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Lo spettacolo operistico

È difficile stabilire con esattezza l’inizio di un fenomeno artistico eterogeneo e complesso


come il teatro dell’opera, genere che ha da essere spiegato secondo una visione d’insieme
che tenga conto dei suoi più svariati componenti: il libretto, la vocalità, l’apparato
orchestrale, le forme delle scenografia e della messinscena, la pantomima (Rappresentazione
scenica muta, in cui l’azione è affidata unicamente al gesto, all’espressione del volto, ai movimenti del
corpo, alla danza) , la danza e l’architettura teatrale.
1600 : sviluppo di una rappresentazione scenica di testi drammatici interamente
cantati e messi in musica.
Qui lo spettacolo è ancora confinato nella cornice di una festa di corte o si svolge entro le
mura di un palazzo patrizio, rivestendo pertanto carattere di eccezionalità e irripetibilità.
1637 : apertura del primo teatro d’opera pubblico a Venezia (teatro di San Cassiano).
Da quel momento fino ai giorni nostri l’opera in musica esercita una grande influenza sullo
svolgimento della storia musicale italiana ed europea.
Sono poche la partiture teatrali seicentesche e i resoconti critici di queste ultime che ci sono
pervenute. Di molti lavori teatrali di artisti come Peri, Monteverdi, Cavalli o Ferrari
possediamo solo le fonti testuali (i libretti)

L’opera a Roma

Nella prima metà del Seicento la vita mondana romana era dominata dalla famiglia dei
Barberini. Fu soprattutto con l’avvento di Maffeo Barberini come papa Urbano VIII nel 1623
che si inaugurò la consuetudine di allestire abbastanza frequentemente nei vari palazzi dei
Barberini rappresentazioni operistiche caratterizzate da effetti scenici molto costosi (vi lavorò
fra gli altri Gian Lorenzo Bernini). A partire dal 1632 si utilizzò di preferenza come teatro una
sala costruita appositamente a ridosso del palazzo Barberini alle Quattro Fontane, con
capacità di oltre 3000 posti a sedere. Qui per la prima volta le opere sono prive del contesto
celebrativo.
A partire dagli anni Trenta del secolo si crearono alcuni spettacoli che, invece di far ricorso
al mondo pastorale delle prime opere di corte, sviluppano soggetti derivati dai racconti epico
cavallereschi dell’Ariosto e del Tasso, dall’agiografia cristiana (complesso delle testimonianze
che costituiscono la memoria della vita di un santo e del culto a lui tributato: testi scritti, ma anche
rappresentazioni iconografiche, epigrafi, monumenti e addirittura oggetti di vario genere comunque
finalizzati alla perpetuazione del ricordo del personaggio in questione e alla promozione della
venerazione nei suoi confronti ) e persino dagli intrecci della commedia dell’arte (diversa modalità
di produzione degli spettacoli: le rappresentazioni non erano basate su testi scritti ma su dei
canovacci).
Librettista preferito dei Barberini fu Giulio Rospigliosi (1600-1669), divenuto papa
Clemente IX nel 1667. Obiettivo di Rospigliosi era di equiparare (assimilare) l’opera al teatro
parlato. Memorabile è il Sant’Alessio (Roma, 1631) curato da Rospigliosi e musicato da
Landi, opera di successo replicata per tre anni.
DI particolare importanza storica è il distacco con la tradizione: non più favola pastorale ma
un vero e proprio “dramma in musica”, caratterizzato dall’introduzione di elementi farseschi
(Una farsa è un genere di opera teatrale la cui struttura e trama sono basate su situazioni e
personaggi stravaganti, anche se in generale viene mantenuto un certo realismo e nei loro aspetti
irrazionali. I temi e i personaggi possono essere di fantasia, però devono risultare credibili e
verosimili.) e di personaggi di carattere comico (vi è una danza di contadini vestiti da
Pulcinella); questi elementi diverranno i tratti tipici delle opere romane lasciati in eredità al
teatro musicale del Seicento.
La realizzazione scenica era importante quanto la musica: spesso la famiglia dei
patrocinatori sosteneva costi per la scenografia maggiori rispetto ai compensi per i musicisti,
lo spettacolo acquisiva così un forte carattere di eccezionalità (le singole opere venivano poi
riprese poche volte).
I compositori che collaborano con Rospigliosi predispongono le proprie partiture in modo da
adattare la musica alle esigenze del dramma. L’organizzazione musicale diventa così più
complessa e multiforme rispetto alle opere di corte. Il recitativo diventa più discorsivo ed è
talvolta interrotto da brevi episodi di carattere cantabile. Vengono poi proposte
frequentemente arie in cui predominano l’effusione lirica (dichiarazione di sentimento spontaneo
e senza freno, attraverso un'abbondanza metafore e immagini che suscitano volutamente emozioni e
toccano le corde del sentimento ) e il virtuosismo vocale.
Una tipica “scena madre” di tante opere di questo periodo è il “lamento” del/della
protagonista, un momento di disperazione angosciata e di evocazione nostalgica di cose
passate (Didone virgiliana, Olimpia abbandonata da Bireno nell’Orlando Furioso e Armida
ingannata da Rinaldo nella Gerusalemme Liberata di Tasso). Il modello e prototipo illustre
del lamento operistico è rappresentato dall’unico brano superstite dell’Arianna di Monteverdi
(Mantova, 1608): Lasciatemi morire fu la sezione che fece guadagnare all’opera un grande
successo per la suggestione suscitata nel pubblico. I compositori seicenteschi diedero ad
esso la struttura di un’aria formata da una serie di variazioni strofiche sopra le ripetizioni di
una stessa linea di basso (ostinato), spesso composto da un tetracordo diatonico o
cromatico discendente ripetuto a volte con qualche variante, che offriva al compositore
l’occasione di intesservi strutture armoniche dissonanti determinate da ritardi, sincopi,
sovrapposizioni di frasi tra la parte vocale e il basso.
L’aria-lamento è di solito preceduta e talvolta seguita da un recitativo. Tipico dell’aria-
lamento è inoltre il tempo in ritmo ternario.

L’opera impresariale a Venezia

Dopo l’apertura del primo teatro d’opera pubblico (San Cassiano), nel giro di pochi anni
sorsero a Venezia altri cinque teatri concepiti per l’opera in musica. Si trattava di edifici
costruiti in legno e piuttosto piccoli, già in uso per commedie, acquistati e riadattati per
l’opera a spese di di alcune grandi famiglie patrizie veneziane che poi li davano in gestione
ad impresari. I palchi venivano concessi in affitto per tutta la stagione ai nobili e ai cittadini
facoltosi, mentre i posti di platea erano venduti di sera in sera.
Con l’apertura di questi teatri si passò ad una concezione imprenditoriale del teatro in
musica che:
- richiedeva una sua struttura organizzativa ed economica;
- esigeva costanza e regolarità delle produzioni;
- reclamava il rinnovamento continuo del repertorio pur conservando certe convenzioni
stilistiche mutevoli e flessibili che andavano seguite.
Nel suo saggio storico Memorie teatrali di Venezia (1681), il librettista dalmata ( dalla
Dalmazia) Cristoforo Ivanovich espone chiaramente le origini, le funzioni e l’organizzazione
del sistema: esso consisteva nel produrre nei teatri “uno splendore incredibile, non inferiore
a quanto si pratica nei diversi luoghi dei principi, con la sola differenza che dove questi lo
fanno godere con generosità, a Venezia è fatto negozio”.
Nonostante il teatro d’opera veniva per la prima volta commercializzato e aperto ad un
pubblico va notato come la classe dominante era in entrambi i casi l’unico pubblico a cui
erano destinate le rappresentazioni.
La popolarità del teatro d’opera pubblico deve intendersi come popolarità imposta in quanto
rappresentazione delle aspirazioni della classe dominante e manifestazione del potere
dell’autorità costituita attraverso la propaganda. Numerosi sono i libretti della produzione
operistica veneziana che celebrano gli ideali eroici che riflettono l’ideologia dello Stato
veneziano: la Repubblica di Venezia, che si estendeva da Bergamo alla Dalmazia, era
considerata la legittima discendente della repubblica romana, che a sua volta aveva origini
da Troia. Pertanto molti soggetti operistici sono ricavati dalla storia romana e dalle leggende
troiane, vengono spesso scelte storie di eroi e condottieri bellicosi. Le storie eroiche lasciano
comunque ampio spazio alle situazioni amorose, alle vicende romanzesche e favolose che
forniscono altrettante occasioni propizie alla realizzazione di stupefacenti effetti scenici.
Il sistema impresariale dei teatri veneziani esigeva la massima economia sulle spese di
gestione per l’allestimento e la rappresentazione. I cantanti, compositori, strumentisti,
scenografi e costumisti erano pagati dall’impresario su base contrattuale. Il maggior richiamo
sul pubblico pagante lo esercitavano però i cantanti solisti, che ricevevano salari nettamente
maggiori rispetto al resto della compagnia. Il coro e il gruppo orchestrale non era formato da
molti membri per limitare le spese. Il librettista ricavava un utile dalla vendita dei libretti che
faceva stampare a sue spese. Egli è considerato il vero e proprio autore del dramma per
musica che poi il compositore “riveste di note”. A quest’ultimo invece quasi sempre non era
nemmeno dato di possedere la partitura che aveva composto e che d’ora in poi non verrà
mai dato alle stampe (salvo rarissimi casi). Una volta rappresentata l’opera, la partitura
manoscritta veniva ceduta al teatro che la poteva riutilizzare successivamente senza alcun
compenso ulteriore per l’autore della musica. I primi operisti si dedicarono solo
saltuariamente al teatro d’opera e si guadagnarono da vivere con i loro servizi verso un
principe, un mecenate o come maestri presso una cappella ecclesiastica.
Un ruolo importante fu svolto dalle compagnie itineranti di cantanti che viaggiavano da una
città all’altra (Venezia lascia “disoccupati” i cantanti per 9 mesi l’anno) con intento di portarvi
spettacoli musicali già eseguiti altrove (Incoronazione di Poppea) o di organizzarne di nuovi.
Il primo gruppo che iniziò al teatro di San Cassiano la serie di rappresentazioni pubbliche
d'opera era composto quasi esclusivamente da romani, come il compositore e librettista
Benedetto Ferrari e il compositore e cantante Francesco Manelli, il quale scrisse le opere
che inaugurarono il teatro di San Cassiano (Andromeda, 1637) e quello dei SS. Giovanni e
Paolo (Delia, 1639). Questa compagnia subì la concorrenza della compagnia dei
Febiarmonici, che introdurrà nel 1651 l’opera in musica a Napoli, causata dalla volontà di
dimostrazione dell’autorità del vicerè spagnolo (il conte di Añate) dando il via al
melodramma.
Veicolo prevalente di espressione musicale nelle opere veneziane è ancora lo stile
recitativo. Ma con l’andare del secolo, l’importanza via via crescente data al cantante
virtuoso nell’economia dello spettacolo determinò l’incremento nell’opera del numero delle
arie solistiche.
Opera scritta tendenzialmente in stile recitativo è Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi,
composta su testo del nobile veneziano Giacomo Badoaro (1602-1654) e rappresentata
dalla compagnia Ferrari-Manelli al teatro di San Cassiano e a Bologna nel 1640. Con
quest’opera il più che settantenne Monteverdi usciva dal riserbo che lo aveva tenuto lontano
dalle scene operistiche per oltre trent’anni. Il ritorno di Ulisse e L'incoronazione di
Poppea, suo ultimo lavoro teatrale rappresentato al teatro dei SS. Giovanni e Paolo nel
carnevale del 1643 su libretto di Gian Francesco Busenello (1598-1659), sono drammi in cui
le passioni umane prevalgono nettamente sugli stati d’animo elegiaci, appartenenti ad un
mondo irreale, delle sue opere precedenti. Il recitativo si presenta in tutta la sua ricchezza
espressiva e si adatta bene alla dinamica psicologica e narrativa del dramma. Il lungo
monologo lamentoso di Penelope che invoca il ritorno del suo sposo è un tipico esempio del
tardo recitativo monteverdiano, pieno di inflessioni (lieve modificazione nell'altezza, nel timbro o
nell'intensità della voce) patetiche e di sentimenti contrastanti.

Francesco Cavalli (1602-1676) e Antonio Cesti (1623-1669)

Nativo di Crema (vicino Cremona), Cavalli si trasferì giovanissimo a Venezia dove studiò
con Monteverdi e dove ottenne in San Marco prima incarichi di cantore (dal 1616), poi di
organista (dal 1620) e infine di maestro di cappella (dal 1668). È considerato il primo
operista a pieno titolo, un nuovo tipo di musicista che produce musica operistica su base
imprenditoriale. Dal 1639 al 1666 fece rappresentare ogni anno quasi senza interruzione
oltre 30 opere nei teatri veneziani, opere che poi verranno riciclate dalle troupes itineranti in
altre città d’Italia e all’estero. Il Giasone (Venezia 1649) fu la sua opera più fortunata e durò
sulle scene fino alla fine del secolo (18 rappresentazioni a Venezia e almeno 20 nel resto
dell’Italia). Alcune opere di Cavalli inaugurarono i teatri impresariali di alcune principali città
italiane come Ancona, Firenze, Milano, Napoli e Palermo.
La musica teatrale di Cavalli procede dal recitativo declamatorio all’aria per graduale Commented [1]: Colorito e sottolineato enfaticamente
espansione; Gli ampi recitativi sono spesso interrotti o conclusi per far risaltare un certo
passo significativo del testo. Quasi tutte le arie sono in ritmo ternario. Lo stile melodico è
prevalentemente sillabico.
Antonio Cesti fu il compositore che più contribuì a dare all’opera la sua forma per lungo
tempo definitiva, nella quale il pezzo chiuso (aria solistica, duetto) diventa l’elemento
fondamentale per la costruzione melodrammatica, fondata sempre più sulla separazione
netta tra recitativo e aria.
Enorme fu la fortuna delle sue opere, in particolare di:
- Orontea (Venezia, 1649)
- Alessandro vincitor di se stesso (Venezia 1651)
- Dori (Innsbruck 1657)
- Tito (Venezia 1666)
Furono questi suoi drammi a inaugurare alcuni teatri di città periferiche o di provincia
(Cremona, Foligno, Macerata, Torino, Viterbo, Pavia, Portomaggiore). La molteplicità delle
rappresentazioni della stessa opera in diversi teatri causò la consuetudine di introdurre una
serie di modifiche ogni volta diverse in adattamenti, manipolazioni testuali e musicali,
sostituzioni di interi brani o singoli passi. Le ragioni di queste modifiche erano
prevalentemente per valorizzare le diverse risorse vocali di diversi interpreti e per adeguarsi
alle tradizioni e ai gusti dei diversi pubblici.
Quasi tutta la carriera di questo compositore di Arezzo si svolge presso la famiglia Medici.
Da frate francescano maestro di cappella al duomo di Volterra (1645-1649) egli dopo essere
stato introdotto dai Medici a Venezia nel 1651 come compositore e cantante, divenne
maestro del teatro d’opera di corte a Innsbruck (1652) e a Vienna (1666). Morì
quarantaseienne a Firenze, probabilmente avvelenato.
Numerose sono le arie patetiche a ritmo ternario costruite sopra un basso ostinato che a
differenza di Cavalli è raramente presentato in forma cromatica.
Viene pure impiegata la tradizionale organizzazione strofica (a b b). Numerose arie sono
composte nella struttura tripartita col da capo (A B A) con un ritornello strumentale ripetuto
dopo la prima e la seconda parte nonchè alla fine dell’aria.
Preludi e ritornelli strumentali (spesso due violini e basso continuo) delle arie mostrano
spesso una ricchezza e un’ampiezza inconsuete per il suo tempo.
Frequenti sono i motivi (Tema fondamentale o accessorio di un pezzo musicale ) fra ritornello e
aria. Molte arie hanno in apertura un motivo che, annunciato dalla parte vocale, viene subito
ripreso dagli strumenti o dal solo basso continuo e poi ricantato dalla voce. Questo tipo di
aria (Devisen-aire, aria con motto come viene definita dal musicologo H. Riemann) ebbe
larga diffusione fino ai primi decenni del Settecento e fu adottato anche nelle musiche vocali
e strumentali da molti compositori tedeschi come Bach e Handel.
Passaggi vocalizzati piuttosto estesi ispirati a formule strumentali che prevedono ampi
intervalli melodici e rapidi movimenti di crome e semicrome. I passaggi virtuosistici si
estendono anche alle parti buffe, come raramente era avvenuto in precedenza.
L’aria finisce per diventare l’entità minima significante dell’opera su cui si concentra tutto
l’interesse del compositore e dell’ascoltatore. È sintomatico come in questo momento
comincino a comparire i nomi dei cantanti esecutori nei libretti a stampa, data l’importanza
sempre maggiore che ricevono in questo momento storico.

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