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Il teatro d’opera italiano nel Settecento

Lacune storiografiche

I giudizi tendenzialmente negativi proferiti nei confronti dell’opera e degli operisti italiani del
settecento, risalgono alla visione teleologica che Wagner ebbe della storia dell’opera, da lui
espressa in Oper und Drama del 1851, scritto che divenne il presupposto teorico per quasi
tutte le susseguenti storie dell’opera.
Wagner diede per scontato che l’ideale drammatico fosse quello che segnava il trionfo delle
cosiddette forme “libere” e del recitativo accompagnato sulle forme chiuse dell’aria, che
impedivano di dare “continuità” al dramma. Il melodramma italiano fu da lui giudicato un
assemblaggio di forme chiuse, sconnesse tra loro, mentre l’operista che le aveva adoperate
fu criticato per aver mantenuto una posizione subordinata nei confronti dei cantanti, degli
impresari, del pubblico e delle “corrotte” consuetudini teatrali dell’epoca.
Quanto ci è noto sulla vita e l’opera della maggior parte degli operisti attivi nel XVIII secolo
risale a notizie pubblicate più di un secolo fa, inesatte e lacunose, riprese dalle “voci” dei
dizionari e delle enciclopedie più recenti.
Il melodramma del Settecento non ha trovato stabile accoglienza sulle scene dei nostri teatri
e non ha avuto diffusione attraverso le registrazioni sonore, con qualche rara eccezione
(Gluck e Mozart). Tale mancanza non ha interessato invece il repertorio strumentale coevo,
tornato a vivere nelle sale da concerto. Tra le ragioni di questo fenomeno, si può indicare la
quasi totale scomparsa della tradizione vocale settecentesca, fondata sulla leggerezza,
flessibilità e plasticità del suono, sull’intelligenza improvvisatoria e sulla maestria tecnica
dell’interpretazione canora. Per designare questo genere di vocalità, fu introdotta verso la
metà del XIX secolo l’espressione “bel canto” in riferimento ad uno stile di canto che già
allora apparteneva ormai al passato.
Il repertorio del teatro d’opera del Settecento, è tra le più alte espressioni della musica e
della cultura italiana di ogni tempo. Il linguaggio musicale dell’opera settecentesca s’impose
come modello indiscutibile e supremo della creazione vocale, come punto di riferimento
obbligato per i grandi compositori del tempo (Haendel, Gluck, Haydn e Mozart).

Il sistema produttivo: meccanismi di circolazione e diffusione del repertorio


operistico.

Il concetto di un vero e proprio repertorio operistico stabile, era un fenomeno pressoché


sconosciuto specialmente nel primo Settecento, in tutte le nazioni in cui prevaleva la
tradizione melodrammatica italiana, ossia praticamente in tutta Europa. Un’opera, anche se
avesse riscosso il successo, veniva ripresa due-tre volte durante la stessa stagione, ma
quasi mai ripetuta con la stessa musica nelle stagioni successive.
Ottenere dai teatri il maggior numero di riprese possibile è fenomeno ottocentesco e
moderno. Questo orientamento recente è il risultato di diversi fattori:
lo sviluppo dell’editoria musicale e l’istituzione del diritto d’autore. Le prime leggi sul diritto
d’autore furono varate prima in Francia in epoca rivoluzionaria, e solo più tardi in Italia, con
la legge n. 2337 del 25 giugno 1865 emanata dal Parlamento nazionale subito dopo l’Unità.
Molto diverse sono le modalità di creazione, produzione e consumo del repertorio operistico
nel Settecento. In quest’epoca era virtualmente escluso che per un nuovo allestimento della
stessa opera si utilizzasse inalterata la partitura di un allestimento precedente, ed era invece
scontato che si intervenisse, per mano dell’autore originario o ad opera di un altro musicista
e librettista, inserendo musiche e versi nuovi di arie, tagliando recitativi, spostando o
riducendo atti o scene intere, riutilizzando ouvertures o sinfonie d’apertura all’opera già
composte per altri lavori teatrali. Il Settecento non ha conosciuto “opere originali” o “opere
d’autore”. Si utilizzava la pratica del cosiddetto “pasticcio”, cioè un’opera che riuniva una
serie di brani eterogenei di più musicisti e anche testi di poeti diversi; si faceva uso di arie
composte in precedenza per lo stesso testo teatrale, oppure si inventavano nuovi testi che
venivano metricamente adattati ad una partitura preesistente, specie se appartenenti al
repertorio dei singoli cantanti.
La partitura era creata ad uso e consumo di un allestimento specifico, dopo il quale aveva
esaurito la sua funzione. Una volta rappresentata l’opera la partitura veniva ceduta per
contratto al teatro, all’impresario o a colui che finanziava lo spettacolo, che la poteva
reimpiegare parzialmente senza corrispondere alcun compenso ulteriore all’autore della
musica. In Italia il compositore non poteva reclamare alcun diritto sulla propria opera; i
copisti potevano moltiplicarne le copie a piacimento secondo la richiesta suscitata dai singoli
pezzi. Più delle partiture orchestrali complete circolavano le singole arie riunite in raccolte
antologiche manoscritte, da collezione e come repertorio personale di singoli cantanti.

Il sistema impresariale dello spettacolo operistico, votato in primo luogo al guadagno


economico, andò propagandosi ovunque dopo essere stato introdotto a Venezia nel 1637.
Nell’ottica dell’impresario erano i cantanti solisti ad occupare il primo posto nella scala
gerarchica del personale artistico, seguiti dagli ideatori delle scene; in posizione subalterna
ad essi tutti, si poneva il compositore.
Nell’organizzare una stagione o uno spettacolo, l’impresario si comportava di solito nel modo
seguente: affittava il teatro, si procurava i migliori cantanti disponibili, affidava al librettista la
redazione del testo poetico (a sua volta finanziava egli stesso la stampa del libretto e
ricavava un tornaconto dalla vendita dei libretti), incaricava il musicista di stendere la
partitura, scritta in funzione prima di tutto delle capacità vocali degli interpreti disponibili.
L’influenza che il compositore poteva esercitare sui cantanti che venivano scritturati era
molto modesta, a meno che egli stesso non svolgesse l’attività di impresario (Vivaldi).
Il teatro d’opera italiano del Settecento si configura come un’attività sempre più
istituzionalizzata e continuativa, legata fortemente alle consuetudini sociali, economiche e
culturali cittadine. La relativa stabilità politica dell’Italia del tempo, favorì il consolidamento e
la diffusione capillare delle istituzioni teatrali non solo nelle capitali o nei centri di maggiore
affluenza turistica, ma anche nei piccoli e periferici luoghi di provincia. I teatri “all’italiana”
vengono costruiti e decorati in tutta Europa da generazioni di validi architetti e scenogfrafi
italiani. Per aumentare l’effetto di profondità venne adottata dagli scenografi la tecnica
prospettica nota come “veduta per angolo” che rende illusoriamente lontano lo spazio del
palcoscenico mediante la moltiplicazione degli assi prospettici.
Nel corso del Settecento molti teatri sono gestiti in regime di conduzione societaria, con
sussidi governativi, fatto che comporta il cointeressamento diretto e attivo della cittadinanza
alla vita operistica. In Italia, il teatro è denominato “Comunale” o “Comunitario”. Sono
comunque le “nobili società” che per lungo tempo mantengono il loro potere nella gestione
dei teatri italiani. La grande quantità di teatri nonché la regolarità e l’intensità delle stagioni
operistiche favorirono il notevole incremento del repertorio operistico. Venne incentivato il
sistema produttivo impresariale che controllava il mercato e la circolazione dei cantanti,
compositori, ballerini e scenografi. L’opera seria era il genere di spettacolo che alimentava il
giro maggiore di capitali, richiedeva la partecipazione di un cast vocale di prestigio e
riceveva pertanto sussidi governativi.
Il librettista Piero Metastasio fu nel Settecento quello più accreditato: i suoi libretti ebbero
circolazione più durevole in Italia e nell’Europa intera, erano inoltre poco costosi perché di
dominio pubblico, già pronti e facilmente adattabili alle esigenze della specifica
rappresentazione.
Mentre facile e veloce era la circolazione dei libretti, soltanto in casi rari avveniva la ripresa
in teatri diversi di una stessa partitura. Molti musicisti non avevano alcun interesse a
sollecitare la circolazione delle proprie partiture, le quali avrebbero procurato guadagni
soltanto ai maestri adattatori locali.

Il cantante: formazione scolastica e competenze professionali

Il sistema socio-economico era costruito in modo da permettere e valorizzare al massimo le


qualità interpretative dei cantanti virtuosi. Intorno ad essi ruotava lo spettacolo operistico, ed
era sulle loro doti esecutive che si fondava il maggiore o minore successo della
rappresentazione. Erano i grandi cantanti a determinare il carattere specifico dell’opera, in
senso sia letterario sia musicale, soprattutto per quanto riguarda l’aria solistica, progettata
secondo le esigenze e le capacità dei cantanti.
In genere i cantanti non erano figli d’arte e pertanto la loro istruzione avveniva al di fuori
dell’ambiente familiare. I fanciulli di otto-dieci anni erano di norma avviati al canto nelle
cappelle ecclesiastiche, oppure affidate a maestri cantanti i quali avevano diritto a dirigere
poi la carriera dell’artista e a rivendicare per un certo numero di anni una parte del loro
guadagno. Molti maestri tenevano i loro allievi in casa e l’apprendimento durava di norma sei
anni: se il ragazzo era giudicato idoneo, gli veniva impedita la mutazione della voce nell’età
adolescenziale mediante l’evirazione (operazione chirurgica praticata quasi esclusivamente
in Italia) che lo privava degli organi della virilità. Ad una voce di soprano o di contralto, si
univa una potenza respiratoria del petto adulto maschile. Si assiste nel Settecento alla
preponderanza dei registri acuti nella distribuzione delle parti vocali dell’opera seria, mentre
alle voci maschili di tenori e di bassi erano assegnati ruoli marginali e secondari, adottati piu
che altro nell’opera buffa. L’insegnamento impartito al giovane musicista riguardava oltre il
canto, anche il solfeggio, gli esercizi sul basso cifrato e non cifrato, la pratica di uno
strumento, talvolta la grammatica. Un’allievo veniva istruito sul modo di produrre il suono,
sulla “messa di voce”, sull’ornamentazione melodica.
La crescita delle attività musicali nelle maggiori città porto all’organizzazione di scuole di
musica dedite all'istruzione professionale di cantanti, strumentisti, compositori. Nel XVI
secolo nacquero pubblici istituti caritativi, chiamati “conservatori” (“istituti di custodia”), poi
trasformati nella seconda metà del XVI secolo in scuole di formazione professionale per i
musicisti che le frequentavano. Molto rinomati erano i quattro conservatori napoletani, i
quattro Ospedali veneziani, che impartivano insegnamenti musicali soltanto a ragazze, le
quali venivano utilizzate esclusivamente nelle esecuzioni che si tenevano nelle chiese e
nelle case patrizie, ma non nei teatri.

L’operista: apprendistato tecnico, inserimento nel sistema produttivo, modi e tempi di


lavoro.

Con la proliferazione dei teatri, divenne sempre più ampia la richiesta di opere nuove, fatto
che trasformò ben presto la professione dell’operista sedentario in quella d’uno specialista
itinerante. Le scritture teatrali, prevedevano esplicitamente la presenza del compositore in
teatro, sia per le prove con i cantanti e strumentisti, sia per almeno le prime tre sere della
rappresentazione. La produzione teatrale dei produttori settecenteschi aumentò
notevolmente rispetto a quella degli operisti attivi nel XVII secolo. Essi produssero in media
da uno a tre lavori teatrali l’anno; passavano quasi sempre poche settimane tra la scrittura
teatrale e l’andata in scena dell’opera: il compositore aveva poco tempo a disposizione per
completare la partitura.
Prima di passare alla creazione della partitura, l’operista doveva conoscere le caratteristiche
vocali e teatrali dei virtuosi scritturati per la prima rappresentazione. La stesura del testo
musicale partiva dalla composizione delle parti vocali: si scrivevano prima i concertati vocali,
poi le arie solistiche e infine i recitativi. Questo modo di procedere permetteva all’operista di
spostare più facilmente le arie da un punto all’altro dell’opera o di trasporle ad altra tonalità.
Il musicista che scriveva per il teatro poneva dunque al centro della propria visione
compositiva la parte vocale come elemento strutturalmente privilegiato. La sostanza vocale
era la risorsa fondamentale.
Per il giovane compositore che avesse voluto intraprendere la carriera teatrale
l’apprendistato delle tecniche del mestiere avveniva attraverso l’esperienza pratica diretta e
per imitazione dei modelli compositivi predominanti. Seguivano programmi di studio basati
sulle forme musicali tradizionali radicate nel passato. Mancavano una “teoria” ed una prassi
didattica della musica teatrale: vi era l’assenza pressoché totale dei testi teorici sulla
composizione operistica.
Con l’istituzionalizzazione totale dell’apprendimento musicale, si potrà disporre dei primi
manuali dedicati alla didattica della composizione che non riguardino unicamente lo studio
del contrappunto e della musica ecclesiastica:
Gradus ad Parnassum di Johann Joseph Fux (1660-1741), era largamente usato dagli allievi
compositori dei conservatori napoletani.
L’inserimento del giovane operista nel mondo teatrale avveniva di norma attraverso la
commissione di aggiunte, adattamenti e modifiche di opere altrui già rappresentate altrove. Il
giovane compositore doveva sempre assicurarsi la protezione di una persona potente o
influente e procurarsi l’appoggio di un compositore già noto. Dai primi anni del Settecento,
Napoli e Venezia erano le piazze più importanti del circuito teatrale: per la numerosità delle
stagioni operistiche e dei teatri dediti all’opera. Al giovane operista ben difficilmente era dato
di affermarsi nei teatri principali, e doveva pertanto scegliere di operare in un primo tempo
nell’ambito della commedia musicale.

L’opera seria: struttura del libretto, caratteri stilistico-musicali dell’aria.

Tra la fine del Seicento e i primi anni del Settecento, il dramma musicale serio era
caratterizzato dalla commistione di scene tragiche, comiche e coreutiche, con una
sovrabbondanza di arie solistiche, la maggioranza delle quali di struttura tripartita col “da
capo” e accompagnate dal solo basso continuo. I letterati arcadici propugnarono la
chiarezza e la naturalezza del linguaggio poetico, nonché la riforma del teatro tragico, che
essi vollero ricondurre ai modelli del teatro antico e delle coeve tragédies parlate francesi di
Corneille e Racine. Ciò comportò la semplificazione dell’intreccio e l’eliminazione dei
personaggi comici e delle scene buffe.
Alcuni rigidi censori arcadici, misero in discussione l’impiego della musica nel teatro d’opera
poiché non trovava una giustificazione razionali. Antonio Muratori (1672-1750), erudito
storiografo modenese e frequentatore appassionato di quello spettacolo, trovava alquanto
innaturale che un personaggio andasse a morire e pure nel medesimo punto cantasse
dolcemente gorgheggiando.
Altri letterati arcadici accordarono invece al dramma per musica il diritto di dignità estetica,
mentre altri ancora ritennero di poter redimere il melodramma dalle bassezze in cui si
dibatteva dal punto di vista letterario, limitando il numero delle arie e adattandone i contenuti
al nobile ideale della tragedia classicheggiante francese.
Giovanni Mario Crescimbeni (1663-1727), letterario drammaturgo francofilo che fondò la
colonia arcadica a Bologna nel 1698. Nel trattato “Della tragedia antica e moderna” precisò
che al recitativo compete “tutto ciò ch’è racconto o espressione non concitata”, assolve cioè
le funzioni narrative; mentre le arie costituiscono una pausa contemplativa, sono adatte ad
esprimere “ciò che ha la mossa della passione” e ciò che i personaggi via via sentono come
reazione alle vicende appena rappresentate. I versi poetici che Martello consiglia per i
recitativi sono i settenari e gli endecasillabi sciolti, per le arie gli ottonari ed i settenari, ma
anche i senari, i quinari e i decasillabi.
Martello si pronunciò anche sulla collocazione dell’aria all’interno delle singole scene:
ciascuna scena è concepita in funzione dell’interprete che si esibisce, assumendo un’unica
posa e muovendosi il meno possibile. Martello distingue tre tipi di arie: 1. “d’uscita”, quando
il personaggio si trova all’inizio della scena (il cantante esce dalle quinte sul palcoscenico);
2. “media”, l’aria è collocata a metà scena; 3. “d’ingresso” o “d’entrata”, appena dopo il
ritorno dell’interprete dal palcoscenico alle quinte. Al testo viene attribuita la funzione di
esprimere un singolo “affetto”: serve a suscitare i conflitti drammatici astratti, statici e
generici in cui un personaggio viene a trovarsi. Nel Settecento l’aria verrà classificata dai
teorici in base alla situazione drammatica che essa esprimeva, sarà definita secondo il
carattere stilistico-espressivo, oppure verrà distinta in base alla tecnica vocale usata.
Dopo il 1690 i librettisti dovettero prestare sempre più attenzione all’accomodamento del
testo dell’aria all’azione di “uscita” e di “entrata” dei personaggi. Il loro movimento era ora
“regolato” ordinatamente dal procedimento razionalistico della liaison des scènes: la
successione degli episodi è articolata in modo che “scene” consecutive abbiano almeno un
personaggio in comune; l’interruzione della liaison avviene con la “mutazione” di scena,
ossia con il cambiamento del quadro scenico. Ogni dramma musicale è di norma articolato
in un numero medio di sei-sette mutazioni di scena, due per ciascuno dei tra atti. Ogni atto si
divide inoltre in molte scene, dodici-quindici per ciascun atto; il cambio di scena avviene ogni
volta che un personaggio esce o entra dal palcoscenico.
Nelle mani dei librettisti aderenti agli ideali dell’Arcadia, il melodramma subì inoltre alcune
trasformazioni nella sua struttura formale. Seguendo il modello della tragédie francese, si
semplificò la trama, si sopressero i personaggi e gli episodi comici, si sfoltì il numero delle
scene, si ridusse il numero delle arie a cui si diede un assetto metrico maggiormente
omogeneo. Molte delle trame erano tratte dalla storia antica greco-romana-persiana, spesso
basate sulle tragédies di Corneille e Racine, esaltavano genericamente i valori politici di
fedeltà, virtù, costanza, amicizia. Lo svolgimento era inteso a mettere in evidenza e a
rendere omaggio al potere della monarchia e di altri istituti assolutistici, fondamento positivo
della società civile e garanzia di stabilità politica.
Il ceto sociale sostenitore del teatro operistico era la classe dominante. Il pubblico non
aristocratico era del tutto secondario nel determinare il carattere degli ideali che l’opera
esprimeva.
I librettisti contribuirono all’affermazione del nuovo tipo di libretto: Antonio Salvi (1664-
1724), Girolamo Frigimelica Roberti (1653-1732), Domenico David (?-1698), il cui
dramma serio “La forza della virtù”, rappresentato a Venezia nel 1693 su musica di Carlo
Francesco Pollarolo, conseguì un enorme successo. L’opera, articolata in tre atti, eliminate
le scene comiche e il numero delle arie è molto più ridotto.
Apostolo Zeno (1668-1750), autore di trentasei libretti di melodrammi. Fu tra i fondatori e
vice-presidente della “colonia” veneziana d’Arcadia, anch’egli cerco di adattare i contenuti
del dramma per musica agli ideali della tragedia parlata dei francesi.

Librettista che si può considerare il poeta italiano più famoso dal periodo che va da Tasso a
Leopardi è Pietro Metastasio (1698-1782). Progettò i suoi ventisette drammi per musica in
maniera estremamente funzionale alle esigenze dell’espressione musicale, mantenendo in
essi uno stile poetico-letterario di alto livello, perfezionando e stilizzando al massimo la
struttura formale. Per questo motivo i suoi drammi acquistarono valore di modello esemplare
che praticamente ogni librettista ebbe a seguire per un intero secolo circa. L’ascesa di
Metastasio, coincise con l’affermazione di una nuova generazione di cantanti che avevano
raggiunto un livello altissimo di abilità esecutiva, che determinarono una più complessa e
ampia articolazione delle arie, ora marcatamente contrapposte al momento del recitativo.
Formatosi a Roma alla scuola di uno dei fondatori dell’Arcadia, Gian Vincenzo Gravina, dal
1719 al 1730, fu attivo soprattutto a Napoli. Decisivo fu il suo incontro con la nuova
generazione di musicisti napoletani proprio al loro emergere sulle scene nazionali e
internazionali. Egli dapprima poetò per occasioni nuziali: scrisse tre “azioni teatrali” musicate
da Nicola Porpora (1696-1734) e Domenico Sarro (1679-1744). I suoi primi drammi seri
furono invece quasi tutti musicati da Leonardo Vinci (1696-1730).
Nel 1730 fu chiamato a Vienna a coprire l’incarico di poeta della corte imperiale, che
mantenne fino alla morte e che gli permise di vivere in agiatezza e tranquillità.
Nella vasta schiera di compositori che hanno messo in musica i “drammi per musica” seri di
Metastasio, vi è stato Johann Adolf Hasse (1699-1783). Appartiene alla prima generazione
di musicisti che ebbero la formazione a Napoli; nato a Bergedorf presso Amburgo, può
essere considerato come il più italianizzato dei compositori tedeschi del Settecento. Hasse
ebbe occasione di conoscere Metastasio, il quale avrebbe dato un orientamento
determinante alla sua produzione operistica, appartenente appunto per la maggior parte al
genere serio. Hasse si considerava discepolo di Metastasio e durante tutta la sua carriera di
operista di successo, musicò tutti i drammi del poeta. Assieme, vennero ritenuti gli esponenti
di primo piano e tra i più significativi della tradizione dell’opera seria, da cui ogni giovane
operista doveva muovere i primi passi per affermarsi nella propria carriera di successo.
Hasse godette in vita di una fama internazionale: in Italia venne conosciuto affettuosamente
come “il caro Sassone” e fu venerato per aver portato ad un alto grado di perfezione il
linguaggio dell’opera seria. Il primo successo della sua carriera fu nel 1730 a Venezia con l’
“Artaserse”.
I drammi di Metastasio furono ideati con la precisa consapevolezza che avrebbero trovato la
loro realizzazione solo se uniti alla musica e al canto. In una lettera ad una contessa
napoletana del 1750, egli scrive: “Io non so scriver cosa ch’abbia ad esser cantata senza
immaginarne la musica”.
Consapevole della destinazione musicale dei suoi testi, Metastasio si adopera a costruirli
secondo un piano drammaturgico calibrato e razionalmente predisposto, che tiene presenti
le esigenze del canto virtuosistico.
Dalle opere di Metastasio sorgono:
-le virtù dell’amicizia, della fedeltà, dell’eroismo
-la celebrazione e l’ormaggio del potere assolutista regio: il re è arbitro degli altri personaggi
e un suo atto di magnanimità ha funzione risolutiva nel momento culminante della
conclusione.
La vicenda dei drammi, tutti articolati in tre atti, è sviluppata in modo da far convergere tutte
le linee d’azione sulla catastrofe finale del terzo atto, che sfiora la tragedia per poi scomporsi
nel lieto fine. L’espediente usato per conferire alla trama forza direzionale è “l’indecisione
umana”; la virtù è il concetto che giustifica e risolve l’indecisione.
Molti studiosi evidenziano la precisa corrispondenza tra le trame dei drammi metastasiani e
le situazioni politiche dell’epoca: per la costante attenzione che pose il poeta sulla
glorificazione del potere sovrano e delle virtù regali.
La strategia drammaturgica seguita da Metastasio permette l’alternarsi di una vasta gamma
di stati d’animo diversi e contrastanti. Dovendo tener conto delle esigenze artistiche dei
cantanti protagonisti, il poeta accentua al massimo la distinzione funzionale fra recitativo e
aria: la sostanza e le frasi “dinamiche” della trama sono affidate al recitativo, mentre alle
arie, spetta di esprimere vivacemente i principali stati d’animo in cui vengono a trovarsi i
personaggi alla conclusione di un’azione. Merito di Metastasio, è l’aver saputo predisporre
l’intreccio in ogni suo dramma secondo un piano accuratamente equilibrato e perfettamente
armonioso di situazioni affettive. La coerenza drammatica si realizza mediante la calcolata
distribuzione delle arie solistiche: ogni dramma ne contiene da venticinque a trenta, soltanto
uno-due duetti e un “tutti” finale tra i personaggi. Atto per atto, mai si susseguono due arie di
uguale o simile colore affettivo e quasi mai si danno allo stesso personaggio due arie
consecutive ispirate al medesimo sentimento. La disposizione gerarchica dei cantanti
protagonisti determina la distribuzione delle arie:
-al primo castrato e alla prima donna: 5 ciascuno;
-alle seconde parti: 4;
-al sesto e settimo: 3.
Collocazione di un’aria strategica a fine scena, subito avanti l’uscita del personaggio che la
cantava e che aveva piacere di andarsene tra gli applausi del pubblico. A ciascuna aria è
dato il compito di rappresentare un’immagine affettiva astratta o una precisa atmosfera
sentimentale. L’intento è quello di commuovere l’ascoltatore.
I versi delle arie metastasiane contengono non raramente vocaboli che sono ricchi di spunti
descrittivi atti a sollecitare stilemi e raffigurazioni musicali illustrative. Per raffigurare certe
immagini, il compositore aveva a sua disposizione un ricco frasario di figurazioni ritmiche e
melodiche, vocali e strumentali. Le cosiddette “arie di similitudine” sono ricche di spunti
illustrativi e di descrizioni sonore naturalistiche, in cui il personaggio si esprime per metafore,
paragonandosi ad un qualche fenomeno della natura. Tra le arie di similitudine, particolare
fortuna conobbero dal 1720, le cosiddette “arie di tempesta”.
Fulcro del testo poetico è la comparazione metaforica della tempesta, con il tormento
d’amore e con concetti quali lo smarrimento, l’indecisione, il terrore ecc.
Quando alla componente musicale, questo tipo di aria, è caratterizzata dai seguenti elementi
che concorrono a definire la vivida e concitata rappresentazione della tempesta: agogica in
tempo mosso, metro di 4/4, impianto tonale in maggiore, ripetuti e ravvicinati contrasti del
tessuto sonoro, ritmi sincopati, linea vocale altamente virtuosistica, estese fioriture dal profilo
ondeggiante, di scala, di arpeggio, ampi salti melodici, sfruttamento intensivo dei registri
vocali estremi. Caratteristica è inoltre la presenza di coppie di strumenti a fiato per ottenere
un effetto grandioso e concitato. Alla similitudine della tempesta segue una seconda parte
del testo che propone un’immagine rasserenata, corredata da metafore quali il porto, la
bonaccia, il risplendere di una stella benigna ecc. ciò implica una realizzazione musicale
contrastante, di carattere patetico/cantabile, nella sezione B dell’aria, e dunque strettamente
funzionale allo schema conl Da Capo.
I testi di molte arie metastasiane presentano spesso immagini affettive generiche e astratte,
essendo state concepite senza alcun preciso riferimento alla situazione drammatica
sviluppata nei recitativi che le precedono. Il carattere astratto dei testi delle arie inoltre
consentiva il trapianto di uno stesso brano solistico da un’opera all’altra. L’intercambiabilità
delle arie era inerente alla poetica del teatro musicale del tempo e consona al sistema
economico entro il quale esso si realizzava. Era prassi comune riutilizzare in una nuova
partitura pezzi estrapolati da opere di più vecchia data. I cantanti più eminenti mantenevano
un certo numero di arie non destinate ad alcuna opera, ma adatte alle proprie specifiche
caratteristiche vocali. Tali arie potevano essere inserite in una nuova opera per sostituire i
pezzi solistici insoddisfacenti. Queste arie erano denominate “di baule” perchè portate dai
cantanti nei loro continui spostamenti.
L’innovazione di Metastasio rispetto ai librettisti precedenti riguardò l’assoluta regolarità
dell’assetto metrico e ritmico delle due strofe dell’aria (era stata divisa in due strofe con lo
stesso numero di versi). Metastasio fa uso pressoché costante di versi di un sol metro: il più
delle volte le strofe sono tetrastiche, talvolta tristiche. Il metro più frequente adoperato è il
settenario, a volte in combinazione con il quinario. Seguono in ordine di frequenza:
l’ottonario, il senario, il decasillabo, raramente il novenario. La poesia di Metastasio si
contraddistingue per la semplicità del linguaggio e per la eufonia delle rime. La simmetria
cristallina e la marmorea concisione dei versi di Metastasio offrivano al musicista non solo
una falsariga mirabile per l’edificazione di strutture e di scansioni metriche e fraseologiche di
incisiva nitidezza e omogeneità, ma anche gli consentivano di plasmare e articolare intere
sezioni, periodi e frasi dell’aria sulla forma di ciascuna strofa della poesia: le pause, i punti
cadenzali, l’invenzione tematica realizzata in figure statiche o di movimento, l’interazione di
formule ritmiche omogenee per lunghe sezioni, la simmetria oppure l’asimmetria dei profili
melodici, persino la fissazione dei centri di gravitazione tonale erano determinati dall’assetto
poetico. Si venne così a creare un rapporto nuovo tra testo e musica, concezione matura
dell’insieme piuttosto che come pittura drammatica di singoli vocaboli portatori di affetto. I
punti cardine della struttura musicale si analizzano prendendo in considerazione il testo
dell’aria come fondamentale punto di riferimento. Data la regolarità della posizione degli
accenti ritmici, il verso settenario era quello che agevolava maggiormente la costruzione di
fraseggi simmetrici.
Bisogna tener presente che magari fu l’evoluzione stessa del linguaggio musicale che
potrebbe aver suggerito a Metastasio la formulazione di nuove strutture metriche, idonee
alle nuove strutture musicali. La fluidità e la straordinaria regolarità della posizione degli
accenti metrici della poesia metastasiana sono fattori che segnatamente influirono sulla
regolarità metrica e fraseologica dell’invenzione musicale, ciò che costituisce una delle
componenti di quel senso di chiarezza e di equilibrio formale sta alla base dello stile
musicale dell’epoca cosiddetta “classica”.
L’aria col da capo o tripartita è concepita in funzione dell’interprete che la esegue. Il brano si
articola in tre sezioni:
1. La prima strofa del testo poetico fornisce l’ossatura per la prima parte (A): dopo una
prima esposizione del testo che va a risolversi in una tonalità vicina, si passa a
ripetere la stessa prima strofa con modifiche melodiche per ritornare poi alla tonalità
di base.
Brevi incisi strumentali interrompono talvolta le frasi vocali.
2. Segue una seconda parte (B) basata sulla seconda strofa del testo, di tonalità,
melodia e metro contrastanti con quelli della prima parte (A). Questa forma un piacevole
contrasto con la prima: è quasi sempre in proporzione più breve rispetto alla sezione A; si
toccano tonalità abbastanza lontane per terminare di norma alla mediante, sottodominante o
sopradominante della tonalità principale; si riduce notevolmente la strumentazione anche
per il fatto che le tonalità lontane erano spesso inaccessibili per gli ottoni.
3. Si torna poi a ripetere la prima parte dell’aria (A), variata questa volta dagli abbellimenti
improvvisati del cantante. E’ appunto probabile che la prima parte dell’aria fosse ritenuta più
importante perchè nella ripresa “da capo” i cantanti la caricavano delle loro esuberanti e
strabilianti variazioni.
Talvolta l’aria comincia senza un ritornello strumentale. Si tratta di una delle convenzioni
tipiche delle opere metastasiane: accade quando il personaggio risponde direttamente a un
interrogativo del suo interlocutore.
Al fine di allungare la struttura musicale e per rompere l’uniformità metrica o per accentuare
l’espressività patetica dell’aria, i compositori usavano trasformare liberamente il testo
mescolando frasi e parole in vari modi, ripetendo singole parole o versi interi oppure
frammenti di versi, aggiungendo monosillabi quali “si”, “no”, ecc.
Nell’opera seria dei primi decenni del Settecento coesistevano due categorie di arie:
1. L’aria di tipo “vecchio”, legata alla tradizione di fine Seicento: era breve, spesso
basata su schemi di danza e/o sulla ripetizione di cellule ritmiche.
L’accompagnamento standard per questo tipo di aria consisteva spesso nel solo
basso continuo, che svolgeva una parte contrappuntistica nei confronti della parte
vocale e che partecipava alla elaborazione dei motivi. Abbastanza diffusa era anche
la pratica di accompagnare questa categoria di arie con un’orchestra di archi divisa in
tre-quattro parti che raddoppiavano le parti degli archi o suonavano in “obbligo”. I
violini spesso assumevano un andamento concertante e imitativo, di contropiede
rispetto alla voce.
La scrittura orchestrale delle arie di Alessandro Scarlatti (1660-1725) è molto più complessa,
densa e variegata di qualsiasi altro compositore dell’epoca.
Soprattutto nelle opere scritte alla fine della sua carriera, Scarlatti adotta in maniera
consistente vari procedimenti contrappuntistici con largo uso di motivi strumentali
indipendenti insieme con la voce. L’ispessimento della scrittura orchestrale è evidente nel
“Mitridate Eupatore”, opera che ebbe accoglienza decisamente sfavorevole a Venezia nel
1707.
Francesco Florimo (1800-1888), bibliotecario al conservatorio di Napoli e amico di Bellini,
autore di quattro volumi sulla storia musicale di Napoli, opera contenente osservazioni
basate su notizie di fatto talvolta fantasiose.
Fu specialmente l’arte di Giovan Battista Pergolesi che nel corso del Settecento incontrò
fama europea. Nato a Iesi nel 1710 e formatosi al Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo a
Napoli, morì a Pozzuoli nel 1736 a soli ventisei anni dopo un'intensa carriera che si svolse
tra Napoli e Roma. La fama del compositore iesino si impose al mondo intero durante la
cosiddetta Querelle des Bouffons che vide uomini come Rousseau, Diderot, Grumm farsi
entusiasti sostenitori della sua arte. Oltre a Pergolesi, esponenti del nuovo indirizzo stilistico
del teatro d’opera furono quei compositori che si affermarono a Napoli dal 1720 al 1730
circa: Sarro, Porpora, Vinci, Leonardo Leo e Hasse. In molte arie delle loro opere essi
adottarono uno stile scorrevole e moderno, sfrondato di elementi contrappuntistici. Il
predominio assoluto della parte vocale richiedeva infatti che tutto l’interesse melodico fosse
focalizzato sulla parte più acuta, cui si affidano gesti melodici amplissimi, sullo sfondo d’un
accompagnamento distesamente omofonico. Carattere stilistico precipuo di queste arie è la
piacevolezza melodica e l’uso di fraseggi equilibrati, simmetrici e chiaramente articolati.
Largamente adoperate sono le frasi melodiche di 4+4+8 battute, con accorte varianti e
ripetizioni per rendere ordinato il senso del pezzo. Rallentamento del ritmo armonico con
un’alta percentuale di bassi statici costituiti da note ribattute oppure figure ritmiche
incessantemente ripetute. Le armonie statiche favoriscono gli effetti di “crescendo” e di
“diminuendo”, che cominciano sempre più spesso ad essere indicati nelle partiture.
Il complesso strumentale ha la funzione di accompagnamento anziché di organica fusione
contrappuntistica con la voce. I violini raddoppiano la voce all’unisono e gli assoli sono
assegnati a strumenti che procedono per terze. Nella categoria delle arie virtuosistiche i
melismi vocali sono spesso surrogati da figurazioni dinamiche dei violini. Nelle arie lente
“cantabili” ed espressive si adottano spesso gli accompagnamenti di crome e i ritmi
cosiddetti “alla lombarda” (una semicroma seguita da una croma col punto). L. Vinci fu
probabilmente il primo a fare uso di tali ritmi che esercitarono gran fascino su Hasse e su
altri operisti del tempo.

Caratteri stilistici del recitativo

Alla fine del Seicento, il recitativo diviene l’espressione musicale predominante ed esclusiva
nella realizzazione delle frasi dinamiche dell’azione drammatica nonché il tessuto connettivo
fra le varie arie. La metrica adottata nei libretti è fondamentalmente basata su settenari ed
endecasillabi sciolti, disposti e rimati. Molti librettisti della generazione di Zeno fanno rimare
l’ultimo verso del recitativo con il primo verso dell’aria seguente, riuscendo a diminuire il
distacco tra i due.
Si distinguono due tipi di recitativo: quello “semplice” e quello “accompagnato”, “strumentato”
o “obbligato”. Il primo è quello più largamente impiegato e fu così denominato perchè
sostenuto in maniera “semplice” dai soli strumenti del basso continuo.
Non poche furono le osservazioni e le opinioni negative espresse anche dagli scrittori del
Settecento nei confronti del recitativo semplice. Nel trattato Osservazioni de’ cantori antichi
e moderni o sieno Osservazioni sopra il canto figurato, Filippo Tosi sostiene l’inutilità di
parlare della composizione dei recitativi, in quanto i compositori li concepivano “così privi di
naturale e di gusto che non si possono né insegnare, né agire, né cantare”.
Che il recitativo semplice risultasse talvolta tedioso fu magari dovuto alla sua lunghezza e
alla convenzionalità delle sue formule melodiche divenute comuni già dalla fine del XVII
secolo. Dal 1710 circa, non si fece più uso delle alterazioni in chiave e pertanto i segni di
alterazione venivano indicati di volta in volta nel corso del recitativo. Il metro era
invariabilmente in 4/4.La parte vocale si muoveva all’interno di un registro molto ristretto e
solo eccezionalmente procedeva per ampi salti melodici ed era articolata in stretta aderenza
alla prosodia del testo poetico.
Nell’opera settecentesca si favorì invece un recitativo dall’andamento scorrevole e veloce,
privo di un piano tonale predeterminato, che poteva essere scritto senza pensarci troppo: le
sequenze tonali e le modulazioni erano determinate dalla logica musicale della casualità e
dalle esigenze espressive del testo. La linea del basso si sviluppava su valori generalmente
molto lunghi, con frequenti successioni di accordi consonanti; la dissonanza armonica
preferita era l’accordo di settima in terzo rivolto.
Nel Seicento lo stile e le funzioni di aria e recitativo non erano sempre rigidamente divisi. Nel
Settecento divenne abituale accompagnare gli “ariosi” con l’orchestra ed associarli ai
recitativi “obbligati”. L’uso di questo genere di recitativo fu in un primo tempo molto limitato:
lo si utilizzò per mettere in risalto quelle situazioni sceniche di più alta temperatura emotiva.
Nei primi decenni del Settecento il recitativo strumentato era spesso collocato in apertura di
un cambiamento a scene lugubri in cui il personaggio dava sfogo a espressioni di terrore e
sentimenti malinconici.
Tra 1720-1730, la norma era di impiegare almeno due scene di questo tipo in ogni opera
seria, mentre l’uso che se ne faceva nell’opera comica era molto limitato e affidato ai
personaggi seri.
Nella seconda metà del secolo si tende ad ampliare tanto il numero quanto la lunghezza dei
recitativi accompagnati. Uso abbondante ne fa N. Jomelli nelle sue opere scritte per
Stoccarda. Ciò incise con la graduale riduzione, negli anni 1750-1780, del recitativo
semplice.

L’opera comica: struttura del libretto, caratteri stilistico-musicali.

L’opera di genere comico mantenne nel corso del Settecento una propria autonomia di
sviluppo rispetto al dramma musicale serio, gli autori dei libretti e delle musiche erano in
molti casi gli stessi. E’ da modificare il topos storiografico che identifica unilateralmente
l’opera seria con il pubblico aristocratico e l’opera comica con i ceti borghesi e popolari. Nei
primi anni del secolo era pur sempre una parte della nobiltà a finanziare i teatri minori dove
si allestiva l’opera buffa, mentre la corte riservava un’atteggiamento di protezione e di
mecenatismo nei confronti del dramma serio. Gli spettatori dell’uno e dell’altro spettacolo
erano gli stessi. La base del pubblico si allargò solo nella seconda metà del secolo allorché
l’opera comica si imposi in tutti i teatri d’Italia e d’Europa.
Comico non vuole dire realistico ne popolare, l’argomento è di carattere giocoso, rifletteva e
soddisfaceva in primo luogo il bisogno di evasione dalla realtà quotidiana da parte della
società elevata e aristocratica del tempo. I personaggi sono tipi fissati in maschere e costumi
convenzionali: si ride cioè di loro mentre essi lavorano a farci ridere. Il genere in cui la
borghesia si esprime consapevolmente è soltanto nell’opera buffa dalla trama
sentimentalizzata del secolo Settecento, con parti serie che possono diventare oggetto di
critica sociale. Non è possibile risalire alle origini dell’opera comica poiché la questione non
è stata ancora studiata a fondo.
Opere molto simili a quelle comiche:
Giulio Rospigliosi, Chi soffre speri, Dal male il bene.
Giovanni Andrea Moniglia, Trespolo tutore.
Questi lavori contengono larghi interventi buffoneschi di servi, paggi e balie che si esprimono
spesso in dialetto, si esibiscono in ariette di foggia popolareggiante e cantano pezzi
concertati d’insieme.
Non si può dire però che nel Seicento esistesse un genere buffo chiaramente distinguibile
come tale: si tratta di opere che vennero rappresentate in allestimenti occasionali che non
ebbero alcuna circolazione.
Alle origini dell’opera buffa contribuì la riforma del libretto d’opera propugnata
dall’Accademia d’Arcadia.
La formazione d’una tradizione comica musicale si manifestò prima a Napoli nei primi
decenni del Settecento e poi dal 1730 circa, in tutta Italia e nell’Europa intera.
Nei primi anni del secolo il successo del genere comico a Napoli fu tale da richiedere la
costruzione di nuovi teatri ad esso specificatamente dediti: il Teatro Nuovo e quello della
Pace, nel 1724. Questi ebbero il sostegno finanziario della nobiltà.
Nel Settecento si usavano molti termini per designare l’opera di genere comico: intermezzo,
opera buffa, dramma giocoso, commedia per musica, farsa, burletta. Tutte queste categorie
possono essere distinte in due forme principali di produzione:
1. opera breve fatta di pochi episodi comici chiamata “intermezzo”, cantata da due o tre
personaggi, avente funzione di interludio, di inserto diversivo tra gli atti di un’opera
seria.
2. la commedia musicale di dimensioni intere, che teneva da sola tutta la durata della
serata teatrale, in cui agiscono pluralità di ruoli e di livelli artistici.
Il dramma comico si distingueva da quello serio per il peso che spettava nell’economia dello
spettacolo all’azione scenica. Il teatro comico si avvaleva di interpreti meno capaci
vocalmente dei virtuosi dell’opera seria, ma molto più adatti a valorizzare l’azione mimica.
Di conseguenza erano molto inferiori le spese finanziarie necessarie per l’allestimento di
opere di questo tipo: i cantanti avevano contratti separati ed erano retribuiti assai meno; le
dotazioni sceniche erano di ambientazione semplice; le dimensioni degli organici orchestrali
erano ridotte.
Per la sua maggiore economicità, il teatro musicale comico conobbe fin dagli esordi una
circolazione più intensa e capillare. Alcuni intermezzi godettero di una longevità conosciuta
alla maggioranza delle opere serie, anche perchè si costituirono mini troupes itineranti di
due cantanti buffi con un proprio repertorio specialistico proponibile in diversi teatri.
La capillare diffusione degli intermezzi interessò tutti i teatri della penisola: pubblici, di corte
e persino degli istituti scolastici e religiosi. Venivano allestiti anche in forma autonoma. La
forte domanda di opere comiche fu di certo facilitata dai costi di produzione relativamente
bassi e dal prezzo inferiore dei biglietti che si pagava per assistere agli spettacoli. Molti
teatri, si specializzarono nell’allestimento di opere buffe; altri ancora, ospitarono entrambi i
generi.
Al compositore veniva riconosciuto un ruolo maggiore e determinante nei destini della
produzione: il suo contributo al successo diviene via via sempre più decisivo. Cresce la
responsabilità intellettuale del compositore nell’economia dello spettacolo perchè aumenta lo
specifico interesse del pubblico per le qualità musicali e drammaturgiche dell’opera comica.
Il disegno drammatico dell’opera comica non è infatti fondato sui clichés del canto
virtuosistico, quanto sull’impostazione plastica e variegata delle strutture formali, miranti a
stabilire una più stretta aderenza della musica all’azione scenica e alla caratterizzazione
psicologica dei personaggi.

Una prima produzione di intermezzi per due personaggi buffi, si ebbe a Venezia nei
primissimi anni del Settecento. Tra gli intermezzi veneziani che ebbero una certa diffusione
figurarono Melissa e Serpillo di Francesco Gasparini (1661-1727) Pimpione di Tommaso
Albinoni (1671-1751).
Il primo libretto comico in dialetto napoletano di cui si abbia notizia è La città di Francesco
Antonio Tullio (1660-1737) musicato da Michelangelo Faggioli (1666-1733).
Negli anni successivi, numerosi intermezzi furono eseguiti a Napoli in alcune dimore
aristocratiche e al Teatro di San Bartolomeo come diversivo tra gli atti di un’opera seria di
cui però pochissime musiche ci sono pervenute.
Nel decennio 1720-1730, si assiste a Napoli alla formazione di una tradizione comica
musicale, nei generi del breve intermezzo in due parti e della struttura più complessa ed
elaborata del dramma serio, della commedeja pe’ mmuseca in cui si può ravvisare il germe
del futuro dramma giocoso.
I libretti degli intermezzi veneziani e napoletani non hanno pregi particolari di carattere
letterario. Sono meccanismi perfetti di funzionalità scenica: gli intrecci sono semplicissimi,
poche situazioni elementari, rapidissima e vivace è l’azione verbale e mimica. Non più di due
o tre sono i personaggi che vi agiscono, di norma un uomo e una donna. La vicenda si
sviluppa attraverso una serie di conflitti tra i due protagonisti, sciolti in un lieto fine. Gli
argomenti trattati non raramente sono ricavati dalla commedia dell’arte: molto comuni sono i
temi del contrasto tra mariti gelosi e mogli infedeli, tra passione e pregiudizio di classe. In
molti intermezzi amore e matrimonio sono, come il denaro, i mezzi per elevarsi socialmente.

Libretto di G. Federico per solo basso e soprano, più un terzo personaggio muto e
complesso d’archi La serva padrona di Pergolesi andò in scena per la prima volta al Teatro
di San Bartolomeo a Napoli il 5 Settembre 1733. Fu rappresentata come intermezzo comico
a due parti tra gli atti dell’opera seria Il prigionier superbo musicata dallo stesso Pergolesi
per festeggiare il genetliaco di Elisabetta Cristina d’Austria.
L’intermezzo è composto di recitativi e di sette pezzi chiusi: due duetti e cinque arie. Questo
lavoro si affermò presto come modello del suo genere.
Molto in voga nel Settecento era anche la pubblicazione di scritti che esponevano ora con
realismo acuto, ora con arguzia, ora con pesante sarcasmo i retroscena della vita operistica.
Sorta nei primi anni del secolo a Napoli, la commedeja pe mmuseca fu espressione
artistica distinta dall’intermezzo per complessità d’impianto, struttura, contenuti espressivi,
tutte qualità che all’intermezzo furono negate. Come l’intermezzo, rappresenta gli aspetti
buffi della vita quotidiana in chiave realistica, conservando un’ambientazione coeva.
Carattere precipuo della commedia musicale napoletana è la tinta sentimentale e
malinconica della vicenda in cui agiscono personaggi seri e comici, i quali si esprimono in
linguaggi diversi e in una pluralità di stili. I personaggi seri appartenenti alla borghesia
cittadina, cantano molte volte in uno stile simile a quello dell’opera seria ma molto
semplificato; i personaggi buffi, di estrazione plebea, si esibiscono in canzonette di facile
vena melodica con testi in dialetto, La miscelatura di personaggi seri e comici e di parametri
espressivi diversi, costituirà poi uno dei tratti caratterizzanti del teatro musicale comico del
secondo Settecento.
Lo zite ‘n galera di B. Saddùmene con musica di Vinci è tra le prime opere buffe dialettali di
cui disponiamo della partitura.
La commedeja pe’ mmuseca conobbe una notevole fioritura sulle scene napoletane; si
diffuse via via verso il centro e il nord d’Italia e fu introdotta a Venezia nel 1743.
Una tecnica fondamentale dell’opera comica in generale è il travestimento: l’equivoco sulla
persona e quindi anche l’agnizione, ossia la rivelazione della vera identità al termine
dell’esecuzione. I personaggi potevano travestirsi per sfuggire alla collera, alla vendetta di
qualcuno o all’autorità precostituita, per andare alla ricerca di una promessa sposa, di un
parente o indossare abiti di altra persona e godere dei suoi privilegi. Molto diffuso era anche
l’uso di travestire interpreti maschili con abiti femminili e viceversa.
Esempio di ciò e dato nell’opera Inganno per inganno di Nicola Logroscino, uno degli autori
d’opera comica più significativi attivi a Napoli tra il 1740-1760.
Dato che non si adoperavano quasi mai i cantanti evirati, spesso le parti dei giovani
personaggi maschili erano affidate a cantanti donna. Il realismo su cui si basava il teatro
musicale comico richiedeva la riconoscibilità dei personaggi e dello spazio scenico entro il
quale essi agivano, fatto che contribuì ad accentuare una maggior varietà dei timbri vocali
rispetto all’opera seria:
● Soprano: si identifica in un preciso ruolo drammatico e diviene il simbolo immediato
della creatura femminile, della giovane donna nelle sue innumerevoli sfumature
caratteriali: innamorata, malinconica, graziosa, civetta, dispettosa.
● Contralto: la donna meno giovane.
● Basso: il principale personaggio maschile, cantante buffo per antonomasia perché
su di lui verte l’interesse fondamentale della vicenda: il vecchio irretito, l’avaro
spillato, il padrone deriso. La parte di basso è sentita come la tipica voce virile cui si
richiedono le capacità mimiche spigliate ed espressive, dizione rapida e brillante.
● Tenore: parte cosiddetto “di mezzo carattere”, categoria drammatica che si colloca a
metà via tra le “parti serie” e le “parti buffe”.
I libretti di opera comica sono scritti in un italiano vivacemente colloquiale, spesso
trasandato, a volte maccheronico, e pertanto molto diverso dal linguaggio nobile e forbito
dell’opera seria. Numerosi sono i riferimenti realistici alla vita di tutti i giorni, frequente è l’uso
di un vocabolario che talvolta sacrifica grammatica e semantica, ma che molto
efficacemente suggerisce azioni mimiche, ritmi martellanti, fraseggi melodici brevilinei e
scattanti.
Poiché nel dramma comico il peso dello spettacolo spetta all’azione e al suo snodarsi sul
palcoscenico attraverso un ritmo rapido e vivace, la condotta stilistica e formale della musica
deve necessariamente tenere d’occhio i cambiamenti dell’azione e il senso delle parole,
potenziandone i valori espressivi attraverso un ricco corredo di espedienti tecnici, tra i quali
figurano:
● svariate sezioni contrastanti all’interno di brani solistici;
● fraseggi melodici di varia lunghezza;
● inaspettati cambiamenti della dinamica;
● ritmi rapidi e ticchettanti;
● uso dei crescendo su accordi fermi;
● continua ripetizione delle più comuni progressioni di accordi.
Un tratto stilistico che differenzia profondamente il linguaggio musicale comico da quello
serio riguarda la limitazione evidente degli estesi vocalizzi, delle volatine (rapida
successione di un gruppo di note in scala) e di tutti gli altri clichés propri del canto
virtuosistico. Al belcanto fiorito o spianato dell’opera seria si oppone una vocalità di tipo
sillabico, piena di spiccato rilievo ritmico. Ampia applicazione trovano gli stilemi musicali
manierati, finalizzati ad ottenere una vasta gamma di effetti burleschi, atti a provocare il riso,
come ad esempio:
● i vocalizzi posti su una vocale male accentata o sbagliata, caratterizzati da
sgraziati salti melodici per imitare lo stile serio;
● la veloce ripetizione di monosillabi che dilatano il testo;
● l’iterazione a catena, quasi meccanica e turbinante, di brevissimi motivi;
● le pause impreviste;
● la pronuncia irregolare e ansimante di parole;
● le vocali ripetute su una stessa nota:
● l’inserimento di suoni extramusicali che imitano i versi degli animali;
● l’emissione di strani rumori non onomatopeici e comunque extramusicali.
Fondamentalmente diverso dall’opera seria è nell’opera comica il rapporto tra recitativo e
aria. All’interno di un intermezzo le arie raramente seguono la funzione di preludiare l’uscita
del personaggio dalle scene. L’aria solistica non si pone quindi come momento lirico-
riflessivo di statica contemplazione dei fatti avvenuti, ma si presenta come parte integrante
che si inserisce irresistibilmente nell’azione drammatica. L’aria costituisce dunque non tanto
uno stacco netto dal continuum temporale dell’azione, ma ad essa si collega direttamente e
spontaneamente.
L’intento di stabilire una più stretta aderenza della musica all’azione drammatica e alla
caratterizzazione psicologica della situazione dei personaggi, favorì una maggiore plasticità
delle strutture dei pezzi chiusi. Tale necessità si fa già sentire nei lavori di Pergolesi e di altri
musicisti del primo Settecento.
Mentre nell’opera seria predominava il canto solistico sganciato dall’azione e alla sola zona
del recitativo competeva portare avanti il movimento scenico, nell’opera comica il peso
maggiore nella dinamica dello spettacolo spettava all’azione scenica, fatto questo che
favoriva segnatamente il dialogo tra più personaggi. Fin dai primi anni del secolo, momenti
salienti e caratterizzanti dell’opera comica divennero così i pezzi d’insieme o i cosiddetti
“concertati d’azione”. Questi pezzi, in cui cantano contemporaneamente personaggi diversi,
erano concepiti allo scopo di animare scenicamente l’azione, di apporre personaggio a
personaggio, carattere a carattere ed erano costituiti da svariate sezioni di carattere, legate
a volte da temi ricorrenti, così come la situazione drammatica lo esigeva. I finali d’atto quasi
sempre coincidevano con i momenti culminanti della vicenda. La strategia costruttiva da
seguire era lasciata completamente all’invenzione del compositore scegliere l’impalcatura
tonale e le divagazioni in aree tonali diverse, attuare in maniera efficace le contrapposizioni
e le sovrapposizioni delle figure ritmiche, combinare le diverse linee melodiche e farle
passare da una parte vocale all’altra, impostare i cambiamenti di tempo e di metro in
rapporto ai mutamenti d’umore dei personaggi, alle immagini e ai sentimenti suggeriti dal
testo poetico, all’evolversi della situazione drammatica. Molto spesso i concertati
presentavano situazioni sceniche intricate, colme di equivoci, con personaggi nascosti o che
commentano a parte, travestiti o comunque colti in atteggiamenti inconsueti. Nei primi
decenni del secolo i pezzi d’insieme sono in genere posti alla fine di ogni atto e tendono ad
essere relativamente brevi, Molto raramente i personaggi cantano tutti insieme e la linea
vocale passa rapidamente da una parte all’altra.
Negli anni 1740-1760 i pezzi d’insieme subiscono una notevole espansione che alcuni
studiosi attribuiscono a N. Logroscino. Un compito importante nel creare una discreta
continuità tra le varie entrate delle voci e tra le diverse sezioni degli episodi d’insieme spettò
all’orchestra. Molto comune era l’impiego di ostinati strumenti, affidati ai violini e scritti in uno
stile leggero, un po’ nervoso, di grande vitalità ritmica molto adatto alla comicità dei pezzi.
Dopo la metà del secolo si venne ad usare una tecnica orchestrale che caratterizzerà per
lungo tempo la scrittura degli episodi comici d’insieme. Tale tecnica, consiste nel far suonare
la linea melodica agli strumenti, mentre le voci entrano ad intervalli regolari. Il disegno
melodico affidato all’orchestra diviene pertanto il veicolo di non secondaria importanza del
discorso musicale. Dal punto di vista formale i pezzi d’insieme adottano una struttura
durchkomponiert (forma aperta, ossia senza riprese, ritornelli, ripetizioni letterali di episodi
musicali), adatta a seguire l’azione. Un particolare procedimento compositivo che verso la
metà del secolo venne ad emergere in certi finali fu la struttura del rondò, basata su un
episodio che ritorna, inframezzato da varie divagazioni melodiche. Negli anni 50-60 venne di
moda anche il cosiddetto finale “a catena”, che è formato da una specie di catena di sezioni
musicali diverse, ciascuna dotata di una propria fisionomia ritmica, melodica, tonale.

L’opera comica nel secondo Settecento

La grande fioritura dell’opera buffa nella seconda metà del Settecento, fu in buona parte
determinata dall’incontro tra musica napoletana e poesia veneziana. Intorno alla metà del
secolo, l’opera buffa assunse nelle mani del geniale commediografo-librettista veneziano
Carlo Goldoni (1707-1793), la fisionomia che conserva immutata per tutto il secolo,
trasformandosi in un fenomeno culturale di dimensioni europee.
Autore di quindici intermezzi e cinquantacinque drammi giocosi, Goldoni è stato uno dei più
fecondi e influenti librettisti comici del Settecento.
Nel cristallizzare l’assetto formale del “dramma giocoso” in due-tre atti (modello di scrittura
drammatica nel genere comico per i librettisti successivi), il commediografo-librettista
veneziano trasse molti elementi stilistici dalla commedia per musica napoletana.
Per merito di Goldoni, la struttura del libretto si fa più variegata, le vicende si fanno
caricaturali e più sentimentalizzate e i personaggi seri acquistano uno spazio maggiore
rispetto ai drammi comici della prima metà del secolo. Goldoni fu il librettista che
maggiormente contribuì alla transizione verso la nuova vena sentimentale del dramma buffo:
egli ha il merito di aver introdotto nei drammi comici l’elemento tenero.
Nei libretti giocosi di Goldoni sono presenti effetti comici, ironici e satirici fondati sul
contrasto degli stili. Tema costante è il conflitto sociale tra le diverse classi che ha di solito
come centro e come protagonisti l’amore tenero e affettuoso. Altro tema è il vagheggiamento
della natura o il rapporto città-campagna.
Un particolare rilievo nella produzione di Goldoni ebbero alcuni libretti che sviluppano il
motivo del “teatro nel teatro”, cioè la commedia che ha come oggetto se stessa.
Il lavoro di transizione verso la nuova vena sentimentale dell’opera buffa, fu il libretto
goldoniano della Cecchina, la buona figliuola: fu rappresentato la prima volta a Parma nel
1756 con la musica di Egidio Romualdo Duni (1708-1775). L’opera di Duni fu posta però
nell’ombra dalla versione musicata tre anni dopo da Niccolò Piccinni (1728-1800). Il pubblico
contemporaneo fu profondamente colpito dalla grazia e dall’eleganza della partitura di
Piccinni, composta solo in 18 giorni.
L’opera di Goldoni-Piccinni è un capolavoro di funzionalità drammaturgica e inaugura il
genere cosiddetto “semiserio”, modello per tutte le opere successive.
I personaggi della vicenda sono distinti in tre livelli stilistici ed espressivi, fissati in base alla
loro diversa estrazione sociale:
● le parti serie
● i ruoli di mezzo carattere
● le parti buffe
La musica di Piccinni mette in rilievo i diversi comportamenti dei personaggi di differente
estrazione sociale, collocandoli entro un sistema di equilibri espressivi che l’opera buffa fino
ad allora aveva scarsamente conosciuto. I tre piani stilistici si contrappongono nei pezzi
solistici, si sovrappongono e si amalgamano nei concertati d’insieme. Alle parti serie sono
affidate le arie nella forma con Da Capo di taglio virtuosistico, ricche di espressioni auliche e
ricercate tipiche dell’opera seria, caratterizzate da melodie espanse, cariche di fioriture e di
ampi salti intervallari.
I personaggi comici, si esprimono in genere con una scrittura vocale che tende verso
l’intonazione sillabica e la ripetizione di parole, talvolta con accenti malinconici.

Il concertato posto a finale d’atto diviene sempre più un asso nella manica, la struttura
centrale dell’opera buffa, il pezzo che serve al compositore per realizzare attraverso la
musica azioni, sentimenti, passioni. Al librettista spetta il compito di facilitare al massimo le
esigenze del musicista.
Sappiamo da numerose altre testimonianze che i finali d’atto esigevano dai musicisti e dai
librettisti un’attenzione particolare. Ciò è dovuto al fatto che andavano preventivamente
definite le tecniche indispensabili adatte a proiettare in maniera efficace l’azione
drammaturgica: la sequela delle tonalità, la successione dei cambiamenti di tempo,
l’invenzione di un tessuto orchestrale e ritmico che tiene imbastiti segmenti canori diversi.
Alla fine del secolo la presenza dei pezzi d’insieme aumenta sensibilmente anche nell’opera
seria.
Le arie solistiche si servono di una molteplicità di forme, come le arie in più movimenti che
non seguono alcun schema generalizzabile. In tali arie si riscontra una varietà musicale che
è una scelta del compositore ma anche del librettista, il quale con cambiamenti della
struttura dei versi, suggerisce al compositore la scelta di un tempo o di un metro di battuta
diversi e/o contrastanti.
I pezzi d’insieme vengono situati anche in altre occasioni in cui la loro importanza musicale e
scenica appare rilevante: all’interno e ad introduzione degli atti. Articolate spesso in tre-
quattro sezioni, le “introduzioni” ad apertura dell’atto I svolgono il compito di immettere
l’ascoltatore subito nel vivo dell’azione e di delineare i caratteri o tipi comici in gioco.
Il sestetto che introduce l’Atto I del “Socrate immaginario” di Giovanni Paisiello è basato su
due incisi melodici che servono a differenziare nettamente due gruppi di personaggi. è
specialmente nelle mani di Paisiello che il pezzo d’insieme tende a diventare un organismo
musicale complesso, arricchito di elementi nuovi, articolato in episodi diversi con gli attori
che vanno e vengono per la scena. Il finale di questo primo Atto, si presenta come una
grandiosa costruzione di 547 battute, articolate in una successione di dieci sezioni ben
distinte secondo la formula convenzionale del cosiddetto finale a catena.
Una tecnica compositiva molto adoperata da Paisiello nei concertati dei finali d’atto, è la
“stretta”, quella fase finale del pezzo d’insieme dall’andamento più veloce, sviluppata in un
crescendo ritmico-sonoro incalzante, gioioso e sfrenato. I personaggi si ritrovano in uno
stato di grande eccitazione e tensione psicologica e persistono nel ripetere più volte le
stesse parole. L’impianto musicale della stretta è formato in genere da un complesso di
sezioni collegate fra loro da ripetizioni variate di motivi comuni alle varie voci, che spesso si
alternano di battuta in battuta. Lo sfrenato flusso motorio è creato per mezzo della
sovrapposizione o del serrato alternarsi delle frasi tra più voci, della ripetizione meccanica di
interventi semplici, elementi che servono a creare un clima di rumorosa eccitazione ritmica.
Ad influenzare profondamente il linguaggio musicale dell’opera buffa furono alcuni tra i
numerosi musicisti che ebbero la loro formazione a Napoli. Insieme a Piccinni, Giovanni
Paisiello (1740-1819) e Domenico Cimarosa (1740-1801) furono tra i compositori di
formazione napoletana che nel secondo Settecento riscossero i più straordinari successi.
Nato a Taranto e formatosi al Conservatorio di Sant’Onofrio in Napoli, in trentaquattro anni
Paisiello compose oltre cinquanta drammi buffi.
A Vienna compone su commissione dell’imperatore Giuseppe II d’Asburgo, “Il re Teodoro in
Venezia”. Intreccio del libretto di Giambattista Casti, si ispira ad un personaggio realmente
vissuto, Teodoro di Neuhoff, barone di Vestfalia, riuscito a farsi incoronare re di Corsica nel
1736-38; spicca specie per i suoi splendidi pezzi d’insieme.
Originario di Aversa, presso Napoli, Cimarosa studiò al Conservatorio di Santa Maria di
Loreto. A Vienna, compose “il matrimonio segreto”, successo memorabile nel 1792.

La farsa in un atto

Nell’ambito dello sviluppo della commedia musicale nell’ultimo decennio circa del
Settecento, il genere della “farsa” in un solo atto rivestì una posizione di particolare
importanza. Si tratta di un genere operistico che ebbe diffusione considerevole nei teatri
d’opera italiani del tempo. Il maggior centro di produzione fu Venezia. Il repertorio delle farse
sia stato il primo a creare un corpus cospicuo di opere capace di restare a lungo nei
cartelloni delle stagioni teatrali. Con le farse si instaurò il concetto di un repertorio stabile di
opere che vennero eseguite e fatte circolare con poche alterazioni del testo e della musica.
All’impresario conveniva replicare le farse più gradite al pubblico nella speranza di riempire
per più di una stagione i teatri a minor spesa, risparmiando sulla ricopiatura delle parti
d’orchestra e per la stesura ex novo del libretto e della composizione musicale. Alla
diffusione delle farse tra il 1790 e il 1820, contribuì in modo determinante la capacità che
queste opere avevano di riempire i teatri per la maggior importanza che davano alle
situazioni burlesche, ora sviluppate in un ritmo scenico-musicale molto più serrato e rapido,
con maggior attenzione ai dettagli ed al realismo di gesto e di azione rispetto all’opera
comica tradizionale in due-tre atti.
Ci sono numerosi punti in comune tra la farsa e l’intermezzo comico settecentesco. La
differenza consiste nel fatto che la farsa fu originariamente concepita come una versione
riassuntiva di un dramma; le farse in un atto, venivano rappresentate in coppia, inframezzate
e/o seguite da un ballo e da giochi d’azzardo.
I soggetti delle farse lasciano intravedere una netta prevalenza di situazioni burlesche; i
protagonisti della vicenda, che si basa sullo svolgimento di un’unica azione in tempo reale,
sono i personaggi tipici dell’opera buffa: giovani amanti, le cameriere astute, i vecchi burberi,
i servitori ridicoli.
Fondamentale importanza svolgono le azioni pantomimiche dei personaggi, ai quali è
affidata una scrittura vocale di bravura. Molti cantanti di successo si esibirono nel repertorio
delle farse. Aspetto originale della farsa è anche la centralità affidata alla regia, gli effetti
scenici realistici ed elementari ottenuti con estrema semplicità di mezzi, gli oggetti di scena
sui quali alcune farse sono addirittura create (peripezie indotte da un oggetto), i colpi di
scena che corrispondono a cambiamenti di strutture motiviche, armoniche e ritmiche. Gli
episodi musicali formalizzati vengono indirizzati a funzionare al meglio nell’azione. Si affina
l’orchestrazione e si da un’enfasi particolare agli strumenti soli. Vi fu inoltre uno sviluppo di
quegli elementi drammaturgici e tecnico-compositivi che avrebbero costituito la vera e
propria novità del melodramma serio ottocentesco.
Tra i compositori legati allo sviluppo della farsa tra Sette e Ottocento figurano: Giuseppe
Nicolini (1762-1842), Johann Simon Mayr (1763-1845), Giuseppe Farinelli 81769-1836),
Ferdinando Paer (1771-1839), Pietro Generali (1773-1832). Tra i librettisti: Giuseppe Foppa
(1760-1845) e Gaetano Rossi (1760-1845).
E’ con il genere della farsa che il giovano Gioachino Rossini (1792-1868) iniziò la sua
carriera di compositore di drammi buffi. Pesarese, scrisse cinque farse in un atto, tutte per il
teatro San Moisè di Venezia e tutte su libretto di Foppa, composizioni che per Rossini
divennero il proprio modello per la propria creatività nell’ambito del genere comico.
Le cinque farse rossiniane durano tutte intorno ai novanta minuti e i personaggi principali
sono sempre sei: un soprano, un mezzosoprano, un tenore e tre parti maschili buffe. Lo
schema musicale rimane pressoché invariato nelle cinque farse: esso consta di una sinfonia
di apertura e di otto episodi disposti nel seguente ordine:
1. Introduzione. Tripartita in un allegro, un cantabile e un allegro.
2. Duetto
3. Aria
4. Concertato
5. Aria
6. Si alternano un duetto e un aria
7. Finale

Tentativi di fusione dell’opera seria italiana con l’opera francese

Nel Saggio sopra l’opera in musica del 1755, F. Algarotti auspicò una rinnovata attenzione,
nell’opera seria, per la scelta dei soggetti, orientata in senso mitologico o storico neo-
classico, poichè offriva al poeta l’opportunità di portare sulla scena passioni grandi ed
esemplari. Le idee di Algarotti erano in linea con le moderne correnti di pensiero dei filosofi
illuministi francesi, i quali attorno al 1750 presero a rinnovare le arti drammatiche.
Il trattato di Antonio Planelli Dell’opera in musica (Napoli 1772), critica la struttura
fondamentale del melodramma italiano del tempo e ravvisa la necessità di pervenire alla
stretta connessione delle varie componenti dello spettacolo, dalla musica, alla poesia, alla
danza, alla scenografia.
Nel trattato teorico di Denis Diderot (1713-1784) De la poésie dramatique (Parigi 1758), il
grande filosofo dell’Illuminismo espone le sue teorie che riguardano molti aspetti e momenti
della composizione drammatica nonché i problemi relativi alla funzione sociale dello
spettacolo teatrale e alla necessità di un suo rinnovamento in senso realistico-quotidiano.
Secondo lui, la commozione dello spettatore poteva venire esaltata soltanto se questi era
messo in condizione di identificarsi nelle situazioni rappresentate e nei personaggi posti in
scena. Si doveva fare attenzione alle qualità plastiche della rappresentazione, orientata in
senso realistico: si dovevano presentare sulla scena situazione cariche di emozioni forti,
passioni grandi ed esemplari; i personaggi principali dovevano esprimersi con semplicità e
naturalezza di gesti e movimenti.
L’impatto degli scritti teorici raggiunse anche il mondo dell’opera. Tali teorie non potevano
essere accolte se non gradualmente.
In linea con quanto aveva suggerito Algarotti nel suo saggio, gli sforzi di rinnovamento
intrapresi a partire dal 1750 circa nel campo del dramma musicale serio si rivolsero in buona
parte all’opera francese, che nel corso di una lunga tradizione aveva fatto ricorso ad antichi
soggetti mitologici di grande pathos emotivo, era da sempre stata progettata in vista di un
effetto complessivo, prevedeva la stretta collaborazione tra poeta e musicista, necessitava di
un concepimento meditato della creazione musicale, richiedeva un lungo lavoro preparatorio
all’allestimento dello spettacolo.
La tragédie lyrique francese non era diventata mai un’opera dominata dai cantanti virtuosi e
il suo sistema produttivo non era governato dalle ferree ragioni di mercato dell’opera
impresariale all’italiana. Per questo motivo non ebbe diffusione capillare in tutta Europa, ma
soltanto in certi ambienti, liberi dai condizionamenti del sistema produttivo. Come
conseguenza della politica di egemonia culturale della Francia sull’Europa, molte corti
assolutistiche si adoperarono per emulare lo stile di vita e i gusti artistici della corte parigina.
Si metteva la musica al servizio della monarchia: lo spettacolo operistico in particolare
serviva ai principi, per dar sfoggio di potenza e di grandezza. Nonostante la gestione degli
spettacoli fosse data in delega ad agenti professionisti, era la committenza governativa che
indirizzava gli artisti e preordinava in senso unilaterale i caratteri del prodotto artistico.
Il sodalizio dei musicisti, poeti ed intellettuali che da metà secolo si dedicarono al
rinnovamento dell’opera seria gravitarono principalmente intorno a queste corti cosmopolite.
In pressoché tutte le corti europee, era molto radicata la tradizione dell’opera seria di stampo
metastasiano, molti erano i musicisti chiamati dall’Italia a dirigere le cappelle musicali di
corte. Alla fine del XVII secolo era divenuto molto in voga nelle corti e nei palazzi nobiliari in
Italia e all’estero, un tipo di componimento scenico denominato “serenata” o “festa teatrale”
o “azione teatrale”. Spettacolo di breve durata, limitato a pochi personaggi, eseguito per
festeggiare il genetliaco di aristocratici o per solennizzare ricorrenze liete di corte. Il soggetto
era ricavato dalla mitologia, la trama era semplice ed articolata in poche scene, poteva
riconnettersi allegoricamente al fatto che si voleva celebrare. Dal punto di vista musicale,
l’azione teatrale si distingueva dall’opera seria per il ruolo importante del balletto e del coro,
per la raffinatezza maggiore della strumentazione, per il predomino del recitativo
accompagnato su quello semplice e delle piccole forme chiuse sulle grandi arie col da capo.
Si avviò la sperimentazione di un nuovo genere d’opera mirante a innestare la msica di stile
italiano, su un testo concepito secondo lo stile drammatico della tragédie lyrique francese.
Tentativi in questo senso furono intrapresi a Parma e a Vienna.

Parma e Vienna

Il progetto artistico di fondere la tragédie lyrique con l’opera seria italiana, interpretato dalla
letteratura musicologica come “riforma” del teatro musicale, fu promosso e incoraggiato in
primo luogo nella corte italiana più aperta alla cultura d’oltralpe: il Ducato di Parma,
governato dal 1749 al 1801 dalla dinastia dei Borboni.
Ad infondere i fermenti della cultura francese fu don Filippo di Borbone, il quale sposò Luisa
Elisabetta, figlia di Luigi XV di Francia. Filippo affidò la direzione degli spettacoli
all’Intendente e primo ministro della Real Casa, Guillaume Du Tillot (1711-1771).
Egli sovraintese direttamente alla scrittura dei cantanti, agli allestimenti scenici, scegliendo
di persona le opere da rappresentare, mantenendo un continuo contatto epistolare con
corrispondenti della Francia che gli fornirono disegni di costumi e accessori per gli spettacoli.
Nel 1755 egli fece venire a Parma una compagnia francese che recitò drammi di Corneille,
Racine e Voltaire; nel 1758 fece rappresentare Castor et Pollux di J.-P. Rameau. Adattò il
melodramma francese al gusto italiano. Chiamò a Parma nel 1758 il compositore di
formazione napoletana Tommaso Traetta (1727-1779), che ebbe l’incarico di scrivere due
opere su libretti del poeta di corte Carlo Innocenzo Frugoni. Lavori che ricalcano due
tragédies lyriques di Rameau. Algarotti fu coinvolto direttamente nell’allestimento di questi
spettacoli.
Entro l’impalcatura metastasiana, Traetta conservò del modello francese il taglio in cinque
atti, introdusse i cori, le danze e i pezzi strumentali. L’intento era di superare la schematica
articolazione dell’opera metastasiana in recitativi e arie solistiche grazie all’assimilazione di
elementi propri della tradizione della tragédie lyrique, pur mantenendo caratteri tipici
dell’opera italiana, quali le arie solistiche. Per le feste celebrate in occasione dello sposalizio
di Isabella, figlia di Filippo, con Giuseppe arciduca d’Austria, Traetta scrisse su testo di
Frugoni Le feste d’Imeneo, “spettacolo teatrale” in tre atti, preceduta da un prologo. Opera
che segue da vicino il modello dell’opéra ballet francese: vi si trovano divertissements
strumentali e si introducono danze eseguite assieme ai cori. Le nozze furono celebrate
contemporaneamente a Parma, dove lo sposo naturalmente non era presente, e a Vienna.
Qualche mese più tardi l’arciduca Giuseppe procurò a Traetta la commissione a Vienna di
un’azione teatrale, l’Armida, basata su una “libera imitazione” dell’Armida di Lully-Quinault.
L’intento di Durazzo fu quello di sperimentare anche alla corte di Vienna la “fusione” del
gusto operistico francese con quello italiano.
Si creò una moderna generazione di cantanti-attori, i quali vennero apprezzati più per la
perfetta padronanza, naturalezza e intelligenza dell’azione scenica che per gli exploits vocali
acrobatici e affettivi. Le competenze mimiche del cantante virtuoso venivano ampiamente
invocate dai letterati riformatori e dai teorici dell’opera. Alla voce “acteur” nel Dictionnaire de
musique del 1768, scrive: “non basa all’attore d’opera di essere un buon cantante se egli
non è anche un eccellente pantomimo”.
Gaetano Guadagni (1729-1792) rappresenta il prototipo del nuovo cantante-attore. Castrato,
aveva incominciato la propria carriera nell’opera comica, nella quale si incontravano cantanti
italiani capaci di ben recitare in scena. Tra il 1748 e il 1755 fu a Londra, dove cantò oratori di
Handel e dove il grande attore shakespeariano David Garrick (1717-1779), lo iniziò ai propri
rivoluzionari stili d’arte scenica. Garrick, si identificò con uno stile di recitazione e di
rappresentazione di un realismo senza precedenti: usò gesti multiformi e in sintonia con la
voce, utilizzò in lungo e in largo lo spazio scenico, mutò d’abito in funzione del personaggio
che rappresentava. Guadagni cantò tra Parma e Vienna, opere “riformate” e metastasiane,
in prevalenza di Traetta.
L’ambiente cosmopolita che ruotava intorno alla corte imperiale di Maria Teresa d’Austria fu
forse il più aperto agli influssi della cultura musicale europea. Maria Teresa si interessò
sempre attivamente degli spettacoli di corte ed era ella stessa cembalista e cantante.
Dopo il 1750, la passione per lo spettacolo raggiunse a Vienna un livello senza precedenti,
concretandosi nei teatri frequentati pressoché esclusivamente da aristocratici. Due erano i
teatri dotati di un privilegio imperiale e operanti sotto il diretto controllo della corte: il
Karntnerthortheater e il Burgtheater. A promuovere a Vienna il gusto della cultura francese
fu il principe Wenzel Kaunitz-Rietberg. Prima di essere nominato da Maria Teresa
Cancelliere di stato, Kaunitz fu ambasciatore a Parigi dal 1750 al 1753 e si adoperò per
alleare l’Austria alla Francia. Dal 1752, si recò a Vienna una troupe di attori francesi per
recitare Molière, Racine e Voltaire. Nei teatri di corte furono eseguiti opéras-comiques e
balletti provenienti da Parigi. Fervente sostenitore della danza seria alla francese fu il
coreografo fiorentino Gasparo Angiolini (1731-1803), maestro di ballo alla corte viennese dal
1758 al 1765. Emulo e rivale del grande maestro e teorico francese del balletto Jean-
Georges Noverre (1727-1810), Angiolini fu tra i primi coreografi a introdurre il soggetto
tragico in termini coreografici e a trasformare così il balletto da arte decorativa, in arte
drammatica che conferiva alle azioni pantomimiche un valore espressivo pari alla poesia e
alla musica.
Il primo saggio di balletto d’azione di Angiolini fu Le festin de Pierre ou Don Juan eseguito al
Burgertheater nell’ottobre del 1761. La partitura, formata da trentuno pezzi che descrivono le
avventure di Don Giovanni, fu scritta da Gluck. In una “dissertazione” prefattoria, Angiolini
esplicò le sue idee sul balletto d’azione e sulle intenzioni del maestro di balletto e del
maestro di musica di esprimere passioni forti e azioni tragiche. Da allora in poi i balli saranno
spesso caratterizzati da finali tragici, con morti violente presentate direttamente sulla scena.
Fu il conte genovese Giacomo Durazzo, a chiamare a Vienna e a coinvolgere artisti di primo
piano nell’allestimento di spettacoli operistici secondo uno schema drammaturgico e
musicale che rispondesse alle nuove tendenze riformistiche. Durazzo divenne nel 1754
intendente generale dei teatri di corte. A partire dal 1755, Durazzo affidò a Gluck l’incarico di
arrangiare opere francesi per il pubblico viennese, e nell’inverno 1760-61 fece venire a
Vienna il letterato Ranieri de’ Calzabigi.

Ranieri de’ Calzabigi (1714-1795) e Christoph Willibald Gluck (1714-1787)


Il progetto di unificare lo stile italiano e quello francese in un’unica grande opera d’arte, si
coagulò a Vienna principalmente attorno al librettista Calzabigi e al compositore Gluck.
I tre capolavori, tutti allestiti al Burgtheater furono: “la tragedia messa in musica” Alceste
(1767), “il dramma per musica” Paride ed Elena (1770), “l’azione teatrale” Orfeo ed Euridice
(1762). La rara e fortunata collaborazione tra i due artisti è stata ben precisa in sede teorica:
nelle celebri prefazioni di Alceste e di Paride ed Elena, così come in una serie di interventi di
Gluck pubblicati nel giornale parigino Mercure de France, il librettista e il musicista
espongono i principi estetici e gli intenti espressivi, di natura chiaramente illuministica che li
hanno guidati nella comune ricerca di una maggior compenetrazione tra poesia e musica nel
dramma serio rispetto alla tradizione dell’opera italiana. Sulla base di questi scritti la
storiografia musicale ha attribuito a Gluck l’ideazione esclusiva di soluzioni drammaturgiche
nuove, ovvero la realizzazione della cosiddetta “riforma” dell’opera. Gluck è l’eversore delle
convenzioni operistiche del tempo, negando ogni suo legame con il teatro musicale italiano
a lui precedente. Studi recenti hanno però dimostrato che l’esperienza italiana risultò
fondamentale per Gluck, e rimase una componente estremamente viva, avvertibile anche
nella sua più tarda stagione creativa, Gli elementi di novità del melodramma della cosiddetta
“riforma” gluckiana erano in effetti stati preparati da tempo. L’aspetto saliente e
anticonvenzionale di Gluck riguarda l’inclinazione del musicista verso la creazione calcolata
e curata dell’opera, l’incondizionata attenzione ai valori della parola, via via fino all’esito
finale, che si esige lontano dalla gratuità dell’arbitrio e della maniera. Calzabigi fornì a Gluck
il fondamento letterario indispensabile alla realizzazione degli scopi prefissi. Egli assimilò
fortemente il pensiero estetico degli illuministi francesi. Dopo essere stato a Napoli dal 1740
al 1750, arrivò a Parigi intorno al 1750 prima di trasferirsi a Vienna nel 1761, dove divenne
autorevole e ascoltatissimo braccio destro del principe Kaunitz e dove rimase fino al 1773.
All’edizione parigina dei drammi di Metastasio, Calzabigi antepose una lunga “Dissertazione
su le Poesie drammatiche del Metastasio” in cui esprime le sue critiche al teatro musicale
dell’epoca, in linea con Algarotti e con i filosofi francesi. Nei drammi di Metastasio, Calzabigi
non vedeva rispettata quell’esigenza di portare sulla scena passioni grandi es esemplari,
che era a suo avviso lo scopo fondamentale del teatro tragico e melodrammatico. Dell’opera
francese Calzabigi propone di conservare il ricco apparato spettacolare, sgravandolo del
soprannaturale e mettendolo al servizio di “azioni puramente umane”. Calzabigi era
profondamente persuaso che la poesia drammatica dovesse abbandonare i discorsi
superflui, i paragoni, le sentenze morali, tutti elementi questi che considerava come inutili
riempiture che non potevano servire di supporto alla musica, perchè inadatte a sollecitare
nel musicista sentimenti fertili e nello spettatore emozioni potenti.
Nei libretti che scrisse, predispose pertanto la vicenda in maniera lineare, eliminando gli
intrighi secondari e le ridondanze decorative che nuocevano alla semplicità del dramma.
Seguendo il modello della tragédie lyrique, dispose liberamente i versi in base alla
fluttuazione emotiva, alternando versi sciolti e rimati e dilatando spesso i pezzi chiusi in più
strofe di quartine di ottonari. Da parte sua Gluck, prima dell’incontro con Calzabigi, imparò il
mestiere di compositore d’opera scrivendo drammi seri nel solco della tradizione
metastasiana per diversi teatri d’Italia e di altri luoghi. Nato a Erasbach nell’Alto Palatinato,
Gluck si recò a Praga nel 1731 per studiare filosofia, ma non finì gli studi. Si guadagnò da
vivere facendo il cantore ecclesiastico e come organista. Nel 1734-35 si trasferì a Vienna e
subito dopo a Milano, dove fu al servizio del principe lombardo Antonio Maria Melzi, dove
studiò composizione con Giovanni Battista Sammartini. Esordì a Milano come operista con
l’Artaserse nel 1741. Lavorò poi a Londra nel 1745-1746 e nei successivi cinque anni fu in
giro per l’Europa. Dal 1752 risiedette stabilmente a Vienna, effettuando viaggi in Italia, con i
periodi di residenza a Parigi tra 1773 e 1778. Nel suo catalogo di operista si rintracciano
lavori appartenenti ai generi più disparati: dall’opera seria, all’opéra-comique, alla tragédie
lyrique, al divertissement.
Per produrre una musica adatta a tutte le nazioni, Gluck lavorò in perfetto accordo con
Calzabigi per restituire alla parola il suo ruolo di guida nel delicato rapporto tra musica e
poesia, in modo da affermare l’immediatezza espressiva dei sentimenti. Gluck e Calzabigi
mirarono al ritrovamento dell’aura declamatoria della tradizione del melodramma francese.
Nelle opere “riformate” di Gluck rimangono i pezzi chiusi dell’opera seria metastasiana come
strutture ben definite, ma senza le ridondanze strutturali quali l’aria col Da capo, e le
ripetizioni oziose di versi poetici e di singole parole. Anche il canto virtuosistico andava
bandito se si voleva arrivare ad uno stile vocale strettamente legato alla parola. La
prefazione della partitura dell’Alceste, dedicata al granduca asburgico Pietro Leopoldo di
Toscana, riassume con chiarezza esemplare i principi essenziali che hanno guidato le
ambizioni e le aspirazioni di Gluck e Calzabigi.
Appare evidente la volontà di Gluck e Calzabigi di “dignificare” l’opera, investendo non
soltanto il momento della confezione del libretto e della musica, ma estendendosi fino alla
fase della produzione e dell’offerta dell’opera al pubblico. Vige l’intento di presentare l’opera
così come era stata concepita originariamente dai suoi autori, senza cedere a compromessi,
condizionamenti, contraffazioni di sorta da parte degli interpreti, impresari ecc. Fine ultimo è
di elevare l’opera “al più alto grado di perfezione”. Lavorando in stretta collaborazione col
librettista, con il coreografo Angiolini e con l’interprete protagonista Guadagni, Gluck dedicò
parecchi mesi alla composizione di Orfeo, cui seguirono settimane di prove con gli interpreti.
Molto tempo impiegò Gluck per la composizione dell’Alceste; si trasferì nella capitale
francese già alla fine del 1773, e per tre lunghi mesi sostenne dure prove con i cantanti e gli
orchestrali. Per mettere in scena l’Armide all’Académie Royale di Parigi, il compositore
chiede pubblicamente in una Lettre al Mercure de France, due mesi di prove per preparare i
cantanti che egli chiama “acteurs et actrices”.
La linea avanzata da Gluck di assoggettare gli interpreti alla volontà imperiosa del
compositore è senz’altro analoga a quella già praticata da Lully, il quale tuttavia non la
precisò in sede teorica. Le condizioni di rigore richieste da Gluck nella preparazione
dell’opera non portarono a mutazioni rilevanti nei modi di produzione del melodramma
italiano. La linea di Gluck diverrà influente specialmente in Francia e in Germania, e sarà
proseguita da musicisti italiani che ivi operarono, in particolare Cherubini e Spontini.

L’Orfeo di Gluck

L’”azione teatrale” Orfeo è l’opera più famosa di Calzabigi e Gluck, un lavoro che esemplifica
bene il tipo di teatro musicale cosmopolita. La partitura è stata scritta per un pubblico di
lingua tedesca da un compositore boemo su libretto di un poeta italiano, ispirato agli ideali
drammaturgici dell’opera francese.
Elementi dell’opera italiana: la lingua, il protagonista castrato, il grande recitativo
accompagnato (“Che puro ciel”), la presenza in scena di tre soli personaggi.
Elementi dell’opera francese: la scelta del soggetto mitologico, le scene composite con coro
e balletto, la raffinata e complessa orchestrazione.
Presenza del lieto fine, fedele alla concezione fondamentale sia dell’azione teatrale sia del
“dramma per musica” e della tragédie lyrique. Questo tipo di scioglimento drammatico è
collegato con l’ideologia dell’assolutismo monarchico: la stretta subordinazione degli eroi
mitologici e delle loro avventure alla assoluta autorità degli dei veniva considerata come una
sublimazione delle reali pretese di potere del dominio assolutistico.
Il lieto fine è un elemento quindi necessario della struttura drammatica.
Calzabigi progettò il libretto di Orfeo in modo da far spiccare le passioni elementari e umane
in luogo delle abituali allegorie o dimostrazioni di virtù, elementi che appartenevano alla
tradizione dell’azione teatrale. L’interazione delle sfere divine e umane restano intatte, ma
vengono arricchite: le figure mitologiche sono persone che vivono le loro passioni umane.
Euridice: nel libretto di Calzabigi, a differenza dell’Orfeo di Monteverdi, viene liberata dalla
passività del suo ruolo, divenendo persona che attivamente sente e agisce.
L’azione è divisa unicamente tra i due personaggi protagonisti e il coro, che partecipa assai
largamente al dramma, mentre la figura puramente allegorica di Amore, interviene all’inizio e
alla fine dell’azione.
La vicenda in tre atti di Orfeo è rappresentata attraverso la successione di alcuni momenti
chiave:
1. La morte di Euridice, atto I
2. la discesa di Orfeo agli inferi e il recupero di Euridice dalla pace dei Campi Elisi, atto
II
3. La seconda morte di Euridice e il pietoso intervento risolutore di Amore che rende la
sposa al cantore, atto III
Le scene sono notevolmente ridotte rispetto alla norma dell’opera seria e sono raggruppate
in cinque monumentali “quadri” definiti da importanti mutamenti scenografici. Due su cinque
sono in Orfeo le scene “orrorose”: è da notare che la tendenza verso l’introduzione di
ambienti cupi e suggestivi si affermerà sempre più nell’opera seria del secondo Settecento.
Nonostante ciò, il tono dell’opera è serenamente contemplativo piuttosto che tragico.
Lo stile di canto è alieno da colorature e virtuosismi acrobatici, ridotto nell’estensione,
essenzialmente sillabico, attento alla perfetta scansione testuale, adatto ad esprimere i
diversi stati d’animo dei protagonisti. All’abituale recitativo semplice dall’andamento
scorrevole e veloce, accompagnato dal solo cembalo, si sostituisce un tipo di recitativo lirico-
declamato, che spesso slitta in arioso, sostenuto perlopiù dai soli archi. “Che puro ciel”,
recitativo lungo arioso patetico, scritto per mettere in rilievo le doti sceniche di Guadagni,
suo primo interprete. Le soluzioni formali adoperate nei pezzi chiusi.
Vi si trovano:
● la struttura tripartita con un breve ritorno della terza parte
● l’aria a couplets strofica in cui cambia il testo ma non la musica
● la forma rondò
● il vaudeville strofico finale Trionfi Amore, che vede tutti i personaggi e il coro riuniti in
scena: ai protagonisti sono riservate le strofe diverse, con melodie orecchiabili e ritmi
modellati su quelli di danza, mentre il coro interviene con il refrain.
Come nelle tragédies lyriques di Rameau, il coro in Orfeo agisce com un vero e proprio
personaggio, determinando sovente l’articolazione formale della scena. Le parti solistiche di
Orfeo e i pregnanti interventi dell’orchestra sono incorniciati dalle sortite del coro. La massa
corale svolge un ruolo di antagonista nei confronti del cantante solista: la truculenza iniziale
delle Furie viene man mano esaurendosi a seguito delle tre brevi arie supplichevoli di Orfeto,
due di stile cantabile, l’altra che è quasi un susseguirsi di singhiozzi musicali. Uso senza
precedenti del coro teatrale. La scrittura corale è di norma caratterizzata dall’uso di valori
piuttosto larghi, da una notevole lentezza del ritmo armonico e della perfetta scansione
testuale ottenuta mediante una rigorosa omoritmia. Questo tipo di scrittura corale conferisce
ad Orfeo la gravità ed elevatezza dell’oratorio sacro. Svolge anche una importante funzione
psicologica. Al coro è inoltre assegnata una importante funzione di definizione ambientale.
Gluck affida al timbro orchestrale un ruolo preminente nella definizione di situazioni
ambientali, emotive e psicologiche del dramma. Nel coro iniziale “Ah! se intorno” il
compositore si avvale del suono denso e solenne di tre tromboni e di un cornetto, mescolati
agli archi, per enfatizzare il tono di gravità della situazione drammatica del compianto
funebre. Il ruolo svolto dai colori timbrici dell’orchestra per conferire nell’atto II, una tinta
demoniaca al ballo delle Furie e degli Spettri, il mitico cantore riesce a placare l’ira delle
forze infernali col suo canto accompagnato dalla cetra. Qui l’arpa è usata, in una delle
rarissime apparizioni nell’opera settecentesca, per imitare il suono del mitico strumento,
accompagnato dal pizzicato dagli archi. La ricerca timbrica costituisce un elemento
importante delle strategie compositive messe in campo da Gluck, come nell’arrivo di Orfeo ai
Campi Elisi: l’effetto del brano risiede nella definizione ambientale, che è realizzata affidando
a più strumenti dai timbri diversi figurazioni melodiche di carattere chiaramente descrittivo,
sopra le quali si libra il semplice arioso del cantore.
L’attenzione del compositore, non va solo al canto dell’oboe e alle figurazioni dei violini,
bensì a tutto l’insieme dei diversi timbri strumentali, che danno a questo brano il suo
singolare carattere sonoro. Gluck dimostra particolare sensibilità nello sfruttamento delle
risorse timbriche degli strumenti a fiato. Introduce due corni inglesi nell’ultima strofa dell’aria
“Chiamo il mio ben così” dell’atto I. Il flauto conquista un suo proprio registro, più acuto di
quello dell’oboe, mentre quest’ultimo strumento abbandona la scrittura fiorita per uno stile
cantabile, penetrante e sostenuto.
Nel 1774 Gluck preparò una versione francese di Orfeo andata in scena all’Académie
Royale di Parigi il 2 agosto dello stesso anno. Nuova versione dell’opera adattata al gusto
francese. A tal fine, il compositore mutò il registro della parte vocale del protagonista dal
contralto al haute-contre, espressamente per il rinomato cantante Joseph Legros (1739-
1793), e aggiunse alcuni nuovi brani vocali e strumentali. Maggiore pienezza orchestrale
rispetto alla versione viennese ed una nuova partitura. L’opera riscosse enormi successi
sulle scene francesi: solo a Parigi, tra il 1774 e il 1848 ebbe ben 297 esecuzioni.

L’opera seria nel secondo Settecento

L’opera seria della seconda metà del XVIII secolo dimostrò una tenace capacità di parziale
rinnovamento, sia in sede teorica sia sul piano della prassi compositiva. E ciò avvenne a
prescindere dall’esperienza gluckiana, di certo dietro l’influsso dell’opera comica. A questa
tendenza concorsero diversi fattori:
1. La ricerca di un nuovo e più equilibrato rapporto tra musica e parola
2. Il mutamento profondo del gusto degli strati più colti e attivi del pubblico teatrale
Pochi mutamenti invece subì l’opera italiana nei modi di produzione, nelle consuetudini
esecutive e nella fruizione sociale.
In questo contesto, composizione musicale e arte canora non potevano che continuare ad
essere vicendevolmente mezzo e fine l’una dell’altra. Il linguaggio musicale e poetico era
necessariamente fondato sulla rotazione ripetitiva di situazioni affettive convenzionali e
altamente stilizzate, che trovavano piena realizzazione nell’aria col da capo. Se si voleva
che il dramma musicale serio rispondesse maggiormente ai valori di semplicità e
naturalezza, bisognava sottrarre l’aria solistica della sfera statico contemplativa della
tradizione metastasiana e inserirla nella dinamica dell’azione drammatica, come nell’opera
buffa. Si fece sempre più strada la consapevolezza che la conformazione del testo dell’aria
metastasiana corrispondeva sempre meno alle esigenze d’un linguaggio musicale che era
divenuto sempre più attivo e dinamico.
Anche sul piano teorico veniva messa in discussione l’implacabile stilizzazione del dramma
metastasiano: si denunciavano la brusca cesura tra recitativo e aria e l’eccessivo
stiracchiamento del testo dell’aria per via della troppo insistita ripetizione di versi interi e di
parole. Nel “Saggio sopra l’opera in musica”, Algarotti denuncia l’aria col da capo come
“contraria al naturale andamento del discorso e della passione” e propone di abbattere la
“disproporzione che vi è tra l’andamento del recitativo e l’andamento delle arie” che gli
faceva l’effetto di uno che passeggiando “venisse tutto d’un tratto a spiccar salti e cavriole”.
A partire dal 1750 si affermò sempre più la tendenza di abbandonare la forma più prolissa
dell’aria col da capo. Divenne abbastanza comune abbreviare l’aria tripartita e adoperare
una più ampia varietà di strutture formali, più snelle e dinamiche. La ripresa col da capo,
venne limitata alla seconda parte della sezione A, riducendo così la quadruplicazione dei
versi. Si praticò anche la riduzione della sezione A, tagliandone la seconda parte. Questa
veniva pertanto a ridursi a un ritornello strumentale e a un’unica esposizione del testo, senza
terminare nella tonalità principale ma in una relativa. L’aria tripartita assume così una
struttura molto simile al primo tempo di un concerto in “forma-sonata”: doppia esposizione
costituita d’un ritornello e di una sezione cantata accoppiati; un episodio centrale di sviluppo;
una ripetizione della ripresa, con l’impianto tonale modificato rispetto alla prima sezione. Tra
le forme, figura l’aria bipartita e l’aria relativamente breve. Nei drammi metastasiani sono
molto rare le arie di una sola strofa, mentre appaiono con frequenza nelle opere della
seconda metà del secolo, specie in situazioni richiedenti sfoghi di lirismo intenso e patetico.
A partire dagli anni Settanta molto di moda divennero le arie in forma di “rondò” alla
francese, spesso nelle partiture sono segnate con il termine rondeau. L’impiego di questa
forma coincise con la crescita del numero dei “rondò” stessi nella musica strumentale
europea. Molto comune divenne anche il rondò a due tempi, uno lento e uno veloce: in
ciascuna delle due parti si ripete una melodia, sempre alla tonica, inframezzata da episodi in
altre tonalità. La melodia della parte lenta si sente di solito due volte, quella della parte
veloce due o tre volte; una sezione di transizione collega di norma i due tempi. Tutte e due
le parti sono di solito in metro binario. Elemento essenziale era l’improvvisazione del
virtuoso o della virtuosa che lo cantava: doveva aggiungere ornamentazioni ad ogni
ripetizione della melodia e improvvisare le cadenze. La forma del brano raggiunse un livello
di convenzionalità tale da facilitare quest’improvvisazione.
Il testo-tipo del rondò del rondò tardo-settecentesco in due tempi, è caratterizzato da versi
lamentosi e commoventi, senza eccezione organizzati in tre strofe di tre quartine di versi
ottonari. La prima fornisce il testo per la melodia principale della parte lenta, la seconda
quello per il primo episodio. La melodia principale della parte veloce usa di solito come testo
i due versi finale dell’ultima quartina.

Giuseppe Sarti (1729-1802) fu uno dei primi rappresentanti della moda del rondò.

L’aria in due movimenti lento-veloce, conquistò sempre maggiore importanza durante gli
ultimi decenni del Settecento, fino a diventare verso la fine del secolo, la forma d’aria
prevalente nell’opera italiana. Nei primi anni dell’Ottocento, al termine del tempo lento vi
potrà essere l’intervento del coro prima di passare alla parte veloce.
L’intervento corale isolerà la sezione conclusiva, fino a renderla un brano quasi indipendente
dal tempo lento.
Modello per gli operisti ottocenteschi divenne il rondò di Curiazio “A versar l’amato sangue”
con cui culmina la scena “Qual densa notte” nell’ultimo atto de “Gli Orazi e i Curiazi” di
Cimarosa.
Come l’opera buffa, anche il teatro musicale serio del secondo Settecento si evolve in
alcune forme drammaturgiche nuove e originali. Viene gradualmente meno il gusto per i
soggetti storico-eruditi antichi metastasiani e si afferma sempre più la moda dei testi
drammatici che aderiscono ai modelli più vivi della letteratura contemporanea. Tra le
caratteristiche dei soggetti d’opera seria figurano le seguenti:
● valorizzazione dei sentimenti forti, delle situazioni tensive e passionali di aura
preromantica;
● predilezione per le storie tenebrose e malinconiche che si popolano di immagini di
morte;
● impiego di vicende basate sulle tragedie neo-classiche e neo-eroiche a sfondo
patetico-passionale che enfatizzano i dilemmi psicologici dei personaggi.
Non raramente queste storie finiscono male; nonostante ciò, le morti violente e i finali tragici
apparvero, ancor prima che nel repertorio dell’opera, nei balletti d’azione.
Viene pertanto meno in quest’epoca la prassi di riscrivere partiture sempre diverse sugli
stessi testi: dato l’incremento della domanda di spettacoli d’opera, alcuni teatri rinunciano
alle novità assolute e gli impresari reimpiegano partiture di loro proprietà già eseguite
altrove.
Caso emblematico è quello di “Giulio Sabino” (Venezia 1781) di G. Sarti, tipico dramma
post-metastasiano, la cui vicenda è incentrata sulla celebrazione dell’amor coniugale.
Quest’opera costituisce uno dei primi esempi di “opera di repertorio”. L’opera fu infatti
ripresa per venti/venticinque anni in numerosi teatri d’Europa.
Anche “Gli Orazi e i Curiazi” di D. Cimarosa ebbero fortuna: opera di transizione dal dramma
serio settecentesco in neo-tragedia musicale romantica e uno dei testi-chiave e
paradigmatici del rinnovamento dell’opera seria italiana di fine Settecento.
La vicenda è incentrata sul confronto armato dei tre fratelli Orazi, con i tre fratelli Curiazi.
I tratti stilistici più significativi dell’opera seria così come si presenta negli ultimi anni del XVIII
secolo sono:
● Valorizzazione drammatica del coro che viene ad assumere un ruolo attivo ed
individuato, quale potrebbe essere quello di un personaggio cosciente
● Smantellamento graduale degli ordini musicali dello spettacolo serio vetero-
virtuosistico
● Scatenamento delle potenzialità mimetiche delle musiche d’azione. La cosiddetta
“scena” diventa l’unità di misura su cui si articola il melodramma al fine di sviluppare
dinamicamente l’azione drammatica.
● Sfruttamento dei concertati d’insieme che sono modellati sui finali d’atto delle opere
comiche e che sono costituiti da una molteplicità di sezioni diverse nel metro e nel
tempo.
● Valorizzazione degli atti mimico-pantomimici mediante incisi ed episodi orchestrali:
nei momenti patetico sentimentali o in situazioni tensive, l’orchestra può assumere la
guida con motivi propri per dare particolare forza espressiva ai mutevoli pensieri
interiori e per accompagnare i gesti dei personaggi.

Determinante fu il ruolo del cantante, a cui si chiedono doti virtuosistiche e qualità mimiche,
credibilità nell’azione, intelligenza interpretativa. Si indebolisce la figura del cantante
virtuoso.
Prototipo del cantante-attore: Matteo Babbini (1754-1816), eccelleva soprattutto negli adagi,
nei cantabili e nel canto affettuoso. Si distingueva nello stile declamatorio dei recitativi,
mentre la sua presenza fisica esercitava sugli spettatori un fascino irresistibile.
Nel ruolo di Marco Orazio negli “Orazi” di Cimarosa, Babbini introdusse nell’opera di genere
serio, l’usanza di comparire in scena indossando costumi aderenti al carattere storico del
personaggio che rappresentava. In precedenza i cantanti indossavano abiti di pura fantasia.
Fu Babbini a diffondere in Italia, in forma di “Scena drammatica” interamente cantata, il
melodramma di J.J. Rousseau “Pygmalion”. Con questo melodramma, Rousseau tentò una
vera e propria riforma del dramma musicale: il libretto è costituito da pagine suddivise in tre
colonne
1. a sinistra,è indicato ciò che la musica esprime durante l’azione
2. si da la precisa quantificazione cronometrica degli interventi strumentali
3. sono riportate le istruzioni gestuali e le parole recitate dal personaggio.
Rousseau fornisce delle vere e proprie istruzioni di regia musicale.
Quando l’attore parla la musica è invitata a tacere, dal momento che la sua presenza
risulterebbe superflua, inefficace e non potrebbe produrre altro che opacità, intorbinimento,
inverosimiglianza. Il progetto prevede un’azione teatrale senza cantanti, dove la scena viene
mimata e parlata in alternanza all’accompagnamento orchestrale.
L’idea di Rousseau viene presto accolta con grande fervore in tutta Europa, soprattutto in
Germania con Goethe. In Italia, l’esperimento di Rousseau fu accolto con entusiasmo, come
lo dimostrano le numerose repliche. La versione di Babbini (tutta cantata) fu messa in
musica dal veneziano Giovanni Battista Cimador. La partitura è mutevolissima: è costituita di
brevi arie e di un continuo alternarsi di recitativi accompagnati e di ariosi. Predominano le
melodie che hanno un carattere declamatorio e che procedono in modo sillabico, senza
ampi sbalzi e passaggi di bravura La gamma d’estensione vocale rimane ristretta. Frequente
è l’uso di figurazioni di terzine che sottolineano l’accordo per accompagnare le brevi frasi
melodiche delle arie e che diventano in seguito formule di accompagnamento stereotipe nel
melodramma del periodo romantico.

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