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Origini della musica, primo capitolo dell’ Allorto
Non si sa quali siano le origini della musica, varie teorie al riguardo.
Si incomincia a ri flettere sulle origini della musica intorno al secondo ‘800, in concomitanza con la
filoso fia del Positivismo (si riteneva che la scienza potesse risolvere tutti i problemi umani e dare
una risposta a tutti gli interrogativi sulla’ umanità, compresi i fenomeni artistici).
I primi che si occupano di storia sono dei filoso fi, non dei musicisti, spesso della corrente
Evoluzionista (Spenser, Darwin), hanno inquadrato anche le origini della musica.
Cosa vuol dire musica? alcuni citano solo le melodie, parlano di successione di intervalli (versione
un po’ riduttiva), come Platone ad esempio
Altri autori si interessano della musica primitiva, suoni che si potevano riprodurre durante le attività
delle comunità tribali, anche quella è considerata musica, con caratteristici intervalli ritmici
Carl Stumpf: consapevolezza che tale intervallo musicale sia trasponibile su diverse altezze.
Il concetto di cosa sia la musica diventa sempre più complesso, bisogna de finirlo prima delle origini
della stessa
Si parla di teorie Monogenetiche (una stessa origine della musica per tutti i popoli, qualunque sia la
sua origine); tali teorie saranno abbandonate, perché lo steso pensiero scienti fico ne avverte l’
insuf ficienza. Diventa veramente una fantasia pensare di trovare le origini della musica.
Si passa a un approccio concreto: cerco tracce della musica, andando più indietro possibile.
Nasce così l’ etnomusicologia, studio dei reperti musicali di vari popoli antichi o popoli che vivono
come antichi; si confrontano i documenti di tutti questi popoli (non è affatto detto che si andata allo
stesso modo in tutti i popoli), si raccolgono strumenti, reperti, iconogra fia musicale e così via
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padre Sachs Hornboster Sneijder
Sachs divide gli strumenti in 4 classi, classi ficandoli in base a cosa vibra e cosa produce il suono,
non in base a come viene prodotto il suono:
-Idiofoni: i più antichi tutto il corpo dello strumento vibra, tra questi abbiamo anche il corpo umano
(battiti delle mani, piedi per terra), si iniziano a usare strumenti rumoristici derivati dalla vita
quotidiana (Litofoni: strumenti in pietra).
-Membranofoni: vibra una pelle di animali su una cassa di risonanza che vibrano grazie ad un
colpo ; sono tamburi, percossi o sfregati
-Aerofoni: il materiale che vibra è l’aria (es: il bastone sibilante); nascono poi degli pseudo-flauti
antichi, dapprima ossa di animali scavate, cui erano praticati dei fori, poi aerofoni in legno o argilla
e aerofoni a più canne ( flauto di pan)
-Cordofoni: vibra una corda tesa tra 2 punti fissi. Il più antico è l’ arco terrestre (corda tesa su una
buca), poi man mano il salterio, l’ arpa, la cetra, strumenti a corda pizzicata o percossa o stro finata
Possiamo aggiungere una quinta classe:
-Elettrofoni: suono generato per mezzo di una circuitazione elettrica in un dispositivo, aggiunti
dopo.
La polifonia ha origini molto antiche: si parlava di eterofonia (una linea era af fiancata da un’ altra)
Nella storia vi sono tante fonti ICONOGRAFICHE di musica, ossia tratte dall'arte figurativa, solo
più avanti nella storia vi saranno fonti LETTERARIE, che parlano della musica; le ultime fonti per-
venuteci sono quelle di musica scritta.
Vi sono forti legami nella storia tra musica e NATURA, o RELIGIONE, o MAGIA...
Questi strumenti ci sono pervenuti (alcuni), altri arrivano dalla iconogra fia, da cui traiamo immagini
di questi strumenti e cerchiamo di capire che tipi di suoni potessero eseguire.
La tradizione era orale e non sono giunte forme di scrittura musicale così antiche, però abbiamo
testimonianze dalla letteratura (scritti di poeti, filoso fi,etc)
Stretto rapporto tra la musica e la mitologia-> entra in gioco l’ elemento musicale
Nella mitologia indiana si collega la musica con la cosmogonia (l’ universo avrebbe avuto origine
da un suono primordiale)
Si parla anche di musica come dono degli dei, musica legata con la religione.
“La Musica e La Magia” Jules Combarieu : scritti letterari di popoli antichi in cui si vede che si
parli di musica ancora prima della creazione delle religioni. tanto che la forma tripartita sarebbe
derivata dalle antiche formule magiche, ripetute tre volte.
Le due divinità musicali greche sono Apollo (dio del sole, simbolo della musica serena, armoniosa,
equilibrata “principio apollineo”) e Dioniso (dio del vino, gli era sacro l’ aulos , flauto , simbolo
della musica sfrenata, passionale , “principio dionisiaco”)
Figura di Orfeo, poeta e cantore, col suo canto poteva ammansire le belve, che sposa Euridice,etc
-Egitto: musica legata molto all’ iconogra fia, musica collegata alla religione, praticata inizialmente
solo da sacerdoti (uomini), poi anche dalle donne(di famiglia sacerdotale).Utilizzo di scale
pentafoniche e poi eptafoniche. Tra gli strumenti più utilizzati abbiamo molti aerofoni(trombe,
flauti), cordofoni (arpa e cetra) e strumenti rumoristi (sistri e crotali) e un primo esempio di organo:
l’hydraulos (organo idraulico),vibra l’aria, ma l’ acqua tiene l’ aria in vibrazione col principio dei
vasi comunicanti.
Sviluppano inoltre un metodo di notazione musicale che fa uso delle pose della mano
(chironomia), sarà usata dai cristiani nel Medioevo e sarà ripresa da metodo come il Kodaly e il
Goitre
-Mesopotamia: strumenti utilizzati af fini agli egizi e strumenti di uso militare (stimolo ai soldati).
-Ebrei: forte rapporto tra musica e religione -> abbiamo la Bibbia, come documento letterario.
Tutte le preghiere erano accompagnate dalla musica e cantate, dialogo con dio tramite la musica.
Nel Vecchio Testamento vi sono molti riferimenti alla musica, la quale esprimeva il legame del po-
polo con Dio, speci ficando anche che cosa si voleva esprimere; si citano anche alcuni strumenti di
accompagnamento al canto utilizzati, quali chitarre, flauti, corni (anche se diversi da quelli
odierni)...
I SALMI collegano canto, accompagnamento musicale e preghiera. Attribuiti a Re Davide, sono
stati passati poi anche al Cristianesimo. Ad un altro grande re ebreo, Salomone (che ha anche scritto
il Cantico dei Cantici), va attribuita l'organizzazione di un gruppo di cantori nel tempio di Gerusa-
lemme.
Vi erano due principali stili di canto tra gli ebrei:
- il TONO DI LEZIONE, detta anche CANTILLAZIONE, ossia una lettura intonata di un testo;
- il CANTO MELISMATICO, composto da vocalizzi sulle vocali di certe parole, come nel cantico Hal-
leluja.
-Cinesi: partirono da una scala pentatonica, come molti altri popoli. La scala nasce non pensando ai
suoni in successione, ma dalla combinazione di quinte ascendenti e quarte discendenti (principio
maschile e principio femminile), messi poi in fila; arrivarono presto ad una scala di 12 suoni.
Un altro elemento che riguarda la musica di questo popolo è la creazione di stati d’animo, con
funzione educativa ; la musica in fluisce sulla vita del popolo e imperatori disciplinavano la musica,
con una specie di ministero.
Si conoscono alcuni strumenti dell’ antica Cina: litofoni di pietra calcarea percossi con una mazza,
strumento a fiato: cheng (organo a bocca con un recipiente di aria, imboccatura con canne di bambù
di varia lunghezza) , strumenti a corda come il cing (una specie di salterio), con 7 corde.
Questi strumenti erano usati nella vasta area di in fluenza cinese, formando delle vere e proprie
orchestre a Bahli, con molti idrofoni, xilofoni, di varie dimensioni,pietre sonore, campane.
Usavano una eterodossia : qualcuno faceva la melodia di base, a note lunghe (una specie di cactus
firmus) su cui gli altri fiorivano.
Questo tipo di musica suscitò interesse all’ expo di Parigi a fine ‘800, in fluenzando la musica
occidentale con nuove sonorità
-Indiani: abbiamo notizie dai libri sacri che riportano notizie musicali, di canti
Alla musica addirittura sarebbe collegata l’ origine dell’ universo.
Abbiamo scale complesse di 7 sette note, ma in un’ottava erano compresi 22 intervalli e diverse
combinazioni (in ognuna delle 7 note c’era un numero diverso di intervallini)
Si creano così diverse scale modali, ognuna delle quali evoca un diverso stato d’animo.
Tra gli strumenti usati abbiamo: la tabla (coppia di tamburi), strumento a corda (dina?)(bastone
cavo di bambù con 2 zucche all’ estremità, 7 corde pizzicate con un plettro), uno strumento af fine :
la sita (aveva anche delle corde vibranti per “simpatia”, perché vicino con una sorgente sonora dallo
stesso periodo) e uno strumento ad arco: quattro corde vibranti per sollecitazione diretta e altre per
assonanza, stro finato con un arco.
capitolo 3°
-Greci: alla base il concetto di tetracordo.
Lo stato andava educato con determinate musiche, adatte alle situazioni e ai ruoli.
Abbiamo solo dei frammenti pervenuti, dai quali si capirebbe ben poco, ma abbiamo altre
testimonianze: ci sono fonti trattatistiche, desunte dalle opere dei filoso fi che erano anche scienziati,
esperti di acustica, etc.. c’è un repertorio di testi poetici che, sappiamo, venissero cantati, anche se
la musica non ci è pervenuta.
Abbiamo varie correnti:
-i canonisti : si ispirano a Pitagora, studiano la musica dal punto di vista fisico-matematico;fanno
esperimenti sul monocordo e misurava l’ altezza dei suoni, in relazione alla porzione di corda
vibrante: avevano capito il rapporto di ottava e molti altri, intervallo di quinta.
Anche Euclide ne fa parte.
Pare ci fossero:
-una notazione per la musica strumentale, basata sulla’ alfabeto fenicio (indica i suoni con lettere
dell’ alfabeto)
-una notazione per la musica vocale: suoni di lettere dell’ alfabeto greco maiuscolo
-altri segni indicavano le durate delle note: semicerchio nota breve , trattino nota lunga
vedi pag 35 per i ritmi
Queste tragedie seguivano, secondo il filosofo Aristotele, le famose 3 UNITA': unità di tempo, di
luogo e di azione. Le tre unità rappresentavano soprattutto un ideale di verosimiglianza con la real-
tà, in quanto le tragedie avevano una funzione educativa e catartica, coinvolgendo il pubblico so-
prattutto attraverso le emozioni. Tale ideale, però, con l'andare del tempo si perderà, soprattutto dal
Medioevo in poi.
All'epoca erano organizzate delle “gare” in cui i tragediogra fi dovevano presentare 3 tragedie legate
tra loro da un filo logico (quindi una trilogia) più in aggiunta un “dramma satiresco” staccato
logicamente dalla trilogia. Gli autori che ora consideriamo i più importanti della storia greca hanno
sempre vinto queste gare, autori come Eschilo, Sofocle, Euripide. Erano ovviamente tutte opere
musicali, ma la musica non ci è pervenuta nei secoli.
Autore bravo a rendere chiari i passaggi tra gli sviluppi corali e lo sviluppo della trama della trage-
dia; alcune delle sue opere più importanti sono: le Supplici, basata essenzialmente sul coro (50 fan-
ciulle erano destinate a dover sposare 50 cugini, ma nessuna di loro era entusiasta di tale matrimo-
nio; supplicano quindi il re Pelasco, di Argo, di proteggerle; il re le accoglie e nessuno dei matrimo-
ni va in porto), Orestea (nota anche come le Orestiadi, dal nome del protagonista Oreste, trilogia
suddivisa in Agamennone (vicenda incentrata su Agamennone dopo il suo ritorno da Troia), Coefo-
re (“coloro che portano libagioni ai morti”) e Eumenidi (“le benevole”, parte sulla pace).
Quindi le tragedie potevano anche avere finali belli, catartici, proprio per la funzione che esse
dovevano avere per il pubblico.
Emerge una concezione molto positiva della divinità, che interviene a sciogliere i tormenti.
Il linguaggio è solenne e fa pensare ad una musica altrettanto solenne.
I personaggi di Eschilo saranno spesso ripresi nelle tragedie a venire.
//REVISIONE
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EURIPIDE (485 a.C. - 407/406 a.C.)
Tali problemi dell'uomo vengono molto approfonditi da questo autore, mettendo addirittura in bilico
il ruolo degli dei; è un autore molto razionale, forse troppo per la sua epoca. Di lui ci rimangono pa-
recchie tragedie (17), con intrecci sempre più complessi, basate più sui personaggi che sul coro, con
dialoghi più fitti e naturali e una versi ficazione più scorrevole; mentre negli altri autori non ci sono
battute più corte di un singolo verso.
In Euripide si intensi fica la ri flessione sul destino e gli dei vengono sempre più criticati, visti come
personaggi capricciosi ai quali “è dif ficile credere”, dato che non sono legati a valori ma anzi mo-
strano i vizi degli uomini ampli ficati.
Nasce dopo Eschilo(divinità giusta, che porta pace ed equilibrio) e Sofocle ; porta
una nuova visione della divinità nel teatro: un suo stratagemma per concludere le vicende era
usare il Deus Ex Machina, un dio che scende dal cielo e risolve la situazione altrimenti impossibile
da risolvere, stratagemma molto criticato all'epoca. La divinità scioglie questa vicenda, sì, ma senza
soddisfazione personale, lascia tutti gli interrogativi personali aperti, una soluzione amara.
Molte delle sue tragedie sono incentrate su di un personaggio femminile: Alceste, che darà poi il ti-
tolo ad un'opera di Gluck. Ella era la moglie di un re che doveva morire presto a meno che qualcuno
non decidesse di morire al suo posto; tutti si ri fiutano, anche i due anziani genitori, mentre l'unica
che accetta è proprio lei, che si sacri fica. Alceste infatti muore, c'è disperazione del re, ma alla fine
arriva il mitico eroe Eracle (o Ercole), che si reca nell'Ade e recupera l'anima della poverina defun-
ta; c'è quindi finale lieto.
In un'altra tragedia compare invece Medea, che ha poi suscitato fascino in molti musicisti (tra cui
Cherubini). Medea è il personaggio opposto ad Alceste, donna abbandonata dall'amante Giasone,
che uccide tutti i figli avuti da lui e muore anche lei.
Anche Euripide scrive l'Elettra, donna che concerta con il fratello il parricidio. Le sue due tragedie
più famose sono invece I figenia in Aulide e I figenia in Tauride, verosimilmente parte di una trilogia
basata su I figenia, figlia primogenita di Agamennone (re di Micene) e sorella di Oreste. Prima della
guerra di Troia la flotta greca si trovò nel porto di Aulide per salpare, ma il vento era sfavorevole
perché gli dei esigevano un sacri ficio umano, con I figenia come prescelta; c'è quindi il dramma inte-
riore di Agamennone, che si trova combattuto tra l'amore paterno e il dovere di sovrano. Alla fine si
decide di far venire I figenia al campo per farla sposare ad Achille. Quando l'eroe viene a sapere del
suo destino vuole difenderla, ma all'ultimo momento la stessa I figenia decide di sacri ficarsi e affron-
ta il suo triste destino.
Esistono poi diverse varianti del mito: c'è quella in cui la fanciulla viene sacri ficata, c'è invece quel-
la in cui la dea Diana ha sostituito la fanciulla con un cerbiatto, salvando I figenia. Infatti nella se-
conda tragedia si capisce che la fanciulla si era salvata, ma ha vissuto altre avventure, con finale lie -
to. Anche I figenia viene ripresa da Gluck nel '700 con due opere.
Il razionalismo di questo autore gli varranno un'enorme fama nei secoli a venire, al contrario del suo
tempo in cui non era visto benissimo.
//REVISIONE
Altro esempio di genere letterario era la COMMEDIA, genere meno importante della tragedia per i
greci (ma sarà il contrario per i romani). Anche questa sembra derivare da canti corali di origine
agreste ( no origine aulica) , come la tragedia: l'ipotesi più accreditata è che si sia sviluppata da:
-la FALLOFORIA, ossia i canti che celebravano la fecondità, che si svolgevano in ambiente agre-
ste, da cui sarebbe derivato l'elemento lirico della commedia.
-la FARSAFLIACICA : i fliaci erano dei buffoni che giravano per le campagne, con
numeri buf fi-comici, e intrattenevano i popoli, da cui si sarebbe derivato l’ elemento
drammatico(in origine “azione”).
La storia della commedia si divide in due fasi:
- la commedia ANTICA, di cui l'esponente principale è ARISTOFANE, autore di Atene (440 –
380 a.C.), che rappresenta la commedia non come la intendiamo noi, ma più simile ad uno
spettacolo di varietà su argomenti di attualità, che prendevano in giro personaggi famosi dell'epoca.
Ad esempio nel testo della commedia Le nuvole si prendeva in giro il filosofo Socrate, dimostrando
però di non capirne lo spessore e il valore (in realtà Socrate era una nobile figura e non meritava l’
ironia, ma lui in realtà si rifà ai So fisti come Gorgia, Protagora, ai valori della dialettica ,essi
esaltavano la parola, il relativismo).
La commedia antica era tecnicamente divisa in due parti con un intermezzo corale importante, la
PARABASI. C'era anche una commedia di tipo letterario, come Le rane, che narra di un duello tra
Eschilo ed Euripide. Aristofane era un paci fista, e condanna la guerra in molte commedie, come in
Lisistrata dove una donna vuole spingere gli uomini a smettere di fare guerra proponendo lo sciope-
ro delle mogli.
Propone delle ri flessioni importanti, al di là della risibilità.
La musica era quindi essenzialmente una musica vocale, soprattutto corale. Poi man mano il coro
decade, ci sono parti solistiche, e c'era un accompagnamento strumentale. Lo strumento principale
era la CETRA, strumento nazionale a corde pizzicate, sacra ad Apollo, con numero di corde che
tende a crescere con il passare del tempo, passando da 7 a 12 corde; ne esistevano diverse varianti,
come la LIRA. Altro strumento importante era l'AULOS, ossia il “ flauto”, strumento caro a
Dioniso. Esso però era uno strumento ad ancia doppia, quindi più simile al nostro oboe. Si usava
anche l'aulos doppio, con due canne e doppia imboccatura. Lo strumento più simile al flauto era
invece il SIRINX. Esisteva anche il POLICALAMO, ossia strumento a più canne. Altro strumento a
fiato era il SALMPINX, più simile alla tromba, ed erano diffusi anche vari strumenti idiofoni o
membranofoni in uso in tutto il Mediterraneo. Questi strumenti venivano ogni tanto usati da soli,
ma avevano la funzione soprattutto di accompagnamento (CITARODIA, AULODIA, indicano
pezzi in cui gli strumenti accompagnano il canto).
Platone parla della musica nel trattato LA REPUBBLICA (lo stato ideale), trattato soprattutto di
politica in cui si parla dello stato ideale: la musica è sempre una forma di mimesi, di imitazione del -
la natura, ma ha comunque un compito importante nella forma di educazione del cittadino. Proprio
a scopo morale vorrebbe bandire alcuni tipi di musica dal suo stato ideale, non adatte alla formazio -
ne delle virtù civiche: non gli piacevano musiche troppo sdolcinate e patetiche, e quindi quei modi e
generi in cui ci sono intervalli che spingono troppo verso il pathos non dovrebbero trovare posto
nello stato; posizione quindi abbastanza chiusa nella mentalità di Platone.
Arte quindi asservita all'educazione, ad un fine più elevato.
Diversa è la posizione di Aristotele, che parla dell'arte e della musica nella sua POETICA: egli par-
la della sua teoria della CATARSI, la puri ficazione dell'animo, la liberazione da tutti i sentimenti
negativi, quali la paura, la violenza o la collera, sentimenti che emergono soprattutto nelle tragedie.
La musica quindi servirebbe a questo scopo, e qualsiasi tipo di musica può andar bene, purché si ar-
rivi a questo scopo di catarsi e puri ficazione; ha quindi una concezione morale dell’ arte.
La musica è quindi strettamente legata alla parola, specie nella tragedia, il tipo di arte più alto che si
possa avere. È lui che teorizza le tre unità, grazie alle quali il pubblico si poteva immedesimare
meglio nei personaggi, e ciò facilitava la catarsi.
Romani
Molto della cultura greca passa poi alla cultura ROMANA. Tale civiltà aveva caratteri molto pratici
e si dimostrò poco incline all'arte in generale. Civiltà dapprima contadina, in seguito Roma diventa
una grande potenza militare, passa all'espansionismo e all'imperialismo, e tutto ciò che è artistico e
filoso fico rimane abbastanza estraneo a questa civiltà. Nell'ambito della storia del pensiero i Romani
si sono distinti per l'elaborazione del DIRITTO, che si studia ancora oggi.
Per l'arte sono stati tributari da diverse civiltà, dapprima dagli ETRUSCHI: le prime forme di teatro
romano erano derivate dall'Etruria; vi sono varie leggende in proposito, alcune parlano di buffoni
etruschi che rallegrassero la civiltà romana, resa schiava da una pestilenza, e molte altre leggende.
Vari generi erano il FESCENNINO (da FESCENNI, città etrusca), la SATURA (deriva da un ag-
gettivo, “piatto pieno”, e così lo spettacolo, pieno di cose), la ATELLANA (deriva da ATELLA, di-
stinta per la presenza di personaggi fissi, simili alle nostre maschere), tutte forme di teatro popolare,
con derivazione etrusca.
Viene poi in contatto con la Grecia: essa viene conquistata dai Romani, ma nonostante ciò si può
dire che i Greci “vinsero” al livello culturale sui loro conquistatori. Tutto il patrimonio artistico dei
Greci passa quindi ai Romani, ma con un rovesciamento delle preferenze: a Roma il genere preferi-
to di teatro era la commedia. Alla base sta una concezione molto diversa del teatro: per i Romani il
teatro è divertimento, ludus. La tragedia, quindi, che proponeva ri flessioni profonde attraverso le vi-
cende rappresentate, ha una fortuna minore mentre la commedia spopola. Sia le tragedie che le
commedie all'inizio sono di ambientazione greca, con personaggi con nomi greci, che indossano co-
stumi dei greci (la COMMEDIA PALLIATA, da pallio, costume greco), ma pian piano si passa alle
ambientazioni romane (COMMEDIA TOGATA, dalla toga); i dialoghi si fanno sempre più ricchi,
gli intrecci sempre più complessi, e le parti musicali man mano si riducono a causa della maggiore
importanza data alla trama e ai dialoghi. Le parti musicali più importanti erano sempre quelle corali,
ma pian piano il coro si riduce. Queste parti musicali si chiamano CANTICA, “parti cantate”.
La tragedia ha imitatori di una certa importanza, autori come Nevio (all'inizio) e Seneca (età impe-
riale). Tuttavia sono di sicuro più importanti i commediogra fi PLAUTO e TERENZIO, per i quali
(e in modo particolare per Terenzio) la base è la commedia NUOVA, quella di Menandro.
Plauto è un poeta più popolare, e se poteva dedurre certi intrecci dai greci, ci mette del suo con un
linguaggio abbastanza popolare, con versi ficazione molto vivace dal punto di vista metrico, e che fa
presupporre musica varia dato che la musica era legata alla metrica in modo stretto. Plauto nacque
nel 254 a.C. e morì nel 184. a.C.; egli crea commedie basate su situazioni ricorrenti, su tipi ricorren-
ti. Alcune di queste situazioni avranno una notevole fortuna nel teatro successivo, in particolare nel
MELODRAMMA italiano del '700, come ad esempio gli equivoci basati sul travestimento dei per-
sonaggi, oppure i riconoscimenti finali (pensiamo alle NOZZE DI FIGARO di Mozart, opera buffa
italiana del 1786, in cui nel finale c'è un travestimento seguito da un riconoscimento).
Per quanto riguarda la musica, secondo le testimonianze, le cantiche erano piuttosto gradevoli, ma
non ci sono pervenuti documenti musicali di alcun tipo.
Con la commedia di TERENZIO, invece, ci si rifà al teatro di Menandro nel senso che è una
commedia più elegante ed aristocratica. Terenzio visse dal 190 al 159 a.C., era cartaginese, e gli
manca quindi quella comicità più popolaresca tipica di Roma. Le sue commedie hanno intrecci più
complessi, sono molto più ri flessive, si pongono vari problemi sulla patria potestà e su altri costumi
dell'epoca, ma questo aspetto danneggiava la parte musicale che faceva leva di più sul diletto dei
sensi. Le azioni più lente e i dialoghi più intensi danneggiavano la parte corale, che si presentava
perciò con musiche più ridotte e semplici. Tendono anche a sparire i tipi costanti di Plauto, mentre
nascono e si sviluppano i CARATTERI; questo aspetto si ritroverà poi nel '700 italiano.
Era cristiana
Il teatro classico decade però con l'avvento del CRISTIANESIMO, dato che la Chiesa considerava
il teatro come qualcosa di immorale, una finzione da dover boicottare; quando Roma viene quindi
conquistata da questa nuova religione gli spettacoli di derivazione greca spariscono, e saranno sosti-
tuiti, ma solo nel Medioevo, da un nuovo teatro di ispirazione cristiana.
Rimane comunque molto della musica greca a Roma al di fuori del teatro: si faceva musica durante
le cerimonie religiose o durante le feste per allietare i banchetti dei nobili romani, musica che veni-
va praticata dagli schiavi. Rimane anche tutta la teoria musicale dei greci, tramandata a Roma, ma-
gari con errori di trascrizione. Questa teoria musicale greca è riportata ad esempio nell'opera De
istitutione musicae di Severino Boezio, teorico del VI secolo dopo Cristo al servizio di Teodorico.
La musica trovava spazio nell'ESERCITO, con gli strumenti a fiato: si citano in molti scritti gli stru-
menti che venivano usati nell'esercito, alcuni simili ai nostri odierni, come le BUCINE o le TUBE.
Come hobby la musica era praticata anche nella casa imperiale, ad esempio Nerone si vantava di
essere un musico ed avrebbe voluto scrivere opere simili all'Iliade o all'Odissea (si dice bruciò
Roma per assistere in prima persona a questi momenti di drammaticità).
CANTO OCCIDENTALE
Questi canti si diffondono inizialmente con dif ficoltà, dato che il cristianesimo era religione proibita
all'inizio (Cristo stesso era stato condannato come nemico dell'imperatore), ma le cose cambiarono
dopo L'EDITTO DI COSTANTINO del 313, che lasciava libertà di culto a tutti, anche ai cristiani.
Da questo momento il canto cristiano si diffonde in tutto l'Occidente, e si sviluppano varie tradizio-
ni e repertori di canti cristiani: a Roma e zone limitrofe c'era il CANTO ROMANO, a Milano c'era
il CANTO AMBROSIANO (da Sant'Ambrogio) che risente di in fluenze orientali, portate appunto
da Ambrogio stesso, e creerà lui stesso alcuni inni in latino, ci sarà anche il CANTO GALLICANO
(in Gallia, ossia l'odierna Francia), oppure in Spagna il CANTO MOZARABICO (con in fluenze
orientali, passate anche attraverso l'Africa). Erano canti tramandati esclusivamente in modo orale,
non venivano scritti. Ad un certo punto si sente l'esigenza di uni ficare questi stili di canto cristiano
nei riti sacri e di codi ficare un repertorio comune. Questo avviene all'epoca di Papa Gregorio I, det-
to Gregorio Magno, ponte fice dal 590 al 604; a lui viene attribuita la codi ficazione e uni ficazione
del canto cristiano, creando una scuola di cantori a Roma, e fissando canti presi dalla scuola romana
o ambrosiana, canti che erano elencati, ma non erano ancora scritti. In particolare avrebbe riunito i
canti della Messa in un libro chiamato GRADUALE, e i canti dell'Uf ficio Liturgico in un altro libro
chiamato ANTIFONALE. Tutti questi canti erano racchiusi nell'unico LIBER USUALIS in cui poi
ci perverranno in una notazione particolare. Questo canto uf ficiale verrà poi denominato CANTO
GREGORIANO.
Dopo Gregorio nascono altri canti nuovi, e tutti si uniranno in questa raccolta, continuando a chia-
marsi canto gregoriano. I canti verranno poi diffusi grazie all'opera dei monaci, perciò i centri im-
portanti di diffusione saranno le abbazie e i monasteri, che sorgono un po' dappertutto in Europa.
Soprattutto nelle abbazie, dopo un po', si cominceranno a scrivere questi canti cristiani con notazio-
ni simboliche (a partire però dall'VIII – IX secolo), e si creeranno scritture differenti da monastero a
monastero.
Nell'ambiente delle abbazie si sviluppano anche i canti per gli UFFICI DELLE ORE: a seconda del-
l'ora del giorno c'erano diverse mansioni da fare, accompagnate da diversi canti per pregare. Il canto
cristiano riceverà un ulteriore impulso all'epoca di Carlo Magno, morto nell'814. In quest'epoca in-
fatti si cerca di raggiungere di fatto l'unità politica dell'impero, favorita anche dalla parallela unità
dell'arte e della religione. Per questo i canti continuano a circolare, con tendenza all'uni ficazione dei
canti rituali.
Questi canti cristiani che ci sono pervenuti sono stati trascritti poi in notazione moderna, in
particolare dalla fine del 1800 in avanti per opera di una scuola gregoriana di benedettini: la scuola
di Solemnes. Questi monaci di Solemnes hanno trascritto gli antichi canti e ne hanno interpretato i
segni, anche con molte discussioni. Rimangono ovviamente aspetti molto oscuri riguardo
l'esecuzione, ad esempio riguardo il ritmo.
Le scale seguite dai canti gregoriani prendono il nome di MODI, scale diatoniche con toni e semi-
toni. I modi gregoriani sono 8, e differiscono per la posizione dei semitoni nella scala.
Si dividono in due gruppi:
-i modi AUTENTICI: i modi autentici prendono i nomi dei modi greci
(il primo era il modo DORICO, che partiva dal re, il secondo era il modo FRIGIO, che partiva dal
mi, il terzo era il modo LIDIO, dal fa, e il quarto era il modo MISOLIDIO, il modo di sol);
-i modi PLAGALI ogni modo autentico aveva il suo rispettivo modo PLAGALE, che non è consi-
derato un modo a sé, ma un prolungamento del modo autentico: vi è solo una differenza di tessitura,
dato che il plagale si estende una quarta sotto il suo modo autentico. Questi prendono il pre fisso
IPO-: IPODORICO, IPOFRIGIO, IPOLIDIO, IPOMISOLIDIO.
In realtà questi modi si potevano TRASPORTARE, purché la successione di toni e semitoni rima-
nesse la medesima, rimanendo nello stesso modo: frequente era il modo DORICO trasportato in sol,
dove vi era quindi il Si bemolle.
Grazie all'uso di questi modi la musica sembra più aleggiante, la funzione forte della tonica manca,
non c'è neanche la nostra SENSIBILE: le melodie sembrano quindi più vaghe rispetto alle nostre.
Si arriverà al concetto di tonalità molto gradualmente, non sappiamo neanche bene come, ma spon-
taneamente certi intervalli e certe posizioni musicali si sono pian piano affermate, andando incontro
magari alla piacevolezza per l'udito. Fino più o meno al 1500 non si parlerà ancora di tonalità.
Quanto più la musica medioevale era di origine popolare, tanto più essa si mostra vicina alla nostra
musica tonale, in quanto le persone la trovavano gradevole. Già nel 1400 sentiamo brani che al no-
stro orecchio appaiono fortemente tonali. Più avanti agli 8 modi gregoriani saranno aggiunti altri
due modi:
il modo MAGGIORE e il MINORE, che a poco a poco hanno fatto sparire tutti gli altri. Pian pia-
no l'armonia si abituerà a queste nuove scale, e solo alla fine del 1600 si arriva davvero ad una tona-
lità ben affermata.
Non sappiamo praticamente nulla del ritmo di questi brani medioevali poiché la notazione in cui ci
sono pervenuti non aveva di per sé un signi ficato ritmico, ma solo melodico. Per il ritmo si sono fat-
te varie ipotesi con due teorie contrapposte:
- una è la TEORIA MENSURALISTA :dal latino mensura, misura, secondo la quale si
usavano dei rapporti di durata dei vari suoni un po' come nella musica odierna; non avendo nessun
supporto scritto nei documenti pervenuti, non è stata molta accreditata,prevale l’ altra teoria
- l'altra è la TEORIA DEL RITMO LIBERO O ORATORIO ,secondo la quale non c'era
un ritmo musicale a sé stante, ma la musica seguiva il flusso libero della preghiera o del di-
scorso: le pause si facevano quando c'era punteggiatura nel testo, ad esempio; oltretutto que-
sti testi erano spesso in prosa).
I teorici che sostengono il ritmo libero si dividono in altre due sotto correnti:
- gli ACCENTUALISTI secondo i quali la musica segue il testo senza nessuna regola a prio-
ri che limiti il potere del testo.
- gli EQUALISTI invece accettano una regola di fondo, la musica segue il testo, ma le note
devono essere più o meno tutte della stessa durata.
Oggi la teoria più accreditata e seguita è quella del ritmo libero degli equalisti.
La scelta di questi diversi tipi di canto dipendeva dalla lunghezza del testo: l'accentus si usava nei
salmi o nelle letture durante la Messa, mentre la scelta del concentus dipendeva dalla lunghezza del
testo da cantare, più il testo era breve, più c'erano vocalizzi, mentre più era lungo e più ci voleva il
concentus sillabico.
Dopo Gregorio Magno acquistano sempre più importanza i canti della Messa, che era costituita da
varie parti: c'erano riti di introduzione, poi la Liturgia della Parola, terminata la quale c'è il Credo e
la Liturgia sacri ficale, che attraverso vari momenti si avvia alla consacrazione del pane e del vino
(la Transustanziazione). Seguono varie altre preghiere, poi c'è l'Invocazione alla pace, l'Agnus Dei,
la distribuzione della comunione, la benedizione e la fine.
Alcune messe sono pervenute intere; alcune erano formate da melodia diverse, da messe diverse.
15/12
Ascoltiamo la Messa degli Angeli, parti dell'ordinarium.
Pervenuta intera ,con l’ accompagnamento dell’ organo, ammesso come accompagnamento della
musica sacra.
Il linguaggio del gregoriano assume tutto un altro carattere; non sappiamo bene cosa facesse l’
organo, le parti non erano scritte.
Era contemporanea alla prima polifonia ( dal nono secolo in avanti).
Si rifà a modalità esecutive posteriori a quella senza strumenti, velocità diversa, orecchiabilità
diversa; d’altronde la storia del gregoriano conta più di mille anni.
Stile più solenne e grandioso, meno indeterminato
Abbiamo anche alcuni esempi di inni : “veni creatus spriritus” si cantava alla Pentecoste, attribuito
a Rabano Mauro; fatto di strofe, ciascuna di 4 versi, la melodia si ripete in ogni strofa (tipico dell’
inno) :ad ogni verso della strofa corrisponde una diversa melodia ( piuttosto orecchiabile).
Abbiamo fino a qui visto le forme più antiche di canti; le forme di più tarde ( fine capitolo 4 ),
verso il 9°-10° secolo nascono invece come espedienti mnemonici per aiutare a ricordare delle
melodie melismatiche dell’ alleluia o di altri canti come il kyrie, dif ficili da ricordare
Se si aggiunge un testo, queste melodie si ricordavano meglio: si era pensato di sostituire ai melismi
un testo cantato.
Questo tipo di teatro diventerà poi polifonico, accoglierà l’ uso di strumenti per arricchire il pianto;
le canzoni profane in voga all’ epoca saranno adattate ad un testo teatrale.
NEUMI
Continuando il discorso sui neumi, unendo neumi semplici si hanno quelli composti, e tra loro c'era-
no anche quelli di abbellimento, senza però che ci sia pervenuto nulla su come essi venivano suona-
ti.
Esempi ne sono il QUILISMA, una nota con il bordo seghettato, oppure i NEUMI LIQUESCENTI,
note più piccole che seguivano note normali. Vi era quindi un panorama neumatico ricco.
Per i neumi non vi era una gra fia unica: vi erano segni non precisi che cambiavano a seconda delle
abbazie, arrivando a 15 famiglie di segni (dal XVI secolo si sviluppa la notazione dei neumi QUA-
DRATI, in contemporanea all'invenzione della stampa). La notazione AQUITANA è quella un po'
più precisa, e sarà infatti spunto per la nascita della notazione quadrata. La notazione neumatica si
applicava all'inizio SENZA RIGO, detta quindi “in campo aperto”, o anche ADIASTEMATICA
(non si indicava l'altezza assoluta o relativa dei suoni, ma solo la direzione che seguivano).
Nell'evoluzione della scrittura dei neumi si sviluppa sempre una maggiore precisione nella gra fia: si
incomincia a tracciare un SINGOLO RIGO, al di sopra e al di sotto della quale vi erano i neumi; il
rigo indicava la posizione della nota FA, e vicino alla riga si segnava una “F”, che indicava appunto
il FA (da essa deriverà la chiave di BASSO). Andando avanti negli anni si aggiunge un secondo
rigo, che indicava il DO, si coloravano diversamente (una rossa e una gialla) e venivano tracciate a
secco.
Pian piano, grazie anche all'aiuto di Tommaso d'Aquino, si arriva al TETRAGRAMMA (4
righe),attribuito impropriamente a Guido D’Arezzo: basta indicare una nota su un rigo e le altre si
collocano di conseguenza.
È questa la notazione tramite la quale ci sono pervenuti gli scritti gregoriani. Da qui si evolvono an-
che le CHIAVI che utilizziamo oggi. La notazione diventa quindi DIASTEMATICA, ossia indica
anche l'altezza dei suoni, ma non abbiamo ancora informazioni riguardo il ritmo. Vi sono anche altri
segni sulla cui interpretazione non vi è sicurezza: su alcune note c'era un puntino: il MORA VOCIS
(che si pensa indicasse una piccola sosta sulla nota). Citiamo anche gli EPISEMI, orizzontali o ver -
ticali, che erano altri segni agogica.
Questa notazione quindi si afferma e pian piano si evolve dando origine alla scrittura moderna. Non
era però l'unica notazione proposta: ve ne erano anche altre, documentate da vari teorici, e anche
decisamente più complesse. Tra un neuma e l'altro, ad esempio, si mettevano delle lettere dell'alfa-
beto per indicare l'intervallo da intonare con l'altra nota. In un'altra notazione invece non si usavano
i neumi ma varie righe, dove veniva scritto il testo spezzettato. Queste notazioni alternative vennero
poi abbandonate per dif ficoltà.
Qualcuno (probabilmente un allievo di Guido), per facilitare questo cambio di esacordo, inventò un
metodo chiamato MANO GUIDONIANA, dove vi era corrispondenza tra le note e le dita della
mano. L'odierno metodo Kodaly (o quello di Goitre) derivano da questo.
Ai vari punti delle falangi si fanno corrispondere le diverse note: è come avere uno specchietto per
vedere i passaggi tra gli esacordi.
Si parla del cosiddetto metodo del “ do mobile”,ovvero si cantano tutte le scale maggiori come
fosse do maggiore e tutte le scale minori come fossero la minore
in caso di modulazione, si sposta la posizione del do, come guido spostava la posizione dell’ ut;
tutto ciò aiutava l’ intonazione, anche se ,per chi inizia col metodo tradizionale, sembra dif ficile
La prima alterazione utilizzata fu il Si bemolle, ma pian piano si aggiunsero anche le altre. Per
giusti ficare lo schema dei semitoni ogni tot toni di una scala, attraverso le modulazioni si generano
più semitoni di quelli reali, dando origine alla MUSICA FICTA, ossia “falsa”, dato che solo quella
di Guido era quella “vera”. Vi erano anche alterazioni fatte ma non SCRITTE, anche per questo ci
sono pervenute varie incisioni che hanno diverse interpretazioni. Per distinguere le alterazioni
scritte da quelle aggiunte, esse venivano scritte in piccolo sopra la nota, spesso tra parentesi.
In questa gamma di suoni si possono individuare vari semitoni :tra il mi e il fa, tra si naturale e do o
tra la e si bemolle; tutti questi semitoni si intonavano sempre con “mi-fa”.
Dove c’è il si bemolle, l’ esacordo si chiamerà esacordo “molle”, dove invece c’è il si è naturale, si
chiamerà esacordo “duro”.
troviamo quindi:
-3 esacordi duri(ut coincide col sol)
-2 esacordi molli (ut coincide col fa),
-2 naturali(ut coincide col do)
Se la melodia eccede un esacordo, bisogna fare una mutazione, ovvero bisogna cambiare
mentalmente il nome della ultima nota dell’ esacordo da cui si vuole uscire
e dargli il nome della nota nell’ esacordo cui si vuole entrare.
MUSICA MONODICA PROFANA MEDIEVALE IN VOLGARE
Si afferma un canto profano, dapprima in latino,su testi di poeti classici , poi in un latino più
volgare, della decadenza; ha un carattere più popolare
Il primo esempio è il “Planctus Caroli” ,per la morte di Carlo Magno.
Nascono tanti canti goliardici,dai goliardi:s tudenti universitari che giravano per la varie università,
creando dei canti in opposizione al canto ecclesiastico e inneggiando ai piaceri della vita terrena e
prendendo anche in giro il canto ecclesiastico
Abbiamo poi i famosi “Carmina Burana” : canti profani in latino e (qualcuno) in antico
tedesco.Sono canti che esaltano i piacere terreni vari, originari dell’ abbazia di Benedict Boiren.
Sono divisi in varie sezioni: abbiamo canti di osteria,canti della natura,canti d’amore(molto
fisico),canti parodia dei canti ecclesiastici.
Erano ammessi degli strumenti di accompagnamento.Abbiamo spesso una riproduzione moderna
spoglia,senza accompagnamento, mentre altri le eseguono con strumenti accompagnatori, ma con
parti inventate, seppur adatte.
Sono celebri i “Carmina Burana” di Carl Orff (nel 900):canti di primavera, canti di osteria e canti
d’amore.Fa precedere tutto da un canto che parla di fortuna
visione cupa e pessimistica
Oltre ai canti profani in latino, vi erano anche i canti in LINGUA VOLGARE: il latino era sempre
meno compreso dal popolo, e i canti in lingua latina vengono pian piano abbandonati e sostituiti dai
canti nelle lingue volgari, che possono essere o di derivazione dal latino (lingue neolatine, come i
vari dialetti italiani, francesi, spagnoli...), o di derivazione barbarica, come gli anglosassoni, l'antico
tedesco (anche qualche frammento dei Carmina Burana è in antico tedesco).
Queste lingue danno origine a delle forme letterarie, legate alla musica. Canti profani in volgare
molto importanti sono collocati in Francia, nelle due lingue principali all'epoca, la langue d'oc e la
langue d'oil (entrambe vogliono dire “lingue del sì”, ma la prima darà origine alla lingua occitana).
In queste due lingue verranno elaborate due letterature parzialmente differenti: nel sud, con la
langue d'oc, si sviluppa una lirica prevalentemente amorosa, che darà origine a canti d'amore
profani, detti i canti dei “trovatori” (da trobar), mentre nella langue d'oil si scriveranno poemi
epico-cavallereschi, legati al ciclo carolingio e al ciclo bretone (il primo su Carlo Magno, il secondo
è una raccolta di leggende varie che interessano aree celtiche, germaniche e anche francesi, a cui è
legata la figura di Re Artù, di Lancillotto...).
Dal punto di vista musicale il sud della Francia in fluenza il nord, e alla fine anche nel nord si
prenderanno sezioni dei poemi epico-cavallereschi e si metteranno nella stessa forma dei trovatori.
Per gli autori del nord si utilizzerà il nome di “trovieri”, simili ai trovatori.
È una civiltà piuttosto lunga, occupa uno spazio temporale che va dal 1000 al 1300, e si dipana
attraverso molte generazioni di poeti-musicisti, di cui ricordiamo Guglielmo duca di Aquitania.
Il tema fondamentale trattato in queste canzoni era L'AMOR CORTESE: amore che si sviluppa
nell'ambiente delle corti, legato agli ideali della cavalleria; è una forma di omaggio che il poeta
offre alla donna amata. Al sud gli autori di queste poesie (i trovatori) erano di una casta sociale
inferiore a quella della donna che amavano, era quindi un amore impossibile, ma desiderato, che
non si potrà mai realizzare compiutamente. Spesso è un amore clandestino, che non si può
esprimere a parole, ma soltanto attraverso il trobar clus, il parlare in modo ermetico, con simboli
che poteva capire solo l'amata. Amore molto terreno, ma dominato da questa tristezza di fondo per
il suo essere irrealizzabile. A volte le donne amate erano figure importanti e non conquistabili, come
Eleonora d'Aquitania, nipote di Guglielmo, che fu cantata da molti cantori. Ella ebbe un destino
singolare: sposò dapprima il re di Francia, si trasferì al nord, e fu responsabile dell'in fluenza che il
sud ebbe sul nord e, quando fu ripudiata dal re di Francia, sposò il re di Inghilterra, portando anche
lì queste forme d'arte. Uno dei suoi figli, che fu Riccardo Cuor di Leone, appartenne anche lui alla
famiglia dei trovieri.
I trovieri, al contrario, erano spesso appartenenti a classi sociali molto più alte di quelle dei
trovatori. I loro canti venivano diffusi dai menestrelli, che spesso si riunivano in corporazioni.
I canti di questo periodo sono in generale canti d'amore: la chanson era la canzone d'amore per
antonomasia, ma esistevano anche altre forme che trattavano di argomenti diversi: argomento
politico, lutto per una persona famosa, genere della ballata.
Da queste forme profane si svilupperà anche un teatro musicale profano: un esempio ne è il dialogo
di un troviere del 1200, il Gobbo di Arras, che diede un importante contributo alla nascita del teatro
musicale profano in Francia.
La classi ficazione di questi numerosi brani avviene secondo criteri molto diversi da vari studiosi:
sostanzialmente ci sono due tipi di visioni, classi ficazione secondo argomenti trattati (con generi e
sottogeneri), e classi ficazione secondo le strutture poetico-musicali, che però sono parecchie;
c'erano melodie con ripetizioni, poste in varie collocazioni; molto frequente era la versione ternaria
in rima A A' B, con la melodia che si adatta ad una strofa, e che viene poi ripetuta in una seconda
strofa, identica o con una piccola variazione (A'), e in fine c'era una strofa di congedo sulla melodia
B. Questa forma era molto usata in particolare nella canzone amorosa. Ci possono essere anche altri
tipi di suddivisione ternaria, come la forma A B A, sovente ripetuta. Di questo tipo era per esempio
il virelai, composto da diverse stanze che a loro volta sono divise in refrain (la strofa) ed altri versi
che sono chiamati volta (melodia in comune per refrain e versi di volta, melodia diversa per la parte
centrale). Vi era anche il lai, che coniugava ripetizioni e cambiamento.
Molto spesso queste forme nate per la musica profana si adattarono anche a testi di musica sacra,
nelle SEQUENZE, che però dal 1500 vennero abolite.
Nelle melodie con ripetizioni troviamo anche il rondeau.
In questo tipo di musica abbiamo il solito problema del RITMO: essendoci pervenute in forma
neumatica, non abbiamo nessuna indicazione sul ritmo con cui le composizioni dovevano essere
eseguite. Per queste musiche profane è molto dubbio che si usasse un ritmo libero: innanzitutto il
testo è in rima e non in prosa, quindi ha una sua metrica; poi molti di questi canti venivano ballati, e
il ritmo libero non si adatta per niente a questo utilizzo. Alcuni brani ci sono pervenuti solo in
versione strumentale, quindi richiedevano un ritmo misurato, secondo un rapporto di durata tra i
suoni. Molti autori che tentano di trovare un ritmo per queste canzoni utilizzano il ritmo dell'antica
musica polifonica. Dato che nella prima polifonia si prediligevano i tempi ternari, essi furono
applicati dagli studiosi anche a queste poesie, soprattutto un ritmo chiamato TROCAICO (una
lunga e una breve).
Ascoltiamo alcuni esempi di canti di trovatori e trovieri.
MINNESÄNGER
La parola signi fica “I cantori dell'amor cortese”: è il movimento speculare a quello dei trovatori e
trovieri, che si ebbe però in Germania. Quella dei minnesanger era una musica monodica, in cui
domina la lirica amorosa; anche qui si canta una figura di donna amata irraggiungibile, ma a
differenza dell'irraggiungibilità dei trovatori, per i quali l'amore era impossibile per la differenza di
casta sociale, qui la superiorità della donna è di tipo MORALE, nasce il mito della donna angelica.
A quei tempi c'erano delle vere e proprie gare di composizione, che andranno avanti anche dopo il
Medioevo, nell'età del Rinascimento. Questo ambiente verrà poi richiamato anche da Wagner nel
Tannhäuser, e sempre lui nei Maestri Cantori di Norimberga riprende la civiltà successiva,
continuando a citare questo mondo della polifonia.
Con i minnesanger nasce il termine LIED, il “canto alla canzone” monodico. Il termine designa la
struttura de finita di un canto, spesso ternaria in forma A A B, con due strofe e una specie di
congedo. Le prime due strofe erano chiamate Stollen, mentre l'Abgesang era la strofa di congedo.
Questa forma era de finita complessivamente “forma BAR”, ed indicava proprio un componimento
fatto da più stanze, in cui ognuna aveva la forma AAB.
Conosciamo alcuni nomi di questi Minnesanger: Tannhauser era un personaggio storico, in più
c'erano Walter von der Vogelweide, Wolfram von Eschenbach, Einrich von Meissen (conosciuto
con il nome di Frauenlob, “lode di dame”) e tanti altri.
Una lirica simile si trova anche in Italia: in varie corti italiane si pratica una musica monodica
profana i cui argomenti sono simili a quelli dei trovatori o derivati da loro stessi. Questa poesia per
musica si trovava in varie corti: dal Monferrato alla Sicilia, e anche alla corte di Federico II di
Svevia. Alcuni di questi poeti italiani sono anche ricordati dallo stesso Dante: Pier delle Vigne,
segretario alla corte di Federico di Svevia, è ricordato nella cerchia dei suicidi, oppure Sordello da
Mantova, inserito nel Purgatorio, o anche la figura del musico Casella, toscano. Anche se non ci
sono pervenute le musiche, tutto quello che era il Dolce Stil Novo era ispirato ai trovatori,
sopratutto la lode alla donna, che si troverà ancora in Petrarca.
POLIFONIA MEDIEVALE
capitolo 5°
Origini della polifonica
La polifonia era già conosciuta nell'antichità, ma per secoli si afferma il canto cristiano monodico,
senza lasciare spazio a forme di polifonie, poi, attorno al IX secolo, essa ricomincia a spuntare nel
panorama musicale.
Sulle origini della polifonia nel mondo occidentale vi sono varie teorie: si dice che ad un certo
punto si volesse variare il canto gregoriano, e oltre ad aggiungere nuove forme di canti monodici, si
sviluppa anche una forma di canto polifonico per ornare una melodia già esistente; vi sono però
anche altre teorie: c'è la teoria DELL'ERRORE, secondo la quale alcuni abbiano semplicemente
sbagliato ad intonare, scoprendo però la bellezza di questo errore.
Il termine che si usa per la polifonia medievale è il CONTRAPPUNTO, che deriva dal termine che
indicava il neuma punto, e dal procedere delle voci “punctus contra punctus”. Dunque la prima
polifonia aveva note che procedevano di pari passo con le altre note dell'altra voce: nota contro
nota. Per quanto riguarda le prime forme di polifonia, abbiamo un trattato del IX secolo che le cita:
il trattato chiamato MUSICA ENCHIRIADIS, ossia “manuale di musica”. Nel trattato si insegnano
questi primi contrappunti, e poi ne parleranno anche altri teorici, come Guido d'Arezzo e altri.
La prima forma di polifonia prendeva il nome di ORGANUM, e prevedeva due voci:
-una voce che portava la melodia preesistente (VOX PRINCIPALIS)
-la seconda che la accompagnava (VOX ORGANALIS).
In genere questa seconda voce era sotto la principale di un intervallo di quarta o di quinta.
Dapprima, quindi, queste voci procedono in modo parallelo.
Poi cominciano man mano a differenziarsi le due voci, partendo magari ad unisono, poi
allontanandosi fino ad un intervallo di quarta, per poi riunirsi alla fine (questo modo di comporre era
chiamato anche DIAFONIA, o ORGANUM OBLIQUO).
Verso l'XI secolo non si adopererà più solo il moto parallelo, ma anche quello contrario, con forma
che alcuni chiamano DISCANTO.
Nel discanto la Vox principalis non sarà più per forza al soprano, ma potrà passare anche al grave.
Nel XII secolo vediamo che le due voci in alcuni luoghi non procedono più nota contro nota, ma ci
sarà una voce principale che eseguirà la melodia data (cantus firmus), mentre l'altra voce eseguirà
delle fioriture al di sopra della melodia della vox principalis (corrisponde quindi ad ogni nota un
melisma). Questo è l'organum melismaticum, che si trova in varie abbazie (come Santiago di
Compostela), e che all'inizio non adopera ancora dei ritmi misurati. Ad un certo punto, però, si
avverte la forte necessità di misurare i ritmi, esigenza quindi che segue spontaneamente l'avvento
della POLIFONIA.
Siamo in quella fase della polifonia chiamata ARS ANTIQUA, che va dal XII secolo fino all'inizio
del XIV secolo.
È l'epoca in cui la polifonia si sviluppa in Francia, soprattutto nella scuola della Cattedrale di Notre
Dame. Qui troviamo due maestri, Leoninus e Perotinus , quest'ultimo detto Magnus. Essi venivano
proprio chiamati magister (e da qui l'uso di chiamare tutti i musicisti “maestri”). Leonino scrisse un
Magnus Liber Organi, in cui musica dei brani sacri, pezzi di Messa, arrivando a tre voci. Perotino
interviene poi in questo libro, in molti casi aggiunge lui stesso una terza voce dove ce n'erano due, e
a sua volta compone anche lui dei pezzi, arrivando in alcuni casi a 4 voci. Egli colloca al grave la
vox principalis, che teneva il cantus firmus (e si chiamava quindi tenor), e al di sopra di questa
sviluppava le altre voci (duplum, triplum, quadruplum).
Oltre a quella forma, che si continuava a chiamare organum, si trovano altre forme compositive
chiamate con altri nomi.
Una era la clausula: disegnare polifonicamente la chiusa del canto principale per sviluppare una
composizione.
Un'altra forma era il conductus: un canto processionale (come nella monodia) dove le voci vanno
tutte insieme con lo stesso ritmo, su un tenor di libera invenzione.
Un'altra forma ancora, che si trova dal 1200, era il MOTTETTO (deriva da mot, “parola” in
francese). Esso si è sviluppato dalle clausole, era a 3 voci, con il tenor come voce più grave, una
voce intermedia chiamata duplum o motetus e una terza voce detta triplum.
Le due voci che stavano sopra il tenor avevano valori più brevi del primo, e una caratteristica di
questo genere è che le varie voci potevano cantare contemporaneamente testi diversi, e potevano
cantare anche in lingue diverse;questo succede anche nella poesia,con la centonizzazione (mischiare
pezzi di poesie diverse,da autori diversi). In questo periodo infatti non contava il rapporto musica-
testo, ma soltanto l'arte combinatoria. Si arriverà però con il tempo ad un'uni ficazione della lingua,
usando prevalentemente il latino.
Una tecnica che spesso si usava per rompere la monotonia del procedere delle voci era l'hoquetus,
chiamato anche cantus abscissus.
Si tratta di interruzioni brevi e frequenti della linea melodica ottenute per mezzo di pause alternate
tra le varie voci. In questo modo si otteneva una sorta di "effetto singhiozzo" all'ascolto: quando una
voce aveva la pausa, l'altra aveva una nota.
Per quanto riguarda gli intervalli, essi erano per lo più unisoni, quarte, quinte e ottave. Poco usate le
terze e le seste, poiché all'epoca erano considerate dissonanti. Queste note verranno invece utilizzate
nella polifonia inglese, nel gymmel (due voci a distanza di terza) e nel DISCANTO inglese, dove ci
sono tre voci e distanza di terza e di sesta dalla prima (questo modo verrà poi diffuso anche sul
continente, prendendo il nome di FALSO BORDONE, con la voce principale che poteva essere
una delle due voci acute). Le terze e le seste verranno considerate dapprima dissonanze accettabili e
poi vere e proprie consonanze.
NOTAZIONE MODALE
Capitolo 6
La notazione modale - I modi ritmici pag 65 SAPERE A MEMORIA
La musica polifonica che ci è pervenuta con la scrittura dei neumi, come anche la musica
gregoriana, è scritta in una notazione che di per sé non ha alcun signi ficato ritmico. Era però
impossibile con l'aumento delle voci che non si misurassero i ritmi, e che non ci fossero rapporti di
durata tra di loro. Per questo fin dal periodo dell'ars antiqua c'era l'uso di misurare i rapporti di
durata tra i vari suoni (nella polifonia) e di dare perciò anche una LETTURA RITMICA. Inoltre
molti studiosi affermano che la ritmica usata nella prima polifonia si dovesse estendere anche alla
letteratura monodica dell'epoca.
Questa ritmica si rifaceva ai PIEDI dei greci, contemplava la LONGA e la BREVIS, che si
alternavano nel brano secondo schemi ripetitivi uguali a quelli dei greci. Questi schemi erano
chiamati MODI RITMICI, ed erano 6:
primo modo, il TROCAICO (1 lunga e una breve);
il GIAMBICO (1 breve e una lunga);
DATTILICO (1 lunga, 2 brevi);
ANAPESTICO (2 brevi, 1 lunga);
SPONDAICO (2 lunghe);
TRIBRACHICO (3 brevi).
Questi modi, però, rispetto ai piedi greci, non potevano essere sia binari che ternari. Qui, per varie
ragioni soprattutto extramusicali, si preferisce sempre una lettura ternaria: quindi, ad esempio per il
DATTILICO, si faceva valere la lunga come 3 brevi e una delle due brevi come il doppio dell'altra,
oppure per il DATTILICO la lunga vale 3 brevi e le due brevi si dividono ognuna in 3.Si
riconducono tutti gli schemi ad uno schema ternario.
Solo più avanti si distingueranno anche i valori tra le note. Per ora c'erano solo i neumi, che
potevano essere semplici o composti, ma la scrittura non dava niente dei ritmi, si dava solo una
LETTURA ritmica in fase di esecuzione. Molto usato era il modo trocaico. Questa dei modi era
quindi un'usanza mentale, che non trovava corrispondenza scritta.
Francone di Colonia, con il suo trattato Ars cantus mensurabilis, intorno al XIII secolo teorizzò
delle regole di scrittura ritmica, seguendo però i modi ritmici. Inoltre egli propose una sua ritmica
più complessa, che contempla più valori al di là della longa e della brevis: con lui si aggiungono
una MAXIMA (multiplo della longa) e una SEMIBREVIS (sottomultiplo della brevis), che
avevano anche una differente gra fia tra loro (questa nuova notazione verrà chiamata NOTAZIONE
FRANCONIANA).
Per Francone ciascuno di questi valori può avere una suddivisione binaria o ternaria: la longa può
dividersi in due e tre breves, e così discorrendo per tutti i valori. I valori venivano chiamati
PERFETTI se con suddivisione ternaria, o IMPERFETTI altrimenti.
Si preferiva quindi la suddivisione ternaria. Se si voleva indicare un cambio di ritmo durante un
brano si cambiava il COLORE delle note (ad esempio prima nero, poi rosso). Questa scrittura verrà
poi modi ficata da altri autori, e da questa con il passare del tempo si svilupperà la notazione che noi
comunemente usiamo oggi.
L'ARS NOVA
Il termine deriva da un trattato di Philippe de Vitry, filosofo dell'epoca, chiamato “Ars nova
musicae”, per designare questa nuova fase della polifonia, in contrapposizione all'ars antiqua;
siamo intorno al 1320 (data convenzionale), in cui vi sono molti cambiamenti rispetto all'ars
antiqua. Questa fase si sviluppa soprattutto in Francia, Italia e Inghilterra, anche se in Inghilterra
essa è più collegata all'ars antiqua.
Alcuni libri adottano il termine ars nova solo per la Francia, per via di Philippe, e parlano invece di
“300 italiano” per de finire questo periodo musicale in Italia. Nel 1300 vediamo molte forme di
rinnovamento: alcune molto generali, come una fortuna crescente per la musica profana rispetto a
quella sacra. La musica sacra aveva già dominato tutto il periodo precedente, così durante il '300 il
senso del trascendente viene superato e fiorisce sempre di più la poesia profana, in Italia in
particolare. Parallelamente, anche la poesia per musica si evolve in questo verso.
I musicisti dell'epoca sono quindi portati a musicare componimenti di autori a loro contemporanei, e
si assiste sempre di più all'avanzata della letteratura profana. Verrà musicato molto Petrarca (meno
Dante, ancora troppo trascendente).
Si svilupparono anche nuove strutture musicali adeguate a questi testi poetici, e sempre più si fa
strada l'idea di un rapporto di espressione che leghi il testo alla musica. Quella tecnica un po' arida,
tipica dell'ars antiqua, che invece faceva perno sull'ars combinatoria, tende a tramontare, dando
così piena voce all'espressività del testo; sono ovviamente più i testi profani ad ispirare i musicisti.
Espressione vuol dire anche sviluppo delle melodie: melodie più cantabili, più ricche ed articolate,
che a loro volta condizionano le armonie. In questo periodo non esiste ancora una vera scienza
armonica, però l'armonia ovviamente esiste già, dato che esiste la polifonia. Gli accordi erano
generati casualmente nell'incontro tra le varie voci, le quali si sviluppavano in orizzontale, non in
verticale. Si tentava di evitare la dissonanza, anche se lo stesso concetto di dissonanza varia nel
tempo, come fu per le terze e le seste inglesi. Più le melodie si fanno articolate e più si dovevano
evolvere anche le armonie, senza però teorizzare nulla.
Si approfondisce anche il senso delle cadenze: anziché avere una musica “indeterminata” tipica del
gregoriano, il discorso si articola per frasi, ciascuna delle quali ha una sua cadenza. Certi periodi
musicali terminano in determinati modi, e vi sono alcune cadenze preferite ad altre: in Francia si
amavano le cadenze “di doppia sensibile”, dove, ad esempio in un brano a 3 voci, con voci RE-
FA#-SI, l'accordo successivo diventava DO-SOL-DO, quindi con una doppia risoluzione. In Italia
invece si usava la “cadenza di Landino” perché appunto la si fa risalire ad un grande compositore
del 300 italiano: Francesco Landino, fiorentino. Questa cadenza è intesa come il passaggio della
voce superiore di una composizione polifonica dal 6° grado alla tonica (cadenza poi molto
utilizzata).
Cambia anche il RITMO: i tempi binari vengono sempre più sfruttati, distaccandosi dal tre come
numero perfetto; questo accade soprattutto perché il ritmo binario è più agile e leggero di quello
ternario. Nel frattempo vengono anche aggiunti nuovi valori più brevi: verrà aggiunta la MINIMA
e, successivamente, la SEMIMINIMA (musica quindi più rapida e fiorita). Si continua però a
de finire perfetti i tempi ternari e imperfetti quelli binari.
'300 ITALIANO
La musica caratteristica del Trecento italiano era tendenzialmente profana, praticata nelle varie
corti; a partire dal nord con i Visconti, gli Scaligeri ma soprattutto a Firenze, fioriscono i CODICI,
documenti che contengono soprattutto musiche profane.
Il più noto è il CODICE SQUARCIALUPI (dal nome di Antonio Squarcialupi, organista, che
raccolse musiche del 1300, oggi il suo codice è trascritto anche in notazione moderna). Vi sono
anche molti altri codici, ossia raccolte di canti, e studiandoli si vede come le forme italiane più usate
al tempo fossero MADRIGALI, BALLATE e CACCE.
Normalmente questi componimenti erano a 3 voci (con quella del tenor più suonata che cantata),
con un gusto melodico e una ritmica di solito binaria, brani agili e cantabili; la forma più antica
sembra essere IL MADRIGALE:
etimologia della parola incerta (una è da mandra, mandrialis, con l'allusione all'ambientazione, più
idillico-pastorale; un'altra è da materialis, composizione di argomento materiale, non trascendente;
un'altra è da matrix, “lingua materna”, composizione quindi non in latino ma nella lingua parlata;
un'altra ancora è da a-matricalis, composizione quindi di argomento AMOROSO in una cornice
agreste).
Quale che fosse l'etimologia, i testi parlavano di un amore che si sviluppa in un'ambientazione
pastorale: una caratteristica del madrigale era di essere un componimento STROFICO:
solitamente due terzine più un distico finale, e i versi erano o endecasillabi o settenari. Qualche
volta si trova una sola terzina e un distico, ma in questi casi si pensa che ne sia andata persa una.
Altre volte questo distico aveva un verso solo che si ripeteva due volte.
A questo schema poetico corrispondeva uno schema musicale del tipo A-A-B: le melodie per le
terzine erano le stesse, e si aveva una melodia diversa per il distico. Brani a 2/3 voci, con la voce
superiore più melodica, che spesso effettua un vocalizzo ampio sulla prima e sull'ultima sillaba; il
tenor invece era normalmente strumentale.
La CACCIA è una forma af fine al madrigale, ma tratta di argomenti di caccia, di pesca, di mercato,
scene di folla e movimento, con forme di dialogo tra le voci. Per rendere musicalmente dal punto di
vista onomatopeico questo movimento si usava la tecnica contrappuntistica dell'IMITAZIONE,
che oggi chiamiamo canone. Il tenor aveva invece note lunghe.
La forma più raf finata ed elegante del periodo era la BALLATA, che, nonostante il nome, tende a
perdere il legame con la danza, e può trattare vari argomenti, anche di carattere filoso fico. Essa è
anche la forma più melodica tra le tre, ed ha un suo particolare schema poetico-musicale:
c'è un primo gruppo di versi che prende il nome di RIPRESA,
poi un altro gruppo con metrica differente che si chiama PIEDE PRIMO,
poi un gruppo di versi af fine al gruppo precedente, chiamato PIEDE SECONDO,
poi un gruppo simile alla ripresa che si chiama VOLTA, e che mette in comunicazione i piedi con la
ripresa, uguale a quella iniziale.
Schema quindi: A-B-B-A-A.
I testi poetici vengono presi dalla grande letteratura toscana del 1300: Petrarca, Boccaccio, Franco
Sacchetti, Niccolò Soldanieri e altri. Gli autori delle musiche invece erano citati con un nome di
battesimo e la città di provenienza, quasi tutti da Firenze: Lorenzo da Firenze, Giovanni da Firenze
e altri. Francesco Landino, detto anche “il cieco”, era un grande compositore di quest'epoca,
insieme a Niccolò da Perugia, Jacopo da Bologna.
In questi componimenti alcune voci erano eseguite, o raddoppiate, da strumenti, essendo musica
profana.
Gli strumenti più usati erano l'organo nella musica sacra, che poteva essere di due tipi: -
PORTATIVO (trasportabile), che si teneva sulle ginocchia e si suonava con una mano mentre con
l'altra si azionava il mantice per far entrare l'aria nelle canne, e -l'altro era l'organo POSITIVO,
perché si posava, non aveva la pedaliera ma un buon numero di canne, si suonava con due mani
e ci voleva un'altra persona per azionare il mantice; c'erano anche organi che si potevano
tenere in casa.
Spesso si usavano anche strumenti a corda, tipo il SALTERIO (da cui deriverà il
CLAVICEMBALO), poi c'è la VIELLA, strumento ad arco simile alla viola. Ci sono anche altre
varianti degli strumenti ad arco, come la RIBECA, la GIGA o la CROTTA. Ci potevano essere
anche strumenti a fiato, come i flauti o, nelle musiche più solenni, strumenti af fini alla tromba,
oppure il CORNETTO.
Ascoltiamo brani tratti dal codice Squarcialupi: il madrigale “Felice fu”, la ballata di Landino
(“Nessun ponga speranza”), Madrigale di Giovanni da Cascia, “Nascosto il viso stava”, (detto anche
il madrigale del guardone), una Pesca (simile alla Caccia), Ballata “Il mio dolce sopir” di Landino,
Caccia di Gherardello da Firenze “Tosco dell'alba”, Ballata di Landino “Gran pianto agli occhi”.
2-2-2016
EVOLUZIONE DELLA CIVILTA' POLIFONICA
Capitolo decimo: la scuola fiamminga
Dove si evolve la polifonia nel periodo dell'Umanesimo? Questo è il periodo del '400-'500, e il
termine Umanesimo deriva da Humanae Litterae, ossia dalla riscoperta della letteratura degli
antichi Greci e Romani e di tutta l'arte di quel mondo.
Abbiamo la riscoperta dei valori estetici del mondo greco-latino e dei valori terreni, non ispirati alla
trascendenza come nel medioevo.
Da qui parte poi quello che si chiamerà il Rinascimento, prettamente italiano.
L'Umanesimo però non fiorisce tanto in Italia: in Italia c'erano stati tumulti, la questione della
cattività avignonese del papato, e anche la Francia si impoverisce con la guerra dei Cent'anni. Una
zona relativamente tranquilla in cui le arti possono fiorire è la zona del Ducato di Borgogna e delle
Fiandre, che erano anch'esse legate al Ducato. È una zona un po' appartata, dove nel '400 si riesce
ad avere una floridezza economica, artistica e soprattutto musicale, ma anche culturale, molto
grande.
Soprattutto all'epoca di alcuni duchi, Filippo il Buono o Carlo il Temerario, si sviluppa la Scuola
Borgognona. L'Italia e la Francia avevano già dato il meglio di sé nel periodo dell'ars nova, quindi
adesso il polo di sviluppo si sposta per un po' nel nord Europa.
Di seguito alla scuola borgognona si sviluppa anche una scuola FIAMMINGA, legata al territorio
delle Fiandre, dove parallelamente alla musica si sviluppa anche la pittura.
In musica si parla di SCUOLA FIAMMINGO-BORGOGNONA, anche se i due termini
cronologicamente andrebbero invertiti. Qui si sviluppano degli importanti centri di produzione ed
esecuzione musicale che sono le CAPPELLE MUSICALI, dove si formano i professionisti della
musica.
In queste cappelle si entra da piccoli come FANCIULLI CANTORI e si fa un lungo apprendistato
per diventare CANTORI ADULTI. Alcuni musicisti in fine diventavano anche MAESTRI DI
CAPPELLA: dirigevano la cappella, insegnavano, componevano e ammaestravano la cappella.
In questo periodo nelle cappelle si pratica il CONTRAPPUNTO, e si raggiunge in questo campo
l'eccellenza sul piano tecnico: si aumenta il numero delle voci, si elaborano molto gli intrecci di
queste voci (in entrambi i modi del CONTRAPPUNTO LIBERO e del CONTRAPPUNTO
IMITATO, basato sulla tecnica del canone). Il contrappunto dei Fiamminghi dà luogo a
composizioni ricche e sfarzose, sia nella musica sacra che in quella profana; le cerimonie religiose
sono un qualcosa di grandioso e nella musica sacra entrano anche gli strumenti dell'epoca, non solo
l'organo. Essa diventa quindi una musica strumentale e vocale.
Gli autori di questa scuola usano una notazione che dalla metà del '400 si chiamerà NOTAZIONE
MENSURALE BIANCA, perché è la notazione di Philippe de Vitry, solo che i valori più lunghi,
dalla minima in su, sono BIANCHI, dealbatae, “note imbiancate”.
C'erano anche tre note NERE: la semiminima, la fusa e la semifusa (che corrispondono alla nostra
semiminima, alla croma e alla semicroma). La tendenza è quindi quella di aggiungere valori sempre
più brevi, abbandonando pian piano i valori più grandi.
Da questo periodo si afferma anche la tendenza a ridurre i valori tagliando anche il tempo (ad
esempio la ) .
La tecnica più usata è quindi quella del contrappunto, che si impone per tutto il '400 e il '500. Si
sviluppano varie forme di contrappunto, tra cui il CANONE, e il canone a sua volta è suddiviso in
diversi tipi:
il canone “normale” (come lo intendiamo noi) si chiamava FUGA (classica imitazione
di una voce);
il canone MENSURALE, in cui c'era una imitazione melodica ma non ritmica, e le
diverse voci eseguivano la melodia della prima ciascuna con un suo ritmo;
c'erano tutta una serie di canoni detti ENIGMATICI: si scriveva la prima voce,
chiamata DUX (la voce guida), e per capire come si doveva fare la seconda voce, chiamata anche
COMES o conseguente, bisognava risolvere un enigma, un indovinello; risolvendo l'enigma si capiva
la regola.
vedi a pag 95 bene
C'era quindi una frase in lingua latina e bisognava capire che cosa volesse dire la frase per capire la
regola da usare e poter suonare il canone. Per esempio: otia dant vitia (la seconda voce deve
eseguire l'imitazione dell'antecedente evitando però le pause, dato che l'ozio dà i vizi). Oppure “Ciò
che è trino è perfetto” (da una voce bisognava svilupparne due, per avere un canone a tre voci).
Bach riprenderà questi motti in molte delle sue fughe, tutti questi fiamminghismi;
anche a scuola dodecafonica riprenderà questi motti, con le serie.
C'erano sostanzialmente tre forme musicali all'epoca, che contengono vari tipi di canone:
-la CHANSON (termine molto generico, può accogliere ancora strutture di trovatori e
trovieri, come i lai e virelai); la più semplice,usata nella musica profana,in genere a 3 voci
:il tenor(grave, note lughe), un contratenor (seconda voce) e un cantus; testo in lingua d’oil
-la MESSA, forma sacra per eccellenza;
- il MOTTETTO, che può essere sacro o profano, ma che pian piano diventerà una
forma esclusivamente sacra, utilizzando man mano sempre di più la lingua latina.
Solitamente 4 voci o più, si articolava in episodi, ciascuno dei quali descriveva un po’ il
signi ficato del testo con le note
LA CHANSON
Ha una struttura che non è ben de finita: può comprendere varie forme e può essere in varie lingue
(ci sono le chansons in lingua francese, ma anche CANZONI in lingua italiana, scritte da autori che
venivano in Italia, dato che molti fiamminghi fanno viaggi in Italia, considerata la patria della
melodia; vi saranno anche canzoni in lingue nordiche, come l'olandese). Nelle chansons spetta
prevalenza alla voce superiore, che ha la melodia, mentre le altre voci possono anche non essere
cantate, ma eseguite da strumenti.
Le tre voci diventano cantus, contratenor e tenor. A volte vi sono anche delle ambiguità
nell'esecuzione di questi brani: queste composizioni ci sono pervenute in numero elevato, in vari
codici, ma negli originali qualche volta in queste canzoni si trovano le parole per esteso solo sotto la
prima voce, mentre sotto le altre due si trovano soltanto le prime parole e poi più nulla, creando
dubbi sull'esecuzione.
LA MESSA
E’ forma sacra per eccellenza; abbiamo visto la messa nascere con la messa di Notre Dame a 4 voci
che adoperava l’ isoritmia,poi con la messa fiammingo borgognona inizialmente a 3 voci, con una
leggera preminenza melodica della voce superiore (si chiama messa cantilena).
Presto si passa alla messa su tenor a 4 voci, sempre con la struttura classica della messa. Le 4 voci
sono ( dall’ acuto al grave) : cantus o superius, contratenor altus ,tenor,contratenur secondus o
contratenor bassus o anche bassus
Il tenor ( voce che tiene la melodia gregoriana pre-esistente, tratta dal repertorio gregoriano, ma
anche dal repertorio profano a volte, dà il titolo alla messa) non è più la voce più grave, ripete
sempre il motivo ricavato dal gregoriano e dà un elemento uni ficante a tutta la
composizione;procede a valori larghi, come pilastri intorno ai quali si crea il contrappunto, si parla
di tecnica del cantus firmus.
Le parole sono quindi tratte dal gregoriano, tuttavia la messa poteva anche avere un titolo profano
se il tema del tenor era profano.A volte la canzone profana era talmente licenziosa da non volerla
nominare: appaiono le messe senza nome (sine nomine).Poteva anche essere usata (raramente) nel
caso in cui il compositore inventasse la melodia del tenor.
Qualcuno la chiama anche messa ciclica: per l’ eterno ritorno dello stesso tema; alcuni autori
chiamano messa ciclica anche una messa leggermente diversa: la melodia del tenor inizia a
in fluenzare anche le altre voci, in particolare accedeva che la melodia del tenor in fluisse sulla voce
superiore e che spesso questa avesse un motto,dedotto dal tenor, all’ inizio di ogni parte e che era
quindi molto riconoscibile.
Distinguiamo quindi:
-Messa parafrasi: tutte le voci fanno una sorta di parafrasi della melodia del tema: la
melodia era divisa in frammenti, ognuno dei quali veniva imitato dalla altre voci
-Messa parodia: il compositore non si limita a prendere una melodia e a utilizzarla nel tenor
e in imitazione nelle altre voci, ma prende come base una composizione già polifonica ( di
solito propria) e riutilizza nella messa tutte le voci di questa composizione polifonica, in
maniera letterale oppure più libera, come un riciclaggio di materiale polifonico già composto
, si dice di fare la parodia ( non satira o presa in giro), cioè riutilizzazione
Anche Bach utilizzerà questa tecnica, autocitandosi varie volte e prenderà addirittura il titolo
dalla composizione polifonica a cui si rifà,come opere di Palestrina
È l’ ultimo tipo di messa utilizzato dai fiamminghi.
GUILLAUME DUFAY
Nasce intorno al 1400, muore nel ‘74, inizia come fanciullo cantore, poi compie un viaggio in italia;
fu al servizio di vari signori italiani, tra cui i Savoia a Torino, e cantore ponti ficio a Roma.Verso
metà del secolo si ritira e diventa canonico.
Personalità di rilievo: fonde il tecnicismo contrappuntistico tipico delle sue terre con la melodia
italiana e con molto in fluenze dell’ ars nova inglese, con la predilezione per gli accordi di terza-
sesta.
Scrive nei 3 generi: messa, mottetti, chanson
Sentiamo una chanson “Vergine bella”, musicata a 3 voci, molto melodica, che si apre con una
formula in imitazione tra le 3 voci, poi si passa ad un contrappunto libero.
Ri flette l’ idea di una supplica: alcuni descrittivismi (dipingere con le note il senso del testo)
Ascoltiamo “Gloria ad modum tube”, “Gloria al modo della tuba”. Può essere considerato un
mottetto, ma in realtà è un Gloria di una Messa, anche se staccato da qualsiasi contesto sacro. È un
pezzo a 4 voci: due voci superiori che eseguono un canone, mentre le due voci inferiori sono due
tube, collocate alle parti opposte della chiesa per creare un effetto stereofonico. Le tube si alternano
ad accompagnare il dialogo delle due voci superiori. È caratteristica la parte delle tube, perché si
basa sulle note della triade che per noi è di Do maggiore. Questi autori usavano sempre i modi
gregoriani, ma nella pratica musicale adoperavano delle scale che già preludono alla TONALITA'.
Essa però ha un'affermazione molto lenta e graduale, prima nella pratica musicale e poi nella teoria.
Queste due tube eseguono dapprima la tonica e poi la quinta: presentano un ostinato ritmico e si
alternano l'una con l'altra. Poi pian piano nel brano si inserisce anche la terza. Verso la fine del
brano esse si accavallano e si intrecciano.
Ascoltiamo anche il mottetto di Dufay “Ave regina coelorum”, mottetto a 4 voci su un'antifona
mariana in lode alla Madonna. Questo mottetto fu scritto nel 1463, ed è nello stile cosiddetto
TROPATO: non contiene solo il testo dell'antifona, bensì i versetti dell'antifona si alternano con
dei versi latini di invenzione del musicista, che invoca la vergine per sé nell'ora della morte, citando
anche il proprio nome in vari punti. Mottetto quindi POLITESTUALE, ma non bilingue. Ha una
caratteristica: sentiamo anche qui una tonalità di Do maggiore, ma c'è un punto particolare in cui il
tenor tace e le voci si muovono con alterazioni che a noi ricordano il Do minore, come il Mibemolle
e il Labemolle. Da qui si deduce che i modi maggiore e minore vengono già accomunati a
sentimenti differenti: se si vuole lodare la regalità della vergine si mette il modo maggiore, mentre
quando la si supplica il modo diventa minore. È espressamente indicato dall'autore di non addurre
un accompagnamento strumentale al brano di sole voci, che doveva essere eseguito sul punto della
sua morte.
Dopo una giovanile Missa sine nomine a tre voci, messa CANTILENA (ossia in cui la voce
superiore acquista un ruolo preminente nel canto del testo sacro), Dufay si cimenta nel genere della
Messa con la Missa caput, la cui parola caput era la prima parola della messa. L'antifona è associata
alla linea del tenor, ed è un'antifona prettamente inglese, la cui tradizione non prevedeva di
musicare il Kirye. Tale canto viene aggiunto da Dufay stesso 20 anni dopo, con uno stile degli anni
'40 del 1400, essendo il Kirye stato scritto negli anni '60. Le caratteristiche di questa messa erano il
fatto di seguire il sistema MODALE, senza anticipi di tonalità; era in contrappunto LIBERO e con
un regime pressoché costante di 4 voci che cantano sempre insieme, quindi con una certa
pesantezza.
Da questo punto in poi, Dufay parte all'elaborazione delle sue Messe su tenor, con la melodia
esclusivamente su tale voce; prenderà melodie sacre e profane, come una canzone d'amore. Scriverà
una Missa l'homme armé su tenor profano, mentre la Messa più importante di questo periodo è la
sua Messa del 1464 intitolata Missa Ave Regina Coelorum, che prende come tenor la stessa linea
melodica che egli ha utilizzato nel mottetto omonimo, scritto un anno prima. Questa Messa ha molti
motivi di interesse e rappresenta un cambiamento notevole del linguaggio rispetto alle altre sue
messe precedenti e al suo stesso mottetto. C'è un interesse formale di questa Messa, che egli tiene in
piedi attraverso tre forme teoriche diverse. È una Messa su tenor, ma si vede che egli ha in fluenzato
la voce superiore, la quale all'inizio di ogni sezione mostra un incipit sempre uguale dedotto dal
tenor, conferendo unità alla Messa (non è però una Messa CICLICA). Questa Messa ci dà l'idea del
Do maggiore, ma c'è un punto, nell'Agnus Dei, dove Dufay cita l'episodio in minore del mottetto
che abbiamo ascoltato, e precisamente era il punto in cui Dufay invocava pietà. Nella seconda
invocazione dell'Agnus Dei, sulla parola miserere, Dufay si autocita. Per questo ricalco questa
Messa può essere considerata un primo esempio di Missa parodia, ossia messa che cita il lavoro
svolto su un'opera antecedente.
Il Do maggiore è sottolineato da due grandi cadenze perfette alla fine del Gloria e del Credo. Vi
sono altri punti, ad esempio nel Kyrie, in cui egli fa cose curiose, molto tonali. Dufay da un lato
innova e dall'altro guarda alla tradizione, ad esempio inserisce alcune cadenze in cui mette
nell'accordo conclusivo il terzo grado maggiore, e altre in cui mette il terzo grado che con un
arabesco solitario passa al 5°, per poi concludere con l'accordo vuoto, come prevedeva la tradizione.
Altro motivo di interesse è il fatto che non si procede sempre con 4 voci, ma Dufay ha imparato a
differenziare le voci di volta in volta. Egli apprezza combinazioni timbriche diverse, crea contrasti
tra le combinazioni possibili, crea uno stile più variato, e nei passi a 2 voci ci sono estese frasi in
IMITAZIONE, con molto uso del contrappunto imitato; lui stesso, in alcuni punti, offre anche più
opzioni di esecuzione. Un'altra caratteristica di Dufay e della sua epoca è il DESCRITTIVISMO:
si fanno delle “pitture sonore” per raf figurare il signi ficato di alcune parole chiave. Nel Credo ad
esempio, nella frase “et ascendit in coelum”, le voci sono tutte ascendenti. Tale descrittivismo
crescerà nei secoli a venire.
Schema musicale A-B-A, C-D-C, E-F-G nel Kyrie, in corrispondenza delle parole “Signore pietà,
Cristo pietà, Signore pietà”. Nel Gloria è interessante il finale, in cui vi sono due passi in duo (due
voci) e in fine la cadenza perfetta. Il Credo ha un testo molto lungo, quindi fa meno vocalizzi sulle
sillabe, utilizzando però il descrittivismo. Il finale senza strumenti è molto più bello rispetto ad un
finale con gli strumenti: in questo modo Dufay dà di più un senso di dolcezza alle parole “Dona
nobis pacem”. Nella versione registrata che ascoltiamo ci si ricollega ad un inno conclusivo che non
ha scritto Dufay.
SCUOLA FIAMMINGA
Una generazione dopo Dufay incomincia la Scuola Fiamminga propriamente detta. Autori quindi
delle Fiandre; il primo importante è Johannes Ockeghem (1420 – 1495). Forse allievo di Benjois,
fu molto attivo nella Cappella musicale della Corte francese sotto vari regnanti e fu considerato
come il più arti ficioso degli autori fiamminghi. Egli complica molto il contrappunto imitato, e si
citava sempre a questo proposito un suo Deo gratias a 36 voci, divise però in 4 gruppi da 9 voci.
Più recentemente si è posto invece l'accento sull'espressività di Ockeghem, e si è capito che il più
arti ficioso è in realtà uno dei suoi allievi, Jacob Obrecht (nato negli anni '50). Ockeghem è
considerato un grande maestro da molti autori a lui successivi, e tutti si ricollegano a lui sia dal
punto di vista tecnico che espressivo. È noto soprattutto per le Messe che a volte, con i titoli,
alludono a questi arti fici e giochi sonori che sono una sua caratteristica.
Citiamo ad esempio la Missa cuiusvis, oppure la Missa prolationum, che richiama Philippe de
Vitry; oppure la Missa mi-mi, basato sulla ricorrenza dell'intervallo discendente Mi-La, ma
pensando a Guido d'Arezzo il La poteva riprendere il nome di Mi(solmisazione). Altre messe hanno
titoli più normali.
Di lui si ricorda anche una Messa da Requiem, la prima polifonica che ci sia pervenuta: si chiama
Missa pro defunctis, e la sua forma, che comprende alcuni brani dell'ordinarium e alcuni del
proprium adatti al tema dei defunti, fu poi condi ficata nel '500 durante il Concilio di Trento. La
messa da Requiem sarà quindi formata da:
• un Introito, sulle parole “L'eterno riposo dona loro Signore”;
• poi c'è il Kyrie, non c'è il Gloria;
• si passa ad un Graduale con testo adeguato;
• un Tractus, con testo ispirato alla morte dei defunti, non c'è Alleluja;
• ci sarà poi la sequenza Dies Irae, che diventerà il pezzo più
drammatico di tutte le messe da Requiem; non c'era il Credo;
• si cantava il Sanctus, con il Benedictus;
• Agnus Dei;
• Communio.
Questa è la struttura tipica del Requiem dal '500 in avanti, ma con Ockeghem non c'è ancora questa
struttura, ve ne era invece un'altra:
• Introito;
• Kyrie;
• Graduale;
• un Tractus, basato sull'idea della sete che l'anima ha di Dio;
• un Offertorium, invocazione a Cristo af finché liberi le anime di tutti i
fedeli defunti dal Demonio.
La Missa pro defunctis è basata su melodie gregoriane legate al tema dei defunti, ed è una delle
opere più espressive dell'autore. C'è idea del pathos, della malinconia e della tristezza per il lutto e
l'addio al defunto. È più vicino al gregoriano rispetto a Dufay.
Ascoltiamo il Tractus e l'Offertorio della Missa pro defunctis di Ockeghem. Nell'Offertorio c'è
l'invocazione a Cristo af finché redima le anime dei defunti.
16/2/2016
ALTRI FIAMMINGHI
Jacob Obrecht
Nascono intorno alla metà del secolo,Obrecht visse e morì a Ferrrara, è considerato più arti ficioso
come intreccio di voci e il più nordico come mentalità
Scrisse canzoni in lingua olandese, fu in rapporto con Erasmo da Rotterdam
Josquin Despres
Il fatto che si scrivesse con diverse gra fie indica che fosse piuttosto conosciuto
Venne molto giovane in Italia a Milano, cantore nella cappella del Duomo, fu al servizio degli
Sforza ( Giangaleazzo e poi Ascanio), a Roma e in fine a Ferrara, a servizio del cardinale Ercole
D’Este .contribuì a fare di Ferrara un centro polifonico importante, caratteristica che manterrà anche
nel 500
Alla fine della sua vita si trasferì nel Nord in Francia, dove morì
Celebrato per l’ espressività della sua musica rispetto ai predecessori, che raggiungeva mettendo in
connessione abbastanza stretta musica e testo e giocando con i vari gruppi di voci alternate, gioca
sulla timbrica, collegandole al signi ficato delle parole.
Usa il principio dell’ imitazione tra le voci, non tanto come tecnica gratuita di combinazione di
note, quanto come effetto espressivo o comunque descrittivo di qualche parola chiave del testo
Come generi, continua con la canzone, mottetti e messe; messe su tenor sia sacro sia profano, scrive
2 messe sulla melodia dell’ hom armè.
A volte la melodia del tenor non veniva più presa da un repertorio pre esistente, ma veniva inventata
apposta, ma spesso si ricavavano le melodie delle note da alcune parole, usando la notazione
alfabetica
Messa per Ercole duca d’Este , trova “re ut re ut re fa mi re” per assonanza
C'è anche la messa la-sol-fa-re-mi, che deriva dall'italiano “Lassa fare a mi”,tipico modo di dire
italiano
Ascoltiamo una Messa di Despres, la Missa l'hom armé (sexti toni) nel 6° modo gregoriano; si
pensa che sia degli anni '80, o fine anni '90 del XVI secolo. È una messa con valori più brevi e con
andamento molto più veloce e sciolto rispetto alle messe dei due fiamminghi precedenti, nonostante
tutti gli arti fici contrappuntistici usati. Le parti più contrappuntistiche compaiono nel Kyrie e
nell'Agnus Dei, parti che una volta erano più melismatiche (quando erano in monodia). Il Gloria e il
Credo invece, che erano meno melismatiche, in polifonia diventeranno un po' meno
contrappuntistiche e più omoritmiche. Il contrappunto è comunque ricco nell'Agnus Dei, dove si
utilizzano tutti gli arti fici del canone: canone a ritroso, inversione, voci ascendenti contrapposte a
voci discendenti...
Si creano anche degli effetti spaziali, e comincia ad esserci una musica di sfondo legata ai luoghi in
cui veniva eseguita. Quel senso di fissità precedente comincia a spezzarsi: si differenziano voci
gravi ed acute, effetti stereofonici, tutti elementi che troveranno sviluppo poi in Italia.
ALTRI AUTORI
Altri autori attivi del periodo fiammingo sono attivi anche fuori dalla madrepatria, soprattutto in
Italia, attratti dal mecenatismo che i potenti italiani dimostravano. Einrich Isaac fu uno di questi:
visse a Firenze per molto tempo come successore dell'organista Squarcialupi e fu collaboratore
musicale di Lorenzo il Magni fico. Era chiamato anche Arrigo Tedesco.
Ricordiamo anche altri allievi di Ockeghem, come il maestro di cappella a Ferrara Antoine Brumel,
Pier de la Rue, Alexander Agricola, e nel XVI secolo il soggiorno italiano diventò elemento
comune delle biogra fie dei fiamminghi. A volte addirittura essi non facevano più ritorno in patria.
Tra questi autori si ricorda Adriano Willaert, vissuto nel 1500, che si considera essere il fondatore
della Scuola Polifonica Veneziana. Egli divenne maestro di cappella a Venezia, e gli sono attribuite
varie invenzioni, come l'uso del DOPPIO CORO; i due cori si collocavano al fianco dei due
organi della Basilica di San Marco. Tra gli altri fiamminghi vicini a Willaert, anche per lo stile,
ricordiamo Cipriano De Rore e altri. Ad un certo momento però i caratteri tipici della scuola
fiamminga si perdono, e lo stile di ciascun autore si amalgama con il tipo di musica in uso nella città
in cui va a vivere.
Prima della sparizione della scuola fiamminga ricordiamo Orlando di Lasso, grande personalità,
nato intorno al 1530 e morto nel 1594. Egli è esattamente contemporaneo dell'italiano Palestrina
(sono morti nello stesso anno). Spesso si contrappongono questi due musicisti, e si accostano ad
un'altra coppia: Bach e Handel. Vi sono analogie tra le due coppie, soprattutto nell'atteggiamento
religioso, che determina in parte lo stile musicale degli autori. Palestrina vivrà a Roma per anni,
trattando quindi la musica sacra in un senso molto equilibrato e sereno, mentre Di Lasso ebbe una
vita molto più movimentata e avventurosa: fu un grande viaggiatore e si appropriò di molti stili e
tecniche diverse, sia in ambito sacro che profano. Orlando Di Lasso si dedicherà molto alla musica
profana, tranne nell'ultima parte della sua vita, dopo aver compiuto un pellegrinaggio a Loreto. Da
qui in poi, invece, il suo atteggiamento spirituale è molto più tormentato e rotante attorno al senso
del male e del peccato, e al senso della penitenza. Qui si trovano corrispondenze con la coppia
Bach-Handel: Bach rimarrà sempre in Germania come Palestrina, mentre Handel viaggerà molto
come Di Lasso. In questi ultimi due si vedono molto le in fluenze dei vari stili appartenenti ai vari
paesi visitati.
Orlando di Lasso comincia anche lui come fanciullo cantore in una cappella fiamminga, ma a soli
12 anni entra già nella Cappella di Ferrante I Gonzaga, viceré di Carlo V in Sicilia, e lo segue in
varie città in Italia e all'estero. Negli anni '50 fu a Roma, maestro di cappella in San Giovanni in
Laterano, poi si trasferì ad Anversa, e poi passò al servizio di Alberto V duca di Baviera,
stabilendosi con lui a Monaco di Baviera, dove rimase fino alla morte. Qui fu cantore, maestro di
cappella e collaboratore di Alberto, il quale voleva portare nel suo stato una moralizzazione dei
costumi. Egli trovò in Orlando un grande collaboratore, dato che l'autore stava attraversando la crisi
della puri ficazione della sua anima, dopo il pellegrinaggio a Loreto.
Di Lasso compose molte opere in quasi tutti i generi allora conosciuti: mottetti e messe per la
musica sacra, canzoni e altri generi per la musica profana.
In particolare egli compose anche dei madrigali, che avevano avuto una pausa nel 1400 e che
adesso stavano rinascendo, anche se non più nella forma stro fica antica bensì in forma libera.
Orlando, con grande gusto, sceglie componimenti letterari da musicare molto gradevoli, scritti da
grandi autori della letteratura italiana rinascimentale e anche da qualcuno del periodo Barocco,
come Tasso.
Accanto al madrigale italiano, Orlando tratta la canzonetta più leggera, sempre di stile italiano
(ricordiamo Matona mia cara), e scrisse anche canzoni su testi tedeschi (chiamate lieder). Scriverà
brani di materia SPIRITUALE (che non vuol dire sacra), e si dedicò anche alla messa e al mottetto.
Dopo la visita a Loreto Orlando scrisse i Salmi penitenziali di Davide, e poi in questo spirito sarà
scritta anche la sua ultima opera: Le lacrime di San Pietro, una collana di 20 madrigali spirituali
italiani. Essa è conclusa da un mottetto in latino in cui si racconta l'episodio di Pietro che, quando
Cristo viene arrestato, viene riconosciuto come uno dei suoi seguaci ma per paura rinnega Gesù, e
successivamente si pente e piange amaramente, dopo aver visto l'ultimo sguardo a lui rivolto da
Cristo.
È un'opera che non ha scritto su commissione, e la dedicherà al Papa. Questa sua opera finale
raccoglie un po' tutto il male che l'uomo può commettere, e si slega dal singolo personaggio di
Pietro.
Dal punto di vista musicale Di Lasso raccoglie tutte le esperienze degli autori precedenti, e utilizza
tutte le tecniche già viste: omoritmia, contrappunto (libero e imitato), dialogo policorale,
alterna voci acute e gravi, e attua un grande collegamento con la PAROLA espressa dal testo in
quel momento, e con il suo senso, reso attraverso la musica.
Per questo ottiene degli effetti anche molto patetici, sfruttando i contrasti di registro; supera
anche le 6 voci, e costruisce sempre più dialoghi tra di esse.
La musica è ancora MODALE, ma il senso tonale compare, soprattutto nel contrasto fra triadi
maggiori e minori, e compaiono anche i cromatismi (per esprimere il senso del patetico).
Di Lasso sviluppa anche il senso melodico delle singole frasi, con attenzione alle CADENZE.
Spesso si sente una particolare forma cadenzale da noi istintivamente collegata alla musica sacra,
ma allora usata anche in quella profana: dalla tonica si passa alla sensibile con fioritura attraverso la
nota di volta inferiore. Questa cadenza era molto usata nel tempo, ma fu usata molto in particolare
da Orlando. Egli la utilizzava anche durante il brano, non per forza alla fine.
Ascoltiamo Le lacrime di San Pietro, raccolta di 20 madrigali italiani, più un mottetto in latino, a 7
voci, su testo di Luigi Tansillo, poeta molto vicino allo spirito di Tasso. Egli rappresenta il periodo
in cui il Rinascimento declina nel Barocco, con i suoi sentimenti complessi e tortuosi (anche
morbosi) che vengono espressi nella poesia del Barocco. Anche il linguaggio sta ormai cadendo
nella morbosità, e nei giochi di parole tipici del Barocco. Il racconto si svolge lungo questi 20
madrigali, attraverso i quali si dipana il filo narrativo, relativamente tenue: il racconto di per sé non
sarebbe lungo, ma l'autore del testo ogni volta si ferma sui particolari dei sentimenti, degli “effetti”,
fa tante similitudini, descrive le emozioni nel particolare, prendendo in prestito immagini dal
madrigale profano: anche quando si parla dello sguardo di Cristo, molte espressioni sono simili a
quelle del madrigale profano. Sacro e profano quindi si toccano. Vi sono anche dei giochi di parole,
e la musica si adegua al testo come “pittura sonora”. Non solo, a volte la pittura sonora non si
adegua soltanto al signi ficato del testo, ma si adegua anche alla grammatica e alla sintassi della
frase. Questo avviene sia nei madrigali che nel finale, dove le proposizioni principali, dal punto di
vista sintattico, venivano musicate con registri acuti, mentre le dipendenti erano rese con registri
gravi.
Il tutto è a 7 voci, quindi spesso l'autore può raggruppare le voci in due cori, giocando con la
musica tra i due cori, cosa che sarà poi ripresa nella scuola veneziana.
23- 2- 2016
Finito di ascoltare Di Lasso, riforma Luterana, invenzione della stampa musicale, Maestri Cantori in
Germania. Per quanto riguarda la stampa musicale, dopo i primi esperimenti si giunse a codi ficare
delle matrici costituite da frammenti di rigo che avevano già impresse le note dentro il rigo, e che
venivano af fiancati per formare il pezzo da imprimere su carta.
Descrittivismo: non collega soltanto la musica la signi ficato delle parole, ma a volte addirittura alla
sintassi del periodo, per esempio ascoltiamo il madrigale n.10
Contiene una similitudine, dice come una falda di neve d’inverno è giacchiata in una valla nascosta,
dove non arriva il sole, ma in primavera si scioglie, così il timore del cuore di Pietro che ha
rinnegato Gesù, quando Gesù lo guarda il timore si scioglie in pianto
L’ autore usa i registri gravi per indicare la falda di neve ghiacciata, contrapposti ai registri acuti per
la primavera, quando la neve si scioglie in acqua; divide le 7 voci in gruppi, sfruttando il contrasto
tra i registri
Ascoltiamo il 15 : Pietro si rivolge a sé stesso e alla propria vita mortale
Contrasto di registro per diversi ficare il racconto dalle parole vere e proprie di Pietro
Altra caratteristica tipica: fare perno su alcune espressioni chiave di dire nel componimento,
ribadendo con tutte le voci determinati concetti che si elevano al di sopra degli atri, in questo caso
contrasto tra vita mortale e anima destinata a vivere per sempre, sono sempre forme diverse di
descrittivismo.
Sentiamo gli ultimi madrigali 17- 20 e il mottetto conclusivo
Continua il monologo interiore di Pietro che medita sulla vita umana che più è lunga e più porta al
male e al peccato.
Forme di descrittivismo ritmico, ad esempio l’ idea dello zoppicare, ce n’è una quasi ogni frase, è
tutto miniaturistico.
Col mottetto tutto cambia, è in latino, è Cristo che si rivolge a Pietro, come figura simbolica, che
sembra raggruppare tutte le fragilità umane, e lo rimprovera per le sofferenza di cui è stato causa;
mottetto nello stile chiesastico, con valori lunghi, gravità dal punto di vista ritmico, si intensi fica il
rapporto con il testo, il dolore viene messo in rilievo, chiaro rapporto con la grammatica e con la
sintassi, si alternano preposizioni principali e dipendente ( relativa), le prime con registri più acuti ,
le seconde con registri più gravi
ALTRI FIAMMINGHI
Ci saranno poi altri fiamminghi, nel corso del 600, come Sweelinck , considerato il fondatore d una
scuola organistica tedesca del nord, che manterrà caratteri contrappuntistici austeri, tipici della
scuola fiamminga; dal 500 i caratteri della scuola fiamminga si stempera un po’ e si fa in fluenszare
dai luoghi dove si va a vivere ( principalmente le città italiane)
Oltre alla civiltà fiamminga, troviamo un sviluppo della polifonia in Germania,t ra 4 e 500
(contemporanei ai fiamminghi) con caratteri meno importanti dei fiamminghi, i maestri cantori
non sono musicisti professionisti che fanno apprendistato nelle cappelle, ma sono autori che
svolgevano altri mestrieri e per diletto si dedicavano alla musica anche se seriamente, con regole
severe raccolte nella tabulature, sono i continuatori dei Minnesengher monodici
Facevano delle gare di composizione, di canto, civiltà che si sviluppa in varie città, soprattutto del
Sud della Germania, con delle punte ad Augusta, Norimberga, da cui provieme Hans Sachs ,faceva
il calzolaio!! (-> stima) ( sarà rievocato nell’ opera di Wagner, contrasto tra i rappresentanti della
vecchia tradizione contrappuntistica e la musica dell’ avvenire)
Da qui si svilupperà il corale luterano, genere più diatonico che cromatico, musica piuttosto austera
Capitolo 11
La musica inizia a diffondersi più velocemente per l’ invenzione delle stampa , dovuta ad
Ottaviano Petrucci, primato contesto da altri stampatori
Proteste nei confronti della Chiesa di Roma,I luterani chiedevano che i fedeli potessero accedere
direttamente alla sacre scritture, senza la mediazione del clero e quindi servì la traduzione della
Bibbia in tedesco, uni ficando i vari dialetti tedeschi.
Una nuova partecipazione dei fedeli al culto,con conseguenze anche per la musica,si crea un canto
più semplice, il corale luterano, basato su melodie semplici e orrecchiabili, a volte prese da testi
profani, sono in tedesco, dapprima monodici e poi vengono composti con più voci, ma più una
armonizzazione che una contrappuntizazione vera e propria,si parla di corale omoritmico a 4 voci
Se ne crea un vasto repertorio
Il corale era normalmente stro fico: si ripeteva la melodia su varie strofe. Con note abbastanza
lunghe, in modo che anche i fedeli potessero cantare e quindi anche il pubblico era coinvolto,
talvolta si anticipava la melodia del corale con l’ organo, nel cosiddetto “preludio al corale” (choral-
vorspiel) in cui si presentava la melodia de corale
Pian piano il preludio si staccherà dal corale vocale e diventerà una forma a sé, il corale per organo
SCUOLA ROMANA
Mette in pratica i dettami controriformistici e crea una polifonia A CAPPELLA, quindi a sole voci,
senza il concorso di strumenti per non offuscare il signi ficato e il ruolo della parola. La musica deve
essere un'ancella della parola, e salvo in alcune grandi celebrazioni nella cappella Sistina, in cui si
usava ancora l'organo, per il resto si canterà soltanto a cappella.
Farà scuola per la sua musica corale e per il futuro contrappunto strumentale. Anche nel '600 sarà
un grande maestro, anche se cambieranno le forme. Rimarrà un punto fermo fino a Bach.
Palestrina, attivo fin da piccolo a Roma come fanciullo cantore nella basilica di Santa Maria
Maggiore, sarà per qualche tempo organista e maestro di canto nel duomo di Palestrina, ma poi,
quando il cardinale di Palestrina viene eletto papa con il nome di Giulio III, egli lo segue a Roma,
dove diventa maestro di cappella nella cappella Giulia. Poi sarà cantore nella cappella Sistina, e
tutta la sua vita scorre a Roma in varie basiliche.
Compone essenzialmente musica sacra, a parte qualche madrigale profano. Quando sotto il papa
successivo, Paolo IV, verrà rimessa in vigore un'antica disposizione per cui non potevano essere
cantori persone sposate, Palestrina viene licenziato dalla cappella Sistina, ma subito dopo diventò
maestro di cappella a San Giovanni in Laterano. Intanto sarà anche didatta nel Seminario Romano,
e si farà promotore di questo nuovo tipo di polifonia dedotto dal Concilio di Trento. Diventerà
in fine maestro di cappella nella Cappella Giulia fino alla morte.
Palestrina musica sopratutto Messe, oltre 100, Messe a 4 voci e di vario tipo. In alcune si usano
ancora le tecniche fiamminghe, ma comincia anche la fortuna della Messa LIBERA. Dunque un
gran numero di messe, alcune scoperte anche tardi, a metà del '900. Si tratta di messe che
esprimono un sentimento religioso vivo, ma in un qualche modo oggettivo, non appassionato; una
contemplazione molto calma delle verità della fede che i testi sacri propongono. Lo stile che prevale
è uno stile molto equilibrato da tutti i punti di vista, melodie orecchiabili e semplici, che si
muovono per intervalli diatonici (ri fiuto del cromatismo, troppo patetico) e intervalli congiunti,
senza ampi salti. È prediletto un registro medio-acuto, tra la parola umana e il canto angelico, una
polifonia molto semplice e un'armonia tendenzialmente consonante. Poche le dissonanze, solo
qualche ritardo ben orchestrato. L'armonia deve dare il senso di grande misura e compostezza.
Le voci sono disposte in maniera da non lasciare vuoti, anche quando usa il DOPPIO CORO,
come nel suo Stabat Mater. Anche il crescendo di sonorità deve essere graduale.
Molte delle sue messe sono di tipo PARODIA: si ricorda la Messa Vestiva i colli, che ricalca un
suo madrigale.
Come messa libera ricordiamo la Missa Papae Marcelli, in onore di papa Marcello II, il cui
ponti ficato è stato brevissimo, ma era egli un papa che approvava pienamente i principi che
emergevano dal Concilio di Trento. Scrivendo questa messa Palestrina aveva dato una
dimostrazione di come si poteva fare una bella polifonia rendendo però chiare le parole e il loro
signi ficato. Questa messa è una messa libera, a sei voci, che diventano 7 nell'Agnus Dei. Nelle
messe, e in questa in particolare, vediamo che le parti più contrappuntistiche sono il Kyrie e l'Agnus
Dei (soprattutto quest'ultimo), mentre il Gloria e il Credo sono più omoritmici. Nel Credo della
Missa papae Marcelli quando viene pronunciata la frase “Cruci fixum etiam pro nobis” le voci
diventano 4, con uno dei due tenori e uno dei due bassi che tacciono. Inoltre anche quando si arriva
alla parte “Et resurrexit...” cantata subito dopo, le voci non tornano a 6, bensì rimangono 4 fino alla
fine dell'intera strofa. Qui Palestrina si dimostra più teologo che musicista, e cura così il più
possibile l'intelligibilità del testo.
Ascoltiamo anche dei mottetti, che sono un po' più descrittivi rispetto alla messa: Laudate
dominum, Terra tremuit, Ascendit Deus e altri.
In confronto ad Orlando Di Lasso, Palestrina è più oggettivo, più equilibrato, non ci sono contrasti
elevati tra i vari registri, ha scelto un ideale di equilibrio.
SCUOLA VENEZIANA
Dopo la scuola romana, troviamo la Scuola Polifonica Veneziana, l'altra grande scuola polifonica
italiana del '500. La contrapposizione tra queste due città si ripeterà parecchio nella storia, sempre
con signi ficati af fini:
-Roma è la città del papato, dove prevale una musica più austera, alla ricerca della
purezza del linguaggio musicale che consenta di capire le parole
-Venezia ha invece uno spirito tutto diverso, è una città commerciale, con un ceto di
nuovi ricchi che si fa strada, porta verso l'Oriente il suo fasto artistico, e promuove un
tipo di arte ricca di colore e di novità.
Venezia è quindi una città più vivace di Roma, e questo trapela in tutte le forme d'arte, musica
compresa.
La musica si sviluppa soprattutto a San Marco, sede di un'importante Cappella Musicale, alla
direzione della quale c'era stato un fiammingo: Adriano Willaert(vedi vita sul libro). Egli ci aveva
portato la magni ficenza del contrappunto fiammingo, e a lui si attribuiscono le invenzioni
(caratteristiche della scuola fiamminga) che erano in uso a Venezia in quel tempo, ad esempio
l'utilizzo di due organi messi in due posizioni opposte della basilica, a cui vengono af fiancate due
cantorie. Caratteristica fondamentale della musica sacra veneziana sarà quindi la contrapposizione
dei due cori, chiamati anche CORI BATTENTI.(tecnica del doppio coro, con questa caratteristica,
siccome a San Marco c’erano 2 organi con 2 cantorie opposte, effetti di stereofonia)
Sta nascendo quindi una musica STEREOFONICA, spaziale, che non colloca gli esecutori in uno
stesso punto, bensì vari gruppi di esecutori si collocheranno in vari punti della basilica, quindi in
generale ci saranno anche più di due compagini. È un concetto molto moderno: esso non troverà
solo espansione nel periodo barocco, ma apre la strada a tutta la modernità, al '900, con i grandi
compositori di quel periodo che utilizzeranno molto la spazialità.
A Willaert è attribuito l’ invenzione del madrigale cromatico: per il cromatismo oppure per la
presenza di crome e del Ricercare per Organo, composizione solo strumentale che deriva dal fatto
che l’ autore ricerca degli effetti sullo strumento, si sviluppa anche il ricercare per liuto
Altra caratteristica tipica era l'unione delle voci e degli strumenti: a Roma si praticava solo lo stile
a cappella, qui invece si pratica una musica per voci e strumenti, che possono cantare e suonare
insieme, o “gareggiare” tra loro, con la nascita dello stile CONCERTATO o CONCERTANTE.
Si utilizzano gli archi, non tanto il violino che nascerà in seguito, ma le viole da braccio e da gamba
e molti fiati, soprattutto ottoni dal suono forte, incisivo e brillante; suggeriscono inoltre ampi
contrasti dinamici
Se Palestrina diventerà il punto di riferimento per il contrappunto per i secoli successivi, tutto quello
che è timbro, colore ,spazio , dinamica deriva dalla scuola veneziana, con in fluenze anche in
Germania
Ricordiamo vari allievi di Willaert, ad esempio Zarlino , famoso per i suoi studi teorici, scritte in
un trattato, diede ampiezza matematica a toni e semitoni, superando Pitagora, si userà la scala
Zarliniana o naturale, perché alla base ha il fenomeno fisico degli armonici
Si ricordano i 2 più grande autori della scuola veneziana Andrea Gabrieli e il nipote e allievo
Giovanni Gabrieli, organisti entrambi, si alternavano agli organi di San Marco
Sviluppano le tecniche inventate da Willaert: doppio coro, utilizzo di strumenti
Le forme popolari hanno tutte una tendenza comune: il condensare la parte melodica nella voce
superiore, mentre le altre voci tendono a essere subordinate ad un sostegno armonico, e
nell'esecuzione spesso veniva effettivamente cantata solo la voce superiore, mentre le altre potevano
essere eseguite da vari strumenti o da uno solo che poteva fare più voci contemporaneamente.
Questo è un aspetto molto importante, e prepara alla grande modi fica che avverrà tra la fine del '500
all'inizio del '600: il passaggio alla monodia con accompagnamento a discapito della polifonia.
Ce ne sono molte, alcune più limitate, altre più diffuse. C'erano i CANTI CARNASCIALESCHI,
tipici della Firenze medicea e post-medicea, canti a 3 o 4 voci con polifonia semplice, che si
eseguivano nel carnevale durante l'esposizione dei carri allegorici, canti spesso legati alle varie
corporazioni di arti e mestieri, rappresentate anche dagli stessi carri. Erano brani semplici, ma
spesso composti anche da autori importanti, come Einrich Isaach.
Più genericamente diffusa era invece la forma della FROTTOLA, che ebbe inizio nel nord
dell'Italia, in città come Mantova o Milano, e poi venne diffusa anche nell'Italia centrale. Con
questo termine si parlava di opere nate dalla fusione di diverse composizioni con metrica diversa tra
loro. Ricordiamo che questo è uno dei pochi casi in cui ad esempio si musica il SONETTO, forma
molto sviluppata poeticamente ma poco usata in musica.
La frottola è a 3 o 4 voci, molto omoritmica, con le voci che procedono tendenzialmente con
accordi; è la forma in cui è più evidente la preminenza della voce superiore. Verranno pubblicate
anche le INTAVOLATURE per liuto, per suonare queste frottole senza leggere la musica.
Ricordiamo anche la VILLANELLA (o VILLANESCA), molto diffusa nel sud Italia, soprattutto a
Napoli. Era una forma ancora più semplice, spesso a 3 voci, su un testo di solito amoroso, che a
volte era anche in dialetto napoletano. Testo breve, a volte anche di una strofa solamente. Troviamo
molti autori minori che si occuparono di questa forma, ma a volte essa interessò anche autori come
Di Lasso o il madrigalista Luca Marenzio.
Ricordiamo ancora la CANZONETTA, genere che interesserà anche persone più in fluenti come
Monteverdi o Palestrina.
Un'altra forma diffusa era il BALLETTO, che era in realtà una composizione cantata da più voci,
di solito 5, fortemente ritmata, e che quindi si prestava molto alla danza. Un filo narratore legava
questi brani, che potevano anche essere ballati, e l'autore più celebre fu Gastoldi, vissuto nella
seconda metà del '500, autore anche di musica sacra.
MADRIGALE
all’ esame chiedono sempre la differenza tra i madrigali del 300 e del 500.
Il Madrigale l'avevamo già visto nel 1300, nelle corti come Firenze e altre, ed aveva una particolare
struttura stro fica. Quel tipo di madrigale subisce un'eclissi nel '400, ma rinasce poi nel '500 come
forma cortese, aulica, profana ma non popolare, anche se all'origine del madrigale cinquecentesco
c'è la FROTTOLA(forma popolare basata sulla preminenza della voce superiore, le altre hanno uno
spesso più che altro armonico, tendenza all’omoritmia piuttosto che al contrappunto).
Diventerà la forma profana più usata nell'Italia del '500-'600, diffuso sia al nord che al sud. Aveva
caratteri diversi per i singoli autori, ma non c'erano scuole diverse.
DIFFERENZE:
-il madrigale del '300 era stro fico (la melodia si ripete nelle varie strofe), a 3 voci, i testi
erano presi dai grandi autori del '300 toscano;
-il madrigale del '500 invece è in FORMA LIBERA, sia nel senso letterario che
musicale, il compositore può prendere qualsiasi componimento letterario, con qualunque
metrica. Anche gli autori dei testi sono molto diversi tra loro: si sfruttando ancora i testi di
Petrarca e allievi, oppure testi di autori più recenti.
C'è libertà anche nel musicare i testi: non c'è uno schema musicale o metrico preciso,
anzi si prevede un rinnovarsi continuo della musica, tanto che fu coniata un'espressione tedesca per
indicare qualcosa di contrapposto a stro fico, chiamata durchkomponiert. Quando si può trovare
una qualche ripetizione di un passaggio musicale è perché si ripetono le medesime parole, per
richiamare quindi alla mente le parole già espresse. I madrigali cinquecenteschi partivano da 4 voci,
ma nel '500 maturo il madrigale sarà composto principalmente a 5 voci, dove il registro della
quinta non era indicato espressamente, ma si può far eseguire da voci diverse. Di
solito essa è pensata per un soprano secondo, che canta una terza sotto rispetto al
soprano primo.
Il madrigale del '500 può essere cantato o a voci singole (a quintetto) o a coro, e col
tempo si tenderà ad aumentare il numero delle voci, trovando madrigali a 6, 7, 8 voci. È facile
quindi che si divida l'organico in due cori, come accadeva nella scuola veneziana.
Il madrigale del '500 ha tutta una sua evoluzione: si parte dall'omoritmia tipica della frottola, poi
però esso accoglierà sempre di più strutture contrappuntistiche, sia ritmiche che imitate, e
aumenterà anche il rapporto tra musica e testo, la musica dovrà dipingere il signi ficato delle
parole(aumenta la connessione tra musica e testo, sia armonia che melodia si devono adattare al
testo). Queste pitture sonore saranno così diffuse che anche quando ci saranno altre forme,
prenderanno il nome di MADRIGALISMI.
Si diffuse anche un genere di madrigale detto madrigale cromatico, ossia con cromatismi
melodici, ma questo termine era usato anche per indicare madrigali con uso di CROME, quindi più
vivaci-brevi: entrambe le interpretazioni hanno una valore descrittivo. Se si guardano i nomi dei
madrigalisti, ce ne sono in quantità elevata tra i fiamminghi. Il rapporto testo-musica poi si farà
sempre più stretto, tanto da portare ad una diminuzione del numero di voci cantate per far spazio al
testo. In particolare con Monteverdi si arrivò al madrigale ad una sola voce, mentre le altre saranno
eseguite da strumenti. Essi non fungeranno solo da sostegno armonico, ma avranno anche una
funzione descrittiva, lasciando la parte espressiva alla voce. Tra i nomi più grandi di madrigalisti si
troveranno Luca Marenzio, Carlo Gesualdo principe di Venosa, Claudio Monteverdi.
Anche il tempo dei madrigali era gestito in base al testo, c’erano accelerazioni e rallentando ,
durate variabili perché il testo prevaleva sull’ uguaglianza della durata, anche la scelta del metro
(binario o ternario) era dovuto a ciò
I testi per i madrigali erano anche di autori importanti quali Tasso, Guarini , SanLazzaro , più una
miriade di madrigalisti minori e un po’ ripetitivi. In genere la musica riscatta la banalità di alcuni
componimenti.
Il madrigale del '500 è una forma così diffusa che è dif ficile da generalizzare. Ogni autore ci mette il
proprio segno peculiare, e gli autori sono molto diversi ficati tra loro rispetto al 1300. Nel 1500 c'è
quindi molta più varietà, e il madrigale è un contenitore musicale che può contenere gli stili più
diversi. Esso è diffuso dappertutto, praticamente tutti gli autori del 1500 hanno composto madrigali,
anche per esprimere cose diverse: c'era chi utilizzava testi amorosi, chi testi spirituali (Orlando di
Lasso), chi comici.
MADRIGALI AMOROSI
Ne ascoltiamo qualcuno di Palestrina. Egli ha trattato soprattutto la musica sacra, vi sono però
alcuni suoi esempi anche di musica profana: sono madrigali a 4 voci, con contrappunti non troppo
complessi, ma è comunque un madrigale pieno di elementi descrittivi.
Ascoltiamo “Vaghi pensier”, madrigale sul testo di Tasso: il testo incomincia subito con una forma
di descrittivismo, con le voci che salgono in modo ascendente, per poi scendere perché la donna non
si occupa di persone “in basso”. Appare ad un certo punto anche la parola “con flitto”, con le voci
che fanno contrappunto imitato, per creare quindi una sorta di scontro tra le voci che si rincorrono a
vicenda. Si utilizzava molto il tempo RUBATO, ossia accelerando e ritardando a seconda del testo.
È un chiaro esempio di PITTURA SONORA.
Ascoltiamo “Queste saranno ben lagrime” e “Già fu chi m'ebbe chiara”. Nel primo la parola
“sospiri” è resa spezzando la parola con una pausa tra le sillabe. Si inserisce anche l'omoritmia tra le
voci; sono entrambi su testi anonimi.
Alla parola “fuga” è associata la fuga tra le voci, per rendere l'idea. Lo stesso vale per parole come
“gravi angosce”, con le note che vanno su registri sempre più gravi. In un altro madrigale (Così la
fama scriva), che descrive un amore più felice, vi è una ripetizione della melodia iniziale, poiché il
testo ripete le strofe iniziali, rarità nei madrigali cinquecenteschi.
Non c'è un testo di madrigale che tutti conoscano già a memoria, essendo testi profani, quindi le
strutture dei madrigali sono relativamente semplici per far comprendere meglio il testo.
Vive nella seconda metà del 1500, nato nei primi anni '50. Autore lombardo (del bresciano), studia
dapprima nella Cappella del Duomo di Brescia diventando fanciullo cantore, e poi passerà a Trento
al servizio del cardinale d'Este. Qui diventa maestro di cappella e segue questo cardinale a Roma.
Fu anche per qualche tempo a Firenze, collaborando con la Cappella dei Medici, e dopo il 1589,
anno del matrimonio di Ferdinando de Medici con Cristina di Lorena, ritorna a Roma, passando al
servizio di vari cardinali, per poi andare per un po' di tempo a Varsavia. Torna poi a Roma dove
muore alla fine del '500.
Scrive molta musica profana, in particolare diversi libri di madrigali a vari numeri di voci; sono per
lo più madrigali amorosi, ma anche spirituali. Scrive anche componimenti più leggeri,
componimenti sacri (mottetti), usando uno stile abbastanza simile tra musica sacra e profana,
considerata una summa del secolo.
Marenzio utilizza tutte le formule elaborate dai suoi predecessori, creando uno stile molto vario,
ma equilibrato e gradevole.
Per la gradevolezza dei suoi componimenti, fu de finito quindi “il più dolce cigno dell'Italia”.
C'è una grande varietà nella scelta dei testi, e usa contrappunto imitato, libero, omoritmia, ritmi
binari e ternari, sincopi, alternanza tra valori lunghi e brevi, melodie diatoniche e cromatiche, usa il
descrittivismo, la dissonanza (quando occorre), usa il dialogo policorale nello stile puramente
veneziano, e spesso dispone le voci per creare effetti d'eco legati a sfondi più naturalistici.
Sarà opposto a Carlo Gesualdo, che è invece un grande sperimentatore.
Ascolteremo brani che non sono uf ficialmente dei madrigali, ma vi assomigliano: brani che scrisse
nel 1589 per degli INTERMEDI fiorentini, ossia dei brani polifonici cantati con una specie di filo
narrativo che li legava, chiamati così perché venivano rappresentati tra un atto e l'altro di un
componimento in prosa. Questi 6 intermedi, collocati in una raccolta chiamata “La pellegrina”,
diventarono celebri in occasione del matrimonio di Ferdinando de Medici con Cristina di Lorena.
Gli autori dei testi e i musicisti che collaborarono a questi intermedi sono nomi che si vedranno
anche più avanti, nella storia dell'inizio del MELODRAMMA italiano. Ricordiamo ad esempio
Giovanni Bardi, che dà il nome alla CAMERATA BARDI, famosa per la nascita del melodramma
italiano. Anche lo stesso Marenzio farà parte di questi musicisti che collaborano al melodramma.
Per il secondo intermedio egli scrisse anche una sinfonia strumentale, a cui seguono brani vocali
simili ai madrigali.
Questi brani vocali sono a vario numero di voci, qualcuno anche in numero elevato, come uno a 12
voci diviso in due cori e uno a 18 voci diviso in tre cori.
Personaggio abbastanza strano, che possiamo contrapporre a Marenzio dal punto di vista della
scrittura musicale.
Mentre Marenzio mira ad una grandezza di tipo equilibrato e si propone di riassumere tutto ciò che
il suo secolo ha dato, Carlo Gesualdo è un grande sperimentatore, che riversa la sua mentalità
strana e tortuosa nei madrigali che compone. È una persona unica nella storia della musica, che
spesso viene messa a confronto con la figura di Torquato Tasso nella letteratura, essendo entrambi
autori di passaggio dal Rinascimento al Barocco ed essendo entrambi tormentati nella vita e nelle
opere. I due si conoscevano, e Gesualdo ha musicato molti scritti di Tasso.
Carlo Gesualdo era un principe, ed anche in questo si diversi fica da tutti gli altri musicisti. Egli non
ha bisogno di accontentare il gusto dei contemporanei: al contrario scrive soltanto per suo diletto, si
farà una sua stamperia e una sua corte, insomma faceva tutto lui. Può quindi mettere nei suoi
componimenti quello che vuole, dissonanze o melodie spregevoli, e lui non deve giusti ficarsi (al
contrario di Monteverdi che dovrà giusti ficarsi ogni qual volta uscirà dagli schemi).
Questo suo status sociale lo poneva al riparo dalle critiche certe che avrebbe ricevuto se fosse stato
un musicista come gli altri. Ebbe una vita molto particolare e molto avventurosa, segnata da
avvenimenti drammatici. Nato subito dopo la metà del secolo a Napoli, Carlo Gesualdo appartiene
ad una casata illustre. Fu allievo di un madrigalista, Pomponio Nenna , ed entra subito nel mondo
del madrigale. Comporrà 6 libri di madrigali di cui i primi due, composti negli anni giovanili, sono
spesso su testi di Tasso.
Fu uxoricida, in quanto uccise la moglie insieme al suo amante. Questo fu un delitto d'onore,
probabilmente premeditato dato che sapeva di questo tradimento della moglie. Attorno alla vita di
Gesualdo fiorirà una serie di dicerie non controllabili. Dopo tale evento dovette fuggire da Napoli
per evitare vendette varie e si trasferì a Ferrara, alla corte degli estensi. La città era piena di diversi
fiamminghi di rilievo e piena di vita musicale. Qui un autore importante per la vita di Gesualdo fu
Luzzasco Luzzaschi, che eserciterà anche un'in fluenza su Girolamo Frescobaldi.
Ferrara inoltre era abbastanza vicina a Firenze, dove all'epoca vi erano gli esperimenti sulla
monodia con accompagnamento che porteranno alla nascita del melodramma.
Il terzo e quarto libro di madrigali vennero scritti nel periodo ferrarese. Anche dal punto di vista
privata il soggiorno gli valse qualcosa: sposerà Eleonora d'Este, nipote del duca di Ferrara, che
aveva una decina di anni più di lui (anche l'interesse aveva la sua parte).
Quando le acque a Napoli si furono calmate vi tornò, circondandosi di una corte di poeti e musicisti
di cui si sentiva il centro, e mettendo su una stamperia. Gesualdo compose a Napoli i suoi ultimi
due libri di madrigali, morendo poi nel 1613
A parte alcune composizioni sacre, il fulcro della sua opera sono questi libri di madrigali, tutti a 5
voci. Lui non è interessato alla monodia in particolare; scrive in modo polifonico e gli interessava
soprattutto la centralità del rapporto parola-musica. Ciò signi ficava mettere in stretta
correlazione questo binomio in tutte le voci del componimento: ogni voce, per meglio adeguarsi al
senso delle parole, porta una melodia strana, frantumata, che vuole esprimere sentimenti
fortemente dissonanti e non equilibrati.
Il tema più frequente dei madrigali è il tema amore-dolore e amore-morte. Questa idea dell'amore
infelice si esprime nelle singole voci con melodie che sono il contrario di quelle di Palestrina e
Marenzio: o procedono per intervalli di semitono, con un cromatismo molto tortuoso, oppure con
ampi intervalli, che segnano un grido. Mettendo insieme tutte le voci vengono fuori cromatismi
armonici e melodici, accordi dissonanti a volte interpretabili come ritardi, intervalli la cui
connessione sembra assolutamente casuale. Il tutto dà un effetto straniante: non segue le regole
né dell'armonia moderna né di quella dell'epoca, sembra musica contemporanea.
È una musica AUDACE: era solo lui che scriveva così, se un altro musicista avesse scritto in quel
modo non avrebbe più avuto commissioni, ma lui era una personalità a sé.
Ascoltiamo dei madrigali tratti dal terzo libro da lui composto, che risentono già dell'in fluenza
fiorentina. “Ahi disperata vita!”, con le voci che sprofondano sempre di più nel registro grave.
“Veggio sì dal mio sole”, “Voi volete ch'io mora, moro, non moro”, “Sospirava il mio core – O mal
nati messaggi”.
Fa pensare anche alla musica post- tonale del 900, prima della dodecafonia, musica dif ficile da capir
e apprezzare, soprattutto all’ epoca, è un po’ l’ opposto di Marenzio e anche di Palestrina come
madrigalista , sono un po’ 2 filoni indipendenti , con i veneziani a metà strada.
INTERMEDI FIORENTINI
Sono 6, raccolti assieme in una raccolta con il titolo “La pellegrina”, e alla loro composizione
parteciparono molti artisti, i quali daranno poi vita al MELODRAMMA. Ricordiamo Giovanni
Bardi, Giulio Caccini e ovviamente Luca Marenzio. Gli intermedi sono brani in forma
madrigalistica, a più voci (si arriva anche a 18 voci divise in tre cori), che puntano sull'effetto
gradevole che Marenzio vuole dare, al contrario di Gesualdo. Ciascuno si apre con una sinfonia
strumentale, seguita poi da vari brani vocali. Nel secondo intermedio anche la sinfonia strumentale
è di Marenzio, mentre nel terzo essa è di Cristofano Malvezzi.
Ascoltiamo il secondo e il terzo intermedio.
È un madrigale diverso da quelli ascoltati finora, perché abbiamo sentito soprattutto madrigali
amorosi o spirituali, mentre questi sono dei madrigali COMICI: madrigali che si susseguono in
collane attraverso le quali si sviluppa una vicenda. Essi hanno un filone narrativo che li accomuna,
con testi che contengono dialoghi tra i vari personaggi (ecco perché madrigale dialogico). Questi
dialoghi possono anche suggerire una rappresentazione scenica MIMATA: le parole dei personaggi
della storia però sono distribuite tra le varie parti, non c'è un solista che fa un determinato
personaggio. La rappresentazione scenica andrebbe fatta quindi a parte.
Questi madrigali si affermano nella zona tra Bologna, Modena, Venezia. Spesso sono madrigali che
prendono in giro il madrigale più colto ed elegante, e questi autori si cimentavano nello scrivere “à
la manière de...”, prendendo in giro altri artisti, e anche cambiando i testi: ad esempio cambiarono
un madrigale famoso di Palestrina; ciò avveniva anche ai tempi dei Carmina Burana.
Tra gli autori ci sono Alessandro Striggio da Mantova, Giovanni Chioce, oppure Adriano Banchieri
con il suo “Festino della sera del giovedì grasso”, oppure il “Contrappunto bestiale alla mente”,
ossia improvvisando versi di animali. Quello che è considerato il capolavoro di questo genere si
deve a Orazio Vecchi: “L'an fiparnaso”, de finita una commedia armonica a 5 voci.
La trattatistica comincia ad avere grande fioritura già dal 1400, dopo l'epoca di Guido d'Arezzo, che
fu considerato il più grande trattatista del medioevo musicale, salvo che per altri trattatisti che si
concentravano molto sul progredire della notazione musicale ritmica.
Una visione più ampia si comincia a ritrovare dal 1400 in poi, dove si sente di dover trovare e
de finire un lessico musicale, per cui nella seconda metà del '400 viene scritto un Dizionario
musicale dovuto ad un fiammingo, Johannes Tinctoris con il suo Terminorum musicae dif finitorium.
Si comincerà a mettere in discussione anche le teorie di Guido d'Arezzo, soprattutto la solmisazione
e altri metodi per imparare la musica: qualcuno propone di estendere il metodo di Guido all'ottava,
altri ri fiutano del tutto il modo di leggere la musica da lui insegnato. C'è un dibattito, a cui
parteciperanno anche Nicola Burzio e Giovanni Spataro di Bologna, allievo di Ramos.
Superate queste polemiche su Guido, di cui viene conservato l'insegnamento di base, anche se
allargato all'ottava, i teorici si dividono in varie correnti, che non sono limitate al problema della
lettura della musica, ma discutono di un po' di tutti gli aspetti della musica, assumendo tre posizioni
diverse:
• ci sono i CONSERVATORI, tra i quali c'è Giovanni Maria Artusi.
Costui scriverà un trattato, e il suo idolo polemico sarà Monteverdi, contro la sua musica
che si apre alla dissonanza;
• poi ci sono i teorici MODERNISTI, aperti alle nuove conquiste
musicali. Tra questi c'è Einrich Louis, chiamato il GLAREANO, con il suo trattato
Dodekachordon, che aggiunge altri 4 modi agli 8 gregoriani, due dei quali sono i nostri
modi maggiore e minore. Avremo anche Gioseffo Zarlino (che studia a Venezia con
Willaert), considerato il fondatore di una nuova scuola con le sue Istituzioni armoniche. Egli
è considerato il primo vero teorico armonico: a lui è attribuita la teorizzazione degli
armonici, ed è il creatore della scala naturale, o zarliniana, con dei rapporti matematici tra
toni e semitoni diversi da quelli teorizzati da Pitagora;
• c'erano in fine dei teorici NEOCLASSICI, volti al passato. Essi erano
dei grecisti, che però pensando in questo modo creano qualcosa di nuovo, con la volontà di
restaurare qualcosa di antico. Tra questi c'è Niccolò Vincentino, che scrisse il trattato
L'antica musica ridotta alla moderna pratica. Egli voleva così restaurare i generi della
musica greca, con i loro intervalli inferiori al semitono, e per far questo inventa
L'ARCHIORGANO (o ARCHICEMBALO) in cui si potevano effettuare questi piccoli
intervalli. Questi studi saranno continuati più avanti, ripresi nel corso del '600 e del '700 da
vari autori, soprattutto organisti o in generale autori di musica strumentale, i quali
progettano strumenti in grado di fornire queste sfumature di suoni. Tra questi ci saranno
anche Francesco Ligetti e Giovanni Maria Casini ('700), quest'ultimo costruttore
dell'ONNICORDO, che aveva 5 tastiere sulle quali si potevano fare questi micro-intervalli.
Nell'ambito della musica corale troviamo Vincenzo Galilei, padre di Galileo, che
scrisse un trattato: “Il dialogo della musica antica e moderna”. In questo trattato vi
erano frammenti di musica greca, e Vincenzo si troverà poi anche tra gli autori che
inventeranno il MELODRAMMA, con l'ideale di ricreare il teatro greco del passato, ma
creando qualcosa di nuovo. Il melodramma nasce quindi dalla volontà di resuscitare la tragedia
greca.
Fermiamoci per ora sui cambiamenti del linguaggio musicale: il Glareano aggiunge 4 nuovi modi
agli 8 gregoriani; questo fatto è legato all'origine della TONALITA'. Forme primitive di tonalità si
potevano già apprezzare nella musica pratica, a partire da alcuni canti dei trovatori e trovieri in cui
si trovavano queste armonie prettamente tonali, o alterazioni che facevano assomigliare la scala
modale ad una tonale. Ci si avvicina quindi alla tonalità prima nella pratica che nella teoria, fino ad
arrivare al Glareano, che teorizza questa modi fica aggiungendo 4 scale nuove alle 8 gregoriane. I
quattro nuovi modi, due autentici e due plagali, erano i modi EOLIO (il nostro minore naturale),
con finalis La e repercussio Mi, e il suo IPOEOLIO, l'altro sarà il modo IONICO, che parte da Do,
che corrisponde al nostro modo maggiore, con il rispettivo plagale IPOIONICO. Pian piano con il
tempo spariranno i modi gregoriani, rimanendo così solo i nostri modi maggiore e minore.
Per arrivare ad una tonalità pienamente affermata, che in fluenzi anche l'armonia, bisogna aspettare
ancora parecchio, ossia gli ultimi anni del '600. Il '500 è un punto cruciale, dove la tonalità è
desunta dall'armonia.
L'altro nodo cruciale di quest'epoca è l'opera e la ricerca di Zarlino, tema quindi legato per molti
aspetti alla tonalità. Maestro di cappella in San Marco, Zarlino studia in particolare la TRIADE, e i
contrasti tra triade maggiore e minore. Per costruire la sua scala e dare un'ampiezza matematica agli
intervalli egli si baserà sulla sovrapposizione di triadi. All'epoca erano ancora in voga gli intervalli
matematici teorizzati da Pitagora, basati sulla sovrapposizione di quinte, però si era visto che con
gli intervalli della scala pitagorica in armonia alcuni accordi erano dissonanti, pertanto poi nella
musica pratica tale “gap” si correggeva. Zarlino sovrappone delle triadi, e attraverso un sistema di
moltiplicazione di frequenze de finisce dei rapporti matematici diversi da quelli di Pitagora, dando
vita alla scala “zarliniana”. La scala è de finita anche NATURALE, perché quando si studierà bene il
suo lavoro nel 1700, si vedrà come i rapporti di Zarlino fossero coincidenti con quelli dei suoni
armonici e dei loro rapporti. La scala zarliniana aveva un fondamento nella teoria degli armonici,
per quello viene chiamata naturale. Questa scala però avrà bisogno di modi fiche per gli strumenti ad
arco.
22/3/2016
ORIGINE DEL BASSO CONTINUO
Piano piano tutti gli altri modi cadono in disuso.
Si tende verso una concezione armonico-verticale,più che ad un aspetto orizzontale che aveva
animato il rinascimento, tra il 5-600 cambia proprio l’ idea della struttura di un brano e cambia
proprio la scrittura dei brani musicali, si afferma la scrittura con BASSO CONTINUO. Già nella
frottola le varie voci tendevano a privilegiare la parte superiore e la altre voci si riducevano ad
accompagnare la melodia ed erano raggruppate su strumenti con il liuto. Tende a prevalere questo
metodo: si sottopone un basso strumentale alla composizione vocale; diventerà una linea di basso
continua che sostiene tutta la composizione, melodia alla voce superiore e voci intermedie
subordinate rispetto a melodia e linea del basso, dei semplici riempitivi armonici, non saranno
manco più scritte per esteso, ma indicate con una numerica sulle note del basso, con gli intervalli
che devono fare. Niente voleva dire terza e quinta, oppure si indicavano altri intervalli.
E’ in opposizione al basso interrotto della polifonia.
La parte melodica può essere vocale o strumentale, poi il basso che sostiene e genera armonia e voci
intermedie, le meno importanti. Il basso veniva fatto con uno strumento ad arco grave (viola da
gamba), un liuto, uno strumento a tastiera, spesso era raddoppiato da strumento più mano sinistra di
uno strumento a tastiera, con la destra improvvisava rispettando la numerica, si parla di
realizzazione del basso continuo
Sarà la pratica più diffusa per l’ ETA’ BAROCCA, detta anche l’ età del basso continuo
Sparisce la Polifonia? No, rimarrà nella musica strumentale, dando vita ad una grande polifonia
strumentale che culminerà in Bach nel 1700.
Oggi in genere non si ha più bisogno di realizzare il basso continuo, perché i revisori hanno dato già
una realizzazione fatta.
Si attribuisce l’ invenzione del basso continuo a Ludovico Grossi da Viadana.
Tenderà a far nascere forme nuove musicali che segnano il passaggio dal Rinascimento al Barocco
Sviluppo della musica strumentale, come già deriva dalla scuola veneziana, nuove forme
strumentali e molti trattati sono dedicati alla nuova musica strumentale e in genere riguardano i vari
strumenti. Non sono concepiti come discorsi teorici, avevano molti esempi di brani musicali.
Queste forme strumentali, in principio non erano altro che forme vocali trascritte per strumenti, ma
questa trascrizione non poteva essere letterale, data la differenza del mezzo acustico, si inseriscono
note di passaggio, diminuzioni ritmiche e fioriture sulla melodia originale, detti diminuzioni,
passaggi, colorature ecc
Si iniziano a scrivere brani per strumenti che non sono più trascrizioni ( anche se ne resta il
modello), come la Chanson strumentale (Gabrieli) che aveva come modella la canzone vocale
polifonica, di cui ereditava varie tematiche , come il Ricercare per organo che trova il suo modello
nel motetto; poi si sviluppano brani ad esclusivo uso degli strumenti ed adatti allo strumento stesso,
benché nel barocco la musica umana, fatta da voci, fosse comunque superiore a quella strumentale.
Si sviluppa la trattatistica sui singoli strumenti: sull’ organo, di Vincenzo Galilei il trattato-
antologia per liuto, trattato per flauto e così via
Era molto usato il liuto, importato dall’oriente con le crociate , cassa armonica simile al mandolino ,
diffuso come strumento di accompagnamento di una parte vocale, sia come strumento da solo,
aveva 11 corde (3 doppie all’ ottava, 2 doppie all’ unisono e 1 “il cantino” senza raddoppio)
Usavano una scrittura visiva che non è simbolica, non indica le note, ma il punto dove sollecitare lo
strumento per suonare, con 6 linee che rappresentano la cordiera e si indicavano con delle lettere o
con delle cifre dove premere la corda, altri segni indicavano le durate; per gli strumentisti questo
modo era più facile
Abbiamo poi anche gli strumenti ad ARCO, che derivano dalla VIELLA, strumento già visto
nell'ars nova, da cui deriva anche la LIRA, con sette corde. Ricordiamo anche la VIOLA, nelle
varietà DA BRACCIO e DA GAMBA. Le viole da braccio erano fornite di 6 corde intonate per
quarte, con tessiture diverse: VIOLA SOPRANO, CONTRALTO e TENORE, per poi ridursi in
seguito ad una sola viola, mentre dalla viola soprano nascerà il VIOLINO. Ci sarà anche la viola
DA GAMBA, con tessiture più gravi, e con 5 o 7 corde accordate per quarte), sostituita poi dal
VIOLONCELLO, con 4 corde, e dal CONTRABBASSO. Questi strumenti avevano una potenza
sonora molto inferiore a quelli odierni, e tendenzialmente le esecuzioni erano più veloci di quelle di
musica antica che si eseguono oggigiorno.
Vi saranno anche i flauti, DIRITTO e TRAVERSO, in varie tessiture, normalmente in legno e poi
diventati di metallo. Ricordiamo anche la BOMBARDA, da cui derivano l'OBOE e il FAGOTTO.
Vi saranno anche i CORNETTI, la TROMBA in vari tipi, tra i quali quella con registro acuto
chiamata CLARINO, che non c'entra con il clarinetto (esso deriverà più avanti da un altro
strumento), il cui timbro ricorderà quello del clarino.
Ascoltiamo brani di Giulio Caccini, una Sonata per cornetto di Biagio Marini, una canzone di
Frescobaldi. E tanti altri .Vi era poi anche un altro strumento chiamato CROMORNO.
Il Barocco musicale: la parola Barocco viene utilizzata per descrivere uno stile particolare nelle
altre arti, non nella musica; sembra derivi dal portoghese Barrueco, una perla di forma irregolare.
Nel termine c'è l'allusione al fatto che l'equilibrio rinascimentale si rompe e si apre un periodo
dominato dalla varietà, dal trionfo della fantasia, condotti all'eccesso nelle arti, dove nella
letteratura si hanno giochi di parole, figure retoriche (i personaggi più dominanti furono Gianbattista
Marino, o Torquato Tasso, a cavallo però tra Rinascimento e Barocco). Anche nelle altre arti si
vede come tutto quello che era la forma di derivazione classica si fa più movimentata: citiamo
l'architettura barocca, dove si passa alle forme curve da quelle squadrate, oppure nella scultura vi è
il senso del movimento, il trionfo del decorativismo nelle chiese, le raggiere dorate, in pittura
abbiamo il gusto per il colore, le folle di personaggi, il senso del chiaro-scuro (pensiamo a
Caravaggio).
Si discute se si possa de finire uno stile barocco anche per la musica o meno: molti musicologi
hanno ritenuto che la musica del '600 presenti stili e personalità così varie da non poter essere riuniti
sotto un unico termine, che sarebbe troppo uni ficante (i primi più grandi critici musicali si sono
mossi verso quella de finizione, come Andrea della Corte, tra i fondatori della musicologia italiana, e
su questa strada si muove anche un musicologo dei nostri giorni, Lorenzo Bianconi, che intitola il
suo libro dedicato al Barocco “Il '600”, in quanto lui non accetta l'uso del termine Barocco). Altri
musicologi invece sostengono che si possa parlare di Barocco anche per la musica, soprattutto in
contrapposizione al Rinascimento, nel senso che al carattere monocorde e monolitico del
Rinascimento, rappresentato dalla polifonia in generale (sacra e profana), succede una rottura di
questo carattere monolitico. La polifonia rimane come contrappunto strumentale, determinando la
nascita di tante nuove forme e tanti nuovi generi, vocali e poi strumentali. In contrapposizione ad
una unità rinascimentale vi è invece questa varietà del barocco; e poi questi musicologi sostengono
che, anche se le personalità sono differenti, è “Barocco” la somma di questi diversi stili, si possono
sempre trovare elementi comuni su cui basarsi.
Uno di questi elementi uni ficanti potrebbe essere ad esempio il BASSO CONTINUO. La corrente
della CRITICA STILISTICA propende appunto per cogliere ciò che unisce i vari stili diversi nel
periodo preso in considerazione, e accetta una de finizione comune di Barocco puntando di più su
ciò che unisce e non su ciò che divide; di questa corrente fa parte ad esempio Robert Haas e
Bukofzer, che ha scritto un libro chiamato “La musica barocca”, uno dei capisaldi della
storiogra fia musicale sul Barocco.
Negli ultimissimi tempi queste polemiche sul Barocco musicale sono state superate, e ci si è
dedicati di più a studi particolari delle opere, senza soffermarsi sul Barocco in generale.
Sicuramente un legame con il classicismo rinascimentale c'è, infatti il melodramma nasce dalla
volontà di alcuni autori di resuscitare la tragedia greca, creando però di fatto un genere totalmente
nuovo.
Il Barocco è come la somma di tanti stili particolari che fioriscono in questo periodo, qualcuno
de finisce il barocco come “età del basso continuo”
Il Barocco si fa andare dal 1600 al 1750 (data di morte di Bach, che convenzionalmente si utilizza
come conclusione dell'era del basso continuo). In questo periodo ci sono tante novità, sviluppate
dopo il passaggio dalla polifonia alla monodia accompagnata. Ricordiamo ad esempio per la musica
vocale l'ingresso in scena del MELODRAMMA, dell'ORATORIO, della CANTATA, del
DUETTO VOCALE DA CAMERA, mentre per la musica strumentale, dopo le prime forme che
esistevano già nel 1500, si sviluppano la SUITE, la SONATA, la FUGA (contrappunto tonale e non
più modale), tutte le forme di variazione, e le varie forme di CONCERTO (grosso e solistico). Una
musica quindi molto più differenziata.
Si suddivide il periodo barocco in tre fasi:
• dal 1600 al 1650: ci fu la nascita del melodramma come punto
cardine, lo sviluppo dei concerti, lo sviluppo della musica strumentale, contrappuntistica e
non. Tra i maggiori autori vi sono Monteverdi e Schütz, nascita di grandi forme legate alla
melodia accompagnata
• dal 1650 al 1700 “barocco di mezzo”: si sviluppa di più l'oratorio,
con Giacomo Carissimi, ed il gusto per il melodramma si diffonde al di fuori dell'Italia e
trova forme autoctone ad esempio in Francia con Lully (che era un italiano spostatosi da
giovane in Francia), creatore della Tragèdie Lyrique. Anche in Inghilterra nasce il
Melodramma nazionale in lingua inglese con Henry Purcell (“Didone ed Enea”), che però ha
poca fortuna, dato che più tardi in Inghilterra si sposterà Handel. Purcell rappresenta quindi
solo il tentativo di creare un melodramma nazionale in lingua inglese, tuttavia egli anche
crea un linguaggio musicale particolare con grande uso di cromatismi e puntando sul
patetico, linguaggio che precede la piena affermazione della tonalità;
Nascita del “bel canto” in Italia che , per l’eccesso di fioriture, condurrà al temine
“belcantismo” .
Transizione tra l’ antica modalità e tonalità moderna, prelude alla piena affermazione della
musica tonale .
Grazie al passaggio dalla polifonia alla monodia accompagnata abbiamo la nascita del
melodramma, che nasce a Firenze ad opera di un gruppo di intellettuali, di formazione classicistica,
che avrebbero voluto riportare in auge la tragedia greca: essi crearono la Camerata Bardi. La loro
idea è quella di ricostruire un tipo di teatro in cui, secondo tutte le testimonianze, si realizzava uno
stretto rapporto tra parole e musica; e secondo questi autori ciò si poteva realizzare grazie alla
monodia, non nuda e cruda, ma accompagnata dagli strumenti.
Essi vogliono costruire un teatro in cui ad un personaggio corrisponde una singola voce,
mettendo in primo piano la parola, il suo signi ficato, il sentimento che essa esprime. A questo scopo
creano uno stile, de finito il recitar cantando, che è la base di quello che sarà poi lo stile
RECITATIVO: una musica che non ha caratteri autonomi, ma si appoggia essenzialmente sulla
parola, essendone in qualche modo al servizio, non però su una sola nota come l'antica
cantillazione. Era molto limitato l'impiego degli abbellimenti, per dare più spazio alla parola, e
questa unione feconda di due arti trovava posto nella parte scenogra fica, che si appoggiava sulle
scenogra fie degli intermedi fiorentini, che a loro volta derivavano dai canti carnascialeschi.
Autori: troviamo Giovanni Bardi, che ospitava in camerata, Ottavio Rinuccini, Gabriello Chiabrera,
tra i teorici Vincenzo Galilei, tra i musicisti Giulio Caccini, Emilio de' Cavalieri.
Da queste riunioni nella camerata nasce questo nuovo genere, che dice di volersi ispirare alla
tragedia greca, anche se gli argomenti non erano così inclini allo spirito tragico, e se si vuole
cercare un genere letterario più vicino al loro spirito bisognerebbe prendere il dramma pastorale, o
l'idillio, che aveva avuto una rinascita nel Rinascimento.
Erano le prime esperienze musicali con la monodia, e ne dà una testimonianza Caccini, che
pubblica le sue Nuove musiche nel 1602. Anche altri autori della camerata si cimentarono nella
scrittura di queste opere monodiche accompagnate.
• I primi melodrammi: il primo in assoluto è considerato una Dafne di Jacopo
Peri, su testo di Ottavio Rinuccini, del 1594-1595, andata perduta quasi integralmente.
Quest'opera aveva incontrato una certa fortuna, essendo arrivata anche in Germania. Il
primo melodramma integro a noi pervenuto è invece una Euridice, sempre degli stessi due
autori, del 1600.
• Due anni dopo, nel 1602, lo stesso testo sarà musicato da Caccini, mentre al
1600 risale un'opera con personaggi però allegorici, che è La rappresentazione di Anima e
Corpo di Emlio de Cavalieri.
Euridice di Jacopo Peri: è una tragedia in un atto con prologo, cantato dalla Tragedia personi ficata
che annuncia la storia di Orfeo e Euridice, con finale lieto. I personaggi sono Orfeo e Euridice, varie
figure di pastori, Dafne, Venere, Plutone e Proserpina, Caronte, e un coro con ninfe e pastori, più un
gruppo di strumenti (a fiato, a corda, archi, liuto, clavicembalo, deputati a realizzare il basso
continuo). La ascoltiamo.
ORIGINI DELL'ORATORIO
A Roma c'erano molti di questi ritrovi nei luoghi di devozione: si ricorda ad esempio l'oratorio di
Santa Maria della Vallicella.
A cominciare dalla Rappresentazione di Anima e Corpo di Emilio de' Cavalieri viene l'idea di fare
un melodramma senza atti scenici da eseguire in questi oratori. Queste composizioni prendono
quindi anch'esse il nome di ORATORI: sono simili ad un'opera ma non c'è un'azione scenica, né
una scenogra fia, né i costumi, ma ci sono i personaggi, con i loro discorsi diretti. Fa da collante
una parte narrativa, che era la parte destinata allo storico che racconta le vicende. Questo
personaggio si chiamerà proprio ISTORICUS (in italiano “storico “ o “testo”). La parte narrativa
non viene per forza data ad una sola persona, ma la voce può anche cambiare, una parte potrebbe
anche farla il coro, di tanto in tanto. Nei primi oratori vi erano più voci che facevano i narratori,
solo più avanti si sceglie di assegnare questo ruolo ad un solo personaggio.
Il testo è di solito preso dalla Bibbia, dall'Antico Testamento, ed anche preso, come nei brani sacri
monodici, dalle vite dei santi, da leggende edi ficanti, anche da una vicenda inventata con
personaggi allegorici, come la stessa Rappresentazione. La base della scrittura è sempre una
monodia accompagnata, come il melodramma, salvo che qui c'è una presenza più preponderante
del coro, con le sue parti polifoniche, coro che fa una specie di commento alla storia. La polifonia di
questo coro non è troppo complessa, per lasciare spazio alla comprensibilità del testo. Qualche volta
il coro può quindi anche narrare la vicenda, non solo commentare.
Questi oratori fioriscono a Roma per poi diffondersi anche fuori Italia. Essi si possono dividere in
due filoni: uno in LINGUA LATINA e uno in LINGUA VOLGARE. L'oratorio in latino sembra
derivare dal MOTTETTO concertato: in Italia abbiamo Giacomo Carissimi, che vive a Roma nel
pieno del '600, poi abbiamo anche Stradella, Scarlatti, Vivaldi a Venezia, e Baldassarre Galuppi nel
corso del 1700. Nel corso del secolo successivo invece l'oratorio in latino decade, avendo poi una
ripresa con Lorenzo Perosi tra '800 e '900. L'oratorio in volgare, invece, prenderà sempre più piede:
esso sembra svilupparsi dalla LAUDA polifonica in volgare, che spesso si eseguiva negli oratori già
nel periodo precedente (un grande impulso all'oratorio lo diede San Filippo Neri a Roma).
L'oratorio in volgare è presentato, alla lettera, come “melodramma spirituale senza scene” da
Arcangelo Spagna, uno dei grandi librettisti, e viene musicato da molti autori: Scarlatti, Giovanni
Legrenzi, Maurizio Cazzati da Bologna.
L'oratorio in lingua volgare pian piano si diffonderà anche fuori dall'Italia, con lo svilupparsi di
oratori in altre lingue: famosi sono gli oratori di Bach (e anche le Passioni, che hanno la stessa
struttura), gli oratori di Handel in inglese, celebre dei quali sarà Il Messia, scritto a Dublino.
L'oratorio nelle varie lingue volgari avrà una storia molto lunga in tutte le nazioni: nel classicismo
si ricordano in tedesco gli oratori di Haydn, soprattutto La Creazione e Le Stagioni; nel
romanticismo troviamo quelli di Mendhelsonn e di Schumann.
Carissimi è vissuto soprattutto a Roma, figura di primo piano, grande didatta e compositore. Da lui
venivano allievi da tutta Europa, e scrisse vari oratori (si dice che ne abbia scritti 35), che spesso
chiamava Historiae sacrae, ispirate soprattutto all'Antico Testamento. Ricordiamo la storia di
Giona, Abramo e Isacco, Il Giudizio di Salomone, con una preferenza per i momenti patetici
dell'Antico Testamento. C'è lo spirito del melodramma, l'emozione è ricercata, e va a riprendere
elementi particolari.
Sono oratori in cui la parte vocale è quella che predomina, mentre il sostegno strumentale è
abbastanza leggero, spesso con organo e gruppo strumentale a tre parti; ad esempio due violini ed
uno strumento che fa il basso continuo. I brani corali erano tendenzialmente omoritmici, per far
capire meglio le parole, e le parti solistiche erano molto espressive.
Ascoltiamo lo Jephte (“iefte”): la storia è molto simile a quella di I figenia, la figlia di Agamennone,
e in questo caso è la figlia di Jephte che decide di sacri ficarsi di sua spontanea volontà, per onorare
la promessa che egli ha fatto.
Anche accordi che saranno poi considerati patetici, ad esempio la sesta napoletana, collegata con l’
idea di pathos, così de finita perché attribuita ad Alessandro Scarlatti, mentre si trova già prima in
Carissimi.
LA CANTATA
Tra il '500 e il '600 si sviluppa anche questo genere, che nasce con il passaggio dalla polifonia alla
monodia accompagnata; all'inizio il termine cantata voleva dire “pezzo da cantare”, come sonata era
un “pezzo da suonare”, successivamente si articolerà in un'alternanza di parti recitate e parti
melodiche in forma chiusa (le cosiddette ARIE), su accompagnamento di basso continuo e su vari
argomenti, lirici, narrativi, celebrativi, encomiastici, mitologici.
Si dividerà in cantata PROFANA (prevalentemente italiana), e cantata da chiesa (o cantata
SACRA), sviluppata in Germania. Per quanto riguarda il primo genere esse erano prevalentemente
composte da Alessandro Stradella, Luigi Rossi, e autori come Cavalli, Legrenzi, di scuola
bolognese, Cazzati, di scuola napoletana, Porpora. Tra i nomi più noti vi erano anche Pergolesi,
Alessandro e Benedetto Marcello, Antonio Lotti e Caldara. La cantata SACRA è invece praticata in
Germania, e trova un posto preciso nella liturgia protestante. Essa entrerà nell'Uf ficio liturgico, e
spesso si basa sul CORALE (vi saranno appunto le CANTATE SU CORALE), oppure su testi
poetici liberamente composti, ma che sono sempre un po' parafrasi delle scritture. La cantata sacra
sarà per organici più imponenti rispetto a quella profana, quindi con voci soliste, coro e una vera e
propria orchestra, e sarà praticata da tutti i più grandi autori tedeschi.
Una forma minore è invece il DUETTO VOCALE DA CAMERA, che si sviluppa in questo stesso
periodo: è una forma caratteristica perché un po' a metà strada tra l'antica polifonia e la nuova
monodia accompagnata. Quando le due voci cantano insieme, una delle due prevale dal punto di
vista melodico, oppure nel momento in cui una canta da sola con accompagnamento c'è questa
struttura di monodia, invece quando le due voci sono insieme e cantano in contrappunto c'è il
retaggio della polifonia più antica. Per il duetto da camera si ricorda Agostino Steffani, nato a
Castelfranco veneto, morto a Francoforte nel 1728, molto eseguito in Germania.
Questa passione per l'opera si trasferisce anche fuori dall'Italia: c'è chi pensa di creare un
melodramma nella propria lingua nazionale, prendendo spunto dall'opera italiana, ma proseguendo
in direzioni diverse. Questo tentativo riesce bene in Francia, con Lully, un italiano ( fiorentino),
giunto giovanissimo in Francia e divenuto l'emblema della musica francese. Lully è considerato il
vero creatore dell'opera nazionale francese, chiamata Tragèdie Lyrique, genere di cui
successivamente diventerà grande esponente Rameau, un grande musicista e teorico di musica.
Meno bene riesce il tentativo in Inghilterra, dove ci proverà Purcell, con la sua opera “Didone ed
Enea” su testo in lingua inglese, nel 1689. L'opera venne rappresentata come saggio finale in un
istituto femminile, neanche nei teatri; e non deve trarre in inganno il fatto che spesso si trovi nel
linguaggio inglese la parola opera, perché per loro con questo termine si indicavano le musiche di
scena scritte per i drammi in prosa, ben diverse dall'opera interamente musicata. Quello di Purcell
fu un tentativo pregevole, ma che non trovò continuatori, perché agli inizi del '700 giungerà a
Londra Handel, che porterà in Inghilterra l'opera italiana in lingua italiana.
L'opera PASTICCIO era invece un'opera confezionata mescolando arie scritte da tanti autori
diversi.
Anche nei paesi di lingua tedesca viene esportata l'opera italiana: al teatro di Amburgo si fa qualche
prova per il teatro in lingua tedesca sull'esempio dell'opera seria italiana, ma esso non andò per la
maggiore, e i vari tentativi furono poi abbandonati. Dal punto di vista musicale in Germania si
affermerà Vienna, con gli Asburgo e la loro corte assolutamente italo fila, anche per ragioni di
supremazia dal punto di vista dinastico. Questa corte quindi voleva anche appoggiarsi culturalmente
all'Italia, che aveva già una cultura consolidata.
L'opera italiana quindi si afferma in tutta Europa, e per essa vi sarà poi anche la riforma di Gluck
nel corso del '700, che riguardava l'opera seria.
L’ opera italiana si impone e soffoca i tentativi di formare un melodramma nazionale nei vari
stati .Ad eccezione della Francia, tutti i paesi europei sono soggiogati dall’ opera italiana, anche
grandi autori stranieri (Mozart su tutti) scrivono opere in italiano. Bisognerà aspettare a dopo il
Romanticismo per vedere scuole nazionali del melodramma, come in Germania
CLAUDIO MONTEVERDI (1567 - 1643)
È il più grande autore di musica vocale del suo tempo. Nato a Cremona, allievo di Marcantonio
Ingegneri, entra nel 1589 a far parte della Cappella del Duca di Mantova Francesco Gonzaga.
Dapprima fu suonatore di viola, poi diventerà maestro di cappella, e a Mantova compone le sue
prime opere. Alla morte del duca nel 1612 torna nella casa paterna, ma l'anno successivo si reca a
Venezia, dove dirige la cappella musicale di San Marco. C'era un vero e proprio concorso per
aspirare alla carica: bisognava presentare delle opere ai “giudici”, e in questa occasione Monteverdi
presentò dei brani che rappresentano la sua opera sacra più importante e andranno sotto il nome di
“Vespro della beata Vergine”, per voce e strumenti.
Oltre alla musica sacra, Monteverdi scriverà anche opere, di cui molti esemplari andranno perduti, e
molti libri di madrigali (8 pubblicati in vita, e un nono postumo); morirà a Venezia.
Nel madrigale e nel melodramma egli presenta le più importanti innovazioni, e si ricordano in
particolare le sue novità introdotte nell'opera “Orfeo”: riprende l'argomento dell'Euridice, la favola
in musica(non più tragedia), ed egli vuole muoversi sulla linea dei fiorentini nell'ambito del
melodramma, dandone però una sua versione molto migliorata musicalmente rispetto ai fiorentini.
Fu più artista e meno teorico ed intellettuale. Questa favola in musica, ossia l'Orfeo, si compone di
un prologo seguito da 5 atti su libretto di Alessandro Striggio ( figlio). Rappresentata a Mantova nel
1607, è un'opera che mette in primo piano subito la MUSICA: come i fiorentini anche Monteverdi
sosteneva il primato della parola, e la musica sarebbe dovuta essere un'ancella della parola, per
sottolineare meglio il signi ficato della parola. Nella pratica però Monteverdi è soprattutto musicista,
e alla fine di fatto sopravanzerà la musica rispetto alla parola. In questa opera già la struttura del
libretto mostra questo maggior peso dato alla musica, ed il prologo era cantato da un altro
personaggio allegorico, ossia proprio la MUSICA, inoltre la parte sonora è decisamente più elevata
del testo.
Questo è un cambiamento signi ficativo: Monteverdi in teoria sosterrà sempre il primato della parola
sulla musica, in pratica non solo mette le 2 arti sullo stesso piano, ma spesso i testi sono fatti in
funzione di essere musicati.
Monteverdi prende le mosse dal recitativo fiorentino, e poi supera questo tipo di recitativo, un po'
arido nei fiorentini. Inoltre accanto a questo, che serve di più per le parti d'azione, c'è un altro tipo di
recitativo: l'ARIOSO, più melodico rispetto a quello dei fiorentini, che verrà poi largamente ripreso
dalla scuola romana. Nell'opera vengono anche introdotte delle parti dalla melodia più sviluppata, e
in forma chiusa, che si possono eseguire a sé estrapolate dall'opera. Esse sono le prime ARIE, che
hanno un'introduzione strumentale ed un pezzo lirico in cui il racconto si ferma e c'è un personaggio
che canta ed esprime le proprie idee o sentimenti. Le parti solistiche si differenziano così in tre
forme: recitativo, arioso e aria.
È sviluppata anche la parte del coro, ora omoritmico, ora polifonico, ed ha maggior peso rispetto ai
fiorentini. Inoltre è sviluppata la parte di sostegno strumentale: l'opera prevedeva una toccata di
introduzione che sta alle origini dell'odierna SINFONIA D'OPERA, che doveva essere suonata tre
volte con tutti gli strumenti prima del levar del sipario per richiamare l'attenzione del pubblico.
All'interno dell'opera vi erano anche parti solo strumentali: dei ritornelli strumentali, e vi era anche
il basso continuo, scritto magari sotto le voci. Si sa però quali strumenti venivano utilizzati per
realizzarlo: sia strumenti ad arco, come le viole da braccio, sia strumenti armonici, come tastiere,
chitarroni, ottoni, fiati.
Ascoltiamo la toccata di introduzione dell'Orfeo.
Il brano viene eseguito più volte strumentalmente, prima che si alzi il sipario
Successiva opera la “Arianna”, rappresentata a Mantova nel 1608, andata perduta, salvo una parte ,
il noto “lamento di Arianna”, che chiede di lasciarla morire, dà il via alla tradizione operistica del
lamento, spesso saranno trattate su bassi ostinati che cooperano al senso del patetico. La ascoltiamo
altri lavori di genere rappresentativo sono andate perdute, poi opere per il teatro veneziano
Monteverdi madrigalista: Monteverdi scrive otto libri di madrigali, più uno postumo, pubblicati
tra il 1587 e il 1638; in questi libri si vede il passaggio del madrigale dalla forma polifonica a 5 voci
tradizionale alla forma monodica accompagnata, con accompagnamento strumentale, in cui il
madrigale viene snaturato perché alla fine la struttura sarà molto af fine a quella di un oratorio
profano, basato sulla monodia con accompagnamento.
Monteverdi comincia con madrigali a 5 voci, nel primo e nel secondo libro, con molti testi di
Torquato Tasso, poeta che rappresenta il passaggio dal Rinascimento al Barocco; già quindi nella
scelta del testo c'è questa voglia di cambiamento. Vi era ad esempio l'uso di dissonanze non
preparate, di accordi di settima e di nona, l'uso di ritardi, che lo allontanano dai linguaggi
tradizionali anche se la tessitura è a 5 voci. Le novità soprattutto in campo armonico e
contrappuntistico avevano suscitato le critiche di Giovanni Maria Artusi, che nel 1600 pubblica un
pamphlet a livello polemico: “Delle imperferzioni della musica moderna”, con primo bersaglio
proprio Monteverdi. Claudio pensa così di difendersi, e nella premessa al 5° libro annuncia che
avrebbe risposto al critico giusti ficando le proprie scelte musicali, anche se non risponde in prima
persona, ma la lettera viene pubblicata con la firma del fratello, Giulio Cesare, come prefazione agli
Scherzi musicali a 3 voci, con il titolo “Dichiarazione della lettera stampata”. In questa lettera di
risposta, molto importante per comprendere appieno il pensiero di Monteverdi, egli distingue due
pratiche della musica. Una prima pratica, che era quella in cui la musica sovrastava la parola, era la
pratica dei grandi contrappuntisti del passato, soprattutto fiamminghi. Poi però l'autore indica una
seconda pratica, in cui la musica deve essere concepita come ancella dell'orazione, del discorso, la
musica al servizio della parola e degli affetti che essa esprime. In questa pratica Monteverdi colloca
gli ultimi grandi madrigalisti e i primi autori di monodie accompagnate e dei primi melodrammi,
come Caccini, ed in fine mette anche se stesso, sostenendo quindi che tutte le sue novità in campo
musicale non sono fini a se stesse, ma sono fatte espressamente per mettere meglio in rilievo
determinati punti patetici del testo. La dissonanza quindi esprime ciò che nel testo è dolore,
tormento, sospiro, passione.
Oltre a questo egli modi fica anche la struttura del madrigale, innanzitutto mettendo sotto alle
voci un basso continuo che faccia da base armonica alla composizione, cosa che fa già alla fine del
libro quinto; inoltre modi fica anche il numero delle voci di volta in volta, variando da una voce
(monodia accompagnata con basso continuo) a più di 5 voci. Prende sempre più piede anche la
parte strumentale: a questo si arriva con il 7° e l'8° libro. Nel settimo è contenuta la forma ibrida
chiamata Il Ballo Tirsi e Clori, af fine al madrigale rappresentativo, e sempre nel libro settimo c'è
anche una lettera, mentre nell'ottavo vi sono madrigali guerrieri e amorosi: tra quelli amorosi c'è il
ballo delle ingrate, mentre come madrigale guerriero è presente il Combattimento di Tancredi e
Clorinda, considerato il suo capolavoro maturo; un'opera in cui lo stesso Monteverdi de finiva lo
STILE CONCITATO, che mira agli effetti. Questo tipo di madrigale porta un accompagnamento
che non è una semplice realizzazione di un basso continuo, ma è tutto una ricerca di particolari
strumenti per creare effetti descrittivi; il descrittivismo passa così dalle voci agli strumenti. In
questo madrigale (Combattimento di Tancredi e Clorinda) vi è una voce narrante che racconta la
vicenda, vi sono i due personaggi, e vi è il caratteristico accompagnamento strumentale(che si
occupa dell’ aspetto descrittivo della battaglia), con tremolo e pizzicato degli archi, il tutto in
funzione descrittiva , in stile concitato. Esso ha quindi la struttura di un oratorio profano: il
madrigale non esiste più nella sua forma originale.
Ascoltiamo un madrigale del secondo libro, su testo di Tasso: Ecco mormorar l'onde, madrigale a 5
voci in cui si descrive un paesaggio mattutino, il risveglio della natura al mattino, in cui sono
descritti vari aspetti (onde che mormorano, fronde degli alberi, canti degli uccelli) e gli effetti
psicologici che il paesaggio ha sull'animo dell'osservatore. Questo paesaggio rigenera ogni cuore
sofferente, è un madrigale da un lato descrittivo, dall'altro che punta sugli effetti emotivi.
Incomincia con le voci che sono quasi ferme, momento in cui la notte cede alle prime luci. La
musica inizia tranquilla, poi pian piano si inseriscono figurazioni ritmiche più veloci, per descrivere
il risveglio, figurazioni che via via si fanno sempre più mosse. Vi è anche una sorta di progressione
ascendente.
Ascoltiamo anche il Combattimento, con Tancredi, guerriero, e Clorinda, suo avversario nascosta
dall'elmo. È però un amore impossibile tra i due. Alla fine Tancredi ferisce a morte l'avversario, e
solo quando le toglie l'elmo vede la faccia dell'innamorata, con conseguente disperazione. Il pathos
è creato molto bene dagli effetti strumentali, al di sopra dei quali si dipana il testo.
L'OPERA IN EUROPA
L'opera nasce a Firenze, si sviluppa a Mantova, Roma, Venezia e Napoli. L'opera italiana inoltre
viene facilmente esportata in tutta Europa, e si impone sulle scene di tutti i teatri europei. In
principio però essa in fluenza la storia del teatro in un altro modo, spingendo gli autori locali a creare
un'opera simile a quella italiana, ma basata su testi scritti nelle varie lingue nazionali. Questi
tentativi poi furono generalmente abbandonati perché negli stessi Paesi si esportavano direttamente
le opere in italiano. L'unico paese in cui questo tentativo riesce è LA FRANCIA, anche perché lì già
esistevano delle forme rappresentative basate sulla narrazione di una vicenda. Un esempio era il
BALLET DE COUR, forma che ebbe fortuna già dal '500, in cui attraverso la danza si raccontava
una vicenda, di solito mitologica, che nascondeva però un'allusione ai fatti del momento e ai
personaggi celebri dell'epoca. L'esempio più celebre era stato il Ballet comique de la Reine, con
musiche di diversi autori, ma messi insieme da un musicista di origini italiane: Baldassarre
Baltazarini di Belgioioso. Questo genere era molto praticato, ed anche il Re Sole deve il suo nome
ad un balletto. La passione per le danze in Francia è tale che spesso si introducevano delle danze
anche tra i vari episodi di drammi e commedie del teatro di prosa, come nel caso delle Commedie di
Molière, in cui Giovanni Battista Lully introduce appunto delle danze. Si fa strada la Commedie
Ballée, termine che designa una successione di danze in ambito strumentale; da qui nascerà anche il
termine SUITE.
Dopo queste esperienze si fa strada l'idea di scrivere un'opera interamente musicata in lingua
francese, esperimenti che si fanno all'interno di un'accademia reale: l'Accademia Reale di Musica e
Danza. Un grande autore fu Lully, che partirà da questi esperimenti per creare un genere di teatro
musicale in francese: la Tragedie lirique; ed anche Lully operava all'interno di questa Accademia.
Tragedia lirica, quindi, chiaro riferimento alla tragedia greca, anche se il suo scopo era quello di
creare degli sfoghi sentimentali per il pubblico, per cui la trama è quasi un pretesto. Non c'è tanto lo
spirito tragico, ma un po' di sentimentalismo, spinto all'eccesso.
Giovanni Battista Lully era fiorentino, nasce nel 1632, e si sposta giovane a Parigi. Qui passa al
servizio del Re Sole, ottenendo la sua stima, e diventerà il simbolo della musica francese. A Parigi
Lully incomincia a comporre molti balletti per la corte, riorganizza il complesso della Banda dei 24
violini del Re, collabora con vari autori e commediogra fi, inserisce le danze all'interno degli
spettacoli del teatro in prosa, inserisce musiche in opere di Molière e di altri. È un periodo di grande
classicismo nella letteratura francese. Alla fine arriva all'idea di creare opere interamente musicate
in francese, e accanto ai balletti scrive opere in collaborazione con il poeta Quinaut, che sarà il suo
librettista. Scriverà opere come Alceste, Armida e altre.
Questa tragedia lirica francese presenta alcune strutture particolari: è molto più complessa e
grandiosa rispetto all'opera italiana, dalla quale in realtà si è ispirata. È in 5 atti (quella italiana in 3),
basati sui versi alessandrini, tipici di poeti classicisti francesi, si apre con l'Ouverture, molto diversa
da quella di Alessandro Scarlatti, che era in tre parti (Allegro, Lento, Allegro), mentre questa ha una
struttura quasi opposta: Grave, caratterizzato da ritmi puntati, che verranno detti “alla francese”, e
che vogliono già da subito rappresentare la nobiltà e la grandiosità della Francia, seguito da un
Allegro fugato, con contrappunto imitato, concluso con alcune battute di Adagio (qualche volta).
Come l'ouverture alla Scarlatti verrà imitata da molti autori, anche questa verrà ripresa da altri
autori, anche al di fuori del teatro, come pezzo di apertura di Suites o in altre occasioni. I due grandi
autori che la riprenderanno saranno Bach e Handel.
Introdotto lo spettacolo con l'Ouverture, compaiono recitativi e arie, ma a differenza di quanto
succede in Italia dove dopo Monteverdi prevale il RECITATIVO SECCO (tipico dalle parti
d'azione sottolineato dal fagotto, sostegno molto semplice e sobrio, recitativo che ricorda il parlato,
fatto di crome), in Francia il recitativo si conserva più melodico, più vicino all'ARIOSO
monteverdiano, che ha avuto meno successo nel proseguire dell'opera italiana, accompagnato anche
dal clavicembalo. Poi ci sono le arie, pezzi che possono essere estrapolati dall'opera, stasi
dell'azione in cui il personaggio esprime un'idea o un sentimento. Le ARIE nell'opera italiana,
sempre più virtuosistiche, erano state codi ficate da Scarlatti, e la forma che diventerà più tipica sarà
proprio quella scarlattiana con il DA CAPO.
Egli codi fica le forme dell'opera, che saranno caratteristiche dell'opera italiana tra '600 e '700: opera
in 3 atti, con una sinfonia di apertura “all'italiana”, che è in forma tripartita: Allegro,con
all'interno un Adagio, e un Allegro finale. Questa sinfonia di apertura aveva solo una funzione di
richiamo dell'attenzione del pubblico, e non ha nessun rapporto con l'opera che segue e con la sua
storia. Alla sinfonia di apertura come “riassunto di tutta l'opera” invece si arriverà solo nel '700 con
la RIFORMA DI GLUCK, riforma però non seguita da molti autori italiani, anche dopo Gluck.
Basti pensare ad esempio a Rossini a inizio '800, che si mantiene fedele alla codi ficazione di
Scarlatti tanto che le sue sinfonie di apertura possono essere usate indistintamente per aprire opere
serie ed opere buffe.
L'opera scarlattiana nei tre atti contiene recitativi e arie, e i RECITATIVI si dividono a loro volta
in:
- SECCHI :sono per le parti di dialogo e azione, e sono in un ritmo che è quello del
parlato: tutti valori uguali che corrispondono alle sillabe del testo. Questa diventerà la
parte meno interessante dell'opera italiana, trascurata a favore delle arie, e comunque si tenga
presente che la voce è sempre sostenuta da uno strumento: anche il recitativo secco è
accompagnato, ma solo dal CLAVICEMBALO che realizza il basso continuo.
Poi c'è l'ARIA, pezzo in forma chiusa, cantabile anche a parte estrapolata dall'opera, che
rappresenta un sentimento del personaggio, con l'azione che si ferma. L'aria tenderà ad essere
sempre più virtuosistica, e l'aria scarlattiana, ripresa poi da tanti autori, è l'aria con il DA CAPO.
Essa è formata da una parte A, una parte un po' diversa B, ed un ritorno alla parte A, scrivendo il
“da Capo”. Il da Capo può essere preso alla lettera oppure variato con abbellimenti, lasciati alla
libertà dell'interprete (sarà col tempo sempre più abbellito).
Vi erano poi i pezzi di insieme, cantati assieme da più personaggi. I più complessi sono i cosiddetti
CONCERTATI, in cui intervengono le voci soliste e l'orchestra. Ci sono in generale anche i CORI,
che però nell'opera italiana erano poco sfruttati, l'opera italiana sarà molto improntata sulle arie e
sui loro virtuosismi. Nelle opere italiane inoltre mancano quasi del tutto le parti di danza, che erano
invece molto importanti in Francia.
Anche in Inghilterra esisteva uno spettacolo simile alle danze francesi: il masque, teatrino popolare
con canti, danze, e con una predilezione per il sovrannaturale, che in fluenzerà il teatro di prosa
inglese nell'epoca elisabettiana. C'è quindi un antecedente di carattere rappresentativo, anche se non
è una vera e propria opera interamente musicata in lingua inglese. All'opera invece si arriva solo
con Purcell, anche se nella letteratura dell'epoca si trova spesso la parola OPERA, poiché gli inglesi
con questo termine intendevano degli inserimenti di musiche all'interno di rappresentazioni in
prosa, ma non un'opera interamente musicata.
Henry Purcell, autore geniale, fu dapprima fanciullo cantore, poi organista, attivo sotto vari
regnanti di Inghilterra. Ebbe una breve vita, tutta nella seconda metà del '600, e si cimentò nella
composizione di varie musiche di scena per vari spettacoli di teatro di prosa, nella composizione di
musiche religiose, di varia musica strumentale (sonate a 3, per esempio), tanti generi sia vocali che
strumentali. Inoltre Purcell lasciò come suo lavoro più importante questa unica opera in lingua
inglese interamente musicale: Didone ed Enea, un'opera non rappresentata in un vero e proprio
teatro (non si sa bene il perché), ma eseguita come saggio finale scolastico in un istituto femminile
di Londra. Per questo i personaggi sono quasi tutti femminili, e per le parti maschili si prese in
prestito qualcuno dall'istituto maschile vicino. L'esperimento di Purcell però non ebbe un seguito,
anche perché nei primi del '700 arriverà a Londra Handel e vi porterà l'opera italiana in lingua
italiana, e così si abbandonò l'idea di melodrammi in lingua inglese.
Didone ed Enea è ispirata al IV canto dell'Eneide di Virgilio, e narra uno degli episodi più toccanti
del poema. Sulle coste di Cartagine Enea è accolto dalla regina Didone, i due si innamorano, ma gli
dei hanno previsto che Enea debba partire lasciando la donna. L'eroe, combattuto dai sentimenti,
sceglie in fine il dovere e parte, e nel testo dell'Eneide c'è l'episodio di disperazione di Didone che
lancia una maledizione verso Enea e poi si uccide (secondo le tradizioni da questa maledizione
nasce l'odio tra Grecia e Roma).
È un'opera in 3 atti brevi, su libretto di un certo Tate che ha rivisitato la vicenda dandone una
versione un po' diversa dall'originale: si insiste sull'elemento sovrannaturale, che andava incontro a
questo gusto nordico, e si immagina che non siano gli dei che ordinano ad Enea di partire, bensì gli
spiriti maligni, le streghe che vogliono l'infelicità degli uomini e che mandano un falso messaggio
ad Enea in cui gli si dice di lasciare Didone. Questo è un elemento signi ficativo di differenza con il
poema virgiliano, c'è una ventata preromantica, perché una vera divinità non può voler separare due
persone che si amano, è un falso dio. Enea appare molto più combattuto che nel poema originale, e
alla fine decide di non partire. È poi Didone stessa che rinuncia a lui, in nome della purezza assoluta
del sentimento, e alla fine non lancia nessuna maledizione, anche se si uccide comunque. Nel finale
Didone canta un'aria molto dolce in cui spera di essere ricordata per il suo amore, e le parole chiave
sono REMEMBER ME, aria su un basso ostinato che si ripete sempre uguale, forma molto usata in
Inghilterra, sia nella musica strumentale che in quella vocale. I bassi ostinati erano bassi discendenti
su frammenti di scala, spesso cromatica, con cadenza conclusiva, che nella musica strumentale si
ripetevano sempre uguali, per le CIACCONE. Nell'opera e nella musica vocale si troveranno nella
forma del LAMENTO. La parte ultima dell'opera è un commento del coro sulla morte di Didone da
parte dei cupidi, che rimangono senza voce e fanno una danza funebre attorno a Didone.
È un'opera di sintesi: ci sono elementi italiani nelle parti melodiche, elementi francesi (si apre con
una Ouverture “alla Lully”), e all'interno ci sono arie in forma diversa, comprese quelle su basso
ostinato, ci sono cori e danze alla francese, elementi di disparata provenienza e un linguaggio molto
cromatico tipico del BAROCCO DI MEZZO, dove si passa dalla modalità alla tonalità.
Ascoltiamo Didone ed Enea. Cominciamo ascoltando l'Ouverture, con molti cromatismi al basso.
Il secondo atto è quello delle streghe, c'è l'elemento soprannaturale: la maga che sta a capo delle
streghe, la grotta dove si trova la maga. L'atto si apre con una parte strumentale, preludio per le
streghe, e poi interviene questa maga che parla a nome di tutte le streghe ed espone la sua filoso fia
dell'esistenza, spiegando che il loro scopo è rendere infelici gli uomini. Gli interventi della maga
sono intercalati dal coro, che fa le parti delle streghe. C'è anche il coro della risata, associato quindi
all'aria della risata. Abbiamo anche degli effetti di eco da parte del coro e alla fine c'è una DANZA
DELLE FURIE, strettamente legata all'azione.
Nel terzo atto c'è invece una danza dei marinai, ricompare di nuovo la maga, ripetendo lo scopo
della vita delle streghe; c'è ancora un coro e una danza delle streghe (molto vicino alla forma delle
opere francesi, come struttura), poi ricompare Didone, ultimo dialogo tra i due innamorati, e il
finale. L'aria finale è su basso ostinato con una discesa cromatica, tipica del lamento operistico: si
utilizzava ogni tanto anche nelle opere veneziane, come basso patetico. Appaiono anche gli amorini,
che cantano la parte corale molto tenue, e danzano una danza che va morendo insieme a Didone.
MUSICA STRUMENTALE AUTONOMA
All'inizio si cominciò trascrivendo brani vocali per strumenti, poi si creano brani strumentali sul
modello di brani vocali, per poi successivamente creare proprio dei brani originali di musica
strumentale.
Alcune delle prime forme di musica strumentale nascono molto spesso con la destinazione di
organo o clavicembalo: l'organo aveva molta importanza a Venezia, ed anche per questo molte di
queste nuove forme erano organistiche:
Queste prime forme strumentali spesso si trovano riunite in un genere chiamato MESSA
D'ORGANO. Con il passare del tempo si cantavano le messe con parti dell'ordinarium con coro
polifonico, mentre le parti del proprium erano ancora in gregoriano. Pian piano però il gregoriano
decade e si preferisce usare brani con cori polifonici al posto di quelli gregoriani, utilizzando i
generi sopra citati. La raccolta più importante di messe d'organo è quella di Frescobaldi, i Fiori
musicali (1635), che raccoglie i pezzi per 3 messe d'organo: le Messe della Domenica, della
Madonna e degli Apostoli. Analogamente nell'uf ficio liturgico luterano era d'uso preparare i cantori
facendo un'intonazione d'organo: il PRELUDIO AL CORALE, il choral-vorspiel, che anticipava
la melodia stessa del corale. I preludi al corale però potevano anche essere eseguiti
indipendentemente da un corale, e in questa forma li tratteranno i principali organisti tedeschi. Il
preludio al corale per organo di solito non comincia con la melodia del corale originale, ma con una
fantasia libera del compositore, e solo quando si arriva nel cuore del brano compare la melodia del
corale originale, fatta con note lunghe, cantus firmus, e si trova in un registro organistico che la
pone bene in evidenza.
Nasce a Ferrara nel 1583, allievo di Luzzasco Luzzaschi, lo stesso compositore che aveva
in fluenzato Carlo Gesualdo principe di Venosa, si reca a Roma nei primi del '600 dove lavora come
attore ed organista. Viaggiò nel nord Europa, nelle Fiandre in particolare, poi rientrò a Roma,
divenne organista in San Pietro, risiedette per quasi tutta la sua vita a Roma, esercitando una
importante attività didattica. Morì a Roma nel 1643. Nella sua opera Frescobaldi mostra una grande
varietà di forme e linguaggi: da un lato è molto legato al contrappunto, e anche quando scrive brani
con titoli che alludono a brani liberi (fantasie, capricci...), in realtà compone brani contrappuntistici,
curati con precisione matematica ereditata dalla scuola fiamminga. Usa molto accordi dissonanti per
creare il pathos anche se, al contrario di Monteverdi, qui non c'è un testo a sottolineare ancora di più
il pathos.
Scrive le raccolte strumentali Toccata e partita, Ricercare e canzoni francesi, i Fiori musicali, e
accanto alle opere strumentali troviamo anche opere vocali, come madrigali a 5 voci e alcune
composizioni sacre.
Forme che si sviluppano di più tra il '600 e il '700: la SUITE, la PARTITA, le FORME DI
VARIAZIONE e la SONATA.
LA SUITE
Il termine indica una successione di danze che sono destinate principalmente al clavicembalo,
danze che venivano riunite dalla tonalità comune. L'uso di unire delle danze era molto antico:
risaliva al Medioevo, e c'erano delle coppie molto celebri di danze. Nella suite invece ci sono tante
danze che si susseguono, qualche volta precedute da un preludio, forma che ad un certo momento
viene anche codi ficata da Froberger, allievo di Frescobaldi.
Nella suite ci sono 4 danze regolamentari: ALLEMANDA, CORRENTE, SARABANDA E
GIGA, e tra queste ultime due se ne potevano aggiungere altre: BOURRÉ, GAVOTTA e
MINUETTO, anche abbinate tra loro.
L'allemanda è in tempo binario (4/4) con inizio anacrusico, con tempo MODERATO;
la corrente è in tempo 3/2, con inizio in levare e andamento abbastanza vivace;
la sarabanda sembra di origine orientale, ma se ne trovano vari esempi anche in Spagna, tempo
lento, di solito in ¾, e spesso ne veniva fatto il double, ossia veniva ripetuta con abbellimenti
aggiunti;
la giga è in tempo composto (6/8 o 12/8), andamento vivace, una danza che sembra di origini
nordiche, ma le più belle gighe le hanno composte autori italiani, poi copiate anche da molti autori
stranieri.
Queste danze delle suites sono tutte nella stessa tonalità salvo magari un tempo centrale di rottura
(magari ce n'è una in minore invece che in maggiore). Ciascuna danza però ha una struttura
particolare: la FORMA-SONATA MONOTEMATICA BIPARTITA, ossia ogni danza è divisa
in due parti, basata su un unico tema. Ciascuna delle due parti ha un ritornello, e in genere la prima
va dal tono d'impianto alla dominante o alla relativa maggiore se inizia in minore, mentre la
seconda parte ritorna dalla nuova tonalità raggiunta a quella di partenza.
Quando si faceva il double di solito si faceva la prima parte com'era scritta, ritornello con
abbellimenti, la seconda parte come scritta, e ritornello della seconda con abbellimenti; gli
abbellimenti venivano af fidati all'esecutore, fatti sul momento in modo estemporaneo. Anche Bach
in seguito, quando vorrà scrivere i propri abbellimenti, dovrà polemizzare con altri teorici, i quali
sostenevano che la prassi esecutiva era legata all'improvvisazione.
I tempi di danza della suite possono essere preceduti da un PRELUDIO, nella stessa forma
bipartita e con lo stesso schema armonico delle altre danze. Ad esempio le suites inglesi di Bach
hanno il preludio, quelle francesi no.
La destinazione strumentale era di solito il clavicembalo, ma non solo, poiché l'organico non è
speci ficato. Spesso le suites potevano essere eseguite anche con altri organici, per vari complessi
strumentali, come quelle di Bach, chiamate anche OUVERTURE dal pezzo iniziale che fa le veci
del preludio, simile all'ouverture alla Lully.
Era una forma usatissima nel Barocco, in tutte le scuole tastieristiche dei vari paesi, ed in Francia ad
esempio le suites si chiamavano ORDRE.
Un'alternativa terminologica alla suite in Germania era invece la PARTITA, che in Italia indicava
una serie di variazioni. Oltre a tutte le forme viste, infatti, vi era anche il TEMA CON
VARIAZIONI, forma molto usata all'epoca. Le variazioni talvolta erano anche su una melodia
popolare, e prendevano titolo dalla melodia originale; citiamo la BERGAMASCA, PARTITE
SULLA FOLLIA e altre. Le variazioni procedevano con un susseguirsi di virtuosismo: il tempo era
sempre più veloce, poi c'era qualche momento di stasi, perché l'esecutore doveva anche riposarsi,
ma poi si tornava ad aumentare la velocità in ogni variazione. Spesso le variazioni erano su un
basso ostinato, ossia su una forma ritmico melodica del basso che si ripeteva sempre uguale. Il
basso ostinato era molto usato nella musica vocale, in particolare nelle arie operistiche in forma di
LAMENTO, e poi divenne molto usato anche nella musica strumentale, dando origine alla
CIACCONA.
LA SONATA
In origine il termine voleva dire solo “pezzo da suonare”, senza una struttura fissa particolare. Esso
inoltre si confondeva spesso con la CANZONA: brano con vari episodi, ma senza continuità, molto
legata anch'essa all'improvvisazione. La sonata era pensata per un esecutore che volesse dare
sfoggio di bravura. Man mano però il termine indicherà una struttura sempre più de finita: gli
episodi diventano più lunghi, si separano tra di loro dando origine ai MOVIMENTI, e si
sviluppano due generi di sonata: sonata DA CHIESA e sonata DA CAMERA.
Questi due generi vengono codi ficati da Arcangelo Corelli negli ultimi decenni del 1600. La
SONATA da CHIESA era divisa in 4 movimenti, alternati per quanto riguarda l'andamento agogico
(lento, allegro, andante, presto), e la struttura interna di ogni singolo movimento non è de finita; la
SONATA DA CAMERA, invece, è af fine alla suite, costituita da una serie di danze normalmente
precedute da preludio, danze che come nella suite sono nella forma-sonata monotematica bipartita.
La sonata da camera presuppone più virtuosismo da parte dell'esecutore, rispetto alle suites. Lo
stesso Corelli, però, crea delle possibili commistioni tra i due generi: si può trovare un tempo lento
in una sonata da camera, una danza che regala pausa tra le altre, oppure si può trovare un ritmo di
danza in una sonata da chiesa, anche se non citato come tempo di danza. Inoltre era frequente
chiudere una sonata da chiesa con un tempo di giga, senza però scrivere tale nome.
Per quanto riguarda l'organico, le sonate in principio erano destinate agli strumenti più vari: negli
ultimi decenni del '600 si afferma la SONATA A TRE, per due violini e violone con basso
continuo, due violini perché questo strumento fiorisce proprio in questo periodo, epoca delle grandi
scuole di liuteria. La parte più grave invece era fatta dal violone, o viola da gamba, strumento che
all'inizio dei movimenti aveva una parte un po' più marginale. Esso poteva anche avere una parte
simile a quella dei violini, ma di solito si svincolava da questa funzione più importante e si limitava
a fare le note del basso continuo, il quale però necessitava di uno strumento a tastiera che con la
mano destra facesse le armonie indicate dai numeri. Era quindi una sonata a tre, ma di fatto erano 4
gli strumenti coinvolti, aggiungendo anche il clavicembalo.
Si svilupperanno anche le sonate per violino solo, ma con basso continuo e un altro strumento di
accompagnamento. Qualche volta esse si potevano fare anche con due esecutori, ad esempio solo
violino con clavicembalo. Questa ambiguità nell'esecuzione si trova anche nelle diciture: si trovano
stampate frasi tipo “Sonata per violino e/o per violone”, che poteva indicare un diverso modo di
suonare.
Più avanti si svilupperà anche il genere del CONCERTO, ma solo nel '700.
STRUMENTI PRINCIPALI E SCUOLE
Citiamo in fine le scuole violinistiche, che nascono per prime in Italia. Ricordiamo 3 città
fondamentali: Venezia, Bologna e Modena; soprattutto Bologna, che diventerà famosa per gli
esperimenti di musica strumentale nella Cattedrale di San Petronio, dove suonerà Corelli. A
Venezia c'era Legrenzi, a Bologna c'erano Cazzati e Vitali, e a Modena c'erano Uccellini e
Colombi.
VITA
Corelli nasce a Fusignano in Emilia Romagna nel 1653, studia a Bologna con dei grandi violinisti
dell'epoca, Giovanni Benvenuti in particolare, i quali lo fanno entrare giovanissimo (a 17 anni)
nell'Accademia Filarmonica di Bologna, dove entravano artisti già di grande esperienza (più
giovane di lui ci sarà soltanto Mozart). Poi gli stessi maestri lo mandano a Roma, dove avrebbe
potuto apprendere di più dal punto di vista compositivo e contrappuntistico. Nella città era ancora in
vigore lo stile palestriniano, che però si stava allargando anche agli strumenti. C'è quindi questo
periodo di apprendistato romano sotto la guida di Simonelli, contrappuntista di scuola palestriniana;
a Roma Corelli rimane fino al 1671. Dal 1675 lo ritroviamo però di nuovo a Roma abbastanza
stabilmente, dove è attivo anche come esecutore nelle varie chiese romane. Si racconta anche di
suoi viaggi giovanili all'estero, Francia e Germania in modo particolare. Corelli dedicherà alcune
delle sue opere a dei principi tedeschi, quindi aveva probabilmente intessuto rapporti musicali con
la Germania in uno di questi viaggi (non documentati).
Si dice anche che Corelli avesse delle forme di rivalità con i seguaci di Lully; ci penserà poi un
grande autore, Couperin, a perorare la causa di “un'unione dei gusti” (reunion des gouts) italiani e
francesi, e scriverà due sonate che celebrano entrambi gli autori.
Corelli dunque vive quasi sempre a Roma, dove collabora ai concerti organizzati dalla regina
Cristina di Svezia, la quale fonderà poi l'Accademia dell'Arcadia. Ella era la principale
organizzatrice di concerti in quel tempo, e in questo contesto Corelli si fece conoscere anche per
aver creato il ruolo del DIRETTORE D'ORCHESTRA, dirigendo 150 violini.
Fu poi a servizio di Benedetto Pan fili e Pietro Ottoboni, entrambi cardinali. Anche qui la stima di
cui godeva è dimostrata dai documenti: quando era al servizio del cardinale Pan fili ad esempio, si
dice che Corelli venisse accolto tra i famigliari dello stesso, ed era quindi considerato dai cardinali
come un pari. Ottoboni d'altro canto gli assegna un appartamento nel suo palazzo, altra sede di
concerti molto importante a Roma, e assicura a Corelli un'agiatezza tale che egli poteva avere una
sua casa in piazza Barberini. Qui Corelli collezionò molti quadri di pittori fiamminghi, ebbe fama e
benessere economico.
Questa sicurezza economica fece la sua parte nel favorire l'attività di Corelli, che poteva quindi
dedicarsi all'esecuzione e alla composizione, ricercando costantemente la perfezione in entrambi i
campi. Egli voleva lasciare dei modelli perfetti nei vari generi musicali, aveva l'ambizione di
diventare un classico in tutto, per cui lavorava moltissimo di lima, non ci lascia molte composizioni,
ma alle sue opere Corelli lavorava per anni. Data la sua agiatezza egli non si mosse più dalla città,
anche se altri potenti tentavano di attirarlo a loro ad esempio da Modena.
Corelli morì a Roma nel 1713 e venne sepolto nel Pantheon. Nell'anniversario della sua morte
andarono dei musicisti ad eseguire delle sue opere in memoria dell'artista.
OPERE
Non sono molte: le prime 4 opere sono Raccolte di sonate a 3 (2 violini e violone), alternate da
chiesa e da camera. All'epoca era d'uso pubblicare le opere in gruppi da 6 o da 12, e così fece
anche Corelli per queste raccolte. Egli però le pubblica ogni 3-4, e poi pubblica anche Raccolte di
sonate per violino e violone e/o basso continuo, pubblicate nel 1700. L'ultima sua opera, l'Opera 6,
contiene dodici concerti grossi e fu pubblicata postuma nel 1714 a cura di Matteo Fornari, suo
allievo prediletto, documentato da varie testimonianze di musicisti. I concerti dell'opera 6 erano
stati cominciati a scrivere già dal 1680. L'opera 3a di Vivaldi, infatti, è stata pubblicata prima
dell'Opera 6a di Corelli, ma ri flette uno stile musicale già successivo a quello di Corelli.
La sonata DA CHIESA corelliana è in 4 movimenti alternati per andamento agogico, senza una
struttura interna fissa per ogni singolo movimento e con un basso continuo realizzato dall'organo.
Per le sonate da CAMERA invece i movimenti sono danze, spesso precedute da un preludio,
accomunate dalla tonalità di impianto, e ciascuna di esse è nella forma sonata monotematica
bipartita. Le prime sonate di Corelli, però, restano tutte in tonica, poiché la tonalità si era appena
affermata. Queste sonate sono basate sul dialogo tra i due violini, a cui ogni tanto partecipa anche
il violone: abbiamo spesso un'entrata FUGATA dei tre strumenti, nell'ordine violino primo,
violino secondo che lo imita e violone, mentre poi dopo il brano diventa in contrappunto libero.
L'Opera 5° (violino e violone e cembalo,1700) mostra un'evoluzione dei movimenti rispetto alle
prime 4 opere di sonate a 3; nell'opera compaiono entrambi i generi da chiesa e da camera. Le
sonate da camera sono più simili alle precedenti sonate a 3 come taglio dei movimenti, salvo
l'ultima che non è nella forma solita della sonata, ma è un tema con variazioni sulla FOLLIA
(melodia di danza lenta di origini portoghesi, in Re<); sono sonate importanti per lo studio del
colpo d'arco. Le sonate da chiesa invece risultano diverse da quelle scritte in precedenza: qui si
arriva a 5 movimenti, disposti secondo un preciso ordine:
• un primo movimento con dicitura Grave, che però si riferisce solo alle prime
battute, poiché al suo interno l'agogica può cambiare, con dei richiami all'improvvisazione
(antica arte), con scritture abbreviate,cambiamenti repentini , arpeggi; movimento libero;poi
iniziano movimenti più strutturati
• un secondo movimento Allegro con apertura fugata a 3 entrate, ossia con le 3
entrate in imitazione (come nella sonata a 3). In realtà c'era un solo violino e un violone che
fa una parte concertante, ma ci sono comunque 3 entrate perché il violino può fare due parti:
esso esegue il soggetto e poi si fa da solo la risposta, per avere in fine il terzo ingresso da
parte del violone. Successivamente torna il violino solo con la sua melodia, e c'è anche
spazio per una cadenza a valori rapidi ( cadenza di bravura per il violino solo);
• un terzo movimento di nuovo Allegro con carattere di Moto Perpetuo: qui il
violino fa delle quartine con valori rapidi ed il basso marca i tempi principali della battuta;
questo tipo di movimento non c'era nelle sonate a 3, e serve a mettere in rilievo la bravura
del violinista;
• il quarto movimento è un tempo lento (Adagio o Andante), e spesso si
dovevano introdurre delle fioriture. La melodia di per sé era abbastanza scarna, ma c'è il
problema delle fioriture in quanto non abbiamo delle fioriture scritte da Corelli stesso, bensì
si lasciava all'improvvisazione dell'artista. Ci sono pervenute invece delle fioriture scritte da
allievi di Corelli, e quando si devono eseguire oggi delle sonate di Corelli esse si eseguono
aggiungendo le fioriture dei suoi discepoli, anche se questi documentano una fase successiva
del violinismo, quando il virtuosismo era andato avanti;
• il quinto movimento era un brano brillante con tempi veloci, in stile di Giga
(non ha la struttura bipartita, ma il ritmo la ricorda).
Ascoltiamo qualche sonata dell'Opera 5° di Corelli: come sonata da chiesa ascoltiamo la Sonata n°1
in Re>, divisa in 5 tempi. C'è un Grave iniziale, ma al suo interno la voce cambia: è un esempio di
tempo libero, che ha legami con l'improvvisazione. Si inizia con una frase in tempo grave, che viene
abbellita, e così facendo si accelera un pochino il tempo, dopodiché c'è un Allegro, dove, se c'è
scritto un accordo, l'esecutore lo eseguiva come un arpeggio. Si riprende successivamente l'Adagio,
con la sua melodia, per arrivare alla tonalità della Dominante. Si replica poi tutto il pezzo da capo
nel tono della Dominante, con la conclusione allungata per dare un effetto più conclusivo.
Successivamente c'è un Allegro con moto, un Adagio e poi un Allegro finale, in tempo di Giga
(anche se non è scritto sulla partitura), su un tema a note ribattute, e anche qui c'è un'entrata fugata
con i tre strumenti.
Ascoltiamo anche un esempio di Sonata da camera: la n°9 in La>, che si apre con un Preludio in
tempo Largo, bipartito nella solita forma. Il secondo tempo è una Giga, in tempo Allegro, e qui ci
si avvicina alla forma TRIPARTITA: A con ritornello in cui si passa alla Dominante, poi una parte
B, seguita di nuovo dalla parte A sulla tonica con ritornello dalla B fino alla fine. Questa forma è
chiamata forma “a cerniera”. Nel periodo classico la parte B sarà chiamata la parte “di sviluppo”,
adesso però essa non ha ancora questa funzione. Il terzo tempo è un Adagio, mentre il quarto è un
tempo di gavotta Allegro, una danza tipo Giga, ma in tempo binario.
CONCERTI GROSSI
Opera 6°
Il concerto grosso (capitolo 25): composizione solo strumentale basata sulla opposizione di 2 entità:
1 o più strumenti solisti e un orchestra ( o compagni più numerosa ) costituita essenzialmente da
archi, in cui si esalta la componente della “gara” tra le 2 entità, il dialogo, l’ alternanza.
Concerto non è più sinonimo di sinfonia, come con i Gabrieli;si sviluppano 2 tipi di concerti: il
concerto solistico e il concerto grosso
-Concerto solistico: un solo strumento che si oppone all’ orchestra
-Concerto grosso: un gruppo si solisti si oppone all’ orchestra
Nella prima fase del concerto grosso questo gruppo solistico ( detto concertino) era
costituito da 2 violini e violone, sempre accompagnati dal basso continuo (organico della
sonata a 3)
Le parti dell’orchestra sono costituite da violini 1, violini 2, viole e bassi; quando le 2 entità
suonano insieme, il violini primo del concertino andrà con i primi dell’ orchestra, il secondo con i
secondi, il violone con i bassi, quando invece il concertino suona da solo, può anche fare qualche
parte un po’ più virtuosistica, ma non si scosta troppo dai temi dell’ orchestra: l’ opposizione è
puramente di natura dinamica, basata sulla contrapposizione (stile “a terrazze”) , anche in
partitura vediamo tutto un gioco di pieni e di vuoti; ci andrà ancora tempo per un ‘opposizione
tematica.
I 2 tipi di concerto nascono nello stesso periodo: per il Concerto grosso si ricorda Corelli, per il
solistico Torelli (anche lui bolognese); il concerto grosso avrà molta più fortuna, varierà anche la
composizione del concertino, aggiungendo dei fiati, mentre l’ orchestra continua ad essere composta
di archi.
Nella seconda metà del 700, invece, si affermerà sempre più il concerto solistico, a discapito del
concerto grosso, seppure aggiungendo qualche volta degli altri solisti, ma sempre come singoli, non
come gruppo (“concertino”).
CORELLI, opera 6
12 concerti grossi, per la prima volta si rompe la simmetria tra concerti da camera e da chiesa: 8 da
chiesa e 4 da camera
I concerti da chiesa hanno forme ancora più varie delle sonate da chiesa
Abbiamo ancora un aumento del numero di movimenti, che è inde finito
Caratteristiche successione di 2 , anche 3 ,movimenti che si succedono , quasi sono l’ uno l’
introduzione di un altro, l’ idea è sempre quella di sorprendere l’ ascoltatore. Troviamo anche dei
movimenti fugati, una specie di trasposizione della scrittura palestriniana agli strumenti, seppur
utilizzando il linguaggio tonale e non quello modale
Quelli da camera sono molto più semplici, con una prevalenza melodica del primo violino.
//revisione
Ascoltiamo alcuni concerti grossi. Cominciamo con il concerto II da chiesa in Fa>. Suddivisione
dei tempi: un primo tempo Vivace (poche battute di introduzione), attacca poi il primo Allegro, con
apertura a 3 entrate: violino primo, violino secondo e basso con orchestra (come nella sonata a 3, c'è
opposizione DINAMICA); poi una progressione porta alla Dominante, dove inizia l'Adagio
armonico. A questo punto si ripete tutto nella Dominante (in Do), quindi di nuovo Vivace, Allegro,
e i due violini rincorrendosi sembrano tornare alla tonica, ma ci si collega invece ad un Largo
andante con una battuta di Adagio, senza una forma de finita; poi vi è un Allegro fugato, brani a
metà strada tra contrappunto di Palestrina e quello più moderno, con le ultime battute che sono
sopra un pedale (nota grave tenuta a lungo, come sarà poi nelle Fughe). In fine abbiamo una
successione di tre movimenti, ciascuno introduttivo al successivo: un Grave, che introduce un
Andante largo, e questo a sua volta introduce un Allegro in ritmo di Gavotta, nella forma A
CERNIERA, forma sonata monotematica che supera la bipartizione, in quanto c'è un'esposizione A
ritornellata, una parte B come cerniera, e una ripresa di A, e tutto il B-A viene ripreso nel ritornello.
Ascoltiamo anche il concerto numero IV in Re>, che è sempre un concerto da chiesa. Suddivisione
dei tempi: Adagio, pochi accordi di introduzione, poi c'è un Allegro iniziale, nella forma a cerniera,
con una parte B che parte dalla Dominante ed è abbastanza prolungata; in questa parte la
conclusione è solo anticipata dai due violini del concertino che partono per primi, e anticipano una
forma cadenzale che sarà poi il tema, mentre il tema effettivo è in realtà al basso: una scala
discendente nel tono di impianto. I violini di concertino fanno una specie di moto perpetuo per tutto
il brano, scambiandosi a vicenda le parti. Poi c'è un Adagio, di tipo processionale, con tutte crome
uguali, alla tonica parallela, dove compaiono delle dissonanze che rendono patetico il brano,
dissonanze ottenute con la tecnica del ritardo armonico, frutto della scuola tedesca. L'Adagio è di
interesse puramente armonico. Successivamente abbiamo un Vivace in forma bipartita in tempo
ternario, una specie di minuetto. Poi abbiamo un Allegro, in forma bipartita, con ritmo di Giga
(scritto in 2/4, ma è come fosse un 6/8). Questo era il tempo che di solito terminava un concerto, ma
invece Corelli aggiunge anche un ultimo Allegro, un gioco pirotecnico dei violini del concertino, a
cui si aggiungono poi gli altri strumenti, con un grande crescendo che conduce alla conclusione.
Ascoltiamo ancora il concerto n° VIII, in Sol<, fatto per la notte di Natale. È composto da un
Vivace introduttivo di pochi accordi, poi un Grave con andamento contrappuntistico, nel quale le
voci si aggiungono in successione, ascendenti, a valori larghi. Qui è presente sullo spartito anche la
dicitura “arcate sostenute e come sta”: ossia gli esecutori dovevano eseguire tutto com'era scritto,
senza introdurre abbellimenti. Questo Grave sembra una trascrizione da Palestrina; poi c'è un
Allegro, in stile concertante, dove ci si sposta in Re>, per poi ritornare al Sol< (forma bipartita); poi
c'è un Adagio, con i due violini di concertino che si alternano nella linea melodica (in Mib>), in cui
però prevale uno stile sinfonico, in cui tutti gli strumenti, anche la viola, hanno una loro parte
signi ficativa. L'Adagio è interrotto da un Allegro, a-tematico, una interruzione un po' teatrale, per
poi riprendere l'Adagio, che termina con un bel finale col basso discendente. C'è successivamente
un Vivace bipartito in tempo ternario di danza, e poi un Allegro concertante, con ingressi alternati
degli strumenti da concertino, con forma a cerniera. Questo Allegro potrebbe chiudere il concerto,
ma dato che è la notte di Natale Corelli aggiunge anche una Pastorale ad libitum, in 12/8 in Sol>,
con i due violini che vanno insieme a distanza di terza, mentre l'orchestra tiene la tonica di bordone.
Nel finale le parti si invertono, la melodia sarà fatta dal violone, mentre i violini terranno il bordone.
SCUOLA CORELLIANA
Molti violinisti e compositori furono allievi dello stesso Corelli, provenienti da tutte le parti
d'Europa. Essi poi, tornando in patria, portarono con loro il linguaggio musicale corelliano e italiano
in generale. Tra di essi si ricordano Giovanni Battista Somis (di Torino, recatosi a Roma a studiare
con Corelli), e Andrea Stefano Fiorè. Essi furono anche i fondatori di una importante scuola
musicale piemontese, e furono a loro volta maestri di una successiva generazione di musicisti.
La scuola corelliana, che puntava alla dolcezza e alla potenza espressiva del suono piuttosto che alla
tecnica della mano sinistra ebbe un profondo e duraturo successo. Addirittura quando Brahms nel
tardo '800 scrisse un concerto per violino ammise di essersi ispirato a Giovanni Battista Viotti, che
era stato a sua volta allievo degli allievi di Corelli, ed interprete della sua scuola.
Sempre tra gli allievi di Corelli ricordiamo Francesco Geminiani, che portò il gusto corelliano a
Londra, e Pietro Antonio Locatelli, che inserisce nei suoi concerti dei capricci più virtuosistici
rispetto allo stile corelliano, ma sempre ispirati a quest'ultimo. L'in fluenza corelliana arriva anche
all'opera per violino di Leopold Mozart, padre di Wolfgang Amadeus.
Intanto Venezia rimaneva la città contrapposta a Roma per eccellenza (già lo era stata prima nelle
scuole del contrappunto e poi nell'opera). Ciò che viene da Roma è in genere più austero e
monumentale, mentre ciò che viene da Venezia è più colorito, vivace, innovativo.
La scuola veneziana è impersonata da Antonio Vivaldi, figura eccentrica e controversa.
VIVALDI
Vivaldi nella sua vita fu anche ordinato sacerdote (detto “il prete rosso”, per via dei suoi capelli),
ma poi fu dispensato dal dir messa, per motivi di “salute”, che però a quanto pare non gli
impedivano di suonare. Egli fu attivo per anni all'”Ospedale della pietà” di Venezia, che era un
orfanotro fio in cui si insegnava anche la musica, un po' come accadeva nei Conservatori napoletani.
Alla fine dell'anno negli orfanotro fi si tenevano dei concerti, e Vivaldi fu l'anima dei concerti
dell'Ospedale della pietà. I concerti di Vivaldi erano scritti per le allieve di quest'Ospedale e la
dif ficoltà e il virtuosismo della sua scrittura testimoniano il grande livello raggiunto da queste
allieve. La spinta data da Vivaldi fece si che l'Ospedale della pietà diventasse uno dei più importanti
centri musicali italiani, di cui parlavano bene anche critici musicali e giornalisti stranieri.
Successivamente però l'estrosità e la personalità vulcanica di Vivaldi lo portarono a lasciare
l'Ospedale e a cercare fortuna nell'impresariato teatrale e nella produzione musicale in vari generi,
facendolo viaggiare anche in altre città. Non essendo però stato in grado di amministrare bene le sue
finanze, e tradito dal suo impeto, Vivaldi finì in miseria. Egli scrisse due opere teatrali: “L'Ottone in
Villa” e “La Fidaninfa”; inoltre ci ha lasciato diverse cantate, musica sacra (glorie, magni ficat,
salmi, un oratorio), anche se la sua opera più nota ed eseguita è quella strumentale. Molte opere
autentiche di Vivaldi si trovano a Torino, nella biblioteca nazionale.
L'opera omnia di Vivaldi è stata pubblicata sotto la direzione di Gianfrancesco Malipiero negli anni
'40 (ed. Ricordi) e si è fatta una sua prima catalogazione ad opera di Fanna negli anni '60. La
catalogazione però era fatta per organico delle opere. Successivamente è stata fatta un'altra
catalogazione più moderna ad opera di Peter Ryom. Perciò le opere di Vivaldi si trovano sotto due
numeri di catalogo: F di Fanna o R di Ryom.
L'opera strumentale di Vivaldi comprende sonate e concerti, alcuni sciolti ed altri pubblicati in
forma di raccolta. Le novità introdotte da Vivaldi riguardano innanzitutto la forma: il concerto
diventa in 3 tempi: allegro – adagio (o andante) – allegro, mentre quello di Corelli era in 4-6 tempi.
-Il primo allegro è nella forma cosiddetta “a ritornelli”, ossia c'è un tema del TUTTI
ricorrente, alternato ad episodi solistici sempre diversi.
-Nel secondo tempo si alleggerisce molto l'accompagnamento orchestrale per far emergere i
solisti
- Il terzo tempo ritorna alla forma “a ritornelli” e propone un ritmo di danza rapida e brillante, di
solito sotto forma di giga.
Un'altra caratteristica innovativa è la timbrica di questi concerti: Corelli si limitava a scrivere per
archi, sia nei solisti che nell'organico orchestrale. Vivaldi invece, pur preferendo il violino che è il
suo strumento, scrive concerti per tantissimi altri strumenti: anche per fiati ( flauto, fagotto, tromba,
oboe); egli scrive addirittura per strumenti insoliti o popolari, come il mandolino. Questo gusto
coloristico ispira a Vivaldi concerti d'insieme, dove non ci sono solisti de finiti, bensì i vari strumenti
possono emergere di volta in volta portando alla melodia il loro colore.
Nella musica di Vivaldi è importante notare anche il suo descrittivismo: egli scrive ispirandosi a
delle poesie di cui si sforza di illustrare i diversi passaggi, usa l'onomatopea in musica. Alcune delle
poesie a cui si ispira sono scritte da Vivaldi stesso. Questo descrittivismo si nota in particolare nei
primi 4 concerti dell'opera 8, che sono proprio le famose 4 stagioni. Le raccolte più importanti di
Vivaldi sono l'opera 3: “L'estro armonico”, pubblicata nel 1712 ad Amsterdam e l'opera 8:
“Cimento dell'armonia e dell'invenzione” pubblicata sempre ad Amsterdam nel 1725. Nel titolo di
quest'ultima raccolta il termine “armonia” signi fica “regole consolidate”. Perciò entrambi questi due
titoli indicano una dialettica tra l'”estro”, l”invenzione” dell'autore, che si contrappongono e cercano
di incastrarsi con le regole consolidate dell'armonia.
Ascoltiamo il primo tempo di un concerto d'insieme di Vivaldi, che mostra bene le differenze di
Vivaldi con Corelli. È un concerto in DO Maggiore per 2 flauti, 2 tiorbe (strumento af fine al
chitarrone), 2 mandolini, 2 salmoè (o chalumeau: lo strumento antenato del clarinetto), 2 violini e
violoncello (questo è tutto l'organico dell'orchestra, i cui strumenti alternatamente emergono come
solisti). È l'Opera 64 n.6.
I concerti corelliani, pubblicati tardi, furono in realtà composti prima dei concerti di Vivaldi, e
perciò ri flettono uno stile precedente.
“L'estro armonico” di Vivaldi:
è composto da 12 concerti divisi in 3 gruppi: per 4 violini, archi e continuo, per 2 violini, archi e
continuo, per 1 violino solo, archi e continuo. Come già detto il titolo indica il contrasto tra l'“estro”
del compositore e le “regole consolidate” dell'armonia.
Successivamente anche Bach si ispirò ai concerti vivaldiani.
Ascoltiamo il concerto il LA minore, opera 3 n.8 per 2 violini, archi e continuo. I tempi sono
allegro – larghetto e spiritoso – allegro. Il primo allegro è nella forma “a ritornelli”: basata su un
tema ricorrente del tutti in cui si alternano episodi solistici. I temi si differenziano molto da quelli
corelliani: sono più incisivi, più caratterizzati dal punto di vista ritmico-melodico, caratterizzati
anche da molte ripetitività. Nel lessico musicale vivaldiano, a differenza di Corelli, prevalgono le
figure musicali discendenti, in Corelli invece si tendeva al trascendente, salendo verso il registro
acuto. Ogni compositore così cominciava a crearsi il suo vocabolario musicale.
Il più interessante è il secondo movimento, in re minore. Il termine “spiritoso” si può intendere nel
senso di “spiritico”, ed evoca la Venezia notturna, in cui le maschere si nascondono nell'ombra (è
questa l'atmosfera che suscita il descrittivismo vivaldiano). Si apre con un tema del tutti molto
grave, anche con intervalli di ottava discendente. Esposto il tema inizia un canto dei violini, molto
lamentoso, mentre il tema del tutti resta in sottofondo come accompagnamento. Poi alla fine il tema
riprende il sopravvento, tronca il canto dei soli e ritorna nel forte in primo piano. Tutto ciò prende
spunto dalle forme barocche su basso ostinato, perciò rientra in questo senso nelle convenzioni
dell'epoca. La grande novità invece è che qui c'è già un contrasto tematico tra tutti e soli,
anticipando tempi più avanzati in cui si giungerà all'esasperazione di questo contrasto, come ad
esempio in Beethoven. A proposito di Beethoven si è poi parlato del contrasto tematico tra secondo
e primo tema di una forma sonata coniando i termini di “Principio supplichevole” e “Principio
contrastante”.
Il secondo allegro è più solare, ripropone la forma a ritornelli, e la figura tematica del tutti è
composta da note ribattute e da frammenti di scala discendente. Ad un certo punto il secondo
violino prende l'iniziativa con un suo tema, accompagnato dal primo violino con dei tremoli. Questo
intervento si esaurisce poi nel tutti ed il concerto chiude nel registro grave, tanto caro a Vivaldi.
Un altro aspetto del concerto vivaldiano è il concerto di tipo descrittivo, documentato soprattutto
dai primi 4 concerti dell'opera 8, intitolata “Il cimento dell'armonia e dell'invenzione” per un violino
e orchestra. I primi quattro concerti sono proprio quelli intitolati alle quattro stagioni. Qui Vivaldi
non si limita ad un descrittivismo generico, ma crea una delle prime musiche “a programma”,
ossia deve illustrare con la musica in modo molto preciso i diversi passaggi di un testo letterario.
Qui il testo è costituito da quattro poesie che descrivono le stagioni. Non si sa con sicurezza chi sia
l'autore di questi quattro sonetti (erano proprio sonetti, che era la forma più consueta della poesia
italiana), e spesso vengono attribuiti a Vivaldi stesso. In ogni poesia Vivaldi tenta di identi ficare una
prima parte che si adatti al tempo Allegro, una parte centrale su cui scrivere un Adagio o un Largo
ed una parte finale adatta ad un nuovo Allegro.
Anche qui nel primo allegro è presente la forma “a ritornelli”. Il tema del tutti esprime la gioia per
l'arrivo della primavera, mentre gli episodi solistici descrivono situazioni più particolari come ad
esempio il canto degli uccelli.
Primo allegro: prime due quartine
Largo: Prima terzina: “il sonno del pastore”
Secondo allegro: ultima terzina, è una “danza pastorale”
Le 4 stagioni in generale:
Musica strumentale “a programma” che si basa su un programma letterario.
Alla base ci sono 4 sonetti, spesso attribsuiti a Vivaldi stesso e, siccome non c’è una
documentazione sicura, si ipotizza che siano state scritte addirittura dopo i concerti , sicura è l’
attinenza tra le frasi della poesia e le frasi musicali.
Il sonetto (2 quartine e 2 terzine) era la forma più usuale della poesia italiana, ma è stata musicata
abbastanza poco, questo è uno dei pochi esempi.
Questi concerti combinano una forma a priori : fonde il concerto in 3 tempi ( allegro, lento, allegro)
con intenti programmatici e descrittivi.Il modo in cui il sonetto viene diviso tra i 3 tempi varia
In ognuna della 4 stagioni compaiono questi 3 momenti.
Per esempio nel primo allegro che ha la forma a ritornelli, il tema del “tutti” è pensato come un
pensiero che ritorna, interrompendo anche i versi che compaiono dopo; in questo caso il tema
rappresenta la gioia per il ritorno della primavera; la descrizione è fatta da episodi solistici, mentre
questo tema della gioia rinnovata ritorna.
Così anche negli altri concerti abbiamo l’ opposizione tra il tema del “ tutti” e gli altri elementi
Primavera: primo allegro... , tempo lento rappresenta il dolce sonno del pastore in una natura fiorita
col cane vicino che veglia sul suo sonno, si cerca quasi di descrivere anche il latrato del cane; l’
ultimo movimento è una danza pastorale di ninfe e pastori (descrizione grecizzante)
Le altre stagioni hanno sempre questa struttura di un tempo Allegro, un Adagio e un Allegro finale.
Ascoltiamo l'Estate. Nella poesia vi è un'introduzione che presenta il calore che caratterizza la
stagione e che spegne la vitalità degli animali, ma poi il paesaggio si rianima, gli uccelli cantano, e i
venti riprendono a sof fiare. Tutto questo va a finire nel primo tempo della stagione, abbiamo poi un
momento di sosta, in cui nella poesia si parla del pianto del pastorello che teme un temporale; e
in fine abbiamo proprio il temporale, che caratterizza l'ultimo tempo.
Il concerto è in Sol minore, e i tempi sono Allegro non molto – Allegro, Adagio e Presto.
Dopo l'Estate ascoltiamo l'Autunno: nella poesia c'è la festa per la vendemmia nel primo tempo:
balli e canti accesi dal vino. Poi vi è la descrizione del sonno degli ubriachi dopo la festa; sarà un
sonno più pesante, con note lunghe che rappresentano il sopore degli ubriachi. Nell'ultimo tempo c'è
invece una descrizione della caccia, l'inseguimento e la cattura della belva. Il concerto è in Fa
Maggiore, con tempi Allegro, Adagio e Allegro.
Ascoltiamo anche l'Inverno: nella poesia si descrive il gelo dell'inverno, descritto nel primo
movimento tramite una serie di note ribattute che trasmettono il tremito, il battere dei denti, il
battere i piedi per terra per scaldarsi; il secondo movimento mette a contrasto un interno famigliare
con l'esterno, freddo e gelido, è quindi un movimento largo, con la melodia del violino che descrive
l'interno, mentre l'accompagnamento con i pizzicati descrive la pioggia con le gocce che cadono; il
terzo movimento in fine descrive le corse sul ghiaccio, le scivolate, il ghiaccio che si rompe e si
frammenta, e i venti che si combattono in questa stagione fredda e pungente.
È un concerto in Fa minore, con tempi Allegro non molto, Largo e Allegro-Lento-
Allegro(variazioni agogiche all’ interno dello stesso movimento).
La storia del violino è molto ricca. Vi era la scuola violinistica piemontese di cui abbiamo già parla-
to, e vi era anche la scuola veneta dopo Vivaldi, rappresentata da Giuseppe Tartini (1692 - 1770),
nato a Pirano d'Istria, vissuto molto a Padova, molto attivo nella basilica di Sant'Antonio di Padova.
Tartini fu un grande didatta, aveva allievi da tutte le parti d'Europa tanto da essere chiamato “mae-
stro delle nazioni”; una figura molto completa come musicista, fu anche teorico della musica e stu-
dioso di acustica. Descrisse in particolare il fenomeno del “terzo suono”: eseguendo il bicordo con-
sonante sul violino si sentiva un suono grave la cui frequenza è uguale alla differenza tra quelle dei
due suoni generatori, oggi noto anche come “terzo suono di Tartini”. Figura molto eccentrica, di-
venne famoso per una sua sonata detta “il Trillo del Diavolo”. Andava dicendo infatti che gli fosse
apparso il diavolo di notte e gli avesse suonato una bellissima melodia, ma quando tentò di rifarla
non ci riuscì. Era in realtà molto più razionale e posato di quanto la leggenda abbia tramandato, ma
anche come scienziato voleva spingersi agli estremi della scienza: capire cosa fare con il violino,
studiare bene i caratteri dei suoni. Ancora adesso si discute sul suo terzo suono, se sia o meno un
suono reale.
Ancora successivo a Tartini vi è Gian Battista Viotti, nato nel 1755. Egli, dopo aver studiato a Tori-
no, fu attivo soprattutto a Parigi e a Londra. Scrisse 29 concerti per violino e orchestra, i primi 20
per Parigi, gli altri per Londra; i primi erano più virtuosistici, i secondi erano più curati ed eleganti,
con un organico orchestrale più ricco, un dialogo tra le voci ben strutturato, uno dei quali ha ispirato
il concerto per violino di Brahms. Ebbe una vita molto avventurosa.
Parliamo anche di un violoncellista, Luigi Boccherini, nato a Lucca nel 1743 e morto a Madrid nel
1805. Lo si ricorda per uno stile molto vicino a quello di Mozart. Boccherini è tra gli inventori della
moderna musica cameristica. Egli ha poco interesse per l'architettura formale di un brano, al contra-
rio è più libero e rapsodico (più disordinato, dirà qualcuno), presentando quindi una scrittura molto
spontanea un po' come faceva Mozart.
JOHANN SEBASTIAN BACH (1685 – 1750)
Bach e Handel sono il fulcro dell'epoca barocca della musica; il 1685 è un anno signi ficativo, in cui
nacque un altro grande compositore, anche se meno citato: Domenico Scarlatti. Anche Handel nac-
que in questo anno, è quindi un anno molto importante.
Sclarlatti tratta la musica per clavicembalo ( il suo strumento), mentre gli altri 2 trattano tutti i gene-
ri musicali, ad eccezione del teatro (per Bach) anche se non gli manca una vocazione rappresentati-
va ( si pensi alla Passione secondo Matteo).
Di solito si mettono a confronto Bach e Handel, e li si contrappone molto, accostandoli ad un'altra
coppia del '500: Palestrina e Orlando di Lasso. Bach corrisponde a Palestrina: si chiude in Germa-
nia, si dedica alla musica sacra per la sua chiesa luterana, tutte le in fluenze che riceve dall'estero le
riceve tramite manoscritti, non tramite un'esperienza diretta; Handel invece è un grande viaggiatore,
si appropria direttamente di grandi esperienze musicali, conosce e pratica molto sia forme sacre che
profane di musica.
Si dice anche comunemente che Bach fu un grande contrappuntista, mentre Handel rappresenta un
filone della musica concepita più in senso verticale, armonico; Bach è quindi visto come rivolto al
passato, una grande summa del passato,(veniva considerato un conservatore in quanto il contrap-
punto stava scomparendo in favore della melodia accompagnata che sfocerà nel Rococò, tra cui ab-
biamo i figli di Bach stesso), Handel invece è più rivolto al nuovo; sono etichette che vanno prese
con le molle: possono avere un'utilità didattica, ma non sempre corrispondono alla realtà. Bach fu si
un grande contrappuntista (e ai suoi tempi qualcuno lo considerava già sorpassato perché nel tardo
barocco il contrappunto tende a cedere il passo ad un gusto più armonico-verticale) ma non si può
dire che Handel non sia un contrappuntista altrettanto bravo, anche se ama più di Bach questo nuo-
vo stile armonico-verticale. Entrambi trovano modelli per la musica sia strumentale che vocale negli
italiani a loro precedenti: Alessandro Scarlatti, Vivaldi (per Bach) e Corelli (per Handel): l'Handel
più moderno si ispira quindi ad un compositore più antico, ossia Corelli.
Una differenza macroscopica tra i due è palese: tutti e due gli autori hanno scritto per tutti i generi
musicali, ad eccezione di Bach che non ha mai trattato il TEATRO. Questa è invece una delle forme
preferite di Handel, e per questo Handel ama di più andare incontro ai gusti del pubblico, ama l'ap-
plauso e si concede al gusto corrente e alle mode dell'epoca. A Bach non manca la forza rappresen-
tativa nella musica vocale, ed egli la trasferisce nelle sue Passioni, ad esempio nella Passione se-
condo Matteo. Nelle Passioni di Bach non c'è nessuna rappresentazione scenica, ma vi sono eviden-
ze rappresentative che lasciano pensare al teatro; inoltre non è neanche detto che il non praticare il
teatro sia stata una scelta vocazionale di Bach: magari non lo ha fatto soltanto per ragioni di contin-
genze personali. Bach doveva accettare gli incarichi che gli davano poiché aveva 20 figli da mante-
nere, e ha avuto in generale una vita molto diversa da quella di Handel.
Bach appare come una figura musicalmente più austera e volta al passato rispetto a quella di Han-
del, e questo ha fatto sì che ai suoi tempi, ma soprattutto dopo la sua morte, ci sia stata un'eclissi
della sua opera presso il grande pubblico. Egli non fu sconosciuto ai grandi autori del classicismo
viennese, ma il grande pubblico ha poi preferito mezzi di trasmissione musicale diversi. La grande
ripresa delle opere di Bach si deve a Mendelhsson, che ha dato il via ad una grande riscoperta di
questo autore.
Handel invece conobbe una grande fortuna presso il pubblico dei suoi tempi, soprattutto per quanto
riguarda il teatro: egli era molto incline a scrivere secondo i canoni di virtuosismo vocale, vivendo
nell'epoca dei grandi cantanti e dei castrati, i quali piacevano ancora di più perché univano i gor-
gheggi e i vocalizzi delle voci acute con una potente capacità toracica maschile. Handel scrive quin-
di arie vocali molto virtuosistiche mentre Bach si concentra di più sul piano espressivo, e non sul
virtuosismo fine a se stesso. Bach venne anche contestato un po' dai suoi figli, mentre Handel ebbe
un gran favore di pubblico.
VITA
Bach fece parte di una grande famiglia di musicisti, sia per quanto riguarda i suoi predecessori, sia i
suoi figli. Carl Philipp Emanuel, chiamato il “Bach di Berlino”, fu un grande clavicembalista e cla-
vicordista; Johann Christian, detto invece il “Bach di Londra”, esponente dello stile galante, fu per
qualche tempo maestro di Mozart.
Johann Sebastian Bach nacque ad Eisenach nel 1685. Rimasto orfano a 9 anni, si trasferì poi ad
Ohrdruf, dove ebbe come maestro il fratello maggiore Johann Christoph. Nel 1699 vinse una borsa
di studio per studiare presso la prestigiosa Scuola di San Michele a Luneburg dove oltre a perfezio-
narsi all'organo e al clavicembalo, probabilmente imparò il francese e l'italiano. Già in gioventù
ebbe diversi incarichi musicali, e i suoi primi interessi si rivolgono soprattutto all'organo. Era inte-
ressato ad ascoltare i grandi organisti, soprattutto della scuola tedesca del nord. Da Lunebung, Bach
si recò diverse volte ad Amburgo, distante circa 50 chilometri, per ascoltare il grande organista Jo-
hann Adam Reincken. Nel 1703 fu a Weimar come violinista alla corte del Duca di Sassonia, ma la-
sciò questo incarico dopo breve tempo per diventare organista della città di Armstadt. In autunno
Bach si fece concedere un permesso di quattro settimane (diventate poi quattro mesi) e si recò a pie-
di a Lubecca, distante 400 chilometri, per ascoltare il grande organista Dietrich Buxtehude. Da que-
sto musicista Bach imparò moltissimo, tanto che i suoi superiori notarono una grande differenza
nella sua musica al suo ritorno. Dopo Armstadt Bach si recò a Mulhausen, sempre come organista.
Nel frattempo aveva sposato la cugina Maria Barbara, dalla quale ebbe 7 figli tra cui Carl Philipp
Emanuel e Wilhelm Friedemann (svendette le opere manoscritte del padre, fede vita dissoluta).
Abbiamo poi le 2 grandi tappe della vita di Bach:
4. 1. dal 1708 al 1717 ritorna a Weimar come organista e poi musico da camera della corte (epoca in
cui scrive molto per organo, per clavicembalo, musica sacra, cantate, e si familiarizza con i modelli ita-
liani della musica strumentale, ad esempio Vivaldi, trascrivendo alcuni suoi concerti per tastiera);
5. 2. dal 1717 al 1723 Bach è invitato a Cothen, come maestro di cappella di Leopoldo di Ahnalt. In
questo periodo si dedica soprattutto alla musica strumentale e al genere del concerto, anche perché la
corte era calvinista e tale chiesa non amava la musica sacra, consentendo solo il canto dei salmi. Per
questo qui Bach fu più libero dagli incarichi di musica sacra e poté dedicarsi alla musica strumentale (è
questa l'epoca dei Concerti Brandeburghesi). In questo periodo muore la moglie, e Bach si sposerà in
seconde nozze con Anna Magdalena, per la quale scriverà opere didattiche; ebbe 13 figli con lei, tra i
quali Johann Christian;
6. 3. dal 1723 fino alla fine della sua vita (1750) Bach accettò il posto di cantor (funzione compen-
diaria, sarebbe una specie di direttore di tutta la musica della città, attraverso la chiesa e la scuola di
San Tommaso) a Lipsia, dove aveva la funzione di direzione didattica, di direzione esecutiva e di dire-
zione compositiva. Tra i suoi impegni, doveva dare una cantata sacra alla settimana nella chiesa di San
Tommaso. Anche per questo Bach ricorreva al procedimento della parodia: utilizzava materiale prece-
dentemente composto per scrivere nuove composizioni. A Lipsia Bach rimarrà fino alla fine della sua
vita. Celebre fu un viaggio a Potsdam nel 1737 dove si trovava il figlio Carl Philipp Emanuel come or-
ganista: in questa occasione ricevette dal re di Prussia un tema musicale sul quale scrisse brani con-
trappuntistici raccolti sotto il nome di Offerta Musicale. Cominciò anche a scrivere L'arte della fuga,
ma lo lasciò incompleto.
Morì cieco: era stato operato per una cataratta, ma l'operazione non funzionò.
L'anno della morte di Bach si assume anche come data convenzionale di FINE DEL PERIODO
BAROCCO, cominciato convenzionalmente nel 1600.
Comprende oltre 1000 numeri d'opera. Il numero è preceduto dalla sigla BWV, ossia Bach-Werke-
Verzeichnis: “Catalogo delle opere di Bach” (in tedesco). Iniziato da un certo Schneider, il lavoro è
stato poi proseguito da tanti altri.
GENERI MUSICALI
MUSICA VOCALE
Nell'ambito vocale Bach scrisse opere sacre per la sua chiesa luterana, a cominciare dalle forme più
semplici, ossia il CORALE: canti sacri in lingua tedesca. Le melodie utilizzate da Bach nei suoi co-
rali erano semplici (talvolta prese in prestito dalla musica profana): canti stro fici con melodia che si
ripeteva uguale nelle varie strofe, solitamente cantati all'unisono all'inizio e poi armonizzati a 4
voci, con la melodia alla parte acuta. Spesso la melodia era anticipata da un brano organistico, il co-
siddetto preludio al corale. Bach scrisse delle raccolte di corali, armonizzati a 4 parti. Nei suoi cora-
li però Bach armonizza e basta, la melodia è pre-esistente: egli la prende dalla tradizione della chie-
sa luterana, o talvolta anche dalla musica profana.
Scrisse poi delle CANTATE, di cui i corali possono fare parte: vi sono sia cantate sacre che profane
(anche se quest'ultime sono poche, tipo la “cantata del caffé”, di occasione), quelle sacre sono di più
(ce ne restano 199, ma probabilmente ne scrisse di più); ne ha composte durante tutta la vita, soprat-
tutto a Lipsia. Le cantate non sono opere sacre in generale, ma hanno una precisa funzione. Esse fa-
cevano parte integrante dell'uf ficio liturgico luterano: avevano un valore di illustrazione musicale
delle letture di passi evangelici. Di solito si dividono in due tipi: CANTATE SU CORALE, perché
alla loro base stanno dei corali sia dal punto di vista strumentale che testuale, e CANTATE SU TE-
STI POETICI LIBERAMENTE COMPOSTI, che sono basate su parafrasi di testi biblici, scritte da
librettisti dell'epoca: per esempio il più famoso è Johann Christoph Henrici, noto con lo pseudonimo
di “Picander”.
In una cantata sacra solitamente c'è un'apertura con il coro, con elementi contrappuntistici derivati
dalla tradizione del mottetto, del madrigale, ma ormai con un linguaggio tonale, non più modale.
All'interno di tale cantata ci possono essere i corali, su testo e melodia pre-esistente con armonizza-
zione di Bach, poi ci possono essere dei passi liberi su testo di un librettista, che musicalmente dan-
no luogo a recitativi e arie, presi dalla tradizione operistica italiana (abbiamo distinto RECITATIVI
SECCHI e ACCOMPAGNATI, il primo assomiglia al parlato, sostenuto praticamente solo dal bas-
so continuo, mentre il secondo è accompagnato da più strumenti, è quindi più melodico, assume i
vocali dell'arioso monteverdiano; quello secco però ha sempre una sua melodiosità, non è mai ari-
do). L'aria, anche presa dalla tradizione italiana, è soprattutto quella con il DA CAPO, codi ficata da
Scarlatti nella forma A-B-A. Alla fine di una cantata si trova un corale omoritmico a 4 voci. Questa
struttura si applica ad altre forme af fini: gli ORATORI (Bach scrive 3 oratori: l'oratorio di Natale,
l'oratorio di Pasqua e l'oratorio dell'Ascensione, il primo è il più noto, lo si de finisce una cantata in 6
parti, da eseguirsi in 6 giorni delle festività natalizie; in quest'opera vi è un esempio dello STILE
SPEZZATO) e la PASSIONE.
LA PASSIONE
Vi si racconta gli episodi della Passione di Cristo; la Passione nasce come dramma sacro nel Me-
dioevo, su testo in lingua tedesca, dramma sacro monodico in cui si narra la Passione di Cristo, con
3 cantori che si alternano: una voce fa la parte dell'evangelista che funge da narratore, tendenzial-
mente acuta, poi una voce grave che interpreta il Cristo, e una voce intermedia che fa tutte le altre
parti, singole o collettive, che intervengono nel corso della Passione. Con lo svilupparsi della poli-
fonia abbiamo la Passione-Responsorio: le parti collettive, la folla, la turba, i sacerdoti, sono cantate
polifonicamente rispondendo alle voci singole. Ancora successivamente nasce la Passione-Mottetto:
tutto il testo della Passione viene cantato polifonicamente.
Poi però il linguaggio musicale cambia di nuovo, diventando monodia accompagnata, e quindi la
Passione diventa af fine ad un oratorio, ma si fa una distinzione tra Passione oratoriale e Passione-O-
ratorio propriamente detta: la prima ha il racconto che si rifà testualmente ad uno dei 4 evangelisti,
vengono anche interpolate delle parti libere, ma esse non si discostano molto dal racconto scritto
dell'evangelista, mentre nella secondo tutto il testo è una parafrasi del testo evangelico; quelle di
Bach sono oratoriali. Bach scrisse la Passione secondo Matteo e secondo Giovanni. In realtà si dice
che Bach avesse scritto 5 Passioni, ma quelle due sono le uniche che ci sono pervenute intere (si
parla anche di una Passione secondo Marco, di una secondo Luca e di una quinta di cui non si sa
praticamente niente). Entrambe sono passioni oratoriali: nella Passione secondo Giovanni il testo è
integrato da parti libere di autore ignoto, mentre nella Passione secondo Matteo il testo è integrato
da parti libere scritte da Picander. Sono due Passioni diverse sul testo e sulla musica, così come
sono diversi i vangeli di Matteo e Giovanni: il primo più emotivo, il secondo più rigoroso.
25/11/14
Andiamo avanti ascoltando altre parti della Passione secondo Matteo. Nella prima aria, già ascolta-
ta la volta scorsa, è presente il descrittivismo derivante dai madrigali del '500. Oggi ascolteremo in-
vece l'aria n.47, che è molto diversa. Quest'ultima infatti è piena di pathos e si colloca nel racconto
subito dopo l'episodio in cui Pietro, dopo essere stato riconosciuto come uno dei seguaci di Cristo,
lo rinnega per paura.
Rivedere a proposito Le lacrime di S. Pietro di Orlando di Lasso.
Quest'aria è cantata non da S. Pietro stesso, ma da un credente simbolico, che si può identi ficare in
ognuno di noi. Ognuno di noi infatti almeno in un momento della vita ha rinnegato Cristo, per paura
o per timore, perciò questo credente simboleggia tutta l'umanità.
Le prime parole sono “Abbi pietà mio signore” che in tedesco si dice “Embarme dich, Gott”. L'aria
non ha un vero titolo, ma come sempre il titolo con il quale la si indica è ricavato dalle prime parole
della stessa.
L'aria è accompagnata dal violino concertante, dopo una lunga introduzione in cui è presente il vio-
lino solo su sostegno del basso, e alla fine dell'aria si ripete da capo la stessa introduzione strumen-
tale. La melodia del violino solista (l'aria è in SI minore) è in 12/8 e presenta un ritmo di pastorale.
Ha qualcosa di italiano in quanto per certi versi ricorda dei passaggi delle melodie di Vivaldi. Inol-
tre questa melodia viene ben presto molto fiorita , ma l'ornamentazione appare come parte inte-
grante della melodia, e non come qualcosa di aggiunto, o come mero sfoggio di bravura. Questo
da un lato avvicina Bach alle forme teatrali, ma contemporaneamente lo allontana perché in esso
non c'è niente del virtuosismo gratuito che dominava il teatro dell'epoca. Questa è una caratteristica
molto importante e distintiva di Bach.
Il basso discendente presente in quest'aria indica il pathos, come era consuetudine nelle arie d'opera
del barocco (ad esempio l'aria di Didone di Purcell). Le parti degli archi tra il violino solista e le
parti più gravi sono un semplice riempitivo armonico. Le armonie che si generano sono di 7a dimi-
nuita, 6a napoletana: tutte armonie che indicano pathos. Quando attacca la voce, questa attacca sulla
stessa melodia del violino solista. Questo genere di aria è chiamato anche aria con “devise” (termine
della musicologia tedesca). La forma è A – B – A'. Nella parte B si modula alla dominante e nella
A' si ritorna al tono di impianto. Finita la ripresa A' si riprende da capo l'introduzione strumentale
(“da capo fino al segno”).
Ascoltiamo l'aria n.47 della Passione secondo Matteo: “Embarme dich, Gott”.
Adesso analizziamo il momento culminante della Passione, ovvero la morte di Gesù. La croci fissio-
ne è descritta al n.71. L'evangelista racconta che verso l'ora sesta le tenebre coprono tutta la terra
fino all'ora nona, e all'ora nona Gesù grida “Dio mio, dio mio perché mi hai abbandonato”. Queste
parole sono cantate (in tedesco) senza l'accompagnamento degli archi, che fino ad allora avevano
cantato assieme alla voce di Cristo. Questa è una forma di simbolismo in Bach, e simboleggia l'ab-
bandono del padre: infatti questo è l'unico punto in cui la voce di Cristo è abbandonata dagli archi.
Poi continua il racconto: la turba vuole dare aceto da bere a Gesù con una spugna impregnata (all'e-
poca serviva anche come anestetico), ma Gesù non ne vuole. Poi Gesù grida ancora una volta a gran
voce (salto ascendente), e poi muore (salti grevi discendenti). Questa parte è molto sobria, il pathos
si farà sentire poi anche e soprattutto nelle parti seguenti.
Il corale successivo (parte 72) ne è un grande esempio. La melodia non è di Bach, ma di Hans Leo
Hassler (anche lui allievo dei Gabrieli a Venezia come Shultz). Le strofe sono di Paul Gerhardt, uno
dei poeti luteranesi. Questa melodia è usata diverse volte da Bach nei suoi lavori, ma sempre con
un'armonizzazione diversa, ad esempio era stata usata anche nell'Oratorio di Natale. In questa ar-
monizzazione sono presenti dei cromatismi al basso che mancano nelle altre: essi servivano a rende-
re il pathos del momento.
Finito il corale riprende il recitativo dell'evangelista (parte 73), che racconta gli eventi che seguiro-
no la morte di Cristo: la terra trema, le tombe si aprono e ne escono i corpi.. Vi è una descrizione
del terremoto, e questa parte descrittiva interessa il basso continuo. Esso non si limita ad accompa-
gnare il recitativo con pochi accordi, ma sono presenti scale di biscrome, tremoli, e tutta una serie di
effetti in crescendo che rappresentano appunto il descrittivismo che riguarda il terremoto. Alla fine
del terremoto si parla dei centurioni romani che finalmente riconoscono e ammettono che Gesù era
il figlio di Dio. Qui sono presenti due battute del coro molto importanti che rappresentano proprio la
Verità che si fa strada.
Ascoltiamo le parti 71 (la croci fissione), 72 (il corale) e 73 (il recitativo) della Passione secondo
Matteo.
Bach avrebbe voluto riformare la musica sacra, e questo lo portò ad entrare anche talvolta in con flit-
to con le gerarchie ecclesiastiche che gli commissionavano i lavori. Infatti, come accadeva nella
Chiesa Cattolica, anche in quella Luterana c'erano delle convenzioni da rispettare: prime fra tutte la
sobrietà e l'intelligibilità del testo. Questo portò Bach a dover rispettare dei vincoli nelle sue compo-
sizioni sacre, anche se magari di suo nelle arie ci avrebbe messo ancora più pathos e avrebbe usato
un'espressività un po' diversa.
Ascoltiamo adesso i due cori finali: n.77 e 78. Dopo la morte di Gesù ci sono altri eventi: Giuseppe
di Arimatea va da Pilato a chiedere il corpo di Cristo per seppellirlo, Pilato concede e Gesù viene
sepolto. Gli ultimi due brani sono un addio a Gesù. Il n.77 alterna parti recitative a parti corali. Nei
recitativi le singole voci soliste danno ciascuna il proprio saluto a Gesù a partire dalla voce più gra-
ve e il coro risponde ogni volta dicendo “Gesù mio, buonanotte (addio)”, traduzione dal tedesco. Ri-
sponde solo il coro secondo, per alleggerire la massa corale coinvolta.
Il senso della morte è dunque collegato all'idea del riposo: la morte è un riposo (“buonanotte”).
Questa è una caratteristica peculiare della liturgia luterana, che vede la morte come riposo al contra-
rio della tragicità con cui la vede la confessione cattolica. Questa concezione della morte sarà ripre-
sa poi anche da Brahms.
Il coro finale (n.78) invece riporta alla solennità di quello iniziale. È un coro molto più poderoso,
ma anche esso dice soltanto buonanotte, addio (stessi temi del coro precedente: è un suo continuo).
Sono presenti passaggi discendenti, quasi onomatopee che descrivono la discesa nel sepolcro. La to-
nalità oscilla tra DO minore e MIb maggiore. Essa ha un'aria pre-tonale e la sonorità si intona con
l'atmosfera.
OSS. Per convenzione all'epoca si scrivevano delle alterazioni in chiave all'inizio (a volte con una
alterazione di meno della tonalità di impianto) e poi le alterazioni mancanti si mettevano transitorie.
Pertanto è necessario osservare gli accordi per capire la tonalità in cui si sta suonando, e non farsi
trarre in inganno semplicemente dalle alterazioni scritte in chiave.
2/12/14
Abbiamo cominciato la volta scorsa a parlare del Clavicembalo ben temperato di Bach ed abbiamo
introdotto i temperamenti. Al tempo di Bach c'era ancora l'uso della scala zarliniana o naturale, che
aveva i rapporti armonici tra i suoni. Questi rapporti però andavano bene per la musica polifonica
corale, ma non andavano più bene per tutti gli strumenti ad accordatura fissa. Il problema della scala
zarliniana era la distinzione tra i “toni grandi” (9/8) e i “toni piccoli” (10/9). Quando si modula con
le voci o gli strumenti ad accordatura non fissa ci si può benissimo accordare con questa divisione
della scala anche nella nuova tonalità, invece con gli strumenti ad accordatura fissa questo non era
possibile. Il sistema zarliniano prevedeva un tono grande tra il I e il II grado ed un tono piccolo tra
il II e il III grado.
Per ovviare a questi inconvenienti sugli strumenti ad accordatura fissa bisognava studiare qualche
nuovo stratagemma. Qualcuno aveva anche provato ad ideare un meccanismo per cambiare accor-
datura dello strumento ad ogni intonazione, ma questi esperimenti fallirono. Altri provarono ad in-
serire più tasti per avere sulla tastiera la stessa nota con più accordature diverse, ma anche questo si-
stema fallì per dif ficoltà. Pertanto l'unica strada era trovare un nuovo rapporto tra toni e semitoni
della scala che non si discostasse troppo dalla scala naturale, ma che permettesse anche agli stru-
mentisti ad intonazione fissa di modulare. Questo “cercare un procedimento” per accordare gli stru-
menti veniva detto “temperare”, e molti teorici dell'epoca proposero quindi il loro temperamento.
I tanti temperamenti diversi che furono proposti si possono raggruppare sotto i nomi di tempera-
menti mesotonici, che consistevano nel dividere la terza maggiore in due parti uguali invece che in
un tono grande e un tono piccolo; e temperamenti in cui ciò non avveniva, chiamati in generale tem-
peramenti ineguali. Tra gli ineguali citiamo quello molto seguito che fu introdotto da un allievo di
Bach: Filip Kirnberger. Questi nuovi temperamenti però continuavano a creare tra le varie tonalità
intervalli che in alcune risultavano un po' più larghi ed in altre un po' più stretti. Si cercavano cioè
di distribuire i microintervalli (detti “commi”) in modo da accontentare in parte le esigenze della
scala naturale ed in parte le esigenze dei compositori. Le diverse tonalità avevano dunque un carat-
tere diverso tra loro perché diversi erano gli intervalli della loro scala.
L'unico temperamento che invece aveva l'effetto di “appiattire” le tonalità rendendo i loro intervalli
tutti uguali era il temperamento equabile, che fu anch'esso proposto in quegli anni. Nel tempera-
mento equabile l'ottava era divisa in 12 parti uguali. Questa soluzione però non era in genere gradita
dai musicisti dell'epoca in quanto essi la percepivano troppo distante dalla scala naturale. Inoltre
poiché col temperamento equabile si perdeva il carattere diverso delle varie tonalità, esso era consi-
derato un temperamento abbastanza inespressivo. I compositori erano abituati ad usare una tonalità
piuttosto che un'altra a seconda di ciò che volevano esprimere, e addirittura ci si era dilettati ad
elencare i diversi sentimenti suscitati da ogni tonalità.
Questo nuovo temperamento fu seguito talmente poco che ancora oggi non si sa chi fu il primo ad
averlo proposto. La semplicità del temperamento equabile fu riconosciuta poi gradualmente nella
storia, in quanto è questo il temperamento che è arrivato con più forza fino ai giorni nostri. Oggi le
registrazioni filologiche si basano sui temperamenti dell'epoca, diversi dall'equabile, così come per
suonare la musica barocca ci si accorda su un LA centrale di 415 Hz anzichè 440 (o oggi addirittura
442). Il LA centrale a 440 Hz era stato deciso già alla fine dell'800 e ribadito in vari congressi du-
rante il '900. Tra 415 Hz e 440 Hz si ha una differenza di intonazione di quasi un semitono.
Per quanto riguarda invece il temperamento equabile, si pensa che uno dei primi a proporlo sia stato
il monaco francese padre Mersenne.
Sui temperamenti si è scritto molto anche negli ultimi anni. Citiamo un libro di Stuart Isakoff:
“Temperamento: storia di un enigma musicale”. A proposito del temperamento di Bach si sono fatti
molti studi in ambito specialistico, soprattutto dopo il 2000, e ancora oggi la questione non è del tut-
to risolta. Ci sono ancora varie ipotesi sul temperamento di Bach. Una nuova ipotesi è stata avanza-
ta da Bof, Venturino e Interbartolo nel loro libro “Bach 1722: il temperamento di Dio – Nuovi studi
e scoperte sul clavicembalo ben temperato” (il 1722 è l'anno di pubblicazione del primo volume del
Clavicembalo ben temperato). Gli autori chiamano il temperamento bachiano “Il temperamento di
Dio” perché le loro ricerche prendono le mosse da considerazioni religiose: Bach probabilmente
usava la tonalità di MIb Maggiore per comunicare dei contenuti teologici. Una quinta MIb-SIb piut-
tosto ampia in questa tonalità corrispondeva ideologicamente all'immensità di Dio. Tra i diversi ele-
menti presi in considerazione c'è anche una strana firma posta sul frontespizio del Clavicembalo
ben temperato che secondo gli autori indicava i rapporti del temperamento utilizzato, come talvolta
era d'uso all'epoca.
Quindi la dicitura “ben temperato” usata da Bach non signi fica necessariamente “accordato secondo
il temperamento equabile”.
Il Clavicembalo ben temperato è diviso in 2 volumi di preludi e fughe. Visto il successo del primo
volume (1722), Bach ne pubblica un altro nel 1744. Il primo volume arriva a 5 voci, mentre il se-
condo si ferma a 4 voci e molte fughe sono a sole tre voci. Interpretare questa riduzione del numero
di voci come una maggiore semplicità è tuttavia illusorio, perché le fughe del secondo volume sono
complesse e piene di arti fici. Alcune volte anche nel preludio sono inseriti elementi contrappuntisti-
ci e l'abilità contrappuntistico/combinatoria ed espressiva di Bach aumenta dal primo al secondo vo-
lume anziché diminuire come si potrebbe credere guardando soltanto al numero di voci.
Ascoltiamo alcuni preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato, avvertendo che le edizioni in
cui esso viene studiato dai pianisti di oggi (che lo portano all'ottavo) sono opera di revisori. L'edi-
zione che ascoltiamo è stata rivista da Alfredo Casella, che aggiunge abbastanza pochi elementi ri-
spetto all'originale; altre edizioni invece aggiungono molto di più. Oggi si preferiscono le edizioni
che si discostano meno rispetto all'originale: si impara a suonare su queste e poi magari si affronta
anche la partitura senza indicazioni.
Ascoltiamo il preludio e fuga in DO Maggiore BWV 246 (preludio e fuga n. 1). Il preludio ha
un carattere essenzialmente armonico, tanto che nell'800 è stato usato come basso per una Ave Ma-
ria. Segue una fuga a 4 voci abbastanza tecnica. Il tema è sempre indicato con una T, e la risposta
inizia prima che il tema sia concluso (uno “stretto”, termine indicante il fatto che la risposta inizia
prima che il soggetto sia finito).
Subito dopo ascoltiamo il preludio e fuga in DO minore BWV 247 (preludio e fuga n. 2). Il pre-
ludio è più melodico del precedente, con una cadenza particolare nel finale. La fuga è a 3 voci, più
semplice del numero 1, molto ritmica e si seguono facilmente i movimenti delle varie parti. Nel no-
stro ascolto i due pezzi sono suonati al Clavicordo da Ralph Kirkpatrick, grande cembalista e stu-
dioso del '900 nonché esperto di Domenico Scarlatti.
Un libro scritto da C. P. E. Bach è “La vera arte di suonare il Clavicembalo”: esso rappresenta il più
importante trattato sulla musica per strumenti a tastiera del Settecento. Le velocità non erano segna-
te perché il metronomo non esisteva ancora, ma quasi sempre erano facilmente intuibili.
Ascoltiamo ancora il preludio e fuga n.4 e il n.5; il 4 in DO# minore ed il 5 il RE Maggiore. Il
numero 4 è in una forma molto grave e austera. La fuga è a 5 voci, su un tema di 4 note lunghe:
DO#, SI#, MI naturale e RE#. Interpretando le note secondo la notazione alfabetica medievale si ot-
tiene da queste quattro note il nome BACH: due semitoni separati da una terza. È una fuga piuttosto
complessa, con un lungo stretto finale e l'uso di un pedale di tonica nelle ultime due battute tenuto
sia all'acuto che al grave. Il n.5 in RE maggiore invece ha un preludio veloce in stile di moto perpe-
tuo, e la fuga è a 4 voci: una fuga alla francese che alterna passaggi in biscrome a ritmi puntati ap-
punto “alla francese”. È una fuga solenne che si chiude poi omoritmicamente.
In fine ascoltiamo il n.8 in MIb minore. Il preludio è tutto un recitativo strumentale. Molto espres-
sivo, comincia con la melodia alla mano destra, ma ben presto questa si comunica anche alla mano
sinistra con delle soluzioni armoniche di grande effetto. La fuga è a 3 voci, ma non è per questo
semplice. Il tema comincia con una quinta ascendente, che riceve una risposta tonale in cui la quin-
ta nella risposta si rivolta in una quarta. Ci sono arti fici di derivazione fiamminga: il soggetto per
aumentazione dei valori, il soggetto “a specchio” ossia ad intervalli invertiti (anche la T che indica
il tema qui appare rovesciata). Nella conclusione l'intreccio contrappuntistico si scioglie e la conclu-
sione è omoritmica accordale.
5/12/14
Passiamo ad altre opere per clavicembalo di Bach, in particolare il Klavier Ubung (“Esercizio per
tastiera”). Questo lavoro è diviso in 4 parti. La prima, dell'inizio degli anni 30, contiene le 6 suites
inglesi e le prime 6 partite. La seconda parte, della metà degli anni 30 contiene la partita in SI mino-
re ed il “Concerto nel gusto italiano”, detto anche “Concerto italiano”. Quest'ultimo è un concerto
per clavicembalo solo, che vuole riprodurre la dinamica fonica del concerto barocco italiano. Bach
qui si avvale delle due tastiere del clavicembalo per creare il contrasto SOLI-TUTTI, ma non si li-
mita solo a questo: egli modi fica anche la scrittura delle parti pensate per il TUTTI (strutture accor-
dali) rispetto a quelle per i SOLI (strutture lineari, frammenti di scala). Il concerto è in 3 tempi: alle-
gro – adagio – allegro (i canonici 3 tempi vivaldiani). È caratteristico il tempo centrale lento, in cui
devono emergere i solisti e perciò il basso deve alleggerirsi molto, sempre secondo il modello di Vi-
valdi. Per alleggerire il più possibile il basso ad un certo punto la mano sinistra fa addirittura una
sola nota, come un violoncello, senza neanche il riempitivo armonico.
Il concerto italiano è un'opera che tutt'oggi si porta al diploma di pianoforte, per il repertorio di mu-
sica antica. Sul pianoforte, mancando le due tastiere, si gioca molto sul forte e sul piano.
Nella terza parte del Klavier Ubung abbiamo anche dei brani per organo, mentre nella quarta parte,
scritta nell'inizio degli anni 40, troviamo un altro capolavoro: le variazioni Goldberg. Si tratta di
un'aria (un pezzo molto melodico, come un'aria vocale), seguita da 30 variazioni. Queste erano state
scritte per un nobile: il conte Hermann Carl von Keyserling. Secondo la tradizione si ricorda che per
alleviare le notti insonni del conte queste variazioni dovevano essere suonate per lui dal cembalista
Goldberg, da cui il nome “variazioni Goldberg”.
Esse sono divise in gruppi di 3 e rispecchiano quell'ideale di ordine, compostezza e compiutezza
che perseguiva Bach. In ogni gruppo la prima variazione è fortemente ritmica (fa pensare un po' alla
danza), la seconda è virtuosistica, mentre la terza è un canone. Anche questi canoni seguono un or-
dine, dato dall'ampliarsi progressivo dell'intervallo che separa le due voci. I canoni infatti partono
come canoni all'unisono e poi, andando avanti nei gruppi, l'intervallo si amplia fino al canone alla
nona. L'ultima variazione invece non è più neanche un canone, ma un “quodlibet”, termine con cui
si indicava la contrapposizione contrappuntistica di due melodie. Le melodie usate sono due melo-
die popolari tedesche, che Bach contrappone come variazioni della melodia originale. Finito il
quodlibet ci si è talmente allontanati dall'aria originale, al punto che Bach fa una cosa insolita per
l'epoca: fa ripetere l'aria da capo. Questo per richiamare all'orecchio il tema, che si è talmente stra-
volto che quasi non lo si ricorda più. Risentendolo invece ci si ricorda di tutto il percorso fatto attra-
verso le variazioni.
Pertanto quest'opera è una grande opera compendiaria per la tastiera, di tecniche sia compositive
che meccaniche dello strumento. Spesso Bach per stupire l'ascoltatore fa sentire note diverse da
quelle che ci si aspetterebbe, dando il suo contributo alla “Poetica della meraviglia” del Barocco.
Ascoltiamo l'aria iniziale e le variazioni del secondo gruppo delle “variazioni Goldberg”. An-
che queste sono un pezzo che si porta al diploma di pianoforte, più dif ficili ancora, dal punto di vi-
sta tecnico, del Concerto Italiano.
Lasciamo la musica di Bach per tastiera e ricordiamo varia musica da camera da lui composta per
diversi strumenti. Si ricordano in particolare le 3 sonate per violino, in cui la polifonia deve essere
resa su uno strumento solo. Bach così codi fica la “polifonia monodica” sul violino, stile che poi farà
scuola. Grandi innovazioni su questo strumento furono introdotte poi da Paganini, attorno al 1840.
Ricordiamo ancora di Bach le opere per orchestra: 4 suites e vari concerti. Le suites sono danze per
vari complessi strumentali preceduti da una “Ouverture” nello stile francese. Perciò a volte le suites
si chiamano anche “Ouvertures”. Furono scritte per intrattenimenti vari e spesso si eseguivano all'a-
perto. Esse nascono come brani piacevoli nonostante la “gravità” dell'Ouverture iniziale, la quale vi
conferiva nobiltà e fierezza.
I concerti invece sono per uno o più clavicembali e per uno o più violini. I più importanti sono i 6
concerti Brandeburghesi, scritti per il Margravio del Brandeburgo. Il titolo originario è Concerti “a
pleusier instruments”, titolo molto generico che rende bene la varietà di questi concerti, anche per
quanto riguarda l'organico. Bach li scrive nella città di Cothen dove dal 1717 al 1723 era al servizio
di Leopoldo di Anhalt-Cöthen, in questa corte che, essendo di religione Calvinista, non amava la
musica sacra. Nella composizione dei Concerti Brandeburghesi, Bach tiene presente il solito model-
lo vivaldiano del concerto in 3 tempi. Questi 6 concerti però sono molto vari tra di loro per quando
riguarda l'organico ed il rapporto tra gli strumenti. Infatti qui non si percepisce chiaramente la for-
ma del concerto grosso italiano in cui un “concertino” si contrappone e dialoga con i vari strumenti.
Non c'è un grande contrasto tra un “soli” e un “tutti”, anzi questi concerti rientrano più nel genere
del concerto d'insieme. Sempre tra questi 6 però ce ne sono anche alcuni in cui il gruppo solistico è
molto più evidente (ad esempio il primo, il secondo e il quarto). Il quinto concerto invece ha un
comportamento molto particolare. Esso ha un concertino composto da flauto traverso, violino e cla-
vicembalo, ed è caratteristico il comportamento del clavicembalo nel primo Allegro. Esso comincia
facendo praticamente il basso continuo, ma poi via via assume sempre più rilievo fino ad emergere
alla pari degli altri solisti. Alla fine del (primo) movimento addirittura il clavicembalo mette a tacere
tutti gli altri strumenti e da solo fa una lunga cadenza di bravura, che va poi a sfociare nel tema del
Tutti.
9/12/14
Continuiamo a parlare della musica strumentale di Bach. Egli oltre ai concerti Brandeburghesi scris-
se anche altri concerti, in particolare per uno o più clavicembali e uno o più violini. I più noti sono
quelli per clavicembali: una decina per clavicembalo solo, qualcuno di meno per due o tre clavicem-
bali. Uno è per quattro clavicembali. Alcuni dei concerti per violino o non ci sono pervenuti o ci
sono pervenuti in una trascrizione fatta da Bach stesso rendendoli per clavicembalo. Ad esempio è
famoso un concerto per tre clavicembali, da cui i revisori hanno ricostruito le parti per tre violini.
Queste ricostruzioni però ovviamente cambiano un po' da un revisore all'altro. Sono noti invece due
concerti originali di Bach per un violino ed uno per due violini.
In questi concerti compare un Bach abbastanza diverso dal Bach dei concerti Brandeburghesi. Men-
tre i concerti Brandeburghesi hanno un po' la forma d'insieme del concerto grosso italiano, nei con-
certi violinistici c'è una maggiore uniformità timbrica (violini, archi e continuo), ma a questa unifor-
mità si contrappone l'esposizione di varie soluzioni tecniche proprie del violino.
Ascoltiamo il concerto BWV 1043 per 2 violini, archi e continuo in RE minore. Esso mostra
proprio questi studi sulle possibilità idiomatiche del violino. Bach infatti in questo periodo della sua
vita si stava concentrando soprattutto sulla musica strumentale. Anche questo concerto è in 3 tempi
di ispirazione vivaldiana. Essi sono Vivace – Largo ma non tanto – Allegro. Sono tre tempi però
molto diversi tra loro, ed essi mostrano anche la fantasia di Bach, che spesso è più evidente nella
sua musica strumentale che in quella vocale. Questo accade non tanto perché Bach preferisse perso-
nalmente la musica strumentale, come ha sostenuto qualche musicologo in una recente disputa sulle
preferenze musicali di Bach (anni '70-'80 del Novecento), ma soprattutto perché nella musica stru-
mentale Bach era più libero di esprimersi e non doveva sottostare alle direttive della Chiesa lutera-
na. Il Vivace è contrappuntistico, basato su un tema che circola in tutte le parti. Questo movimento
si chiude in maggiore, con la solita cadenza piccarda. Il secondo tempo è un dialogo tra i due violi-
ni, in cui il violino supera addirittura la voce umana in quanto a forza ed espressività. Per questo ge-
nere di musica si usava il termine “musica di conversazione”, perché essa era come una conversa-
zione tra due persone. La bellezza sta proprio nella intima unione di questi due “individui” (i violi-
ni) che si alternano e si compensano su frasi molto dolci e melodiose. Il basso non fa quasi nulla,
sostiene soltanto il canto. È questo un Bach insolito, che rinuncia al costruttivismo e si abbandona
alla contemplazione. Il terzo movimento invece è di nuovo contrappuntistico. Esso però non si arti-
cola su un solo tema lungo, bensì su diversi frammenti tematici: un nuovo tipo di scrittura che fu
poi ripreso anche da Beethoven. Questo ultimo movimento, rispetto al primo che è molto più qua-
drato e schematico, si presenta invece rabbioso e pieno di scatti improvvisi. Nel suo insieme però il
concerto, nonostante la diversità dei suoi movimenti, mostra una grande unità di fondo. La differen-
za tra le varie parti non nuoce ad un senso complessivo: si parte dalla schematicità e compostezza
del primo movimento, la quale sparisce completamente nel secondo, ma poi viene ripresa nel terzo,
che “richiama all'ordine” e fa tornare alla mente il primo.
Lasciamo l'opera per orchestra di Bach e parliamo delle sue opere teoriche. Esse sono degli studi di
contrappunto: una è L'Offerta musicale e l'altra è L'arte della fuga. Queste due opere sono dette
“opere teoriche” perché in esse a Bach non importava della resa sonora, bensì gli interessava soltan-
to l'intreccio contrappuntistico delle voci.
L'offerta musicale è del 1747, scritta dopo la visita di Bach a Potsdam alla corte del re Federico II
di Prussia. I pezzi di quest'opera sono molto complessi, in particolare ricordiamo un Ricercare a 6
voci. Johann Nikolaus Forkel nella sua biogra fia bachiana informa come il re Federico II di Prussia,
grande appassionato di musica e suonatore dilettante di flauto, da tempo facesse pressioni su Carl
Philipp Emanuel Bach, clavicembalista presso la propria corte, per poterne conoscere il padre, Jo-
hann Sebastian Bach. L'incontro fra il sovrano e il compositore venne allora organizzato a Potsdam,
presso la residenza reale di Sanssouci, il 7 maggio 1747. La sera del 7 maggio il re si apprestò a ini-
ziare, come di consueto dopo cena, un concerto di flauto nei propri appartamenti. Tuttavia, prima
che cominciasse a suonare, venne avvertito che Johann Sebastian Bach era appena arrivato in città.
Federico II, allora, depose il flauto e ordinò che il compositore venisse subito convocato a palazzo.
Bach, senza neanche il tempo di cambiarsi l'abito da viaggio, fu condotto alla presenza del sovrano,
il quale lo accolse entusiasticamente e lo accompagnò in tutte le stanze della residenza reale per far-
gli provare i numerosi clavicembali e fortepiani, costruiti da Gottfried Silbermann, che erano in suo
possesso. Bach suonò su tutti gli strumenti che c'erano, e, dopo aver improvvisato a lungo, chiese al
re di proporgli il tema per una fuga che avrebbe realizzato sul momento. Bach, ottenuto da Federico
II un tema molto complesso, in do minore e fortemente cromatico, improvvisò all'istante una fuga a
tre voci. Alcuni musicologi avanzano l'ipotesi che, data la complessità del tema e siccome l'arrivo di
Bach era previsto da giorni, il re possa essersi precedentemente consultato con i musicisti della pro-
pria corte in merito a un tema particolarmente dif ficile da proporgli. Il sovrano, per vedere fino a
che punto potesse spingersi la bravura di Bach, gli disse allora di eseguire, su quello stesso tema,
una fuga a sei voci obbligate. Tuttavia, data la sua lunghezza e i suoi numerosi cromatismi, il tema
del re non si prestava a essere la base per una fuga a sei voci da realizzare sul momento. Bach, allo-
ra, non potendo soddisfare la richiesta di Federico II e non potendo scegliere un tema del tutto di-
verso, che altrimenti avrebbe potuto sembrare preparato in precedenza, chiese al sovrano una ver-
sione sempli ficata dello stesso tema, sulla quale improvvisò a sei voci. La versione sempli ficata del
tema non è stata tramandata. Al termine dell'esecuzione Bach promise a Federico II che avrebbe
realizzato, sul tema non sempli ficato, la fuga a sei voci che gli aveva chiesto, che l'avrebbe stampata
e che gliene avrebbe fatto dono. Tornato a Lipsia, Bach si mise subito al lavoro per adempiere alla
promessa fatta al sovrano. Compose la fuga a sei voci sul tema di Federico II, trascrisse la fuga im-
provvisata a tre voci che aveva eseguito a Potsdam e aggiunse altri undici pezzi: nove canoni, una
fuga e una sonata in quattro movimenti. L'opera, datata 7 Luglio 1747, era intitolata Offerta musica-
le. Allegata all'opera c'era anche una lettera di dedica al sovrano.
Questo gusto viene ripreso nella successiva opera L'arte della fuga in cui i pezzi non hanno un
titolo, bensì sono numerati con “Contrapuntus I”, “Contrapuntus II”, ecc. e l'opera si conclude con
una “tripla fuga”. La tripla fuga si arresta proprio nel momento in cui i tre soggetti si stanno
mettendo insieme, in quanto essa è rimasta incompiuta per la morte dell'autore. Queste due opere
(entrambe le raccolte) si possono eseguire in vari modi. Tra le esecuzioni più note ci sono quelle
con due clavicembali (per poter fare tutte le voci) o con l'organo. Forse l'esecuzione migliore è
proprio quest'ultima, in quanto l'organo era lo strumento prediletto da Bach. Altre esecuzioni delle
stesse si possono fare con gli archi. Nello scrivere queste due opere però Bach non le pensa affatto
per uno strumento in particolare, ma egli mette semplicemente insieme le voci, concentrandosi sul
curare al meglio l'aspetto contrappuntistico.