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Il silenzio degli angeli

La narrazione del viaggio è indissolubilmente legata alla scoperta del mondo dell'oriente
cristiano.
La storia del Cristianesimo è costellata di peregrinazioni, ed è nato, "ex oriente lux", grazie
agli spostamenti dei primi grandi evangelizzatori che hanno posto le basi della sua storia
millenaria intorno le coste del mediterraneo. Il viaggio è anche una necessità mistica, basti
pensare a San Antonio che si addentra nell'arido deserto egiziano, o al racconto del pellegrino
russo1, che si definisce della specie piu misera, errante di luogo in luogo. Proprio il testo
appena citato, cardine della letteratura della spiritualità orientale, è un esempio di questo tipo
di narrazione attraverso il viaggio, nel caso specifico del pellegrino, peregrinare infinito e
volto all'inseguimento di una visione ignota e inesplicabile.
Ma viaggiare può anche essere dovuto alla necessità di fuggire, emigrare, per salvaguardare la
propria cultura, il proprio rito, il suono dei propri canti. Il disperdersi di popoli piu' volte nella
storia diventa l'unico modo per salvare la tradizione.
La diaspora è uno dei temi centrali del film Le Silence des anges.
La pellicola inizia fin da subito a fare i conti con il viaggio, la fuga ed il ritorno. Il primo
luogo raggiunto dalla cinepresa è l'isola di Kiži, all'interno del lago Onega che si trova in
Carelia, regione di confine della Russia nord occidentale. Il cielo si confonde con le distese
infinite di neve bianca, che rischiano di accecare anche lo spettatore, ad un tratto appare, quasi
come una visione surreale un immenso complesso ligneo, due chiese che svettano fieramente
con la loro moltitudine di cupole, un Cremlino su un deserto di ghiaccio. Le conseguenze
della Rivoluzione d'Ottobre hanno messo a dura prova questo santuario, antico miracolo di
bellezza contadina, che insieme a tutta la Russia religiosa si trovò a subire le persecuzioni di
un'ideologia che mirava ciecamente all'ateismo universale, a costo di cancellare millenni di
storia.
Ma l'oppressione ed il sangue versato non hanno impedito che il canto a Kiži si fermasse per
sempre, la troupe è infatti accolta da Nicolas Ozoline, arciprete tornato da un esilio in Francia,
che celebra la Divina Liturgia supportato da un coro di giovani donne all'interno della chiesa.
Tra le rustiche assi di legno e le icone dorate scorrono immagini di un'intimità estrema,
sembra di sentire l'odore della stufa e l'aroma dell'incenso, un calore umano permea lo
1
AAVV, Racconti di un pellegrino russo, Rusconi, Milano 1973
schermo, si intravede anche la condensa creata dai respiri delle cantanti, che riescono
attraverso le loro polifonie tanto semplici quanto suggestive a fermare il tempo. Il rito è salvo,
un popolo riesce grazie alla memoria, a delle norme codificate nella propria storia e nella
propria anima a superare anche la disgrazia e lo sconvolgimento più grande.
Il viaggio continua. Dalle sinuose cupole in legno costruite nelle latitudini estreme e inospitali
della Russia si passa alle volte, i muri di pietra e le colonne rotte che formano le rovine della
Basilica di San Simeone, la piu'grande del mondo antico. Rispetto alla Carelia, qui ad Aleppo,
in Siria, la visione del paesaggio è meno straniante ma altrettanto suggestiva, complice una
vegetazione piu' familiare agli occhi di un mediterraneo e l'impressione di avere dinanzi
luoghi abitati fin da quando l'uomo ne ha memoria.
Il protagonista della scena è Dimitri Koutya, arabo-cristiano, che da solo, sfidando il vento
con la propria voce, intona un canto per il venerdì santo. Il modo con cui Koutya perpetua la
tradizione bizantina, con il suo incedere melismatico e nasale pregno di influenze sunnite e
sefardite, ricorda come l'approccio al mondo dell'oriente cristiano permetta di superare una
moltitudine di pregiudizi confrontandosi con un sincretismo culturale che diventa evidente
ogni qualvolta si raggiungono centri cosmopoliti, crocevia di popoli.
Nell'addentrarsi ad Aleppo la cinepresa torna a confrontarsi con il tema della diaspora, del
dolore, dimostrando ancora una volta come la tradizione abbia il potere di evitare la
distruzione dell'identità della gente oppressa. Viene mostrata la cattedrale degli Armeni, un
fermo immagine di pochi secondi permette di leggere un piccolo bassorilievo con scritto in
armeno arabo e inglese "in memoria del Genocidio Armeno". Strage dimenticata, attuata da
un'impero la cui ideologia nazionalista continua ancora oggi ad essere attualizzata in modo
preouccupante dallo stato che l'ha sostituito. Se il crimine Turco è l'ennesimo esempio
dell'orrore umano, le immagini che mostrano la forza dei credenti armeni nel continuare a
celebrare il proprio rito sono l'esempio di come le conseguenze piu' disastrose di contingenze
storiche e politiche non riescano mai a scalfire la memoria storica di un popolo.
La Siria di una ventina di anni fa mostrata nel film sembra restituire un certa serenità nella
coesistenza di diverse fedi e tradizioni, ad oggi tristemente perduta, forse il Ba'thismo, laico
ed eterogeneo nel culto, garantiva la diversità.
Si spera che finito l'orrore della guerra i canti non vengano soffocati dall'estremismo o dalle
mire imperialiste battenti chissà quale bandiera, e che non vengano silenziosamente
dimenticati nella corsa agli standard occidentali, affogati in una colata di cemento e coperti da
cartelloni pubblicitari.
La troupe, lasciato il vicino oriente, raggiunge il continente africano. Attraverso l'obiettivo
della camera filtrano gli altipiani dell'Abissinia, che la voce narrante definisce "Tibet cristiano
arroccato sulle vette africane". Descrizione assolutamente efficace, dato che gli Etiopi hanno
creato nel corso dei secoli diversi e suggestivi luoghi di culto, scavando nella pietra tra le
acacie e la polvere rossastra . Decine di milioni di fedeli ortodossi rappresentano la
maggioranza in Etiopia, che mantengono viva e vegeta la realtà Tewahedo, una tra le piu'
numerose comunità ortodosse nel mondo.
A Lalibela, 11 chiese monolitiche scavate nella roccia sono ambita meta di pellegrinaggio, e
questo luogo è disseminato di simbologia collegata alle Sacre Scritture e alla genealogia
mistica, basti pensare che il fiume che scorre qui si chiama Giordano e che i pellegrini
vengono a pregare sulle tombe di Abramo, Isacco e Giacobbe. Dopo un'interessante intervista
dove il Dabtara Aforg, maestro dei cantori di Lalibela parla dell'interpretazione del repertorio
innografico della propria tradizione e dell'importanza della scrittura, il focus del film diventa
la celebrazione della Teofania. Il battesimo di Cristo, declinato in chiave Etiope diventa una
festa popolare con danze collettive accompagnate dal suono senza tempo dello shofar
(corno) , crotali e percussioni.
La cinepresa, abbandonata la spettacolarità della festa abissina, si addentra nel silenzio del
deserto egiziano. Lo stesso silenzio che nel IV secolo ispirò il canto di San Antonio, viene a
malapena interrotto dal distinto conversare dei monaci e dal fruscio delle palme che
sovrastano le alte mura del monastero che appare sullo schermo, visione mistica in un oceano
di sabbia.
Subito dopo i monaci interrompono il silenzio fisico, ma amplificano quello spirituale con i
canti del rito Copto che risuonano tra le pareti bianche del monastero, con melodie complesse
e cesellate da cellule ritmiche sapientemente sottolineate dal suono dei cimbali.
L'Egitto è una nazione dalle molte sfaccettature etniche, religiose, rituali e politiche. Tra le
poche certezze vi è l'autorevolezza dell'antico patrimonio della tradizione Copta, iniziata da
San Marco Evangelista nel I secolo dopo Cristo. La lingua copta, che oggi sopravvive come
una delle lingue liturgiche, è un importantissimo reperto che vanta discendenza diretta con la
lingua dei faraoni.
Le immagini della Basilica di San Marco a Il Cairo gremita di fedeli sono prova di come la
tradizione continui ad esistere nonostante le pressioni politiche interne nel XX secolo abbiano
dato inizio a una diaspora. I copti, dall'identità forte (prova ne è la croce tatuata sul polso che
li contraddistingue fin dalla nascita) ma flessibile, sono comunque riusciti a perpetuare i
propri canti anche nella diaspora, riuscendo a far propria del rito la lingua dei paesi di arrivo.
Attraverso il Nilo la troupe raggiunge Alessandria d'Egitto, ultima tappa nel continente
africano del viaggio. Quella che fu un tempo una città cosmopolita, ha smesso di far
risuonare le voci di molti popoli. Forse si può dare sollievo alla legittima preoccupazione
espressa dalla voce narrante in merito alla sopravvivenza delle tradizioni passate in rassegna
nel film sottolineando il piu' grande punto di forza di esse: la capacità di resistere alle
increspature della storia attraverso la quotidianità del canto.
Dalle coste egiziane si giunge al cuore di Atene. Qui nasce un fruttuoso incontro con
Lykourgos Angelopoulos, personalità eclettica attiva nella trasmissione del canto bizantino
greco.
Nel mostrare con orgoglio le qualità della sua voce e l'abilità del coro che ha fondato, riesce a
dare un'idea convincente di ciò che è la tradizione greca. I virtuosismi eseguiti da piu' cantori
all'unisono, sostenuti dall' ison ( lunga nota grave tenuta dalle voci baritonali e basse) che si
riverberano tra le icone dorate riescono come dice Angelopoulos (a sua volta citando
Cucuzeli) a ricreare il canto degli angeli sulla terra, grazie ad un finissimo senso estetico
musicale consolidato nel tempo e nella scrittura.
Come già accaduto altre volte nella pellicola, il regista crea un contrasto tra una visione
collettiva della spiritualità e una piu' introspettiva e solitaria. Ad esempio in Africa si è avuto
l'alternarsi della rumorosa celebrazione tewahedo con la tranquillità del monastero desertico,
per poi tornare tra i clacson del Cairo. Ora dopo il fasto corale di Atene, si passa al suono
mistico del simandro percosso con energia da suore che hanno scelto di vivere nella pace in
un monastero sui monti ai confini con la Bulgaria. Si torna alla collettività, in un momento di
comunione estrema. Riprese in notturna a Salonicco mostrano un popolo con i ceri in mano
intonare il Christos Anesti, la notte del Sabato Santo. E' il tropario della resurrezione di Cristo.
Inno della liberazione, della luce che sconfigge le tenebre.
Cristo è risorto dai morti,
con la morte calpestando la morte,
e donando la vita a coloro
che giacevano nei sepolcri.
Lasciata la Grecia continentale, diventa protagonista l'isola di Patmos. L'isola dove fu esiliato
San Giovanni Evangelista, è una roccaforte cristiana nel mediterraneo orientale. Il candido
monastero conserva nella biblioteca rari manoscritti di musica bizantina, da XII al XX secolo.
Trasmettono serenità le immagini della processione celebrata tra le stradine dell'isola,
complice la primavera che fiorisce nella cosidetta "settimana luminosa" successiva alla
Pasqua e il placido animo degli isolani, che si conserva anche nel curioso atto di baciare la
reliquia di un teschio al termine della celebrazione.
Il viaggio si conclude tornando in Russia, dove esiste una varietà di stili nel repertorio
liturgico, stratificati nella storia secolare. Suggestive le melodie cinquecentesche risalenti ai
tempi di Ivan il Terribile, cantate da un coro femminile. La ricerca prosegue indietro nel
tempo, alla scoperta del canto piano slavo, tenuto in vita dal lavoro di Anatoly Gridenko.
Come Angelopoulos ad Atene, Gridenko è guardiano della tradizione ortodossa in Russia,
dove il repertorio innografico ha subito in modo nefasto l'europeizzazione voluta da Pietro il
Grande. Il punto di vista del cantore russo sulla questione è drastico:
i lavori di Rachaminov e Čajkovskij essendo "creazione personale", sfidando con il loro
contrappunto il Creatore, non potranno mai raggiungere la profondità spirituale della
Tradizione del canto liturgico monodico.
Dare una visione completa del complesso universo dei cristiani orientali è impossibile. Il
regista Olivier Mille con l'aiuto delle fini riflessioni del teologo Jean-François Colosimo è
riuscito comunque nel racconto di una scoperta continua e caleidoscopica attraverso il suono
delle voci di popoli diversi, nei luoghi piu' disparati.

Marco Ardizzone

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