale, senza sollevarmi in volo, pur
avendo le ali per farlo, avrei potuto dare di me altre prove ma invece ho sprecato il tempo che ho
avuto (invece di “volare” in alto, è rimasto in Terra ad amare Laura). Tu [Dio] che vedi i miei
mali/peccati che sono indegni dentro il mio cuore, Re del cielo che sei invisibile e immortale (due
termini che Petrarca prende da San Paolo), dona soccorso l’anima sviata dal peccato che è fragile,
e il suo difetto [dell’anima sviata] riempi con la Tua grazia: cosicché, se io ho vissuto in guerra e in
tempesta (= tensione naturale ed artificiale che attraversa lo spirito e il cuore di quest’anima),
almeno possa morire in pace e in porto; e se il soggiorno è stato inutile (= vita come viaggio),
almeno il distaccarsi sia onesto/degno di onore. A quel poco di vita che mi separa dalla morte (=
consapevolezza che la vecchiaia porti presto alla morte), la Tua mano pronta al soccorso: si degni
di essere pietosa, Tu che sai bene che ripongo in Te ogni speranza [si riferisce a Dio].

SESTINA LIRICA → (o canzone sestina, o semplicemente sestina) = forma di canzone, divenuta


forma metrica autonoma con Petrarca che la riprende da un testo di Dante (il quale a sua volta
imita un testo di Arnaut Daniel). Consiste in 6 strofe di 6 versi, che non rimano fra loro entro la
strofa, ma terminano in tutte le strofe con le stesse 6 parole-rima, ruotate secondo il principio
della “retrogradazione incrociata”, le parole-rima di ogni strofa corrispondono a quelle della
precedente secondo l’ordine “ultimo-primo-penultimo-secondo-terzultimo-terzo” (schema
ABCDEF FAEBDC CFDABE ECBFAD DEACFB BDFECA). Il congedo, di 3 versi, porta 3 parole-rima in
rima e 3 all’interno del verso; l’uso provenzale vorrebbe che le 3 in rima fossero, in ordine, le 3 in
rima alla fine dell’ultima stanza (ECA; così avviene in Arnaut Daniel), ma questo principio è già
abbandonato da Dante, e nella tradizione italiana le soluzioni sono varie.

A qualunque animale alberga in terra → sestina 22. Il congedo (è una mezza stanza) si conclude
con le parole-rima selva-stelle-sole + dentro ai versi si trovano anche le altre parole-rima terra-
giorno-alba. Il modello di questa sestina è proprio Arnaut Daniel. Ritorna l’immagine di Laura-
lauro che si trasforma per sfuggire dal Dio Apollo = in alloro.
Per qualsiasi animale che abiti sulla terra, se non per quelli che odiano il sole, il giorno è il tempo
del travagliare; ma quando il cielo accende le sue stelle (notte), una parte di animali torna a casa e
altri si annidano nella selva per avere riposo finché non sorge di nuovo il sole (alba). E io, da
quando comincia a sorgere il sole a dissipare le tenebre e sveglia gli animali che si trovano in ogni
selva, non ho mai tregua di sospir finché c’è il sole; poi quando vedo fiammeggiare le stelle io
piango, e desidero il giorno (non trova il riposo, è un nuovo tormento). Quando la sera scaccia il
chiaro giorno e le tenebre che nel nostro emisfero fanno notte e nell’altro fanno luce, miro
pensieroso le stelle che sono crudeli (astri che hanno degli influssi malefici sul cuore degli
innamorati e del poeta stesso), e le maledico poiché mi hanno fatto una creatura di terra sensibile;
e maledico il giorno in cui sono nato/in cui vidi il sole (il sole come origine della sofferenza), che mi
fa nell’aspetto un uomo nutrito nelle selve (l’inselvatichimento è effetto dell’amore). Non credo
che fu nutrita mai nelle selve un animale così feroce, di notte e di giorno, come costei per cui io

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Letteratura Italiana

piango sia durante la notte sia durante il sole; e non mi stanca dal dolore né il momento in cui
inizia il sonno né l’alba: perché, un mortale corpo di terra, però il mio fermo desiderio (inesauribile
desiderio d’amore) deriva dalle stelle che mi condizionano. Prima che io salga a voi, stelle lucenti
(Paradiso), o invece venga precipitato giù nell’amorosa selva (= Virgilio, VI libro dell’Eneide),
lasciando il corpo che sarà pura terra, potessi almeno io vedere il lei un po’ di pietà, che potrà
risarcire i tanti anni di dolore, e prima dell’alba (= della vita) mi potrà risarcire dal tramontare del
sole (= della morte). Potessi essere io almeno con lei da quando tramonta il sole, e non ci
vedessero che le stelle, solo una notte, mai arrivi l’alba; e non si trasformasse nel verde albero per
uscire come il giorno in cui per sfuggire alle braccia di Apollo si è trasformata in albero stesso.
CONGEDO → Prima che venga questo giorno (= in cui Laura mi si concederà), che io sarò
sottoterra in secca selva (= sembra l’antitesi della selva amorosa precedentemente citata all’inizio
della sestina) e il giorno sarà pieno di stelle minutissime (= giorno che si trasforma in notte). È una
terzina costruita sull’adynaton = Figura retorica, frequente nella poesia classica, che consiste
nell’affermare l’impossibilità che una cosa avvenga, subordinandone l’avverarsi a un altro fatto
ritenuto impossibile. [Allitterazione della consonante S]
I’vo pensando, et nel penser m’assale → canzone 264. È la canzone della svolta, della
manifestazione della necessità del pentimento = amore che tormenta e amore per la gloria poetica
→ due elementi di errore. Corrisponde, non a caso, al giorno della nascita di Cristo = 25 dicembre.
LEZIONE 17
IL QUATTROCENTO: PULCI, POLIZIANO E BOIARDO
Che secolo è il Quattrocento? È un secolo rivoluzionario che ci avvicina alla prima modernità. Il
Quattrocento è il secolo dell’UMANESIMO e dell’INVENZIONE DELLA STAMPA → due grandi
elementi rivoluzionari, ma che erano già in parte presenti nel secolo precedente (= le radici
dell’Umanesimo si trovano già in Petrarca → Epistole e Orazioni di Cicerone, riscoperta materiale
dei grandi classici della latinità). Una riscoperta del tutto quattrocentesca è quella del De rerum
natura di Lucrezio nel 1417 da parte di Poggio Bracciolini.
Questa “nuova cultura” implica anche una nuova concezione e percezione della storia = il senso
che assume la classicità per la cultura umanistica = il modello dei classici crea una forte continuità
tra un passato che precede il Medioevo e un presente che si trasforma in futuro. Avviene questo
recupero di un grande patrimonio culturale che rivitalizza, riattualizza e rinnova dal punto di vista
etico, morale e politico.
Le istanze di questa nuova stagione si concentrano anche in direzioni dissimili = una legata alla
cultura universitaria (= intorno città di Padova) e una legata alle esperienze della nuova Italia delle
Corti (= Firenze, Ferrara – potere politico e novità culturali).
La rivoluzione “silenziosa” ma colossale → l’invenzione della stampa. Il libro a stampa comporta
dei grandi cambiamenti ma eredita quella che è una cultura già consolidata del libro manoscritto
(verso il progresso ma legami ancora con il passato). All’inizio del Cinquecento l’invenzione di
Gutenberg, che si colloca intorno agli anni ’50 del Quattrocento (1454 con la pubblicazione della
Bibbia di Gutenberg), è una rivoluzione che “parte lenta” ma che all’inizio del Cinquecento porta a
dei grandissimi risultati. L’impatto dell’invenzione della stampa a caratteri mobili → è

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Letteratura Italiana

un’invenzione che arriva al mondo tedesco da lontanissimo, forse dalla Cina. Gutenberg e
compagni inventano non soltanto il torchio tipografico ma anche delle forme/miscele di inchiostri
che ci consentono di leggere quelli che sono libri impressi alla fine del Quattrocento, chiamati
“incunaboli”. Il torchio tipografico → è uno strumento che consente, grazie ai caratteri mobili, di
comporre una pagina che può essere impressa un centinaio di volte. L’accesso alla cultura diventa
molto più semplice con il libro a stampa rispetto al libro manoscritto. Le forme dei libri a stampa
richiamano e ricordano molto quelle tipiche del libro manoscritto, come ad esempio l’indice.
Arte e cultura alla corte di Lorenzo il Magnifico (= ambiente culturale in cui si collocano le
produzioni letterarie di Pulci e Poliziano). Lorenzo è figlio di Piero de Medici e nipote di Cosimo il
vecchio → ci troviamo nella Firenze in cui la famiglia dei Medici si afferma, grazie al proprio potere
economico, alla guida della città. Lorenzo nasce nel 1469 e muore nel 1492, a soli vent’anni si
trova a prendere il posto di Piero di Cosimo il vecchio. È una figura caratterizzata da una forte
poliedricità che riguarda sia le sue passioni letterarie che la sua politica. La gestione del potere
cittadino è gestita da una grande intelligenza, capacità di affermarsi come mediatore tra le varie
forze presenti in Italia. Lorenzo riesce a far convivere, da un lato la letteratura classica e dall’altro
un’attenzione nei confronti di una poesia spiccatamente popolare.
Questi due aspetti ci permettono di comprendere i due autori che saranno i rappresentanti
principali della sua corte e della sua visione culturale → Pulci e Poliziano. Lorenzo non fu soltanto
un promotore della cultura, della letteratura e dell’arte della Firenze del tempo ma fu egli stesso
poeta e autore di un Canzoniere (poesia elevata, Petrarca) e di Nencia da Barberino (poesia
popolare, Pulci). Il 26 aprile 1478 avvenne la Congiura dei Pazzi = dà voce a delle istanze di forte
contestazione del potere dei Medici a Firenze e che porta alla morte del fratello di Lorenzo,
Giuliano de’ Medici. La Congiura dei Pazzi dà voce anche a delle tensioni politiche che riguardano
tutta la penisola e non solo il potere delle corti ma anche il conflitto con una delle corti più potenti,
ovvero la Corte Papale guidata dal Papa Sisto IV. L’interdetto di Sisto IV, appoggiato dal Re
Ferdinando di Napoli, porta a una vera e propria scomunica della città. Lorenzo non si scoraggia e
cerca di avviare una grande politica di alleanze varie soprattutto con la Corte Papale e riesce a
ottenere la Porpora Cardinalizia per il figlio Giovanni e dà in sposa la figlia Maddalena con il figlio
naturale di Innocenzo VIII, Francesco Cybo. Tutti questi rappresentano dei piccoli passaggi per
arrivare a quella sorte di momentaneo equilibrio italiano che regna grazie a Lorenzo = “ago della
bilancia”. Il progetto culturale di Lorenzo tiene insieme sia un’attenzione per la cultura classica che
per l’affermarsi dell’Umanesimo volgare e di nuove tendenze filosofiche che hanno a che fare con
la riscrittura della filosofia platonica (Sandro Botticelli, Marsilio Ficino, Giovanni Pico della
Mirandola, Luigi Pulci, Angelo Poliziano).
LUIGI PULCI (1432-1484), Il Morgante
Luigi Pulci nasce a Firenze (Mugello) nel 1432. Nel 1431 era già nato il fratello Luca e nel 1438
nascerà Bartolomeo → forte legame tra i tre fratelli. Luigi appartiene a una famiglia nobile che
però entra in piena decadenza alla nascita di Luigi stesso. Nel 1460, proprio per questa decadenza,
Luigi entra al servizio della casa Medici. La sua opera più importante è Il Morgante, poema in
ottave.
Composizione e Stampe → intorno agli anni Sessanta Pulci entra nel circolo culturale dei Medici.
Riceve l’incarico da Lucrezia Tornabuoni (madre di Lorenzo) di scrivere un poema dedicato alle
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Letteratura Italiana

imprese di Carlo Magno. Le stampe che ci trasmettono questo testo registrano che cosa
effettivamente accade tra la prima sezione e quella che la segue. È registrata una Editio princeps
(prima edizione) tra il 1478 e il 1481 (in 23 cantari; l’Orlando laurenziano) – di cui abbiamo solo
notizie ma nessun testimone. Abbiamo un testimone della stampa successiva del 1483 del
Morgante maggiore (in 28 cantari; la Rotta di Roncisvalle). I 5 cantari che trasformano il Morgante
da un’opera in 23 cantari a un’opera in 28 sono interamente dedicati alla morte di Orlando a
Roncisvalle, alla cosiddetta Rotta di Roncisvalle. I critici, in questa morte, hanno rintracciato una
sorta di lettura allegorica, di trasformazione degli eventi che avevano portato alla morte di
Giuliano de’ Medici.
Titolo → la prima edizione di cui abbiamo un testimone, è una stampa fiorentina presso Sancto
Iacopo di Ripoli tra il 1481-1482. È proprio questa edizione a stampa che ci dà delle informazione
sull’origine del titolo. “Questo Libro tracta di Carlo Magno traducto di latine scripture antiche
degne di auctorità et messo in rima da Luigi de’ Pulci Ciptadino Fiorentino ad petetitione di Piero
di Cosimo de’ Medici. Et dallo orginal proprio di mano dii decto auctore ritracto et gittato in forma
in Firenze appresso Sancto Jacopo di Ripoli. Et poi che così si contenta il volgo che e’ sia appellato
Morgante derivato da un certo gigante famoso che in molte cose interviene in esso per opugnar a
tanti concedesi che così sia il suo titolo, cioe el famoso Morgante”. È il libro a stampa, il libro
stesso a dirci da dove proviene il titolo.
Il poema di un gigante = cantare I-X, le avventure di Morgante = cantari XVIIII-XX, l’incontro con
Margutte (gigante nano) = cantari XVIIII-XIX, la morte paradossale = cantare XX. L’uso dei cantari
rappresenta la continuità che l’opera di Pulci stringe con questa letteratura più bassa e popolare
affidata ai canterini o cantastorie che, trasmettevano, nello stesso metro di Pulci le storie che
venivano dall’antichità, dal ciclo Carolingio e Bretone nelle vie facendosi pagare.
Struttura → ha una struttura bipartita e sbilanciata per quantità dal momento che abbiamo un
grosso nucleo iniziale di 23 cantari (1478 e 1481) e il secondo che va dal 24 al 28 (1483). Gli ultimi
5 cantari, sommandosi ai 23 precedenti, ci presentano l’opera in sé. Questi 28 cantari sono in
ottave = stesso metro utilizzato dai canteri/cantastorie. L’OTTAVA → L’ottava rima, o “ottava
narrativa”, o anche “stanza”, è la strofa di endecasillabi di schema ABABABCC, in uso nella poesia
discorsiva (epica, narrativa, religiosa) almeno dal quarto decennio del Trecento, e acquisita allo
stile elevato grazie a Boccaccio. Diversamente dalla forma della terza rima (“aperta” e con
collegamento di rima da una terzina all’altra), quella dell’ottava è “chiusa”, senza collegamento di
rima tra le strofe. I testi in ottave si organizzano frequentemente in sezioni che possono essere
dette “canti” o “libri”, ma il canto in ottave non ha una forma di chiusa metrica come, invece,
quello in terza rima.
Modelli → Il Morgante (1478 e 1481), nel 1868 un grande studioso Pio Rajna scoprì un
manoscritto contenuto nel Mediceo Palatino 78 di un cantare toscano “L’Orlando laurenziano” che
per un lungo periodo venne considerato l’archetipo da cui Pulci sembra rifarsi nella sua opera. In
realtà quest’idea venne discussa, un primo orientamento in cui la scoperta di Rajna è stata
capovolta ha fatto sì che si iniziasse a parlare di una dipendenza invertita = che L’Orlando
laurenziano fosse una copia del Morgante. Questa posizione è stata ulteriormente rivista e una
nuova rilettura ha fatto emergere l’ipotesi della presenza di un testo X dal quale, in modo
autonomo, dipendessero sia il Morgante che L’Orlando laurenziano. Più recentemente, Stefano

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Letteratura Italiana

Carrai, ha ipotizzato che L’Orlando laurenziano potesse dipendere da quella versione del
Morgante che a noi non è pervenuta. L’Orlando laurenziano ci dà testimonianza della presenza di
queste storie o in relazione diretta al Morgante o con una circolazione autonoma e indipendente.
Tutt’altro discorso va fatto per gli ultimi 5 cantari, Il Morgante maggiore (1483), che presentano
dei cambiamenti non solo di intonazione ma anche di materia di ispirazione che sposta tutta
l’attenzione sulla Rotta di Roncisvalle e per questo filo narrativo molto marcato è facile ricondurla
alla Spagna in rima che raccoglie altri cantari intorno alla guerra dei paladini di Carlo in terra di
Spagna.
Temi → dominante è quello carolingio (soprattutto dei paladini Orlando e del cugino Rinaldo), a
questo si sovrappone il tema di Morgante (novità tematica, vera invenzione di questo testo), si
legano poi il tema di Gano e delle donne = Meridiana, Forisena, Chiariella, Luciana, Antea.
La lingua e lo stile → il tratto più evidente della lingua di Pulci sembra quello che si ricollega a una
tradizione espressiva antiletteraria, forte imitazione dell’oralità di un fiorentino vivo, attivo e che
emerge dal ricorso di espressioni idiomatiche e proverbi. Lingua che imita la vivacità della lingua
fiorentina parlata = proverbi. Altro grande modello per la scelta della lingua è Dante. Il comico e il
parodico sono i due registri stilistici prediletti da Pulci, il senso del capovolgimento e della rilettura
parodica è il tratto più evidente e si impone il titolo di Morgante all’intero poema poiché è il
personaggio che meglio incarna questa tendenza parodica-comica. Si riprende la materia
carolingia ma la si sottopone a una riscrittura in chiave comica e parodica. Il protagonista, Carlo
Magno, è un eroe invecchiato, incapace di gestire i propri paladini e il proprio regno (che poi
perderà). Tutto questo riguarda i primi 23 cantari, l’altro passaggio riguarda il cambiamento di
tono tra la prima parte e la seconda = l’intonazione dell’opera cambia in relazione alla Congiura dei
Pazzi. Gli ultimi 5 cantari si concentrano perlopiù sull’aspetto tragico.
LEZIONE 18
Il Morgante (cantare I): invocazione → incipit fortemente strutturato, con delle sue regole e che
dovrebbe essere affidato all’invocazione delle Muse. Da un lato vediamo un rifarsi alla tradizione
popolare (= cantari) e dall’altro quella componente letteraria ma parodica. Al posto di Apollo o
delle Muse, troviamo Cristo e la Madonna = continuità dei cantari che per dare autorevolezza si
rivolgevano direttamente a Dio poiché proteggesse la loro poesia. I primi versi dell’incipit
riprendono i versi del Vangelo di Giovanni, Pulci li riscrive e li riattualizza. Dopo aver invocato Dio,
si rivolge alla Vergine. L’invocazione della Vergine, nella seconda ottava, fa riferimento al
Purgatorio X di Dante (vv. 41-42) = Pulci non si limita a riprendere esattamente la stessa immagine
di Dante nel Purgatorio, ma riusa esattamente le stesse rime (chiave-Ave) = ripresa delle parole-
rima.
Parafrasi = In principio era il Verbo presso Dio e Dio era il Verbo, e il Verbo era Dio: questo era al
principio, secondo me, e non si può far nulla senza di Lui. Perciò, o Signore giusto, benigno e pio,
mandami almeno uno dei tuoi angeli, che mi accompagni e mi riporti alla memoria una famosa,
degna e antica storia. E tu, Vergine che sei figlia, madre e sposa (= triade classica per individuare
la Madonna) di quel Signore che le dette la chiave del Cielo (“di aprire i cieli”), dell'abisso e d'ogni
cosa, quel giorno in cui l’angelo Gabriele ti disse “Ave” (= momento dell’annunciazione), dal
momento che tu sei pietosa verso i tuoi servi, aiuta benevolmente i miei versi con rime dolci e uno
stile soave e gradevole, e illumina la mia mente sino alla fine [dell'opera].
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Letteratura Italiana

Il Morgante (cantare I): la materia dell’opera → descrizione del tempo mediante un riferimento
letterario alto = Metamorfosi di Ovidio = Primavera. Altro riferimento alle Metamorfosi di Ovidio è
quando si ricorda di Fetonte che venne punito per essersi avvicinato troppo al sole. Fino a quel
momento, al povero Carlo Magno sono state dedicate delle opere poetiche che non sono
all’altezza della sua gloria.
Parafrasi = Era il tempo [la primavera] in cui Filomena [l’usignolo] si lamenta e piange con la sorella
[Procne, la rondine], poiché si rammenta del suo antico dolore, e fa innamorare le ninfe nei
boschetti; ed era il tempo in cui Febo [Apollo] conduce il suo carro del sole ad una altezza media
(posizione del sole = primavera), poiché suo figlio Fetonte ancora lo ammonisce, e appariva
appena all'orizzonte colei [l’aurora] per cui Titone ancora si graffiava la fronte [era l’alba], quando
io misi in mare la mia barchetta [iniziai a comporre dei versi] in primo luogo per obbedire a colei a
cui sempre la mente deve obbedire [Lucrezia Tornabuoni], e comporre faticosamente opere in
prosa e in rima, e mi rincrebbe dell’imperatore Carlo Magno; infatti so quanti sono stati esaltati
dalla penna dei poeti, mentre sarebbero vinti dalla sua gloria: questa storia di Carlo, a quel che
vedo, è stata compresa male e scritta ancora peggio. Già Leonardo Aretino [Leonardo Bruni] diceva
che se avesse avuto uno scrittore degno di lui, come ebbe dei cronachisti al suo servizio Ormanno
e Turpino [primi narratori in cronaca, da un lato chiamati in causa da Andrea da Barberino per i
suoi reali di Francia e dall’altro per l’istoria di Carlo Magno di cui Turpino sarebbe la fonte storica],
e questi se avesse avuto diligenza e ingegno, Carlo Magno sarebbe un uomo divino, poiché
ottenne grandi vittorie e un regno, e fece per la Chiesa e la fede cristiana molto più di quanto non
si dica o non si creda.
Basti guardare quella badia di S. Liberatore, là vicino a Manoppello in Abruzzo, costruita in suo
onore, dove ci fu la battaglia e il grande flagello di un re pagano ucciso dall'imperatore Carlo
insieme a tanti soldati del suo popolo feroce; e si vedono tante ossa, talmente tante che le
persone sanno che non ne vedranno altrettante nella valle di Iosafat [nel giorno dei Giudizio]. Ma il
mondo cieco e ignorante non apprezza le sue virtù come io vorrei vedere. E tu, Firenze, possiedi
qualcosa della sua grandezza e sempre sarà così: ogni costume e ogni nobiltà che si possa
acquistare o ottenere col senno, col denaro e con la lancia, è venuto dal nobile sangue di Francia.
Carlo aveva alla sua corte dodici paladini e il più saggio/nobile e famoso tra questi era Orlando; il
traditore Gano lo portò alla morte a Roncisvalle, dopo aver ordito una trama, in quel luogo dove
lui suonò forte il corno: “dopo la dolorosa sconfitta, quando...”, come dice Dante nella sua
“Commedia”, e poi lo colloca con Carlo tra i beati del Paradiso [ripresa dell’Inferno XXXI vv. 16-18 +
Paradiso XV].
Il Morgante (cantare I): Gano il sobillatore → se non ci fosse la sua cattiveria il poema non
arriverebbe nemmeno alla conclusione. Presentazione della festa di Natale in cui si riuniscono
presso la corte di Parigi. Carlo viene accusato di essere troppo presuntuoso e di assumere un ruolo
che non gli compete. La minore età di Orlando è un riferimento a quella che dovrebbe essere una
sua minore autorevolezza, gli altri grandi nobili di Carlo Magno con invidia vedono gestire
esclusivamente da Orlando.
Parafrasi (che non ha fatto) = Era per Pasqua, quella di Natale; Carlo la corte avea tutta in Parigi:
Orlando, com' io dico, è il principale, èvvi il Danese, Astolfo ed Ansuigi; fannosi feste e cose
triunfale, e molto celebravan san Dionigi; Angiolin di Baiona ed Ulivieri v'era venuto, e 'l gentil

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Letteratura Italiana

Berlinghieri. Eravi Avolio ed Avino ed Ottone, di Normandia Riccardo paladino, e 'l savio Namo e 'l
vecchio Salamone, Gualtieri da Mulione e Baldovino, ch'era figliuol del tristo Ganellone: troppo
lieto era il figliuol di Pipino, tanto che spesso d'allegrezza geme, veggendo tutti i paladini insieme.
Ma la Fortuna attenta sta nascosa per guastar sempre ciascun nostro effetto: mentre che Carlo
così si riposa, Orlando governava in fatto e in detto la corte e Carlo Magno ed ogni cosa; Gan per
invidia scoppia, il maladetto, e cominciava un dì con Carlo a dire: - Abbiàn noi sempre Orlando a
obedire? lo ho creduto mille volte dirti: Orlando ha in sé troppa presunzione; noi siàn qui conti, re,
duchi a servirti, e Namo, Ottone, Uggieri e Salamone, per onorarti ognun, per obedirti; che costui
abbia ogni reputazione, nol sofferrem, ma siam deliberati da un fanciullo non esser governati. […]
La tua grandezza dispensar si vuole e far che ciascuno abbi la sua parte; la corte tutta quanta se ne
duole: tu credi che costui sia forse Marte? [credi che Orlando sia lo stesso Dio della guerra sceso
in terra?] – Orlando un giorno udì queste parole, che si sedeva soletto in disparte: dispiacquegli di
Gan quel che diceva, ma molto più che Carlo gli credeva [Orlando è dispiaciuto di sentire queste
accuse da parte di Gano e soprattutto perché Carlo Magno è disposto a credere a queste
insinuazioni].
Il Morgante (cantare I): Reazione di Orlando (non ha fatto la parafrasi) → E volle colla spada
uccider Gano; ma Ulivieri in quel mezzo si mise e Durlindana gli trasse di mano, e così il me' che
seppe gli divise. Orlando si sdegnò con Carlo Mano, e poco men che quivi non l'uccise; e dipartissi
di Parigi solo, e scoppia e 'mpazza di sdegno e di duolo. A Ermellina, moglie del Danese, tolse
Cortana [spada] e poi tolse Rondello [cavallo], e inverso Brava il suo camin poi prese. Alda la bella
[moglie di Orlando], come vide quello, per abbracciarlo le braccia distese. Orlando, che smarrito
avea il cervello, com’ella disse: - Ben venga il mio Orlando - ,gli volle in su la testa dar col brando
[preso dall’ira Orlando stava per colpire con la spada anche la moglie].
Come colui che la furia consiglia, e’ gli pareva a Gan dar veramente: Alda la bella si fe’ maraviglia
[Orlando era talmente preso dall’ira che scambia la moglie per Gano]. Orlando si ravvide
prestamente (e la sua sposa pigliava la briglia) e scese del cavai subitamente; ed ogni cosa diceva a
costei, e riposossi alcun giorno con lei. Poi si partì, portato dal furore [grandi riferimenti all’ira che
cresce ed è il motore che lo spinge all’allontanamento dalla corte], e terminò passare in Pagania; e
mentre che cavalca, il traditore di Gan sempre ricorda per la via [è come se l’ossessione crescesse];
e cavalcando d’uno in altro errore [è l’erranza, il movimento dell’allontanamento che innesca la
storia], in un deserto truova una badia [abbazia], in luoghi scuri e paesi lontani, ch’era a’ confin tra’
Cristiani e’ Pagani [siamo alla soglia dell’inizio dell’avventura].
Il Morgante (cantare I): inizio dell’avventura → L'abate si chiamava Chiaramonte [dell’abbazia]:
era del sangue disceso d’Angrante [stessa famiglia del cugino Orlando]. Di sopra alla badia v’era un
gran monte, dove abitavano dei cattivissimi giganti, de’ quali uno avea nome Passamonte, l’altro
Alabastro, e ‘l terzo era Morgante [prima presentazione che abbiamo dell’eroe]: con certe frombe
gittavan da alto, ed ogni dì facevan qualche assalto [mettono terrore ai monaci dell’abbazia]. I
monachetti [mette in evidenzia, con il diminutivo, la posizione di inferiorità e di difficoltà] non
potieno uscire del monistero o per legne o per acque. Orlando picchia [bussa], e non voleano
aprire, fin ch’a l'abate alla fine pur piacque. Entrato dentro, cominciava a dire come Colui che di
Maria [Orlando si presenta come Cristiano] già nacque, adora, ed era cristian battezato, e come
egli era alla badia arrivato. Disse l'abate: - Il ben venuto sia. Di quel ch'io ho, volentier ti daremo,
poi che tu credi al Figliuol di Maria; e la cagion, cavalier, ti diremo, acciò che non la imputi villania,
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Letteratura Italiana

perché all'entrar resistenzia facemo, e non ti volle aprir quel monachetto: così intervien, chi vive
con sospetto. Quand’io ci venni al principio abitare [nell’abbazia], queste montagne, ben che sieno
oscure come tu vedi, pur si potea stare sanza sospetto, chél’eran sicure; sol dalle fiere t’avevi a
guardare: fernoci spesso di strane paure. Or ci bisogna, se vogliamo starci, dalle bestie dimestiche
guardarci [l’abate gli spiega qual era la situazione di questo spazio quando si trasferì = luogo
montuoso e selvatico, ci si doveva solamente preoccupare degli animali feroci. Ora devono
guardarsi da delle bestie domestiche = i 3 giganti che mettono paura ai monaci].
Il Morgante (cantare I): i tre giganti → Queste ci fan più tosto stare a segno: sonci appariti tre feri
giganti, non so di qual paese o di qual regno; ma molto son feroci tutti quanti. La forza e ’I mal
voler giunta allo ’ngegno, sai che può il tutto [questi giganti hanno la forza e anche la cattiva
volontà aggiunta all’ingegno e possono fare di tutto]; e noi non siàn bastanti [non riusciamo ad
opporci]: questi perturban sì l’orazion nostra [turbano le nostre preghiere], ch’io non so più che
far, s’altri noi mostra [non sanno che fare a meno che non intervenga qualcun altro]. Gli antichi
padri nostri nel deserto, se le loro opre sante erano e giuste, del ben servir da Dio n’avean buon
merto [venivano contraccambiati da Dio]; né creder sol vivessin di locuste [non sopravvivevano
soltanto degli animali che potevano mangiare direttamente dal deserto]: piovea dal ciel la manna
[evento mitico descritto dalla Bibbia, cibo che arriva dal cielo e che sostiene nel deserto il popolo
di Israele guidato da Mosè], questo è certo; ma qui convien che spesso assaggi e guste assi, che
piovon di sopra quel monte, che gettano Alabastro e Passamonte [i poveri monaci ricevono dei
sassi lanciati da Alabastro e Passamonte al posto della manna]. Il terzo, che è Morgante, assai più
fero [più feroce], isveglie e’ pini, e’ faggi, e’ cerri e gli oppi, e gettagli insin qui, questo è pur vero:
non posso far che d’ira non iscoppi. – Mentre che parlan così in cimitero, un sasso par che Rondel
quasi sgroppi, che da’ giganti giù venne da alto, tanto che e’ prese sotto il tetto un salto [Morgante
riesce a sradicare i pini, i faggi, i cerri e gli aceri e li getta giù. Mentre parlano nel chiostro in cui
sono seppelliti gli altri monaci, cade dall’alto un sasso che sembra colpire il cavallo di Orlando].
→ Alabastro e Passamonte si divertono facendo cadere dalla montagna dei sassi, Morgante
sradica gli alberi e li getta giù.
Il Morgante (cantare I): Orlando accetta l’impresa → Tìrati drento, cavalier, per Dio, - disse l’abate
- ché la manna casca [la manna di sassi]. – Rispose Orlando: - Caro abate mio, costui non vuol che
’l mio cavai più pasca [che il mio cavallo non mangi più in futuro]: veggo che lo guarrebbe del
restio; quel sasso par che di buon braccio nasca. - Rispose il santo padre: - Io non t’inganno: credo
che ’l monte un giorno gitteranno [dalla manna di sassi la minaccia si trasforma nell’intero monte
che potrebbe cadere in testa ai monaci]. - Orlando governar fece Rondello ed ordinar per sé da
collezione [colazione]; poi disse: - Abate, io voglio andare a quello che détte al mio caval con quel
cantone [voglio andare da quello che ha preso di mira il mio cavallo con un grosso masso]. - Disse
l’abate: - Come car fratello consiglierotti sanza passione: io ti sconforto, baron [non è il titolo
nobiliare ma semplicemente l’appellativo che si dà ai grandi signori], di tal gita, ch’io so che tu vi
lascerai la vita [l’abate è preoccupato per Orlando perché sa che potrebbe morire].
Orlando, nonostante l’avviso dell’abate, accetta e si reca sul monte dove combatte e uccide i due
fratelli (Alabastro e Passamonte).
Il Morgante (cantare I): la conversione di Morgante → Morgante aveva a suo modo un palagio
[aveva un suo spazio] fatto di frasche e di schegge e di terra; quivi, secondo lui, si posa ad agio,
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Letteratura Italiana

quivi la notte si rinchiude e serra [piccola casa e luogo di protezione, la notte è importante per la
conversione di Morgante]. Orlando picchia, e daràgli disagio, per che il gigante dal sonno si sferra;
vennegli aprir come una cosa matta, ch’un’aspra visione aveva fatta [ha fatto una visione ed è
come se sulla base di questa visione poi si possa convertire alla fede cristiana il terzo fratello
feroce = Morgante]. E' gli parca ch’un feroce serpente l’avea assalito, e chiamar Macometto; ma
Macometto non valea niente, onde e’ chiamava Iesù benedetto, e liberato l’avea finalmente
[Morgante sogna qualcosa di assai realistico, un serpente che lo assale, e il gigante chiama in
soccorso Maometto. Però, Maometto non serve a nulla e chiamò Gesù benedetto e questo lo
liberò = sogno angoscioso]. Venne alla porta ed ebbe così detto: - Chi bussa qua? - pur sempre
borbottando. - Tu ’I saprai tosto - gli rispose Orlando. Vengo per farti come a’ tuoi fratelli; son de’
peccati tuoi la penitenzia, da’ monaci mandato cattivelli, come stato è divina providenzia: pel mal
ch’avete fatto a torto a quelli, è data in Ciel così questa sentenzia; sappi che freddo già più ch’un
pilastro lasciato ho Passamonte e ’I tuo Alabastro [i loro corpi sono freddi come il marmo]. - Disse
Morgante: - O gentil cavaliere, per Io tuo Iddio non mi dir villania. Di grazia, il nome tuo vorrei
sapere; se se’ cristian, deh, dillo in cortesia. - Rispose Orlando: - Di cotal mestiere contenterotti,
per la fede mia: adoro Cristo, che è Signor verace, e puoi tu adorarlo, se ti piace [se vuoi di puoi
convertire, se vuoi].
Rispose il saracin con umil voce: - Io ho fatta una strana visione: che m’assaliva un serpente feroce;
non mi valeva, per chiamar, Macone [Maometto, sta raccontando la visione a Orlando]; onde al
tuo Iddio, che fu confitto in croce, rivolsi presto la mia divozione; e’ mi soccorse, e fui libero e
sano, e son disposto al tutto esser cristiano [Morgante è disposto a convertirsi alla base della
visione notturna]. – Rispose Orlando: - Baron giusto e pio, se questo buon voler terrai nel core,
l’anima tua arà quel vero lddio che ci può sol gradir d’eterno onore; e s’ tu vorrai, sarai compagno
mio ed amerotti con perfetto amore; gl’idoli vostri son bugiardi e vani, e ’l vero lddio è lo Iddio de’
cristiani [la conversione è avvenuta + passo successivo = merita di diventare il compagno di
Orlando e di lottare insieme in nome della fede in cui ora entrambi credono].
Il Morgante (cantare I): la vestizione di Morgante → Se ci è armadura o cosa che tu voglia,
vattene in zambra [stanza] e pigliane tu stessi, e cuopri a questo gigante la scoglia [la pellaccia]. -
Rispose Orlando: - S’armadura avessi, prima che noi uscissin della soglia [prima che usciamo
dall’abbazia], che questo mio compagno difendessi, questo accetto io, e saràmi in piacere. - Disse
l’abate: - Venite a vedere. – E in certa cameretta entrati sono, che d’armadure vecchie era copiosa;
dicea l’abate: - Tutte ve le dono. - Morgante va rovistando ogni cosa; ma solo un certo sbergo
[usbergo = maglia ferrata che va sotto l’armatura] gli fu buono, ch’avea tutta la maglia rugginosa
[era tutto arrugginita]: maravigliossi che lo cuopra appunto [si meraviglia che gli vada bene], ché
mai più niun forse glien’era aggiunto… Questo fu d’un gigante smisurato, ch’a la badia fu morto
per antico dal gran Millon d’Angrante [fu ucciso dal padre di Orlando = legame con il passato], che
arrivato v’era, se appunto questa istoria dico; ed era nelle mura istoriato come e’ fu morto questo
gran nimico, che fece alla badia già lunga guerra; e Millon v’è, come e’ l’abbatte in terra. Veggendo
questa istoria, il conte Orlando fra suo cor disse: «O Dio, che sai sol tutto, come venne Millon qui
capitando, che ha questo gigante qua distrutto?» E lesse certe letter lacrimando, ché non poté
tener più il viso asciutto, come io dirò nella seguente istoria [legame per una strategia narrativa = il
fatto di non dirlo qui ma nel prossimo cantare]. Di mal vi guardi il Re dell'alta gloria [ultima ottava

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Letteratura Italiana

del primo cantare → elemento tipico del Morgante = piccola benedizione rivolta al
lettore/pubblico].
→ Orlando chiede che gli venga concesso come una sorta di ricordo, un’armatura per il suo
compagno. Millon d’Angrante è il padre di Orlando – si crea uno spazio narrativo visivo. L’azione
compiuta precedentemente da Orlando (= uccidere i giganti) è la stessa che fece suo padre →
tutto mediante la visione dell’usbergo = visione ed è come se il padre gli cedesse l’eredità. Primo
elemento della vestizione di Morgante = la maglietta arrugginita del padre di Orlando.
Il Morgante (cantare II): la vestizione di Morgante → Una spadaccia ancor Morgante truova;
cinsela, e poi se n’andava soletto là dove rotta una campana cova, ch’era caduta e stava sotto un
tetto, e spiccane un battaglio a tutta pruova, ed a Orlando il mostrava in effetto: - Di questo che di’
tu, signor d’Angrante? - Dico che è tal qual conviensi a Morgante. → la sua vestizione viene
completata con un arma del tutto inusuale = battaglio di una campana. È perfetta per questo
“strano” cavaliere visto che è l’immagine parodica del tipico cavaliere.
Il Morgante (cantare XVIII): incontro con Margutte → “credo” di Margutte è del tutto materialista
= manifestazione di quella vena eterodossa presente nel Morgante. L’incontro con questo
personaggio è del tutto inventato da Pulci = Margutte era il modo in cui venivano nominati i
fantocci di legno contro i quali si battevano i cavalieri durante le giostre. Anche Margutte muore di
una morte paradossale = esplode dalle risate guardando una scimmietta che ha calzato i suoi
stivali.
Giunto Morgante un dì in su ‘n un crocicchio, uscito d’una valle in un gran bosco, vide venir di
lungi, per ispicchio [di traverso], un uom che in volto parea tutto fosco [un uomo tutto scuro in
volto]. Dètte del capo del battaglio un picchio in terra [sbatte il battaglio per terra], e disse: «Costui
non conosco»; e posesi a sedere in su 'n un sasso, tanto che questo capitò e al passo [si siede su
un sasso e aspetta che passi]. Morgante guata le sue membra tutte più e più volte dal capo alle
piante, che gli pareano strane, orride e brutte: - Dimmi il tuo nome, - dicea - viandante. Colui
rispose: - Il mio nome è Margutte; ed ebbi voglia anco io d'esser gigante, poi mi penti' quando al
mezzo fu' giunto: vedi che sette braccia sono appunto [Margutte aveva voglia di diventare un
gigante ma a metà si fermò e crebbe all’incirca 4 metri = è un mezzo gigante]. Disse Morgante: - Tu
sia il ben venuto: ecco ch'io arò pure un fiaschetto allato [fiasco di vino che si appende al suo
fianco poiché Margutte è alto fino al fianco di Morgante], che da due giorni in qua non ho beuta; e
se con meco sarai accompagnato, io ti farò a camin quel che è dovuto. Dimmi più oltre: io non t'ho
domandato se se' cristiano o se se' saracino, o se tu credi in Cristo o in Apollino [secondo Pulci e i
suoi contemporanei, i musulmani credevano in 3 divinità = Maometto, Apollo e Trevigante]. –
Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto, io non credo più al nero ch'a l'azzurro [il credo di Margutte
è una potente e dissacrante rivisitazione del credo cristiano], ma nel cappone, o lesso o vuogli
arrosto [crede nel cibo]; e credo alcuna volta anco nel burro, nella cervogia [birra], e quando io
n'ho, nel mosto [uve fermentate], e molto più nell'aspro che il mangurro [due monete turche /
vino aspro e uno di altra natura]; ma sopra tutto nel buon vino ho fede, e credo che sia salvo chi gli
crede [crede nel vino e pensa che chiunque ne riconosca la divinità = del vino, allora è tra i salvati];
e credo nella torta e nel tortello: l'uno è la madre e l'altro è il suo figliuolo; e 'I vero paternostro è il
fegatello, e posson esser tre, due ed un solo, e diriva dal fegato almen quello [il riferimento al
credo e alla fede cristiana è blasfemo = padre, figlio e spirto santo diventano torta, tortello e
62
Letteratura Italiana

fegato e fegatello]. E perch'io vorrei ber con un ghiacciuolo [grande boccale con cui si separava il
ghiaccio dentro la ghiacciaia], se Macometto il mosto vieta e biasima [vieta il vino], credo che sia il
sogno o la fantasima [credo sia una follia]; ed Apollin debbe essere il farnetico, e Trivigante forse la
tregenda [è la raccolta degli spiriti dei demoni]. La fede è fatta come fa il solletico: per discrezion
mi credo che tu intenda [la fede è fatta cosicché qualcuno la provi e qualcun altro no come il
solletico]. Or tu potresti dir ch'io fussi eretico; acciò che invan parola non ci spenda [tu non perda
tempo con parole per convertirmi], vedrai che la mia schiatta non traligna e ch'io non son terren
da porvi vigna [vedrai che la mia stirpe non si lascia convertire]. Questa fede è come l'uom se
l'arreca. Vuoi tu veder che fede sia la mia? Che nato son d'una monaca greca e d'un papasso in
Bursia [sacerdote di una chiesa ortodossa turca], là in Turchia. E nel principio sonar la ribeca mi
dilettai, perch'avea fantasia cantar di Troia e d'Ettore e d'Acchille, non una volta già, ma mille e
mille. Poi che m'increbbe il sonar la chitarra, io cominciai a portar l'arco e 'I turcasso [arco e
faretra]. Un dì ch'io fe' nella moschea poi sciarra, e ch'io v'uccisi il mio vecchio papasso [uccide il
padre], mi posi allato questa scimitarra e cominciai pel mondo andare a spasso; e per compagni ne
menai con meco tutti i peccati o di turco o di greco [si porta dietro tutti i suoi peccati];
Il Morgante (cantare XX): la morte di Morgante → morte paradossale di questo cavaliere. I
paladini si trovano in una situazione di grande difficoltà, durante una tempesta in una barca che
non è in grado di domare il mare, Morgante si fa “vela” = diventa lui stesso il motore della barca.
Nell’ottava 44 ritorna la Fortuna = quando Morgante pensa di portare in salvo la barca e i suoi
compagni, la Fortuna che è invidiosa mette sul suo cammino una balena che per poco non li fa
affondare. Per difendere i compagni, Morgante uccide la balena e si getta scalzo in mare e si avvio
verso la riva → la Fortuna fa il suo ultimo effetto sul fatto che il gigante fosse scalzo = lo fa
mordere da un granchio nel tallone = non ce n’è cura. Morgante è il primo a sottovalutare
l’elemento della sua morte (granchio). È divertente perché Morgante non viene ucciso dalla balena
che ha la sua stessa corporatura ma invece muore da un morso di un animale così piccolo.

LEZIONE 19
Angelo Ambrogini, detto il POLIZIANO dal luogo di nascita (Montepulciano, 1454 – Firenze, 1494).
Poliziano è uno dei più grandi umanisti del Quattrocento, il perfetto rappresentante di questa
stagione di rinnovamento e imitazione della classicità.
Nel 1464 muore il padre e si sposta a Firenze dove inizia gli studi classici = la sua grande passione.
Nel 1469 gli viene affidata la traduzione dell’Iliade in esametri latini nonostante la sua giovane età.
Nel 1470 dedica i libri dell’Iliade a Lorenzo il Magnifico. Nel 1473 Lorenzo lo accoglie in casa (=
scrive poesie volgari, e I detti piacevoli = dando spazio a un altro aspetto della cultura fiorentina =
raccolta novellistica, della facezia come espressione della forma breve che termina con un motto).
Nel 1475 inizia la stesura delle STANZE PER LA GIOSTRA DI GIULIANO DE’ MEDICI → vera e propria
competizione cavalleresca, evento storico veramente esistito. Nel 1476 a Poliziano viene attribuita
la lettera premessa alla Raccolta aragonese (antologia della poesia volgare del Due e Trecento;
inviata da Lorenzo a Federigo d’Aragona intorno al 1476-1477) → è fondamentale per capire il
modo in cui viene intesa la poesia volgare da questi due intellettuali, grande recupero dello
stilnovo. Dopo il 1478 lascia Firenze (a causa dei conflitti con la moglie di Lorenzo, Clarice Orsini) e
si trasferisce a Mantova, presso i Gonzaga = è un allontanamento momentaneo, tornerà a Firenze.
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Letteratura Italiana

Nel 1480 (1478) scrive la Favola Orfeo (primo dramma profano in volgare = riflessione sulla
funzione della poesia e del fare poetico, viene ripreso il mito classico di Orfeo ed Euridice). Nel
1494, a causa di una febbre improvvisa, muore a soli quarant’anni.
LE STANZE PER LA GIOSTRA:
Composizione e testimonianze → nel 1475 inizia la stesura per celebrare la giostra, combattuta e
vinta da Giuliano de’ Medici il 28 gennaio 1475. Nel 1478 interrompe la scrittura a causa della
Congiura de’ Pazzi (i primi due libri). Nello stesso anno muore Giuliano de’ Medici. Il 26 aprile 1476
muore Simonetta, la celebre Simonetta Cattaneo, moglie del fiorentino Amerigo Vespucci e amata
platonicamente da Giuliano e dallo stesso Lorenzo [le stanze celebrano l’amore tra Iulio = Giuliano
per la ninfa Simonetta = amore voluto da Cupido per punire il giovane che in principio è soltanto
dedito alla caccia]. Dell’opera abbiamo un autografo incompiuto perduto + 7 manoscritti (assai
probabile che siano andati perduti). Stampa bolognese 1494 = stesso anno in cui Poliziano muore,
è considerata come un sostituto dell’autografo (= è un ipotesi). Edizioni critiche di Carducci (1863),
Vincenzo Pernicone (1954), Francesco Bausi (2016). L’opera s’interrompe all’ottava 46 del secondo
libro.
Titolo → Stanze [ottave] per [celebrare] la giostra combattuta e vinta da Giuliano il 28 gennaio
1475. Titolo semplice con l’indicazione sulla scelta del metro e del genere.
Struttura → è un poemetto allegorico in due libri. Libro I (ottave 1-125) / Libro II (ottave 1-46).
Uno dei tratti dell’organizzazione del testo = come si organizzano i vari nuclei narrativi = hanno una
costruzione per tasselli (tableaux, crea dei sottoinsiemi dentro le due strutture portanti). È stata
definita come una “poesia frammentaria / poesia per frammenti” → questa ricomposizione degli
elementi viene dalla tradizione classica, dalla latinità durante la sua decadenza.
Modelli → questione importante e delicata, per tanti versi si presenta come “sfuggente” poiché
non abbiamo l’edizione definitiva, quella completa. Uno dei riferimenti, uno dei più inaspettati, è
Claudiano (poeta della decadenza latina) con la forma dei carmi epico-encomiastici.
Altro elemento di riferimento sono le favole mitologiche (il “grosso prestito”). Ultimo riferimento
sono i modelli greci e latini + migliore tradizione volgare.
Temi → sarebbe stato più facile definirli se l’opera fosse stata completa. Dietro all’idea
dell’educazione a cui viene sottoposto Giuliano attraverso la conoscenza dell’Amore per Simonetta
si cela un’immagine di un percorso di elevazione (avrebbe dovuto essere il tema fondamentale
dell’intero poemetto). Questo percorso passa attraverso l’abbandono della caccia e della vita
silvestre. È l’idea che l’incontro con l’Amore consenta di rivolgersi verso la Virtù e di ottenere la
Gloria. Dietro questi elementi, si intravede un altro schema/ipotesto di tipo filosofico = temi
neoplatonici (vita sensuale, vita attiva, vita contemplativa → questa tripartizione è il cuore del
poema).
La lingua → Poliziano usa il volgare e la “dotta varietà” = ha una libertà espressiva maggiore
rispetto al latino, usa comunque dei latinismi (lessicali e sintattici). Il volgare si presta, nella sua
giovinezza linguistica, a mettere insieme e a farsi “contenitore” per queste tessere composite che
vengono da bacini culturali e letterari differenti.

64
Letteratura Italiana

Le stanze per la giostra: preposizione e invocazione ad Amore → nella prima stanza notiamo
subito la ricercatezza stilistica e sintattica + l’invocazione al Dio Amore. Rappresentazione della
centralità della città di Firenze. È il miracolo di Amore che fa diventare gentile (nobile) i cuori di chi
lo guarda.
Parafrasi = la mente audace mi spinge a celebrare i gloriosi cortei e i giochi selvaggi della città [si
riferisce a Firenze] che domina allenta e stringe il freno dei magnanimi toscani, e i regni crudeli di
quella dea che dipinge il terzo cielo [di Venere], cosicché i grandi nomi e i fatti eccezionali degni di
essere ricordati, la fortuna o la morte o il tempo non cancella. Amore è quel bel Dio che ispira al
cuore attraverso gli occhi [stilnovo] un dolce desiderio amaro [ossimoro amore-amaro e dolce], e ti
nutri di pianto e di sospiri, e nutri le anime di un dolce veleno [ossimoro, riferimento al
Canzoniere], e gentile fai diventare ciò che tu osservi [stilnovo], le cose vili non possono albergare
al suo interno; Amore, del quale io sono sempre servo, porgi la tua mano al mio basso intelletto
[Amore è la musa]. Sostieni tu il peso dell’impresa che per me è pesante, sostieni la mia lingua, o
Amore, guida la mia mano [la scrittura deve essere guidata da amore stesso = riferimento a Dante
e al Purgatorio XIV]; tu che sei il principio, il fine stesso di quest’impresa, l’onore sarà tuo, se io
non ti sto invocando inutilmente; dì, signore, con che strumento/lacci/reti da te fatta prigioniera fu
quell’alta mente di quel signore toscano più giovane figlio dell’etrusca Leda [Leda è la madre di
Dioscuri, Castore e Polluce – nel testo si riferisce però a Lucrezia Tornabuoni madre di Lorenzo e
Giuliano], non solo che lacci/reti furono impiegate per una preda così nobile [Giuliano diventerà da
cacciatore a preda = preda d’Amore].
Le stanze per la giostra: invocazione Lorenzo → viene messo in luce questo aspetto così
importante del testo. Invocazione di Lorenzo-Lauro = non è causale il riferimento a quell’albero su
cui poi si conclude l’ottava. Componente encomiastica = invocazione di Lorenzo il Magnifico.
Lorenzo si trasforma letteralmente in un alloro. Immagine di un bravissimo Lorenzo come pacere.
Parafrasi = E tu, sei un alloro così ben nato, sotto la cui protezione Firenze riposa in pace lieta, non
temi il vento né il minacciare del cielo né Giove in preda all’ira nel suo aspetto più sdegnato,
accogli sotto l’ombra del tuo tronco la voce umile, tremante e paurosa [del poeta]; tu che sei la
causa e il fine di tutti i miei desideri che mirano ad ottenere la consacrazione poetica.
Le stanze per la giostra: narrazione → riferimento alla stagione della sua vita in cui questa poesia
si colloca.
Parafrasi = durante quel bel tempo della mia età [rimanda al Canzoniere, canzone 23], quando
ancora era giovanissimo, quando ancora Iulio non aveva provato le dolci acerbe preoccupazioni
che dà Amore, se ne va lieto in pace e in libertà; e cavalcando un nobile cavallo, che fu gloria degli
armenti siciliani, con esso a correre contendeva con i venti [Eneide VII]: a volte lo faceva saltare
come un leopardo, a volte lo faceva ruotare in giro; oppure faceva ronzare per l’aria un lento
dardo, dardo che procura alle fiere un lento dolore. In questo modo viveva il giovane gagliardo; e
non pensava di certo al suo crudele e acerbo destino, né era ancora a conoscenza dei futuri
pianti/dolori che gli avrebbe causato Amore e per questo aveva la cattiva abitudine di prendersi
gioco degli altri innamorati.
Ah quante ragazze per lui sospiravano! Ma fu sempre così superbo questo giovinetto, che mai le
ninfe innamorate lo convinsero ad amare, mai poté riscaldarsi il freddo petto [non si lascia

65
Letteratura Italiana

conquistare dall’Amore]. Stava spesso nelle selve e nei boschi, è simile agli animali dello spazio in
cui abita; e difende il suo volto dai raggi solari con delle ghirlande di pini o di faggi [immagine di un
fauno silvestre, insensibile all’amore ed è un cacciatore selvatico]. Poi, quando di notte, se ne
torna a casa tutto contento; ma lo vediamo insieme alle 9 sorelle [muse] e si dedica alla poesia e
alla caccia rappresentata dalla dea Diana. Se a volte vede dei poveri amanti che sono entrati nel
cieco labirinto d’Amore, che sono carichi di dolore e sono la manifestazione stessa della pietà, e
che seguono accecati la propria nemica […] Riscuotiti, poveretto [rimprovera il singolo ma è come
se si riferisse a tutti gli innamorati], liberati del cieco errore [Amore], che ti priva di te stesso, per
porgerti ad altri [Orazio, Odi, IV] […] Quello che il volgo che sbaglia chiama Amore è una dolce
pazzia [Orazio, Odi, III] a chi ne viene colpito in modo più forte: il mondo ha dato questo bel titolo
d’Amore a quella che è una peste cieca, un male giocondo.
Le stanze per la giostra: Iulio si innamora → quando da cacciatore il povero Giuliano diventa
vittima, preda della passione d’amorosa proprio perché Cupido si vuole vendicare di questo petto
che si è mostrato così insensibile, freddo. Questi versi presentano una grande musicalità. Viene
descritta la forza di Cupido che riesce a tendere l’arco, se lo avvicina e fa tendere i due estremi
dell’arco stesso = immagine che serve a rappresentare lo slancio di Cupido che con la sua freccia
sta per colpire il cacciatore. Giuliano è diventato ghiotto del bell’aspetto di Simonetta = si sta per
innamorare. Il meschino è il povero Iulio che attraverso la visione di Simonetta diventa vittima
d’Amore. Invescato = è fatto preda, cadere nell’esca del cacciatore = stessa immagine della caccia
che si ribalta → non è più il cacciatore ma la preda. La manifestazione della bellezza della donna
diventa una prefigurazione del divino. La descrizione della bellezza della donna è del tutto
petrarchesca (è come se in Simonetta rivedessimo quella stessa immagine di Laura). È umile e
superba in questa sua meravigliosa bellezza. Lo sguardo di Simonetta diventa il luogo in cui si
annidano le fiaccole di Cupido → sono versi che ci riportano tante immagini stilnovistiche +
tradizione latina + Petrarca. Il candore e le rose della bellezza di Simonetta. La sua voce e le sue
parole sono cariche di questa virtù che si trasmette. Ha la capacità di conquistare con la bellezza e
sembra la musa della poesia, Minerva e Diana = riunisce tutte le virtù che si trovano nel mondo.

LEZIONE 20
POLITICA, ARTE E CULTURA NELLA FERRARA ESTENSE
I tratti distintivi dal punto di vista culturale e politico di Ferrara sono complessi → a livello
geografico ci troviamo vicino a territori potenti sia dal punto di vista culturale che politico (Padova,
Bologna), a livello politico c’è una grande tensione che sta molto vicina al Veneto (Venezia) e sotto
al controllo dello Stato Pontificio. Niccolò III d’Este, marchese di Ferrara (1393-1441), grande
promotore di arte e cultura. Guarino Guarini, veronese, si trasferisce a Ferrara nel 1429 ed è il
promotore di una nuova stagione culturale = ispirata alla cultura classica, è anche precettore di
Leonello (figlio di Niccolò). Leonello d’Este, marchese di Ferrara, è un umanista e cultore delle arti.
Nel 1471 Borso d’Este è creato duca di Ferrara da papa Paolo II e sarà cultore delle arti. Ercole I
d’Este grande promotore di arti e architettura (“Addizione Erculea”), molto legato a Boiardo. Le

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Letteratura Italiana

biblioteche iniziano ad essere il centro del mondo Umanista (cultura classica + letteratura cortese
e francese).
MATTEO MARIA BOIARDO
Nasce a Scandiano nel 1441 dal conte Giovanni e da Lucia Strozzi, sorella di Tito Vespasiano
Strozzi. Dal 1461 volle aver casa stabile anche a Ferrara, poiché perse entrambi i genitori. Nella
primavera del 1473 fece parte della cavalcata disposta da Ercole I per accompagnare a Ferrara da
Napoli la sua novella sposa, Eleonora d’Aragona. Dal primo gennaio del 1476 assunse stabile
servizio alla corte, con stipendio e dimora in Ferrara. Nel 1479 sposa Taddea Gonzaga. Nel luglio
del 1480 gli venne affidato il capitanato di Modena. Nel gennaio 1487 venne chiamato al
capitanato di Reggio. Nel luglio 1494 fu chiaro che le milizie di Carlo VIII e dei suoi alleati
avrebbero attraversato il territorio di Reggio. Muore il 19 dicembre del 1494 a Reggio nell’Emilia.
Le opere più importanti:
 Esordio letterario con Carmina e Pastoralia (1463-64, poesie latine) = 10 egloghe come le
Bucoliche.
 Tra il 1467 e il 1471 traduce i De viris illustribus di Cornelio Nepote e la Ciropedia di
Senofonte e infine le Storie di Erodoto. Tra il 1478-79 traduce le Metamorfosi di Apuleio.
Negli anni Ottanta traduce il Timone di Luciano di Samosata, riadattato a commedia (da
dialogo a commedia).
 Tra il 1474 e il 1476 Amorum libri tres (Canzoniere), dedicato all’amore per Antonia Caprara
(sono 180 liriche, biennio 1469-1471). Idea che l’amore e la gioventù siano una cosa
strettamente connessa e un giovane che non si dedica all’amore sfugge a una legge di
natura.
 Tra il 1482-84 i Pastorali (10 egloghe = 5 politiche e 5 amorose).
 Nel 1483 edizione (perduta) dei primi due libri dell’Inamoramento de Orlando.

L’INAMORAMENTO DE ORLANDO
Composizione → I primi due libri vennero composti prima del 1483. Il primo libro, composto da 29
canti, si colloca negli ultimi anni della signoria di Borso (1450-1471). Il secondo libro, composto da
31 canti, si colloca tra gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Il terzo libro, composto da 9
canti, si colloca dopo il 1484 e rimane incompiuto poiché nel 1494 muore. Il poema in sé occupa
una grande parte della vita del poeta.
Stampe → Mancano le attestazioni manoscritte e l’autografo. Venne perduta la stampa dei primi
due libri del 1483. Nel 1499 stampa scandianese dei tre libri, voluta da Taddea Gonzaga (= non
abbiamo nemmeno questa stampa). L’edizione critica del 1999 (Tissoni e Montagnani) è basata su
due edizioni postume a quella scandianese = Edizione Piero dee’ Piasi del 1487 (primi due libri) e
Edizione Rusconi del 1506 (terzo libro).
Titolo → L’Edizione Foffano del 1906, fondata sul manoscritto T (Milano, Biblioteca Trivulziana, ms.
1094) riportava Orlando Innamorato [“Non vi par già, signor, meraviglioso Odir cantar de Orlando
inamorato”]. L’Edizione Tissoni-Montagnani del 1999 riporta Inamoramento de Orlando [Dallo

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Letteratura Italiana

scambio epistolare con Isabella d’Este del 1941: “Quella parte de L’inamoramento de Orlando che
novamente haveti composto”].
Struttura → Il primo libro è composto da 29 canti, il secondo da 31 e il terzo da 9 (= interrotto
bruscamente). Il nono canto del terzo libro è dedicato all’amore impossibile di Fiordespina per
Bradamante.
Modelli e temi → “S’avrà dunque la fusione delle materie di Francia e di Bretagna: i due fiumi che
prima scorrevano paralleli, ora si congiungeranno in un solo letto”, Pio Rajna. Ciclo Bretone =
amori, avventura e incantamenti. Ciclo Carolingio = personaggi, duelli e battaglie. A Boiardo si
deve questa capacità di mettere insieme gli amori e le armi (anche Ariosto farà così). Modo in cui
viene strutturata la narrazione = ENTRELACEMENT → letteralmente a incastro/interlacciamento, è
una tecnica narrativa usata perlopiù nei romanzi arturiani. Consiste nel rendere la narrazione
continuamente sospesa e quindi ripresa in più storie legate tra loro, che avvengono in
contemporanea (= si inseriscono delle novelle all’interno della narrazione stessa). Il poema di
Boiardo è scritto in ottave. Boiardo utilizza la tecnica entrelacement in modo “spericolatissimo ma
raffinato”, tenendo sempre viva l’attenzione dei suoi ascoltatori e senza mai annoiarli.
Lingua e stile → Lingua di chiara impronta settentrionale (emiliana – ancora lontana dalla
toscanizzazione che si affermerà nel Cinquecento). Notiamo la combinazione di stile popolare
(espressioni idiomatiche, proverbiali e dialettismi) e stile lirico (soprattutto per rappresentare
l’amore). Presenta una forte componente encomiastica = poema finanziato dal signore di Ferrara e
che ha anche lo scopo di elogiarlo.
Inamoramento de Orlando, libro I canto I [Il poeta richiama l’attenzione del suo pubblico, 1-3] →
si vede fin da subito il tratto popolare-orale = tradizione dei cantastorie. Non c’è nessuna
invocazione ma una allocuzione ai destinatari = signori che si riuniscono per ascoltare il poeta.
Parafrasi = Signori e cavalieri che siete radunati qui per ascoltare storie nuove e piacevoli, state
attenti e silenziosi e ascoltate la bella storia narrata dal mio canto; e sentirete le gesta eroiche, le
grandi fatiche e le prove straordinarie che il nobile Orlando fece per amore, nel tempo
dell’imperatore Carlo Magno. Non vi sembri meraviglioso, signori, sentir cantare di Orlando
innamorato, poiché chiunque al mondo è più orgoglioso è vinto e del tutto soggiogato dall’amore;
né un valoroso braccio, né un gran coraggio, né uno scudo o una corazza, né una spada affilata, né
nessun’altra potenza può difendersi e impedire che l’Amore la sconfigga e la vinca. Questa storia è
conosciuta da pochi, perché lo stesso Turpino la tenne nascosta, credendo forse che ciò che
scriveva potesse dispiacere a quel conte valoroso [Orlando], dal momento che colui che vinse tutto
e tutti fu sconfitto da Amore: parlo di Orlando, il valoroso cavaliere. Basta con le parole, veniamo
ai fatti [= questa frase ci dà proprio l’idea della performatività].
Il re Gradasso prepara l’invasione della Francia per impadronirsi della spada di Orlando e del
cavallo di Rinaldo 4-7 → La vera storia di Turpino narra che in Oriente, oltre l’India, regnava un
grande e nobile re, tanto ricco e dotato di un dominio così potente, e così fisicamente prestante,
che disprezzava tutto il mondo: quel sovrano si chiama Gradasso, e ha un cuore di drago e un
corpo da gigante. E come avviene di solito ai gran signori, che vogliono quello che non possono
avere, e quanto maggiori son le difficoltà a ottenere la cosa desiderata, tanto più espongono il loro
regno a grandi rischi, e non possono possedere ciò che vogliono; così quel pagano gagliardo voleva

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Letteratura Italiana

solo Durindana [la spada di Orlando] e il buon destriero Baiardo [il cavallo di Ranaldo]. Allora fece
radunare uomini armati per tutto il suo territorio, poiché sapeva di non poter acquistare col
denaro né la spada né il cavallo; i loro possessori [Orlando e Ranaldo] erano due mercanti che
vendevano le loro merci a caro prezzo: perciò decide di passare in Francia e conquistarle con la
potenza militare. Scelse cinquantamila cavalieri da tutto il suo popolo; né si preoccupava di usarli,
poiché lui solo si vantava di combattere contro re Carlo e tutti i guerrieri di fede cristiana; e lui si
vanta di vincere e conquistare tutto ciò che illuminato dal sole e bagnato dal mare.
Carlo Magno e la giostra di Pentecoste 8-20 → Ma lasciamo costoro che vanno per mare, infatti
sentirete a suo tempo quando arriveranno; e ritorniamo in Francia da Carlo Magno (espressioni
tipiche dell’entrelacement), che raduna e conta i suoi nobili baroni; comanda che ogni principe
cristiano, ogni duca e signore si affronti davanti a lui in un torneo cavalleresco che aveva allestito
nel mese di maggio, nella Pasqua rosata [la festa della Pentecoste]. Per onorare quella gradita
festa, vi erano alla corte tutti i paladini, a Parigi tantissima gente proveniente da ogni parte e da
ogni confine. Inoltre, vi erano molti Saraceni, perché la corte reale era bandita, ed ognuno aveva
garanzia di impunità, a meno che non fosse traditore o rinnegato. Per questo motivo, molte
persone che provenivano dalla Spagna erano venute in quel luogo, con i loro grandi baroni: il re
Grandonio, con la faccia da serpente e Feraguto con gli occhi da grifone, il re Balugante, parente di
Carlo, Isoliere e Serpentino che furono compagni. Vi erano anche altre persone di grande
importanza, come vi racconterò in occasione della giostra. Parigi risuonava di strumenti, trombe,
tamburi e campane, si vedevano i grandi destrieri con i paramenti, con aspetto insolito, grandioso
e straniero e tanti addobbi d' oro e di pietre preziose, che un uomo non sarebbe in grado di
descrivere perché, per onorare l' imperatore, ciascuno fece sfoggio di sé stesso il più possibile.
Mentre costoro [i paladini cristiani e mori] stanno parlando in questo modo, gli strumenti
suonarono da ogni parte; ed ecco entrare enormi piatti d'oro, contenenti vivande raffinate;
l’imperatore manda ad ogni barone coppe di smalto, finemente lavorate. Carlo onorava tutti in
vario modo, mostrando di ricordarsi di loro. Qui si stava in allegria, parlando a bassa voce di
argomenti piacevoli: re Carlo, che si vide così onorato e circondato da tanti re, comandanti e
cavalieri valorosi, disprezza tutti i pagani come se fossero arena marina di fronte ai venti; ma una
nuova apparizione fece sbalordire lui e gli altri (= Angelica).
Arrivo di Angelica e Argalia 21-28 → Infatti al fondo della bella sala entrarono quattro giganti
enormi e feroci, e in mezzo a loro stava una fanciulla, seguita da un solo cavaliere [Argalia].
Sembrava la stella del mattino e un giglio d’orto, una rosa del giardino: insomma, per dire la verità
non si vide mai una tale bellezza. Qui nella sala c’era Galerana [la moglie di Carlo Magno], c’era
Alda, la moglie di Orlando, Clarice [sposa di Ranaldo] ed Ermelina [sposa di Uggeri il Danese] tanto
cortese, e molte altre che non sto a dire, ciascuna bella e piena di virtù. Dico che ognuna di loro
sembrava bella, quando non era ancora entrato in sala quel fiore, che tolse alle altre l’onore della
bellezza. Ogni barone e principe cristiano ha rivolto lo sguardo verso quella parte, né alcun pagano
è rimasto inerte; ma ognuno di essi, pieno di stupore, si avvicinò alla fanciulla; la quale, con
aspetto allegro e con un sorriso tale da fare innamorare un sasso, cominciò a parlare così, a bassa
voce: “O signore magnanimo, le tue virtù e le prodezze dei tuoi paladini, che sono conosciute in
tutto il mondo fino agli estremi confini del mare, mi danno speranza che non siano state vane le
fatiche di due viandanti [Angelica e Argalia] che sono venuti dall’altro capo del mondo [Oriente] a
onorare il tuo prospero regno. [Iniziano le menzogne di Angelica] E al fine di spiegarti in poche

69
Letteratura Italiana

parole la ragione che ci ha condotti qui alla tua festa regale, ti dico che questi è Uberto dal Leone
[in realtà Argalia, il fratello], nato da una nobile stirpe e che ha compiuto grandi gesta, cacciato
senza ragione dal suo regno: io, che fui cacciata insieme a lui, sono sua sorella e mi chiamo
Angelica. Oltre al Tanai [fiume Don] per duecento giornate di cammino, dove c’è il nostro regno,
giunsero a noi le notizie del torneo e della grande riunione di queste nobili genti qui raccolte; e
[apprendemmo] che il premio al valore non sono città, gemme o un tesoro, bensì al vincitore si
dona una corona di rose. Perciò mio fratello ha deciso di sfidare a duello ogni barone, il cui fiore è
radunato qui, per dimostrare il suo valore: che sia pagano o battezzato, lo venga a incontrare fuori
dalla città, nel verde prato alla Fonte del Pino, dove si dice che ci sia il Pietrone [la tomba] di
Merlino. Ma ciò avvenga a questo patto (ascolti bene chi si vuole cimentare): chiunque sia
disarcionato non potrà in nessun modo combattere ancora, ma sarà fatto prigioniero senza
resistenza: chi invece riuscirà ad abbattere Uberto, otterrà me in sposa: lui se ne andrà via coi suoi
giganti”. [Angelica convince con l’inganno e soprattutto con l’inganno della parola, bravissima nel
mentire]
Tutti i cavalieri cedono al fascino di Angelica, tranne Malagise 29-34 [Malagise è un cavaliere
mago che, grazie ad un’interrogazione di un libro magico riesce a capire quello che è l’inganno di
Angelica. Nonostante questo, rimarrà vittima della bellezza di Angelica tant’è che verrà fatto
prigioniero e spedito in volo a Galafrone = padre di Angelica] → Alla fine del suo discorso, Angelica
aspettava la risposta inginocchiata di fronte a Carlo. Ogni uomo l’ha ammirata con meraviglia, ma
soprattutto Orlando le si avvicina col cuore tremante e stravolto in viso, anche se teneva nascosti i
suoi sentimenti; e talvolta abbassava gli occhi a terra, vergognandosi assai di sé stesso. “Ah,
Orlando pazzo!” diceva tra sé, “come ti lasci trasportare dal desiderio! Non vedi l’errore che ti
coglie e ti induce a peccare contro Dio? [il paladino più pio è condotto all’errore a causa dell’amore
per Angelica] Dove mi conduce il mio destino? Vedo che sono catturato e non posso liberarmi; io,
che ritenevo di nessun valore tutto il mondo, sono vinto senz’armi da una fanciulla. Io non posso
allontanare dal mio cuore la dolce vista e il suo volto sereno, perché senza di lei mi sento morire e
il mio spirito vien meno poco alla volta. Ora contro la forza d’Amore, che già mi ha imbrigliato, non
mi serve né la forza né il coraggio; e non mi serve la mia saggezza né il consiglio altrui, poiché io
vedo cosa sarebbe meglio fare e continuo a desiderare il peggio”. Così il guerriero franco si
lamentava in silenzio del suo nuovo amore. Ma il duca Namo, che è canuto e pallido, non provava
minor pena di lui al cuore, anzi tremava spossato e sbalordito, avendo perso ogni colore in volto.
Ma che dire di più? Ogni barone si era innamorato di Angelica ed anche re Carlo. Ognuno stava
immobile e sbigottito, osservando quella donna con gran piacere; ma Ferraguto [il secondo ad
affrontare Argalia], il giovane coraggioso, aveva l’aspetto di una fiamma viva, e per tre volte decise
di prendere Angelica a dispetto dei giganti, e altrettante volte frenò quei pensieri malvagi per non
disonorare l’imperatore. Si sposta ora su un piede ora sull’altro, si gratta la testa e sembra
frenetico; Ranaldo, che l’ha vista anche lui, divenne rosso in faccia come il fuoco; e Malagise [il
mago] che l’ha riconosciuta, diceva tra sé: “Malvagia incantatrice, io ti farò un tale incantesimo
che non potrai vantarti di essere stata qui”.
Malagise scopre la vera identità di Angelica e Argalia 36-41 → Non era ancora uscita dalla città,
quando Malagise prese il suo libro di incanti: per sapere tutti i suoi segreti evocò quattro demoni
dall’inferno. Oh, quanto rimase sbigottito, quanto si turbò, Dio del cielo eterno! Infatti vide
chiaramente che re Carlo era destinato a morire e la sua corte ad essere distrutta. Infatti quella

70
Letteratura Italiana

donna tanto bella [Angelica] era figlia del re Galafrone [del Catai] ed era piena di inganni e di
falsità, conosceva tutti gli incanti, ed era giunta in Occidente mandata da quel vecchio malvagio [il
padre] insieme al fratello, che si chiamava Argalia e non Uberto come lei aveva detto. Aveva dato
al giovane un cavallo nero quanto un carbone arso, tanto veloce e rapido nella corsa che più volte
aveva già superato il vento; gli aveva dato uno scudo, una corazza e un elmo col cimiero, e una
spada prodotta dagli incanti; ma soprattutto una lancia d’oro, fabbricata con grande ricchezza e
pregio. Ora con queste armi il padre lo mandò in Occidente, pensando che con quelle sarebbe
stato invincibile, e oltre a ciò gli donò un anello di grande e incredibile virtù, anche se lui non lo
usò; il potere dell’anello era di rendere invisibili, se uno lo metteva in bocca a sinistra, mentre se
portato al dito rompeva ogni incantesimo. Ma soprattutto Galafrone volle che andasse con lui la
bellissima Angelica, perché quel viso, che induce ad amare, irretisse tutti i paladini alla sfida [con
Argalia] e affinché lei, dopo che la sfida fosse finita per incanto, portasse a lui ogni guerriero
catturato: il maledetto cane, re Galafrone, li vuole tutti con le mani legate. [Malagise scopre la vera
natura di Angelica e capisce qual è il modo in cui potrebbe contrastarla, ma, nel momento in cui
anche lui si trova ad avere a che fare da vicino con Angelica, la potenza di Amore è in grado di
annientare le arti magiche di Malagise in virtù di quell’azione che gli fa dimenticare quello che sa
di Angelica]

LEZIONE 21
IL CINQUECENTO: ARIOSTO, MACHIAVELLI E TASSO
Tre autori diversissimi a livello intellettuale e cronologico, nonostante facciano parte tutti dello
stesso secolo. Il Cinquecento sembra in forte continuità con il Quattrocento (forte classicismo +
rivoluzione della stampa), ma con delle discontinuità.
1. CLASSICISMO → idea progressista, il Cinquecento è il secolo del “regolismo” = modo di fare
letteratura che si rifà perlopiù ai classici (secolo in cui si riscopre la poetica di Aristotele).
Continuità dell’emulazione dei classici ma vi è anche un’idea di superamento = soprattutto
per la lingua → idea di una lingua volgare che può essere legittimata come nuova lingua
letteraria (= il latino inizia piano piano a essere spodestato dal volgare).
2. STAMPA → il volgare si lega moltissimo alla stampa, all’interno delle tipografie inizia a
prendere forma questa nuova lingua (= nuovi generi moderni, prima età moderna). La
stampa manifesta il suo grande progresso culturale nel corso del Cinquecento. I grandi
autori entrano in tipografia e controllano la diffusione dei propri testi, non sempre le
edizioni venivano sorvegliate in passato. La stampa è fondamentale nella definizione dei
nuovi generi letterari = un determinato formato, packaging, orienta la capacità dei lettori
di prendere confidenza con questi nuovi generi letterari che nascono sull’imitazione di
quelli antichi.
3. LINGUA → si afferma la necessità di legittimare una nuova letteratura in volgare – ma
quale volgare adoperare? Fiorentino o classici trecenteschi che si basa su Boccaccio per la
prosa e Petrarca per la lirica? [la seconda sarà quella vincente]. Questa definizione che avrà
un’influenza lunghissima sulla nostra cultura letteraria parte con il 1525 che coincide con la
pubblicazione delle “Prose della volgar lingua” di Pietro Bembo. È un personaggio che

71
Letteratura Italiana

incarna perfettamente tutte queste questioni, inoltre è un grande promotore culturale e


collaboratore editoriale.
L’instabilità politica del Quattrocento continua e trova la sua massima espressione durante il
Cinquecento. A partire dal 1494, l’Italia diventerà terreno di battaglia tra le tensioni che si
creeranno tra Francia, Spagna e Impero. Tutto questo terminerà con la pace di Cateau-Cambrésis
nel 1559. L’Orlando furioso, presenta dei continui rimandi alla contemporaneità della storia
italiana ed europea cinquecentesca.

LUDOVICO ARIOSTO
Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia l’8 settembre 1474, figlio di Daria Malaguzzi e Niccolò
(funzionario degli Este). Dal 1484 si trasferisce a Ferrara; negli anni Novanta inizia gli studi di legge.
Nel 1494 si dedica agli studi letterari, sotto la guida di Gregorio da Spoleto. Nel 1500 muore il
padre. Nel 1503 entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este, figlio di Ercole e fratello di Alfonso I.
Tra il 1503-1504 nasce il progetto dell’Obizzeide interrotto dopo poco più di 200 versi (poema
encomiastico dedicato a Obizzo d’Este, uno dei primi progenitori degli Este, è un poema che non si
serve dell’ottava rima ma della terzina). Nel 1505 circa, inizia la stesura del Furioso e delle Rime
(edizione postuma del 1545). Tra il 1508-1509 compone tre commedie importanti: Cassaria,
Suppositi e Negromante (ci mostrano la sua passione per il teatro e per la riscoperta della
commedia latina = Plauto e Terenzio). Nel 1510 missione diplomatica a Roma, presso Giulio II
(avvicinamento alla Corte Papale che si interromperà molto presto). Nel 1513 avviene l’elezione di
papa Leone X (Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico) – legame personale tra Ariosto e
il papa, tant’è che pensa di avere da lui grandi privilegi e invece non succederà.
Nel 1516 avviene la prima edizione del Furioso, dedicato a Ippolito (tiratura alta per l’epoca: circa
1300 esemplari = già si pensava che avrebbe avuto successo). Nel 1517 Ariosto si rifiuta di
accompagnare Ippolito in Ungheria; si interrompe il servizio presso il cardinale. Tra il 1517-1524
avviene la composizione delle Satire (edizione postuma del 1534). Nel 1518 entra al servizio di
Alfonso I. Nel 1521 avviene la seconda edizione del Furioso (corrisponde al successo del poema).
Nel 1522 diviene commissario ducale in Garfagnana (Satira IV), incarico dato da Alfonso I. Nel 1525
rientra a Ferrara; scrittura dei Cinque canti, molto diversi rispetto al resto dell’opera e con un tono
più “oscuro” (datazione incerta – ipotesi di una stesura precedente al soggiorno in Garfagnana;
princeps postuma 1545, un decennio dopo la morte del poeta). Tra il 1528-1529 la Lena
(commedia di impronta classica). Nel 1531 la Cassaria in versi endecasillabi. Nel 1532 edizione
definitiva del Furioso (46 canti); quest’edizione presenta delle correzioni interne fatte da lui stesso
in tipografia. Il 6 luglio 1533 muore a Ferrara.

L’ORLANDO FURIOSO
Titolo → Derivazione classica dall’Hercules furens (= questo ci riporta a “Furioso”) di Seneca,
modello classico e non romanzesco. Notiamo una netta distanza rispetto al modello di Boiardo.

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Letteratura Italiana

Composizione → Primo Furioso tra il 1505 e il 1516, la versione definitiva avviene tra gli anni Venti
e il 1532 (intorno al 1519 avviene la scrittura di parti aggiuntive che accresceranno il poema
finale).
Edizioni → Editio princeps 1516 = A (in 40 canti; Ferrara, Giovanni Mazocco del Bondeno). 1521
seconda edizione = B (in 40 canti; Ferrara, per Giovan Battista Pigna). 1532 terza edizione = C (in 46
canti; Ferrara, per maestro Francesco Rosso da Valenza + Frammenti autografi che testimoniano il
lavoro delle scritture aggiuntive fatte da Ariosto stesso).
Nella terza edizione vi è l’aggiunta di quattro episodi = episodio di Olimpia (canti IX-XI), episodio
della Rocca di Tristano (canti XXXII-XXXIIII), episodio di Marganorre (canto XXXVII), episodio di
Ruggiero e Leone (canti XLV-XLVI). Insieme a queste aggiunte, il vero cambiamento riguarda la
veste linguistica alla luce delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (1525).
Temi e tecnica narrativa → I temi trattati sono tantissimi e difficili da riassumere, è un grande
poema sulle passioni umane. Tra i temi vi è = guerra tra i Franchi di Carlo Magno e i saraceni di
Agramante, follia di Orlando (amori), amori di Ruggiero e Bradamante (tema encomiastico,
Ruggiero è il progenitore e il fondatore della casata degli Este). Questi sono i tre principali fili
narrativi. La tecnica narrativa è la stessa di Boiardo, l’entrelacement (“la tela di Ariosto” =
interruzioni + riprese).
Struttura → La struttura è simmetrica = XII (castello di Atlante), XXIII (follia di Orlando), XXXIV
(Astolfo sulla luna). Idea che il narratore prende la parola, spesso nei proemi dei canti = ci riporta
dalla realtà della narrazione stessa a una dimensione morale e fortemente umana. Il canto XXIII è il
cuore, il centro del poema e qui avviene l’evento cardine del poema = la follia dell’eroe. Da questo
canto capiamo anche la struttura del XII e del XXXIV.
Modelli → Il primo è rappresentato dallo stesso Inamoramento de Orlando (“gionta”) di Boiardo.
Altri modelli sono = romanzi arturiani, modelli classici (Virgilio e Ovidio – tant’è che l’ultimo canto
cita esplicitamente il duello tra Enea e Turno), modelli volgari (Dante, Petrarca e Boccaccio),
modelli umanistici.
Lingua e stile → Petrarca “tra omaggio e parodia” (lessico petrarchesco capovolto con forti forme
parodiche), varietà dell’ottava grazie alla sua flessibilità metrica e sintattica (→ le ottave di Ariosto
spesso vengono divise in due parti – come se diventassero dei distici separati) e grande armonia
dello stile (armonia che spesso viene accompagnata da una grande ironia e da uno sguardo
disincantato). Vede come modello dominante per la poesia la lingua di Petrarca.
Canto I, Canto XXIII (vv. 101-136), Canto XXXIV (vv. 68-92) = i canti che vedremo.
LEZIONE 22
Ariosto tende a superare il modello Boiardesco, i fili del racconto si interrompono, vengono ripresi,
saltano da una storia all’altra → crea un disorientamento nel lettore. Ariosto crea un
ANAMORFOSI = è una di quelle figure che riusciamo a vedere solo se assumiamo una prospettiva
laterale, è un immagine nascosta che vediamo soltanto se spostiamo il nostro sguardo in un’altra
direzione.

73
Letteratura Italiana

Si innescano, come nel Boiardo (che a sua volta prende dai romanzi arturiani), dei racconti
all’interno della narrazione → vi sono ben 13 (alcuni critici dicono 15) racconti/novelle intercalate.
Il lettore si vede “obbligato” a saltare e seguire le narrazioni di secondo grado che i narratori
interni alla storia raccontano ai paladini che incontrano nuovi personaggi. Ariosto non svelerà mai
la continuità con il testo di Boiardo.
La gestione dell’ottava → Ariosto vuole sfidare il metro dell’ottava, vuole superare la chiusura
metrico-sintattica dell’ottava = la sintassi travalica l’ottava, le frasi continuano da un’ottava
all’altra (avvicinando di più il metro dell’ottava rima a quello della terzina). Insieme alla continuità
narrativo-sintattico-metrica, talvolta Ariosto crea dei legami tra un canto e l’altro (come se fosse
un enorme enjambement in cui un argomento lasciato sul finire dell’ultima ottava ritorna e viene
amplificato nel canto successivo).
ORLANDO FURIOSO, CANTO I
Proposizione della materia e dedica → è un grande “biglietto da visita” del poema, grande sunto
dei temi che contiene, delle caratteristiche stilistiche e dei personaggi. La zona proemiale = 4
ottave in cui Ariosto ritorna agli schemi classici = proposizione della materia trattata, dedica ed
invocazione (= alla donna amata, colei che deve dare al poeta la possibilità di fare poesia). Il primo
verso crea un perfetto chiasmo tra i due poli su cui si svolge la narrazione = le donne e gli amori /
cavalieri e le armi. Nel primo verso della prima ottava Ariosto si pone in continuità con ciò che
hanno già fatto Boiardo e Poliziano = mettere insieme le donne e gli amori con i cavalieri e le armi.
L’esordio rimanda all’Obizzeide 1-3 (primo tentativo di poema encomiastico). Il sintagma “le
donne, i cavallier” rimanda al Purgatorio XIV 109-110. Seconda ottava = proposizione della
materia. Molto spesso il narratore prende parola all’interno della narrazione e commenta =
vicinanza alla follia d’amore del protagonista. L’invocazione alla donna amata è un elemento già
presente nell’Obizzeide 4-9. Nei proemi, il narratore spesso si riserva uno spazio di commento.
Terza ottava = dedica. Generosa Erculea prole = lunga perifrasi per descrive Ippolito d’Este, figlio di
Ercole.
Parafrasi = [il verbo della principale si trova alla fine] Io canto le donne, i cavalieri, le armi, gli
amori, le cortesie, le audaci imprese, che avvennero al tempo in cui i Mori attraversarono il mare
d’Africa [specifica il tempo in cui ci troviamo] e procurarono molti danni in Francia, assecondando
la rabbia e il giovanile furore del loro re Agramante, che aveva deciso di vendicare la morte di
Troiano contro Carlo Magno, imperatore del Sacro Romano Impero. Allo stesso tempo racconterò
cose non scritte mai né in prosa, né in rima di Orlando: che a causa dell’amore divenne pazzo
furioso, lui che prima era un uomo così saggio; se colei [Alessandra Benucci, donna amata da
Ariosto] che mi ha reso quasi simile [a Orlando] e che consuma a poco a poco il mio piccolo
ingegno, me ne lascerà tanto quanto basta per portare a termine quanto mi sono proposto
[avvicinamento dell’eroe al poeta = autorappresentazione che Ariosto ci fornisce]. O illustre figlio
di Ercole, ornamento e splendore del nostro secolo, Ippolito, vogliate gradire questo dono che è
l’unico che vi possa dare il vostro umile servo [il poeta ha “soltanto” da donare al suo signore
l’opera letteraria stessa]. Quello che vi devo posso ripagarlo in parte con delle parole e un’opera
letteraria; e non devo essere accusato di darvi poco, poiché vi do tutto quello che posso. Voi
sentirete ricordare tra i più nobili eroi che mi accingo a nominare con lodi anche quel Ruggiero che
fu il capostipite di voi e dei vostri illustri avi. Io vi farò ascoltare il suo grande valore e le sue nobili

74
Letteratura Italiana

imprese, se mi porgete l’orecchio e se i vostri alti pensieri si ritrarranno un poco, così che i miei
versi abbiano spazio tra essi.
Fuga di Angelica → la fuga rappresenta il centro del poema insieme allo spostamento, la mobilità,
la corsa. L’espressione “battersi ancor del folle ardir la guancia” = pentirsi. È la fuga di Angelica ad
avviare il poema.
Parafrasi = Orlando, che era stato innamorato di Angelica per tanto tempo e aveva compiuto per
lei innumerevoli e nobili imprese in India, in Oriente, in Tartaria, era tornato con lei in Occidente,
dove re Carlo Magno era accampato vicino ai monti Pirenei, con i guerrieri di Francia e di
Germania, per indurre re Marsilio e re Agramante a rimproverarsi del loro folle proposito, poiché
uno [Agramante] ha portato dall’Africa tutti i soldati in grado di portare spada e lancia, l’altro
[Marsilio] ha spinto avanti la Spagna per distruggere il regno di Francia. E così Orlando arrivò qui al
momento giusto, ma si pentì subito di essere tornato: infatti poi gli fu sottratta la sua donna: ecco
come spesso sbaglia il giudizio degli uomini [è il narratore che commenta]! Colei che aveva difeso
con tante battaglie dall’Occidente all’Oriente, ora gli è tolta tra tanti suoi amici, senza che sia usata
la spada, nella sua terra. Colui che gliela tolse fu il saggio imperatore, che volle spegnere un grave
incendio. Pochi giorni prima era iniziata una gara tra il conte Orlando e suo cugino Rinaldo, che
erano entrambi innamorati con gran desiderio della rara bellezza di Angelica. Carlo, che non
amava questa lite che gli rendeva meno saldo il loro aiuto militare, prese la fanciulla che ne era la
causa e la affidò in custodia a Namo duca di Baviera [sorta di equilibrio dato dalla sua saggezza e
dalla sua età = fa da tutore ad Angelica]; promettendola in premio a chi di loro in quella guerra, in
quella grande battaglia, avrebbe ucciso il maggior numero di infedeli e avrebbe prestato la più
efficace opera militare. Lo scontro poi finì male, poiché i cristiani andarono in fuga e il duca Namo
fu fatto prigioniero insieme a molti altri, così la sua tenda rimase abbandonata [ottava divisa a
metà].
Angelica fugge e incontra Ferraù, parafrasi → E qui la fanciulla [Angelica], che doveva essere il
premio del vincitore, prima della rotta [dei cristiani] era salita in sella a un cavallo e al momento
opportuno era fuggita, avendo previsto che quel giorno la fortuna avrebbe voltato le spalle alla
fede cristiana: entrò in un bosco e nel sentiero stretto incontrò un cavaliere che veniva a piedi
[senza cavallo poiché l’ha perduto e lo sta inseguendo]. Egli aveva la corazza addosso, l’elmo in
testa, la spada al fianco e in braccio lo scudo; e correva per la foresta più veloce che il villano
mezzo nudo dietro al drappo rosso/palio rosso [in una gara campestre, stessa immagine che
troviamo nell’Inferno XV 121-123]. Una timida pastorella non ritrasse mai il piede davanti a un
serpente più velocemente di quanto Angelica fermò il cavallo [similitudine], non appena si accorse
del guerriero che giungeva. Costui era quel valoroso paladino figlio d’Amone e signore di
Montalbano [Rinaldo], al quale poco prima il suo cavallo Baiardo era scappato di mano per una
strana circostanza [tutto questo successe nell’Inamoramento de Orlando]. Non appena guardò la
donna riconobbe, anche se da lontano, l’aspetto angelico e quel bel viso che lo teneva stretto nelle
reti d’amore. La donna volta indietro il cavallo e lo sprona a briglia sciolta nel bosco; e non cerca la
via più sicura e migliore tra i sentieri più radi e meno selvosi, anzi, pallida e tremante e quasi fuor
di sé lascia che il cavallo vada dove voglia. Girò in lungo e in largo in quella selva intricata, finché
giunse a un fiume [riviera è un francesismo]. Su di esso si trovava Ferraù [colui che uccise Argalia],
pieno di sudore e tutto impolverato. Poco prima un gran desiderio di bere e di riposare lo aveva
distolto dalla battaglia e poi, suo malgrado, si era fermato qui, perché, goloso d’acqua e frettoloso,
75
Letteratura Italiana

aveva fatto cadere l’elmo nel fiume e non era ancora riuscito a riprenderlo [è l’elmo di Argalia del
secondo canto dell’Inamoramento de Orlando]. La fanciulla spaventata giungeva gridando più
forte possibile. A quella voce il saraceno salta sulla riva e la guarda in viso; al suo arrivo capisce
subito che è la bella Angelica, anche se pallida e sconvolta dalla paura e benché non ne abbia
avuto notizie per più giorni.
Duello tra Rinaldo e Ferraù, parafrasi → E perché era nobile e forse non ne era meno innamorato
dei due cugini, le diede tutto l’aiuto che poteva, come se avesse ancora l’elmo, baldo e coraggioso:
sguainò la spada e corse minacciando verso Rinaldo che non ne aveva paura. I due si erano già non
solo incontrati, ma anche sfidati più volte. Qui iniziarono una crudele battaglia, entrambi a piedi e
con le semplici spade: ai loro colpi non reggerebbero le incudini, figurarsi le piastre e la maglia
dell’armatura. Ora, mentre i due se le danno di santa ragione, il cavallo di Angelica deve studiare il
passo; infatti lei lo fa correre nel bosco e nella campagna, spronandolo quanto più può con le
calcagna. Dopo che i due guerrieri si affaticarono molto tempo invano per sopraffarsi a vicenda,
poiché entrambi erano esperti nell’uso delle armi e nessuno era superiore all’altro, il primo che
parlò al cavaliere spagnolo fu il signore di Montalbano [Rinaldo], come uno che ha il cuore in
fiamme, che brucia e non può spegnersi. Disse al pagano: “Tu pensi di danneggiare solo me, invece
danneggerai anche te stesso: se ci scontriamo perché gli occhi splendenti del nuovo sole [di
Angelica] ti hanno acceso il petto, cosa ci guadagni a trattenermi qui? infatti, anche se mi ucciderai
o catturerai, la bella donna non sarà tua: mentre noi perdiamo tempo qui, lei scappa via. Sarà
molto meglio, se anche tu la ami, che tu pensi a sbarrarle la strada e trattenerla, prima che vada
più lontana! Quando l’avremo in nostro potere, allora proveremo con la spada di chi debba essere:
in altro modo non so proprio cosa potrà accaderci dopo una lunga battaglia, se non un danno”. Al
pagano la proposta piacque: così il duello fu differito e tra loro nacque subito una tregua, tale che
dimenticarono l’odio e l’ira e il pagano allontanandosi dal fiume non lasciò a piedi il buon figlio
d’Amone: lo invita con preghiere e alla fine lo fa salire sul suo cavallo, poi galoppa sulle tracce di
Angelica. O grande bontà degli antichi cavalieri! Erano rivali, avevano una fede religiosa diversa, e
sentivano tutto il corpo dolente per gli aspri colpi ricevuti; eppure vanno insieme senza sospetto,
per selve oscure e sentieri fuori mano. Il cavallo, spronato da quattro piedi, arriva al punto in cui la
strada si biforca. E poiché i due non sapevano quale delle due vie avesse imboccato la fanciulla
(poiché le orme fresche sembravano uguali in entrambe), si rimisero alla sorte e Rinaldo percorse
una strada, il saraceno l’altra. Ferraù si addentrò molto nel bosco e alla fine si ritrovò nel punto da
dove era partito [fiume].
Angelica incontra Sacripante (31-59), parafrasi → Rinaldo non percorse molta strada quando vide
saltare davanti il suo feroce destriero: “Baiardo mio, su, ferma il passo! Essere senza di te mi è
troppo dannoso”. Ma il cavallo, sordo, non torna a lui per questo richiamo, anzi fugge via ancora
più veloce. Rinaldo lo insegue e si strugge di rabbia: ma seguiamo Angelica, che fugge a sua volta.
Fugge tra selve spaventose e buie, tra luoghi disabitati, solitari e selvaggi. Lo stormire delle fronde
e dei rami, che lei sentiva di cerri, di olmi e di faggi, l’aveva indotta con improvvisi timori a
percorrere sentieri fuori mano; infatti ogni volta che vedeva un’ombra in un monte o in una valle,
temeva sempre di avere alle sue spalle Rinaldo. [Angelica] È come una giovane daina o una
capriola, che ha visto tra le fonde del boschetto natio la madre stretta alla gola dal leopardo, o col
fianco o il petto squarciato: scappa di bosco in bosco da quella belva crudele, tremando di
sospetto e paura; ad ogni sterpo che tocca correndo, crede di essere tra le fauci della terribile

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Letteratura Italiana

fiera. Andò peregrinando quel giorno, la notte seguente e metà del giorno dopo ancora, non
sapendo dove andava. Alla fine capitò in un bel boschetto, mosso dolcemente da una leggera
brezza [locus amoenus – rappresentazione visiva e uditiva di questo spazio]. Due limpidi ruscelli,
mormorando lì intorno, vi fanno sempre l’erba fresca e novella; e lo scorrere lento dell’acqua,
rotto da piccoli sassi, produceva all’orecchio una dolce armonia.
LEZIONE 23
ANAMORFOSI → quadro di Hans Holbein il Giovane “gli ambasciatori francesi”, 1533 = è un
quadro nel quale si vede un’immagine per terra ma guardandola frontalmente non si capisce →
guardandola da un’altra prospettiva ci mostra un teschio (memento mori alla fugacità delle cose
terreni). È un’immagine che richiede un cambiamento di prospettiva così come la lettura
dell’Orlando furioso.
Angelica incontra Sacripante (31-59), parafrasi → Qui, sembrandole di essere al sicuro e lontana
mille miglia da Rinaldo, stanca per il viaggio e per il calore estivo, pensa di riposare un po' di
tempo: smonta tra i fuori e lascia che il cavallo vada al pascolo, senza briglia; e quello vaga intorno
alle acque limpide, poiché le rive dei ruscelli erano piene di fresca erba. Ecco che vede non lontano
un bel cespuglio di pruni fioriti e di rose rosse, che sembra specchiarsi nelle onde dei ruscelli,
protetto dal sole dalle alte querce che fanno ombra; così ampio nel mezzo che concede un fresco
riposo tra le ombre più nascoste: e le foglie sono mescolate ai rami in modo tale che né il sole né
lo sguardo vi penetra attraverso [cespuglio che protegge Angelica e che fa da letto]. All’interno
tenere erbette formano un letto, che invita a riposare chi capita lì. La bella donna si stende in
mezzo ad esse, si corica e si addormenta [progressione nella descrizione delle azioni di Angelica].
[nuova avventura che si apre con il “ma”] Ma non rimase così per molto tempo, poiché le sembra
di sentire un calpestio: si alza in silenzio e vede che un cavaliere armato era giunto vicino al fiume.
Non capisce se sia amico o nemico: il suo cuore è scosso da timore e speranza; e aspetta di vedere
come finisca la cosa, né emette un solo sospiro nell’aria [Angelica trattiene il respiro per non farsi
sentire da Sacripante]. Il cavaliere smonta in riva al fiume e mette le guance a riposare su un
braccio [posizione del malinconico e partono i sospiri d’amore]: e si concentra in un suo pensiero a
tal punto, che sembra tramutato in una roccia priva di vita/insensibile. Il cavaliere addolorato, o
mio signore, restò più di un’ora pensieroso, a capo chino [esagerazione iperbolica della
malinconia]; poi cominciò a lamentarsi con voce afflitta e bassa, così dolcemente che avrebbe
spezzato dalla pietà un sasso, avrebbe reso clemente una tigre crudele [riferimento
all’Inamoramento de Orlando, I, XII, 18, 6-8]. Piangeva tra i sospiri, così che le guance sembravano
un ruscello e il petto sembrava l’Etna [perché emetteva sospiri – ardore dell’amore che gli scoppia
nel petto come un vulcano → bucolico-pastorale]. Diceva: “O pensiero [Sacripante si rivolge al suo
pensiero ossessivo causato dall’amore] che mi ghiacci e mi bruci il cuore [riferimento a Petrarca], e
causi il dolore che lo rode e lo consuma di continuo, che cosa devo fare, visto che sono giunto tardi
e che un altro è arrivato prima a cogliere il frutto [riferimento all’atto sessuale – è geloso poiché
qualcun altro l’ha preso]? A malapena io ne ho avuto parole e sguardi, un altro ne gode tutta la
ricca spoglia. Se a me non ne tocca né il frutto né il fiore, perché vuoi affliggermi ancora il cuore?
La giovane vergine è simile alla rosa [Catullo LXII 39-47 – paragone tra la donna e il fiore], che
mentre riposa sola e sicura nel bel giardino, sullo stelo su cui è nata, non è avvicinata né da gregge
né da pastore; l’aria dolce e l’alba che porta rugiada, l’acqua, la terra si chinano a renderle
omaggio: bei giovani e donne innamorate vogliono sempre ornare con essa i seni e le tempie. Ma
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Letteratura Italiana

non appena viene tolta dal suo stelo materno e dal suo gambo verde, ecco che perde tutto quello
che aveva dagli uomini e dal cielo, favore, grazia, bellezza. La vergine che lascia ad altri cogliere il
fiore [la verginità], che dovrebbe proteggere assai più dei suoi begli occhi e della vita, perde nel
cuore di tutti gli altri innamorati il valore che aveva prima. Sia vile per gli altri e sia amata da quel
solo al quale si è donata in così larga misura. Ah, fortuna crudele, fortuna ingrata! gli altri trionfano
e io muoio di stenti. Dunque può essere che non mi sia più gradita? dunque posso lasciare la mia
propria vita? Ah, piuttosto finiscano i miei giorni, che io non viva più, se non devo amare lei!” Se
qualcuno mi domanda chi sia costui [è il narratore che parla], che sparge tante lacrime su quel
ruscello, io gli dirò che è il re di Circassia, quel Sacripante travagliato dall’amore; aggiungerò che la
prima e sola causa dei suoi aspri dolori è l’essere amante, e lui è uno degli amanti di Angelica: e lei
lo riconobbe bene [Sacripante è stato colui che difese Angelica nell’Inamoramento de Orlando].
Egli era giunto dall’estremo Oriente per amor suo fino all’Occidente; infatti in India seppe con gran
dolore che lei seguì Orlando in Ponente [ecco da dove nasce la gelosia di Sacripante]: poi seppe
che in Francia Carlo Magno l’aveva separata dagli altri, per darla in sposa a quello dei due [Orlando
e Rinaldo] che quel giorno avrebbe aiutato di più la Francia contro Agramante. Era sceso in campo
e aveva sentito di quella terribile sconfitta subita da Carlo: cercò le tracce della bella Angelica e
non le aveva ancora potute trovare. Questa è dunque la triste e crudele notizia che lo fa penare di
dolore amoroso, lo fa affliggere, lamentare e dire parole che potrebbero arrestare il corso del sole
per la pietà [costruzione iperbolica – IPERBOLE → L'iperbole è una figura retorica che consiste nel
portare all'eccesso il significato di un'espressione, amplificando o riducendo il suo riferimento alla
realtà per rafforzarne Il senso e aumentarne per contrasto, la credibilità]. Mentre costui si affligge
e piange così [è il narratore che parla], spargendo calde lacrime dagli occhi, e dice queste parole e
molte altre che non mi pare necessario riferire, il suo fato benevolo vuole che esse siano ascoltate
da Angelica: e così quello raggiunge in un’ora, in un istante un traguardo che o è raggiunto una
volta in mille anni o mai più. La bella donna osserva con molta attenzione il pianto, le parole, i
modi di colui che non trova pace nell’amarla [leggere a suo favore la situazione di Sacripante]; e
questo non è il primo giorno in cui lo ascolta: ma, più dura e fredda di una colonna [Canzoniere =
innamorato pietra e la donna colonna], non per questo si muove a pietà di lui, come colei che
sdegna tutto il mondo e non crede che qualcuno sia degno di lei. Pure, ritrovandosi sola per quei
boschi, pensa di prendere costui per sua guida; infatti chi ha l’acqua alla gola è ben cocciuto se non
grida aiuto. Se adesso perde questa occasione, non troverà mai più una scorta altrettanto sicura;
infatti per lunghe prove aveva saputo che quel re l’amava fedelmente più di ogni altro. Ma non per
questo pensa di alleviare l’affanno che distrugge lui che la ama, né ripagare ogni danno passato
con quel piacere che più desidera ogni amante: trama e ordisce [torna l’ingannatrice Angelica
tramite la parola per servirsi degli innamorati] invece una qualche finzione, un inganno, per farlo
sperare e servirsi di lui quel tanto che le occorra, poi tornerà a comportarsi come sempre in modo
duro e altero. E si mostra all’improvviso fuori da quel cespuglio oscuro che la celava, come sulla
scena teatrale si mostra Diana o Venere fuori da un bosco o da una caverna ombrosa; e al suo
apparire dice: “La pace sia con te; Dio difenda con te la nostra fama e non tolleri che tu abbia di
me un’opinione falsa, contro ogni ragione” [= che sia stata concupita con Orlando]. Mai una madre
alzò lo sguardo con tanta gioia o stupore sul figlio [Sacripante è come una madre], che aveva
sospirato e pianto per morto avendo sentito che l’esercito era tornato senza di lui, rispetto alla
gioia e allo stupore con cui il saraceno si vide all'improvviso apparire di fronte la nobile presenza, i
modi leggiadri e il vero aspetto angelico della donna. Pieno di affetto dolce e amoroso, corse dalla

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Letteratura Italiana

sua donna e dalla sua dea, che lo abbracciò al collo strettamente, cosa che forse non avrebbe fatto
in Catai. Avendo costui accanto il suo animo pensò subito al regno di suo padre, al luogo natio:
subito si accende in lei la speranza di rivedere presto il suo ricco palazzo. Lei gli spiega per filo e
per segno cosa era successo dal giorno in cui lo mandò a domandare soccorso in Oriente, al re dei
Sericani e dei Nabatei [Gradasso – personaggio incontrato nell’Inamoramento de Orlando]; e come
Orlando la protesse spesso dalla morte, dal disonore, da ogni sciagura: e disse che la sua verginità
era intatta, come quando era uscita dal ventre materno. Forse era vero, ma non era però credibile
a chi fosse padrone del suo intelletto [commento del narratore]; ma a lui sembrò facilmente
possibile, essendo perduto in un errore ben più grande [essendo innamorato]. Amore rende
invisibile ciò che l’uomo vede, e viceversa. Questa cosa venne creduta; infatti il misero è solito
credere quello che vuole che avvenga [Seneca, Hercules furens 313-314]. “Se il cavaliere
d’Anglante [Orlando – qui ha ripreso la parola Sacripante] non seppe approfittare per sua stupidità
dell’occasione favorevole, avrà il suo danno; d’ora in avanti la fortuna non gli offrirà più un simile
dono (così Sacripante parla tra sé): ma io non intendo imitarlo e lasciare un simile bene che mi è
concesso, così che poi debba lagnarmi di me stesso. Coglierò la rosa fresca e mattutina, poiché se
tardassi a farlo potrebbe perdere la sua freschezza. So bene che non si può fare a una donna una
cosa più soave e piacevole, anche se si mostra sdegnosa, e a volte se ne sta triste e in lacrime: non
lascerò che un rifiuto o uno sdegno simulati mi impediscano di intraprendere e portare a termine il
mio progetto” [Sacripante non vuole perdere l’occasione]. Così parla Sacripante; e mentre si
prepara a sedurre Angelica, un gran rumore che strepita dal bosco vicino gli rintrona le orecchie,
sicché abbandona l’impresa suo malgrado: indossa l’elmo (infatti aveva l’antica abitudine di essere
sempre armato), raggiunge il cavallo e lo imbriglia, rimonta in sella e impugna la lancia.
[Sacripante pensa di cogliere la rosa ma sente un rumore e si arma. Un cavaliere si avvicina e
disarma Sacripante velocemente, questa sconfitta viene enfatizzata dall’arrivo di un messaggero al
quale, Sacripante, chiede chi fosse il cavaliere → è Bradamante, prima apparizione, è
un’amazzone, un cavaliere donna che umilia Sacripante agli occhi di Angelica].
ORLANDO FURIOSO, CANTO XXIII (OTTAVE 100-136)
La follia di Orlando, parafrasi → Lo strano percorso che compì il cavallo del saraceno
[Mandricardo] nel bosco senza sentieri, fece sì che Orlando andasse a vuoto per due giorni, e non
lo trovò e non poté scoprirne traccia. Giunse ad un ruscello così limpido che sembrava cristallo
[rimandi petrarchisti + elementi simili al locus amoenus precedente di Angelica], sulle cui sponde
c’era un bel prato fiorito, con bei fiori variopinti e in cui crescevano molti begli alberi. Il pomeriggio
rendeva gradevole la frescura per il duro bestiame e il pastore svestito [elementi bucolici]; così
Orlando non sentiva alcun brivido, avendo ancora la corazza, l’elmo e lo scudo. Egli entrò nella
radura per riposarsi, ma vi ebbe un soggiorno travagliato e crudo, e peggiore di quanto si possa
dire, quel giorno infelice e sfortunato [trova tutt’altro che riposo]. Volgendo lo sguardo lì attorno,
vide che molti alberi erano incisi sulla riva ombrosa del fiume. Non appena vi ebbe fissato gli occhi,
fu certo che le scritte fossero della mano della sua donna [Orlando conosce talmente tanto bene
Angelica che riconosce la sua calligrafia]. Questo era uno di quei luoghi già descritti dove spesso la
bella donna regina del Catai veniva con Medoro [Orlando Furioso, XIX – uno dei loro passatempi
era quello di scrivere i loro nomi sugli alberi], dalla casa poco lontana del pastore. Orlando vede i
nomi di Angelica e Medoro legati insieme con cento nodi e in cento luoghi diversi. Quante sono
quelle lettere incise, sono altrettanti chiodi con cui l’Amore gli punge e gli ferisce il cuore. Cerca in
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Letteratura Italiana

mille modi col pensiero di non credere a ciò che, pur non volendo, deve credere: si sforza di
credere che sia un’altra Angelica quella che ha inciso il suo nome in quella corteccia. Poi dice tra
sé: “Eppure io conosco questa scrittura: l’ho vista e letta tante volte [Orlando trova delle scuse].
Ma forse Angelica si è inventata questo Medoro: forse attribuisce a me questo soprannome” [si
illude che Angelica pensasse a lui]. Cercando di ingannare sé stesso con queste ipotesi lontane del
vero, il povero Orlando rimase nella speranza che seppe così procurare a sé. Ma riaccende e
rinnova sempre più il terribile sospetto, quanto più cerca di spegnerlo: come l’incauto uccello, che
è incappato in una ragnatela o in una trappola col vischio, quanto più sbatte le ali e prova a
liberarsi, tanto più strettamente si trova legato. Orlando giunge dove il monte fa un’ansa simile a
un arco sul limpido fiume [Orlando è come quell’uccellino, sta finendo nella rete e ha avuto solo
un assaggio di quella che poi sarà la sua follia]. Edere e viti erranti avevano decorato il luogo
all'ingresso [della grotta] coi loro rami contorti. Qui i due felici amanti [Angelica e Medoro] erano
soliti stare abbracciati quando il sole era cocente. Vi avevano scritti i loro nomi dentro e
tutt’intorno, più che in qualunque altro luogo lì intorno, a volte col carbone e a volte col gesso, e a
volte l’avevano inciso con la punta di un coltello. Il triste conte [Orlando] smontò qui da cavallo e
vide all’ingresso della grotta molte parole, che Medoro aveva scritte di suo pugno e che
sembravano scritte allora. Egli aveva trascritto in versi questo testo, che narrava del gran piacere
che aveva preso in quella grotta [Medoro si fa quasi poeta]. Io penso che fosse scritto nella sua
lingua e nella nostra il senso era questo [forse era in arabo, questo è un commento del narratore]:
«Liete piante, erbe verdi, acque limpide, grotta ombrosa e gradevole per le fresche ombre, dove la
bella Angelica che nacque da Galafrone, amata invano da molti, spesso giacque nuda tra le mie
braccia; io, povero Medoro, per la comodità che mi avete offerto qui, non posso ricompensarvi se
non lodandovi sempre: e [posso solo] pregare ogni signore amante, e i cavalieri e le dame e ogni
persona, del posto o straniera, che la sua volontà o il caso conduca qui, affinché dica alle erbe, alle
ombre, alla grotta, al fiume, alle piante: vi siano benevoli il sole e la luna, e il coro delle ninfe possa
proteggervi a che nessun pastore conduca mai da voi il gregge». Era scritto in arabo, che il conte
[Orlando poliglotta] conosceva bene come il latino: fra le molte lingue che sapeva bene, di quella
era espertissimo e spesso gli evitò danni e sconfitte, quando si trovò tra il popolo saraceno: ma
non se ne vanti, se un tempo gli fu utile, poiché ora ne ha un danno che può fargli scontare tutto
[sarebbe stato meglio che Orlando non capisse quello che Medoro ha scritto]. Quell’infelice lesse
lo scritto svariate volte, pur cercando invano di non trovarci quello che diceva; e lo vedeva invece
sempre più chiaro ed evidente: ed ogni volta si sentiva il cuore in mezzo al petto stretto da una
mano gelida. Rimase infine con gli occhi e la mente fissi sulla roccia, non molto diverso da essa
[impietrito]. Allora fu sul punto di uscire di senno, tanto era in preda al dolore. Credete a me che
l’ho sperimentato, questo è il dolore che supera tutti gli altri. Il mento gli era caduto sopra il petto
e la fronte era bassa, priva di audacia; e non poté trovare voce per lamentarsi, o lacrime per
piangere, a tal punto era pieno di dolore. Il dolore impetuoso gli rimase dentro, poiché voleva
uscire con troppa fretta. Così vediamo l’acqua che resta nel vaso con il ventre largo e l’apertura
stretta, infatti quando lo si capovolge l’acqua che vorrebbe uscire si concentra e si ferma
nell’apertura stretta, cosicché ne esce a fatica, goccia a goccia. Poi torna alquanto in sé e pensa
come sia possibile che quella cosa non sia vera: pensa che qualcuno voglia infamare in tal modo il
nome della sua donna, e lo desidera e lo spera [“crede e brama e spera” è un climax/gradatio →
figura retorica, detta anche gradazione, consistente nel passare gradatamente da un concetto
all’altro, o nel ribadire un concetto unico con vocaboli sinonimi via via più efficaci e intensi],

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Letteratura Italiana

oppure che qualcuno voglia far soffrire lui con l’insopportabile peso della gelosia, fino a farlo
morire; e pensa che quel qualcuno, chiunque sia, abbia molto ben imitato la mano di Angelica
[disillusione, Orlando ha riconosciuto la scrittura della sua donna]. In una speranza così scarsa e
debole risveglia il suo spirito e lo rinfranca un poco; quindi sprona il suo Brigliadoro, quando il sole
ormai lascia spazio alla luna [è il tramonto, inizia la notte – nuovo scenario pieno di tormento per
Orlando]. Non va molto lontano, quando dai camini sui tetti vede uscire il fumo, sente abbaiare i
cani e muggire le bestie: giunge a una fattoria e prende qui alloggio. Smonta stanco e lascia
Brigliadoro a un bravo ragazzo perché ne abbia cura; un altro gli leva le armi, un altro gli toglie gli
sproni d’oro, un altro va a pulire l’armatura. Questa era la casa dove Medoro giacque ferito e dove
visse la sua avventura amorosa. Orlando chiede di coricarsi senza cenare, sazio di dolore e di
nessun altro cibo. Ma quanto più cerca di trovar riposo, tanto più trova travaglio e dolore; infatti
vede ogni parete, ogni porta, ogni finestra piena di quelle odiate scritte [Angelica e Medoro
scrissero i loro nomi anche nella casa del pastore]. Vorrebbe chiederne [non vuole che diventi
palese], poi tiene la bocca chiusa, poiché teme di rendere troppo chiara la cosa che cerca di tenere
avvolta nella nebbia, per soffrire di meno. Tuttavia gli serve a poco cercare di ingannarsi, poiché
anche se non domanda c’è chi gliene parla. Il pastore, che lo vede così triste e che vorrebbe
sollevarlo, incominciò senza alcun rispetto a narrargli la storia che lui sapeva e che raccontava
spesso a chi voleva ascoltarla, quella di quei due amanti che a molti fu piacevole da ascoltare:
[narrò] come alle preghiere della bella Angelica aveva condotto Medoro alla sua fattoria, ferito
gravemente; e che lei gli curò la ferita e la guarì in pochi giorni: ma Amore ne aprì un’altra nel
cuore a lei, assai più grande; e da una piccola scintilla l’accese un fuoco così grande e cocente che
ne bruciava tutta e non poteva soffocarlo: e senza pensare che lei fosse la figlia del più grande re
d’Oriente, costretta da quell’amore assoluto decise di diventare la moglie di un povero fante. Alla
fine della storia il pastore fece portare la gemma che Angelica, alla sua partenza, gli aveva dato
come compenso per l’ospitalità [il pastore fa portare un gioiello davanti a Orlando – gioiello che lui
stesso diede precedentemente ad Angelica]. Questa conclusione fu la scure che con un colpo solo
tagliò la testa di Orlando, quando il malvagio Amore si vide soddisfatto di averlo colpito
innumerevoli volte [come il boia – prima di uccidere la vittima la picchia]. Orlando cerca di
nascondere il dolore, e pure quello lo preme e non riesce a celarlo: alla fine è inevitabile che,
volente o nolente, gli esca dalla bocca e dagli occhi sotto forma di sospiri e lacrime. E quando può
allentare il freno al dolore, essendo rimasto solo e senza riguardo per altri, sparge dagli occhi un
fiume di lacrime che gli rigano le guance e gli cadono sul petto: sospira e geme e va rigirandosi per
tutto il letto facendo ampi movimenti; e lo sente più duro di un sasso, e più pungente di un’ortica.
In quel grande travaglio gli viene in mente che anche l’ingrata Angelica doveva essersi sdraiata più
volte col suo amante in quello stesso letto in cui giaceva. Ora odia quel letto non diversamente, e
se ne alza con rapidità non minore, del contadino che si è messo a dormire nell’erba e veda vicino
a sé un serpente [il pensiero di Orlando lo assale come se fosse un serpente]. Quel letto, quella
casa, quel pastore gli vengono subito in odio, tanto che senza aspettare la luna, o che spunti l’alba
del nuovo giorno, prende l’armatura e il cavallo ed esce fuori, inoltrandosi nel fitto della boscaglia;
e quando poi pensa di esser solo, apre le porte al dolore con grida ed urli. Non cessa mai di
piangere, né di gridare, né si dà mai pace giorno o notte. Evita le città e i borghi e dorme nella
foresta, all’aperto sul duro terreno. Si meraviglia del fatto che in testa abbia una fontana d'acqua
così viva e come possa sospirare tanto; e spesso dice tra sé così nel pianto: “Queste, che faccio
uscire dagli occhi in così gran quantità, non sono più lacrime. Le lacrime non bastarono al dolore:

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Letteratura Italiana

finirono quando il dolore era appena a metà. Ora l’umore vitale, spinto dal fuoco, fugge attraverso
quella via [i condotti lacrimali] che porta agli occhi; ed è quello, non le lacrime, che si versa, e
porterà il dolore e la vita alla loro fine. Questi che mostrano il mio tormento non sono sospiri, né i
sospiri sono così. Quelli talvolta si arrestano; io, invece, non sento mai che il mio petto esali in
misura minore la mia pena. Amore, che mi brucia il cuore, produce questo vento mentre sbatte
intorno al fuoco le sue ali. Amore, com’è questa meraviglia, che alimenti il fuoco e non lo fai mai
consumare? Io non sono, non sono quello che sembro in viso: colui che era Orlando è morto ed è
sottoterra; la sua donna ingrata lo ha ucciso: infatti, mancandogli di parola, gli ha fatto guerra. Io
sono il suo spirito diviso da lui, che erra tormentandosi in questo inferno, affinché sia di esempio
con la sua ombra, che sola si conserva, a chi pone la sua speranza in amore”. Il conte errò nel
bosco tutta la notte; allo spuntare del sole il suo destino lo fece tornare sul fiume dove Medoro
scolpì nella roccia l’epigramma. Vedere la sua offesa scritta nel monte lo accese a tal punto, che in
lui non restò proprio nulla che non fosse odio, rabbia, ira e furore; non indugiò più e sguainò la
spada [Petrarca, CXXV 12-13]. Distrusse lo scritto e la roccia e fece alzare le schegge minute sino al
cielo. Infelice quella grotta ed ogni albero in cui si legge di Angelica e Medoro! Quel giorno furono
ridotti in tale stato, che non offriranno mai più ombra né frescura a pastori o a greggi: e quel
fiume, prima così chiaro e limpido, fu poco sicuro da una tale ira: infatti Orlando non smise di
gettare rami, ceppi, tronchi, sassi e zolle nelle belle acque, finché le turbò tutte a tal punto che non
furono mai più terse né pulite. E alla fine, stanco e bagnato di sudore, quando le forze non
rispondono più allo sdegno e al grande odio e all'ira ardente, cade sul prato e sospira verso il cielo.
Afflitto e stremato alla fine cade sull'erba, e fissa gli occhi al cielo e sta in silenzio. Per tre giorni e
tre notti rimane così, senza assumere cibo e senza dormire. La pena aspra non cessò di aumentare,
fino a fargli perdere completamente il senno. Il quarto giorno, spinto da gran furore, si staccò di
dosso le maglie e le piastre dell'armatura. L'elmo rimane qua e lo scudo là, le armi lontane e la
corazza ancora più lontana: insomma, per farla breve tutte le sue armi si sparsero negli angoli del
bosco. E poi si stracciò le vesti e denudò il ventre ispido e tutto il petto e la schiena; e cominciò la
grande follia, così orrenda che non se ne sentirà mai raccontare una maggiore. Gli venne una tale
rabbia, un tale furore che ogni suo senso rimase offuscato. Non pensò a prendere in mano la
spada; e con quella avrebbe fatto cose straordinarie, penso. Ma al suo immenso vigore non serviva
né quella, né una scure, né una bipenne. Qui diede subito prova della sua forza, poiché al primo
tentativo divelse un alto pino: e dopo quello ne estirpò molti altri, come se fossero finocchi, ebbi o
aneti; e fece lo stesso con querce e vecchi olmi, con faggi, orni, lecci e abeti. Quello che un
cacciatore, per tendere le reti, fa per liberare il campo strappando i giunchi, le stoppie e le ortiche,
Orlando lo faceva con i cerri e le altre antiche piante. I pastori che hanno sentito quel fracasso,
lasciando le greggi sparse nel bosco, vengono tutti qui a vedere che cosa succede, chi da una parte
chi dall'altra. Ma io sono arrivato a quel punto, superato il quale, la mia storia potrebbe recarvi
fastidio; ed io la voglio rimandare, piuttosto che possa riuscirvi molesta.
ORLANDO FURIOSO, CANTO XXIV (1-14)
Parafrasi → Chi mette il piede nella trappola/rete di amore [con cui i cacciatori catturano gli
uccelli] cerchi di tirarlo indietro e non vi si invischi con le ali; infatti, secondo il giudizio unanime dei
saggi, non c'è amore senza follia: e anche se non tutti danno in ismanie come Orlando, chi ama
mostra la sua pazzia in qualche altro modo [Boccaccio, Decameron, X 6,24]. E c’è forse una segno
di pazzia più evidente del perdere sé stessi per volere un altro? Gli effetti sono vari, ma la pazzia

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Letteratura Italiana

che li fa uscire di senno è sempre la stessa. È come una gran foresta dove chi si addentra deve per
forza sbagliare strada: ognuno si smarrisce in luoghi diversi [Inferno V 43]. Per concludere,
insomma, vi voglio dire questo: chi ama per molto tempo, oltre ad ogni altro dolore, deve
indossare ceppi e catene [deve ammattire]. Certo mi si potrebbe dire: «Amico, tu insegni agli altri
e non vedi il tuo errore». Io vi rispondo che capisco bene, ora che godo di un intervallo di lucidità
mentale; e cerco in ogni modo, e ormai spero di farlo, di riposarmi e sottrarmi alle pene amorose:
ma non posso farlo subito come vorrei, poiché il male mi è penetrato fin nelle ossa. Signore
[Ippolito], nel canto precedente vi dicevo che Orlando, ormai fuori di senno, si era tolto le armi e le
aveva sparse per il campo, si era strappato le vesti e gettata via la spada, aveva divelto le piante e
faceva risuonare le grotte e le profonde selve; quando alcuni pastori furono richiamati da quella
parte dalla loro cattiva stella, o da qualche loro grave peccato. Dopo aver visto le incredibili azioni
del pazzo, più da vicino, e la sua estrema potenza, si voltano per fuggire ma non sanno dove,
proprio come accade quando si ha improvvisamente paura. Il pazzo si muove rapido a inseguirli:
ne prende uno e gli spicca la testa dal collo con la facilità con cui si potrebbe staccare un frutto
dall'albero, o un bel fiore dal pruno. Prese il tronco pesante per una gamba e lo usò come mazza
contro gli altri: ne stese un paio a terra storditi, che forse si sveglieranno il Giorno del Giudizio. Gli
altri se ne andarono subito via, avendo il piede e l'intelligenza pronta. Il pazzo sarebbe stato svelto
a seguirli, se non che si era già rivolto al loro bestiame. Gli agricoltori, vedendo l'esempio dei
pastori, lasciano nei campi gli aratri, le marre e le falci: alcuni montano sulle case e sui templi,
poiché gli olmi e i salici non sono sicuri, da dove possano vedere l'orrenda furia [di Orlando] che
distrugge e fa a pezzi cavalli e buoi a pugni, a urti, a morsi, a graffi, a calci; e quelli che scappano da
lui devono correre veloci. Già si potrebbe sentire come rimbomba nelle fattorie vicine il gran
rumore delle urla e dei corni e delle trombe rustiche, e più frequente ancora il suono delle
campane; e si potrebbero vedere mille uomini scendere dai monti con aste, archi, spiedi e fionde,
e altrettanti salire dal basso in alto, per condurre un assalto da contadini al pazzo. Come sull'arena
del mare l'onda spinta dal vento austro suole venire all'inizio debole, mentre la seconda è più
violenta della prima, e la terza segue con maggior forza, e ogni volta l'acqua è più copiosa e
colpisce con veemenza via via più grande la sabbia: così contro Orlando cresce lo stuolo di villani,
che scende dai monti e sale dalle valli. Orlando fece morire venti persone, che gli finirono in mano
a caso: e questo dimostrò chiaramente che era meglio stargli alla larga. A nessuno è lecito far
uscire sangue da quel corpo, che è percosso e colpito invano dal ferro. Il re del cielo diede questa
grazia [l'invulnerabilità] al conte, per porlo a guardia della sua santa fede. Orlando avrebbe
rischiato di morire, se ne fosse stato capace. Poteva imparare cosa vuol dire gettar via la spada e
poi voler essere audace senz'armi. La turba si stava ormai ritirando, vedendo che ogni suo colpo
non andava a segno. Orlando, visto che nessuno bada a lui, prende il cammino verso un borgo di
case. Dentro non vi trovò nessuno, né piccolo né grande, poiché ognuno aveva lasciato il borgo per
paura. C'era una gran quantità di poveri cibi, che si addicevano alla condizione dei pastori. Senza
distinguere il pane dalle ghiande, spinto dal digiuno e dall'impeto, Orlando avventò le mani e i
denti su quello che trovò prima, crudo o cotto. E vagando da lì per tutto il paese, dava la caccia a
uomini e bestie; e correndo per i boschi, talvolta catturò capri snelli e agili capriole. Spesso lottò
con orsi e cinghiali, e li sopraffece a mani nude: e più volte si riempì avidamente il ventre con la
loro carne e tutta la pelliccia. Percorre tutta la Francia in lungo e in largo; e un giorno arriva a un
ponte, sotto al quale scorre un fiume largo e pieno d'acqua, da una riva scoscesa. Accanto era

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Letteratura Italiana

costruita una torre che mostrava ogni luogo lì intorno e lontano. Quello che Orlando fece qui, lo
sentirete più avanti; prima devo raccontare di Zerbino.
ORLANDO FURIOSO, CANTO XXXIV (68-92)
Parafrasi = Su questo e su altre cose fu abbondante la conversazione dell’apostolo quel giorno. Ma
dopo che fu giunta la sera ed il sole si nascose nel mare, e la Luna innalzò sopra di loro il suo
corno, fu preparato un carro, che era impiegato per andare scorrazzando nei dintorni di quel cielo:
un tempo quel carro nelle montagne di Giudea aveva sottratto il profeta Elia dalla vista degli
uomini mortali. Quattro destrieri molto più rossi di una fiamma il santo evangelista attaccò al
giogo del carro; e dopo essersi sistemato sul carro con Astolfo ed aver preso il freno, li spinse al
galoppo verso il cielo. Il carro, ruotando, si alzò in aria, e subito giunse in mezzo alla sfera del fuoco
eterno; il vecchio fece miracolosamente in modo che, mentre passavamo attraverso il fuoco, lo
stesso non risultava ardente. [Astolfo e S. Giovanni] superano interamente la sfera del fuoco e
quindi si recano nel regno della Luna. Vedono che quel luogo in gran parte è simile a un acciaio
privo di qualunque macchia; e lo trovano uguale, o un poco più piccolo rispetto a ciò che si raduna
in questo globo, in questo ultimo globo che è la Terra, aggiungendo il mare che la circonda e
chiude. Qui Astolfo si meravigliò due volte: per il fatto che quel paese [la Luna] da vicino era tanto
grande, mentre ricorda una piccola palla a noi che lo osserviamo dalla Terra; e per il fatto che deve
aguzzare la vista se vuole distinguere da lì la Terra e il mare che scorre intorno ad essa; infatti, non
emettendo luce, la sua immagine non arriva molto in alto. Lassù vi sono fiumi, laghi e campagne
diverse da quelle che ci sono qui; vi sono altre pianure, altre valli, altre montagne, ognuna con le
sue città e castelli, con case delle quali il paladino non ne vide prima né dopo altre più grandi: e vi
sono selve ampie e solitarie, dove le ninfe cacciano sempre le belve. Il duca [Astolfo] non rimase a
osservare tutto, poiché non era salito lassù a quello scopo. Fu condotto dal santo apostolo in un
vallone stretto tra due montagne, dove prodigiosamente si raccoglieva ciò che si perde [sulla
Terra] o per nostra colpa, o a causa del tempo o della fortuna: ciò che si perde qui, si raduna lassù.
Non parlo solo di regni o ricchezze, beni sui quali la ruota instancabile della fortuna lavora, ma
voglio anche riferirmi a quello che la fortuna non ha il potere di dare o togliere. Lassù c'è molta
fama, che il tempo a lungo andare quaggiù divora come un tarlo: lassù stanno infiniti voti e
preghiere, che noi peccatori facciamo a Dio. Le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo che si
butta via inutilmente nel gioco d'azzardo, il lungo ozio di uomini ignoranti, disegni vani che non si
concretizzano mai, i vani desideri sono così tanti, che ingombrano buona parte di quel luogo:
insomma, ciò che hai perso sulla Terra, salendo lassù potrai ritrovarlo. Il paladino, passando per
quei mucchi di cose, chiede di questo o quello alla sua guida. Vide un monte di vesciche gonfie,
che sembravano contenere tumulti e grida; e seppe che erano gli antichi regni degli Assiri e della
terra di Lidia, e dei Persiani e dei Greci, che un tempo furono potenti e il cui nome ora è quasi
sconosciuto. Vede poi ami d'oro e d'argento ammassati, che erano quei doni che si fanno ai re, ai
principi avari e ai protettori potenti con la speranza di una ricompensa. Vede dei lacci nascosti
dentro delle ghirlande; chiede [alla guida] e apprende che sono tutte adulazioni. I versi che si
scrivono in lode dei signori hanno l'immagine di cicale scoppiate. Vede che gli amori infelici hanno
forma di ceppi d'oro e di gemme. Vi erano artigli d'aquile e seppi che erano l'autorità che i signori
danno ai loro uomini. I mantici che riempivano tutt'intorno i declivi sono i fumi e i favori che i
principi danno ai loro giovani amanti, e che svaniscono poi col fiore degli anni. Qui stavano
sottosopra rovine di città e castelli, insieme a grandi tesori. Domanda e apprende che sono i

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Letteratura Italiana

trattati politici, e quella congiura che sembra che si nasconda così male. Vide serpi col volto di
fanciulla, ovvero l'opera di falsari di monete e di ladroni: poi vide ampolle di diverso tipo che erano
rotte, che rappresentavano la servitù delle misere corti. Vede una gran massa di minestre versate
e domanda alla sua guida cosa voglia dire. S. Giovanni dice: «È l'elemosina che qualcuno lascia
perché sia fatta dopo la sua morte.» Passa accanto a una gran montagna di fiori variopinti che una
volta avevano un buon profumo, mentre adesso puzzavano fortemente. Questo era il dono (se
posso dirlo) che Costantino fece al buon papa Silvestro. Vide una gran quantità di trappole con
vischio, che erano, o donne, le vostre bellezze. Sarà lungo se io racconto nei miei versi tutte le cose
che gli furono mostrate qui; infatti dopo mille e mille non finirei, e vi sono tutte le cose che ci
riguardano: solo la pazzia lì non è poca né molta, poiché essa sta sulla Terra e non se ne allontana
mai. Qui Astolfo si concentrò su alcuni suoi fatti e giorni, che aveva perduto; e se non c'era con lui
una guida [che glieli indicasse] non ne avrebbe distinto la forma diversa. Poi arrivò a quella cosa
che noi pensiamo di avere, al punto che nessuno ne ha mai pregato Dio; dico il senno: e qui ce
n'era una montagna, da solo in misura assai maggiore di tutte le altre cose descritte. Esso era
come un liquido poco denso e fluido, rapido a esalare se non si tiene ben chiuso; e si vedeva
raccolto in varie ampolle adatte a quell'uso, quale più, quale meno capiente. La più grande di tutte
è quella in cui era racchiuso il senno del folle signor d'Anglante; e Astolfo la riconobbe poiché di
fuori aveva scritto: Senno d'Orlando. E così tutte le altre ampolle avevano scritto il nome di quelli
che una volta avevano il senno. Il duca franco [Astolfo] vide gran parte del suo; ma lo fecero
meravigliare assai di più molti a cui lui credeva non dovesse mancare neppure di una goccia di
senno, e qui invece diedero notizia che ne avevano poco; infatti in quel luogo ce n'era una gran
quantità. Alcuni perdono il senno in amore, altri nel ricercare gli onori, altri cercando le ricchezze
per mare; altri nelle speranze dei signori, altri dietro alle sciocchezze della magia; altri in gemme,
altri nelle opere dei pittori, ed altri in altre cose che apprezzano più di altro. Lì era raccolto il senno
di sofisti e astrologi, e anche molto dei poeti. Astolfo prese il suo, cosa che gli fu concessa
dall'autore dell'oscura "Apocalisse" [S. Giovanni]. Si limitò a mettere sotto il naso l'ampolla in cui
era racchiuso, e sembra che il senno se ne tornò al suo luogo naturale: e pare che Turpino confessi
che da lì in avanti Astolfo visse lungo tempo come un uomo saggio; ma un errore che poi commise,
fu quello che lo fece impazzire un'altra volta. Astolfo prese l'ampolla più capiente e più piena,
dove era il senno che era solito far saggio il conte Orlando; e non era così leggera, come aveva
pensato quando era ammonticchiata insieme alle altre. Palazzo che aveva ogni sua stanza piena di
batuffoli di lino, di seta, di cotone, di lana, tinti in vari colori, alcuni brutti ed alcuni belli. Nel primo
cortile una donna canuta, con la chioma bianca, traeva un filo da tutti quei batuffoli e lo avvolgeva
ad un aspo, come vediamo, in estate, la donna di campagna ricavare dai bozzoli dei bachi,
precedentemente bagnati, la seta che viene poi filata. Vi è chi, finito un batuffolo, giunge a
rimetterne un altro, e chi ne porta altri da un altro logo: un’altra donna separa, tra tutte quelle
matasse, quelle belle da quelle brutte, che non vengono invece distinte dalla prima. “Che lavoro
viene fatto qui, che io non riesco a comprendere?” chiede Astolfo a Giovanni; e gli risponde l’altro:
“Le donne vecchie sono le Parche, che con questi fili tessono la vita di voi mortali. Quanto dura
uno dei batuffoli, tanto dura, non un momento in più, la vita umana ad esso associata. Controllano
questo posto sia la Morte che la Natura, per sapere l’ora in cui un uomo dovrà morire. La seconda
Parca ha molta cura nello scegliere i filati più belli, perché verranno poi utilizzati per tessere
l’ornamento del Paradiso; e con i fili più brutti si fanno invece severi legacci per i dannati.” I nomi
di tutti i batuffoli che erano già stato messi sull’aspo, e scelti per essere impiegati per i diversi

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Letteratura Italiana

lavori, venivano impressi su piccole piastre, alcune di ferro, altre d’argento o d’oro: venivano poi
accantonati a formare cumuli compatti, di quei batuffoli alcuni, senza mai riposarsi, ne portava via
continuamente, senza farsi mai vedere stanco, un vecchio, il Tempo, per poi ritornare sempre e
prenderne ancora. Era quel vecchio tanto spedito e veloce, che sembrava fosse nato per correre; e
da quel cumulo il lembo del proprio mantello portava pieno delle piastre, sulle quali erano segnati
i nomi dei proprietari. Dove si recava e perché facesse quel lavoro vi sarà raccontato nel prossimo
canto, se mostrerete di averne piacere con quel benevolo ascolto che siete solito offrire.

LEZIONE 24
NICCOLÒ MACHIAVELLI (1469 – 1527)
Nasce il 3 maggio 1469 da Bernardo e Bartolomea de’ Nelli (famiglia del “popolo grasso” di
posizione anti-medicea). Dal 1480-81 si dedica allo studio del latino (non è chiaro se ebbe una
formazione universitaria); studia musica e letteratura. Nel 1494 caduti i Medici e affermatasi
l’autorità di Savonarola, si avvicina a quei settori di aristocrazia che, dopo una fase di ambiguo
consenso, passarono all’opposizione aperta nei confronti dei frate e ne provocarono la rovina. Nel
1498 dopo il supplizio di Savonarola (23 maggio), fu designato (28 maggio) e nominato (19 giugno)
Segretario della Seconda Cancelleria; dal 14 luglio fu anche Segretario del Dieci. Nel 1500-01 fu
inviato presso Luigi XII, per concludere l’assedio di Pisa. Nel 1501 Cesare Borgia, detto il
“Valentino” minaccia Firenze (si ritira solo per l’intervento di Luigi XII). Il Borgia si dirige verso
Piombino per assediarla. Nel 1502 il Valentino conquista anche Urbino e Camerino; istiga alla
rivolta anche ad Arezzo. Nel 1502, il 26 agosto, viene istituito il gonfalonierato a vita e il 22
settembre viene eletto Pier Soderini. Nel 1502-03 missione diplomatica presso Cesare Borgia, in
Romagna. A Sinigaglia il Valentino si vendica dei suoi nemici. Nel 1503 elezione a pontefice di papa
Giulio II, che toglierà ogni potere al Borgia e lo farà imprigionare. Nel 1506 segue Giulio II che
vuole conquistare Bologna. Nel 1507-08 si trova tra Trento e Innsbruck per sostenere Francesco
Vettori presso la corte dell’imperatore Massimiliano I. nel 1509 (14 maggio) si svolge la Battaglia di
Agnadello = Venezia perde il dominio su molte città della terra ferma. Nel 1512 dopo la battaglia di
Ravenna, con la vittoria francese, i Medici rientrano a Firenze per intervento della Lega Santa
(papa, Inghilterra, Spagna e Venezia). Sempre nel 1512 cerca di avvicinarsi ai Medici, ma invece
viene rimosso dagli incarichi pubblici e confinato tra Firenze e Sant’Andrea in Percussina. Nel 1513
nel carteggio con Francesco Vettori annuncia la scrittura di un opuscolo De principatibus (il
Principe). Nel 1515-16 si riavvicina ai Medici e frequenta gli Orti Oricellari (si riunivano molti
intellettuali fiorentini). Scrive I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (= commento Ab Urbe
condita, conclusi nel 1518), che dedica a Cosimo Ruccellai e Zanobi Buondelmonti (animatori degli
Orti Oricellari). Nel 1518 scrive la Mandragola (= commedia debitrice dell’eredità della commedia
classica, riscritta con una vivacità linguistica) e conclude l’Asino (= riscrittura delle metamorfosi di
Apuleio). Nel 1519-20 scrive l’Arte della guerra, stampata nel 1521. Nel 1524 conclude le Istorie
Fiorentine (1434-1492). Scrive la Clizia, che viene messa in scena nel 1525. Muore il 21 giugno
1527 e venne sepolto in Santa Croce.

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Letteratura Italiana

Che tipo di opera è il Principe? È un testo che caratterizza tutto il XVI secolo, appartenente alla
famiglia della trattatistica (trattato). Dobbiamo leggere quest’opera alla luce della trattatistica,
Machiavelli cerca di mettere a fuoco gli elementi più indicativi e rappresentativi della figura del
principe e della gestione del governo della cosa pubblica attraverso i principati. Descrive le diverse
tipologie di principati e le varie difficoltà che devono affrontare. Questo testo è una novità =
Machiavelli definisce, attraverso un’opera politico-letteraria, delle questioni che riguardano i
governi degli stati.
IL PRINCIPE
Titolo → lettera che Machiavelli indirizza all’amico Francesco Vettori il 10 dicembre 1513 =
Machiavelli descrive la sua giornata tipo. Notiamo l’idea del rapporto con i classici e della lettura
come profondo colloquio (eredità petrarchesca).
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste
cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente,
entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di
quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e
domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento
per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi
sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo
ritenere lo havere inteso - io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e
composto uno opuscolo De principatibus; dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni
di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e' si
acquistono, come e' si mantengono, perché e' si perdono. E se vi piacque mai alcuno mio
ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un principe, e massime a un principe nuovo,
doverrebbe essere accetto: però io lo indirizzo alla Magnificentia di Giuliano.
Parafrasi → Quando viene la sera me ne torno a casa e vado nel mio studio; sulla soglia mi spoglio
dei panni volgari che ho tenuto addosso tutto il giorno e indosso i panni degni di una curia e di un
re; così vestito decentemente entro nelle vite degli uomini antichi e, ricevuto con piacere da
questi, mi nutro di quel cibo che è solo per me e per il quale io sono fatto; e non mi vergogno di
parlare con loro e di chiedergli il motivo delle loro azioni; e quelli, per loro cortesia, mi rispondono;
e per quattro ore io non avverto la noia, dimentico le preoccupazioni, non ho paura della povertà e
non mi stupisce la morte: così tanto sono assorbito dal mio studio. E siccome Dante dice che non si
impara nulla se non lo si fissa in qualche modo nella propria mente, io ho scritto un libretto “ De
Principatibus” in cui io ragiono per quanto posso di questo argomento, esaminando i vari tipi di
principati, come si conquistano, come si mantiene il potere su di essi e come si perdono. E se in
passato avete gradito qualche mio scritto bizzarro, non vedo perché non dovrebbe piacervi anche
questo; e anche un principe potrebbe gradirlo, specialmente uno giunto al potere da poco (nuovo)
e per questo io l'ho dedicato a Sua Magnificenza Giuliano de Medici.
Il titolo “De Principatibus” non verrà mantenuto se non nella circolazione del manoscritto. Il titolo
che si affermerà è → Il Principe di Niccholo Machiauello al magnifico Lorenzo di Piero de Medici. La
vita di Castruccio Castracani da Lucca a Zanobi Buondelmonti et a Luigi Alemanni descritta per il
medesimo. Il modo che tenne il duca Valentino per ammazar Vitellozo, Oliverotto da Fermo il s.

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Letteratura Italiana

Paolo et il duca di Gravina Orsini in Senigaglia, descritta per il medesimo. STAMPATO IN ROMA,
PER ANTONIO BLADO D’ASOLA, 1532.
Composizione → la composizione si colloca tra l’estate e il 10 dicembre del 1513 (= una prima
redazione con dedica a Giuliano de’ Medici, che ebbe una circolazione molto stretta.
Probabilmente dei primi XI libri). Lavoro di ampliamento fino al 1515 (con dedica a Lorenzo de’
Medici).
Edizioni → mancano gli autografi (19 codici, di cui 7 tratti da stampe). Il Principe di Niccholo
Machiauello al magnifico Lorenzo di Piero de Medici… stampato in Roma, per Antonio Blado
d’Asola nel 1532. Il principe di Niccolo Machiauelli al magnifico Lorenzo di Piero de’ Medici…
Firenze, Bernardo Giunta il vecchio, 1532.
Struttura → XXVI capitoli (quattro parti). I capitoli I-XI trattano delle tipologie di principati
(ereditari, nuovi e misti). I capitoli XII-XIV trattano del problema delle milizie mercenarie e degli
eserciti propri. I capitoli XV-XXIII trattano del principe e dei suoi obiettivi. I capitoli XXIV-XXVI
trattano delle cause per cui i principi italiani hanno perso i loro Stati; del rapporto tra virtù e
fortuna; esortazione ad un principe italiano a creare un nuovo forte Stato che possa difendere la
penisola dalle invasioni straniere.
Lingua e stile → dedica a Lorenzo de’ Medici = La quale opera io non ho ornata né ripiena di
clausule ample, o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento
estrinseco con li quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare; perché io ho voluto, o che
veruna cosa la onori, o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci
grata. Né voglio sia reputata presunzione se uno uomo di basso ed infimo stato ardisce discorrere
e regolare e’ governi de’ principi; perché, così come coloro che disegnano e’ paesi si pongono bassi
nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si
pongono alti sopra e’ monti, similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere
principe, e a conoscere bene quella de’ principi, bisogna essere populare. [Lo stile sarà piuttosto
spoglio perché la qualità migliore che deve far emergere questo testo è la ricchezza degli
argomenti e l’altezza del soggetto affrontato. Prospettiva → i pittori si mettono in alto per
descrivere quant’è in basso e scelgono una prospettiva opposta, essere in una posizione inferiore
rispetto al principe è la prospettiva giusta per vederlo = giusta distanza prospettica].
Capitoli I, VII, XXV, XXVI → quelli che dobbiamo fare.
IL PRINCIPE – CAPITOLO I
Quot sint genera principatuum et quibus modis acquirantur [Di quante ragioni sieno e’ principati, e
in che modo si acquistino]
Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono
o republiche o principati. E' principati sono o ereditarii, de' quali el sangue del loro signore ne sia
suto lungo tempo principe, o e' sono nuovi [principali tipologie di principati → i principati o si
ereditano per derivazione di sangue oppure sono nuovi]. E' nuovi, o sono nuovi tutti, come fu
Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li
acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna [o sono nuovi o di natura mista = eredità +
nuovo]. Sono questi dominii così acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi ad essere

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Letteratura Italiana

liberi; e acquistonsi o con le armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù [il trattato
cercherà di mettere a fuoco le diverse possibilità – questo primo capitolo ci dà un’indicazione sul
contenuto, sullo stile e sulla natura del testo + esposizione della questione = alternativa fortuna /
virtù].
CAPITOLO VII (Cesare Borgia, il Valentino)
De principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur [De’ principati nuovi che
s’acquistano con le armi e fortuna di altri]
Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano, di privati, principi [da privati cittadini a principi
soltanto per l’intervento della fortuna], con poca fatica diventano, ma con assai si mantengono; e
non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano; ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono
posti [quando raggiungono questa carica]. E questi tali sono quando è concesso ad alcuno uno
stato o per danari o per grazia di chi lo concede [qualcosa che arriva dall’altro = senza fatica]:
come intervenne a molti in Grecia, nelle città di Ionia e di Ellesponto, dove furono fatti principi da
Dario, acciò le tenessino per sua securtà e gloria; come erano fatti ancora quegli imperadori che, di
privati, per corruzione de’ soldati, pervenivano allo imperio. Questi stanno semplicemente in sulla
voluntà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime e instabili; e non
sanno e non possono tenere quel grado [non sanno e non possono]. Non sanno, perché, se non è
uomo di grande ingegno e virtù [ci sono delle eccezioni dal momento in cui si è in presenza di
personaggi dotati di ingegno e virtù], non è ragionevole che, sendo sempre vissuto in privata
fortuna, sappi comandare; non possono, perché non hanno forze che li possino essere amiche e
fedeli.
Di poi, gli stati che vengano subito, come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono
presto, non possono avere le barbe e corrispondenzie loro [questi governi che sorgono
improvvisamente sono simili a tutte le altre cose che in natura nascono e crescono
repentinamente, barbe = radici]; in modo che el primo tempo avverso le spegne; se già quelli tali,
come è detto, che sì de repente sono diventati principi, non sono di tanta virtù che quello che la
fortuna ha messo loro in grembo, e’ sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli fondamenti
che gli altri hanno fatti avanti che diventino principi, li faccino poi [quelli diventati principi si
costruiscano della fondamenta che altri hanno costruito col tempo]. Io voglio all’uno e all’altro di
questi modi detti, circa il diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati ne’
dì della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, per li debiti
mezzi e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano [riuscì ad avere il supporto
della Repubblica e a diventare signore di Milano costruendosi a fatica la propria autorità di
principe]; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Dall’altra
parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del
padre (Rodrigo Borgia, divenuto Papa Alessandro VI), e con quella lo perdé; nonostante che per lui
si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva
fare per mettere le barbe sue in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi [Cesare
Borgia ha cercato di mettere le radici negli stati concessi dal padre, ma in qualcosa ha sbagliato].
Perché, come di sopra si disse, chi non fa e’ fondamenti prima, li potrebbe con una gran virtù farli
poi, ancora che si faccino con disagio dello architettore e periculo dello edifizio [se metti le
fondamenta dopo e non prima l’edificio è in pericolo]. Se, adunque, si considerrà tutti e’ progressi
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Letteratura Italiana

del duca, si vedrà lui aversi fatti gran fondamenti alla futura potenzia; li quali non iudico superfluo
discorrere, perché io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo
esemplo delle azioni sua: e se gli ordini suoi non li profittorono, non fu sua colpa, perché nacque
da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna [il Valentino è un esempio di cui vale la
pena parlare = la fortuna ha concesso a Cesare Borgia ed è la stessa a negargli i possedimenti].
Aveva Alessandro VI, nel volere fare grande el duca suo figliuolo, assai difficultà presenti e future.
Prima, e’ non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di Chiesa; e
volgendosi a tôrre quello della Chiesa, sapeva che el duca di Milano e Viniziani non gnene
consentirebbano; perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protezione de’ Viniziani. Vedeva,
oltre di questo, l’arme di Italia, e quelle in spezie di chi si fussi possuto servire, essere in le mani di
coloro che dovevano temere la grandezza del papa: e però non se ne poteva fidare, sendo tutte
negli Orsini e Colonnesi e loro complici [due famiglie con cui Alessandro VI deve fare i conti]. Era,
adunque, necessario che si turbassino quegli ordini, e disordinare li stati di coloro per potersi
insignorire securamente di parte di quelli.
Il che li fu facile, perché trovò e’ Viniziani che, mossi da altre cagioni, si erono volti a fare ripassare
e’ Franzesi in Italia; il che non solamente non contradisse, ma lo fe’ più facile con la resoluzione del
matrimonio antiquo del re Luigi. Passò, adunque, il re in Italia con lo aiuto de’ Viniziani e consenso
di Alessandro; né prima fu in Milano, che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna; la
quale gli fu consentita per la reputazione del re. Acquistata, adunque, el duca la Romagna, e
sbattuti e’ Colonnesi [battuti i Colonnesi], volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo
impedivano dua cose: l’una, l’arme sua che non gli parevano fedeli, l’altra, la volontà di Francia [gli
mancano delle armi e deve sempre tener sotto controllo la volontà dei francesi]: cioè che l’arme
Orsine, delle quali s’era valuto, gli mancassino sotto, e non solamente l’impedissino lo acquistare
ma gli togliessino lo acquistato, e che il re ancora non li facessi el simile. Degli Orsini ne ebbe uno
riscontro quando dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, che li vidde andare freddi in
quello assalto: e circa il re [di Francia], conobbe l’animo suo quando, preso il ducato di Urbino,
assaltò la Toscana; dalla quale impresa el re lo fece desistere. Onde che il duca deliberò non
dependere più dalle arme e fortuna di altri [il Valentino cambia politica, cerca di andare in altre
direzioni]. E la prima cosa, ’ndebolì le parti Orsine e Colonnese in Roma; perché tutti gli aderenti
loro che fussino gentili uomini, se li guadagnò, faccendoli suoi gentili uomini e dando loro grandi
provvisioni; e onorolli, secondo le loro qualità, di condotte e di governi; in modo che in pochi mesi
negli animi loro l’affezione delle parti si spense, e tutta si volse nel duca [si compra i sostenitori
degli Orsini e dei Colonnesi].
Dopo questa, aspettò la occasione di spegnere e’ capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa
Colonna; la quale li venne bene, e lui la usò meglio. Perché, avvedutisi gli Orsini, tardi, che la
grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina, feciono una dieta alla Magione, nel Perugino
[19]; da quella nacque la rebellione di Urbino e li tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca; li
quali tutti superò con lo aiuto de’ Franzesi. E ritornatogli la reputazione, né si fidando di Francia né
di altre forze esterne, per non le avere a cimentare, si volse agli inganni. E seppe tanto dissimulare
l’animo suo, che gli Orsini medesimi, mediante el signor Paulo, si riconciliorono seco; con il quale
el duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandogli danari, veste e cavalli; tanto
che la simplicità loro li condusse a Sinigaglia nelle sue mani [quello che è stato un atto di violenza
da parte del Valentino, viene letto da Machiavelli come una vera immagine del principe saggio].

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Letteratura Italiana

Spenti, adunque, questi capi, e ridotti li partigiani loro amici sua, aveva il duca gittati assai buoni
fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna con il ducato di Urbino, parendogli,
massime, aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli popoli, per avere
cominciato a gustare el bene essere loro.
E perché questa parte è degna di notizia e da essere imitata da altri, non la voglio lasciare indrieto.
Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da signori impotenti, li quali più
presto avevano spogliato e’ loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non di
unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di
insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e obediente al braccio regio, darli buon
governo. Però vi prepose messer Remirro de Orco, uomo crudele ed espedito, al quale dette
pienissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione.
Di poi iudicò el duca non essere necessario sì eccessiva autorità, perché dubitava non divenissi
odiosa; e preposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente
eccellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorosità passate
averli generato qualche odio, per purgare gli animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volle
mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era nata da lui, ma dalla acerba natura del
ministro. E presa sopr’a questo occasione, lo fece a Cesena, una mattina, mettere in dua pezzi in
sulla piazza, con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale
spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.
Ma torniamo donde noi partimmo. Dico che, trovandosi il duca assai potente e in parte assicurato
de’ presenti periculi, per essersi armato a suo modo e avere in buona parte spente quelle arme
che, vicine, lo potevano offendere, gli restava, volendo procedere con lo acquisto, il respetto del re
di Francia; perché conosceva come dal re, il quale tardi si era accorto dello errore suo, non li
sarebbe sopportato. E cominciò per questo a cercare di amicizie nuove, e vacillare con Francia,
nella venuta che feciono gli Franzesi verso el regno di Napoli contro agli Spagnuoli che assediavono
Gaeta. E l’animo suo era assicurarsi di loro; il che gli sarebbe presto riuscito, se Alessandro viveva.
E questi furono e’ governi suoi quanto alle cose presenti. Ma quanto alle future, lui aveva a
dubitare, in prima, che uno nuovo successore alla Chiesa non li fussi amico e cercassi torli quello
che Alessandro gli aveva dato. Di che pensò assicurarsi in quattro modi: prima, di spegnere tutti e’
sangui di quelli signori che lui aveva spogliati, per tôrre al papa quella occasione; secondo, di
guadagnarsi tutti e’ gentili uomini di Roma, come è detto, per potere con quelli tenere el papa in
freno; terzo, ridurre el Collegio più suo che poteva; quarto, acquistare tanto imperio, avanti che
il papa morissi, che potessi per se medesimo resistere a uno primo impeto.
Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre [non ci è riuscito a farle
tutte e quattro]; la quarta aveva quasi per condotta; perché de’ signori spogliati ne ammazzò
quanti ne possé aggiugnere, e pochissimi si salvorono, e’ gentili uomini romani si aveva
guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte: e, quanto al nuovo acquisto, aveva disegnato
diventare signore di Toscana, e possedeva di già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la
protezione. E come non avessi avuto ad avere respetto a Francia (ché non gliene aveva ad avere
più, per essere di già e’ Franzesi spogliati del Regno dagli Spagnoli, di qualità che ciascuno di loro
era necessitato comperare l’amicizia sua), e’ saltava in Pisa. Dopo questo, Lucca e Siena cedeva
subito, parte per invidia de’ Fiorentini, parte per paura; e’ Fiorentini non avevano remedio. Il che
se li fusse riuscito (che gli riusciva l’anno medesimo che Alessandro morì), si acquistava tante forze
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Letteratura Italiana

e tanta reputazione,che per sé stesso si sarebbe retto, e non sarebbe più dependuto dalla fortuna
e forze di altri, ma dalla potenzia e virtù sua. Ma Alessandro morì dopo cinque anni ch’egli aveva
cominciato a trarre fuora la spada. Lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato, con
tutti gli altri in aria, intra dua potentissimi eserciti inimici, e malato a morte [Alessandro muore e
Valentino ha soltanto la Romagna solida tra le sue mani].
Ed era nel duca tanta ferocia e tanta virtù e sì bene conosceva come gli uomini si hanno a
guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sì poco tempo si aveva fatti, che,
se lui non avessi avuto quegli eserciti addosso, o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà.
E ch’e’ fondamenti sua fussino buoni, si vidde: ché la Romagna lo aspettò più di uno mese; in
Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro, e benché Baglioni, Vitelli e Orsini venissino in Roma,
non ebbono séguito contro di lui: possé fare, se non chi e’ volle papa, almeno che non fussi chi non
voleva. Ma se nella morte di Alessandro lui fussi stato sano, ogni cosa gli era facile. E lui mi disse,
ne’ dì che fu creato Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessi nascere, morendo el padre, e a
tutto aveva trovato remedio, eccetto che non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui
per morire. Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei reprenderlo; anzi mi pare,
come ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l’arme d’altri sono ascesi
allo imperio. Perché lui avendo l’animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare
altrimenti, e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua.
Chi, adunque, iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi de’ nimici, guadagnarsi degli
amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ populi, seguire e reverire da’
soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordini
antiqui, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della
nuova, mantenere le amicizie de’ re e de’ principi in modo che ti abbino o a beneficare con grazia
o offendere con respetto, non può trovare e’ più freschi esempli che le azioni di costui. Solamente
si può accusarlo nella creazione di Iulio pontefice, nella quale lui ebbe mala elezione; perché, come
è detto, non potendo fare uno papa a suo modo, e’ poteva tenere che uno non fussi papa; e non
doveva mai consentire al papato di quelli cardinali che lui avessi offesi, o che, diventati papi,
avessino ad avere paura di lui. Perché gli uomini offendono o per paura o per odio. Quelli che lui
aveva offesi erano, infra gli altri, San Piero ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio; tutti gli altri,
divenuti papi, aveano a temerlo, eccetto Roano e li Spagnuoli: questi per coniunzione e obligo;
quello per potenzia, avendo coniunto seco il regno di Francia. Pertanto el duca, innanzi a ogni
cosa, doveva creare papa uno spagnolo, e, non potendo, doveva consentire che fussi Roano e non
San Piero ad Vincula. E chi crede che ne’ personaggi grandi e’ benefizii nuovi faccino dimenticare le
iniurie vecchie, s’inganna. Errò, adunque, el duca in questa elezione; e fu cagione dell’ultima ruina
sua.
CAPITOLO XXV
Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum [Quanto possa la
Fortuna nelle cose umane, et in che modo se li abbia a resistere]
È non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in
modo governate dalla fortuna e da Dio [due potenze], che gli uomini con la prudenzia loro non
possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non
fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta più

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Letteratura Italiana

creduta ne’ nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì,
fuora di ogni umana coniettura. A che pensando, io, qualche volta, mi sono in qualche parte
inclinato nella opinione loro. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico
potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne
lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che,
quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno,
pongono da quell’altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in
alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi
quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o
egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso.
Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù
a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla
[dove non c’è una virtù che si oppone alla fortuna, quest’ultima colpisce in maniera più violenta]. E
se voi considerrete l’Italia, che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto,
vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: che, s’ella fussi riparata da
conveniente virtù, come la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatte le
variazioni grandi che ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti avere detto quanto allo
opporsi alla fortuna, in universali. Ma, restringendomi più a’ particulari, dico come si vede oggi
questo principe felicitare, e domani ruinare, sanza averli veduto mutare natura o qualità alcuna. Il
che credo che nasca, prima, dalle cagioni che si sono lungamente per lo adrieto discorse, cioè che
quel principe che si appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia. Credo, ancora, che
sia felice quello che riscontra el modo del procedere suo con le qualità de’ tempi, e similmente
sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e’ tempi. Perché si vede gli uomini, nelle
cose che li conducono al fine quale ciascuno ha innanzi, cioè glorie e ricchezze, procedervi
variamente, l’uno con respetto, l’altro con impeto, l’uno per violenzia, l’altro con arte; l’uno per
pazienzia, l’altro con il suo contrario: e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire.
Vedesi ancora dua respettivi, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no, e similmente dua
equalmente felicitare con dua diversi studii, sendo l’uno respettivo e l’altro impetuoso: il che non
nasce da altro, se non dalla qualità de’ tempi, che si conformano o no col procedere loro . Di qui
nasce quello ho detto, che dua, diversamente operando, sortiscono el medesimo effetto; e dua
equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine, e l’altro no. Da questo ancora depende la
variazione del bene; perché, se uno che si governa con respetti e pazienzia, e’ tempi e le cose
girono in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando; ma, se li tempi e le cose si
mutano, e’ rovina, perché non muta modo di procedere. Né si truova uomo sì prudente che si
sappi accomodare a questo; sì perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina; sì
etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere
partirsi da quella. E però l’uomo respettivo, quando egli è tempo di venire allo impeto, non lo sa
fare, donde rovina; che, se si mutassi di natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe
fortuna.
Papa Iulio II procedé in ogni sua cosa impetuosamente; e trovò tanto e’ tempi e le cose conforme a
quello suo modo di procedere, che sempre sortì felice fine. Considerate la prima impresa che fe’ di
Bologna, vivendo ancora messer Giovanni Bentivogli. E' Viniziani non se ne contentavano; el re di
Spagna, quel medesimo; con Francia aveva ragionamenti di tale impresa; e nondimanco, con la sua
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Letteratura Italiana

ferocia e impeto, si mosse personalmente a quella espedizione. La quale mossa fece stare sospesi
e fermi Spagna e Viniziani; quelli per paura, e quell’altro per il desiderio aveva di recuperare tutto
el regno di Napoli; e dall’altro canto si tirò drieto el re di Francia, perché, vedutolo quel re mosso,
e desiderando farselo amico per abbassare e’ Viniziani, iudicò non poterli negare le sua gente
sanza iniuriarlo manifestamente. Condusse, adunque, Iulio, con la sua mossa impetuosa, quello
che mai altro pontefice, con tutta la umana prudenzia, arebbe condotto: perché, se egli
aspettava di partirsi da Roma con le conclusione ferme e tutte le cose ordinate, come qualunque
altro pontefice arebbe fatto, mai li riusciva; perché il re di Francia arebbe avuto mille scuse, e gli
altri messo mille paure. Io voglio lasciare stare le altre sue azioni, che tutte sono state simili, e
tutte li sono successe bene. E la brevità della vita non gli ha lasciato sentire il contrario; perché, se
fussino venuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua ruina: né mai
arebbe deviato da quelli modi a’ quali la natura lo inclinava. Concludo, adunque, che, variando la
fortuna, e stando gli uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e, come
discordano, infelici. Io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché
la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si
lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano; e però sempre, come
donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la
comandano.

LEZIONE 25
TORQUATO TASSO (1544-1595)
L’epoca di Tasso è un’epoca già segnata dalla Controriforma Cattolica → Tasso si sottopone
autonomamente alla censura = autocensura, non tutti i poeti lo facevano e spesso venivano
censurati dopo aver pubblicato le loro opere.
Torquato nasce a Sorrento l’11 marzo 1544, da Bernardo (letterato e uomo di corte) e da Porzia
de’ Rossi (gentildonna napoletana di origini pistoiesi). Bernardo, continuamente lontano al seguito
del principe di Salerno Ferrante Sanseverino, conobbe il figlio solo nel gennaio del 1545; nel corso
di quell’anno la famiglia si ristabilì a Salerno. Le peripezie di Sanseverino, costretto ad
abbandonare Napoli alla fine del 1551, coinvolsero Bernardo, che restò fedele al suo principe,
seguendolo a Venezia e accettando, nel 1552, l’incarico di una missione diplomatica prima a
Ferrara, poi a Parigi. Nel 1554 Bernardo, con un sussidio di Sanseverino, si stabilì a Roma in un
appartamento nel palazzo del cardinale Ippolito II d’Este, sperando di essere raggiunto dai suoi.
Ma solo al decenne Torquato fu permesso di lasciare Napoli. Nel 1556 muore la madre (la dolorosa
perdita verrà evocata nella canzone Al Metauro (1578). Iniziano numerosi viaggi tra Bergamo,
Urbino, Venezia, Padova e Bologna. Nel 1562 dà alle stampe a Venezia al Rinaldo. Tra il 1562-1564
compone i Discorsi dell’arte poetica [intorno agli anni ’40 del ‘500 nasce un movimento di
riscoperta e di commento della Poetica Aristotelica]. Nel 1565 grazie all’intercessione del padre
entra al servizio di Luigi d’Este a Ferrara. Nel 1567 i 42 testi poetici di Tasso vengono inclusi nelle
Rime degli Accademici Eterei (= importanza delle Accademie improntate sul modello classico,
riunivano intellettuali, artisti e poeti). Nel 1569 muore il padre e intraprende un viaggio
diplomatico in Francia al seguito di Luigi d’Este. Nel 1572, rientrato in Italia, passa al servizio di
Alfonso II d’Este (dedicatario della sua opera = Gerusalemme liberata). Nel 1573 compone
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Letteratura Italiana

l’Aminta [favola pastorale = genere bucolico]. Nel 1579 viene fatto rinchiudere da Alfonso II
nell’Ospedale di Sant’Anna (uscirà solo nel 1586). Si dedica alla dialogistica. Nel 1581 viene
pubblicata la prima versione non autorizzata della Gerusalemme. Nel 1582 viene pubblicata l
tragedia Il Torrismondo, con il titolo Tragedia non finita. Naturalmente si tratta di una edizione non
autorizzata dal marito. Nel 1583 progetto di risistemazione delle Rime. Nel 1585 compone il
Discorso dell’arte del dialogo. Nel 1586 può finalmente abbandonare l’ospedale di Sant’Anna, per
intercessione di Vincenzo Gonzaga, principe di Mantova. Nel 1587 si trasferisce prima Roma e poi
a Napoli. Pubblica la Gerusalemme conquistata [del tutto diversa dalla Gerusalemme liberata]. Il
25 aprile del 1595 muore a Roma.
LA GERUSALEMME LIBERATA (Canto I, III, XII, 48-70)
Composizione → prima fase 1559-1560 (a Venezia 116 ottave) = Gierusalemme. Tra il 1566-1567
lettera a Ercole Rondinelli = stesura fino al sesto canto. Nel 1575 prima versione compiuta (due
problematiche per Tasso → ossessione per l’aderenza ai dettami Aristotelici e ossessione
all’ossequio alla religione). Tra il 1575-1576 “revisione romana” (Lettere poetiche).
Tre fasi compositive:
1. Fase alta = dagli anni ’60 alla revisione romana (1575-1576).
2. Fase beta = fase della revisione romana (manoscritto siglato Fr della Biblioteca Ariostea,
ms. II 475; trascritto da Scipione Gonzaga + correzioni autografe).
3. Fase gamma = mesi successivi alla “revisione romana” (2 manoscritti: N, della Biblioteca
Nazionale di Napoli; Es3, della Estense di Modena + edizione ferrarese curata da Febo
Bonnà, B1) – edizione più vicina a quella che leggiamo noi.
Edizioni → La Gierusalemme liberata, ouero il Goffredo del sig. Torquato Tasso. ... Di nuouo
ricorretto, et secondo le proprie copie dell'istesso autore ridotto a compimento tale, che non vi si
può altro più desiderare. Con gli argomenti del sig. Oratio Ariosti ... Aggiuntoui d’incerto autore.
L'allegorie à ciascun canto, per lo più tolte dall'istesso signor Tasso, In Parma, nella stamperia
d'Erasmo Viotto, 1581 / 1581 editio princeps: Gierusalemme liberata, poema heroico del signor
Torquato Tasso ... Tratta dal vero originale, con aggiunta di quanto manca nell'altre edittioni, con
l'allegoria dello stesso autore et con gli argomenti a ciascun canto del s. Horatio Ariosti, In Ferrara,
appresso gli heredi di Francesco de' Rossi, 1581 / 1584 Gierusalemme liberata poema heroico del
sig. Torquato Tasso ... Ridotta alla sua vera lettione secondo il proprio originale dello stesso autore,
& di nuouo ristampata, con gli argomenti a ciascun canto del signor Horatio Ariosti, & allegorie del
poema. Con la aggiunta di molte stanze, che dall'autore sono state rifiutate, et mutate a' suoi
luoghi, in Mantoua, per Francesco Osanna, 1584.
Titolo → La Gierusalemme liberata, ouero il Goffredo del sig. Torquato Tasso ... In Parma, nella
stamperia d'Erasmo Viotto, 1581.
Struttura → XX canti complessivi (organizzati secondo il modello aristotelico in = introduzione,
perturbazione, rivolgimento e fine).
 Canti I-III: segnati dallo sguardo divino che legittima le truppe cristiane e le guida sino alle
porte di Gerusalemme.

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Letteratura Italiana

 Canti IV-XIII: prende avvio con il concilio infernale che segna l’inizio dei tentativi delle forze
demoniache per indebolire e fiaccare i cristiani, tanto sul piano squisitamente militare,
quanto su quello privato e morale, nel tentativo vano di impedire la conquista di
Gerusalemme (Rinaldo si allontana dal campo, fallimento del primo tentativo di assediare
Gerusalemme e l’impossibilità di costruire nuove macchine da guerra a causa degli incanti
del magno Ismeno).
 Canti XIV-XVIII: segnati dal ritorno di Rinaldo, che dopo essere fuggito dal campo per aver
ucciso un altro cristiano, ha poi ceduto alle lusinghe dell’amore per la maga Armida.
 Canti XIX-XX: la battaglia finale per la conquista della città.
Temi → ultime fasi della Prima Crociata (1095-1099) = argomento storico, trattato “a giudicio di
Aristotele”. Armi e ideologia religiosa. Guerra tra bene e male (Dio vs Satana, cristiani vs
mussulmani, facoltà razionali vs tentazioni del mondo delle passioni terrene). Formazione di
Rinaldo.
Stile → stile magnifico, lessico raro e il “parlar disgiunto”. L’autocommento in Tasso è molto
importante. È in ottave.
[...] io troppo spesso uso il parlar disgiunto (si autocritica), cioè quello che si lega più tosto per
l’unione e la dependenza de’ sensi, che per copula o altra congiunzion di parole. L’imperfettione
v’è senza dubbio; pur ha molte volte sembianza di virtù, et è talora virtù apportatrice di grandezza:
ma l’errore consiste nella frequenza. Questo difetto ho io appreso della continua lettion di Virgilio,
nel quale (parlo dell’Eneide) è più ch’in alcun altro. [LP XXVII, 17-18]
Tecnica narrativa → Il lasciar l’auditor sospetto, procedendo dal confuso al distinto, dall’universale
a’ particolari, è arte perpetua di Virgilio; e questa è una delle cagioni che fa piacer tanto Eliodoro,
et è molte volte usata (male o bene, non so) in questo libro [Gerusalemme liberata]. Siale per
essempio Erminia, della quale e de gli amori della quale s’ha nel terzo canto alcuna ombra di
confusa notizia; più distinta cognizione se n’ha nel sesto; particolarissima se n’avrà per molte sue
parole nel penultimo canto [Lettere Poetiche X, 8-9]. [...] necessaria è in lui [il poeta] l’energia, la
quale sì con parole pone inanzi a gli occhi che pare altrui non di udirla, ma di vederla. E tanto più
nell’epopeia è necessaria questa virtù che nella tragedia, quanto quella è priva dell’aiuto de gli
istrioni e de la scena. [Discorsi dell’arte poetica]. → È come se ci fosse “un occhio” che si avvicina
man mano.
La Gerusalemme liberata, Canto I → proemio dell’opera e dedica ad Alfonso II d’Este. L’arcangelo
Gabriele, inviato da Dio, comunica a Goffredo che sarà il capitano della Crociata. Rassegna
dell’esercito cristiano, mentre a Gerusalemme re Aladino prepara la difesa della città. proposizione
della materia, invocazione e dedica.
Canto l'arme pietose e 'l capitano che 'l gran sepolcro liberò di Cristo. Molto egli oprò co 'l senno e
con la mano, molto soffrí nel glorioso acquisto; e in van l'Inferno vi s'oppose, e in vano s'armò
d'Asia e di Libia il popol misto. Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi segni ridusse i suoi compagni
erranti. O Musa, tu che di caduchi allori non circondi la fronte in Elicona, ma su nel cielo infra i
beati cori hai di stelle immortali aurea corona, tu spira al petto mio celesti ardori, tu rischiara il mio
canto, e tu perdona s'intesso fregi al ver, s'adorno in parte d'altri diletti, che de' tuoi, le carte. Sai
che là corre il mondo ove piú versi di sue dolcezze il lusinghier Parnaso, e che 'l vero, condito in

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Letteratura Italiana

molli versi, i piú schivi allettando ha persuaso. Cosí a l'egro fanciul porgiamo aspersi di soavi licor
gli orli del vaso: succhi amari ingannato intanto ei beve, e da l'inganno suo vita riceve.
Parafrasi = Canto [modello epico dell’Eneide] le imprese devote e il condottiero [Goffredo di
Buglione – eroe capace anche a livello strategico] che liberò il Santo Sepolcro. Egli compì molte
opere con la ragione e con le gesta militari, soffrì molto nella gloriosa conquista; invano l'Inferno
cercò di opporsi a lui e invano il popolo misto di Asia e Africa prese le armi. Il Cielo gli diede il suo
favore ed egli ricondusse sotto le insegne della Croce i suoi compagni allettati dal vizio [erranti =
fisicamente nello spazio e sottoposti a un’erranza morale]. O Musa [è una Musa della poesia
religiosa = Musa perfetta per quest’opera], tu che non ti circondi sul monte Elicona la fronte di
allori destinati a cadere, ma hai una corona dorata di stelle immortali su nel cielo, tra i cori dei
beati, tu ispira al mio petto ardori celesti, illumina il mio canto e perdonami se aggiungo
abbellimenti alla verità, se adorno il mio poema con altri piaceri oltre ai tuoi. Tu sai che i lettori i
rivolgono volentieri a quelle opere in cui il lusinghiero Parnaso [la poesia] riversa maggiormente le
sue dolcezze e che il vero, mescolato a piacevoli versi, ha persuaso i più ritrosi allettandoli. Così
porgiamo al fanciullo malato gli orli del bicchiere cosparsi di sostanze dolci: egli, ingannato, beve
una medicina amara, e dall’inganno riceve la vita [immagine che viene dal De Rerum Natura,
Lucrezio].
Tu, magnanimo Alfonso, il quale ritogli al furor di fortuna e guidi in porto me peregrino errante, e
fra gli scogli e fra l'onde agitato e quasi absorto, queste mie carte in lieta fronte accogli, che quasi
in voto a te sacrate i' porto. Forse un dí fia che la presaga penna osi scriver di te quel ch'or
n'accenna. È ben ragion, s'egli averrà ch'in pace il buon popol di Cristo unqua si veda, e con navi e
cavalli al fero Trace cerchi ritòr la grande ingiusta preda, ch'a te lo scettro in terra o, se ti piace,
l'alto imperio de' mari a te conceda. Emulo di Goffredo, i nostri carmi intanto ascolta, e
t'apparecchia a l'armi.
Parafrasi = Tu, nobile Alfonso II d'Este, che sottrai al furore della tempesta e guidi in porto me,
esule vagabondo, che sono sbattuto e quasi sommerso dalle onde tra gli scogli, ricevi con
benevolenza questa mia opera che ti offro come un dono consacrato a te. Forse un giorno avverrà
che la mia penna presaga osi scrivere sul tuo conto quello che ora a malapena accenna. Se mai
avverrà che il buon popolo cristiano ritrovi la pace interna, e cerchi di riconquistare con navi e
truppe di cavalleria al feroce Turco la grande e ingiusta preda [il Santo Sepolcro], è certo giusto
che conceda a te il comando in terra o, se preferisci, l'alto comando della flotta. Intanto ascolta i
miei versi, emulo di Goffredo, e preparati alla battaglia. [Alfonso II d’Este, cui viene dedicato il
poema = nato a Ferrara nel 1533 da Ercole II e Renata di Francia, divenne duca di Ferrara nel 1559]
Canto III, 1-8 → l’esercito crociato giunge a Gerusalemme e inizia i primi scontri coi pagani.
Erminia mostra ad Aladino dalle mura della città i capi cristiani. Breve scontro fra Tancredi e
Clorinda. Argante uccide Dudone. si svolgono le esequie funebri di Dudone.
Già l’aura messaggiera erasi desta a nunziar che se ne vien l’aurora: Ella intanto s’adorna, e l’aurea
testa di rose, colte in Paradiso, infiora; quando il campo, ch’ all’arme omai s’appresta, in voce
mormorava alta e sonora, e prevenia le trombe: e queste poi dier più lieti e canori i segni suoi. Il
saggio capitan con dolce morso i desideri lor guida e seconda, ché più facil saria svolger il corso
presso Cariddi a la volubil onda, o tardar Borea allor che scote il dorso de l'Appennino, e i legni in
mare affonda. Gli ordina, gl'incamina, e 'n suon gli regge rapido sì, ma rapido con legge. Ali ha
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Letteratura Italiana

ciascuno al core ed ali al piede, né del suo ratto andar però s'accorge; ma quando il sol gli aridi
campi fiede con raggi assai ferventi e in alto sorge, ecco apparir Gierusalem si vede, ecco additar
Gierusalem si scorge, ecco da mille voci unitamente Gierusalemme salutar si sente. Così di
naviganti audace stuolo, che mova a ricercar estranio lido, e in mar dubbioso e sotto ignoto polo
provi l'onde fallaci e 'l vento infido, s'al fin discopre il desiato suolo, il saluta da lunge in lieto grido,
e l'uno a l'altro il mostra, e intanto oblia la noia e 'l mal de la passata via.
Parafrasi = sta sorgendo il sole: dominano i colori oro e rosa. Nell’accampamento tutti si preparano
e armano rumorosamente ancora prima che squillino le trombe, che poi suoneranno
gioiosamente. Il saggio capitano (Goffredo) li guida e asseconda con ferma dolcezza, perché
sarebbe impossibile trattenerli. Li tiene in ordine e li guida con rapidità ma anche disciplina. Ogni
guerriero ha le ali al cuore e ai piedi, neppure si accorge della sua rapidità. Ma quando il sole
colpisce i campi aridi e sorge alto, ecco che Gerusalemme appare agli occhi dei guerrieri, che
additandola gridano in coro. Un paragone: allo stesso modo i navigatori in rotta per un approdo
sconosciuto, che hanno vissuto un viaggio pericoloso, quando scoprono l’approdo desiderato lo
salutano con liete grida e se lo mostrano l’un l’altro, e intanto dimenticano i disagi trascorsi.
Al gran piacer che quella prima vista dolcemente spirò ne l'altrui petto, alta contrizion successe,
mista di timoroso e riverente affetto. Osano a pena d'inalzar la vista vèr la città, di Cristo albergo
eletto, dove morì, dove sepolto fue, dove poi rivestì le membra sue. Sommessi accenti e tacite
parole, rotti singulti e flebili sospiri de la gente ch'in un s'allegra e duole, fan che per l'aria un
mormorio s'aggiri qual ne le folte selve udir si suole s'avien che tra le frondi il vento spiri, o quale
infra gli scogli o presso a i lidi sibila il mar percosso in rauchi stridi. Nudo ciascuno il piè calca il
sentiero, ché l'essempio de' duci ogn'altro move, serico fregio o d'or, piuma o cimiero superbo dal
suo capo ognun rimove; ed insieme del cor l'abito altero depone, e calde e pie lagrime piove. Pur
quasi al pianto abbia la via rinchiusa, così parlando ognun se stesso accusa: – Dunque ove tu,
Signor, di mille rivi sanguinosi il terren lasciasti asperso, d'amaro pianto almen duo fonti vivi in sì
acerba memoria oggi io non verso? Agghiacciato mio cor, ché non derivi per gli occhi e stilli in
lagrime converso? Duro mio cor, ché non ti spetri e frangi? Pianger ben merti ognor, s'ora non
piangi. –
Parafrasi = dopo il dolce piacere di quella prima vista giunge un’intensa contrizione mista di un
sentimento timoroso e riverente. Osano appena alzare gli occhi verso la città che venne scelta
come residenza da Cristo, dove morì, fu sepolto e poi risorse. Ora nell’esercito domina la
soggezione: i soldati bisbigliano, parlano poco, singhiozzano e sospirano per la commozione.
Nell’aria c’è solo un mormorio simile a quello del vento tra le foglie o del mare vicino alle spiagge.
Ogni soldato si toglie le scarpe (segno di rispetto), sotto l’esempio dei capi; si toglie l’elmo lussuoso
dalle decorazioni di seta/o d’oro piumato; e nello stesso tempo depone anche l’abito altero del
cuore, cioè fa un atto di contrizione, e piange calde lacrime devote e tra le lacrime accusa sé stesso
in questo modo: “In ogni luogo, o Signore, in cui ha bagnato la terra di mille rivoli di sangue, non
devo oggi versare almeno due fontane di lacrime in così amara memoria? Mio cuore di ghiaccio,
perché non ti sciogli e non sgoccioli in lacrime attraverso gli occhi? Duro mio cuore, perché non ti
intenerisci? Se non piangi ora, meriti di piangere per sempre”.

LEZIONE 26
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Letteratura Italiana

La Gerusalemme liberata, Canto III 16-31 → l’esercito crociato giunge a Gerusalemme e inizia i
primi scontri coi pagani. Erminia mostra ad Aladino dalle mura della città i capi cristiani. Breve
scontro fra Tancredi e Clorinda. Argante uccide Dudone. Si svolgono le esequie funebri di Dudone.
Tosto la preda al predator ritoglie; cede lo stuol de' Franchi a poco a poco, tanto ch'in cima a un
colle ei si raccoglie, ove aiutate son l'arme dal loco. Allor, sí come turbine si scioglie e cade da le
nubi aereo fuoco, il buon Tancredi, a cui Goffredo accenna, sua squadra mosse, ed arrestò
l'antenna. Porta sí salda la gran lancia, e in guisa vien feroce e leggiadro il giovenetto, che
veggendolo d'alto il re s'avisa che sia guerriero infra gli scelti eletto. Onde dice a colei ch'è seco
assisa, e che già sente palpitarsi il petto: «Ben conoscer déi tu per sí lungo uso ogni cristian,
benché ne l'arme chiuso. Chi è dunque costui, che cosí bene s'adatta in giostra, e fero in vista è
tanto?» A quella, in vece di risposta, viene su le labra un sospir, su gli occhi il pianto. Pur gli spirti e
le lagrime ritiene, ma non cosí che lor non mostri alquanto: ché gli occhi pregni un bel purpureo
giro tinse, e roco spuntò mezzo il sospiro. Poi gli dice infingevole, e nasconde sotto il manto de
l'odio altro desio: «Oimè! bene il conosco, ed ho ben donde fra mille riconoscerlo deggia io, ché
spesso il vidi i campi e le profonde fosse del sangue empir del popol mio. Ahi quanto è crudo nel
ferire! a piaga ch'ei faccia, erba non giova od arte maga.
Parafrasi = [Clorinda] ben presto sottrae ai predatori il bottino; le truppe dei Crociati cedono poco
a poco, finché si raccolgono in cima a un colle dove le armi sono aiutate dalla posizione. Allora,
come si scioglie la tempesta e cade il fulmine dalle nuvole, il buon Tancredi, al quale Goffredo fa
un cenno, fece avanzare la sua squadra e mise la lancia in resta. Il giovane regge così saldamente
la lancia e avanza così feroce e agile che il re [Aladino], vedendolo dall'alto delle mura, pensa che
sia un guerriero scelto tra i migliori. Allora dice a colei [Erminia] che gli siede accanto e che già
sente battere il cuore: «Tu devi certo conoscere ogni cristiano, anche se chiuso dall'armatura, dal
momento che sei stata a lungo in mezzo a loro. Chi è costui, che si prepara con tale maestria a
entrare in combattimento ed è così feroce alla vista?» A Erminia, invece della risposta, viene sulle
labbra un sospiro e agli occhi il pianto. Pure soffoca i sospiri e le lacrime, ma non al punto di non
mostrarne un poco: infatti un bel cerchio rossastro tinge gli occhi gonfi e il sospiro uscì un po'
rauco. Poi gli dice fingendo, e nascondendo i suoi veri desideri sotto l'apparenza dell'odio: «Ahimè!
lo conosco bene e ci sono ottime ragioni perché io lo riconosca tra mille, infatti lo vidi spesso
riempire i campi e le fosse profonde del sangue del mio popolo [ha assediato Antiochia]. Ah, come
è crudele nel ferire! Nessuna erba o arte magica cura le piaghe che lui infligge.
Egli è il prence Tancredi: oh prigioniero mio fosse un giorno! e no 'l vorrei già morto; vivo il vorrei,
perch'in me desse al fero desio dolce vendetta alcun conforto.» Cosí parlava, e de' suoi detti il vero
da chi l'udiva in altro senso è torto; e fuor n'uscí con le sue voci estreme misto un sospir che
'ndarno ella già preme. Clorinda intanto ad incontrar l'assalto va di Tancredi, e pon la lancia in
resta. Ferírsi a le visiere, e i tronchi in alto volaro e parte nuda ella ne resta; ché, rotti i lacci a
l'elmo suo, d'un salto (mirabil colpo!) ei le balzò di testa; e le chiome dorate al vento sparse,
giovane donna in mezzo 'l campo apparse. Lampeggiàr gli occhi, e folgoràr gli sguardi, dolci ne l'ira;
or che sarian nel riso? Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi? non riconosci tu l'altero viso?
Quest'è pur quel bel volto onde tutt'ardi; tuo core il dica, ov'è il suo essempio inciso. Questa è
colei che rinfrescar la fronte vedesti già nel solitario fonte. Ei ch'al cimiero ed al dipinto scudo non
badò prima, or lei veggendo impètra; ella quanto può meglio il capo ignudo si ricopre, e l'assale;

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Letteratura Italiana

ed ei s'arretra. Va contra gli altri, e rota il ferro crudo; ma però da lei pace non impetra, che
minacciosa il segue, e: «Volgi» grida; e di due morti in un punto lo sfida.
Parafrasi = Egli è il principe Tancredi: oh, se un giorno fosse mio prigioniero! e non lo vorrei già
morto; lo vorrei vivo, perché una dolce vendetta desse un qualche conforto al mio feroce
desiderio». Parlava così e la verità delle sue parole è fraintesa da chi le ascolta; e con le sue ultime
parole uscì fuori misto un sospiro che invano ella tenta di soffocare. Intanto Clorinda va a
fronteggiare l'assalto di Tancredi, e mette la lancia in resta. Si colpirono l'un l'altra nelle visiere
degli elmi e i frammenti delle lance spezzate volarono in alto e Clorinda resta spogliata in parte [il
capo rimane scoperto]; infatti, rottisi i lacci del suo elmo, esso le fu sbalzato via dalla testa (che
colpo formidabile!); e la donna sparse al vento i capelli biondi, mostrandosi quale giovane donna
nel campo di battaglia [Tasso riesce a farci vedere il manifestarsi della bellezza di Clorinda]. I suoi
occhi lampeggiarono e gettarono sguardi come fulmini, dolci nell'ira; cosa mai sarebbero se
sorridessero? Tancredi, a cosa pensi? cosa guardi? non riconosci il fiero viso? Questo è quel bel
volto del quale tu sei innamorato; lo dica il tuo cuore, dove la sua effigie è scolpita [primo incontro
tra i due – le armi di Clorinda sono caratterizzanti = elmo a forma di tigre + stemma dipinto sullo
scudo e a Tancredi bastano questi elementi per riconoscerla]. Questa è colei che tu vedesti mentre
si rinfrescava la fronte nella sorgente solitaria. Egli, che prima non badò al suo cimiero e allo scudo
dipinto, ora vedendola resta di sasso [ha difronte la sua amata durante un duello]; lei si ricopre
alla meglio il capo scoperto e lo assalta; e lui arretra. Va contro gli altri nemici, e fa roteare la
crudele spada; e tuttavia non ottiene la pace da lei, che lo segue minacciosa e gli grida «Girati!»,
sfidandolo a un duello che può causargli due morti al tempo stesso [fisica nella battaglia reale e
amorosa = il suo cuore].
Percosso, il cavalier non ripercote, né sí dal ferro a riguardarsi attende, come a guardar i begli
occhi e le gote ond'Amor l'arco inevitabil tende. Fra sé dicea: «Van le percosse vote talor, che la
sua destra armata stende; ma colpo mai del bello ignudo volto non cade in fallo, e sempre il cor
m'è colto.» Risolve al fin, benché pietà non spere, di non morir tacendo occulto amante. Vuol
ch'ella sappia ch'un prigion suo fère già inerme, e supplichevole e tremante; onde le dice: «O tu,
che mostri avere per nemico me sol fra turbe tante, usciam di questa mischia, ed in disparte i'
potrò teco, e tu meco provarte. Cosí me' si vedrà s'al tuo s'agguaglia il mio valore.» Ella accettò
l'invito: e come esser senz'elmo a lei non caglia, gía baldanzosa, ed ei seguia smarrito. Recata s'era
in atto di battaglia già la guerriera, e già l'avea ferito, quand'egli: «Or ferma,» disse «e siano fatti
anzi la pugna de la pugna i patti.» Fermossi, e lui di pauroso audace rendé in quel punto il
disperato amore. «I patti sian,» dicea «poi che tu pace meco non vuoi, che tu mi tragga il core. Il
mio cor, non piú mio, s'a te dispiace ch'egli piú viva, volontario more: è tuo gran tempo, e tempo è
ben che trarlo omai tu debbia, e non debb'io vietarlo.
Parafrasi = Il cavaliere, pur colpito, non risponde e non bada a schivare i colpi di spada, mentre è
attento a guardare i begli occhi e le guance da cui Amore tende in modo inevitabile il suo arco
[Tancredi è più attento alla bellezza di Clorinda che difendersi dai colpi afflitti da lei]. Fra sé diceva:
«I colpi che la sua mano destra infligge a volte vanno a vuoto; ma nessun colpo del suo bel viso
scoperto cade mai in fallo e centra sempre il mio cuore» [dialogo interiore di Tancredi, la scoccata
d’amore va sempre a segno rispetto a quella reale della battaglia]. Alla fine decide di non morire
come amante ignorato, anche se non spera alcuna pietà. Vuole che lei sappia che ferisce un suo
prigioniero già inerme, supplichevole e tremante [prigioniero = Erminia vuole catturare Tancredi e
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Letteratura Italiana

lui è già prigioniero di Clorinda = amore che ha un effetto paralizzante]; allora le dice: «O tu, che
mostri di avere solo me come nemico tra tanti soldati, usciamo dalla mischia e in disparte potremo
sfidarci a duello. Così si vedrà meglio se il mio valore è pari al tuo». Lei accettò l'invito: e come se
l'essere priva di elmo non le importasse, andava baldanzosa e seguiva lui che era smarrito. La
guerriera aveva già iniziato a battersi e l'aveva già colpito, quando lui disse: «Adesso fermati e
prima del duello fissiamo le regole del duello stesso» [prende tempo]. Lei si fermò e lui fu reso in
quel momento audace dall'amore disperato, mentre prima era pauroso. Diceva: «Visto che tu non
vuoi far pace con me, i patti siano che tu mi strappi il cuore. Il mio cuore, che non è più mio, se tu
non vuoi che viva ancora, muore volontariamente: è tuo da molto tempo ed è tempo che tu debba
prenderlo, né io posso impedirtelo [preferisce morire che privarsi del suo amore].
Ecco io chino le braccia, e t'appresento senza difesa il petto: or ché no 'l fiedi? vuoi ch'agevoli
l'opra? i' son contento trarmi l'usbergo or or, se nudo il chiedi.» Distinguea forse in piú duro
lamento i suoi dolori il misero Tancredi, ma calca l'impedisce intempestiva de' pagani e de' suoi
che soprarriva. Cedean cacciati da lo stuol cristiano i Palestini, o sia temenza od arte. Un de'
persecutori, uomo inumano, videle sventolar le chiome sparte, e da tergo in passando alzò la
mano per ferir lei ne la sua ignuda parte; ma Tancredi gridò, che se n'accorse, e con la spada a quel
gran colpo occorse. Pur non gí tutto in vano, e ne' confini del bianco collo il bel capo ferille. Fu
levissima piaga, e i biondi crini rosseggiaron cosí d'alquante stille, come rosseggia l'or che di rubini
per man d'illustre artefice sfaville. Ma il prence infuriato allor si strinse adosso a quel villano, e 'l
ferro spinse. Quel si dilegua, e questi acceso d'ira il segue, e van come per l'aria strale. Ella riman
sospesa, ed ambo mira lontani molto, né seguir le cale, ma co' suoi fuggitivi si ritira: talor mostra la
fronte e i Franchi assale; or si volge or rivolge, or fugge or fuga, né si può dir la sua caccia né fuga.
Parafrasi = Ecco che abbasso le braccia e ti presento inerme il petto: perché non lo colpisci? vuoi
che ti agevoli l'opera? io sono pronto a togliermi la corazza subito, se tu vuoi il mio petto nudo» [si
arrende a Clorinda]. Forse il misero Tancredi avrebbe spiegato meglio e con un lamento più duro la
sua pena d'amore, ma glielo impedì l'improvviso arrivo della calca dei pagani e dei suoi [Tancredi si
offre a Clorinda e improvvisamente sopravvengono i guerrieri dell’esercito = sospensione e non
sappiamo la risposta di Clorinda]. Gli abitanti della Palestina si ritiravano cacciati dalla schiera
cristiana, o per paura o per uno stratagemma. Uno degli inseguitori, uomo crudele, vide i capelli di
Clorinda sparsi al vento e passandole alle spalle alzò la mano per ferirla in un punto scoperto; ma
Tancredi, che se ne accorse, gridò e si oppose con la spada a quel gran colpo. Pure esso non andò
del tutto a vuoto e le ferì il bel capo al limite del bianco collo [sulla nuca]. Fu una ferita [ritorno
dell’immagine della piaga] lievissima e i capelli biondi furono arrossati di poche gocce di sangue,
come rosseggia l'oro che scintilla di rubini per mano di un abile orefice [idea di avvicinamento =
elementi della bellezza femminile durante un momento di battaglia]. Ma Tancredi, infuriato, allora
si scagliò addosso a quel soldato scortese e spinse avanti la spada. Quello scappa e Tancredi,
acceso di rabbia, lo insegue e i due vanno come una freccia nell'aria. Clorinda rimane sospesa e
osserva i due già molto lontani, né è interessata a seguirli, ma si ritira con i suoi in fuga: a volte
mostra la fronte e assalta i Crociati; ora si volta da una parte, ora dall'altra, ora fugge, ora mette in
fuga, e non si può dire né che dia la caccia, né che stia scappando.
La Gerusalemme liberata, canto XII → Clorinda e Argante in una sortita notturna incendiano la
torre dei cristiani. Duello tra Clorinda e Tancredi. Disperato, Tancredi è consolato da Pietro
l’eremita.
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Letteratura Italiana

Poi, come lupo tacito s’imbosca dopo occulto misfatto, e si desvia, da la confusion, da l’aura fosca
favorita e nascosa, ella se ‘n gía. Solo Tancredi avien che lei conosca; egli quivi è sorgiunto
alquanto pria; vi giunse allor ch’essa Arimon uccise: vide e segnolla, e dietro a lei si mise. Vuol ne
l’armi provarla: un uom la stima degno a cui sua virtú si paragone. Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone. Segue egli impetuoso, onde assai prima che giunga, in
guisa avien che d’armi suone, ch’ella si volge e grida: «O tu, che porte, che corri sí?» Risponde: «E
guerra e morte.» «Guerra e morte avrai;» disse «io non rifiuto darlati, se la cerchi», e ferma
attende. Non vuol Tancredi, che pedon veduto ha il suo nemico, usar cavallo, e scende. E impugna
l’uno e l’altro il ferro acuto, ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende; e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti. Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno teatro, opre sarian sí
memorande. Notte, che nel profondo oscuro seno chiudesti e ne l’oblio fatto sí grande, piacciati
ch’io ne ‘l tragga e ‘n bel sereno a le future età lo spieghi e mande. Viva la fama loro; e tra lor
gloria splenda del fosco tuo l’alta memoria.
Parafrasi = Poi, come un lupo silenzioso torna nel bosco dopo aver compiuto un misfatto
nell'oscurità, e lascia le vie consuete, così lei se ne andava col favore della confusione e del buio.
Solo Tancredi si accorge di lei; egli è sopraggiunto qui poco prima, quando lei ha ucciso Arimone:
l'ha vista e l'ha tenuta d'occhio, iniziando a seguirla. Vuole sfidarla a duello: pensa che sia un uomo
con cui possa degnamente misurare il proprio valore. Lei sta girando intorno alla collina montuosa
[il colle di Sion, dove sorge Gerusalemme] verso un'altra porta in cui poter entrare. Lui la segue
con impeto, per cui molto prima di raggiungerla le sue armi risuonano al punto che lei si volta e
grida: «Tu, che corri in tal modo, cosa porti?» Lui risponde: «Guerra e morte». Lei disse: «Avrai
guerra e morte, non rifiuto di dartela se la cerchi», e attende ferma. Tancredi, che ha visto il suo
nemico a piedi, non vuole usare il cavallo e smonta. Entrambi impugnano la spada acuminata e
aguzzano l'orgoglio, accendono l'ira; e vanno a scontrarsi in modo simile a due tori, gelosi e
ardenti d'ira. Gesta così memorabili sarebbero degne di svolgersi alla luce del sole, in un teatro
pieno. O notte, che hai richiuso nel suo seno profondo e oscuro e nell'oblio un fatto così grande,
accetta che io lo tragga [dal buio] e lo spieghi e tramandi in piena luce alle età future. Possa la loro
fama sopravvivere, e insieme alla loro gloria continui a risplendere anche l'alta memoria della tua
oscurità.
Non schivar, non parar, non ritirarsi voglion costor, né qui destrezza ha parte. Non danno i colpi or
finti, or pieni, or scarsi: toglie l’ombra e ‘l furor l’uso de l’arte. Odi le spade orribilmente urtarsi a
mezzo il ferro, il piè d’orma non parte; sempre è il piè fermo e la man sempre ‘n moto, né scende
taglio in van, né punta a vòto. L’onta irrita lo sdegno a la vendetta, e la vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta stimol novo s’aggiunge e cagion nova. D’or in or piú si
mesce e piú ristretta si fa la pugna, e spada oprar non giova: dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi. Tre volte il cavalier la donna stringe con le robuste
braccia, ed altrettante da que’ nodi tenaci ella si scinge, nodi di fer nemico e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge con molte piaghe; e stanco ed anelante e questi e quegli
al fin pur si ritira, e dopo lungo faticar respira. L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue su ‘l
pomo de la spada appoggia il peso. Già de l’ultima stella il raggio langue al primo albor ch’è in
oriente acceso. Vede Tancredi in maggior copia il sangue del suo nemico, e sé non tanto offeso. Ne
gode e superbisce. Oh nostra folle mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!

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Letteratura Italiana

Parafrasi = Costoro non vogliono schivare i colpi, né pararli, né ritrarsi, né la destrezza ha una parte
in questo duello. Non danno i colpi finti, pieni, scarsi: il buio e il furore non danno loro modo di
usare l'arte del duello. Si sentono le spade urtarsi in modo orribile al centro della lama, e il piede
non lascia la sua orma [i due restano saldi]; il piede è sempre fermo e la mano è sempre in
movimento, e i colpi di taglio o di punta non scendono mai a vuoto o invano. La vergogna [di
essere stati colpiti] irrita lo sdegno per vendicarsi e la vendetta rinnova poi la vergogna; per cui al
ferire e alla fretta si aggiungono sempre nuovi stimoli e nuove cause. Lo scontro si fa di momento
in momento più ravvicinato e ristretto e non è più possibile usare la spada: si colpiscono con le
else, e cozzano insieme con gli elmi e gli scudi, crudeli e spietati. Il cavaliere stringe per tre volte a
sé la donna con le braccia robuste, ed altrettante volte lei si scioglie da quelle strette vigorose, che
sono proprie di un nemico e non di un amante. Tornano a incrociare le spade ed entrambi le
bagnano [col sangue] di molte ferite; e alla fine entrambi si ritirano stanchi e stremati, e respirano
dopo una lunga fatica. Si guardano a vicenda e ognuno appoggia il peso del suo corpo dissanguato
sull'elsa della spada. Ormai si spegne raggio dell'ultima stella [Venere], al primo albeggiare nel
cielo d'oriente. Tancredi vede che il sangue versato dal suo nemico è più abbondante, mentre lui
non è ferito in modo altrettanto grave. Ne gode e ne insuperbisce. Oh quanto è folle la nostra
mente, che viene esaltata da ogni vento di fortuna!
Misero, di che godi? oh quanto mesti fiano i trionfi ed infelice il vanto! Gli occhi tuoi pagheran (se
in vita resti) di quel sangue ogni stilla un mar di pianto. Cosí tacendo e rimirando, questi sanguinosi
guerrier cessaro alquanto. Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse, perché il suo nome a lui l’altro
scoprisse: «Nostra sventura è ben che qui s’impieghi tanto valor, dove silenzio il copra. Ma poi che
sorte rea vien che ci neghi e lode e testimon degno de l’opra, pregoti (se fra l’arme han loco i
preghi) che ‘l tuo nome e ‘l tuo stato a me tu scopra, acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore, chi la
mia morte o la vittoria onore.» Risponde la feroce: «Indarno chiedi quel c’ho per uso di non far
palese. Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi un di quei due che la gran torre accese.» Arse di
sdegno a quel parlar Tancredi, e: «In mal punto il dicesti»; indi riprese «il tuo dir e ‘l tacer di par
m’alletta, barbaro discortese, a la vendetta.» Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta, benché debili in
guerra. Oh fera pugna, u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta, ove, in vece, d’entrambi il furor
pugna! Oh che sanguigna e spaziosa porta fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna, ne l’arme e ne
le carni! e se la vita non esce, sdegno tienla al petto unita.
Parafrasi = Misero, di cosa ti rallegri? Oh, quanto sarà triste il tuo trionfo e quanto infelice il tuo
vanto! I tuoi occhi pagheranno (sempre che sopravvivi) con un mare di pianto ogni goccia di quel
sangue. Così, tacendo e osservandosi, questi guerrieri insanguinati riposarono qualche tempo. Alla
fine Tancredi ruppe il silenzio e parlò, per far sì che l'altro rivelasse il suo nome: «È una sfortuna
per noi che sia speso tanto valore qui, dove è coperto dal silenzio. Ma poiché una sorte avversa ci
nega la lode e il pubblico degno delle nostre gesta, io ti prego (se in una battaglia le preghiere
hanno spazio) di rivelarmi il tuo nome e la tua condizione, affinché io sappia, vinto o vincitore, chi
onori la mia morte o la mia vittoria». La feroce guerriera risponde: «Invano mi chiedi quello che di
solito non rivelo. Ma chiunque io sia, tu vedi di fronte a te uno dei due che ha incendiato la grande
torre» [uno dei due musulmani che ha incendiato la torre]. Tancredi a quelle parole arse di sdegno
e riprese: «L'hai detto nel momento sbagliato; le tue parole e ciò che taci, barbaro scortese, mi
eccitano allo stesso modo alla vendetta». Nei loro cuori torna l'ira e li trasporta, anche se deboli,
allo scontro. Oh che battaglia feroce, dove ormai non ci sono più né l'arte del combattimento né la

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Letteratura Italiana

forza, e dove, invece, combatte il furore di entrambi! Oh quale apertura sanguinosa e spaziosa
[quale ferita] provoca l'una e l'altra spada, ovunque vada a segno, nell'armatura e nelle carni! E se
la vita non ne esce ancora, è lo sdegno che la tiene salda al petto.
Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto cessi, che tutto prima il volse e scosse, non s’accheta ei
però, ma ‘l suono e ‘l moto ritien de l’onde anco agitate e grosse, tal, se ben manca in lor co ‘l
sangue vòto quel vigor che le braccia a i colpi mosse, serbano ancor l’impeto primo, e vanno da
quel sospinti a giunger danno a danno. Ma ecco omai l’ora fatale è giunta che ‘l viver di Clorinda al
suo fin deve. Spinge egli il ferro nel bel sen di punta che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve; e la
veste, che d’or vago trapunta le mammelle stringea tenera e leve, l’empie d’un caldo fiume. Ella
già sente morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente. Segue egli la vittoria, e la trafitta vergine
minacciando incalza e preme. Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole
estreme; parole ch’a lei novo un spirto ditta, spirto di fé, di carità, di speme: virtú ch’or Dio le
infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella. «Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave, a l’alma sí; deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch’ogni
mia colpa lave.» In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave ch’al cor gli
scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
Parafrasi = Proprio come l'alto mar Egeo, dopo che l'Aquilone o il Noto, che prima l'hanno gonfiato
e mosso, hanno smesso di soffiare, non si acquieta subito, ma conserva ancora il suono e il moto
delle onde grosse e agitate, così, anche se ai due guerrieri manca col sangue versato quel vigore
che mosse le braccia ai primi colpi, essi conservano ancora il primo impeto e, spinti da quello,
vanno ad aggiungere danno a danno. Ma ecco che ormai è giunta l'ora fatale che deve porre fine
alla vita di Clorinda. Tancredi spinge nel suo bel seno la spada di punta, che vi si immerge e beve
avidamente il sangue [gioco pieno di allusione erotiche]; e le riempie la veste (che, ricamata di
bell'oro, stringeva tenera e lieve le sue mammelle) di un caldo fiume di sangue. Lei si sente morire
e il piede, debole e non più saldo, le viene meno [descrizione efficacissima]. Tancredi persegue la
vittoria e incalza e preme minacciando la vergine trafitta. Lei, mentre cadeva, muovendo la voce
afflitta, disse le sue ultime parole; parole che le vengono dettate da un nuovo spirito, uno spirito di
fede, di carità, di speranza [le tre virtù riconosciute a Clorinda nel momento della grande
conversione]: virtù che Dio adesso le infonde e, se in vita fu infedele, la vuole sua ancella [rimanda
alla Madonna = ancella di Cristo] nella morte. «Amico, hai vinto: io ti perdono... perdonami anche
tu, non al corpo che non teme nulla, ma all'anima; orsù, prega per lei e donami il battesimo che
lavi ogni mia colpa». In queste parole languide risuona qualcosa di lacrimevole e dolce, che gli
scende al cuore e smorza ogni sdegno, e spinge e invoglia i suoi occhi a piangere.

Poco quindi lontan nel sen del monte scaturia mormorando un picciol rio. Egli v’accorse e l’elmo
empié nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio e pio. Tremar sentí la man, mentre la fronte non
conosciuta ancor sciolse e scoprio. La vide, la conobbe, e restò senza e voce e moto. Ahi vista! ahi
conoscenza! Non morí già, ché sue virtuti accolse tutte in quel punto e in guardia al cor le mise, e
premendo il suo affanno a dar si volse vita con l’acqua a chi co ‘l ferro uccise. Mentre egli il suon
de’ sacri detti sciolse, colei di gioia trasmutossi, e rise; e in atto di morir lieto e vivace, dir parea:
«S’apre il cielo; io vado in pace.» D’un bel pallore ha il bianco volto asperso, come a’ gigli sarian
miste viole, e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso sembra per la pietate il cielo e ‘l sole; e la

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Letteratura Italiana

man nuda e fredda alzando verso il cavaliero in vece di parole gli dà pegno di pace. In questa
forma passa la bella donna, e par che dorma. Come l’alma gentile uscita ei vede, rallenta quel vigor
ch’avea raccolto; e l’imperio di sé libero cede al duol già fatto impetuoso e stolto, ch’al cor si
stringe e, chiusa in breve sede la vita, empie di morte i sensi e ‘l volto. Già simile a l’estinto il vivo
langue al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue.
Parafrasi = Poco lontano da qui, in un fianco del monte, scaturiva mormorando un piccolo ruscello.
Egli vi accorse e riempì l'elmo nella fonte, e poi tornò triste al suo grande e pio dovere [di
battezzare Clorinda]. Si sentì tremare la mano, mentre sciolse e scoprì la fronte della donna che
ancora non riconosceva. La vide e la riconobbe, restando ammutolito e impietrito [momento
drammatico, la riconosce quando ormai è troppo tardi e non può far niente per il suo corpo ma
per la sua anima sì = battesimo]. Ah cosa vide, chi riconobbe! Non morì subito, poiché in quel
momento raccolse tutte le sue virtù e le mise a sostegno del cuore, e soffocando la sua pena si
volse a dare la vita con l'acqua [del battesimo] a colei che aveva ucciso con la spada. Mentre lui
disse le sacre formule del battesimo, lei si dipinse di gioia e sorrise [momento di pacificazione
totale]; e mentre moriva in modo lieto e foriero di una nuova vita, sembrava dire: «Si apre il cielo,
io vado in pace [verso Dio]». Il suo volto bianco è cosparso di un bel pallore, come ai gigli
sarebbero miste delle viole, e fissa gli occhi al cielo, e questo e il sole sembrano rivolti a lei per
pietà; e alzando la mano nuda e fredda verso il cavaliere, gli fa un gesto di pace al posto delle
parole. Con questo aspetto la bella donna muore, e sembra che dorma. Lui, non appena vede che
la sua nobile anima è uscita dal corpo, allenta quel vigore che aveva raccolto; e cede il dominio di
sé, ormai libero, al dolore che è diventato impetuoso e folle, che si stringe intorno al cuore e,
chiusa la vita in un breve spazio, riempie di morte i sensi e il volto. Il vivo soffre ormai simile al
morto, nel colorito, nel silenzio, negli atti e nel sangue versato [quello che è “morto” è l’aggressore
= Tancredi].

LEZIONE 27
IL DECAMERON, GIOVANNI BOCCACCIO – modulo B
Giovanni Boccaccio nasce a Firenze o Certaldo nel 1313, figlio naturale di Boccaccio di Chellino
(ricco uomo d’affari e agente della compagnia mercantile dei Bardi). Nel 1327 si trasferisce a
Napoli con il padre, eletto consigliere e ciambellano del re Roberto d’Angiò. Nel 1327 venne
introdotto nel mondo della finanza, dal padre fu avviato agli studi di giurisprudenza; appassionata
storia d’amore con una donna celata sotto lo pseudonimo di Fiammetta. Entra in contatto con gli
intellettuali del tempo e scopre nelle lettere la propria vocazione. Scrive le prime opere = Caccia di
Diana (1334), Filocolo (1336), Filostrato (1335), Teseida (1339). Nel 1340 rientra a Firenze, a
seguito di difficoltà finanziare, città preda dei conflitti e della crisi economica. Scrive la Comedia
delle ninfe (1341), l’Amorosa visione (1342), Elegia di Madonna Fiammetta (1343). E infine il
Ninfale fiesolano (1344-6). Nel 1348 vi è la peste a Firenze = muore il padre; anche per la fama

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Letteratura Italiana

acquistata con le sue opere, ottiene vari incarichi da parte del Comune, soprattutto come
ambasciatore, missioni diplomatiche in Romagna, a Napoli, in Tirolo e ad Avignone. Nel 1353
conclude il Decameron, iniziato dopo la peste; dopo l’incontro con Petrarca, iniziò a comporre in
latino opere di varia erudizione, come Genealogie deorum gentilium, De casibus virorum illustrium
e De mulieribus claris. In volgare scrive invece il Corbaccio e il Trattatello in laude di Dante. Dal
1360 agli ultimi anni, ospita il maestro calabrese Leonzio Pilato, chiamato a Firenze per insegnare
greco antico e tradurre in latino le opere di Omero e Platone. Prende gli ordini minori, perché i
benefici gli avrebbero permesso di continuare i propri studi. Nel 1362 riprende l’attività
diplomatica come ambasciatore ad Avignone, Roma e Napoli. Dal 1371 si trasferì a Certaldo,
dedicandosi agli studi. Nel 1373 incarico del comune di Firenze, inizia pubbliche letture
commentate della Commedia, al canto XIII dell’Inferno dovette interrompere per le cattive
condizioni di salute. Muore a Certaldo il 21 dicembre del 1375.
Boccaccio è un poeta aperto alla modernità (= stile, narrazione e modo in cui tratta l’umanità) e
allo stesso tempo raffinato.
Le opere in prosa prima del Decameron:
Filocolo → (“fatica d’amore”, secondo un’errata etimologia dell’autore) romanzo in prosa in 5 libri,
fornito di cornice: Fiammetta prega Boccaccio di narrare la vicenda di Florio, figlio di un re
musulmano e Biancifiore, orfana cristiana: storia orientale da tempo diffusa in Francia e in Italia in
varie versioni: l’amore tra i due giovani è ostacolato dal padre di lui, che vende Biancifiore a dei
mercanti, Florio cambia il nome in Filocolo, resiste alle tentazioni sessuali e si mette alla sua
ricerca; la trova, scopre che anche lei è nobili natali. Il matrimonio e la conversione del principe
musulmano, il quale eredita i territori del padre ormai deceduto, concludono l’opera con un
classico lieto fine. L’ambientazione napoletana = sia la cornice sia la parte della trama si svolgono a
Napoli, dove giunge Florio: partecipa al gioco delle “questioni d’amore”: una brigata di giovani
discute di problematiche amorose. Temi = l’amore nasce dalla nobiltà dell’animo e non conosce
vincoli economici o sociali; il primo vero amore è nella fedeltà coniugale, mentre l’adulterio è da
condannare; il vero amore supera ogni ostacolo, anzi nelle prove e nelle difficoltà cresce e si
rafforza.
Elegia di madonna Fiammetta → romanzo in prosa: prologo e 9 capitoli = lungo monologo di
Fiammetta. Fiammetta racconta in prima persona d’essersi innamorata di un mercante fiorentino,
Panfilo che torna però a Firenze. Fiammetta soffre per il distacco, poi di gelosia alla notizia del
tradimento dell’amato; infine si riapre alla speranza nell’attesa del prossimo ritorno di Panfilo a
Napoli.
Il prosimetro e opere in prosa dopo il Decameron:
Ninfale d’Ameto o Comedia delle ninfe fiorentine prosimetro → Ameto, rozzo pastore incontra
sette bellissime ninfe (= ciascuna rappresenta una virtù) e inizia un cammino di raffinamento
interiore. Innamoratosi di Lia, giunge alla contemplazione della divinità. Temi = stilnovistici,
bellezza femminile che ispira nell’uomo l’amore.
Trattatello in laude di Dante → prima biografia dantesca, ad intento celebrativo più che
documentario, uso poco scrupoloso delle fonti storiche, prevalenza dell’aneddottica, anche
leggendaria.
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Letteratura Italiana

Corbaccio → incerta etimologia: dallo spagnolo corbacho, “frusta”, o dall’italiano “corvo”, o dal
latino corbacium, “cesta di letame” o anagramma imperfetto di Boccaccio. È un’opera satirica
contro le donne in prosa a carattere autobiografico: Boccaccio è innamorato di una bella vedova
che lo respinge; in sogno si ritrova in una selva dove l’anima del defunto marito di lei gli elenca i
difetti delle donne e lo invita a cercare negli studi la vera felicità. Tema = bersaglio è la cultura
cortese che nell’amore vedeva il culmine dell’esperienza esistenziale e artistica.
Le opere in versi (periodo napoletano dal 1334 al 1340):
Caccia di Diana → (1334) poema allegorico in 18 canti, in terzine dantesche; una battuta di caccia
con alcune nobildonne napoletane, che si ribellano a Diana per seguire Venere; come ricompensa
gli animali catturati si trasformano in giovani amanti. Tema = celebrazione dell’amore sensuale.
Filostrato → (1335 o 1339) “Vinto da amore” è un poema epico in 9 canti, in ottave, ispirato alla
Historia destructionis Troiae nella versione latina del siciliano Guido delle Colonne. Quando
Criseide tradisce Troilo, figlio di Priamo, con il greco Diomede, Troilo si getta in battaglia per
vendicarsi, ma muore per mano di Achille. Tema = a metà tra la lode realistica del fascino
femminile e misoginia medievale (donna lussuriosa e incosciente).
Teseida → (1340-41) è un poema epico in 12 libri, in ottave = due amici, Arcita e Palemone,
nell’Atene del mitico re Teseo (da cui il titolo) si contendono la mano di Emilia, sorella di Ippolita,
regina delle Amazzoni, sposa di Teseo. Sfidatisi a duello, pur mortalmente ferito, vince Arcita che,
sposa Emilia con la clausola che alla sua morte, sposi Palemone. Temi = la passione amorosa che
travolge ogni altro sentimento, anche quello dell’amicizia più sincera.
Le opere in versi (periodo fiorentino dal 1341 al 1346):
Amorosa visione (1341-1343) → poema didascalico-allegorico in terzine. Una donna gentile
propone in sogno al poeta un viaggio verso la vera felicità; giunti a un castello, gli mostra due
porte: una stretta conduce ai beni eterni e una ampia ai beni mondani. Il poeta entra nella porta
larga in due sale splendidamente affrescate, in cui sono illustrati i seguaci della Sapienza; coloro
che hanno aspirato alla gloria mondana; chi ha peccato d’avarizia; e infine il trionfo d’Amore.
Ninfale fiesolano (1344-1346) → poemetto in ottave di ambientazione agreste (campagne
fiesolane), favola eziologica sulle origini leggendarie di Fiesole e dei suoi fiumi. Il pastore Africo
innamorato supera le resistenze della ninfa Mensola, devota a Diana e obbligata alla castità;
Mensola, temendo l’ira di Diana, abbandona il pastore che si uccide gettandosi in un torrente che
prende da lui il nome. Scopertasi incinta, la ninfa in una grotta dà alla luce Pruneo, ma Diana la
tramuta in fiume che si ricongiunge al torrente Africo, mentre il bimbo è affidato alla madre di
Africo e sarà il fondatore di Fiesole.
Rime → raccolta di versi non sistematica dai sonetti giovanili ai componimento degli ultimi anni
alle ballate che concludono le dieci giornate del Decameron.
Le opere in latino (dopo il Decameron):
Buccolicum carmen (1346-8) → 16 carmina pastorali ispirati alle Bucoliche di Virgilio.
Genealogie deorum gentilium (1360) → compilazione antiquaria in 15 libri, ispirati alla mitologia
classica sulla base di fonti greche, latine, medievali e contemporanee. Boccaccio mostra
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Letteratura Italiana

straordinaria ed eclettica culturae coglie l’occasione per difendere la letterature, il cui compito è
trasmettere cultura (come fanno la filosofia e la teologia) ma in belle forma.
De casibus virorum illustrium (1360) → compilazione antiquaria in 9 libri, storie esemplari di
personaggi famosi, da Adamo ai contemporanei, caduti nella sventura per i loro vizi.
De mulieribus claris → 104 biografie di donne celebri, da Eva alle contemporanee, lo scopo è
quello di esaltare e celebrare le virtù femminili.

IL DECAMERON 1349-(1351) 1353


La peste del 1348 è il limite dopo il quale dobbiamo immaginare la composizione del Decameron.
Una versione pressoché ultima si attesta attorno agli anni ’50 del 1300.
Che cos’è una novella? La novella è una narrazione breve generalmente in prosa (a differenza dal
fabliau, dal lai e dalla nova), con personaggi umani (a differenza della favola esopica) e contenuti
verosimili (a differenza della fiaba) ma generalmente non storici (a differenza dell’aneddoto),
perlopiù senza finalità morali o conclusioni moraleggianti (a differenza dall’exemplum) – Cesare
Segre, La novella e i generi letterari.
Tratti peculiari della novella:
 BREVITAS – massimo di efficacia narrativa con il minor numero di parole impiegate.
 DELECTATIO – procura un piacere estetico assoluto, che non presuppone la moralisatio,
come succede nel racconto esemplare.
 LINEARITÀ – la linearità delle novelle è garantita dalla presenza della cornice.
 VANITAS – il valore della novella coincide con le parole che costituiscono il racconto, ed
esprime valori squisitamente letterari.
Boccaccio sa che ha a che fare con un genere fluido → “intendo di raccontare cento novelle, o
favole o parabole o istorie che dire le vogliamo”, Proemio = il genere novella trattiene alcune
caratteristiche dei generi brevi in prosa che la precedono (ha ancora qualcosa della favola,
dell’exemplum e dei racconti aneddotici). Resto comunque tuttora un genere difficile da
etichettare.
Composizione e circolazione → questione su cui gli studiosi si sono concentrati in maniera
sistematica. Boccaccio inizia a scrivere il Decameron dopo il 1348, dopo lo scoppio della peste
nera. Post 1348-1351/1353 (all’inizio degli anni ’50 del 1300). Ur-Decameron 1341-1345 (alcune
novelle si pensa che siano state scritte prima del 1348). 1349-1360 ca. (ipotesi minoritaria, non
molto credibile).
Tradizione manoscritta (XIV-XV)→ 53 manoscritti (+ 8 miscellanee). Proto-diffusione (1360-1375)
= 4 codici. Prima diffusione (1376-1425) = 19 codici (l’opera piace e viene copiata). Seconda
diffusione (1426-1490) = 30 codici.
IL MANOSCRITTO HAMILTON 90 → è un codice autografo (ultima versione dell’opera) = contiene
degli errori di copiatura (inizialmente non si pensava fosse di mano propria di Boccaccio propria
per la presenza di questi errori → Boccaccio era un “cattivo copista” di sé stesso). I tratti di questo

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Letteratura Italiana

libro ci dicono molto della volontà dell’opera e dell’autore. Ha il confezionamento di quello che
per tradizione del XIV secolo era il libro scientifico universitario, con il testo disposto su due
colonne, di grande formato e con una grafia semigotica (elegante). Abbiamo una raccolta di
novelle che viene presentata con l’aspetto di un libro scientifico universitario. Il suo autore, nel
momento in cui lo copia in questo modo e dandogli questo aspetto, sta investendo moltissimo su
quest’opera poiché non è un’opera di vero diletto, c’è molto di più → c’è un investimento sui
contenuti del libro. Come si presenta il Decameron? All’interno della pagina abbiamo due sezioni
che emergono per l’uso dell’inchiostro rosso → da qui viene l’idea della rubrica. Nella
rappresentazione grafica dei contenuti, Boccaccio presta molta attenzione a dare risalto a questi
elementi che fanno parte dell’organizzazione del testo stesso. Abbiamo le rubriche che ci
informano sempre sui contenuti delle singole giornate (inizio e fine di una giornata) e delle
rubriche che riguardano i contenuti delle singole novelle (questa novella parla di…). Gli elementi
grafici, puramente formali di rappresentazione del testo, rendono chiara al lettore l’architettura
del testo (= ogni lettore può vedere come i contenuti si organizzano all’interno del testo).
Boccaccio va ben oltre a tutto questo e spiccano all’interno delle pagine le CAPILETTERE → iniziali
che possono essere molto decorate. Sono ben distinguibili le iniziali con cui si apre la cornice della
giornata e l’iniziale con cui inizia la novella (= raccordo fra la cornice e la novella stessa → il
novellatore introduce i contenuti della novella). Oltre a queste due iniziali ne troviamo un’altra,
più piccola, con cui inizia la novella vera e propria. Boccaccio fa un grandissimo investimento
anche a livello grafico = rendere evidente nel suo libro che non è una semplice raccolta casuale di
racconti ma qualcosa di ben organizzato, carico di significati. Inoltre, a piè di pagine si trovano dei
disegnini → Boccaccio come scrittore ed artista = poeta con un doppio talento.
Titolo → “Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto, nel quale si
contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini” – Firenze,
Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Pluteo 42. 1 (c. 5r – manoscritto curatissimo). Decameròn →
è un termine composto di origine greca = “dieci giorni” [δέκα ἡμερῶν], sul modello del titolo
dell’Hexameron di Sant’Ambrogio (340ca. – 397), che racconta i sei giorni della creazione della
Terra da parte di Dio. Principe Galeotto? Allusione all’Inferno V “Galeotto fu ‘l libro…” → idea di
una letteratura fortemente compromessa con il diletto e sembra quasi che a quest’ultimo venga
data una sua legittimità = è come se dichiararsi simile al libro Galeotto per i due amanti di Rimini o
simile alla letteratura tout court per le lettrici di tutti i tempi non sia qualcosa di negativo ma
qualcosa da esporre → una letteratura per diletto che ha una sua autorizzazione e legittimità. Il
titolo dà anche una spiegazione sull’organizzazione → 100 novelle (= riferimento a Dante con il
numero 100) in 10 giorni da 7 donne e 3 uomini.
STRUTTURA:
1. Primo livello = la voce dell’autore (Proemio, Introduzione alla Quarta Giornata,
Conclusione dell’autore).
2. Secondo livello = la cornice e la brigata (7 donne = Pampinea, Filomena, Neifile,
Fiammetta, Elissa, Lauretta, Emilia e 3 uomini = Filostrato, Dioneo, Panfilo → si tratta di
maschere per proteggere le identità dei personaggi). È l’unico personaggio che, grazie a
uno speciale privilegio, può sottrarsi al tema imposto ai novellatori dal re/regina della
giornata – narra sempre liberamente.
3. Terzo livello = le novelle narrate.
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Letteratura Italiana

4. Quarto livello = le novelle nelle novelle → i personaggi delle novelle si fanno narratori
(Melchisedech, I 3; Bergamino, I, 7).
Melchisedech giudeo con una novella di tre anella cessa un gran pericolo dal Saladino
apparecchiatogli:
“Valente uomo, io ho da più persone inteso che tu se’ savissimo e nelle cose di Dio senti molto
avanti; e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi tu reputi la verace, o la giudaica o la
saracina o la cristiana (= Qual è delle tre religioni monoteiste quella vera?). Il giudeo, il quale
veramente era savio uomo, s’avisò troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle parole
per dovergli muovere alcuna quistione, e pensò non potere alcuna di queste tre più l’una che
l’altre lodare, che il Saladino non avesse la sua intenzione; per che, come colui il qual pareva
d’aver bisogno di risposta per la quale preso non potesse essere, aguzzato lo ’ngegno, gli venne
prestamente avanti quello che dir dovesse; e disse: “Signor mio, la quistione la qual voi mi fate è
bella, e a volervene dire ciò che io ne sento mi vi convien dire una novelletta (= vezzeggiativo
come arma di difesa potentissima del giudeo), qual voi udirete. Se io non erro, io mi ricordo aver
molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu già, il quale, intra l’altre gioie più care che nel
suo tesoro avesse, era uno anello bellissimo e prezioso; al quale per lo suo valore e per la sua
bellezza volendo fare onore e in perpetuo lasciarlo ne’ suoi discendenti, ordinò che colui de’ suoi
figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli da lui, fosse questo anello trovato, che colui s’intendesse
essere il suo erede e dovesse da tutti gli altri esser come maggiore onorato e reverito. E colui al
quale da costui fu lasciato tenne simigliante ordine ne’ suoi discendenti, e così fece come fatto
avea il suo predecessore; e in brieve andò questo anello di mano in mano a molti successori, e
ultimamente pervenne alle mani a uno il quale avea tre figliuoli belli e virtuosi e molto al padre
loro obedienti, per la qual cosa tutti e tre parimente gli amava. E i giovani, li quali la consuetudine
dello anello sapevano, sì come vaghi ciascuno d’essere il più onorato tra’ suoi, ciascun per sé,
come meglio sapeva, pregava il padre, il quale era già vecchio, che quando a morte venisse a lui
quello anello lasciasse. Il valente uomo, che parimente tutti gli amava né sapeva esso medesimo
eleggere a quale più tosto lasciar lo volesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e
tre sodisfare: e segretamente a un buon maestro ne fece fare due altri, li quali sì furono simiglianti
al primiero, che esso medesimo che fatti gli aveva fare appena conosceva qual si fosse il vero; e
venendo a morte, segretamente diede il suo a ciascun de’ figliuoli (= il padre fece fare una copia di
questo anello in modo da poterlo dare a tutti e tre i figli). Li quali, dopo la morte del padre,
volendo ciascuno la eredità e l’onore occupare e l’uno negandola all’altro, in testimonanza di
dover ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il suo anello (= pensano di avere la prova
di questa eredità); e trovatisi gli anelli sì simili l’uno all’altro (= metafora → i tre anelli sono le tre
religioni), che qual fosse il vero non si sapeva cognoscere, si rimase la quistione, qual fosse il vero
erede del padre, in pendente: e ancor pende. E così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli
date da Dio padre, delle quali la quistion proponeste: ciascun la sua eredità, la sua vera legge e i
suoi comandamenti dirittamente si crede avere e fare, ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancora
ne pende la quistione.” (= strumento attraverso il quale il Saladino si rende conto di avere davanti
un uomo intelligente e acuto e gli svela la ragione per cui l’ha convocato e se lo fa amico).
→ La giornata prima è a tema libero ma comunque qui emergono due temi importanti = rapporti
con la religione e le religioni + l’arte della parola, la virtù del saper parlare e di come questa faccia
parte dell’ingegno. Il Saladino (accumulatore di potere e di conquista) a un certo punto si rende
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Letteratura Italiana

conto di essere a corto di denaro e viene a sapere di questo ebreo che presta usura ad Alessandria
e pensa di poterlo sfruttare per avere supporto economico. Lo fa cercando di escogitare un
tranello per farlo cadere in trappola ma l’astutissimo Melchidesech non ci cadrà e si metterà in
salvo narrando una novella. È la messa in scena delle capacità della narrazione = la potenza del
narrare che diventa interna a una narrazione.
TEMI: Fortuna (II), Ingegno (III, VI, VII, VIII), Amore (IV, V), Virtù (X)

GIORNATA RE/REGINA TEMA


1° Giornata Pampinea Libero
2° Giornata Filomena Il potere della fortuna
3° Giornata Neifile Il potere dell’ingegno
4° Giornata Filostrato Amori infelici
5° Giornata Fiammetta Amori felici
6° Giornata Elissa Motti di spirito e risposte argute
7° Giornata Dioneo Beffe delle mogli ai mariti
8° Giornata Lauretta Beffe di qualunque tipo
9° Giornata Emilia Libero
10° Giornata Panfilio Esempi di liberalità

II: incomincia la Seconda, nella quale, sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse
cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine.
III: incomincia la Terza, nella quale si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi alcuna cosa
molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse.
IV: incomincia la Quarta, nella quale, sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro li cui
amori ebbero infelice fine.
V: incomincia la Quinta, nella quale, sotto il reggimento di Fiammetta, si ragiona di ciò che a alcuno
amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse.
VI: incomincia la Sesta, nella quale, sotto il reggimento d’Elissa, si ragiona di chi con alcun
leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o
pericolo o scorno.
VII: incomincia la Settima, nella quale, sotto il reggimento di Dioneo, si ragiona delle beffe, le quali
o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a’ suoi mariti, senza essersene
avveduti o sì.
VIII: incomincia l’Ottava, nella quale, sotto il reggimento di Lauretta, si ragiona di quelle beffe che
tutto il giorno o donna a uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno.
X: incomincia la Decima ed ultima, nella quale, sotto il reggimento di Panfilo, si ragiona di chi
liberalmente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa.
Ambientazione → i dieci giovani si trattengono fuori città per due settimane in tutto, da mercoledì
a martedì, e si dedicano al racconto delle novelle tutti i giorni tranne il venerdì (= giorno di lutto
per la cristianità) e il sabato. Nella terza giornata (domenica) i dieci giovani si spostano dalla villa in
cui si sono rifugiati nelle prime due giornate in un’altra residenza [viene descritta l’armonia del
giardino = cornice, locus amoenus, è il luogo perfetto per il narrare, per il raccontare] di uno di
loro, mentre le novelle della settima giornata (giovedì) vengono narrate nella Valle delle Donne
[valore simbolico → sembra riprendere una sezione delle Metamorfosi di Ovidio in cui si parla del
mito di Atteone = dopo aver visto Diana che fa il bagno nuda, viene trasformato da cacciatore a
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Letteratura Italiana

preda. Qui, la Valle delle Donne è un luogo esclusivo = le donne della brigata fanno il bagno senza
essere viste dagli uomini → bagno come cerimoniale di purificazione].
Modelli:
 Testi di origine orientale e medievale: Calila e Dimma, il Sendebar, le Mille e una notte e la
Storia di Barlaam e Josapht.
 Fonti classiche: Eneide e Georgiche di Virgilio, Ars poetica di Orazio, Le Metamorfosi e i
Tristia di Ovidio; le Satire di Giovenale; il Thyestes e Le epistulae ad Lucilium e il De
beneficiis di Seneca…
 Testi biblici e patristici: Le lettere di san Paolo; l’Hexameron di Sant’Ambrogio; il Civitate
Dei di Sant’Agostino; la Summa Theologiae di San Tommaso e il suo Commento all’etica
Nicomachea di Aristotele.
 Testi storici: l’Historia Longobardorum di Paolo Diacono; Historia destructionis Troiae di
Guido delle Colonne.
 Testi due-trecenteschi: il Novellino, la Divina Commedia, l’Africa e Rerum memorandarum
di Petrarca.
Lingua e stile → prosa scorrevole e piana, lingua perlopiù vicina all’uso moderno = fiorentino due-
trecentesco, mimesi dell’oralità (comico), registro colto e aulico (ambientazione più elevata e parti
di maggior impegno morale e concettuale), medietas.
LEZIONE 28
LA STRUTTURA DELL’OPERA → questione fondamentale, grande investimento da parte di
Boccaccio stesso = la struttura deve essere parlante. I livelli in cui viene organizzata, sono 3 o 4:
1. Prende la parola l’autore = per spiegare al proprio lettore e per difendersi – motivazione e
giustificazione delle proprie scelte.
2. Vero e propria della cornice = avviene l’atto della narrazione. Nella costruzione della
cornice l’autore prende parola = descrive la peste, il contesto… L’azione del raccontare, il
narrare e la sua messa in scena sono al centro della costruzione della cornice stessa =
spazio fondamentale per capire quest’opera (= insieme di racconti raccontati dentro la
cornice).
3. Il cuore dell’opera = le novelle (sono tantissimi i rimandi dall’una all’altra → architettura
studiatissima in cui tutte le parti stanno insieme).
4. Livello interno alle novelle stesse → i personaggi delle novelle prendono la parola e usano il
novellare come strumento per dimostrare qualcosa, per “difendersi”.
PRIMO LIVELLO → la voce dell’autore (Proemio, Introduzione alla quarta giornata, Conclusione
dell’autore). L’autore è Giovanni Boccaccio ma è un Giovanni Boccaccio che si fa personaggio e che
difende la propria autorità = spiega le ragioni e per farsi scudo agli attacchi e all’invidia (= vento
dell’invidia che soffia verso gli autori → tema tipico del secolo).
PROEMIO
Il titolo prelude alla scrittura del proemio. Si parla di peritesto, soglia, ingresso all’opera e al testo
stesso in cui l’autore “fa tante cose”. Nonostante il testo sia molto contenuto, l’autore ci parla
delle ragioni stesse di quest’opera, del destinatario e dei contenuti.
112
Letteratura Italiana

Ragioni dell’opera – Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona
stea bene, a coloro è massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e
hannol trovato in alcuni; fra' quali, se alcuno mai n'ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette
piacere, io sono uno di quegli [lingua diversificata, ha dei picchi alti ma allo stesso tempo cerca di
essere vicina a una via di mezzo]. Per ciò che, dalla mia prima giovinezza infino a questo tempo
oltre modo essendo acceso stato d'altissimo e nobile amore, forse piú assai che alla mia bassa
condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e
alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto piú reputato, nondimeno mi fu egli di
grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soverchio fuoco
nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine
mi lasciava un tempo stare, piú di noia che bisogno non m'era spesse volte sentir mi facea. Nella
qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d'alcuno amico le sue laudevoli
consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io non sia morto.
Ma sí come a Colui piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le
cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn'altro fervente e il quale niuna forza di
proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva
potuto né rompere né piegare, per se medesimo in processo di tempo si diminuí in guisa, che sol
di sé nella mente m'ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo
non si mette ne' suoi piú cupi pelaghi navigando; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno
togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso.
→ La compassione per chi soffre è un sentimento naturale (due riferimenti → storia della presa di
Troia di Guido dalle Colonne = è Elena a prendere la parola / Sant’Agostino invita ad avere
compassione per gli afflitti): e per quanto sia opportuno chiederlo a tutti, si chiede maggiormente
a coloro che hanno già ricevuto il conforto altrui; se fra questi c’è mai stato qualcuno che ne ha
avuto bisogno, che ha faticato per averlo o che ne ha tratto piacere, io sono uno di quelli. Poiché,
essendo stato preso da un amore nobile ed alto (altissimo e nobile = donna di rango e di virtù
elevata) dalla giovinezza fino ad ora, forse più di quanto sembrerebbe giusto aspettarsi, nel
raccontarlo, da uno della mia bassa condizione, sebbene presso coloro che erano assennati ed alla
cui conoscenza arrivò io ne fossi lodato e meglio considerato, ciononostante questo amore mi fece
soffrire con grande fatica, non per crudeltà della donna amata, ma per il fuoco incontrollato nella
mente trattenuto da un appetito non regolato: il quale, poiché non mi lasciava stare a nessuna
condizione, mi provocava più dolore del dovuto. In questa sofferenza mi diedero molto sollievo le
parole dolci di qualche amico e le sue consolazioni degne di lode, ed io sono convinto che è grazie
a quelle che non sono morto (la sofferenza d’amore è stata contenuta da queste parole di
conforto che sono venute dagli amici). Ma così come vuole Dio che, essendo infinito, decise che
per legge tutte le cose del mondo hanno fine, il mio amore, che bruciava più di ogni altro e che
neppure la forza dei propositi, delle decisioni, della chiara vergogna, o di qualsiasi pericolo ne
sarebbe derivato, avevano potuto annullare o scalfire, diminuì da solo con il tempo, di modo che
ora mi ha lasciato di sé nella mente soltanto quel piacere che è solito donare a chi non si perde
troppo nei suoi cupi oceani nel navigare; poiché mentre prima era solito farmi soffrire, una volta
scacciato ogni affanno, sento che ne è rimasta solo la dolcezza.
Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de' benefici già ricevuti,
datimi da coloro a' quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie fatiche: né

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Letteratura Italiana

passerà mai, sí come io credo, se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo,
trall'altre virtú è sommamente da commendare e il contrario da biasimare, per non parere ingrato
ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti,
ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono, alli quali per avventura per lo lor
senno o per la loro buona ventura non abisogna, a quegli almeno a' quali fa luogo, alcuno
alleggiamento prestare. E quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa
essere e sia a' bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi piú tosto porgere dove il
bisogno apparisce maggiore, sí perché piú utilità vi farà e sí ancora perché piú vi fia caro avuto.
→ Ma sebbene se ne sia andata la sofferenza, non per questo è sparito anche il ricordo dell’aiuto
ricevuto da coloro ai quali pesavano i miei affanni per il conforto che mi avevano portato; e né
passerà mai, come io credo, se non con la morte. E poiché la gratitudine, per come la penso, è da
lodare più delle altre virtù ed il suo contrario è da condannare, per non sembrare ingrato mi sono
proposto di concedere qualche conforto, per ciò che ho, in cambio di ciò che ho ricevuto, ora che
posso dirmi libero, se non a coloro che mi aiutarono, ai quali forse non occorre a causa della loro
furbizia o per la loro fortuna, almeno a quelli che ne hanno bisogno. E sebbene il mio sostegno, o
conforto che vogliamo dire, possa essere e sia molto poco per i bisognosi, tuttavia ritengo che
quello si debba fornire di più lì dove il bisogno appare maggiore, perché sarà sia più utile che più
apprezzato.
Destinatario/ie dell’opera – E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto piú alle vaghe
donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro a' dilicati petti, temendo e vergognando,
tengono l'amorose fiamme nascose, le quali quanto piú di forza abbian che le palesi coloro il sanno
che l'hanno provate: e oltre a ciò, ristrette da' voleri, da' piaceri, da' comandamenti de' padri, delle
madri, de' fratelli e de' mariti, il piú del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse
dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo
diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia,
mossa da focoso disio, sopraviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori,
se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini a
sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sí come noi possiamo apertamente
vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da
alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l'andare a torno, udire e
veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de' quali modi
ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l'animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo
almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion
sopraviene o diventa la noia minore.
→ E chi negherà che questo aiuto, per quanto possa essere limitato, debba essere donato molto
più alle donne leggiadre che agli uomini (domanda retorica)? Queste, dentro i petti delicati,
temendo e con vergogna, tengono nascoste le fiamme dell’amore, e sono coloro che li hanno
provati che sanno quanta maggiore forza abbiano rispetto agli amori palesi: ed oltre a questo,
costrette dai voleri, dai desideri, dagli obblighi dei padri, delle madri, dei fratelli e dei mariti,
stanno chiuse per la maggior parte del tempo nello spazio ristretto delle loro stanze sedendo come
per ozio (= causa di sofferenza), che vogliano o non vogliano nella stessa ora, portando con sé
diversi pensieri, i quali non è sempre detto che siano allegri. E se per quei pensieri nasce nelle loro
menti qualche inquietudine, spinta da un focoso desiderio, conviene che lì resti se non è scacciato
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Letteratura Italiana

da nuovi pensieri: senza contare che esse sono molto meno forti degli uomini nel sopportare (le
donne sono meno forti degli uomini nel sostenere la passione amorosa = sono disposte a
soccombere alla passione amorosa); questo non accade negli uomini innamorati, come noi
possiamo vedere. Essi se sono afflitti da qualche tristezza o peso nei pensieri, hanno molti modi
per mitigarli o scacciarli, poiché a loro non è impedito, se vogliono, di andare in giro, vedere e
sentire molte cose, andare a caccia, catturare uccelli, pescare, cavalcare, giocare, far commercio: e
attraverso queste distrazioni ognuno ha modo di concentrare, o del tutto o in parte, l’animo su di
sé e tenerlo lontano dal doloroso pensiero almeno per qualche intervallo di tempo, durante il
quale, in un modo o nell’altro, o arriva una consolazione o il dolore diminuisce.
Contenuto dell’opera – Adunque, acciò che in parte per me s'amendi il peccato della fortuna, la
quale dove meno era di forza, sí come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi piú avara fu di
sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all'altre è assai l'ago e 'l fuso e
l'arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo,
raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso
tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor
diletto. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d'amore e altri fortunati avvenimenti si
vederanno cosí ne' moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che
queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio
potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente
da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se
avviene, che voglia Idio che cosí sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da' suoi
legami m'ha conceduto il potere attendere a' lor piaceri.
→ Dunque, affinché attraverso me si ponga in parte rimedio all’errore della sorte, la quale fu più
avara nell’aiuto lì dove c’era meno forza, così come noi vediamo nelle dolci donne, per soccorso e
per aiuto a quelle che amano, poiché alle altre bastano ago, fuso ed arcolaio, intendo raccontare
cento novelle o favole o parabole o storie che le vogliamo chiamare, raccontate in dieci giorni da
una nobile compagnia di setta dame e tre ragazzi unitasi nel tempo passato della pestilenza, ed
alcune canzonette cantate per svago dalle suddette dame. In queste novelle si vedranno storie
d’amore tristi o liete e altre avventure, avvenute sia nel tempo attuale che in passato, dalle quali le
suddette donne, che le leggeranno, potranno trarre allo stesso modo piacere per le cose divertenti
in esse raccontate e consigli utili, in quanto potranno sapere ciò che si deve evitare ed allo stesso
modo ciò che bisogna seguire: e non credo che questi pensieri possano arrivare senza che le loro
pene se ne vadano. E se questo avviene, e voglia Dio che sia così, che ringrazino Amore che,
liberandomi dalle sue catene, mi ha concesso il potere di soddisfare i loro desideri.
INTRODUZIONE ALLA QUARTA GIORNATA
L’autore prende la parola per difendersi da alcune cose + Novella delle papere (= centunesima
novella raccontata dall’autore stesso).
[rubrica della Giornata] Finisce la Terza giornata del Decameron: e incomincia la Quarta, nella
quale, sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine.
Parafrasi = Carissime donne, sia per le parole degli uomini saggi sia per le cose che ho visto e letto
(esperienza diretta e indiretta che il saggio acquisisce attraverso la lettura), per queste due

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Letteratura Italiana

autorità pensavo che l’impetuoso e ardente vento dell’invidia non dovesse percuotere se non le
torri più alte (metafora = se l’invidia è un vento, pensavo che colpisse le cime più alte = persone
più in vista) o le cime più elevate degli alberi: ma quello che io pensavo è stato ragione d’inganno.
Perciò, io che ho sempre voluto schivare il fiero impeto di questo rabbioso spirito, non ho
semplicemente attraverso le zone pianeggianti ma sono andato nel profondo delle valli (per non
essere colpito dall’invidia non è stato in alto ma in basso = riferimento allo stile dell’opera); questo
mio desiderio di stare in basso per non essere colpito dall’invidia tutti lo possono guardare, le
novellette sono in fiorentino volgare e ho scelto la prosa e ho scritto un’opera senza titolo, ma in
uno stile umilissimo e dismesso. Nonostante tutto questo, non ho potuto evitare di essere agitato
da questo vento, anzi quasi del tutto sradicato e lacerato dai morsi dell’invidia; alla fine sono
arrivato a quest’altra saggia conclusione che soltanto la miseria non causa invidia.
Quali sono, dunque, le accuse che vengono dirette all’autore e alle novelle?
1. “Voi mi piacete troppo” [donne]
2. “Che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi di
commendarvi” [che non è onesto che io prenda tanto piacere nel piacervi, nel consolarvi e
nel lodarvi]
3. “Che alla mia età non sta bene l’andare ormai dietro a queste cose” [il Boccaccio del
Decameron è più maturo]
4. “Che io farei più saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance
mescolarmi tra voi” [farei in modo più saggio a starmene con le Muse in Parnaso =
dedicarmi alla poesia e non scrivere sciocchezze in prosa, e non mescolarmi tra le donne]
5. “Che io farei più discretamente a pensare donde io dovessi aver del pane” [farei in modo
più discreto a occuparmi da dove guadagnarmi il pane = cosa potrà mai darmi
quest’opera?]
6. “In altra guisa essere state le cose da me raccontatevi che come io le vi porgo” [ultima
grande accusa, si ingegnano tutto il tempo di dimostrare che le cose che vi ho raccontato
non stanno così come io ve le ho descritte = cattivo narratore, non sa fare nemmeno il suo
mestiere]
Parafrasi = Adunque da cotanti e da così fatti venti (dell’invidia), da così atroci morsi dell’invidia, da
così morsi, valorose donne, mentre io nei vostri servigi milito (si definisce soldato delle donne),
sono colpito aspramente dall’invidia. Con animo piacevole, ascolto e capisco queste accuse che mi
vengono mosse: e dovreste essere voi a difendermi, ma non posso evitare di difendermi io stesso
e lo farò con qualcosa di leggero (presentazione della novelletta che segue), e decido di levarmi
dalle orecchie queste accuse. Non sono arrivato neanche a un terzo della mia fatica, si sarebbero
addirittura moltiplicati se non ricevessero nessuna difesa da parte mia, che con ogni loro piccola
fatica, crederanno di mettermi in fondo: le donne dovrebbero essere dunque le prime a
difendermi, ma in fondo hanno forze un po’ minori rispetto agli uomini. Ma prima che io venga a
fare la risposta ad alcuno di questi miei accusatori, voglio raccontare non una novella intera
(riferimento al fatto che la novella si interrompi bruscamente o al fatto che non è perfetta), ma
soltanto parte di una e non voglio che sembri una di quelle raccontate da tutta la nobile e lieta
brigata (l’autore prende la distanza dagli altri autori interni e vuole distinguere la sua novella dalle
altre pronunciate dalla brigate = queste meritano grande rispetto, la sua è più bassa). E ai miei
assalitori favellando dico → inizio della novella.
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Letteratura Italiana

Parafrasi Novelle delle papere = Che nella nostra Firenze, già è buon tempo passato, ci fu un
cittadino il quale fu nominato Filippo Balducci (= realtà geografica, quando e dove ci troviamo +
nomi e cognomi), uomo di ceto medio, ma ricco e aveva una moglie ed entrambi si amavano di
amore corrisposto e non avevano altro che chiedere se non godersi l’esistenza in cui davano l’un
l’altro piacere. La donna muore e gli lascia in eredità soltanto un figlio di due anni. Viene privato
dalla cosa che gli è più cara al mondo e decide di allontanarsi dal mondo stesso e dedicarsi
soltanto a Dio, questa stessa missione sarà anche del figlio. Diventano due eremiti, vanno sul
Monte Asinaio e non gli parla neanche delle cose mondane per non distrarlo dalla totale dedizione
alla preghiera e alla lode di Dio. Chiude il figlio in questo perfetto isolamento a due in cui non
vedono nulla di esterno, si dedicano al digiuno e alla preghiera e così passano gli anni. Ogni tanto
tornava in città (Firenze) per bisogni che gli venivano dall’elemosina e poi tornava in questa “cella”
dell’eremitaggio con il figlio. Successe che, il figlio ormai ebbe diciott’anni e Filippo divenne
vecchio e chiese al padre dove andava. Il figlio, dopo la risposta del padre, gli chiese: “Padre, ormai
siete vecchio e sopportate male le fatiche; perché non mi mandate a Firenze visto che io sono
giovane e posso meglio sopportare le fatiche e voi rimanete qui?”. Il padre, si rende conto che il
figlio è grande e che si è abituato a dedicarsi soltanto a Dio, ma difficilmente le cose del mondo lo
potranno attirare a sé (perché l’ha abituato all’eremitaggio), pensa che il figlio sia in grado di
capire e se lo porta con sé a Firenze (pensa che la tentazione delle cose mondane non possa aver
presa sul ragazzo ormai cresciuto). Qui (Firenze) il giovane vide palazzi, case, chiese e tutte le altre
cose di cui la città era piena, cose che nella sua infanzia ormai aveva dimenticato, cominciò a
meravigliarsi davanti a tutte queste cose e iniziò a chiedere al padre cosa fossero e come si
chiamarono. Il padre rispondeva a tutte le sue domande e il figlio, dopo aver saputo cosa fossero,
era contento e pronto a domandare altre cose. Si scontrano con una bella compagnia di ragazze
vestite eleganti poiché appena uscite da un matrimonio: appena il giovane le vide, chiese al padre
cosa fossero. Il padre disse: “figlio mio, abbassa gli occhi a terra, non le guardare, che sono una
cosa cattiva” (= è da dove deriva il dolore del padre). Disse allora il figlio: “ma come si chiamano?”.
Il padre, per evitare di suscitare nel giovane qualunque desiderio carnale, non disse vero nome,
cioè “femmine”, ma disse che si chiamavano “papere” (abbassamento dell’oggetto del desiderio
amoroso). Che nome meraviglioso! Il figlio che non ne aveva mai vista una, e da quel momento
non si interessò più dei palazzi, del bue, del cavallo, dell’asino, del denaro o di qualunque altra
cosa avesse visto, e prontamente disse: “Padre mio, vi prego di riuscire a farmi avere una di
quelle papere”. “Oimè, figlio mio”, disse il padre “taci: sono cose cattive”. Al che il giovane
domandò: “E sono fatte così le cose cattive?” “Sì” rispose il padre. E allora il giovane aggiunse:
“Non so perché diciate questo, né perché siano cose cattive, ma finora non ho mai visto nessuna
cosa così bella e piacevole (cambiamento della lingua = indica il fiorentino parlato = ripetizione
“non so che voi vi dite”). Sono più belle degli angeli che mi avete mostrato. Se ci tenete a me,
portiamo con noi una di queste papere, e io mi occuperò di imbeccarla” (comicità, doppio senso).
Il padre rispose: “Meglio di no! Tu non sai neanche da che parte vanno imbeccate!” E capì subito
che la natura era più forte del suo ingegno, e si pentì di aver portato suo figlio a Firenze
(considerazione fondamentale, qui è il cuore della difesa rispetto alle accuse di essere troppo
affezionato alle donne e del dedicarsi a cose futili = amore / il padre e gli accusatori si devono
rendere conto che l’amore è qualcosa di naturale e supera questa costruzione ingegnosa del padre
che ha allontanato il figlio – anche la potenza erotica è qualcosa di assolutamente naturale).
“FINE” DELLA NOVELLA, INCOMPIUTA.

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Letteratura Italiana

Quanto ho raccontato finora è sufficiente e mi rivolgo a coloro a cui l’ho raccontato (= agli
accusatori). Alcuni dei miei detrattori dicono che io faccio male, o giovani donne, a darmi da fare
per piacere a voi, e che voi mi piacete troppo. E questo lo confesso apertamente, cioè che voi mi
piacete e che io mi adopero per piacere a voi, e mi chiedo se questo provoca in loro stupore.
Mettiamo da parte chi ha conosciuto gli amorosi baci, i piacevoli abbracci e i congiungimenti
dilettevoli con voi, mie dolcissime donne (solo con vista non ci si può sottrarre alla bellezza delle
donne). Ma il solo fatto di aver visto i fini costumi, la sfuggente bellezza, l’elegante leggiadria e
oltre a ciò la vostra femminile gentilezza, ha portato un ragazzo nutrito, allevato, cresciuto sopra
un monte selvaggio e solitario, con la sola compagnia del padre, a desiderare solo voi con passione
(exemplum plateale). Se fin dalla mia giovinezza vi ho dato il mio corpo, creato dal cielo atto ad
amarvi, e la mia anima, sentendo la potenza della luce dei vostri occhi, la soavità di parole dolci
come miele, e la passione accesa da affettuosi sospiri, se voi mi piacete e io mi ingegno per
piacervi, e soprattutto considerando che siete piaciute a un giovane eremita, un ragazzo incapace
di provare sentimenti, anzi un animale selvatico (paragone = io vi amo come vi ha amato questo
“selvatico” ragazzino), i miei detrattori continueranno comunque a rimproverarmi, mordermi,
lacerarmi? Sicuramente può rimproverarmi in questo modo solo chi non vi ama, né vuole essere
amato, e non sente e non conosce i piaceri e la virtù della naturale passione, e di costoro non me
ne curo.
E quelli che hanno da ridire sulla mia età non sanno che anche gli uomini con il capo bianco hanno
ancora i sentimenti verdi (immagine spinta = ricorrere all’immagine del porro = rimando alle doti
maschili), e rispondo che mai potrò provare vergogna nel compiacere le donne, cosa per la quale
si ritennero onorati Guido Cavalcanti e Dante Alighieri, già da vecchi, e messere Cino da Pistoia,
quando era vecchissimo (autorità poetiche). E se non fosse che mi allontanerei troppo
dall’argomento, potrei portare molti esempi di antichi uomini valorosi, che, in piena maturità, si
sono adoperati per compiacere le donne. Quanto al fatto che io debba preferire la compagnia
delle Muse a quella delle donne, dico che è buon consiglio, ma non è sempre possibile vivere in
una dimensione di sola poesia (= un autore non può continuamente e solamente dedicarsi alla
poesia). E quando gli uomini si allontanano dalle Muse per cercare qualcosa che somigli loro, non è
una cosa da biasimare: le Muse sono donne e anche se le donne non valgono quanto le Muse,
comunque sono molto somiglianti, e già solo per questo mi dovrebbero piacere (lo spostarsi dalle
Muse per dedicarsi alle donne che assomigliano alle Muse, non è una cosa che merita biasimo).
Forse proprio per questa somiglianza le Muse mi sono state accanto e mi hanno aiutato a scrivere
queste novelle, quantunque siano umilissime (le donne sono ispiratrici di poesia molto più delle
Muse). Perciò, scrivendo la mia opera, io non mi allontano né dal monte Parnaso, né dalle Muse. E
che dire a coloro che sono così preoccupati della mia fama e mi consigliano di guadagnarmi il
pane? Se dovessi chiedere loro del pane, probabilmente mi risponderebbero: “Vai a cercarlo tra le
favole” (gli darebbero una brutta risposta). Posso dire che molti sono vissuti fino a tarda età
andando dietro alle favole, quando molti altri sono morti giovani, nel tentativo di guadagnarsi più
pane del necessario. Che altro? Mi caccino pure casomai dovessi domandar loro del pane. Non che
io ne abbia bisogno, grazie a Dio, ma qualora dovessi cadere in miseria, come dice l’Apostolo san
Paolo, so vivere nell’abbondanza e sopportare la miseria, e su come guadagnarmi il pane a
nessuno importa più che a me stesso. Per quanto riguarda quelli che mi accusano di alterare i
fatti raccontati, li invito a portarmi gli scritti originali, e se dovessero essere discordanti, farò
ammenda e cercherò di riparare ai miei errori; nel caso contrario continuerò ad ignorarli.
118
Letteratura Italiana

Ritengo di aver risposto abbastanza e con l’aiuto di Dio e del vostro, gentilissime donne, giro le
spalle al vento della calunnia e vado avanti (le donne si fanno protettrici del poeta e danno le
spalle al vento lasciandolo soffiare). Lo lascio soffiare, perché non vedo cosa mi possa succedere,
se non quello che avviene per la polvere che a volte, se il vento spira a turbine, non si muove dal
terreno (= o non mi lascio scuotere da queste accuse), altre volte il vento la smuove e la porta in
alto, sopra le teste degli uomini, sopra le corone dei re e degli imperatori, e a volte la lascia sopra
gli alti palazzi e le torre elevate, e in ogni caso non può cadere più in basso del luogo da cui è stata
portata via (= l’invidia mi porta in alto). Se già prima ero intenzionato a compiacere le donne, dopo
le calunnie lo sarò ancora di più, perché amare le donne è una legge della natura, e contrapporsi
ad essa è invano e faticoso (questione fondamentale = chi ama le donne, chi assecondo le donne,
segue un istinto naturale). Perciò tacciano i calunniatori e, se non sono capaci di riscaldarsi,
muoiano assiderati e mi lascino vivere tranquillo.
LEZIONE 29
QUARTA GIORNATA, NOVELLA 1 – Tancredi e Ghismunda
Introduzione dell’inizio della giornata = Ma è arrivato il momento, dopo questa lunga divagazione,
di ritornare al punto da cui siamo partiti e riprendere l’ordine della narrazione già cominciato. Il
sole aveva cacciato via le stelle e l’ombra umida della notte, quando Filostrato fece andare tutta la
brigata in giardino, poi pranzarono, si riposarono e, infine, si posero tutti a sedere vicino alla bella
fontana, e comandò a Fiammetta di iniziare la sua novella.
→ La prima novella, in quasi tutte le giornata, è una sorta di piccolo trattato su quelle che sono
le questioni principali della giornata e dell’opera in sé.
AMORI INFELICI – Tancredi, prenze di Salerno, uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in
una coppa d’oro; la quale, messa sopr’esso acqua avvelenata, quella si bee e così muore [=
Tancredi, principe di Salerno, uccide l’amante della figlia e le manda il cuore in una coppa d’oro.
Lei ricopre il cuore di acqua avvelenata, beve dalla coppa e muore].
Il nostro re (Filostrato) ci ha dato oggi un argomento penoso da trattare, se pensiamo che, venuti
qui per gioire, dobbiamo raccontare le lacrime altrui, le quali non possono essere raccontate
senza muovere a compassione chi racconta o chi ascolta. Forse l’ha fatto per stemperare in parte
il piacere dei giorni passati, ma qualunque motivo l’abbia spinto e, poiché non spetta a me
cambiare il suo desiderio, vi racconterò di un avvenimento pietoso, anzi sventurato e degno delle
nostre lacrime (crescendo della definizione della storia raccontata).
Tancredi, principe di Salerno (= ambientazione meridionale), sarebbe stato un signore molto
umano e di natura benevola se (ingegno positivo), nella sua vecchiaia, non si fosse macchiato le
mani con il sangue di due innamorati. In tutta la sua vita aveva avuto una sola figlia, e sarebbe
stato più felice se non l’avesse avuta (affermazione paradossale, scopriremo che Tancredi amerà
tantissimo sua figlia Ghismunda). Era stata amata tanto teneramente quanto nessun’altra figlia lo
era mai stata dal padre, e proprio per questo tenero affetto, sebbene da diversi anni avesse
superato l’età in cui avrebbe dovuto sposarsi, non riuscendo lui a sopportare l’idea che potesse
allontanarsi, non si decideva a maritarla (il fatto che si nomini fin da subito il tema del matrimonio
non è casuale). Tuttavia alla fine la concesse a un figlio del duca di Capua, col quale lei dimorò
poco tempo, rimase vedova e tornò dal padre (il padre era contento del fatto che fosse ritornata
119
Letteratura Italiana

vedova). Di viso e di corpo era più bella di quanto nessun’altra donna lo fosse mai stata, ed era
giovane (sappiamo che è ancora giovane nonostante si sia sposata tardi e sia rimasta già vedova),
vigorosa e saggia più di quanto non si richiedesse normalmente a una donna (= Ghismunda ha
tutte le qualità). Viveva con il suo tenero padre come una gran signora, fra molte raffinatezze, e
vedendo che il padre, per l’amore che provava per lei, non si preoccupava di sposarla di nuovo, né
a lei sembrava opportuno chiederglielo ancora, pensò di procurarsi segretamente, se le fosse stato
possibile, un amante degno di lei. Vedeva molti uomini frequentare la corte del padre, nobili o
meno, come succede nelle corti, ed osservando le maniere e le abitudini di molti di loro, cominciò
a piacergli più di chiunque altro un giovane valletto di suo padre (grado sociale inferiore rispetto a
lei), che si chiamava Guiscardo (futuro amante di Ghismunda), uomo di umili origini, ma nobile
nell’animo e nei modi (è povere, ha quella gentilezza che non dipende dal grado sociale ma dalle
doti interiori). Lo vedeva spesso e ogni giorno apprezzava sempre di più i suoi modi, finché si
accese in lei una passione ardente.
E il giovane, che non era uno sciocco, se n’era accorto, e l’aveva accolta nel suo cuore con tale
forza da non riuscire più a pensare ad altro. Amandosi così segretamente l’un l’altro (innesco
dell’innamoramento), la giovane donna non aveva altro desiderio che stare con lui, e per fargli
sapere in che modo, non volendo confidarsi con nessuno, si ingegnò per trovare un mezzo (cerca
un modo per comunicargli il suo amore, ma non si fida di nessuno che faccia da intermediario =
deve essere cauta). Gli scrisse una lettera, in cui gli diceva cosa avrebbe dovuto fare il giorno
dopo per stare con lei (la lettera è un tipico escamotage per gli amanti); poi mise questa lettera
nell’interno di una canna cava, e diede la canna a Guiscardo, dicendo: “Questa sera ne farai un
soffione per la tua serva, con cui potrà ravvivare il fuoco”. Guiscardo la prese, e pensando che ci
doveva essere un motivo per avergliela data e per aver parlato in quel modo, si congedò da lei e
rientrò a casa. Dopo aver esaminato la canna, si accorse della fessura, l’aprì e lesse la lettera.
Comprese bene ciò che doveva fare e, più contento che mai, si accinse a recarsi da lei nel modo
che gli aveva indicato. Vicino al palazzo del principe c’era una grotta all’interno della montagna,
esistente da moltissimi anni, che si apriva all’esterno attraverso uno spiraglio scavato
artificialmente, ricoperto nel tempo dai rovi e dalle erbe che vi erano cresciute (si insiste sul fatto
che sia un luogo segretissimo). Questa grotta collegava, attraverso una lunga scala, una delle
stanze del pianterreno del palazzo che la donna occupava, chiusa da una robusta porta. Questa
scala non era stata usata da moltissimo tempo, e nessuno se ne ricordava. Ma l’Amore, a cui nulla
può essere nascosto, riportò il ricordo nella mente della donna innamorata (Amore è quasi
sempre l’artefice di tutti gli stratagemmi del Decameron). La quale, affinché nessuno se ne
accorgesse, si impegnò faticosamente per molti giorni prima di riuscire ad aprire l’uscio. Una volta
aperto, discese nella grotta e, vedendo lo spiraglio, aveva fatto sapere a Guiscardo come
raggiungere il passaggio, del quale aveva indicato l’altezza dall’apertura al suolo. Per fare questo
Guiscardo, aveva subito preparato una corda con nodi e cappi, per poter scendere e salire, e dopo
aver indossato un cappotto di pelle per proteggersi dai rovi, senza farsene accorgere, si recò la
notte successiva all’apertura, legò saldamente un’estremità della fune ad un robusto tronco che
era cresciuto nello spiraglio, si infilò nella grotta e aspettò la dama. Quest’ultima, il giorno dopo,
fingendo di voler dormire, mandò via le sue damigelle e si rinchiuse da sola nella sua stanza, aprì la
porta e scese nella grotta, dove trovò Guiscardo e si fecero grandi feste l’un l’altro. Poi andarono
insieme nella camera da letto, vi rimasero gran parte della giornata, con loro grande piacere.
Decisero di mantenere segreto il loro amore e una volta che Guiscardo era ritornato nella grotta, la
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Letteratura Italiana

donna chiuse la porta e uscì fuori dalla stanza a cercare le sue damigelle. Guiscardo, quando arrivò
la notte, salì per la fune e uscì dallo spiraglio così come vi era entrato, e tornò a casa. Avendo
imparato il cammino, vi ritornò più volte per un certo tempo. Ma la fortuna, invidiosa di un così
grande e lungo piacere, con un doloroso avvenimento trasformò la gioia dei due amanti in un
triste pianto.
Ogni tanto Tancredi veniva nella stanza di sua figlia, restava un po’ a parlare con lei, e poi se ne
andava. Un giorno dopo pranzo, mentre sua figlia, che si chiamava Ghismunda, era nel giardino
insieme alle sue damigelle, non volendo disturbarla dai suoi passatempi, era andato nella stanza
senza essere visto né udito da nessuno (il padre vuole tenere sempre sotto controllo la figlia,
anche nella sua stanza che dovrebbe essere il suo spazio “privato”). Qui, avendo trovato le finestre
chiuse e le tende del letto abbassate, si sedette ai piedi del letto su un piccolo sgabello e dopo aver
poggiato la testa al letto, si coprì con la tenda, quasi come se avesse voluto nascondersi, e si
addormentò (ha violato lo spazio personale della figlia e stranamente si nasconde e si
addormenta). E così, mentre lui dormiva, Ghismunda, che quel giorno aveva per caso mandato a
chiamare Guiscardo, lasciate le sue damigelle nel giardino, entrò silenziosamente nella camera, la
chiuse senza accorgersi che c’era qualcuno, e aprì la porta a Guiscardo che stava aspettando.
Andati a letto come facevano di solito, mentre scherzavano e si sollazzavano, Tancredi si svegliò e
udì e vide (crescendo descrittivo) quello che facevano Guiscardo e la figlia. Oltremodo amareggiato
per questo, avrebbe voluto per prima cosa urlare, ma poi decise di stare zitto e di rimanere
nascosto, sempre che gli fosse riuscito di farlo, per poter compiere con maggior cautela e minor
vergogna ciò che già gli era venuto in mente di fare. I due amanti rimasero a lungo insieme, come
loro abitudine, senza accorgersi di Tancredi, e si alzarono dal letto solo quando parve loro.
Guiscardo tornò alla grotta e la giovane lasciò la stanza. Tancredi, benché vecchio, uscì a sua volta
da una finestra che dava sul giardino, e senza farsi vedere da nessuno, amareggiato a morte, tornò
nella sua stanza (non può uscire dalla porta e dunque esce dalla finestra).
E per suo ordine, la notte seguente, mentre usciva dallo spiraglio, Guiscardo, impacciato com’era
nel suo cappotto di pelle, fu fatto prigioniero da due uomini, e condotto di nascosto da Tancredi.
Questo, appena lo vide, disse quasi piangendo (il principe è disposto alla violenta vendetta, ma
comunque piange): “Guiscardo, la mia benevolenza verso di te non meritava l’oltraggio e la
vergogna (= questa emerge dalla scelta dell’amante = povero) che mi hai fatto provare, come oggi
ho visto con i miei stessi occhi”. Al che Guiscardo non disse altro che questo: “L’Amore può molto
di più di quanto né voi né io possiamo” (= nella Novella delle papere, il padre cerca di tenere
lontano dall’amore il figlio – Guiscardo qui usa l’amore come sua unica difesa = gli uomini non si
possono opporre a questa forza – vedi richiamo a Dante nel canto di Francesca).
Allora Tancredi ordinò che fosse imprigionato segretamente in una stanza del castello, e così fu
fatto. Venne il giorno seguente, Ghismunda non sapeva nulla di quanto successo e Tancredi, dopo
aver meditato molto sul da farsi, dopo pranzo andò come faceva di solito nella stanza della figlia,
la fece chiamare e si rinchiuse con lei nella stanza. Piangendo cominciò a dire: “Ghismunda,
credendo di conoscere la tua virtù e la tua onestà (dotata delle caratteristiche tipiche della donna),
non avrei mai potuto credere a una cosa che mi fosse stata detta, senza averla vista con i miei
occhi: che tu, di giacere con un uomo che non fosse tuo marito, ho sempre creduto che non solo
non potessi farlo, ma neanche pensarlo. Per cui, per quel poco di vita che mi resta nella mia
vecchiaia, sarò sempre triste nel ricordarmi questo. Poiché dovevi arrivare a una tale bassezza,
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Letteratura Italiana

avesse almeno voluto Dio che tu scegliessi un uomo degno della tua nobiltà, ma fra i tanti che
frequentano la mia corte, scegliesti proprio Guiscardo, giovane di umilissima condizione, allevato
nella nostra corte quasi per elemosina, da quando era un fanciullo fino ad oggi, e per questo mi hai
messo in grande imbarazzo e non so ancora che decisione prendere nei tuoi confronti (non so cosa
fare di te dopo che ho scoperto questa cosa). Di Guiscardo, che ho fatto prendere stanotte mentre
usciva dallo spiraglio, e adesso è in prigione, so già cosa farne, ma di te, solo Dio lo sa, perché io
non so che fare. Da una parte sono spinto dall’amore che ho sempre avuto per te più di quanto
ogni padre abbia per sua figlia, dall’altra provo un giustissimo sdegno per la tua gran follia: uno
vuole che io ti perdoni (il padre che ti ama), l’altro vuole che, contro la mia natura, io ti punisca
crudelmente (il padre sdegnato e arrabbiato). Ma prima di prendere una decisione, voglio sentire
cosa hai da dire a riguardo”. E detto questo, abbassò il viso, piangendo forte come un bambino
bastonato a dovere.
Ghismunda, sentendo suo padre e vedendo che non solo era stato scoperto il suo amore segreto,
ma che Guiscardo era prigioniero, sentì un dolore inesprimibile, e avrebbe voluto mostrarlo con
grida e lacrime, come fanno la maggior parte delle donne. Tuttavia la sua anima superba,
superando questa debolezza, trattenne il suo volto con una forza meravigliosa, e prima di
esprimere la minima supplica, decise di non restare più in vita, credendo che il suo Guiscardo fosse
già morto. Per cui, non come una donna in lacrime o pentita per la sua colpa, ma da donna
spavalda e valorosa, con il viso asciutto e aperto, senza alcun segno di turbamento, disse così al
padre (donna come avvocato di sé stessa, lei non piange ma il padre sì): “Tancredi, io non sono
disposta né a negare, né a pregare, poiché l’uno non mi sarebbe di alcuna utilità, né voglio
avvalermi dell’altro. Inoltre, non intendo compiere alcun atto per rendere benevoli verso di me la
vostra clemenza e il vostro affetto; ma confessando la verità, voglio prima, con ragioni reali,
difendere il mio onore, poi, con i fatti, mostrare la grandezza della mia anima. È vero che ho amato
e che amo Guiscardo, e finché vivrò, che sarà ancora per poco, lo amerò; e se è possibile amare
anche dopo la morte, non smetterò di amarlo. Ma a questo non mi ha condotto tanto la mia
fragilità di donna, quanto la tua mancanza di sollecitudine nel maritarmi e la gentilezza d’animo
di Guiscardo (il padre ha perso troppo tempo a cercare marito per la figlia + Ghismunda ha scelto
Guiscardo per la sua nobiltà/virtù interiore). Avresti dovuto capire, Tancredi, essendo tu stesso
fatto di carne, di aver generato una figlia fatta di carne, e non di pietra o di ferro ; e dovresti
ricordare, sebbene tu sia ormai vecchio, cosa sono, e quante e con quale forza vengono le leggi
della giovinezza; e sebbene tu, uomo, nei tuoi anni migliori ti sia esercitato in armi, non dovresti di
meno sapere che cosa possono fare gli ozi e le dolcezze della vita tanto nei vecchi, quanto nei
giovani (l’amore che si sviluppa nell’ozio si contrappone alle attività di guerra). Io sono dunque di
carne, come da te generata, e ho vissuto così poco che sono ancora giovane, e, per entrambe le
cause, sono colma di desiderio; che ha preso una meravigliosa forza dal fatto, che essendo già
stata sposata, ho conosciuto il piacere che deriva dal soddisfare questo desiderio (del sesso). A
questa forza non potevo resistere, e mi sono lasciata andare verso ciò a cui mi spingeva, come
giovane e come donna, e mi sono innamorata. Nel far questo ho cercato, per quanto mi è stato
possibile, di non procurare vergogna a te e a me, assecondando un peccato naturale. A tal fine,
l’Amore pietoso e la fortuna benevola mi avevano trovato e mostrato una via molto nascosta per
cui, senza che nessuno se ne accorgesse, riuscivo a soddisfare i miei desideri. Chiunque te l’abbia
detto o in che modo tu l’abbia saputo, io non lo nego (ora che il padre lo sa, Ghismunda non può
farci niente). Non ho scelto Guiscardo a caso (= non si è abbandonata all’amore per chiunque
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Letteratura Italiana

come molte donne fanno), come molti fanno, ma l’ho scelto sopra tutti gli altri per consapevole
riflessione, e l’ho avvicinato a me con accorto giudizio, e con una saggia perseveranza ho
soddisfatto il mio desiderio per molto tempo di lui e di me (è un lungo periodo con tutti i pregi di
Guiscardo). E mi sembra che, oltre alla colpa di aver peccato per amore, tu stia seguendo più
volentieri l’opinione volgare piuttosto che la verità, nel rimproverarmi più amaramente dicendomi
che mi sono messa con un uomo di bassa condizione, come se non ti avesse procurato turbamento
se avessi scelto un uomo nobile (accusa il padre che si sarebbe arrabbiato di meno se si fosse
scelta un amante nobile). In questo non ti accorgi che non mi stai rimproverando per la mia colpa,
ma quella della fortuna che molto spesso eleva gli indegni in alto e lascia in basso i più degni (idea
che è casuale la collocazione a livello sociale). Ma lasciamo perdere questo, e guardiamo un po’ il
principio delle cose; vedrai che la carne di tutti noi è fatta di una massa di carne, e che tutte le
anime sono state create dallo stesso creatore con eguali forze e poteri ed eguale virtù. È la virtù
che prima di tutto ci distingue, perché siamo nati e nasciamo tutti uguali; e quelli che ne avevano e
ne acquistarono la maggior parte, furono chiamati nobili, mentre gli altri rimasero non nobili (è la
virtù quella che ci distingue). E sebbene l’uso contrario abbia successivamente oscurato questa
legge, non è ancora abolita o distrutta dalla natura o dai buoni costumi; e per questo, chi si
comporta con virtù si mostra vero gentiluomo e, se è chiamato diversamente, è colui che chiama e
non colui che è chiamato che commette una colpa. Guarda in mezzo a tutti i tuoi signori ed
esamina le loro virtù, i loro costumi e i loro modi di vivere, e guarda invece quello di Guiscardo: se
vuoi giudicare senza animosità, dirai che è nobilissimo e che tutti i tuoi nobili sono dei villani. Sulla
virtù e valore di Guiscardo, non ho creduto al giudizio di nessun altro, se non quello delle tue
parole e dei miei occhi. Chi mai l’ha lodato più di te, quando l’hai lodato di tutte le cose di cui è
degno di lode un uomo valoroso? E di sicuro non a torto, perché se i miei occhi non mi hanno
ingannata, non c’è nessuna lode che gli hai fatto che non fosse meritata, e molto più di quanto le
tue parole potessero esprimere. E se però fossi stata tratta in inganno, è da te che sarei stata
ingannata. Dirai allora che mi sono impegnata con un uomo di basso rango? Non diresti la verità;
ma se per caso dicessi che è con un povero, te lo potresti concedere a tua vergogna, poiché non
hai saputo mettere in buona condizione un valoroso tuo servo; ma la povertà non priva nessuno
della nobiltà, ma la ricchezza sì. Molti re, molti grandi principi sono stati poveri; e molti di coloro
che zappano la terra e guardano le pecore furono un tempo ricchissimi, e lo sono ancora. Quanto
all’ultimo dubbio che hai suscitato, cioè che cosa dovresti fare di me, non ci penso per niente, se
nella tua estrema vecchiaia sei disposto a fare ciò che non hai fatto da giovane, cioè, a diventare
crudele. Usa su di me la tua crudeltà, alla quale non sono disposta ad opporre alcuna supplica, già
che ne trovi la prima occasione in questo peccato, ammesso che sia davvero peccato; per questo ti
assicuro che qualunque cosa hai fatto o farai a Guiscardo, se non farai la stessa cosa a me, lo
faranno le mie stesse mani. Ora vai a piangere con le donne, e diventa crudele uccidendoci
subito, lui e me, se ti sembra che meritiamo questo” (Ghismunda al padre = se non uccide anche
me insieme a lui, lo farò con le mie stesse mani – riferimento ai dui amanti di Rimini della Divina
Commedia).
Il principe conosceva la grandezza d’animo di sua figlia, ma non credeva che fosse così
fermamente decisa a fare ciò che le sue parole dicevano. Per cui, lasciandola, e avendo scartato
l’idea di infierire su di lei, pensò di raffreddare il suo ardente amore con il sangue altrui, e ordinò ai
due guardiani di Guiscardo di strangolarlo la notte seguente senza far rumore, e che gli
strappassero il cuore e glielo portassero, cosa che fecero come loro comandato. Il giorno dopo il
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Letteratura Italiana

principe si fece portare una grande e bella coppa d’oro, con dentro il cuore di Guiscardo, e molto
segretamente, tramite un suo familiare, la fece recapitare alla figliola, con l’ordine di dire queste
parole: “Tuo padre ti manda questo per consolarti per la cosa che ami di più, così come tu lo hai
consolato per la cosa che lui amava di più”.
Nel frattempo Ghismunda, una volta partito il padre, ferma nel suo fiero proposito, si era fatta
portare erbe e radici velenose, le aveva distillate e sciolte in acqua, preparando una pozione
velenosa da aver pronta nel caso fosse avvenuto ciò che temeva. Arrivato il familiare con il dono e
il messaggio del principe, con espressione dura prese la coppa, la scoperchiò e non appena vide il
cuore e sentì le parole, fu certa che si trattasse del cuore di Guiscardo. Alzò il viso verso il familiare
e disse: “Non poteva esserci sepoltura meno degna dell’oro per un cuore così, mio padre in
questo ha agito saggiamente” (essendo un cuore in cui alberga gentilezza, la coppa d’oro è una
degna sepoltura). E detto questo, lo avvicinò alla bocca e lo baciò, e poi disse: “In ogni cosa ho
trovato l’amore del mio tenerissimo padre, perfino ora più che mai, in questo momento che segna
la fine della mia vita. Perciò portagli gli ultimi ringraziamenti che gli devo, per questo dono così
grande”.
Detto questo, si volse verso la coppa tenuta stretta, e guardando il cuore disse: “Ahi! Dolcissimo
albergo di tutti i miei piaceri, maledetta sia la crudeltà di colui che ora mi costringe a guardarti con
gli occhi della fronte, quando mi era sufficiente guardarti ogni ora con quelli della mente. Ora hai
concluso la tua esistenza, e te ne sei liberato così come la sorte te l’ha concesso, arrivato alla fine
verso la quale tutti siamo destinati. Hai lasciato le miserie e le fatiche del mondo, e dal tuo stesso
nemico hai avuto la sepoltura che il tuo valore meritava. Non ti è mancato nulla per avere esequie
adeguate, tranne le lacrime di colei che hai tanto amato durante la tua vita. Affinché tu ricevessi
queste lacrime, Dio ha disposto che il mio spietato padre ti mandasse da me, e io te le darò,
sebbene avessi deciso di morire con gli occhi asciutti e il viso sgombro da ogni paura. E quando te
le avrò date, farò in modo che la mia anima si unisca senza indugio, con il tuo aiuto, a quella che
per tanto tempo hai preziosamente custodito. E con quale altra compagnia, se non con la tua,
potrei partire più felice o più sicura per luoghi sconosciuti? Sono certa che è ancora qui dentro, e
che sta guardando i luoghi dei suoi piaceri e dei miei, e poiché sono convinta che ancora mi ama,
ora sta aspettando la mia anima, da cui è sommamente amata”. Detto così, senza emettere i
lamenti abituali delle donne, si chinò sulla coppa e, gemendo, cominciò a versare tante lacrime,
come se avesse avuto una fonte d’acqua nella testa, che era una cosa meravigliosa da guardare, e
baciò il cuore morto un’infinità di volte. Le sue damigelle che le stavano intorno, non capivano
cosa fosse questo cuore o cosa significassero queste parole, ma sopraffatte dalla compassione,
piansero tutte e pietosamente chiesero invano la causa delle sue lacrime, e cercarono di
consolarla quanto meglio sapevano e potevano fare. Quando le sembrò di aver pianto abbastanza,
alzò la testa, si asciugò gli occhi e disse: “Non mi resta altro da fare che venire con la mia anima a
fare compagnia alla tua”. E detto questo, si fece dare il vasetto in cui c'era l’acqua che aveva
preparato prima, e dopo aver versato quest’acqua nel calice dove il cuore era stato lavato dalle
sue abbondanti lacrime, la portò senza timore alla sua bocca, la bevve tutta, e dopo averla bevuta,
salì sul letto con la coppa in mano, compose il suo corpo quanto meglio poteva, ed accostò al suo
cuore quello dell’amante morto, e senza nulla dire attese la morte.
Le sue damigelle, avendo visto e udito queste cose, pur non sapendo che acqua fosse quella che
aveva bevuto, avevano mandato a dire ogni cosa a Tancredi, il quale, temendo ciò che sarebbe
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Letteratura Italiana

accaduto, scese rapidamente nella stanza della figlia. Vi giunse nel momento in cui lei si era distesa
sul letto, e troppo tardi ormai, cercò di confortarla con dolci parole, e vedendo lo stato in cui si
trovava, cominciò a piangere dolorosamente. Al che la signora disse: “Tancredi, riserva le tue
lacrime a una sorte meno desiderata di questa, e non darmele, perché non le voglio. A parte te, si
è mai visto qualcuno piangere per aver ottenuto quello che egli stesso ha voluto? Tuttavia, se in te
vive ancora un minimo di quell’amore che hai avuto per me, dato che non hai voluto che io amassi
di nascosto Guiscardo, come ultimo dono concedimi che il mio corpo sia pubblicamente sepolto
con il suo, ovunque tu l’abbia fatto buttare dopo la sua morte”. L’angoscia del pianto impediva al
principe di rispondere. Allora la giovane, sentendo arrivare la fine, stringendosi al petto il cuore
morto, disse: “Rimanete con Dio, perché io parto”. E dopo aver chiuso gli occhi e perso ogni senso,
lasciò questa vita di dolore. Così dolorosa fu la fine dell’amore di Guiscardo e Ghismunda, come
avete sentito. Tancredi, dopo aver molto pianto, pentendosi troppo tardi della sua crudeltà, li fece
seppellire onorevolmente entrambi nello stesso sepolcro, in mezzo al generale dolore di tutti i
salernitani.
COSA CI DICE BOCCACCIO SULL’AMORE IN QUESTA NOVELLA? L’amore è una cosa naturale, una
forza potentissima con cui gli uomini devono farci i conti = non possono resistere. Tutti gli amori
della Quarta Giornata finiscono male proprio perché fuori dalla legittimità del matrimonio. La
Quinta Giornata fa da perfetto compagno alla rappresentazione dell’amore → nella Quinta
Giornata si trovano amori che si concludono felicemente + matrimonio. Amore come forza che
può trovare una sua perfetta armonia solo se dentro una cornice legittima del matrimonio.
Boccaccio vuole controllare questo istinto naturale dell’amore poiché negarlo è impossibile e
sbagliato.
LEZIONE 30
CONCLUSIONE DELL’AUTORE
Nobilissime giovani, a consolazion delle quali io a cosí lunga fatica messo mi sono, io mi credo,
aiutantemi la divina grazia, sí come io avviso, per li vostri pietosi prieghi, non giá per li miei meriti,
quello compiutamente aver fornito che io nel principio della presente opera promisi di dover fare;
per la qual cosa, Iddio primieramente ed appresso voi ringraziando, è da dare alla penna ed alla
man faticata riposo. Il quale prima che io le conceda, brievemente ad alcune cosette, le quali forse
alcuna di voi o altri potrebbe dire; con ciò sia cosa che a me paia esser certissimo, queste non
dovere avere spezial privilegio piú che l’altre cose, anzi non averlo mi ricorda nel principio della
quarta giornata aver mostrato; quasi a tacite quistion mosse, di rispondere intendo. Saranno per
avventura alcune di voi che diranno che io abbia nello scriver queste novelle troppa licenza usata,
sí come in fare alcuna volta dire alle donne e molto spesso ascoltare cose non assai convenienti
né a dire né ad ascoltare ad oneste donne. La qual cosa io nego, per ciò che niuna sí disonesta
n’è, che, con onesti vocaboli dicendola, si disdica ad alcuno; il che qui mi pare assai
convenevolmente bene aver fatto.
→ Arriva il momento del riposo, riposo per la penna dopo questa lunga opera. Sono le donne
stesse ad essere incluse in questi rimproveri [“cosette”] che l’autore sente di dover chiarire prima
del riposo. Ricomincia con lo stile “giuridico” = accuse mosse. La prima è l’eccessiva licenza =
questa suona inadatta per essere ascoltata dalle oneste donne (qui pone due problemi = uno verrà
risolto dallo stesso autore nella sua difesa + rimette in discussione la natura stessa del testo =
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Letteratura Italiana

continua ambiguità → è davvero un testo solo per le donne? Ovviamente no, vi è comunque la
presenza di un altro pubblico che coglierà la componente più complessa, sofisticata ed elevata).
Risposta del poeta stesso = non sono novelle disoneste, c’è una forte difesa dello statuto di onestà
dell’opera → si possono raccontare episodi erotici, ma la brigata mantiene sempre una forte
onestà dei comportamenti [vedi la funzione del bagno delle donne].
Ma presuppognamo che cosí sia, ché non intendo di piatir con voi, che mi vincereste: dico che, a
rispondere perché io abbia ciò fatto, assai ragion vengon prontissime. Primieramente, se alcuna
cosa in alcuna n’è, le qualitá delle novelle l’hanno richesta, le quali se con ragionevole occhio da
intendente persona fien riguardate, assai aperto sará conosciuto, se io quelle della lor forma trar
non avessi voluto, altramenti raccontar non poterle. E se forse pure alcuna particella è in quelle,
alcuna paroletta piú liberale che forse a spigolistra donna non si conviene, le quali piú le parole
pesan che i fatti e piú d’apparer s’ingegnan che d’esser buone, dico che piú non si dèe a me esser
disdetto d’averle scritte che generalmente si disdica agli uomini ed alle donne di dir tutto dí “fóro”
e “caviglia” e “mortaio” e “pestello” e “salsiccia” e “mortadello”, e tutto pien di simigliami cose.
Senza che, alla mia penna non dèe essere meno d’autoritá conceduta che sia al pennello del
dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo stare che egli faccia a san
Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia ed a san Giorgio il dragone, dove gli piace,
ma egli fa Adamo maschio ed Eva femina, ed a Lui medesimo che volle per la salute dell’umana
generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in
quella.
→ Secondo punto = anche se ci fosse una componente disonesta, allora ammettiamolo [prima mi
difendo, e nel caso in cui il mio avversario abbia ragione, rispondo]. È la materia stessa che ha
dettato la legge = precetto fondamentale della retorica → lo stile e il modo di dire le cose deve
essere sempre adeguato alla materia stessa. Sarebbe stato impossibile trattare di quelle cose in
altri modi poiché è stata la materia a richiedere un certo stile, una certa forma. Continua la difesa
= forse sì ci sono delle parole più liberali/lascive che non sono adatte alle donne bigotte, le quali
pesano più la parole che i fatti = suono buone più nell’apparenza che nella sostanza. Non c’è
niente di male nell’usare parole sconvenienti. Difesa di un certo erotismo che rientra nelle cose
naturali → perché l’accostamento ai pittori? Il pittore ritrae soggetti sacri [San Giorgio, San
Michele…] dotati di fattezze umane e nessuno si sogna di criticarlo se dà una fattezza sessuata ai
santi e alle divinità – nessuno si stupisce quando un pittore aggiunge alle sue opere queste cose.
Boccaccio invece viene criticato per averle messe nella sua opera e per ritrarre l’umanità così
com’è.
Appresso, assai ben si può conoscere che queste cose non nella chiesa, delle cui cose e con animi e
con vocaboli onestissimi si convien dire; quantunque nelle sue istorie d’altramenti fatte che le
scritte da me si truovino assai; né ancora nelle scuole de’ filosofanti, dove l’onestá non meno che
in altra parte è richesta, né tra chericj né tra filosofi in alcun luogo, ma ne’ giardini, in luogo di
sollazzo, tra persone giovani, benché mature e non pieghevoli per novelle, in tempo nel quale
andar con le brache in capo per iscampo di sé era alli piú onesti non disdicevole, dette sono. Le
quali, chenti che elle si sieno, e nuocere e giovar possono, sí come possono tutte l’altre cose,
avendo riguardo all’ascoltatore. Chi non sa che è il vino ottima cosa a’ viventi, secondo Cinciglione
e Scolaio ed assai altri, ed a colui che ha la febbre è nocivo? Direm noi, per ciò che nuoce a’
febricitanti, che sia malvagio? Chi non sa che il fuoco è utilissimo, anzi necessario a’ mortali? Direm
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Letteratura Italiana

noi, per ciò che egli arde le case e le ville e le cittá, che sia malvagio? L’armi similmente la salute
difendon di coloro che paceficamente di viver disiderano: ed anche uccidon gli uomini molte volte,
non per malizia di loro, ma di coloro che malvagiamente l’adoperano.
→ Anche l’ambientazione ha la sua parte = le novelle vengono narrate nei giardini non nelle Chiese
e tantomeno tra clerici e filosofi. Il luogo di sollazzo = di divertimento. I novellatori sono giovani
ma maturi e non confondono la realtà letteraria con la realtà vera (a differenza di Francesca nella
Divina Commedia) – non si fanno piegare dalla letteratura nonostante la usino come modello e
come utile consiglio. Allusione alla Seconda Novella della Nona Giornata [in tempo nel quale andar
con le brache in capo] → una badessa viene colta in flagrante con l’amante mentre le consorelle
cercano di portarla a rimproverare un’altra delle suore che anch’essa aveva un amante. Nella furia,
la badessa si mette in testa, al posto della cuffia, le braghe/i calzoni dell’amante. Riferimento a un
mondo in cui i valori si sono confusi per la corruzione dettata dalla peste. Tutte le cose possono
essere dannose o positive, dipende da come vengono impiegate = il difetto non è nella materia
stessa ma come verrà recepita. Vino e fuoco possono essere positivi o negativi, dipende da come
vengono usati. Anche la materia narrativa del Decameron può essere impiegata malvagiamente,
ma non dipende dalla materia stessa ma da chi ne fa cattivo uso.
Niuna corrotta mente intese mai sanamente parola: e così come l’oneste a quella non giovano,
così quelle che tanto oneste non sono la ben disposta non posson contaminare se non come il loto
i solari raggi o le terrene brutture le bellezze del cielo. Quali libri, quali parole, quali lettere son più
sante, più degne, più reverende che quelle della divina Scrittura? E si sono egli stati assai che,
quelle perversamente intendendo, sé ed altrui a perdizione hanno tratto. Ciascuna cosa in se
medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle
mie novelle. Chi vorrà da quelle malvagio consiglio o malvagia operazion trarre, elle nol
vieteranno ad alcuno, se forse in sé l’hanno, e torte e tirate fieno ad averlo; e chi utilità e frutto
ne vorrà, elle nol negheranno, né sarà mai che altro che utili ed oneste sien dette o tenute, se a
que’ tempi o a quelle persone si leggeranno per cui e pe’ quali state son raccontate . Chi ha a dir
paternostri o a fare il migliaccio o la torta al suo divoto, lascile stare; elle non correranno di dietro
a niuna a farsi leggere: benché e le pinzochere altressi dicono ed anche fanno delle cosette otta
per vicenda!
→ Altro punto nella difesa = sono le menti corrotte che corrompono ciò che ascoltano.
L’argomento che sembra lascivo non può scomporre una mente ben composta → metafora = le
menti pure non verranno toccate da questa presunta disonestà della materia. Perfino la Sacra
Scrittura, che in sé sarebbe onestissima, a volte è stata usata in maniera sbagliata e per scopi
negativi. Le novelle, se vengono usate male, il problema sta in chi le ha usate in maniera sbagliata
non nella materia trattata. Le novelle sono state recitate a vantaggio di chi le leggerà, i bigotti
devono lasciarle stare.
Saranno similmente di quelle che diranno, qui esserne alcune che, non essendoci, sarebbe stato
assai meglio. Concedasi: ma io non potea né doveva scrivere se non le raccontate, e per ciò esse
che le dissero le dovevan dir belle, ed io l’avrei scrìtte belle. Ma se pur presuppor si volesse che io
fossi stato di quelle e lo ’nventore e lo scrittore, che non fui, dico che io non mi vergognerei che
tutte belle non fossero, per ciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa
faccia bene e compiutamente: e Carlo Magno, che fu il primo facitor di paladini, non ne seppe

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Letteratura Italiana

tanti creare, che esso di lor soli potesse fare oste. Conviene, nella moltitudine delle cose, diverse
qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai sì ben coltivato, che in esso o ortica o triboli o alcun
pruno non si trovasse mescolato tra l’erbe migliori. Senza che, ad avere a favellare a semplici
giovanette, come voi il più siete, sciocchezza sarebbe stata l’andar cercando e faticandosi in trovar
cose molto esquisite e gran cura porre di molto misuratamente parlare. Tuttavia chi va tra queste
leggendo, lasci star quelle che pungono, e quelle che dilettano legga: elle, per non ingannare
alcuna persona, tutte nella fronte portan segnato quello che esse dentro dal loro seno nascoso
tengono.
→ Nuova accusa = sarebbe stato meglio che alcune novelle non venissero raccontate. La finzione
del narrare = doppio autore che viene incluso nel testo stesso (= io le ho scelto perché sono state
raccontate, non le ho scritte io). L’autore autonomo è la brigata = colei che racconta. Se non sono
belle, non è colpa di Boccaccio ma di chi le ha raccontate. Ironia → perfino Dio non fa tutte le cose
belle, ammettendo che io sia l’autore anche se non lo sono, se ce n’è qualcuna non bella è cosa
della natura. Perfino Carlo Magno che fu creatore dei paladini, non riuscì a creare un esercito.
L’imperfezione è cosa naturale, della natura. Le novelle sono varie, poiché nella massa c’è sempre
della varietà. PRINCIPIO DELLA VARIETAS → come un campo ben coltivato contiene comunque
delle erbacce = anche nel testo infondo ci sono delle cose “brutte”. Chi non vuole essere punto da
alcune novelle, che le salti = rubrica → ciò che è scritto in fronte a tutte le novelle (la materia che
contiene è esplicitata nelle rubriche). Chi si sente pungere da una materia troppo lasciva, che le
salti poiché la novella è trasparente.
Ed ancora, credo, sará tal che dirá che ve ne son di troppo lunghe; alle quali ancora dico che chi ha
altra cosa a fare, follia fa a queste leggere, eziandio se brievi fossero. E come che molto tempo
passato sia da poi che io a scriver cominciai infino a questa ora che io alla fine vengo della mia
fatica, non m’è per ciò uscito di mente, me avere questo mio affanno offerto all’oziose e non
all’altre: ed a chi per tempo passar legge, niuna cosa puote esser lunga, se ella quel fa per che egli
l’adopera. Le cose brievi si convengon molto meglio agli studianti, li quali non per passare ma per
utilmente adoperare il tempo faticano, che a voi donne, alle quali tanto del tempo avanza quanto
negli amorosi piaceri non ispendete; ed oltre a questo, per ciò che né ad Atene né a Bologna o a
Parigi alcuna di voi non va a studiare, piú distesamente parlarvi si conviene che a quegli che hanno
negli studi gl’ingegni assottigliati. Né dubito punto che non sien di quelle ancor che diranno, le
cose dette esser troppo piene e di motti e di ciance, e mal convenirsi ad uno uomo pesato e
grave aver cosí fattamente scritto. A queste sono io tenuto di render grazie e rendo, per ciò che,
da buon zelo movendosi, tènere sono della mia fama.
→ Alcuni dicono che sono troppo lunghe = se siete impegnati in altro, non mettetevi a leggere
neanche le novelle brevi. Questo è un testo di consolazione per le donne = costrette all’ozio nelle
loro camere → il tempo è consolazione nella lettura, non è rivolto a chi è impegnato in altro. Una
scrittura breve e concisa è rivolta a coloro che studiano – leggono non per passare il tempo ma per
attendere. Voi povere donne non andate in nessuna grande città europea a studiare, qui ci
mettiamo a parlare a voi con calma visto che non siete studiosa (ironia). Pur essendo per diletto, la
lettura non rinuncia a dare l’utile consiglio. Ci sono troppe burle e non si addice a un uomo
misurato come me = le cose “inutili” non si addicono a un serio scrittore.

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Letteratura Italiana

Ma cosí alla loro opposizion vo’ rispondere: io confesso d’esser pesato, e molte volte de’ miei di
essere stato; e per ciò, parlando a quelle che pesato non m’hanno, affermo che io non son grave,
anzi sono io sì lieve, che io sto a galla nell’acqua: e considerato che le prediche fatte da’ frati per
rimorder delle lor colpe gli uomini, il piú oggi piene di motti e di ciance e di scede si veggiono,
estimai che quegli medesimi non istesser male nelle mie novelle, scritte per cacciar la malinconia
delle femine. Tuttavia, se troppo per questo ridessero, il lamento di Geremia, la passione del
Salvatore ed il ramarichio della Maddalena ne le potrá agevolmente guerire. E chi stará in pensiero
che ancor di quelle non si truovino che diranno che io abbia mala lingua e velenosa, per ciò che in
alcun luogo scrivo il ver de’ frati? A queste che così diranno si vuol perdonare, per ciò che non è
da credere che altro che giusta cagione le muova, per ciò che i frati son buone persone e fuggono
il disagio per l’amor di Dio, e macinano a raccolta e nol ridicono: e se non che di tutti un poco vien
del caprino, troppo sarebbe piú piacevole il piato loro.
→ Altra questione centrale delle possibili accuse = ci sono troppi motti e potrebbero disturbare
l’ascoltatore. Infondo, l’autore ha trovato perfino nelle prediche degli uomini di chiesa, che si
usano i motti e non vede perché non le dovrebbe usare anche lui. Non soltanto ci sono troppe
beffe ma dico male dei frati → il ridicolizzare certa chiesa o certi costumi può disturbare.
Confesso nondimeno, le cose di questo mondo non avere stabilitá alcuna, ma sempre essere in
mutamento, e cosí potrebbe della mia lingua essere intervenuto; la quale, non credendo io al mio
giudicio, il quale a mio potere io fuggo nelle mie cose, non ha guari mi disse una mia vicina che io
l’aveva la migliore e la piú dolce del mondo: ed in veritá, quando questo fu, egli erano poche a
scrivere delle soprascritte novelle. E per ciò che animosamente ragionan quelle cotali, voglio che
quello che è detto basti lor per risposta. E lasciando omai a ciascuna e dire e credere come le pare,
tempo è da por fine alle parole, Colui umilmente ringraziando che dopo sì lunga fatica col suo
aiuto m’ha al disiderato fine condotto: e voi, piacevoli donne, con la sua grazia in pace vi rimanete,
di me ricordandovi, se ad alcuna forse alcuna cosa giova l’averle lette.

Qui finisce la Decima e ultima giornata del libro chiamato Decameron cognominato prencipe
Galeotto.
Conclusione finale → se il mondo è variabile, anche il mio discorso forse lo è. La mia lingua è
variabile, e non è passato troppo tempo da quando la mia vicina mi disse che la mia è la più dolce
delle lingue. Mancava poco perché io portassi a compimento l’opera = queste accuse contrastano
rispetto a questa opinione. C’è una sorta di “lasciar cadere la questione”, come nella difesa della
Quarta Giornata, chi discute troppo non merita la mia risposta. Si scioglie la fatica e l’unico da
ringraziare è Dio = colui che concesse di arrivare alla fine dell’opera. Le destinatarie vanno
ringraziate al pari di Dio = donne e Dio allo stesso livello. Si ritorna allo statuto bivalente → da un
lato richiama con il titolo greco un modello che si avvicina a quello dei Santi Patri – e dall’altro una
letteratura per diletto = quella cortese e cavalleresca. → È un testo in cui in tutti i modi coinvolge il
proprio autore = l’immagine stessa di questo autore che prende la parola, si difende e dichiara i
propri intenti.

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Letteratura Italiana

INTRODUZIONE ALLA PRIMA GIORNATA – “L’ORRIDO COMINCIAMENTO”


Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente: tutte
siete pietose, tante conosco che la presente opera al vostro iudicio avrà grave e noioso principio, sì
come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata, universalmente a ciascuno
che quella vide o altramenti conobbe dannosa, la quale essa porta nella fronte. Ma non voglio per
ciò che questo di più avanti leggere vi spaventi, quasi sempre sospiri e tralle lagrime leggendo
dobbiate trapassare. Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a' camminanti una
montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia reposto, il quale
tanto più viene lor piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello smontare la gravezza. E sì
come la estremità della allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravegnente letizia sono
terminate. A questa brieve noia (dico brieve in quanto poche lettere si contiene) seguita
prestamente la dolcezza e il piacere quale io v'ho davanti promesso e che forse non sarebbe da
così fatto inizio, se non si dicesse, aspettato. E nel vero, se io potuto avessi onestamente per altra
parte menarvi a quello che io desidero che per così aspro sentiero come fia questo, io l'avrei
volentier fatto: ma ciò che, qual fosse la cagione per che le cose che appresso si leggeranno
avvenissero, non si poteva senza questa ramemorazion dimostrare, quasi da necessità constretto a
scriverle mi conduco. Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo
di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza,
oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza…
La funzione dell’orrido cominciamento → andamento ascensionale = funziona come la selva
selvaggia da cui comincia il percorso di Dante. Idea che si parta da una sorta di Inferno, da un polo
negativo e arrivare in una sorta di Paradiso, di positività.
La lieta brigata = A me medesimo incresce andarmi tanto tra tante miserie ravolgendol: per che,
volendo omai lasciare star quella parte di quelle che io acconciamente posso schifare, dico che,
stando in questi termini la nostra città, d'abitatori quasi vota, addivenne, sì come io poi da persona
degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedì mattina, non
essendovi quasi alcuna altra persona, uditi li divini ufici in abito lugubre quale a sì fatta stagione si
richiedea, si ritrovarono sette giovani donne tutte l'una all'altra o per amistà o per vicinanza o per
parentado congiunte, delle quali niuna il venti e ottesimo anno passato avea né era minor di
diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma e ornata di costumi e di leggiadra
onestà. Li nomi delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi
togliesse, la quale è questa: che io non voglio che per le raccontate cose da loro, che seguono, e
per l'ascoltare nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender vergogna, essendo oggi alquanto
ristrette le leggi al piacere che allora, per le cagioni di sopra mostrate, erano non che alla loro età
ma a troppo più matura larghissime; né ancora dar materia agl'invidiosi, presti a mordere"' ogni
laudevole vita, di diminuire in niuno atto l'onestà delle valorose donne con isconci parlari. E però,
acciò che quello che ciascuna dicesse senza confusione si possa comprendere appresso, per nomi
alle qualità di ciascuna convenienti o in tutto o in parte intendo di nominarle: delle quali la prima,
e quella che di più età era, Pampinea chiameremo e la seconda Fiammetta, Filomena la terza e la
quarta Emilia, e appresso Lauretta diremo alla quinta e alla sesta Neifile, e l'ultima Elissa non
senza cagion nomeremo.

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Letteratura Italiana

L'altre donne, udita Pampinea, non solamente il suo consiglio lodarono, ma disiderose di
seguitarlo avevan già più particularmente tra se' cominciato a trattar del modo, quasi, quindi
levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino. Ma Filomena, la quale
discretissima era, disse: - Donne, quantunque ciò che ragiona Pampinea sia ottimamente detto,
non è per ciò così da correre a farlo, come mostra che voi vogliate fare. Ricordivi che noi siamo
tutte femine, e non ce n'ha niuna sì fanciulla, che non possa ben conoscere come le femine sien
ragionate insieme e senza la provedenza d'alcuno uomo si sappiano regolare. Noi siamo mobili,
riottose, sospettose, pusillanime e paurose; per le quali cose io dubito forte, se noi alcuna altra
guida non prendiamo che la nostra, che questa compagnia non si dissolva troppo più tosto, e con
meno onor di noi, che non ci bisognerebbe; e per ciò è buono a provederci avanti che cominciamo.
Disse allora Elissa: “Veramente gli uomini sono delle femine capo e senza l'ordine loro rare volte
riesce alcuna nostra opera a laudevole fine; ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di
noi sa che de' suoi son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono, chi qua e chi là in
diverse brigate, senza saper noi dove, vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire; e il
prender gli strani non saria convenevole; per che, se alla nostra salute, vogliamo andar dietro,
trovare si convien modo di sì fattamente ordinarci che, dove per diletto e per riposo andiamo, noia
e scandalo non ne segua”.
Mentre tralle donne erano così fatti ragionamenti, e ecco entrar nella chiesa tre giovani non per
ciò tanto che meno di venticinque anni fosse l'età di colui che più giovane era di loro; ne quali né
perversità di tempo né perdita d'amici o di parenti né paura di se medesimi avea potuto amor, non
che spegnere, ma raffreddare. De' quali, l'uno era chiamato Panfilo, e Filostrato il secondo, e
l'ultimo Dioneo, assai piacevole e costumato ciascuno; e andavano cercando per loro somma
consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le loro donne, le quali per ventura tutte e tre
erano tra le predette sette, come che dell'altre alcune ne fossero congiunte parenti d'alcuni di loro

Terzo livello → le novelle. In questo processo di ascesa, dall’Inferno al Paradiso, la prima e l’ultima
novella rappresentano perfettamente la negatività (Ser Ciappelletto – immagine demoniaca,
Inferno) e la positività (Griselda – immagine di purezza come la Madonna = santità estrema,
Paradiso).

Prima Giornata, Novella 1


Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate e muorsi; e, essendo stato un
pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.
→ Ser Cepparello da Prato [anche se tutta l’ambientazione avviene in Francia], è mandato dal suo
signore a riscuotere dei debiti in Borgogna da due fratelli usurai. Mentre è nel pieno della sua
funzione, si ammala e i due usurai hanno paura che muoia in peccato mortale [la fama di Ser
Cepparello in Francia è pessima]. Mentre i due discutono, Ser Cepparello sente cosa dicono ed
escogita il modo per metterli al sicuro → volgere in positivo anche la situazione che preoccupa
tanto i due. Chiede una Frate Confessore → da qui inizia una grande messa in scena di Ser
Cepparello = con un’abilissima arte della parola, confessa peccati lievissimi e si mostra “Santo”
davanti al Frate. Da questo, in punto di morte, diviene San Ciappelletto. I suoi peccati diventano
131
Letteratura Italiana

delle inezie. Il protagonista incarna perfettamente l’estremo male e dell’ingegno = a fini negativi
che tramite una parola riesce a capovolgere il proprio destino. L’esordio è in linea con un polo
estremamente negativo.
Decima Giornata, Novella 10
Il marchese di Saluzzo, da’ prieghi de’ suoi uomini costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo
modo, piglia una figliuola d’un villano, della quale ha due figlioli, li quali le fa veduto di uccidergli.
Poi, mostrando lei essergli rincresciuta e avere altra moglie presa, a casa faccendosi ritornare la
propria figliuola come se sua moglie fosse, lei avendo in camicia cacciata e ad ogni cosa
trovandola paziente, più cara che mai in casa tornatalasi, i suoi figliuoli grandi le mostra, e come
marchesana l’onora e fa onorare.
→ Nella rubrica vengono inclusi, non soltanto i fatti principali, ma anche tutti i torti che Gualtieri fa
a Griselda e che lei sopporta con pazienza. Dioneo è colui che sembrerebbe scegliere un tema
differente dagli esempi di magnanimità, anche se in questo caso sembra meno “vero”. Parlerà di
una “matta bestialità” = Gualtieri e della crudeltà che consuma ai danni di Griselda. Primo atto di
crudeltà → costretto dai suoi sudditi a trovare moglie, sceglie una donna di bassa condizione
sociale dalla quale avrà due figli. Le fa credere che entrambi i figli sono morti (in realtà li allontana)
e lei sopporta poiché è stata graziata di essere moglie di un Marchese. Secondo atto di crudeltà →
le dice di volerla ripudiare e la allontana (= Griselda si spoglie dai vestiti lussuosi ed esce nuda
come era entrata). Terzo atto di crudeltà → riporta una della figlia che aveva “ucciso” e le fa
credere di essere la nuova moglie e Griselda è costretta a risistemare la casa poiché venga accolta
la nuova moglie. Alla fine della terza prova, le viene rivelato che è la loro figlia e l’ordine viene
ristabilito + ritornano i suoi vestiti e può rientrare nella casa. Dopo tutto questo, Griselda risulterà
degna del titolo di moglie del Marchese Gualtieri. Petrarca riprese questa novella e la tradusse in
latino = attenuandone il carattere di ambiguità.

Uno dei temi più importanti è il trionfo dell’ingegno, motti e beffe (Giornate VI, VII, VIII). È un
tema trasversale che in realtà attraversa un po’ tutta l’opera (= già presenta in Melchisedech). Le
novelle sono brevi = proprio per via dell’efficacità delle beffe e del motto [brevitas]. Sono tutte
perlopiù novelle di ambientazione toscana. La toscanità ha in sé la dote del motto e dell’uscita
comica che risolve spesso le questioni e talvolta, letteralmente, salva la vita.
Sesta Giornata, Novella 1
Un cavalier dice a Madonna Oretta di portarla con una novella: e, mal compostamente dicendola,
è da lei pregato che a piè la ponga.
→ Il tema stesso è quello del saper raccontare → duplice dimensione metanarrativa = da un lato
insiste sul valore positivo del motto e dall’altro riflette sull’appropriatezza nel narrare. Il racconto
accompagna un viaggio in cavallo = in realtà non c’è nessun cavallo, la novella è il cavallo che
dovrebbe accompagnare il viaggio. Idea che uomini e donne hanno registri e modi differenti. Il
motto perché funzioni, deve essere inteso → chi lo riceve deve capirlo, altrimenti cade nel vuoto e
non funziona. Il motto viene presentato come un modo cortese di imporre il silenzio a un cavaliere
= il motto funziona perché rimette a posto la goffaggine dell’interlocutore. Madonna Oretta è un

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Letteratura Italiana

personaggio gentile, costumata e ben parlante = sa parlare bene. La novella è un mezzo di


trasporto che accompagnerà questo lungo viaggio e madonna Oretta la accoglie volentieri. Il
cavaliere non sa bene novellare + non è un bravo cavaliere e non gli sta bene la spada affianco → il
non saper parlare implica il fatto che non è un buon cavaliere poiché normalmente lo sanno fare. Il
problema non è la materia del racconto ma il modo in cui viene raccontata. La novella in sé
sarebbe bellissima ma questo è un novellatore pessimo e non riesce a trovare il registro adeguato
= gli mancano tutti gli strumenti tipici del bravo novellatore. Madonna Oretta viene talmente
disturbata dalla goffaggine del novellatore e suda, sembra quasi morire. Ecco il motto → Madonna
Oretta: questo cavallo ha un trotto troppo duro, mettetemi giù e fatemi andare a piedi.
Scioglimento → è un cattivo novellatore, ma capisce subito il senso della battuta della donna e la
prende con festa e scherzo.
Sesta Giornata, Novella 2
Cisti fornaio con una sola parola fa raveder Geri Spina d’una sua trascutata domanda.
→ Geri Spina è il coniuge di Madonna Oretta. È la novella di Cisti fornaio, della sua magnanimità e
della sua eleganza che pone al centro un’altra grande questione → la nobiltà di certi costumi non è
detto che riguardi solo coloro che sono socialmente nobili. Cisti è un fornaio ma è una persona di
virtù e di grande nobiltà. Cisti vuole attirare l’attenzione degli ambasciatori del Papa, che sono
ospiti a casa del nobile Geri Spina. Cisti, essendo fornaio, ha anche degli ottimi e pregiati vini =
cerca un modo elegante per far sì che gli ospiti notino il suo vino. Nell’offrire questo vino, usa delle
misure adeguate a una bevanda così di pregio. Alla fine della novella, Geri Spina vuole offrire ai
propri ospiti parte del vino che ha assaggiato difronte alla bottega di Cisti e manda uno dei suoi
servitori perché prenda questo vino. Il servitore, non conoscendo la premessa di questo
elegantissimo rituale che Cisti e Geri hanno consumato nei giorni precedenti → l’offerta misurata e
il modo adeguato di riceverla sono al centro di questo rituale. Il servitore va lì e si porta dietro un
contenitore grande per un vino pregiatissimo = la risposta di Cisti è che non può essere stato Geri
Spina a mandarlo con quel contenitore. Il buon fornaio, fa notare al servitore che quella domanda
(quel contenitore) presupporrebbe come risposta che il servitore vada ad Arno. Se vuoi riempire
quel contenitore, vai e riempilo con le acque dell’Arno. Quando la risposta di Cisti passa dal
servitore a Geri Spina → capisce poiché è un ottimo intenditore, e dà al suo servitore un piccolo
contenitore adatto al pregiatissimo vino e che non è adatto a persone che non hanno gli strumenti
per accettarlo. Quando Cisti vede il contenitore, asseconda la richiesta e si scioglie qui la novella.
Finché viene ricevuto dal servitore è inefficace = non funziona e torna indietro – soltanto nel
momento in cui l’interlocutore è adatto a decodificare e capire il valore del motto = funziona.
Sesta Giornata, Novella 4
Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l’ira di Currado volge
in riso e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.
→ Abbiamo un gioco di parole, un motto che salva la pelle allo sciocco Chichibio, cuoco veneziano
che è incapace di non assecondare le voglie di una giovane di cui è innamorato = Brunetta.
Quest’ultima sente l’ottimo profumo della gru che Chichibio ha appena cucinato e vuole a tutti i
costi una coscia. Lo sciocco che non riesce a sottrarsi alla richiesta della donna, troverà grazie alla
Fortuna, che gli darà un modo della parola quasi inatteso per difendersi = trova il motto in gradi di

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Letteratura Italiana

evitare la vendetta da parte del proprio Signore. È un dicitore che non sarebbe abile, ma la sorta fa
sì che la paura di essere punito dal Signore, gli fa trovare la battuta adatta. Motto → la gru viene
privata di una delle cosce e nel momento in cui viene servita agli ospiti, il cuoco per difendersi dice
al proprio signore che le gru hanno una coscia sola. I due, cuoco e signore, vanno ad osservare le
gru = mentre dormono, stanno su una zampa sola – il signore fa: “Ho, Ho!” e sveglia le gru che,
volando via, mostrano entrambe le zampe. La risposta → “Signore, ieri sera non avete fatto Ho,
Ho! Perché sennò anche quella cotta avrebbe tirato giù l’altra zampa”. A Currado, la risposta
piacque talmente tanto che la sua ira si tramutò in risata.
Sesta Giornata, Novella 7
Madonna Filippa dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e
piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare.
→ Madonna Filippa è un’altra delle grande eroine della Sesta Giornata e a differenza di Madonna
Oretta, è una donna che starebbe bene anche nella Giornata successiva ovvero quella delle beffe.
Madonna Filippa viene colta in flagrante adulterio a Prato → una legge, uno statuto prescrive il
rogo per le donne infedeli e per quelle che si prostituiscono. Difronte al giudice, che vorrebbe
difenderla, non nega nulla e con un motto di spirito riesce a sottrarsi e a far modificare lo statuto
→ verrà applicato soltanto a coloro che si prostituiscono. Lei dichiara fin da subito di avere
un’amante e chiede al giudice che chieda al marito se ogni qualvolta ha chiesto di aver un
soddisfacimento sessuale, la moglie gliel’ha concesso. Capacità di usare la parola + grande ingegno
= se il marito non è in grado di starle dietro, perché non dovrebbe concedersi ad altri e perché
dovrebbe gettare ai cani quello che il marito non vuole? L’umorismo di questa domanda rivolta al
giudice le salva la vita.
Ottava Giornata, Novella 7
Uno scolare ama una donna vedova, la quale, innamorata d’altrui, una notte di verno il fa stare
sopra la neve a aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì
la fa stare in su una torre alle mosche e a’ tafani e al sole.
→ Questa e una delle novelle più lunghe = abbiamo la beffa e la contro beffa. Si inizia con uno
scolare che viene da Parigi e che si innamora di una vedova = questa lo prenderà in giro facendogli
credere di corrisponderlo con una beffa crudelissima. Lo convoca a casa sua di notte, durante
l’inverno, e lo lascia ad aspettare al gelo in cortile mentre lei si diverte con il suo vero amante.
Metafora dell’amante che arde di passione. Il povero scolare, a fine di questo supplizio, capisce di
essere vittima di una beffa crudelissima. Contro beffa che riuscirà a restituire il torto ricevuto → la
vedova Elena, viene lasciata dal proprio amante, e si affida allo scolare che, essendo dotto,
dovrebbe essere esperto di arti magiche. Gli chiede, non ricordandosi del torto che gli aveva fatto,
aiuto per una pozione magica per riconquistare l’amante perduto. Lo scolare la fa salire su una
torre mezza nuda e lì la lascia al caldo di luglio = viene bruciata quasi viva, ma sopravvive → sorta
di contrappasso alla condizione che aveva inflitto al suo innamorato non corrisposto. Idea di come
vengono usate le beffe e di quanto possano essere pericolose = nelle altre novelle non c’è mai
stata una vendetta e Boccaccio ci fa vedere il caso in cui l’arte ha risposto all’arte. Il motto ha una
parte di utile consiglio = state attenti a chi beffate poiché vi si può ritorcere contro di voi.

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