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LE BOE

© 2018 Baldini&Castoldi s.r.l. - Milano


ISBN 978-88-9388-553-9

Prima edizione Baldini&Castoldi - La nave di Teseo marzo 2018

Published by arrangement with Lorem Ipsum | AgenziaEditoriale, Milano

www.baldinicastoldi.it

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Alberto Forchielli
Muovete il culo!

Lettera ai giovani
perché facciano la rivoluzione
in un Paese di vecchi
Prima parte

Scusate
1. È tutta colpa nostra
Mia e della mia generazione: dalla Great
Generation ai parassiti di Stato, metamorfosi sociale
dal Dopoguerra a oggi dell’italiano «eroe per caso»,
oggi solo «per caso»

Il milite ignoto ha un nome. Si chiama Michele. Il milite Michele è


l’ennesima vittima sacrificale di ufficiali inetti, vertici inadeguati e vigliacchi,
incompetenti o ladri o, peggio ancora, di ladri incompetenti. Il milite Michele
non è caduto sul Piave nella prima guerra mondiale e nemmeno a
Nikolajewka, sul fronte russo, nella seconda. È morto in Friuli, nel febbraio
2017, a trent’anni, suicida. Suicida perché, come ha scritto nella lettera
lasciata quale ultimo saluto ai genitori e da loro saggiamente diffusa ai media
per lanciare uno straziante allarme all’Italia, Michele diceva: «io mi sento
tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi
come sarebbe suo dovere fare». Perché Michele, suo malgrado, è il
rappresentante di una generazione che fa «sforzi senza ottenere risultati», di
una Italia che «non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni,
insulta i sogni». Di una generazione che ha «subito il furto della felicità».
Leggere la lettera di Michele mi fa venire il groppo in gola. La sua scelta
estrema, disperata e annichilente è, per l’appunto, una sua scelta, che non mi
permetto di giudicare. Però posso, anzi, devo giudicare i risvolti socio-
politico-economici dell’Italia odierna, proprio perché tali risvolti hanno
portato, purtroppo, al suicidio di Michele.
Devo farlo perché ormai ne ho visti troppi di ragazzi che, come lui, hanno
perso la speranza, vivendo in un Paese che è una trappola per topi.
Michele è il milite ignoto che prende nome e si erge a simbolo della
Generazione Standby. La generazione dei «giovani» che in Italia – unico
posto al mondo, va detto – parte dagli adolescenti e arriva a toccare gli ultra-
quarantenni. Il giovane manager, il giovane architetto, il giovane scrittore,
regista, artista, il giovane professore universitario, eccetera, eccetera… poi, in
effetti, vai a vedere quanti anni hanno questi «giovani» e scopri che sfiorano
sempre i cinquant’anni.
D’altronde, da noi, i trentenni vivono ancora nella loro cameretta nella casa
dei genitori.
Questo, sostanzialmente, succede per due motivi, uno speculare all’altro e
causa dell’altro.
Il primo è che questi «giovani» sono i nostri figli – figli della mia
generazione, quella nata tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso –
e sono diventati a causa nostra, cioè a causa degli agi e dei vizi che gli
abbiamo concesso, delle «muffe», hanno perso geneticamente la forza di
volontà, lo spirito di sacrificio, il coraggio di mettersi in gioco e anche di
sporcarsi le mani. Nella totale mancanza di consapevolezza che il proprio
destino nella società odierna, che corre veloce come un missile di Elon Musk,
si decide a quattordici anni, non a trenta, e le scelte fondamentali per la vita
futura si prendono molto prima di un tempo, al più tardi dopo la scuola
media. E se scegli di non scegliere, la prendi ugualmente nel culo, perché le
porte si chiudono un giorno dopo l’altro, inesorabilmente. In questo senso
l’esempio del mondo del calcio è perfetto anche per la vita di tutti i giorni. Il
calciatore che arriva a giocare in Serie A è «professionista» – inteso come
impegno e consapevolezza della meta da raggiungere – da quando ha tredici
anni e gioca nel campionato «esordienti» o forse da ancora prima, dai
«pulcini» che sono degli undicenni indiavolati che corrono avanti e indietro
come se non ci fosse un domani. Idee chiare, forza di volontà e spirito di
sacrificio, ecco cosa manca ai giovani italiani, «giovani» fino a
cinquant’anni. Ma è tutta colpa loro? Che siano debosciati o figli di papà?
Non proprio.
E infatti il secondo motivo è che noi, ossia i loro genitori, i «vecchi», gli
over sessantenni per intenderci, che in Italia sono ancora tutti giovanissimi e
bellissimi, in forma smagliante e freschi come delle rose perché non hanno
mai fatto un cazzo nella vita e se la sono sempre goduta come pochi nel
mondo, fanno «tappo», attaccati come sono alla loro poltrona. Poltrona,
rendita, posizione, che contano di lasciare – meglio se ai figli o almeno ai
parenti anche lontani – solo dopo i 120 anni di età, facendo la figura penosa
di quei vecchietti millenari che girano in automobile ai venti all’ora in città e
sono un pericolo pubblico perché tirano dritto nelle rotonde e prendono
l’autostrada contromano e se ne fregano di tutto e di tutti purché le istituzioni
non gli tolgano la fottuta patente (del loro tornaconto personale). Come
sempre l’Italia si distingue dagli altri Paesi quanto a contraddizioni. Da un
lato in nazioni come gli USA, ad esempio, Bill Gates, nel 2008, a cinquantatré
anni – per Dio, cinquantatré, non settantatré!!! – ha rassegnato le dimissioni
da amministratore delegato di Microsoft Corporation per dedicarsi a tempo
pieno alla Fondazione Bill & Melinda Gates (sua moglie) per fare
beneficienza. Dall’altro, invece, da noi il quadro è antitetico, con gli
industriali – figli di papà – che a cinquantatré anni iniziano a lavorare. Ma al
tempo stesso i nostri pochi e grandi capitani d’industria, per intenderci
uomini straordinari alla Michele Ferrero e Bernardo Caprotti (pace all’anima
loro) o Giorgio Armani e Leonardo Del Vecchio (fondatore e presidente di
Luxottica, la più grande azienda mondiale di occhiali e lenti), sono ancora in
azienda a ottant’anni suonati e in molti casi in azienda ci sono dovuti tornare
perché il parentado o i manager stavano facendo dei casini inenarrabili. E
difatti Silvio Berlusconi, classe di ferro 1936, durante l’ultima campagna
elettorale si è presentato come il nuovo che avanza nella politica italiana di
centro-destra (pace anche all’anima sua, nel senso che al buon Dio, quando ci
si troverà di fronte, il Bungadillo dovrà inventarne delle belle per non andare
quantomeno in purgatorio). Mentre Massimo D’Alema (del 1949) e Pier
Luigi Bersani (del 1951) hanno pensato bene di dare vita a un nuovo partito
di sinistra, ovviamente anche loro per il bene del Paese, che altrettanto
ovviamente si è schiantato alle elezioni. Per non parlare del mio adorato
concittadino Luca Cordero di Montezemolo (del 1947), che a cavallo dei
settant’anni, dopo la «bollita» Alitalia, trova ancora la forza per assumere
un’altra poltrona presidenziale, e non andrà mai in pensione.
Se vi sembra un circolo vizioso è proprio così, e la sua catena causale si
può riassumere così: i nostri «giovani» sono muffe perché i loro padri –
compreso il sottoscritto – sono i figli parassiti della Great Generation
italiana, quella che ha fatto la seconda guerra mondiale (vincendola o
perdendola non fa differenza). E poi, una volta tornata a casa, in un Paese
sbrindellato e macellato, che già prima della guerra era arretrato quasi come
uno Staterello nordafricano, quella generazione di eroi ha avuto la forza di
volontà di creare il boom economico che ha fatto dell’Italia, davvero partendo
da zero virgola zero uno, una grande potenza economica su scala planetaria.
Certo, va detto che ce l’hanno fatta anche grazie a condizioni ideali del tutto
irripetibili, basti pensare che in quel mondo, di fatto, non esisteva la Cina e
nemmeno i Paesi dell’ex Unione Sovietica, che avevano un ruolo marginale
sullo scacchiere internazionale. Poi, quando gli uomini della Great
Generation italiana sono andati in pensione o sono morti di vecchiaia, i loro
figli parassiti – ripeto, me compreso – hanno assunto il comando del Paese
con la perizia del peggior Schettino ma con la stessa guitta arroganza. Perché,
per cialtroneria o malafede, hanno sempre sbagliato quello che potevano
sbagliare. Su tutta la linea, dalla politica all’economia, dall’industria al
turismo, dalla sanità all’educazione scolastica e universitaria, finanche al
ruolo del nostro Paese nell’Europa e nel mondo, continuando a sbagliare
dentro a quel fantoccione finanziario che è l’attuale Unione Europea. Mentre
la UE, in potenza, poteva e doveva essere la nostra salvezza.
Parlo proprio di noi, la generazione nata negli anni Quaranta e Cinquanta:
ripeto, i figli parassiti della Great Generation italiana. È inutile fare nomi.
Andate a vedervi su Wikipedia la data di nascita di un personaggio noto che
ha fatto la storia politica, economica e finanziaria degli ultimi decenni,
contribuendo alla disfatta dell’Italia, sia nel pubblico che nel privato, e che
per questo vi sta sulle balle in modo fastidioso quando lo vedete pontificare
in tv, e vi renderete conto che è un degno rappresentante della mia
generazione.
In pratica siamo noi gli ufficiali inetti che hanno portato la patria e i suoi
figli più giovani al suicidio. Dalla Great Generation ai parassiti, molto spesso
di Stato, per una metamorfosi sociale – una specie di discesa all’inferno,
almeno per il bene del Paese – che dal Dopoguerra a oggi ha modificato
l’italiano da «eroe per caso» a solo «per caso». Il risultato è stata una caduta
verticale del tessuto morale del Paese, con l’interesse personale che ha
annientato quello comune, con la furbizia che ha spodestato l’etica del lavoro,
con la frase tipica del piccolo e medio imprenditore che si vanta «di non
avere intestato nulla» così da poter fallire a piacimento e fare il maramaldo
con le persone oneste mentre il dipendente pubblico va a timbrare il cartellino
in mutande e canottiera o fa il baby pensionato da trent’anni e passa.
Io di tutto questo mi vergogno e chiedo scusa. Non è retorica buonista o
paraculismo. Sono incazzato come una pantera per la fine che abbiamo fatto
fare all’Italia. Nasco da una famiglia della medio-borghesia. Mio padre è
stato un degno rappresentante della Great Generation. Io lavoro
ininterrottamente dal conseguimento del Master ad Harvard e sono
globalizzato da quarant’anni, ho guadagnato bene e non ho mai desiderato ciò
che non potevo permettermi. Ma sono troppo in alto nella scala economico-
sociale del mio Paese per tirarmi fuori dagli scempi commessi dalla mia
generazione.
Perciò Michele aveva dannatamente ragione a sentirsi tradito «da un’epoca
che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo
dovere fare». Aveva ragione perché la nostra generazione era nella
condizione di poter accogliere i figli di tutti e invece li ha colpevolmente
accantonati sprecando le risorse, bruciando settori strategici e non investendo
sistematicamente sul futuro, facendo scomparire l’Italia dalla mappa del
mondo che corre veloce. E a fronte della terra bruciata che adesso è il
Belpaese, i «giovani» della Generazione Standby, fatalmente, fanno «sforzi
senza ottenere risultati», sia che si trovino nei call center che negli
ipermercati, nell’agricoltura del caporalato e negli studi professionali, nelle
redazioni dei giornali e degli editori, nelle periferie e nelle province senza
prospettive… ovunque in questo Paese, straordinario e straziato, che «non
premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni».
È proprio così. Michele aveva ragione.
La sua generazione ha «subito il furto della felicità».
Io mi vergogno. E chiedo scusa. Perché è stata la mia generazione a
rubargliela.
La felicità.
2. Un Paese per vecchi
Dirigenti, insegnanti, eccetera, eccetera, tutti
insostituibili fino a fine pena mai

Non è un paese per vecchi. Prima viene il magnifico romanzo di Cormac


McCarthy, del 2005, poi l’omonimo film dei fratelli Coen di due anni dopo,
altrettanto spettacolare. Il titolo è significativo e attualizza ai nostri giorni
l’aspettativa di vita della frontiera americana, tra cowboy, donne indifese,
soldi facili, whisky e praterie, dove la vita per i belli e dannati finisce presto a
causa dell’altissima percentuale di piombo nell’aria – non dovuta
all’inquinamento ma alle pallottole che schizzano fitte come un temporale
estivo sulle spiagge della riviera romagnola.
Ecco, di riflesso, l’Italia è semplicemente il contrario: un Paese per vecchi.
Non mi riferisco al popolo di pensionati che, gioco forza, con la crescita
della qualità (e di riflesso della relativa aspettativa) di vita, ha trasformato
non solo il Belpaese ma tutte le società occidentali in veri e propri ospizi per
arzilli ottuagenari spesso «ingrifati» come adolescenti grazie a Viagra, Cialis,
Kamagra indiano e siringate di testosterone, ormone della crescita, Dhea e
pregnenolone. Mi riferisco invece alla classe dirigenziale del Paese, sia del
settore pubblico che privato.
C’è un’immagine che rappresenta alla perfezione il nostro sgangherato
Paese, anche se bisogna tornare con la memoria agli anni Novanta del secolo
scorso, e forse i più giovani faticheranno a ricordarselo. È l’immagine di
Enrico Cuccia, eterno deus ex machina di Mediobanca, che ultraottantenne
cammina a passo spedito per le vie centrali di Milano, tutto ingobbito e con
l’occhio basso ma del tutto indifferente alle domande dei cronisti che gli
chiedevano chiarimenti per l’ennesimo scandalo. È stato il più grande
banchiere che abbiamo avuto nella storia repubblicana, nel senso che, nel
bene e nel male, fino alla sua morte ha calamitato intorno a sé la scena
economico-finanziaria italiana del Ventesimo secolo, per certi versi asfittica
anche per colpa sua; va comunque detto che era una brava persona e tutto ciò
che ha fatto lo ha fatto per difendere la classe imprenditoriale dell’epoca che,
ahimè, non si è però dimostrata all’altezza delle aspettative.
Giulio Andreotti, altrettanto longevo e altrettanto ingobbito (dev’essere il
peso di un certo tipo di potere e difatti lui era avvezzo ripetere
sarcasticamente che «il potere logora chi non ce l’ha»), è stato il degno
equivalente di Cuccia nella politica tricolore, collezionando più incarichi dei
trofei calcistici di Real Madrid e Barcelona messi insieme: sette volte
presidente del Consiglio; venticinque volte ministro (otto volte della Difesa;
cinque volte degli Affari esteri; due volte delle Partecipazioni statali; due
volte rispettivamente delle Finanze, e poi del Bilancio e Programmazione
Economica, e anche dell’Industria, Commercio e Artigianato; una volta del
Tesoro, dell’Interno, dei Beni Culturali e Ambientali e infine delle Politiche
Comunitarie). Con un dato ancora più impressionante. Dal 1945 al 2013 –
ovvero l’anno della sua dipartita – è stato sempre presente nelle assemblee
legislative italiane: dalla consulta nazionale, all’assemblea costituente, al
parlamento italiano, come deputato dal 1948 al 1991 e in seguito come
senatore a vita.
Cuccia e Andreotti, entrambi insostituibili fino a fine pena mai ed entrambi
al centro di tutti gli scandali finanziari e politici del loro tempo; direi anche
inevitabilmente perché nel corso dei decenni questi personaggi hanno
acquisito competenze e relazioni tali che risultavano indispensabili per
muovere i complicati meccanismi statali (e non solo).
Dai loro giorni di «gloria» il mondo è cambiato in modo pazzesco ma gli
uomini nei gangli vitali della finanza e della politica in Italia sono ancora
anziani fuori e dentro, anagraficamente e intellettualmente, legati a logiche
antiche non distanti da quelle di Cuccia e Andreotti. Con l’aggravante che i
manager «figli» di questi «giganti», in un connubio che spesso ha mescolato
la peggior finanza con la peggior politica, hanno schiantato, con meticolosa
costanza, il mondo bancario italiano, fino agli ultimi clamorosi fallimenti di
Banca Etruria, Banca Marche, Cariferrara e Carichieti, senza considerare lo
stato drammatico in cui versano da anni altri istituti, Monte dei Paschi su
tutti.
Il mondo economico-imprenditoriale in Italia è identico a quello politico-
finanziario e rispecchia la stessa filosofia di dinosauri che non si sono estinti.
Difatti se gli imprenditori più interessanti nel globo – mi riferisco a business
colossali – sono trentenni (Mark Zuckerberg, di Facebook, è del 1984) e
quarantenni (Elon Musk, creatore di Pay Pall, Tesla e SpaceX, è del 1971,
Larry Page e Sergey Brin, di Google, sono del 1973), in Italia sono ancora e
soltanto loro, i già citati Giorgio Armani (1934), Leonardo Del Vecchio
(1935) e Silvio Berlusconi (1936). I giovani, i tanti giovani che da noi si
lanciano in avventure imprenditoriali, restano a livello di start up, è
impossibile raggiungano dimensioni globali.
Se passiamo a un ambito più basso, cioè quello impiegatizio-
amministrativo il contesto è identico. Entrate in un qualsiasi ufficio pubblico
e un sessantenne dall’altra parte dello sportello vi accoglie sempre incazzato
o al limite scoglionato digitando i dati su computer preistorici, un tasto alla
volta, a distanza di secondi interminabili, con i pugni serrati fuorché gli indici
puntati come lame di pugnale, lamentandosi di continuo con i colleghi
accanto, loro coetanei, che è il software a non funzionare, non il loro cervello
pigro e strafottente (perché tanto sanno che non li licenzia nessuno e nessuno
controlla la produttività ed efficienza).
E la situazione, a causa della crisi strutturale del Paese, è destinata a
peggiorare perché si andrà in pensione sempre più tardi – con gli ultimi
fortunati a riuscirci ancora – e troveremo sempre più rincoglioniti a prenderci
l’appuntamento al Cup sbagliando date ed esami da fare.
L’aspetto dalle conseguenze peggiori prodotto dalla permanenza di questi
vecchi, anch’essi insostituibili fino a fine pena mai, riguarda il mondo della
scuola, perché è quello che deve formare le nuove generazioni.
Dopo i membri della famiglia, gli insegnanti sono le persone che incidono
di più nella formazione di un giovane, sia in termini di competenze che di
carattere. Trasformare le parole di un libro in conoscenza, rendere vivo e
interessante un argomento stimolando, arricchendo e formando la mente di
uno studente, e quindi un futuro uomo, è un’attività dal valore aggiunto
fondamentale, sulla quale anche l’immaginario cinematografico ha detto
spesso la sua. Pensiamo, infatti, a L’attimo fuggente, tanto per fare un
esempio tra i molti, e il suo insegnante di letteratura, John Keating
(interpretato magistralmente dal grande Robin Williams), che recita la frase
che ancora tutti ricordiamo: «Carpe diem, cogliete l’attimo ragazzi, rendete
straordinaria la vostra vita».
Sarà mezzo secolo che si dice che gli insegnanti sono il cuore pulsante di
ogni tipo di scuola, che hanno in mano il potere e la responsabilità di formare
ed educare le nuove generazioni, eppure drammaticamente ancora oggi, per
loro, a parte la stima e il riconoscimento di studenti e genitori, non esiste un
vero sistema premiante; anzi, a dirla tutta, da noi, un sistema premiante non
esiste in generale.
E anche in questo ambito così strategico siamo un Paese per vecchi, con un
dato inequivocabile: l’Italia, per l’appunto, dispone del corpo insegnante più
anziano dei Paesi Ocse. Il 47,6% degli insegnanti della scuola elementare e il
61% degli insegnanti della scuola secondaria di primo grado hanno più di
cinquant’anni (dati Ocse, 2011)! Capite, ultracinquantenni che si relazionano
con bambini dai sei ai tredici anni. In pratica sono visti come dei nonni! Per
un trend che segue l’invecchiamento congenito dell’intero Paese, con il
parallelo rincoglionimento delle giovani generazioni.
Da un lato questo succede perché la nostra politica è miope e non vede che
l’investimento in educazione e cultura non solo dà i suoi frutti a lungo
termine ma è efficace perché sono le idee e le innovazioni a cambiare i
paradigmi del mondo, non il conformismo e la mediocrità, soprattutto in
tempi di crisi, che creano, per l’appunto, dei rincoglioniti.
Dall’altro lato, la vitalità di un giovane, studi aggiornati e mentalità più
moderna, possono fare la differenza. D’altronde Robin Williams, quando nel
1989 ha interpretato l’insegnante anticonformista de L’attimo fuggente, aveva
trentotto anni, non sessantacinque, cazzo!
Nella scelta del proprio percorso di studi, il tipo di scuola e la bravura degli
insegnanti rappresentano fattori cruciali, ma spesso non viene attribuita loro
la giusta importanza; e questa è soprattutto colpa di studenti e genitori.
Mentre l’incapacità strutturale dello Stato di pianificare per tempo il futuro
dei percorsi di formazione e la creazione di un corpo docenti stabile,
rinnovato e motivato, ha portato alla definizione spesso tardiva di
specializzazioni, indirizzi, opzioni, corsi, col risultato di avere un carrozzone
di precari a vita che ciclicamente ogni governo cerca di «sistemare» in parte
incasinando i meccanismi di selezione sempre più.
Così, in Italia, ancora oggi, gli insegnanti – i più vecchi dei Paesi Ocse, è
opportuno ripeterlo – hanno scarsissima possibilità di incidere direttamente
nel processo educativo, sono perennemente incazzati perché precari, e
«smaronati» per il gioco dell’oca per arrivare al posto di ruolo e senza alcuna
possibilità di uscire dal percorso tracciato. Il risultato è un sistema che non
solo è autoreferenziale ma ha anche la pretesa – tipicamente italiana, da
ingenui cialtroncelli – di capire la complessità del mondo con anni di anticipo
e in modo definitivo, fissandola in rigidi modelli di insegnamento stabiliti da
commissioni o in parlamento, piuttosto che nelle scuole.
Il punto, soprattutto in un Paese per vecchi, è che l’insegnamento non è una
questione meccanica di causa ed effetto, ma è qualcosa di umano, fatto tra
persone, e quindi, per definizione, molto soggettivo. Soprattutto, ovunque nel
mondo, non esistono sistemi o scuole che siano meglio dei loro insegnanti:
per quanto imbrigliati e limitati da una folle e continua burocrazia e dalla
stanchezza della loro età avanzata, questi restano il vero motore della scuola.
E non ci devono essere sconti: gli insegnanti devono essere severi! E ben
pagati! Così da poter attrarre anche i migliori, mentre oggi l’insegnamento in
Italia resta un ripiego o un secondo lavoro, visto che anche un professore
universitario guadagna meno di un corniciaio.
Ma trovarsi in una classe con un professore che insegna la sua materia non
basta: ciò che conta davvero è che sia capace di fare in modo che lo studente
possa apprendere. Perché insegnare e imparare sono correlati, ma non sempre
il secondo è la conseguenza del primo. Perciò, nell’ottica dei giovani, vi do
un consiglio concreto. Cercate di capire chi saranno i vostri professori e quali
saranno gli stimoli che vi verranno offerti (senza il timore, per l’appunto,
della loro severità che, invece, è un valore aggiunto). È importante! Perché
l’educazione non è una questione di controllo o di comando, ma di ambiente,
che deve darvi strumenti e opportunità per un futuro migliore.
Quindi, ricordatelo sempre, sono gli insegnanti a fare grande una scuola e
imparare è il vero obiettivo del frequentare una scuola: di conseguenza i voti
sono la valutazione della vostra conoscenza e il titolo di studio, senza la
conoscenza che ne è alla base, non serve a nulla.
Con l’obiettivo di John Keating da perseguire a tutti i costi, nonostante tutti
i vecchi che vi circondano, insegnanti compresi.
«Ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita.»
3. Danno e beffa
Un Paese guidato da vecchi. E che sono anche
incapaci (quando non sono in malafede)

L’Italia è sempre più vecchia. A dirlo è la rilevazione Istat del 2017. Sono
13,5 milioni i residenti sopra i sessantacinque anni di età, ossia il 22,3%
dell’intera popolazione. Gli ultraottantenni sono addirittura 4,1 milioni
(6,8%)! Poi ci sono 727mila over novantenni e 17mila centenari. Mentre la
popolazione è invecchiata di due mesi dal 2015, con l’età media che oggi si
attesta a 44 anni e 9 mesi. Per giunta siamo al minimo storico come numero
di figli: i bambini nati nel 2017 sono stati soltanto 464mila, un 2% in meno
dei 474mila del 2016, il record precedente. Insomma, mai così pochi nati
nella storia d’Italia.
C’è poco da fare, l’Italia è questo: un Paese per vecchi, inevitabilmente
guidato da vecchi. Per un’abitudine che nel corso del tempo è diventata una
regola non scritta, come l’attitudine tipicamente nostrana di affidarci a
ducetti, da quello originale fino a Berlusconi, senza dimenticare Renzi. E per
certi versi anche Grillo e Salvini.
Salvini propone bestialità tipo i dazi, l’uscita dall’euro e voler rimpatriare
seicentomila immigrati. Però politicamente è stato bravo – ma non
bravissimo. Perché da un lato ha ascoltato e rilanciato le lamentele di tanti
italiani facendoci poi gli slogan della sua campagna elettorale. Su tutti il
problema dell’immigrazione, che gli italiani vogliono decisamente
ridimensionare mentre la sinistra ce l’ha addossata, sottovalutando
volutamente anche i relativi aspetti di sicurezza. Ma non è stato bravissimo
perché se fosse stato più moderato avrebbe preso ancora più voti sia
dall’elettorato di destra che di sinistra. E sempre in merito a Salvini mi
aggancio a una questione ben più seria per portata continentale. Mi si accusa
di ipocrisia in quanto avverto della minaccia cinese (strisciante e a medio-
lungo periodo) ma non di quella russa (evidente e a breve periodo). Allora
chiarisco la mia posizione. I putiniani mi fanno vomitare e questa è la
maggiore riserva che ho, appunto, nei confronti di Salvini, ultra-
simpatizzante di Putin. Senza entrare nella dinamica della politica russa,
certamente auspico un atteggiamento prudente ma fermo dell’Unione
Europea, comunque rivolto al miglioramento delle nostre relazioni con loro
perché quello russo è un grande popolo. Moralmente però non posso
esimermi dal condannare la strategia russa volta a influenzare la politica del
Vecchio Continente cercando di creare divisioni al suo interno. Tutti i politici
che accettano finanziamenti russi sono dei traditori che andrebbero
processati. Inoltre gli omicidi di persone in Inghilterra fanno parte di un
atteggiamento intimidatorio che dobbiamo respingere con decisione. I soldi
russi compromettono le coscienze. I soldi degli oligarchi fanno gola a tanti e
non sono certo che questa Europa miserabile e corrotta possa resistere.
Londra è il paradiso degli oligarchi e in questo senso è un pessimo esempio
per tutti. La capacità di ergersi a difesa del vivere civile e rifiutare le lusinghe
del Dio denaro e della propaganda russa è una delle prove più importanti che
la nostra società dovrà affrontare nei prossimi anni. Battaglia che sarà
difficile vincere.
Ma tornando a noi e alla nostra politica, la sinistra ha colpe tremende
perché ha cercato goffamente di farci credere che il Paese andava bene con
l’1,5% di crescita – in realtà ridicola – senza invece venire in contro alle
problematiche dei cittadini che stanno sempre peggio. E cavalcando questo,
Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle hanno conquistato il ruolo di primo
partito. Il problema è che sono una specie di setta troppo opportunistica e
camaleontica nelle sue strategie e soprattutto troppo incompetente e con un
animo tragicamente alla Robespierre. Francamente non mi spaventano ma li
trovo inadeguati come peraltro tutte le altre realtà partitiche d’Italia. La colpa
è anche nostra che non sappiamo scegliere, ci innamoriamo del personaggio
eccessivo che sa promettere alla grande quello che scientificamente, ancora
più in grande, non manterrà.
Lo mettiamo nella poltrona del comando, poi, in un perverso rapporto di
odio e amore, iniziamo a lamentarcene senza però far nulla per cambiare lo
status quo.
Con la classe dirigente è lo stesso. E siccome il Paese, da decenni, è del
tutto disabituato a ogni criterio meritocratico, l’unica leva che viene utilizzata
per la selezione della classe dirigente è quella della «capacità relazionale»
(tra virgolette perché spesso l’essere un grande comunicatore con i propri
simili in questo caso specifico sfocia in doti sfacciatamente criminali), con la
precisa conseguenza che si punta a mettere in una determinata poltrona
l’uomo che poi ricambierà il favore elargendo tanti favori.
Ecco perché la regola che accomuna tutti i Paesi civili – ossia quella di
attivare nelle posizioni di comando un naturale turn over tale da non generare
dei mostri incontrollabili e il loro inevitabile delirio di onnipotenza – da noi è
volutamente disattesa in ogni ordine e grado del settore pubblico e molto
spesso anche di quello – più o meno – privato.
Con dei veri e propri casi da primato, che il mio caro amico Michele
Mengoli – il mio adorato «Herpes», fenomenale giornalista e scrittore, che mi
ha «costretto» a scrivere Il potere è noioso (Baldini+Castoldi, 2016) –
dovrebbe immortalare in uno dei suoi prossimi romanzi così sapientemente
infarciti del meglio e del peggio del nostro tempo.
Inevitabilmente, non posso non approfondire il discorso su due personaggi
«straordinari» già citati in Il potere è noioso.
Il primo, Ercole Incalza, il «principe» dei lavori pubblici, è la summa
ineguagliabile dell’inamovibilità dei funzionari di Stato (peraltro va detto con
competenze specifiche che oggi non esistono più). Nato nel 1944, dal 2001 al
dicembre 2014, a capo della struttura tecnica di missione del ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti, è stato capace di resistere a sette governi e ben
cinque ministri! E in generale è stato il deus ex machina dei lavori pubblici
dagli anni Ottanta al marzo 2015, quando è stato coinvolto nell’inchiesta
«Sistema» della Procura di Firenze sugli appalti delle grandi opere. A dire il
vero, come ha detto lui stesso ai giornali, nella sua vita è stato inquisito 16
volte e tutte e 16 scagionato senza essere arrivato nemmeno a processo.
Ora, dico io, a parte i costi di queste sedici indagini, oltre al fatto che
bloccano i cantieri o arrivano anni dopo la conclusione e sono altri costi di
burocrazia, la follia è concedere a un funzionario solo un potere simile, per
un tempo così lungo, in una giungla di regole in cui come ti muovi sbagli.
Tutto ciò ha un costo enorme e tra le democrazie evolute – dài, facciamo finta
di esserci, tra le democrazie evolute intendo, diamoci un tono – capita solo in
Italia.
Mentre il secondo personaggio si chiama Antonio Azzollini ed è stato
ininterrottamente (o quasi) presidente della Commissione Bilancio al Senato
della Repubblica per quindici anni, oltre ad essere stato senatore per cinque
legislature, con militanza in tutti i partiti politici da sinistra a destra, andata e
ritorno (Partito di Unità Proletaria, Verdi, Pci, Pds, Ppi, Forza Italia e Nuovo
Centrodestra). Per un certo periodo, mentre presiedeva la commissione del
Senato è stato anche sindaco di Molfetta, fino al 2012, e in quegli anni
partiva la costruzione del grande porto commerciale della cittadina, da cui
sarebbe scaturita un’inchiesta per maxi tangenti, il cui processo ancora oggi,
a distanza di dieci anni dai fatti, è in corso. Avete fatto fatica a leggere la
frase? L’ho fatto apposta, per farvi capire quanto sono incasinate le storie
all’italiana, mentre non ci dimentichiamo che qui, che stiamo parlando di un
Paese guidato dai vecchi, la domanda da farsi è: ma l’altissimo ruolo
istituzionale alla Commissione Bilancio del Senato non sarebbe più tutelato
se ci fosse un turn over prefissato come per altri prestigiosi incarichi di Stato?
Il problema non sono solo le ruberie, di piccolo o medio cabotaggio, ma lo
spregio totale delle regole che in maniera trasversale passa dalla sanità, agli
appalti al mondo finanziario. Quest’ultimo dopo gli scandali della seconda
metà degli anni Duemila è screditato su scala planetaria e le banche italiane
non fanno eccezione. Quello industriale non è da meno, con troppi
imprenditori che ciucciano dall’azienda, indebitandola, portano i soldi fuori e
poi quando è in difficoltà, piuttosto che rimetterci i soldi dentro, fanno
ingegneria finanziaria. Con un ulteriore, gigantesco problema legato ai figli
scemi. Una delle piaghe sociali dell’Italia sono stati proprio i figli in azienda,
intendo i figli dei genitori appartenenti alla Great Generation, che, subentrati
ai fondatori, hanno distrutto le aziende oppure le hanno vendute per godersi
la vita. D’altronde sono pochi i campioni che hanno fatto figli altrettanto
campioni, ed è un esempio che vale tanto per lo sport quanto per il mondo
delle imprese. Con la colpa dei genitori – anche appartenenti alla Great
Generation – di pensare che l’azienda sia un bene di famiglia prezioso e
immutabile nel tempo, come un anello di diamanti, da lasciare ai figli. Mentre
l’azienda, se è (anche) un bene di famiglia, di sicuro, per restare in salute,
deve essere la più dinamica possibile.
Insomma, per chiudere questo capitolo – dedicato a danno e beffa, e alla
guida disastrosa dei vecchi – non possiamo non ammettere che ancora
paghiamo le conseguenze di una certa classe imprenditoriale che ha gestito
gli asset industriali del Paese per decenni con l’aiuto di Stato, ovvero grazie a
leggi ad hoc e contributi vari, sotto forma di soldi, tangenti e posti di favore.
Tutto ciò ha blindato il mercato nazionale, reso i nostri player poco
competitivi nel mondo, fatto schizzare alle stelle il debito pubblico negli
ultimi quarant’anni, e lasciato la generazione di oggi nella merda.
Senza dimenticare altri due aspetti decisivi e correlati dell’imprenditoria
italiana. Il primo è l’estrema difficoltà di fare impresa a causa del mix
micidiale di fiscalità elevata, burocrazia kafkiana e disservizi da terzo mondo
che da decenni costellano il quotidiano delle nostre aziende. Difatti se i nostri
imprenditori sopravvivono o addirittura eccellono in una tale piscina di
merda, poi quando nuotano nelle acque cristalline oltre confine vanno più
forte di Michael Phelps.
Il secondo aspetto, correlato al primo perché risulta indirettamente un’altra
criticità per le imprese, è il sindacato. Dagli anni Sessanta fino ai primi anni
Novanta – ossia fino a quando il sistema industriale ha retto – ha sempre
avuto un atteggiamento ostativo verso ogni tipo di novità. Con posizioni
sempre contrarie che hanno travalicato il giusto ruolo che per esempio il
sindacato ha in Germania, dove il rapporto con le proprietà è molto
collaborativo. Paradossalmente, il risultato di questo atteggiamento è stato un
ulteriore ostacolo al benessere aziendale e quindi un danno arrecato agli stessi
lavoratori. E adesso che l’industria italiana è in pesante sofferenza, il
sindacato non ha saputo interpretare i cambiamenti nel mondo del lavoro, ha
abbandonato assieme alla politica i precari e si è attaccato dove poteva: ai
dipendenti e ai vecchi pensionati (egoisti con tutti tranne che coi propri
nipotini). Tutte le sue carte le gioca con loro, d’altro canto non siamo un
Paese per vecchi? Con una beffa tremenda: così non ci sono soldi per i
giovani.
Seconda parte

I figli dei parassiti


4. Paradiso e inferno
Vivere bene e vivere male, paradossi tra Italia e resto
del mondo

Non fraintendetemi, terminata la prima parte sui vecchi, forse vale la pena
rilevarlo in modo definitivo: questo libro non è un inno alla loro
rottamazione. O meglio, in realtà, lo è, ma non dei vecchi in quanto tali
anagraficamente. È un inno alla rottamazione dei vecchi italiani –
indicativamente quelli della mia generazione, un po’ più anziani e più giovani
– in quanto incapaci e/o in malafede. E che a causa di queste infernali
caratteristiche hanno schiantato il Paese.
D’altro canto, riporre speranze sui giovani in generale è altrettanto campato
per aria, visto che il politico più giovane e di rilievo che abbiamo avuto nel
recente passato, Matteo Renzi, ha consumato un anno e mezzo di attività
parlamentare per la riforma del Senato, facendo un enorme errore di calcolo
politico e inoltre ha spaccato il Pd, l’unico grande partito italiano definibile
come «normale» su parametri internazionali (portandolo in pochi anni dal 40
a meno del 20%: un record!).
Perciò questo libro conta soprattutto sui giovani che ancora non sono scesi
in politica. Partendo da alcune considerazioni imprescindibili. Che l’Italia,
per esempio, è un posto meraviglioso, pieno di gente perbene, generosa e
accogliente. No, non scherzo, dico proprio sul serio.
Per quanto mi riguarda Imola e Bologna sono casa mia ancora oggi, dopo
quarant’anni trascorsi in giro per il mondo, tra Europa, Stati Uniti d’America
e Asia. Amo Boston, Washington, Monaco di Baviera, Singapore, Hong
Kong, Shanghai, Bangkok e Santiago del Cile, ci vivo con piacere e ci torno
sempre volentieri quando manco da un po’, ma sono fiero delle mie origini.
Essere italiano, e poi emiliano-romagnolo, nonostante tutto, resta per me un
grande vanto. E difatti, con ironica tenacia, continuo a intercalare il mio
inglese con il termine «socmel», puro slang bolognese, e se mi capita, quando
sono a Bologna, vado sempre volentieri allo stadio a tifare per «lo squadrone
che tremare il mondo fa»; in questo senso, da tifoso, oltre alla gratitudine nei
confronti dell’attuale presidente Joey Saputo, il mio ringraziamento va anche
a quel gentiluomo di Giuseppe Gazzoni Frascara, che ha cercato di
trasmettere la sua signorilità al mondo (banditesco) del calcio
professionistico, dando lustro a Bologna. Un lustro che invece non vedo in
Fico, la Fabbrica italiana contadina, immaginata da Oscar Farinetti, sempre a
Bologna, con i soldi dei principali enti previdenziali italiani (Cassa Forense,
Enpam, Enpav, Epap, Enpab, Enpaia, Inarcassa ed Eppi) e un altro 30% da
investitori professionali, tra i quali: banche, fondazioni bancarie, Camera di
Commercio di Bologna, Coop Reno, Coop Alleanza 3.0, Eataly e Prelios Sgr.
Anzi, a dirla tutta, trovo Fico la perfetta vetrina della stupidità e del
giullarismo nazionale. Perché rappresenta l’incapacità del sistema di allocare
risorse in modo corretto senza l’inquinamento della politica. Difatti il forte
investimento non ha visto un test adeguato – meno irragionevole sarebbe
stato svilupparlo con fasi incrementali. Non si tratta di un parco di
divertimenti né di un outlet ma i prezzi sono «premium». Gli azionisti sono
inesperti e non possono guidare, frenare o indirizzare. Gli stranieri
preferiscono il calore di un centro storico a quello di un capannone di
periferia e Walt Disney stravinse con Disneyland perché fu pianificata a
lungo, sviluppata incrementalmente e aveva alle spalle decenni di esposizione
mediatica e in ogni caso Walt Disney non era Farinetti, che peraltro in Fico ci
ha messo due spiccioli a differenza degli altri azionisti, quindi i loro interessi
non sono allineati. Badate bene, non è soltanto la mia opinione ma quella dei
fondi professionali internazionali specializzati. Mentre Bologna, da decenni,
ha bisogno di una tangenziale adeguata e di uno stadio nuovo, che sia volano
di mille attività, non solo calcistiche.
Dicevo che quando posso torno allo stadio a tifare. Sia chiaro, senza
eccessi, perché considero la quasi totalità degli ultrà di tutto il mondo una
massa di coglioni assoluti, che vanno a formare una delle categorie sociali più
imbecilli e demenziali della società contemporanea. Una categoria – gli ultrà
italiani – in totale contrapposizione con la migliore Italia, quella di ieri,
sobria, umile e lavoratrice, che (r)esiste ormai solo in piccole nicchie
nascoste del nostro tessuto sociale.
E ancora, la riviera romagnola, nonostante una certa mancanza di
modernizzazione in atto anche lì (come ovunque), è uno dei luoghi nel
pianeta con il rapporto più equilibrato tra costi e qualità della vita e gente che
sa sorriderti in maniera sincera e, cosa non scontata, se te lo meriti, sa anche
quando mandarti a fare le pugnette. La provincia italiana, in generale, è
magnifica, soprattutto i piccoli borghi, che ovunque ci invidiano. Come
magnifico è gran parte del sud, isole comprese. Ovunque il cibo è
straordinario. Il Belpaese è l’unica nazione, a livello globale, dove in quasi
tutte le case si mangia meglio che nella maggior parte dei ristoranti mondiali.
E poi ci sono le donne italiane… semplicemente ineguagliabili.
Ovviamente c’è un però.
E cioè che il futuro, nel mondo della conoscenza e dell’innovazione
tecnologica in cui viviamo, non è dato dalla bella vita nella provincia e dalle
lasagne della mamma. E quindi? Guardiamo il World University Rankings,
cioè il report annuale sulle performance di centinaia di atenei di tutto il
mondo stilato dalla QS – acronimo di Quacquarelli-Symonds, azienda che si
occupa di studiare i sistemi di formazione in tutto il mondo. è una delle
classifiche specifiche più seguite per la valutazione del sistema universitario
internazionale visto che tiene conto dei giudizi di 305mila accademici,
194mila datori di lavoro e analizza 43 milioni di «paper» di ricerca e 185
milioni di citazioni.
Il report 2017 non riserva sorprese. Nelle prime cinque posizioni per
numero di presenze nelle top ten delle singole discipline si confermano le
università di Cambridge (per l’appunto con 36 discipline nella top ten),
Berkeley (34), Oxford e la mia Harvard (33), poi c’è Stanford (32).
Distanziate, in alcuni casi anche per la loro maggiore specializzazione,
troviamo il Massachusetts Institute of Technology (21), Ucla (14), la London
School of Economics (13) e Yale (12). L’Eidgenössische Technische
Hochschule (il Politecnico Federale) di Zurigo e Princeton chiudono la
classifica delle prime dieci posizioni mondiali (con 10 singole discipline nella
top ten).
Ma gli atenei italiani, direte? Chiaramente non vi è traccia e li scorgiamo in
posizioni dignitose solo nelle singole discipline. Il Politecnico di Milano è
settimo in «arte e design» e quattordicesimo in «ingegneria civile e
strutturale». La Bocconi è undicesima in «business e management» e
sedicesima in «economia ed econometria». La Sapienza è quattordicesima in
«archeologia». Basta. Nient’altro di rilevante all’orizzonte.
Va detto che questi non sono semplici dati, magari un po’ astrusi, da
commentare con un’alzata di spalle e che possono assomigliare alle
classifiche annuali sulla qualità della vita nelle città italiane, con parametri
che ci riguardano più o meno da vicino a seconda dei nostri interessi
personali; tanto per capirci, se io non frequento librerie, musei e cinema
multisala, si tratta fuor di dubbio di un mio problema a livello culturale ma
non della mia specifica qualità della vita in una cittadina priva di questi plus.
Mentre questa classifica sulle eccellenze universitarie certifica la reale
arretratezza socio-economico-imprenditoriale dell’Italia contro il resto del
mondo che corre veloce.
Mi spiego meglio. È intorno alle università davvero eccellenti – non a
parole e non per storia millenaria (quindi con buona pace della mia amata
Alma Mater bolognese) ma magari per numero di docenti premi Nobel che vi
insegnano – che si è generato il grande business degli ultimi decenni e che
noi italiani abbiamo perso del tutto. L’industria informatica della Silicon
Valley nasce intorno all’area metropolitana di San Francisco, tra Palo Alto,
ovvero l’Università di Stanford, e Berkeley, dove c’è la University of
California. Il comparto biotecnologico, che nei prossimi anni sarà
rivoluzionario come internet nel recente passato, ruota intorno allo
straordinario polo universitario di Boston, Mit e Harvard su tutti. Oxford,
Cambridge e la London School of Economics sono il bacino che rende la città
di Londra a se stante, chiaramente in senso positivo, rispetto al resto della
Gran Bretagna.
In sintesi, sono i grandi ecosistemi innovativi – composti dai poli
universitari appena menzionati e dai relativi distretti imprenditoriali a loro
connessi – il vero motore dello sviluppo mondiale. E anche se non
compaiono nella classifica, i distretti cinesi, universitari e d’impresa, di
Shenzhen e Pechino sono già quasi e per certi aspetti oltre al livello delle
eccellenze sopra citate.
E l’Italia, in questo senso, negli ultimi decenni, cosa è riuscita a proporre di
rilevante? Inteso con una forza tale da uscire dai nostri confini e conquistare
il mondo?
È drammatico dirlo. E anche se vi strapperà un sorriso amaro, non è una
battuta.
Il business criminale.
Il polo siciliano ha dato la Mafia al mondo.
Il sistema napoletano ha esportato la Camorra.
I distretti calabro-pugliesi la ’Ndrangheta e la Sacra corona unita.
Ecco dove siamo tuttora eccellenza.

Vivere bene e vivere male, si diceva. L’Italia è fantastica ma la sua


«messicanizzazione» è un dato di fatto. Perché paragono l’Italia al Messico?
In Messico, il Nord, verso il confine con gli USA, attraverso gli investimenti
delle multinazionali, ha industrie moderne, mentre il resto del Paese o è sotto
il controllo dei Narcos (e in pratica è fuori dalla giurisdizione dello Stato)
oppure vive di una economia domestica di grande precarietà. L’Italia è
uguale. Le aree industriali di Milano, Bologna e Treviso sono quelle più al
passo con i tempi, la parte moderna del Paese, fatta di (poche) eccellenze
industrial-artigianali, come le famose multinazionali «tascabili» alla IMA
(Industria Macchine Automatiche) o nomi celeberrimi come Ferrari, Armani,
Tod’s e Brembo. Fuori da qui troviamo un’arretratezza, anche
infrastrutturale, generalizzata, fino a «Gomorra» raccontata dalla serie tv e a
decine e decine di giunte comunali del nostro splendido e scalcagnato
Meridione azzerate per mafia. E la gente, a fronte di uno scenario simile da
Far West, vive e/o sopravvive in una società in cui inevitabilmente ha più
importanza il rapporto clientelare con figure non istituzionali piuttosto che
con i legali rappresentanti dello Stato. Per un processo di messicanizzazione
che al massimo può essere disciplinato. Ma questo vuol dire che la parte
moderna del Paese convive con una grossa area di «nero», con grandi aziende
al suo interno, accanto a un «terzo settore» a fortissima criminalità. Il
Messico funziona così. E, purtroppo, ormai, anche noi. Come testimoniato
dall’Ansa del 31 gennaio 2018, che citando un focus Censis-Confcooperative
sul lavoro nero, ci fa sapere che tra il 2012 e il 2015 «l’occupazione regolare
è scesa del 2,1%, mentre quella irregolare è salita del 6,3%, portando a oltre
3,3 milioni i lavoratori che vivono in un cono d’ombra non monitorato». E
tutto ciò genera inevitabilmente, in maniera diretta e indiretta, non solo
tragedie sociali ma anche drammi infrastrutturali come le voragini a Roma e i
ponti e le strade che crollano in tutta Italia.
L’Italia è fantastica ma se hai la sfiga di dover entrare in un ospedale devi
portarti le medicine da casa, la carta igienica e spesso rischiamo che i
macchinari siano antiquati o guasti; e, ancora peggio, per i potenziali danni
alla salute, almeno di quella mentale, è avere a che fare con la burocrazia
della pubblica amministrazione, dallo sportello alle Poste all’amministratore
delegato della superpartecipata: un delirio di incapacità, menefreghismo e
piccoli traffici per l’interesse personale e della propria compagnia di giro.
L’Italia è fantastica ma la criminalità, non quella organizzata (già citata
come nostro supremo «fiore all’occhiello»), ma quella quotidiana e generica
dei truffatori a vario titolo, ha preso il sopravvento, nell’indifferenza delle
istituzioni, come già scritto nel terzo capitolo: «…potrebbe andare peggio di
così: stessa corruzione, senza gli arresti». Lo testimoniano i numeri sulle
statistiche giudiziarie elaborati nel 2017 dall’Università di Losanna nel
progetto Space. Grazie agli svizzeri scopriamo che nelle nostre galere chi
infrange le norme che regolano l’economia (dalla finanza al fisco, eccetera) e
sconta pene definitive rappresenta lo 0,9% della popolazione carceraria
totale. Sono un quinto rispetto alla media europea e un ventesimo rispetto alla
Germania! Quindi, lo ribadisco fino allo sfinimento: «…stessa corruzione,
senza gli arresti». Perché in Italia, per reati economici, sono in prigione
soltanto 312 persone! Andrebbero conosciute una ad una per capire quanto
coglioni o sfigati sono per essere finiti in galera!
Ma la vita è bella perché è varia. Così a Londra e Boston e nelle altre
grandi capitali innovative del mondo il costo della vita è altissimo e viverci
risulta molto difficile se non si è dei nababbi. E per frequentare gli atenei
della top ten del QS World University Rankings senza borse di studio bisogna
essere i figli del Sultano del Brunei. Mentre a Hong Kong, dove l’economia
va forte, lo spazio vitale è finito, una famiglia di quattro persone vive in un
loculo di trenta metri quadrati scarsi, le giornate lavorative durano venti ore e
per andare e tornare dall’ufficio tocca fare almeno un’ora di metropolitana.
Quindi, vi chiederete, qual è il messaggio che quel vecchio dinosauro di
Forchielli vuol far passare?
Che per vivere bene in un posto – Italia o resto del mondo non fa differenza
– bisogna avere le idee chiare. Paradiso e inferno, i posti dove viviamo,
siamo noi a farli diventare tali.
5. Popoli contro
La «fame» dei giovani asiatici contro l’immobilismo
da pancia piena dei figli dei parassiti

Nel 1981 ho conseguito con «onore» il Master in Business Administration ad


Harvard, la scuola economica più importante al mondo. Subito dopo il Master
sono stato assunto in Mac Group, una società fondata e posseduta da
professori di Harvard, per andare in Sudamerica, prima per attuare il
programma di riduzione dei costi della Marina argentina, poi in Cile, per
risanare la banca più importante del Paese – il Banco de Crédito e Inversiones
– e infine in Perù per la spending review del 1982 e la legge finanziaria del
1983-1984. In Mac Group, a ventisei anni non ancora compiuti, guadagnavo
settantaduemila dollari netti, che all’incirca era il triplo dello stipendio di mio
padre come professore ordinario all’Università di Bologna.
Il moltiplicatore odierno, a distanza di quasi quarant’anni, non è diminuito,
anzi, probabilmente è aumentato e anche di molto. Mi riferisco alla differenza
dei compensi che può andare a guadagnare chi esce da università e master
d’eccellenza – come, per l’appunto, Harvard, Cambridge, Berkeley, Stanford,
Mit, Ucla, London School of Economics, Yale, Eth di Zurigo e Princeton –
rispetto a chi si laurea e/o ottiene Master presso atenei normali o, peggio,
rispetto a chi studia meno.
In questo senso il mondo non è cambiato granché negli ultimi decenni
perché in Occidente le scuole d’eccellenza hanno sempre generato compensi
eccellenti. Poi, al limite, uno, per mille motivi, può sempre perdersi per
strada. Come un calciatore che cresce nelle giovanili del Real Madrid o del
Manchester United, arriva a esordire nella prima squadra insieme ai
campionissimi e poi non mantiene le aspettative e l’anno successivo viene
ceduto in una squadretta della Serie A italiana. Ma, ça va sans dire, partenza
migliore in ambito professionale non c’è.
Direte voi, Forchielli, sei un fottuto paraculo, perché nel 1978 – come oggi
– andare ad Harvard costava un «botto» di soldi e tu potevi permettertelo. È
vero. La mia famiglia era medio-borghese. Ma io nel 1978 sono stato il primo
bolognese a metterci piede ad Harvard da quando era stata fondata nel 1909,
in sessantanove anni di storia il primo della mia città, peraltro una delle più
ricche d’Italia. E quella volta, gli italiani ad Harvard si contavano sulle dita
della mano di un falegname distratto. Voglio dire, i bolognesi – e gli italiani
in generale – a potersi permettere gli studi universitari e anche un Master ad
Harvard erano tanti… però erano ben pochi quelli che concretamente
avevano la voglia di farsi il culo quadrato per studiare come dei dannati!
Insomma, è sempre una questione di scelte e di farsi il culo quadro, ieri
come oggi.
Sia nello studio, sia nella vita.
Prendete due cugini bolognesi nati ricchi e oggi ancora più ricchi. Alberto
Vacchi, che è anche un mio caro amico, e Gianluca Vacchi, che di sicuro è un
vostro amico su Instagram. Il primo, classe 1964, laureato in Giurisprudenza,
è il numero uno di IMA (Industria Macchine Automatiche), multinazionale
con sede centrale a Ozzano dell’Emilia e una quarantina di stabilimenti sparsi
nel mondo, leader nella produzione di macchine automatiche per il
confezionamento di farmaci, cosmetici, alimentari, tè, caffè e tabacco, con
5mila dipendenti, di cui la metà in Italia, presenza consolidata in ottanta Paesi
ed export al 90% della produzione.
Alberto, di IMA, è l’amministratore delegato già dal 1996, da quando di
anni ne aveva soltanto trentadue. Sono più di vent’anni che porta avanti una
«baracca» che ha fatto crescere da 70 milioni di euro a oltre un miliardo di
giro d’affari. E senza andare troppo indietro nel tempo, ossia dalla nascita
dell’euro a oggi, considerando i dividendi, Alberto ha guidato una
performance aziendale del 1570%! Con il solo titolo quotato nel segmento
Star della Borsa di Milano che è salito del 674%!
In soldoni, chi ha investito 1000 euro nell’IMA di Alberto nel 2002 adesso,
sedici anni dopo, ne ha messi in «saccoccia» 15.700, dividendi compresi.
Ancora in soldoni, uno che ne ha investiti tanti – ma tanti, eh! – in IMA è
proprio il cugino di Alberto, Gianluca, classe 1967, laurea in Economia e
commercio, che, come ha comunicato la stessa azienda nel 2016, «non ha
deleghe e non si occupa direttamente della gestione aziendale» e come
trascorre le giornate lo possiamo vedere tutti sui social sorridendo con lui
delle sue trovate strampalate, che lo hanno reso popolarissimo su Instagram.
Due cugini, più o meno coetanei, partiti dalla stessa bambagia, uno manda
avanti una multinazionale, l’altro si è inventato una visibilità mondiale che
pochi altri in Italia hanno. La mia simpatia va ad entrambi ma per l’amico
Alberto, che per decenni ha contribuito al benessere di cinquemila famiglie (e
di altre migliaia se pensiamo anche all’indotto), provo grande stima perché è
uno degli uomini che ancora fa funzionare il nostro Paese.
È anche vero che non tutti nascono per fare – bene – i presidenti e gli
amministratori delegati di grandi aziende. Così come di Leo Messi e
Cristiano Ronaldo – due figli delle periferie povere che ce l’hanno fatta
grazie al loro talento pazzesco – ne nascono giusto un paio per generazione.
Noi siamo abituati a identificare i capitani d’azienda con i soliti
Montezemolo e Gianni e Umberto Agnelli, cioè persone con un vantaggio già
alla nascita e aiutate da dinamiche di mercato a loro molto favorevoli: e allora
è facile cadere nel luogo comune per cui se l’hanno fatto loro potevano
riuscirci tutti. Ma credetemi, di campionissimi alla Messi e Ronaldo che
sfondano solo grazie al talento ce ne sono anche nel mondo imprenditoriale.
E Alberto Vacchi è uno dei più grandi della sua generazione.
Io, tra loro due, tra Alberto e Gianluca Vacchi, sono una via di mezzo. Nel
senso che mi faccio il culo dal 1978 ma allo stesso tempo su Facebook ho
600mila persone che mi seguono nei discorsi seri e nelle cazzate e se mi
mettessi in mutande a ballare a bordo piscina arriverei anche io a qualche
milione di follower – Luciana (è mia moglie, n.d.a.), stai tranquilla, cara, sto
scherzando!
Ma non scherzo quando dico che è sempre una questione di scelte e di farsi
il culo quadro. Sia nello studio, sia nella vita. Gianluca Vacchi è un
privilegiato ed è l’eccezione che conferma la regola perché può permettersi di
fare quello che più gli piace. Invece chi, dall’adolescenza ai trenta,
trentacinque anni, non ha la sua fortuna patrimoniale, deve avere le idee
molto chiare su come gira il mondo odierno.
Con una componente non secondaria che si somma al quadro che ho fatto
fin qui del mondo occidentale degli ultimi quarant’anni. Ovvero che la
globalizzazione ha buttato nella mischia altre due carte. E sono briscole: la
Cina e l’India.
Siete seduti? Okay, allora ve lo dico. Ogni anno si laureano almeno sette
milioni di cinesi (dato World Economic Forum). E a differenza nostra, di
questi sette milioni sono pochi quelli che optano per materie inutili – per il
mondo odierno e quello di domani, sia chiaro – come Scienze della
comunicazione, Lettere e filosofia, Giurisprudenza, eccetera. Nel senso,
amate con tutto il cuore la filosofia? Sempre che non abbiate i soldi di
Gianluca Vacchi o almeno la certezza di essere l’Arthur Schopenhauer del
nostro tempo, studiatela per i fatti vostri, nel tempo libero!
Aspettate, non alzatevi! Perché ve ne dico un’altra ancora più
destabilizzante. Stesso discorso per le lingue! Nel mondo degli affari serve
sapere una lingua alla perfezione ed è l’inglese. Basta e avanza quella,
credetemi. Smettete di studiare da traduttori perché non servono già più.
Negli ultimi anni, prima tutti a studiare il russo poi il cinese… sciocchi! Nel
business di oggi e soprattutto in quello di domani, gli uomini d’affari russi e
cinesi parlano e parleranno sempre meglio l’inglese. Quindi non perdete
tempo a imparare il dialetto siberiano o lo slang del Guandong.
Specializzatevi in una materia scientifica e nel tempo libero imparate
l’inglese come l’italiano. E in generale sarete più avvantaggiati di un laureato
in lingue che non sa fare nemmeno una divisione in colonna.
In conclusione, nella «battaglia» per diventare degli adulti con una buona
retribuzione, la competizione ora non è più solo con gli altri occidentali,
magari laureati al top, ma anche con gli asiatici!
In Italia, nel nostro gretto e arrogante provincialismo, distratti come siamo
nel parlare bene o male del Gianluca Vacchi di turno, i cinesi li vediamo
ancora come operai dalla manodopera bassissima, invece non è più così da
anni. Da un lato i loro cinquecento euro di stipendio in Cina hanno un potere
d’acquisto ben più alto rispetto ai 700 euro di un addetto al call center di
Milano. Dall’altro lato, gran parte dei laureati cinesi di oggi saranno gli
scienziati del futuro, alla conquista del mondo occidentale.
La competizione, in ogni caso, è feroce: in casa nostra, tra italiani; e
all’estero, sia con gli altri occidentali sia con i milioni di laureati cinesi e gli
altrettanti indiani, tutti affamati come bestie mentre noi abbiamo la pancia
piena perché a vent’anni ragioniamo come dei pensionati. E quasi tutti gli
asiatici – non mi stanco di ripetervelo – sono concentrati sulle materie
scientifiche, racchiuse nell’acronimo inglese «Stem», che sta per Science,
Technology, Engineering e Mathematics. Letto questo, non pensate di fare i
furbi, raccontando ai vostri genitori che Forchielli dice che è inutile studiare
perché la concorrenza ci annienta e tanto vale andare a fare il cameriere a
Londra o il lavapiatti a New York da Bastianich.
Anche se fate questa scelta, non pensiate sia semplice, in quanto italiani la
prendete in quel posto comunque, perché nel mondo anglosassone per i lavori
umili preferiscono prendere un madrelingua in arrivo dalle ex colonie
dell’Impero rispetto a un italiano. Un po’ perché parlerà un inglese migliore
del vostro e un po’ perché voi siete italiani e vi sentite speciali a prescindere e
questo farà girare i maroni non sapete quanto al turco proprietario del
ristorante italiano nel centro di Londra.
Ma è anche vero che il mondo non finisce con Stem e inglese. Una valida
alternativa è imparare seriamente una professione manuale, come pasticcere,
cuoco, pizzaiolo, potatore, sommelier, enologo, paramedico, badante
professionale, maggiordomo, eccetera. Con una regola che deve tornare di
moda: l’uso delle mani è ben più nobile di fare, per esempio, il bancario (in
via di estinzione). Quindi meno Master in Business Administration a tempo
pieno – ormai solo una commodity – che da un po’ sono in difficoltà perché
vi sono sempre più ottimi programmi sostitutivi, molto spesso all’interno
delle grandi aziende; e siccome oggi comanda la scienza, meglio ancora un
EMBA (Executive Master of Business Administration) part-time associato a un
dottorato di ricerca in biologia, informatica, ingegneria, eccetera, perché i
manager dovranno avere sempre grandi competenze scientifiche per gestire
aziende complesse sotto l’aspetto scientifico, sicuramente all’estero, in Italia
purtroppo meno. E oltre a Stem viva l’artigianato, che è intramontabile
perché non può essere sostituito dai robot. Nella moda è il top, dove sono
tutti anziani e con pochissimi giovani e allora può essere la vostra occasione.
Mollate Scienze politiche che non serve più. Basta avvocati che sono milioni
in Italia. Meglio l’autista alla Uber. Meglio i «lavoretti» della «Gig
Economy», ossia dell’economia on demand. Economisti ancora sì ma dovete
avere una grande specializzazione.
E per l’amor di Dio non fate i giornalisti. Come mi racconta Herpes il 65%
degli iscritti all’Ordine dei giornalisti è precario o disoccupato e otto su dieci
hanno un reddito intorno ai 10mila euro – quindi sotto la soglia di povertà – e
devono avere a che fare con gli editori italiani che sono dei «cioccapiatti» di
livello assoluto. Usate le mani! Montate gli infissi. Falegnami, idraulici e
artigiani in genere in America sono di livello scarsissimo. Le grandi città del
mondo hanno eccesso di persone qualificate e deficit di manovalanza («skill
sorting»), allora andate lì, createci imprese di riparazioni domestiche, fate
soldi a palate, poi passate rapidamente in proprio! Fate come i cinesi che
dalla culla sanno già che saranno i padroni di se stessi. E andate subito verso i
mercati esteri. Se ci riuscite, intendo ad avere almeno il 50% di vendite
all’estero, potete anche mantenere la sede in Italia e magari nel tempo,
crescendo, spostare o aprire sedi all’estero perché da noi il costo del lavoro,
la burocrazia e la fiscalità ci rendono anti-competitivi. In ogni caso poche
pugnette. Arrotolatevi le maniche e preparatevi a vendere cara la pelle.
6. Poeti, santi e navigatori. Ancora?
No, per un cazzo: una generazione senza sogni, che
non legge, non scrive e non sa fare di conto!

La storia degli ultimi cento anni dell’Italia – tranne rarissime eccezioni – ci


insegna che siamo eroi per caso. Dalla Prima guerra mondiale in avanti
abbiamo la certezza che i nostri comandanti – nel senso più largo del termine,
dai politici ai vertici militari – sono degli incapaci che ci mandano allo
sbaraglio senza la preparazione adeguata e l’equipaggiamento necessario. E
anche quando potremmo essere all’altezza della situazione – si prenda
l’esempio della nostra dignitosissima flotta navale nella seconda guerra
mondiale – ci facciamo sopraffare. Poi ci distinguiamo o per rarissimi esempi
di coraggio collettivo, citati nei libri di storia in tutto il mondo – come i casi
indimenticabili degli alpini a Nikolajewka e della Folgore ad El Alamein – o
grazie all’eroismo individuale, come nel caso delle incursioni della Decima
Flottiglia Mas, l’unità speciale della Regia Marina, che ha dato ispirazione ai
Navy Seals. In quella che viene ricordata come l’impresa di Alessandria
d’Egitto, nel 1941, dove sei nostri palombari a cavalcioni dei celeberrimi
siluri a lenta corsa, anche conosciuti con il termine di «maiali», si
intrufolarono nel porto nemico e affondarono due navi da battaglia
britanniche – la Queen Elizabeth e la Valiant – e ne danneggiarono un altro
paio: il cacciatorpediniere Jervis e la nave cisterna Sagona.
Invece, allargando lo sguardo sulla storia millenaria del nostro Paese,
inteso come la terra che ospita gli attuali confini, non possiamo non
riconoscerci come il popolo delle fazioni – dai guelfi e ghibellini alle mille
correnti della politica contemporanea – che non sa fare sistema. Però,
partendo davvero da molto lontano, tipo da Romolo (per andare sul sicuro),
se pensiamo a tanti personaggi storici che nel loro ambito hanno lasciato un
segno nella storia, effettivamente la frase (che poi portò una sfiga tremenda,
ma questo è un altro discorso) che Mussolini fece incidere sul Palazzo della
civiltà italiana a Roma – «Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di
pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori» – è veritiera. Provate
voi a verificare, facendo questo giochino: a partire da Dante, pensate a un
nome per ciascuna delle categorie di cui sopra, e vedrete che anche se siete
intontiti dalla troppa tv, riempirete tutte le «caselle» non con tantissimo
sforzo.
È ancora così anche per i giovani di oggi? Novelli poeti, santi e navigatori?
No, per un cazzo! Il guaio è che sono – siete – una generazione senza sogni,
che non legge, non scrive e non sa fare di conto, porca troia!
Il problema parte dalle basi. Infatti, secondo il «Rapporto sullo stato
dell’editoria in Italia», a cura dell’Ufficio studi dell’Aie (Associazione
italiana editori) su dati del 2016, l’Italia è un Paese che non legge. Nel 2015
c’erano 24 milioni di lettori e l’anno successivo sono scesi di 700mila unità,
equivalenti a un -3,1%. Significa, drammaticamente, che il 58% degli italiani
non legge nemmeno un libro all’anno! Ma dove vogliamo andare da semi-
analfabeti quali siamo?
C’è un altro dato da far rizzare ogni pelo del corpo. Eccolo.
La classe dirigente italiana non legge. Il 38,6% di «dirigenti, imprenditori e
liberi professionisti» dichiara di non aver letto alcun libro nell’ultimo anno.
Dato che sale al 44,6% tra i maschi e scende al 25% tra le donne. E solo
l’11,6% legge più di un libro al mese.
Vi basta? Dalla borghesia illuminata dell’Unità d’Italia alla Great
Generation che ha fatto la seconda guerra mondiale e poi il boom economico,
passando per noi figli parassiti per arrivare alla classe dirigente attuale che
non ha neppure voglia di leggere. Bella parabola, non c’è che dire!
Non vi basta? Volete un altro dato shock?
Pronti.
Secondo voi almeno i laureati leggono?
Ma va là! Tra i laureati c’è un 25% che non legge alcun libro nel corso
dell’anno e solo il 15,3% ne legge uno al mese (tutti dati Istat del 2015).
Ripeto, siamo fritti.
Un’altra statistica strappalacrime è intitolata «Gli studenti e il lavoro che
cambia». E si tratta di un’indagine di Astra ricerche su 800 ragazzi tra i 17 e i
19 anni commissionata nel 2017 da Manageritalia, la federazione nazionale
che rappresenta migliaia di manager in settori chiave.
I ragazzi intervistati per il 75% si attendono un incremento dei giovani che
emigreranno per cercare lavoro. Soltanto il 36,5% però si aspetta in parallelo
un aumento della disoccupazione in Italia, mentre il 40% crede che
diminuiranno in Italia i salari d’ingresso. Di fronte a tali scenari, secondo i
ricercatori, ci si sarebbe potuto aspettare che le scelte relative al percorso di
studi fossero più pragmaticamente lungimiranti, ossia più indirizzate a
massimizzare la possibilità di trovare un buon lavoro e fare carriera. Invece è
il contrario, con un’incoerenza assoluta perché in realtà il percorso di studi
viene scelto in base alle proprie – presunte – capacità e preferenze piuttosto
che scommettendo sugli sbocchi professionali. Il 54,7% si fa quindi guidare
«molto» dalle proprie passioni e solo il 37,2% guarda «molto» alla possibilità
di trovare lavoro. E solo il 27,1% confida sulle esperienze lavorative fatte
durante gli studi grazie alla scuola.
È bello pensare che se mi piace leggere Schopenhauer per comprendere il
mondo allora scelgo di laurearmi in filosofia, ma poi non ho le competenze
iper-specialistiche per affrontare il mondo attuale, e allora nessuno si stupisca
se da anni i trentenni cinesi guadagnano più dei coetanei italiani!
Sì, è così ma siccome non leggete, pensate ancora che i cinesi siano
soltanto quelli di Prato o della manodopera bassissima negli enormi distretti
industriali cinesi.
Invece l’Emerging consumer survey 2013 – un’analisi che ha coinvolto
14mila persone di otto Paesi emergenti (Brasile, Russia, India, Cina, Turchia,
Arabia Saudita, Indonesia e Sud Africa) condotta da Nielsen per conto del
Credit Suisse – ci dice che il salario medio mensile dei giovani trentenni
cinesi è di circa 1100 euro, contro i 1025 euro dei loro genitori che hanno tra
i 56 e i 65 anni, ossia un 15% in più tra le due generazioni. Mentre,
impietosamente, Datagiovani su base Istat, ha calcolato che la retribuzione
media di un trentenne al primo lavoro in Italia è di 823 euro al mese e quella
di un suo coetaneo collaboratore a progetto è di 821 euro al mese (dati Isfol).
E in entrambi i casi parliamo di privilegiati perché in Italia il tasso di
disoccupazione giovanile registrato dall’Istat (2016) si attesta al 37,1%!
Perché i trentenni cinesi guadagnano di più dei loro connazionali
sessantenni? Perché da loro i fattori che alzano il reddito sono unanimemente
considerati i seguenti: il livello d’istruzione, la migrazione dalla campagna
alla megalopoli e l’alfabetizzazione tecnologica. E a prescindere dai trend
cinesi di crescita continua (anche bassa rispetto al recente passato ma ancora
continua) e dalle antitetiche dinamiche socio-economiche tra la nostra società
e la loro – da noi la gente tende sempre più a rispostarsi verso la provincia e
la mia generazione non molla la poltrona nemmeno fosse una cozza
abbarbicata su uno scoglio romagnolo – la vera differenza è la seguente.
Da noi, come ho detto poc’anzi, il 54,7% dei giovani si fa guidare «molto»
dalle proprie passioni nella scelta del percorso scolastico. Con l’aggravante
che la nostra scuola è sfasciata. Come ho scritto ne Il potere è noioso: «Ho
lasciato l’Università di Bologna nel 1978 e ci sono tornato a insegnare nei
primi anni Duemila, per un triennio, ben prima della crisi del 2009. E ho
trovato le stesse aule, solo più fatiscenti. Con gli studenti che erano dieci
volte quelli di un tempo e con i posti a disposizione per i neo-laureati che
erano un decimo rispetto a una volta, perché nel frattempo le aziende sono
fallite».
In Cina, invece, annualmente si spendono 200 miliardi di dollari in ricerca
e sviluppo, un trend che la porterà nel 2019 a essere in questo settore il primo
Paese al mondo. Qui, dei sette milioni di laureati annui, il 40% lo sono in
materie STEM! (dati World Economic Forum)
Zhongguancun, a Pechino, e Shenzhen sono la versione continentale della
Silicon Valley. E per quanto concerne il biopharma – uno dei settori chiave
del prossimo futuro – il mercato farmaceutico cinese vale circa 150 miliardi
di dollari, con un terzo riferito solo al biotech, mentre i mercati di America ed
Europa valgono 350 miliardi ciascuno, di cui la metà in biotecnologie e nuovi
farmaci. E la Cina negli ultimi decenni è diventata famosa per la chimica e
per le medicine a prezzo basso, visto che la maggior parte delle società
farmaceutiche locali sono ancora concentrate sul mercato nazionale costituito
da farmaci generici. Ora però la biotecnologia è il cardine del piano
governativo quinquennale 2016-20 e possiamo stare certi che questo spingerà
il biopharma cinese fino a diventare una potenza mondiale.
Ciò accadrà anche grazie a un dettaglio non da poco. Negli Usa vi è il
centro mondiale delle «Life Sciences». Si trova in Kendall Square a Boston,
una zona definita «il più innovativo chilometro quadrato del pianeta». Tutto
ciò nonostante il vicinissimo Mit non abbia una facoltà di medicina e
nemmeno una clinica universitaria. Com’è possibile? Perché il Dna è una
combinazione miliardaria di 4 lettere. Vuole dire che oggi il corpo umano con
tutti i suoi segreti è esprimibile con il linguaggio del computer. Ecco quindi
che quei milioni di cinesi laureati in ingegneria annualmente nell’immediato
futuro giocheranno un ruolo decisivo nell’economia del loro Paese.
Un quadro simile cosa insegna a noi occidentali e italiani? Che far studiare
la matematica ai nostri figli può essere una eccellente opzione per il loro
futuro, anche se sono appassionati di filosofia o legge.
Ora, siccome non possiamo aspettarci dalla nostra classe dirigente la
capacità di decidere e fare le mosse giuste per rimetterci in carreggiata,
magari investendo seriamente sulla scuola, né che le varie anime del Paese
facciano sistema, l’unica speranza è nella lucidità del singolo individuo.
Quindi ogni giovane, magari con l’aiuto dei suoi genitori, deve decidere per il
meglio – altrimenti il divario di guadagno tra i nostri e i trentenni cinesi non
solo è destinato a salire, ma a moltiplicarsi.
Terza parte

Muovete il culo!
7. O scappi
All’estero (come, dove, quando?)

Se mi seguite da un po’ di tempo, sapete già come la penso – tra l’altro ci ho


anche scritto un libro (con Stefano Carpigiani): Trova lavoro subito! I segreti
per ottenere all’estero il posto che hai sempre sognato, (Sperling & Kupfer,
2015). Se invece è la prima volta che vi trovate di fronte a Forchielli e avete
preso questo nuovo libro di sfogo perché vi piace lo sprone del titolo, o
perché in qualche maniera siete incuriositi dalle idee pragmatiche di un
vecchio arnese come me, globalizzato dalla fine degni anni Settanta, la
questione è comunque piuttosto semplice. Pochi voli pindarici. O, meglio,
poche pugnette. Sempre sul «pezzo», come sacrificio e forza di volontà, sia
che siate ancora studenti sia che abbiate già uno straccio di carta appeso a un
qualche muro o una più o meno lunga carriera professionale alle spalle. Per
qualche ragione – ve ne sono mille e tutte ben più che legittime – vi siete rotti
le balle dell’Italia? Okay, smettete di parlarne male – lo fa già abbastanza il
sottoscritto – e andate all’estero a cercare il vostro posto al sole e tornate qui,
come dico sempre, per salutare i vostri cari, fare il pieno di tortellini,
prendere in giro i vostri amici che sono rimasti e che continuano solamente a
lamentarsi di quanto si stava meglio quando si stava peggio e ripartite subito
dopo a gambe levate.
La premessa è questa: idee chiare, forza di volontà e spirito di sacrificio,
ecco cosa manca ai giovani italiani, «giovani» fino a cinquant’anni. Ma c’è
un dato interessante che conferma quanto sto dicendo: negli ultimi sei anni è
triplicato il numero di italiani che hanno deciso di trasferirsi all’estero:
115mila nel 2016, ossia un +12,6% sul 2015 (dati Istat 2017).
Volete raggiungerli? In primo luogo – lo ripeto – dovete parlare almeno
un’altra lingua; oltre all’italiano che sapete male perché, come abbiamo visto,
non avete voglia di fare un cazzo e vi siete anche disabituati a leggere.
Quali lingue si parlano nel mondo?
Da una ricerca dell’autorevole rivista Ethnologue sulle lingue del mondo
parlate da almeno cinquanta milioni di madrelingua, le prime dieci sono: 1)
cinese, 1197 (milioni); 2) spagnolo, 414; 3) inglese, 335; 4) hindi, 260; 5)
arabo, 237; 6) portoghese, 203; 7) bengalese, 193; 8) russo, 167; 9)
giapponese, 122; 10) giavanese. Mentre l’italiano, con 63,7 milioni, è
soltanto all’83esimo posto.
Bene, in Riviera romagnola, la terra dell’accoglienza, se la sono sempre
cavata alla grande perché hanno fatto di necessità virtù, passo dopo passo.
Oggi la «messicanizzazione» è arrivata anche lì. Il lungomare, da Milano
Marittima a Cattolica, salvo rare eccezioni, sembra la Crimea o l’Albania o
per essere indulgenti è rimasto uguale agli anni Sessanta, con alberghi dai
nomi fantasiosi e con le catene alberghiere internazionali tipo Sheraton e
Hilton che non sono presenti perché la «pensione completa» a poche decine
di euro al giorno è un business così povero e antiquato che ormai sta stretto
anche agli alberghetti a gestione famigliare. Per uno skyline costiero
destinato a rimanere all’infinito immutabile perché le famiglie di albergatori
non vogliono finire sotto i ponti e nessun «hotelier» importante verrà a
comprare e consolidare, visto che ci provarono con il cinque stelle «Le
Conchiglie» negli anni Novanta facendo un botto della Madonna. Nella stessa
logica ci sono ancora gli stessi negozietti di ciabatte, secchielli, palette e
cartoline – sì, per Dio, ancora le cartoline! – con i saluti da Viserbella. E sono
ancora gli stessi anche i proprietari, che hanno aperto trenta o quarant’anni fa
e che adesso, a ottant’anni suonati, sono ancora lì, rincoglioniti, a venderti le
infradito e i materassini. Sembra di essere nella Cuba di Castro con le auto
degli anni Cinquanta e lo stile rétro-trasandato senza però le curve delle
cubane (oh, scherzo, sono meglio le curve delle romagnole!).
Ma in Romagna, ai tempi, quando arrivavano i tedeschi, i più scaltri
imparavano subito il tedesco e in tutte le pensioncine era un fiorire di cartelli
«Zimmer frei». I «vitelloni» romagnoli andavano per la maggiore nei Paesi
scandinavi anche perché alcuni sapevano pure i dialetti della periferia di
Stoccolma. Con il boom dei russi di qualche anno fa, identica roba, un fiorire
di corsi di russo e menù in cirillico.
Insomma, sapere le lingue è fondamentale. Salvo casi specifici, come ho
già detto, lasciate perdere il cinese e anche il russo. Certo, se andate a vivere
in Francia, sapere il francese aiuta, come in Germania il tedesco – in questo
caso, a dire il vero, è indispensabile – e nei Paesi latini lo spagnolo. Gli
uomini d’affari di questi due immensi Paesi – Cina e Russia – sapranno
sempre meglio la lingua che dovete sapere anche voi come l’italiano. Ovvero
e ovviamente l’inglese.
Lo sapete alla perfezione? Va bene, siete pronti.
Non lo sapete bene o lo sapete poco?
Non partite. Tornereste in un attimo con le pive nel sacco. Però fiondatevi a
impararlo. Non avete più scuse. Con Duolingo, per esempio, è gratis e
funziona!
Studiatelo anche per un altro motivo. Ugualmente se avete il culo di essere
dei figli di papà che vivete di rendita e non vi sognate di lasciare il paesello
per nessun motivo al mondo. Ragazzi, imparate subito l’inglese per accedere
a un mondo dell’informazione più moderno del nostro e uscire dal ghetto
dell’italianità.
Datemi retta. A leggere i giornali italiani e a vedere i nostri tg non ve ne
rendete conto ma spesso le informazioni che contano non vengono riportate
nemmeno nelle notizie «brevi». I nostri media sono l’immagine del Paese.
Sui più importanti quotidiani – «Il Corriere della Sera» e «la Repubblica» – ci
sono sei-otto pagine fra cultura, tv, spettacolo, costume, hobby,
cavalli&segugi, e solo due di economia tutte infarcite di marchette. Gli
editoriali sono le solite prediche vecchie di trent’anni che nessuno ascolta più.
Sommiamo a ciò l’impatto malefico della tv e non sorprendiamoci se il Paese
è totalmente rincretinito. È imperativo che gli italiani imparino l’inglese per
globalizzarsi una volta per tutte!
Imparato l’inglese, siete pronti per il mondo. Adesso però ci vogliono le
idee chiare. Cosa volete fare da grandi? Nel senso, volete diventare dei
maestri orologiai? Inevitabilmente dovrete andare in Svizzera perché è lì che
vi sono le migliori scuole di specializzazione al mondo. Volete fare
l’università all’estero oppure siete laureati in qualcosa di «serio» – inteso
ovviamente come materia scientifica spendibile nel mondo globalizzato che
corre veloce come mai prima d’ora – e puntate a un master? Si torna al report
2017 sulle performance di centinaia di atenei di tutto il mondo del QS World
University. Ossia, volete il meglio? Ecco, il meglio – tranne rare eccezioni –
è nella top ten citata nel capitolo 4: Cambridge, Berkeley, Oxford, Harvard,
Stanford, MIT, Ucla, London School of Economics, Yale, ETH di Zurigo e
Princeton.
Nello specifico, siete laureati o avete un master in una delle quattro aree
disciplinari Stem e volete giocarvela al top, tra i big della Liga, della Premier
e dell’Nba, tanto per fare un paragone con i campionati sportivi di eccellenza
nel mondo? Puntate tutto sull’ecosistema di Boston: il paradiso della
biotecnologia.
Un dato altrettanto palese. Non è solo una questione di impegno e forza di
volontà. C’entra anche l’attitudine, oltre a provare legittimamente a inseguire
i propri sogni. Oppure, semplicemente, non riuscendo in certe materie più
complicate di altre, ci tocca trovare, in modo ugualmente intelligente, un
«piano B».
Fermi tutti. Ve lo ripeto ancora una volta, non intendo dire che dovete
andare a fare i camerieri o le baby-sitter a Londra! Troppe incertezze e troppa
precarietà, per una concorrenza inimmaginabile anche di ragazzi del terzo
mondo ben più volenterosi di noi italiani e che sono madrelingua inglesi,
mentre sul vostro inglese, nonostante Duolingo, nutro ancora forti dubbi. Poi
magari ce la fate ugualmente a trovare la vostra strada anche a Londra
partendo da camerieri e baby-sitter ma, generalizzando, anche in questo caso,
è meglio prima specializzarsi e poi partire. Fate corsi professionali, anche
serali. Studiate un mestiere vero, magari dimenticato ma che ha ancora
nicchie in salute. In sintesi, un bravo cuoco, un pizzaiolo esperto, trovano
lavoro ovunque, come d’altronde elettricisti, idraulici e giardinieri. Nella
nicchia del lusso, un artigiano che ha un talento e una esperienza unica in una
attività ben specifica se la cava tuttora alla grande.
Ma se volete smetterla di guardare a Londra e volete un consiglio dal buon
Forchielli, guardate agli antipodi, c’è la nuova «Via della Seta». La OBOR
(«One Belt, One Road») che con investimenti di un trilione di dollari entro il
2026 in 62 Paesi velocizzerà e aumenterà il commercio tra Cina ed Europa. In
Asia, non solo per questo mega-progetto voluto da Xi Jinping, i prossimi
decenni saranno all’insegna delle infrastrutture e servirà una montagna di
manodopera qualificata.
Poi vi è un altro aspetto non secondario su cui puntare. Tutto il mondo
continua a invecchiare perché la qualità della vita cresce e si allarga a fasce
sociali sempre più ampie, alzando l’aspettativa di vita quasi dappertutto. E
già oggi i neonati italiani – ma un dato simile vale per tutti gli occidentali –
statisticamente supereranno i cento anni di età. Questa popolazione sempre
più anziana va accudita e un titolo professionale in questo variegato settore
garantisce una buona occupazione in tutta Europa e non solo. La salute in
genere è un campo di ottime prospettive occupazionali. Fate l’infermiere e
avrete un lasciapassare per ogni angolo del mondo. È naturale che in questi
casi l’inglese non possa essere sufficiente: Paese che vai, malato che trovi,
lingua che devi sapere. Ma se ti sei stancato dell’Italia, le opportunità migliori
sono queste. Prendere o lasciare. Se lasci, però, almeno smettila di lamentarti
senza fare nulla di propositivo.
8. O resti e combatti
Qui in Italia, per te stesso (cambiando usi e costumi)
e per gli altri (basta indifferenza, impegnati per la
cosa pubblica, dal condominio a salire)

Hai deciso di rimanere? Bene. Allora devi essere propositivo e pronto a


combattere strenuamente perché il quadro è drammatico. Iniziamo dal
contesto, poi dai nemici, ancora dal contesto per finire con i consigli pratici
sul restare e combattere.
Prima di tutto devi capire il contesto, cioè tutto ciò che ti circonda. E devi
guardarlo e capirlo con occhi nuovi. Per esempio, basta pensare che la
Pubblica amministrazione sia la panacea a tutti i mali del lavoro: prima di
tutto non è un posto di lavoro per giovani. Meno di tre dipendenti su cento –
per l’esattezza 2,7% – che lavorano nella Pa hanno meno di trent’anni! E gli
impiegati con meno di 35 anni sono il 6,8%. Su oltre tre milioni di dipendenti
pubblici, quelli tra i 18 e i 29 anni sono soltanto 81.746, che diventano
205.330 se allarghiamo la forbice fino ai 34enni. Mentre la fascia di assunti
nella Pa con età compresa tra 55 e 67 anni è di oltre un milione di persone
(fonte: Aran 2015).
Ciò cosa significa? Che l’età media dei dipendenti nella Pa va ben oltre i
50 anni; l’unica eccezione è riservata alle forze dell’ordine, dove la media si
ferma a 41,4 anni. In pratica nella Pa non esiste ricambio generazionale, con
un impatto devastante sulla qualità dei servizi e anche sulla quantità del
lavoro svolto. Quindi dimenticati della Pa, anche perché potrebbe non
mancare tantissimo al giorno in cui non ci saranno più i soldi per gli stipendi
dei tre milioni di dipendenti pubblici.
Un’altra notizia da far rizzare i capelli? Nel 2017 è stato pubblicato il
rapporto sul «Divario generazionale tra conflitti e solidarietà», elaborato dalla
Fondazione Bruno Visentini, che basa la sua ricerca misurando 27 parametri
in 12 ambiti diversi, dalla disoccupazione all’abitazione, dal reddito
all’accesso al credito. Ebbene, secondo questo rapporto – che si ispira
all’«Intergenerational fairness index» curato dalla Intergenerational
Foundation inglese, e che analizza le criticità che ostacolano lo sviluppo delle
nuove generazioni – indovinate dove si colloca l’Italia in Europa? Penultima,
solo davanti alla Grecia. Proiettando questo indice al 2030, la generazione
degli adulti e quella dei giovani triplicano la loro distanza. Che vuol dire
questo: un giovane, se nel 2004 aveva impiegato 10 anni per costruirsi una
vita autonoma, nel 2020 ne impiegherà 18, e nel 2030 addirittura 28. Peraltro,
non trovare lavoro e reddito stabile significa non fare affidamento sulla
pensione che sarà da fame.
Questo è l’habitat inospitale in cui devi e dovrai vivere, e se non ti basta a
cambiare paradigma mentale considera che dovrai fare i conti con due
nemici, due forze che tenderanno a schiacciarti e a convincerti che non c’è
niente da fare e che è tutto colpa di altri.
Il primo nemico è il populismo. Questa è l’epoca dei populisti, dal basso
fino alla Casa Bianca, occupata dall’impresentabile Trump. Populismo che si
diffonde in gran parte dell’Occidente a suon di continui «no» a tutte le novità,
senza fare i conti con la realtà, strumentalizzando temi fondamentali come
sicurezza, immigrazione e disoccupazione e con proclami demagogici che
cavalcano l’insoddisfazione della classe media impoverita dalla
globalizzazione. Arrivando addirittura a negare il valore della scienza e in
maniera del tutto utopica incitando al ritorno fuori tempo massimo di valori
antichi non replicabili, come l’assurda idea di poter bloccare il commercio
internazionale. Purtroppo, facendo leva sulle fasce della popolazione
culturalmente svantaggiate, per un risveglio che sarà brusco e doloroso.
Populismo che trova terreno fertile nel guardare soltanto al proprio
orticello, terrorismo estremista compreso. E populismo per populismo,
apprezzo di più lo spirito degli USA rispetto al nostro, che conta l’aggravante
di essere ipocrita e codardo. Difatti, se non ci fossero gli americani –
nonostante abbiano commesso miliardi di errori in politica estera,
confezionando guerre assurde – non ci sarebbe nessun altro occidentale in
grado di difenderci dagli integralismi. Come nel caso, diffuso dal «New York
Times» a fine febbraio 2018, dei quattro soldati americani uccisi dall’Isis il 4
ottobre dell’anno prima, in un agguato nel deserto del Niger. Con gli ultimi
minuti di vita ripresi dalla videocamera inserita sull’elmetto di uno di loro.
Quattro soldati che sono morti anche per noi, combattendo valorosamente, in
Niger, Paese chiave per controllare i flussi migratori. Mentre noi, cialtroni e
piagnoni, accampiamo ogni scusa possibile e facciamo finta di niente.
Bisogna però avere l’onestà di dire che sono morti anche per noi, provando a
contrastare gli stessi terroristi che presto potrebbero farsi esplodere accanto ai
nostri figli, in una qualsiasi strada d’Italia.
Il secondo nemico è rappresentato dai soloni istituzionali. Per loro,
nonostante il nostro continuo tracollo in ogni classifica internazionale per
tutti gli indici che contano nella vita di un Paese, è sempre la solita messa
cantata: bisogna far finta che ci vogliamo bene, che gli uomini di Stato e le
istituzioni sono sacri a prescindere e che il Paese attraversa un qualche tipo di
ripresa.
Per esempio, con la loro vuota retorica, il falso buonismo e nessuna
capacità strategica e d’azione, nella colpevole indifferenza dell’Europa,
accolgono gli immigrati, senza però esplicitare un benché minimo percorso
serio per integrarli. Poveretti loro – gli immigrati – e poveretti noi italiani, i
soloni non hanno la minima idea delle conseguenze economico-sociali
catastrofiche per educazione, sanità e alloggi che la loro scelta porterà al
Paese nei prossimi anni. Il dibattito è aperto anche sulla questione avanzata
dallo stesso presidente dell’Inps Boeri, cioè sugli immigrati regolari che
pagano più contributi di quanti ne ricevano in pensioni, e quindi
contribuiscono alle pensioni degli italiani. Difatti restano un sacco di se su
quanto i raccoglitori di pomodori a 2 euro all’ora in nero siano realmente la
nuova risorsa pensionistica del Belpaese. Perché versino regolarmente li devi
prima integrare gli immigrati, ma tragicamente i soloni non solo non hanno
risposte plausibili da dare sull’argomento ma non si pongono nemmeno le
domande ragionevoli che si pongono, invece, nei Paesi Scandinavi – nella
realtà ben più ospitali di noi che lo siamo soprattutto a chiacchiere in tv –
dove il problema è dibattuto sia per i sacrosanti e inviolabili aspetti etici sia
per quelli socio-economici, ahimè altrettanto necessari, legati al nodo centrale
della questione: come integrare uomini che non sanno nemmeno leggere –
stavolta non dico gli italiani, mi riferisco agli immigrati – con la società
europea 4.0?
Senza ipocrisie, il quadro nella migliore delle ipotesi è quello che mi
racconta Herpes. A Bibbiena, nelle colline toscane, sulle panchine vicino alla
stazione, bivaccano tutto il giorno una mezza dozzina di immigrati, vestiti di
tutto punto dalle locali associazioni solidaristiche, con gli auricolari ad
ascoltare musica, chiacchierare tra loro e telefonare ai propri cari oltreoceano.
È questa la miglior integrazione che riusciamo a concepire attualmente?
Herpes, ragionando da buon padre di famiglia e da eccellente ottimizzatore, si
domanda come avverrà il processo di trasformazione di questi migranti dalla
panchina nel parco a pagatori di contributi con i quali sostenere la sua
vecchiaia secondo quanto afferma il buon Boeri. E propone per loro un
contratto da giornalista con cessione del diritto d’autore a 6 euro lorde al
pezzo – come capita ormai a molti della categoria – ma sospetto che non
sarebbe una soluzione risolutiva, nonostante la fiducia che Herpes nutre in
Boeri.
A parte gli scherzi, anche se non sto scherzando, con la stessa pomposa
retorica i soliti soloni hanno invitato a non disertare il voto per le elezioni
2018, omettendo se votare o no possa realmente servire a qualcosa. Un conto
sono quelli che lo fanno strumentalmente per essere eletti. Però c’è tutta una
schiera di soloni che invece lo fa per puro spirito di appartenenza al
«giullarismo» di Stato. Per poter stare dentro al loro circolo dove bisogna dire
che va tutto bene e dove alla fine di un’analisi bisogna comunque dimostrare
ottimismo. Badate bene, alcuni di loro hanno anche la mia stima personale
perché sono umanamente delle brave persone ma sono soggiogate dal loro
ruolo, dalla compiacenza di occupare ancora per qualche anno quella loro
poltrona così comoda e prestigiosa.
Il loro refrain è identico per la fuga dei cervelli. Tutti a dire di non andare
via. Poi tutti a dire di tornare. Perché dovrebbero darvi retta? È drammatico
dirlo ma i soloni istituzionali non ci dicono la verità. E la verità è che nessuno
di loro fa niente per il bene del Paese, soprattutto per il bene delle giovani
generazioni. È per questo che anche i soloni sono nostri nemici.
Intanto che i giullari della Repubblica pontificano, l’Italia sta andando allo
sbando e la messicanizzazione dilaga. Ogni giorno, da noi, vengono
denunciate 14 rapine a mano armata (e chissà quante sono quelle senza
denuncia). Nel mirino, soprattutto bar e negozi, con il malvivente che viene
arrestato in meno della metà dei casi (il 41%). Le rapine denunciate
annualmente sono 35.068. Di cui 18.466 per strada, 3.064 in casa, 790 in
banca (mentre quelle commesse dai bancari verso i cittadini sono molte di più
ma non sono ancora state censite!), 321 negli uffici postali e 5.337 negli
esercizi commerciali (dati Istat 2015).
Mentre una causa civile in Italia dura in media sette anni e mezzo, un
tempo irreale che vale un arretrato di 2,7 milioni di cause, quasi il doppio
della Francia e più del triplo della Germania. Lo dice il rapporto del 2017
della Cepej, la Commissione europea per l’efficienza della giustizia. E il
tempo necessario per risolvere per via giudiziale una controversia
sull’applicazione di un contratto commerciale è di 1120 giorni, il doppio
della media dei Paesi Ocse (553 giorni). A dirlo, in quest’ultimo caso, è il
«Rapporto Doing Business» della Banca Mondiale, che confronta la
regolamentazione di 190 Paesi e che nel 2017 colloca l’Italia al 108 posto.
Quando non ci rapinano e non ci tutelano, i soldi ce li fottono lo stesso,
nell’ambito peggiore, quello della salute. Il secondo «Rapporto sulla
sostenibilità del servizio sanitario» a cura della Fondazione Gimbe –
aggiornato al 2016 dopo tre anni di studi e presentato in Senato nella
primavera 2017 – rivela una realtà da incazzarsi, e cioè che nella sanità
pubblica ogni 10 euro spesi se ne potrebbero risparmiare 2, per un totale di 22
miliardi e mezzo sprecati su una spesa annua, nel 2016, di 112,5 miliardi. Dal
taglio delle prestazioni inutili alla lotta alle frodi, dall’estensione dei costi
standard negli acquisti a una organizzazione efficiente della prevenzione…
Ci si incazza il doppio perché sono gli stessi problemi e le stesse soluzioni
che ci raccontiamo da trent’anni.
Il dossier, inoltre, sfata un luogo comune. Dice infatti che «a seguito del
costante definanziamento la spesa sanitaria in Italia continua inesorabilmente
a perdere terreno… Guardando alla spesa pubblica pro-capite emerge in tutta
la sua criticità il definanziamento pubblico: siamo sotto la media Ocse (2469
dollari conto 2820) e in Europa 14 Paesi investono più dell’Italia in sanità».
E tutto ciò fa venire i brividi se pensiamo che proprio la sanità è destinata a
esplodere a causa dei vecchi in costante aumento come numero e come
aspettativa di vita, stiamo parlando di milioni di persone che avranno sempre
di più bisogno di cure e assistenza. E si tratta di un problema per certi aspetti
ancora peggiore di quello delle pensioni, perché obbligherà i familiari a
occuparsi dei genitori e dei parenti malati incidendo profondamente sulla
produttività e sulla mobilità del lavoro, oltre che sui bilanci familiari.
Questo è il nostro habitat, c’è poco da fare. E come dicevo all’inizio di
questo capitolo, restando devi essere propositivo e pronto a combattere
strenuamente se vuoi che l’Italia che affonda possa essere rifondata. C’è poco
da dire, bisogna partire dall’impegno degli italiani per rimettere in sesto il
Paese, ognuno con il suo piccolo grande contributo. E non mi riferisco tanto
allo sventare le rapine per strada, ad essere eroi solitari – da un lato aveva
ragione Bertolt Brecht («Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi»),
dall’altro lato non ci si può improvvisare né eroi né tantomeno sceriffi di
quartiere. Però, cazzo, smettiamola con l’indifferenza, non giriamoci
dall’altra parte se assistiamo a una piccola o grande truffa, diamo il nostro
contributo dal buon funzionamento del nostro condominio a salire, nel luogo
di lavoro, negli affari, su su fino all’amministrazione della cosa pubblica, che
poi è quella la vera anima della politica. Perché va anche rimesso in moto un
meccanismo al contrario. Amici italiani che lavorano in ambiti diversi mi
raccontano infatti dello stesso fenomeno. Rispetto a venti o trent’anni fa, nel
mondo del lavoro, tra colleghi, nelle stesse aziende, c’è meno solidarietà. In
sintesi, oggi ognuno pensa solo a se stesso. Ed è un brutto segnale di questi
tempi senza pietà. Testimoniato, per esempio, dall’articolo del «Corriere della
Sera» del 13 giugno 2017, intitolato I giovani non donano più sangue, dove si
legge che «la fascia più rappresentata è tra 45-60 anni mentre sono in
diminuzione i 18-35enni».
Allora smettiamo di girare la testa dall’altra parte. «È difficile fare del bene
senza sporcarsi le mani», ha detto papa Bergoglio. È vero. Ma fare del bene,
sentirsi parte attiva di una comunità, aiutarla, fa bene in primo luogo a noi
stessi.
Provateci, vi darà gusto.
Ma come fare?
Hai deciso con coraggio e tanta incoscienza di accettare l’handicap
dell’habitat ostile italiano, smetti subito di lamentarti e prova a combattere –
perché l’indifferenza hai visto che non funziona? – iniziando dai soloni
istituzionali, giullari della Repubblica, che non dicono mai la verità e si
nascondono dietro la demagogica ipocrisia di difendere istituzioni e regole
bocciate dalla storia e dal buon senso. Soloni che, drammaticamente, ci fanno
rivalutare le «picconate» di Cossiga. Stessa musica per i populisti. Non
combatteteli quando è troppo tardi, ossia non andando a votare o annullando
il voto e compagnia cantante. Fatelo quando siete ancora in tempo. Alle
riunioni associative, dei movimenti, dei partiti, nella quotidianità della vita
sociale, dalle assemblee a scuola alle uscite con i boy scout; cazzo, pensate se
qualcuno avesse raddrizzato Renzi e lo stesso Salvini quando facevano gli
scout, cosa ci avrebbe risparmiato!
Non è filosofia da bar, credetemi, perché se una volta per tutte non
cambiamo gli italiani, saranno i cinesi a farlo per noi, con meno indulgenza e
feroce realismo.
Per essere altrettanto pragmatici, come ho fatto nel capitolo «O scappi»,
ecco dei consigli pratici per restare. Per prima cosa… Imparate l’inglese! No,
direte voi, ancora? Ma è una fissa di Forchielli! Certo che lo è. L’ho già
spiegato. L’inglese apre al mondo, anche restando in Italia. Bologna, da
qualche anno, ha visto aumentare di tanto il flusso turistico internazionale.
Chiaramente non è merito della politica ma dei voli low cost. E il centro
storico è pieno di locali e tavoli all’aperto con un fiorire di taglieri pieni di
mortadella, ciccioli, tigelle e calici di Pignoletto. Se sai l’inglese è più facile
che il tuo locale attragga la clientela internazionale (mentre adesso mi è
venuto in mente il titolo del mio prossimo libro scritto in inglese: Come
tenere sotto controllo il colesterolo dopo un weekend a Bologna,
Baldini+Castoldi prepara l’anticipo, che sono soldi facili!).
A parte gli scherzi e dato per scontato che se non te la cavi con l’inglese sei
un analfabeta, avere esperienza nei lavori manuali tecnici paga sempre, isole
comprese. Rivalutate le scuole professionali e tecniche come le Aldini di
Bologna e il vecchio Alberghetti di Imola. Sono scuole che formano figure
che le nostre piccole aziende cercano, perché non essendo a livello
tecnologico di Google o Microsoft non sanno cosa farsene dei fisici nucleari.
Il «coding» (la programmazione) ha mercato, per non parlare di Stem, che
funziona anche da noi; addirittura capita spesso di leggere sui giornali che le
aziende si lamentano di non trovare ingegneri e faticano forse ancora di più a
trovare lavoratori specializzati, perciò va bene anche un mini-Stem fatto in un
istituto tecnico.
In Italia persiste la mania del liceo, soprattutto quello classico. Dai, è una
roba romantica ma patetica. Il nostro attaccamento ai classici, al greco e al
latino, può anche essere apprezzabile, ma ci rende ridicoli all’estero.
All’antitesi, non snobbate l’agricoltura. Tra i lavoratori agricoli non
specializzati non si trova più un italiano neanche giocasse nella squadra
dell’Inter. Spiegarne il motivo è fin troppo semplice. I ragazzi italiani non
vogliono più fare fatica ed è più comodo giocare con i giochini elettronici e
andare al mare con la paghetta del nonno piuttosto che raccogliere le nettarine
in Romagna o l’asparago ad Altedo. Si pensa che darsi all’agricoltura voglia
dire andare a farsi sfruttare sui campi come gli immigrati, ma non è così,
drizzate le antenne, le attuali macchine agricole sono costose e complicate e
sempre più computerizzate, per utilizzarle serve personale di prim’ordine.
State attenti alle belle storie che ogni tanto si sentono di giovani che tornano
alla terra, giovani anche laureati, che sanno fare impresa bio-sostenibile e 2.0
e non disperdono i valori e le tradizioni dei nostri padri. Ci sono, anche in
terre di mafia! Quelli sì che sono esempi da prendere a modello! Come la
grande cucina, unico settore che da noi cresce qualitativamente. Abbiamo i
cuochi migliori al mondo perché basta talento e genialità e non serve fare
sistema (e quando siamo «eroi per caso» vinciamo).
Quanto agli italiani che snobbano la ristorazione – e mestieri simili –
perché non vogliono lavorare il sabato e la domenica sono già estinti come i
dinosauri del giurassico perché cinesi e pakistani – contenti come pochi
perché un lavoro ce l’hanno – guadagnano quello che non volete guadagnare
voi e tra un decennio vivranno nelle case che voi non vi potrete più
permettere e gli farete da badanti. Quindi, viva gli immigrati, per Dio, se
nella competizione, costringeranno gli italiani a evolversi come spirito di
sacrificio e idee chiare!
Da un lato muovere il culo vuole dire avere l’intelligenza e la forza di
andare a prendersi i lavori più appetibili all’estero, dall’altro lato vuole anche
dire avere l’umiltà di restare qui e accettare lavori più o meno nobili ma meno
retribuiti e lavori di «merda» – non vergogniamoci a dirlo – guadagnando
benino, consentendoci di fare esperienza e magari con l’idea di mettersi in
proprio appena possibile.
C’è poi un’ulteriore soluzione, ad averne l’attitudine, non sopportando il
nostro sistema Paese. Fare la rivoluzione. Ne parlerò in modo più
approfondito nell’ultimo capitolo ma il principio è chiaro: il processo di
messicanizzazione – e relativa deregolamentazione – dell’Italia è inevitabile e
irreversibile. Se la rivoluzione non la fanno gli italiani, la faranno – la stanno
già facendo – gli immigrati. Perché allora dobbiamo lasciarla fare a loro?
Facciamola noi! Certo, non sto raccomandando di prendere le armi, che tanto
non serve a niente. Ma c’è una forma intelligente di fare la rivoluzione,
scrollandosi di dosso i vecchi paradigmi, l’apatia nostrana tipica, usando le
nuove tecnologie per innovare vecchi mestieri della migliore tradizione
artigiana italiana. Lo so che non è facile, perché le regole del gioco, il clima
che rema contro, il fatto che non ci siano molte teste rivoluzionarie, non è
cosa da poco. Ma è un’opzione che la mia onestà intellettuale mi costringe a
prendere in esame, condividendola con voi!
Conclusioni

Da domani
9. Manifesto (per il vostro bene)
Decalogo sulle cose da fare per i giovani italiani

L’amico e grande economista Michele Boldrin, il 10 febbraio 2018, su


«Noise from Amerika», commentando le imminenti elezioni, ha scritto un
testo illuminante, intitolato Perché credo che votare il meno peggio
favorisca, nel 2018, il declino, che già dal titolo condivido pienamente. E del
suo lucido approfondimento vale almeno la pena di soffermarsi su alcune
considerazioni, anche e soprattutto dopo il risultato elettorale:
«Data l’inevitabilità del declino credo sia meglio accettarlo, interrogarsi
sulle sue ragioni e provare a vedere quale, fra gli scenari possibili, possa
offrire una maggiore probabilità (in un futuro non prossimo) d’inversione di
rotta. Predicar oggi, come abbiamo fatto per anni, di politiche alternative da
adottare è un’inutile perdita di tempo. […] L’Italia rimane (per ora) legata
alle aree dinamiche del mondo grazie a vincoli politico-commerciali (UE,
WTO, BCE) e alla presenza di alcune zone ancora avanzate e dinamiche –
praticamente tutte in un raggio di 100 km dal fiume Po. […] L’Italia perde il
suo capitale umano di maggior talento e attrae lavoratori con basse
qualificazioni, mentre esporta merci/servizi a basso contenuto di capitale
umano importando quelle/i ad alto contenuto tecnologico. Poiché questi sono
processi di lungo periodo che vengono da lontano e sono governati da fattori
strutturali profondi diventa difficile immaginare che si interrompano nei
prossimi anni senza una svolta radicale, davvero radicale. […] È nella cultura
condivisa che son piantate le radici del declino. Da questo punto di vista non
c’è alcuna differenza fra Grasso, Renzi, BERLUSCONI, Salvini e Casaleggio
Associati. Chiedono tutti la stessa luna nel pozzo seppur con tonalità distinte:
nessuna riforma delle regole di funzionamento dell’apparato statale, aumento
della spesa pubblica, aumento del controllo amministrativo e burocratico su
economia e società, riduzioni fiscali ai gruppi sociali di riferimento finanziate
da ulteriore debito, minor compliance con le regole comunitarie, riduzione
dell’apertura commerciale con l’estero, barriere all’immigrazione, maggiori
pensioni… il tutto condito da musichette patriottiche sull’eccezionalità
nazionale. Tutto questo non succede per caso: succede perché la stragrande
maggioranza degli italiani è convinta che queste, non altre, siano le politiche
giuste. […] Quindi, se le cose vanno male, è colpa degli “altri” che dobbiamo
fermare […]. Un pensiero che sembra sfuggire ai più (specialmente a quelli
che han paura del negro-arabo-islamico) è che in alternativa a globalizzarsi
gestendo in modo proattivo immigrazione e cambio tecnologico non c’è il
piccolo mondo antico. In alternativa alla scelta dinamica c’è solo quella di
diventare area periferica e in decadenza nello scenario mondiale con, di
conseguenza, una mutazione antropologica molto peggiore di quella in corso.
Questo è un altro concetto che molti non comprendono: se non inverti il
declino, se non ti apri, se non ti globalizzi… i migliori (italiani) scappano
sempre di più e rimangono solo i mediocri.»
Contro questo declino, anch’io nel mio piccolo con questo libretto ho
cercato di spingere i giovani a guardare avanti, dando spunti concreti e
invogliando i ragazzi a diventare uomini migliori della generazione che li ha
preceduti.
Non smetto di dirlo. Io mi vergogno e chiedo scusa perché è stata la mia
generazione a rubare al povero Michele – e alla sua generazione – la felicità.
Però, per carattere, non sono abituato a piangermi addosso. E non dovete
farlo nemmeno voi, che comunque avete le vostre colpe. Quindi, ragazzi, è
ora di alzare la testa. Saltate la mia generazione parassita e prendete spunto
dagli eroi della Great Generation che con le pezze al culo e le suole di cartone
sono sopravvissuti all’Armata Rossa e all’inverno russo, hanno attraversato
l’Europa a piedi e poi hanno fatto dell’Italia un grande Paese.
Dai, per Dio, i loro nemici erano più forti dei vostri, meno subdoli ma più
forti. E far saltare il banco di questa classe dirigente – politica, economica e
sociale che sia – non è impossibile. Giovani e meno giovani, adesso tocca alla
vostra generazione passare da Standby a Great.
Perché? Ci sono dieci buone ragioni, almeno, per darsi da fare. Perché:
1. La vita è semplice, fatti un gran culo ma fai anche ciò che ami e fallo più
spesso che puoi;
2. Finiscila di lamentarti, se non ti piace qualcosa, cambialo, di te stesso e
di ciò che hai intorno (ma non smettere di farti il culo);
3. La vita è breve, la vita sono le persone che incontri, ciò che crei con
loro, alcune opportunità si presentano una volta, prendile al volo;
4. Oggi la tecnologia è dalla tua parte, sfruttala;
5. Non guardare la tv ma informati e partecipa;
6. Non essere schizzinoso, mettiti in gioco, lavora di più, con più
attenzione e ricorda che usare le mani è nobile;
7. Se non ti piace il tuo lavoro, lascialo e rimettiti in gioco (ma se non
riesci a lasciarlo, smetti di lamentarti e resta sul pezzo);
8. Viaggia (se non hai soldi rubali vendendo le dentiere dei nonni), perditi e
ritrovati, apri la mente, confrontati e condividi, ama e fatti amare;
9. Pensa al futuro, pensa a te stesso migliore di come sei oggi; e migliorati,
giorno dopo giorno;
10. Questa è la tua vita, sei tu stesso che devi renderla straordinaria, nessun
altro lo farà per te;
10bis. Io me la sono goduta e non farei cambio con nessun altro al mondo,
che ne so, nemmeno con un grande industriale. Anzi, mi vengono i brividi
pensando ai grandi imprenditori che tutti i giorni devono andare in ufficio.
Altro che respiro asfittico, preferirei vivere alla Caienna, fissando dalla
mattina alla sera un cocco bello che cresce libero. D’altronde gran parte
dell’imprenditoria è questa: buona borghesia che fa la corsa per essere
invitata dal prefetto alla Festa della Repubblica Italiana. È la fiera regionale
della vanità, la qualificazione a Miss Italia Over 60. Quindi, lo ripeto. Questa
è la tua vita, sei tu stesso che devi renderla straordinaria, nessun altro lo farà
per te.
Il finale dopo il finale

Aspetta editore, non ho mica finito! È come nei film della Marvel. Sui titoli
di coda, arriva l’ultimissima scena. Aspetta che devo aggiungere un paio di
cosette.
Come ho detto nell’intervista all’Ansa del 20 febbraio 2018 sul tema della
reindustrializzazione e sul caso specifico della Embraco, la controllata del
gruppo Whirlpool che nello stabilimento di Riva di Chieri vuole licenziare
500 dipendenti, anche se il governo italiano ha puntato i piedi ed è riuscito a
rinviare i licenziamenti. «È una storia triste ma se in Italia hai alti costi, alte
tasse, devi essere tu a migliorarti anziché pensare di forzare un cambiamento
negli altri Paesi chiedendogli di diventare meno competitivi» perché: «le fonti
di svantaggio competitivo in Italia sono enormi, costo del lavoro, tasse sul
lavoro, Irpeg e indirettamente Irpef elevate». Per non parlare dell’idea di
reindustrializzare l’Italia, obiettivo populista e demagogico della politica
nostrana. Difatti: «Non esiste nessun indicatore positivo in tal senso. Nei fatti
non c’è alcun dato che stia a indicare una ripresa dell’industria nei Paesi
avanzati. E non è vero che l’industria stia tornando indietro: si sta spostando
geograficamente all’interno dell’Asia, verso Vietnam, Cambogia,
Bangladesh, Myanmar».
E a questo punto vale la pena di fare un’analisi su presente e futuro in Italia
e nel mondo, tornando poi a noi. Tutti i macro-indicatori ci dicono che il
trend per l’Italia del prossimo futuro non cambia… Molte imprese non
saranno in grado di pagare le tasse, i contributi e i costi del lavoro, e
scivoleranno nel nero con imprenditori e lavoratori stranieri. La criminalità
organizzata si allargherà. Le imprese moderne esportatrici si asserraglieranno
in distretti, dove saranno circondate da sofisticati sistemi di sicurezza. La
sfida non sarà una crescita del Pil misurato con parametri canonici (che non
funzionano), ma la ricerca di un equilibrio tra queste tre forze per evitare che
l’illegalità si mangi tutto e ci riduca in una terra di nessuno. In Messico
questa sfida è all’ordine del giorno come lo è in Italia, ma noi non vogliamo
rendercene conto perché vorrebbe dire una cosa sola: ammettere che la colpa
è di tutti noi italiani – messicanizzati – che abbiamo un basso tasso di civiltà
sociale e di educazione.
Come siamo arrivati a ciò? L’ho spiegato: non abbiamo investito in
educazione, abbiamo sprecato risorse pubbliche e abbiamo caricato gli
sprechi sulla classe produttiva che si restringe. Inoltre la burocrazia non
lavora e non funziona, non abbiamo formulato leggi adeguate per combattere
la criminalità, anche quella spicciola, non abbiamo investito in carceri e
nemmeno per tenere le strade pulite, senza pensare alle voragini e ai ponti che
crollano ovunque.
In tutto questo, il ruolo – negativo – della politica è stato ed è enorme. E
oggi, la politica, una volta per tutte, invece di continuare a comprare
consenso con fondi pubblici, dovrebbe avere il coraggio di dire la verità.
Dovrebbe far capire agli italiani che se si rimboccano le maniche adesso, i
benefici li vedranno le generazioni future. Dovrebbe educare e dare il buon
esempio (su, non ridete) e farla – la politica – dovrebbe essere un sacrificio,
non un mestiere (dai, smettete di ridere, parlo sul serio). Al contrario, il
livello dei politici nostrani è bassissimo.
Salvo tragici colpi di scena, ovvero il default, per i prossimi cinque anni
possiamo immaginarci questo, ma non piangiamoci addosso e pensiamo al
futuro.
L’immediato futuro, a livello mondiale, sarà, nella migliore delle ipotesi,
come il 2017 ma, più probabilmente, potrà solo peggiorare perché
difficilmente le economie di USA, Cina ed Europa replicheranno i risultati del
2017 (ovviamente lo speriamo), con il trend sostanziale che vedrà la stretta
monetaria e l’innalzamento dei tassi. E, inevitabilmente, impatteranno sugli
investimenti complessivi. Con dinamiche identiche in ambito geo-politico. Se
il 2017 ha visto la sostanziale fine dell’ISIS come «Stato», nell’immediato
futuro si dovranno contrastare i suoi terroristi esuli in Occidente, mentre la
Korea di Bimbominchia Kim resta una variabile impazzita, l’Iran un
problema come la questione tra Sciiti e Sunniti. Tutto ciò, ovviamente, se lo
scenario resta su binari consueti, quindi al di fuori di eventi imprevedibili,
anche considerando aspetti atmosferici, geologici, cavallette, eccetera.
Insomma, nel complesso, a livello globale, ci attende un immediato futuro
difficilmente migliore ma probabilmente uguale se non peggiore al 2017.
Immaginando una finestra ben più ampia, magari intorno ai cinque anni,
come le missioni di Star Trek, il più grande problema da fronteggiare, in
Occidente e non solo, è quello dei vecchiacci – me compreso – che non
vogliono più morire! Come ho scritto, i servizi sanitari nazionali hanno
sempre meno soldi e le spese aumentano sempre di più, senza pensare alla
voce pensioni, che in Italia riguarda ormai la maggioranza della popolazione
o quasi. Con un trend più o meno nuovo che è quello della «fine dell’eredità»
della classe media, che non lascia più proprietà e beni ai figli perché se li
mangia in cure e medicine – e i più dinamici in turismo sessuale.
Oltre a questo, il resto è noto. Ritorno al protezionismo, con conseguenze
che si registreranno solo tra qualche anno. L’alto debito mondiale da una
parte e la bassa redditività dall’altro ci accompagneranno con costanza. E non
riesco a immaginare particolari cambiamenti strutturali se non arriveranno
clamorose sorprese dallo sviluppo tecnologico, intelligenza artificiale in
primis. Mentre la manovra fiscale di Trump, suo primo vero successo, è stata
il trionfo della plutocrazia mondiale, che fa credere ai poveri di stare meglio
ma in realtà fa soltanto il bene degli abbienti – con incentivi per le imprese
(la «corporate tax» crolla dal 35 al 21%), prelievo fiscale per i più ricchi che
scende dal 39,6% al 37%, aliquote per i singoli che in generale favoriscono
chi ha di più e grandi vantaggi per le multinazionali dell’hi-tech, con aliquote
di favore per il rientro dei profitti generati e depositati all’estero. Ma
d’altronde sono un vecchio arnese e in quanto tale non ho mai visto che la
ricchezza dall’alto scenda verso il basso naturalmente. Servono le martellate
di quelli che stanno sotto perché ciò accada. Non lo dico io, lo insegna la
storia. Perciò se volete cambiare, vi toccherà iniziare a martellare!
I Bitcoin e tutta quella «cripto-fuffa» sono il gioco delle tre carte dei
napoletani sul lungomare di Rimini. Mentre nulla di nuovo nemmeno dalla
Cina, che spinge tanto sulla tecnologia ma si indebita sempre di più. Nel
prossimo quinquennio continuerà il suo trend di crescita tentacolare
nonostante l’ostacolo dei suoi nemici storici – India e Giappone su tutti – e il
disinnamoramento dei Paesi che per primi hanno fatto tanto business con lei,
penso soprattutto a Germania, Australia e USA. Questo perché la Cina è come
la varicella, una volta che la prendi poi non la prendi più e nel caso del
business cerchi di allontanartene appena puoi. Dico così perché è almeno
dalla sua entrata nel WTO (World Trade Organization, l’Organizzazione
Mondiale del Commercio), nel 2001, che «incula» tutti, disattendendo
sistematicamente gli accordi commerciali che firma, e perché i cinesi hanno
un grande senso del potere, ma non sono capaci di farsi amare, soprattutto
dall’Occidente.
Per quanto riguarda l’immediato futuro italiano non vedo sostanziali
novità. E questo è un fatto positivo. Perché per l’Italia le novità possono
significare solo il botto che porta al default. Negli ultimi anni non siamo
riusciti a far scendere il debito nonostante i tassi ai minimi storici, adesso che
un po’ cresceranno il quadro si farà più incerto.
Le elezioni hanno prodotto la solita situazione tra il debole e l’inutile. Per
la nostra ennesima governance che non farà un cazzo di quello che serve e
l’Europa continuerà a guardarci come la grande incognita continentale ben
più della Brexit. E in ogni caso qualsiasi governo italiano futuro sarà
obbligato a seguire la dura medicina di austerità che ci impone l’Unione
Europea per evitare conseguenze catastrofiche. Ma nessuna lacrima e niente
panico perché è solo attraverso le entità sovranazionali di UE, BCE e FMI che si
può costringere l’Italia a fare ciò che gli italiani non vogliono fare. Come con
Tsipras, esempio illuminante di come gira il mondo oggi: partito da
«rivoluzionario» è stato poi totalmente ridimensionato dalla Troika europea.
D’altro canto è improbabile che cadiamo in uno scenario come quello greco:
siamo troppo grandi per fallire e lasciare l’euro è tecnicamente ed
economicamente impossibile. Con alcune variabili più o meno complicate:
l’effetto della Brexit è ancora da risolvere e il budget della UE è da rivedere a
causa dei 12 miliardi di euro all’anno di contributi inglesi in meno; la coperta
corta delle risorse comunitarie ha spostato i fondi verso l’immigrazione a
danno dei Paesi Visograd (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria)
che vivranno la questione come una punizione per non aver accettato i
migranti e tensioni relative a crescere. E poi c’è l’incognita delle cinque più
importanti cariche europee (soprattutto le presidenze della Commissione
europea e della BCE) che decadono nei primi sei mesi del 2019, un’incredibile
coincidenza mai successa prima, che comporterà pressioni populiste non
indifferenti a livello delle singole nazioni comunitarie, per un potenziale
casino totale.
Ma non preoccupatevi. Trovate Renzi e la Boschi troppo indaffarati nei
loro interessi, Salvini uno squalo e il Movimento 5 Stelle inadeguato alla
guida del Paese? Fa niente. I partiti, per come funziona l’Italia, non possono
fare niente per migliorarla. Servono enormi sacrifici e nessuno vuole farli. La
somma di tutto ciò è che i furbi se ne vanno e i meno furbi, con eroismo
invidiabile, restano ma poco potranno fare contro un Paese vecchio e
soprattutto fancazzista, con la politica che crea frotte di clientes come nel
caso della Regione Sicilia con la sua pletora di dipendenti e migliaia di
Forestali, o con Roma ricoperta dall’immondizia.
Nell’orizzonte dei cinque anni il quadro è lo stesso. Tiriamo a campare,
con sempre più buche nelle strade, le medicine da portarsi da casa in ospedale
e la crescita dei disservizi in genere.
Le alternative sono due. La prima è quella che vuole attuare Mengoli, il
mio amato «Herpes», che tutti i giorni mi telefona per fare la rivoluzione,
culturale e non solo.
Come? Be’, potremmo ribellarci contro la nostra «dittatura dei partiti» una
volta per tutte e assaltare la Regione Sicilia, Roma – e più o meno tutto quello
che riguarda le istituzioni, quelle sportive comprese (che nel totale
immobilismo-affaristico-cialtronesco hanno distrutto anche l’eccellenza
naturale del movimento calcistico azzurro). Oppure, se non volete fare la
rivoluzione, godetevi gli ultimi sprazzi di sole, ma non quello estivo. D’estate
l’Italia diventa un Paese africano. Con 40 gradi e senza le infrastrutture
necessarie. Però, per come siamo messi adesso, da maggio a settembre
nessuno fa più un cazzo e lavorare soltanto sei-sette mesi all’anno non
funziona nemmeno per i geni al MIT di Boston o della Silicon Valley,
figurarsi con un dipendente della pubblica amministrazione italiana che non
sa nemmeno accendere il computer in ufficio e frustrato va a timbrare il
cartellino in mutande (e se continua con una simile produttività non mancherà
molto che a qualcuno venga l’idea di microchipparlo sotto la pelle come i
cani).
A proposito di Silicon Valley, per quanto mi riguarda, «domani» farò
avanti e indietro tra Palo Alto, in California, per stare addosso alla tecnologia,
e Vietnam, Birmania e Cambogia, che hanno economie dirompenti. E
nell’orizzonte dei cinque anni, se il buon Dio me li concederà, questo sarà
ugualmente il mio trend: tecnologia e Paesi che corrono. Che poi è il disegno
del Mandarin, il mio fondo d’investimento. Faccio parte del gruppo d’assalto.
Mi paracadutano dove succederanno le cose come fossi un marine il giorno
prima del D-Day.
E al Mandarin pensiamo anche all’Italia. Il polo ceramico che stiamo
costruendo qui da noi, partendo dall’Emilia e che già oggi vende il 90%
all’estero, se tutto procede senza sorprese, entro un paio d’anni si quoterà in
Borsa.
Ah, voglio fare un’esortazione ai giovani: voglia di studiare, voglia di
lavorare (anche usando le mani, anche sporcandole) e poche pugnette in testa
vi porteranno lontano, nonostante i populisti-fancazzisti che avrete sempre
intorno alle balle. E, soprattutto, per tutti, smettete di lagnarvi e guardate al
futuro, che sarà migliore anche grazie al vostro contributo. Perciò viva
l’Italia. Fate i precari qui da noi attivandovi contro ogni forma di stortura,
promuovendo una rivoluzione civile che parte in primis dal comportamento
di ognuno di noi. Emigrate con idee chiare e forza di volontà estrema. Oppure
fate con lungimiranza i trafficanti di talenti. In ogni caso fate e smettete di
lagnarvi.
Va anche detto che c’è un «se». Anzi, è tutto lì, in quel «se». Se l’Italia
fosse un Paese serio i cittadini dovrebbero avere il dovere di comportarsi
bene, pagando le tasse, pensando al proprio bene famigliare ma anche a
quello della collettività, uniti verso il bene di tutti, come ho scritto finora.
Se.
Ma non è così. Perché bisogna avere il coraggio di dire che l’Italia è sotto
la dittatura dei partiti. Per un colpo di Stato perpetrato, a nostro danno, da
poveretti senza nessun ideale politico e/o rivoluzionario, che se Che Guevara
o Borghese potevano essere criticati, questi nostri «rappresentanti», per
intenderci, sono degli scappati di casa. Una dittatura morbida, quindi, che
serve solo per garantirsi un lauto stipendio pagato dai cittadini sempre più
indifferenti e depressi, mantenuti dalle pensioni dei nonni.
È vero, di brave persone che fanno politica l’Italia è piena. Ma è altrettanto
vero che la somma della politica in Italia ha generato la dittatura del
parlamento, che ha annientato la società civile e quella economica. Ed è così
dal post boom economico, dai voti clientelari della Democrazia Cristiana ai
traffici odierni di piccolo cabotaggio, che servono soltanto per farli
sopravvivere, visto che non saprebbero fare un cazzo nella vita vera, da Renzi
a Salvini, da Di Maio al restante arco costituzionale, che legifera per i propri
interessi che non collimano mai con quelli dell’Italia.
Ecco che allora i cittadini devono tornare a fare i partigiani contro le folli
regole istituzionali. Con una regola semplice. In sostanza bisogna prendere il
presidente Mattarella come stella polare e fare sempre il contrario di quello
che dice.
In questo senso l’evasione fiscale potrebbe anche diventare un dovere
morale per smettere di mantenere quelli che infilano la Boschi in un seggio
sicuro per rimetterla in parlamento nonostante tutto. Allora facciamo un
catasto abusivo in Bitcoin per smettere di pagare lo stipendio alla Boldrini &
Co. Facciamo tutti finta di fare i coltivatori diretti per poter spendere meno
utilizzando il carburante agricolo. Mandate vostro figlio in Estonia e intestate
tutto a lui per pagare le tasse là e non qua. Stracciate il contratto con la Tim e
con l’Enel. C’è la lobby dei tassisti e quella di Uber, be’, mettiamoci tutti a
fare i tassisti abusivi nel tempo libero: pochi, maledetti e subito. È la nostra
nuova regola con i soldi. Prendiamo la cittadinanza a Tonga o a Palau. Si può
fare anche online, se avete la connessione a Internet. Con l’Italia a perenne
rischio default serve sempre un «piano B».
Lo capite, vero? Si stanno mangiando tutto senza combinare un cazzo!
Altrimenti non ci sarebbe stata la corsa per l’ultimo seggio disponibile in
parlamento, tra vip o presunti tali e cialtroni di ultima categoria, tutti in fila
nelle segreterie di partito per il loro seggio sicuro in parlamento, per
diventare il prossimo «Turista per sempre», come li chiama Mengoli.
Quindi, forza, non perdete tempo, buttate su un capannone abusivo e votate
per chi ve lo condonerà. La scaltrezza è l’unica arma per sopravvivere ai
dittatori parlamentari. Andate negli ospedali e scoprite i traffici loschi che
fanno alle spalle dei malati ma non denunciate i corrotti, che tanto
patteggeranno, ma ricattateli e lasciate a loro le briciole e diventate
schifosamente ricchi e poi fate del bene senza dirlo a nessuno, soltanto per
essere in pace con voi stessi. Allestite una stanza abusiva e affittatela a prezzi
convenienti. È così che si rilancia il turismo in Italia, quando la politica, non
facendo un cazzo, ci ha fatto sorpassare dalla Spagna e Roma non è neppure
nelle dieci città più visitate del mondo. Occupiamo i parchi e facciamoci
degli orti per coltivare il mango. Fatevi pagare in nero, sempre e comunque.
Se non siete evasori totali non valete un cazzo. Quando comprate qualcosa,
esigete di non pagare quella cazzo di Iva!!! Altrimenti che si fottano. Intestate
tutto ai prestanome e comportatevi da banditi, l’avrete sempre vinta, anche
perché se vi portano in tribunale pagherete tutto e pagherete caro – see,
magari! – ma tra vent’anni, quando farete i bisnonni a Tonga e Palau.
Vestitevi da vigili urbani e andate in giro a incassare le multe. Ah, mollate
Sky e abbonatevi a Netflix, che non c’entra un cazzo con il resto ma Sky è
bollita e Netflix è il futuro. Dovete pensare così, solo al futuro. Come
pensano i cinesi, che sono già i padroni del mondo ma hanno ancora fame
mentre noi siamo sazi da decenni. E perciò siamo fottuti.
Datevi alla «Tecnofinanza» che certo non vi fotterà quanto vi ha fottuto il
sistema bancario italiano. Miniamo il sistema dall’interno per un nuovo D-
Day che arriverà quando l’astensionismo supererà il 50%. Diffondiamo il
virus della febbre gialla nei condizionatori di Palazzo Madama. Infiltriamoci
nei partiti e blocchiamoli. Diventate quelli che materialmente dovranno
scrivere le liste dei prossimi candidati nei seggi sicuri e al posto loro mettete
il vostro nome. Vi odieranno e vi dovrete sedere nel Gruppo Misto ma nei
prossimi cinque anni incasserete il vostro milione di euro e arrivederci e
grazie, avrete comunque contribuito a lasciare a casa almeno uno degli
impresentabili.
Naturalmente stavo scherzando! Forse qualcuno ha preso questo elenco
seriamente (bravo!), oppure ci avete riso su, forse lo avete preso come
incitamento alla rivoluzione o drammatica ironia, però il concetto che dovete
fare vostro è questo: ci stanno soffocando. L’unica soluzione possibile è
l’auto deregolamentazione. Deregolamentiamoci da soli o saremo fottuti per
sempre.
La lotta è adesso: noi contro di loro. Non molliamo. Alziamo la testa.
Sporchiamoci le mani. Con intelligenza. Senza paura. Senza padroni. Per noi
stessi. Per chi amiamo. Per la comunità. Senza girare la testa dall’altra parte.
Ridendo in faccia al politico di turno che ci racconta le solite balle.
Smettiamo di prenderli sul serio. Parliamo inglese. Seguiamo quello che
accade nel mondo. Mastichiamo Stem. Puliamo i giardini. Montiamo gli
infissi. Facciamo le pizze. Sempre con il massimo dell’impegno. Con umiltà
e poche pugnette. Insomma, muoviamo il culo! È questa la nuova Resistenza.
Davvero e per sempre viva l’Italia.
Ringraziamenti

Ai miei figli, Paolo ed Elena. A mia moglie Luciana. A mio nonno materno
Giacomo Dal Monte Casoni, a mio padre Paolo e a tutti i grandi italiani del
passato che continuano a esserci d’esempio. Ai pochi italiani contemporanei
onesti e volenterosi. A Michele Mengoli per le impagabili indicazioni sulla
stesura di questo libro. E a Jacopo Viganò per la preziosa assistenza verso la
pubblicazione. Infine un abbraccio a tutti voi, lettori e seguaci. Muoviamo il
culo… e per l’inizio della lotta armata riceverete presto nuovi comunicati! ;-)
Indice

Prima parte
1. È tutta colpa nostra
2. Un Paese per vecchi
3. Danno e beffa
Seconda parte
4. Paradiso e inferno
5. Popoli contro
6. Poeti, santi e navigatori. Ancora?
Terza parte
7. O scappi
8. O resti e combatti
Conclusioni
9. Manifesto (per il vostro bene)
Il finale dopo il finale
Ringraziamenti

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