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Concerto – scaletta brani

Ludwig van Beethoven (1770-1827)

Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in Sol maggiore op. 58

Allegro moderato
Andante con moto
Rondò. Vivace

Fantasia corale “Schmeichelnd hold” (Lusinga amichevole) per pianoforte, soli, coro ed orchestra
in Do minore, op. 80

Adagio – Allegro
Meno Allegro
Allegretto ma non troppo

_______________________________________________________________________________________

Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in Sol maggiore op. 58


Organico: pianoforte, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1805-1806
11
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 22 Dicembre 1808
Edizione: Bureau des Arts et d’Industrie, Vienna 1808
Dedica: arciduca Rodolfo d’Austria

Andrea Schenardi
Se il Terzo concerto, nonostante le novità della scrittura pianistica, si muove ancora con tutta la sua
drammatica veemenza nel solco mozartiano tracciato segnatamente dai Concerti in re minore K
466 e in do minore K 491, il Quarto si addentra in una regione solo in parte esplorata dal
Salisburghese con i Concerti K 450, 488 e 595. Composto nel 1805-06 (nel periodo in cui Beethoven
lavorava anche alla Quinta sinfonia, al compimento della prima versione del Fidelio, al Concerto
per violino), il Concerto in sol maggiore realizza il prodigio di una sonorità pianistica di tipo
intimistico, dolcemente luminosa e non brillante, con una frequente valorizzazione del registro
acuto dello strumento in funzione cantabile, mentre la natura del rapporto fra solista e orchestra
riesce di tono affettuosamente colloquiale, anziché di contrapposizione dialettica. Ma è anche la
variegata veste armonica del Quarto concerto, l’abbondanza delle modulazioni, l’ampiezza della
gamma espressiva all’interno di una sostanziale unità di tono [v. Carli Ballola e la «Tinta»] e la

1
Wikipedia (eng):
The Beethoven concert of 22 December 1808 was a benefit concert held for Ludwig van Beethoven at the Theater an der
Wien in Vienna that featured the public premieres of Beethoven’s Fifth and Sixth Symphonies, the Fourth Piano
Concerto and the Choral Fantasy. This concert, then called an Akademie [Accademia: termine storico in uso ai tempi di
Beethoven e nel secondo Settecento per indicare un “concerto”, in genere comprendente ampia varietà di brani ed
esecutori], occurred in a very cold hall and was approximately four hours duration. Its featured performers were an
orchestra, chorus, vocal soloists, and the composer was featured as soloist at the piano. Beethoven biographer Barry
Cooper refers to the concert, in terms of its content, as the “most remarkable” of Beethoven’s career.
The concert commenced at 6:30 pm and lasted for approximately four hours, with an interval separating two sessions.
The programme was as follows:
Part 1 Part 2
Symphony No. 6 “Pastoral”, Op. 68 Symphony No. 5, Op. 67
«Ah! perfido», concert aria for soprano solo and orchestra, Op. 65 «Sanctus», from the Mass in C major, Op. 86
«Gloria», from the Mass in C major for vocal soloists, chorus, and orchestra, Op. 86 Extemporised fantasia for solo piano [ipotizzata la Fantasia in Sol minore op. 77]
Piano Concerto No. 4, Op. 58 Choral Fantasy for piano soloist, vocal soloists, chorus, and orchestra, Op. 80
trasparenza dell’orchestrazione che fanno del Concerto in sol maggiore – si legge in un articolo
della «Allgemeine Musikalische Zeitung» del maggio 1809 – «il più ammirevole, il più singolare, il
più artistico e difficile di tutti quelli che Beethoven ha scritto».
La breve entrata del solista, che nell’Allegro moderato iniziale precede l’esposizione orchestrale
introducendo dolcemente l’antecedente del tema principale col suo caratteristico inciso a note
ribattute, è di per se stessa sorprendente. È come il levarsi d’un sipario su un paesaggio sonoro di
impronta squisitamente pianistica che gli archi, ripetendo e completando il tema, prendono a
imitare, avviando il discorso musicale all’insegna dell’integrazione fra solo e orchestra. Il ponte
modulante estende il tema, così esposto, agli strumenti a fiato e lo innalza con un crescendo, fino
ad approdare a un accordo generale di tutta l’orchestra, toccando così un punto di sensibile
distensione che segna la fine della zona del primo tema e l’inizio del secondo: un soggetto dalle
linee slanciate e un ritmo quasi di marcia che, passando in varie tonalità e non toccando mai quella
che si converrebbe a un secondo tema, si direbbe fare ancora parte del ponte modulante. Dal
ritorno del caratteristico inciso del tema principale (che ancora una volta porta a un crescendo in
direzione di un nuovo punto culminante), un terzo tema ad ampi intervalli fiorisce nei violini in un
luminoso modo maggiore.
Un episodio conclusivo e un rasserenante ritorno dell’inciso a note ribattute del primo tema
chiudono la prima esposizione «chiamando» l’ingresso del solista, il quale, a sipario ormai levato,
prende a elaborare virtuosisticamente la sua stessa introduzione iniziale. Privata del primo tema
nella sua interezza, la seconda esposizione risulta più ampia della prima e, rispetto a quella, più
ricca d’ornamenti. Un virtuosistico episodio di transizione, anziché condurre diritto al secondo
tema, approda infatti a una melodia molto lirica e trasognata in si bemolle maggiore, eseguita dal
pianoforte alla mano destra nel registro acuto e accompagnata dalla sinistra nel registro grave,
mentre dopo un rapido passaggio del solista, i violini introducono, piano, nel tono della
dominante, un nuovo tema caratterizzato da una frase legata su un ritmo puntato, rinforzata al
centro da un duplice sforzando. Chiusa così l’imprevista parentesi, l’episodio di transizione può
quindi riprendere il suo corso e finalmente condurre al secondo tema alla cui esposizione
contribuisce ora il pianoforte. Più ampio è anche l’episodio di transizione al terzo tema, in cui
l’inciso a note ribattute suona alternativamente in violini e legni, mentre, a slanciare in avanti il
discorso musicale in direzione dello sviluppo, il terzo tema suona dapprima limitato alla sola
prima frase (enunciata dai legni, quindi prolungata e infine ripetuta dal solista), per poi
completarsi nella seconda. Codetta e inciso a note ribattute chiudono la seconda esposizione.
Lo sviluppo prende le mosse dal solito inciso che il solista solleva fino a un punto culminante da
cui ridiscendere con un disegno in terze e seste discendenti, come per attrazione gravitazionale.
Una, due volte su un pedale di fa minore; poi altre due volte, ma da un tono e mezzo più in basso e
su un pedale di re minore. E mentre il pianoforte si lancia in ampie e generose volute d’arpeggi,
violini e violoncelli ripetono il disegno discendente del solista. Una lunga coda di questo episodio,
formata da passaggi brillanti e incisivi del pianoforte nel tono di do diesis minore, approda, dopo
un trillo di dominante, a un pianissimo in cui la precedente concitazione si placa in un disegno
melodico etereo (sempre in do diesis minore) in cui il solista ripete una semiscala discendente,
prima a note semplici, poi con terze della destra, mentre violoncelli e contrabbassi eseguono in
pizzicato l’inciso del primo tema.
La sezione conclusiva dello sviluppo, intessuta sul medesimo inciso, prepara la ripresa del primo
tema, riaffermato dal solista in tono grandioso e continuato delicatamente dall’orchestra. Una
cesura lascia sospesi gli episodi collegati al tema principale dando luogo a un nuovo episodio
modulante, molto simile alla parentesi lirica già ascoltata in seno alla transizione fra primo e
secondo tema nella seconda esposizione. Segue quindi il quarto tema, mentre il resto
dell’esposizione si ripete in modo regolare, fino alla cadenza, conseguente alla ripetizione del terzo
tema e non di codetta e ritorno dell’inciso a note ribattute che avevano preparato lo sviluppo. La
coda riprende il filo del discorso «interrotto» dalla cadenza, ripartendo dal terzo tema per
approdare alla ripetizione dell’inciso a note ribattute e su questo chiudere il primo movimento.

All’affettuoso colloquio fra solo e orchestra dell’Allegro moderato, segue il contrasto più violento del
secondo movimento, un Andante con moto, nel quale widerstrebende Prinzip e bittende Prinzip,2

2
«Nell’anima, come nel mondo fisico, agiscono due forze, egualmente grandi, egualmente semplici, desunte da uno
stesso principio generale: la forza di attrazione e quella di repulsione»: appunto trascritto da Beethoven durante la
lettura dei Fondamenti metafisici della scienza della natura di Immanuel Kant. È condivisa idea musicologica quella secondo
la quale i due principi oppositivi formali, «bittende Prinzip» e «widerstrebende Prinzip» (principio implorante e
principio d’opposizione e principio implorante, assumono la più tesa evidenza. Cosi al tema in mi
minore pronunciato forte e sempre staccato dall’orchestra, il pianoforte contrappone un’idea
cantabile di implorante dolcezza. I due opposti elementi tematici si alternano dapprima con largo
respiro, poi a piccoli frammenti, l’uno digradando progressivamente fino a estinguersi, l’altro
rafforzando la propria voce con uguale gradualità, per culminare in un canto intensissimo e in una
ardita cadenza tonalmente ambivalente. Nella coda l’orchestra torna a far sentire nei bassi, in una
dinamica ridottissima, il suo inciso ritmico, mentre il pianoforte rientra con un breve accenno
melodico e un delicatissimo arpeggio di chiusa.

L’opposizione fra solo e tutti, così evidente nell’Andante, persiste nel finale dove però il tono
generale è quello d’un divertito rondò a una sola strofa. Attaccato pianissimo dagli archi
dell’orchestra, il tema di refrain viene subito ripreso dal pianoforte, mentre un violoncello si stacca
dal gruppo con una linea melodica indipendente. Identico procedimento subisce la seconda idea
cantabile, poi l’orchestra riafferma con energia il tema iniziale. Un brillante episodio di transizione
costruito sull’opposizione fra solo e tutti conduce al couplet:3 un tema di serena cantabilità
presentato dal pianoforte e subito dopo dall’orchestra in una scrittura di limpida trasparenza
polifonica. Collegati fra loro episodi di transizione, refrain e couplet si alternano quindi
regolarmente con gli sviluppi e le varianti del caso, fino alla cadenza. La coda con un brusco
cambiamento di tempo può quindi portare il concerto a una conclusione sfolgorante sul motivo di
testa del tema principale.

Giacomo Manzoni
C’è subito da notare l’innovazione formale rispetto al tradizionale concerto del ’700, per cui è il
pianoforte solo a iniziare il primo tempo: è un bellissimo tema di intonazione romantica, che viene
subito ripreso dalla sola orchestra e condotto fino alla seconda idea. La quale a sua volta,
inversamente all’uso normale ha carattere incisivamente ritmico: la successione maschile-
femminile dei due temi principali viene dunque capovolta e ne esce una configurazione inattesa,
ricca di contrasti e foriera di interessanti sviluppi. Con l’attacco del pianoforte ha inizio fra il
solista e l’orchestra un dialogo vario e luminoso, in cui il primo reca un elemento assolutamente
individuale con la sua tecnica smagliante e il significativo contrasto con la massa dell’orchestra.
Qui “solo” e “tutti” sono ormai equiparati in un corpo unico eppure continuamente
differenziato: le basi del concerto moderno per pianoforte e orchestra sono definitivamente
gettate.
Per quanto riguarda l’Andante con moto, esiste una tradizione abbastanza attendibile per cui
Beethoven sembra abbia voluto raffigurare nei due temi di questo brano, (quello iniziale
dell’orchestra e quello del pianoforte solo) il mito di Orfeo che soggioga le forze dell’Ade con la
bellezza del suo canto. È una pagina breve ma succosa e ricca di contrasti, dove lo strumento
solista si libra ad inebrianti altezze liriche.
Il Rondò conclusivo, infine, è caratterizzato da uno di tipici temi beethoveniani, elastici e
propulsivi, che così spesso si incontrano nella sua opera. Lo spirito di danza pervade questo finale,
dove il solista può far sfoggio di una bravura sempre intimamente legata a una vera necessità
d’espressione.

Giorgio Pestelli (1)


Dedicato all’arciduca Rodolfo d’Austria, il Concerto in sol maggiore op. 58 fu composto tra il 1805
e la fine del 1806, assieme al Fidelio (prima versione) e alla Quinta Sinfonia: fu eseguito la prima
volta, con il compositore al pianoforte, nel marzo 1807 a palazzo Lobkowitz e quindi in pubblico il
22 dicembre 1808 al teatro An der Wien. Tornando al genere concertistico dopo un intervallo di
cinque anni, Beethoven rivoluziona i tradizionali rapporti fra solista e orchestra, in particolare
muovendo con imprevedibile fantasia lo schema della doppia esposizione (prima da parte
dell’orchestra, poi da questa assieme al solista) cara al concerto classico. Nel Quarto Concerto il

principio d’opposizione), siano il frutto di una sorta di rielaborazione – operata da Beethoven entro l’opera d’arte – della
visione dualistica trovata in Kant.
3
«Couplet. In musica, episodio musicale che nel rondò si alterna al refrain, secondo lo schema ABACA, in cui A
rappresenta il refrain e B e C rappresentano i c.; anche, periodo musicale che nella canzonetta moderna si alterna con il
ritornello, mutando ogni volta il testo delle parole, ma non la musica».
pianoforte che da solo espone il primo tema, quasi preludiando, ed è ripreso poi dall’orchestra
secondo le leggi dello sviluppo tematico fissate una volta per sempre nella Quinta Sinfonia. Ma
sotto lo stimolo dello strumento prediletto, il pianoforte, si trovano spunti divergenti che nella
logica delle sinfonie non potevano trovare posto, anticipazioni dell’intimismo di uno Schubert,
estrapolazioni liriche di schietto segno romantico, lievitazioni poetiche dell’ornamentazione
(scale e trilli): sicché questo primo movimento (Allegro moderato), nel quale non si fa mai uso dei
timpani in piena creatività “eroica” e sinfonica, anticipa il clima meno perentorio e più
disponibile all’indugio momentaneo dei decenni posteriori.
Emblematico invece del Beethoven centrale è l’Andante con moto, un urto frontale tra due mondi
incomunicabili: la violenza dell’orchestra (archi soli) e il raccoglimento poetico del pianoforte con
il suo andamento da “corale”. La tensione quasi traumatica della pagina si dissolve nel finale
(Vivace), un Rondò mescolato con la forma sonata di sovrana eleganza, che ribadisce l’originalità di
tutto il concerto nel frequente, liberatorio, impiego solistico di strumenti in dialogo con il
pianoforte.

Giorgio Pestelli (2)


Quasi coevo al Fidelio e alla Quinta Sinfonia, il Quarto Concerto op. 58 maturò tra il 1805 e la fine
dell’anno seguente, durante un biennio in cui lo svolgimento creativo di Beethoven è attraversato
da un’ondata inventiva di inaudita e violenta fecondità. La prima esecuzione, come era abitudine,
avvenne in forma semiprivata, con Beethoven al pianoforte, in un concerto del 1807 in casa del
principe Lobkowitz; l’anno successivo, il 22 dicembre, il Quarto Concerto venne presentato in
forma pubblica a tutta la Vienna musicale, riunita al Teatro an der Wien per assistere a una
gigantesca “accademia” beethoveniana: oltre al Concerto pianistico, il programma presentava
infatti la Quinta e la Sesta Sinfonia, la Fantasia op. 80 e alcuni brani della Messa in do maggiore op.
86 [ed altri brani ancora, vedi nota a piè di pagina n. 1].
Fra i cinque Concerti per pianoforte e orchestra, il Quarto è quello certamente più lontano dalla
tradizione di questa forma: già il Terzo in do minore afferma una dimensione espressiva nuova,
ma c’è maggiore distacco fra il Terzo e il Quarto Concerto dello stesso Beethoven che non tra il
Terzo Concerto e quello in do minore di Mozart, K. 491. L’«Allgemeine Musikalische Zeitung» del
17 maggio 1809 parlava della composizione di Beethoven «più straordinaria, personale, elaborata e
difficile» fra tutte quelle che impegnavano uno strumento solista; e l’autorevole Rochlitz, ancora
un decennio più tardi, scriveva: «questa poco conosciuta composizione, è in realtà una delle più
originali e, in particolare nei due primi movimenti, delle più eccellenti e ricche di spirito di questo
Maestro»; è probabile che codesta insistenza sull’“originalità” sia in gran parte da attribuire al
celebre esordio, in cui il pianoforte, quasi improvvisando a sipario chiuso, espone da solo quel
primo tema che pervade tutto il movimento con una serie inesauribile di implicazioni e variazioni.
Anche nel Concerto K. 271 di Mozart il pianoforte scende subito in campo in dialogo con
l’orchestra; e anche nel Quinto Concerto Beethoven introduce il pianoforte nelle prime battute, ma
in un contesto cadenzante, non tematico; la soluzione del Quarto Concerto fa invece capo alla
tradizione dello stile improvvisatorio: la vera esposizione incominciando alla battuta 14, si può
considerare quanto avviene alla stregua di una fantasia preludiante ancorché tematica; si può
anche pensare alla Fantasia op. 80 che nel concerto del 22 dicembre 1808 Beethoven al pianoforte
aveva presentato non con l’attuale Adagio d’apertura, scritto in occasione della stampa, ma con una
libera improvvisazione.
Di una originalità inaudita si può parlare anche a proposito dell’Andante con moto per l’essenzialità
paradigmatica con cui la poetica del conflitto è rappresentata nel contrasto fra il solista e
l’orchestra: questa resa aggressiva dal terreo colore della frase ritmica degli archi, quello raccolto in
una pura frase di corale, attutita dalla sonorità “una corda” in una luce di ansiosa ma intima
preghiera; anche la soluzione del conflitto è originale rispetto ad altri luoghi beethoveniani, perché
questa volta è il «principio supplichevole» [«bittende Prinzip»] che vince [sul «principio di
opposizione» («widerstrebende Prinzip»)], quando il sinistro monito dell’orchestra poco per volta
si affievolisce: come il coro delle furie, placate dal canto di un nuovo Orfeo, che si chinano per
lasciare il passo.
L’uscita è nel Rondò finale, pagina che corre su piedi leggeri, nella quale la visione interiore è
confermata dall’uso intenso di strumenti solisti (i legni sopra tutti) che specie negli ultimi
episodi conversano con il pianoforte secondo un rapporto che, ancora una volta, era più tipico
della musica da camera che delle vaste forme concertanti.
L’originalità che tanto aveva impressionato i contemporanei, per il pubblico moderno passa ormai
in secondo piano rispetto al miracolo perenne del tono poetico generale dell’opera; gli stessi
spunti tematici delle opere gemelle (le analogie con la Quinta Sinfonia e con l’aria di Leonora nel
Fidelio sono state più volte segnalate) si stemperano in una luce del tutto nuova: sotto lo stimolo
dello strumento prediletto, il pianoforte, si scoprono regioni che nelle Sinfonie non potevano
trovare posto, aperture all’intimismo più segreto, quasi preschubertiano, irregolarità di scansione
ritmica, preziosità armoniche che ancora non si erano sentite in questi primi anni del secolo; anche
gli elementi più tecnici, come le scale o i “passaggi” che il pianoforte libera in misura inconsueta, si
trasfigurano in elementi poetici; su tutto vapora una nobile dolcezza che è il rovescio della
medaglia del Beethoven titanico ed eroico; ma non meno pregnante, e non meno stimolatore di
un avvenire musicale che si chiamerà Schubert, Schumann e Brahms.

Simone Ciolfi
Il Concerto n. 4 op. 58 fu composto tra il 1805 e il 1806, rivisto nel marzo 1807 e stampato a Vienna
nel 1808. Beethoven lo eseguì il 22 dicembre 1808 e fu l’ultimo concerto in cui si esibì come solista
al pianoforte; il successo che arrise alle sue sinfonie e le ottime vendite della sua musica gli
permisero di evitare per il futuro tali esibizioni pubbliche. Egli andava infatti raccogliendo i frutti
di anni di lavoro intenso e proficuo, in cui grandi opere come le Sinfonie n. 4 e n. 5, le Sonate op. 53
(«Aurora») e op. 57 («Appassionata»), il Concerto per violino e orchestra, i Quartetti op. 59, si
erano sovrapposte e giungevano a conclusione. Nata nell’intensa creatività di questo periodo, in
cui il compositore lavora molto sulle forme dei generi musicali e sulla loro organizzazione interna,
la partitura del Concerto op. 58 ha caratteristiche che la differenziano molto da quella del concerto
precedente: se nel n. 3 si avvertono le tracce di una mutazione marcata del gusto musicale, il
Concerto n. 4 è un’oasi stilistica assolutamente originale in cui il nuovo si acquieta nella serenità e
nell’intima logica del capolavoro. L’inizio, con gesto formale assai innovativo, vede il pianoforte
entrare solitario con un tema dalla strana melodia, caratterizzato da suoni ribattuti, il cui impulso
sembra aspirare contemporaneamente all’immobilismo e al movimento. Subito dopo la sua
comparsa, l’orchestra lo richiama gettandovi la luce più calda degli archi. Lo si ascolti: ha qualcosa
di compiuto e, allo stesso tempo, di interrogativo. Grazie a questo esordio, il cammino del brano,
più che un percorso lineare, sembra composto dalle immagini di un caleidoscopio, in cui la figura
fondamentale è sempre costituita da quel tema iniziale. L’abbondanza tematica riscontrabile nei
passi modulanti e lo stesso secondo tema non riescono ad avere un simile potere di attrazione. La
loro comparsa è ottimamente preparata, stupenda la fattura, ma la loro presenza è breve e
passeggera. Al pianoforte è riservato un virtuosismo di grande eleganza, che disegna figure aeree,
elabora il materiale melodico fiorendone il contenuto, ma anch’esso sembra non fermarsi mai in
qualche punto preciso, in una zona tematica definita. Scale cromatiche, arpeggi, doppie note e
terzine in gran quantità, trilli; c’è poco da tenere a memoria. Quella che Beethoven riesce a
creare è un’atmosfera dove la materia musicale riproduce ciò che abbiamo detto per il primo tema:
tutto sembra possedere movimento e, allo stesso tempo, pare essere sospeso in una dimensione
assoluta, speculativa. […].
In ogni modo, se in quest’Allegro moderato iniziale gioco e sentimento si combinano magistralmente
in nome di una tradizione concertistica rinnovata ma presente, nell’Andante con moto seguente si
manifesta più chiaramente quell’aria misteriosa, dal connotato affettivo poco chiaro, presente in
forma latente nel brano che lo precede. È una specie di recitativo astratto, caratterizzato da un
ritmo di marcia indefinito, a cui segue la risposta del pianoforte. C’è da sottolineare subito che in
questo breve brano il solista e l’orchestra non suonano mai insieme. L’uno risponde all’altra
disegnando però un tutto unico, integrandosi senza mai opporsi; di comune accordo disegnano un
arco espressivo che sarebbe stato inconcepibile se le due parti avessero proceduto accoppiate.
Sembra un dialogo a due verso un’entità assente o invisibile. All’origine del brano c’è un impulso
intellettuale più che affettivo, e tuttavia, il risultato apre la strada a una nuova sensibilità, che
sembra tentare anche corrispondenze sperimentali tra immagine musicale e gesto, intendendo per
gesto un atteggiamento, come dire, di cosciente recitazione del contesto sonoro che mira a un
risultato espressivo radicalmente nuovo, estraneo ai mezzi tradizionali. Inutile ribadire ancora
quanto tutto ciò sia stato, per la creatività contemporanea, elemento di grande importanza.
Il Rondò seguente porta un’indicazione agogica estremamente appropriata: vivace. Il tema iniziale,
brillante e leggero, introdotto, contrariamente all’uso, dall’orchestra, è ripreso subito dal solista
con un elegante portamento danzante. Lo segue un tema dal lirismo conciso, anch’esso esposto
dall’orchestra e ripreso dal pianoforte. In alcuni momenti seguenti, il solista si inserisce solo per
un attimo all’interno della tessitura orchestrale, come facendo capolino in una parte non sua;
una maniera nuova, di far interagire i due protagonisti, oltre a quella dell’opposizione e della
fusione. Il modo in cui il pianoforte si amalgama con il tessuto orchestrale del brano è simile a
quello che caratterizzava il primo tempo ed è reso possibile da una simile utilizzazione della
tecnica pianistica: terzine, flussi di quartine, arpeggi, scale cromatiche, melodie dal ritmo
sperimentale. Ma in questo rondò finale Beethoven riesce a dare al tutto un magnifico impulso
motorio, costante, omogeneo e accattivante. Anche qui, come nel primo tempo, il disegno musicale
procede a grandi arcate sonore che partono dal basso e vi ritornano, ma in questo ultimo pezzo
tutto prosegue avanti con ferma decisione, mentre nell’altro sono presenti oasi di staticità
contemplativa più ampie.
Nella sicurezza dell’intenzione espressiva è la differenza fondamentale fra i due concerti: il n. 3
esprime il bisogno di spingere e superare, il n. 4 procede spedito, ma con la calma di chi sa
precisamente dove andare e come arrivarci. In più la tecnica pianistica del n. 3 possiede un ritmo
chiaramente scandito, è caratterizzata da sforzati, da intrusioni improvvise; nel n. 4 è invece assai
fluida, ricca di arpeggi e di novità timbriche ottimamente sposate al loro ritmo. Se il n. 3 si
caratterizza per la sua natura frazionata in sezioni espressive, il n. 4 ha qualcosa di estatico e
trasfigurato, possiede una natura affettiva compatta e omogenea. Ma Beethoven aprirà, nel
concerto successivo, il n. 5, ancora nuovi e diversi orizzonti al genere. Questa diversità, fra concerti
dedicati allo stesso strumento, fra le sinfonie, le sonate per pianoforte, è paradossalmente l’unico
elemento tipico di Beethoven, compositore che riesce a non ripetersi mai e a non percorrere due
volte lo stesso sentiero formale.

Giovanni Carli Ballola, Concerti per pianoforte e orchestra nn. 4-5


La più spiccata caratteristica che contraddistingue il Quarto Concerto per pianoforte dai precedenti
è, come avrebbe detto Verdi, la sua «tinta», improntata ai toni sfumati e luminosi di un’intima
letizia, di una calda, virile tenerezza. Ma il diffuso lirismo del Concerto in sol, la rinuncia a quel
clima epico-marziale, cui pareva esclusivamente attenersi il concertismo beethoveniano, per una
più ricca e sottile gamma espressiva, non è che un particolare della sua straordinaria novità, della
stupefacente complessità della sua concezione, riferibile, almeno per taluni aspetti, a quella dei
capolavori dell’ultimo periodo. Fin dall’introduzione dell’«Allegro moderato» (preceduta dalle 5
battute in cui il pianoforte solo presenta, dolcemente esitante, il tema principale) s’instaura quel
clima di «affinità elettive», d’intima «corrispondenza d’amorosi sensi» che perdurerà per tutto il
movimento tra lo strumento solista e l’orchestra, trattata con leggerezza e finezza di particolari
meravigliose. Al primo tema segue un’idea di transizione in la minore, sorta di marcia sommessa e
idealizzata che porta a una conclusione piena di soavità mozartiana. Ma gli echi mozartiani di cui
pullula il Quarto Concerto sono qualcosa di completamente diverso, di più profondo e sublime,
del manierismo puro e semplice dell’op. 19 [Concerto per pianoforte ed orchestra n. 2]. Come già
abbiamo rilevato più di una volta, essi presuppongono da parte di Beethoven una raggiunta
maturità stilistica e spirituale, una superiore disponibilità interiore ottenuta attraverso il
superamento del mozartismo formalistico, e sono, per così dire, un riavvicinamento pieno di
affettuosa saggezza agli spiriti di Wolfgang Amadeus come l’Ouverture per Die Weihe des Hauses lo
sarà a quelli di Händel.
Anche i rapporti tra lo strumento solista e l’orchestra hanno superato quel semplicistico clima
conflittuale che aveva ossessionato il Beethoven del Concerto in do minore [il Concerto n. 3], e si
articolano in un dialogo pacato, ma ricco di chiaroscuri e intenso di risonanze. Ogni frase degli
strumenti viene ripresa dal pianoforte e trasfigurata attraverso il procedimento della variazione
continua, proprio dell’arte beethoveniana più matura.
Ma il colloquio amoroso viene bruscamente spezzato dall’Andante con moto: brevissimo e
intensissimo, come il movimento centrale della Waldstein-Sonate, esso contrappone
drammaticamente alla cordiale effusione del primo tempo, la massima concentrazione espressiva,
all’amabilità discorsiva tra solista e orchestra, l’urto insanabile tra il «principio di opposizione» e
quello «implorante», qui rappresentati rispettivamente dall’orchestra, ridotta ai soli archi, e dal
pianoforte. Si può affermare che mai, prima d’ora, i due poli della dialettica beethoveniana erano
apparsi tesi in così lancinante conflitto. In un’atmosfera greve d’immobile angoscia, il violento
«recitativo» degli archi incalza il canto soffocato del pianoforte: questo, dopo un’ ultima, disperata
impennata melodica che attraverso tortuosi cromatismi porta ad una cadenza di sapore
stranamente raveliano, esala la sua anima, mentre i bassi scandiscono per l’ultima volta
l’inesorabile sentenza.
Il luminoso finale giunge improvviso sui passi leggeri di un pianissimo, mettendo in fuga le dense
nubi come un soffio d’aria pura: marziale e insieme amabile come un eroe ariostesco, il «Rondò»
consta di due temi fondamentali: il primo deve il suo irresistibile “divenire”, la sua sorridente
ambiguità al fatto di non iniziare nella tonalità fondamentale di sol maggiore, ma in quella della
sottodominante, ossia in do maggiore; il secondo, più serenamente cantabile, appare tra il serico
ordito di una polifonia orchestrale di eterea leggerezza.

Con il Concerto in sol maggiore Beethoven raggiunse una vetta che non toccherà nel coevo
Concerto op. 61 per violino e neppure nel successivo e ultimo Concerto in mi bemolle maggiore
op. 73 per pianoforte, portato a termine quattro anni dopo, mentre l’esercito napoleonico stava
marciando su Vienna, ma la cui prima esecuzione pubblica nella capitale absburgica, effettuata da
Czerny, avvenne il 15 febbraio 1812. Se infatti è innegabile che il Quinto Concerto, detto
l’«Imperatore» (e sul perché risparmiamo al lettore le solite oziose congetture aneddotiche),
presenta una vastità di proporzioni e di sviluppo e rivela uno sforzo di dominio dell’elemento
sinfonico e concertante in un quadro strutturale straordinariamente dilatato che non hanno
precedenti e per i quali è lecito scomodare, una volta tanto, l’abusato termine di titanismo; è
altrettanto vero che la grandeur delle sue ambiziose architetture impallidisce accanto alla
profonda poesia, al mirabile equilibrio, ed anche alla più autentica novità dell’op. 58, e che i
suoi turgori michelangioleschi mostrano qua e là più di una pennellata opaca che lascia a nudo la
sinopia dell’immenso affresco. Concepito come l’Eroica nella trionfale tonalità di mi bemolle
maggiore, il Concerto ritorna ai prediletti modi epico-marziali, temporaneamente dimessi con l’op.
58 e l’op. 61 , e anzi, sotto tale aspetto, è l’apoteosi (o l’iperbole) di quell’alta retorica beethoveniana
di cui parla Busoni e che si manifesta quasi programmaticamente fin dall’inizio, con i fragorosi
accordi dell’orchestra e la superba impennata cadenzante del pianoforte. Il tema principale, a ben
vedere, non è che un convenzionalissimo incipit da ouverture “seria” tardo-settecentesca: ma il
vecchio rudere appare qui rianimato da nuova eloquenza per esprimere «egregie cose», l’anonimo
luogo comune diventa prodigiosamente affermazione dell’io beethoveniano. Una marcia guerresca
idealizzata che inizia in pianissimo per poi sfociare in una lieta fanfara dei corni, costituisce la
seconda idea di questo colossale Allegro, in cui la scrittura pianistica tocca vertici di virtuosità mai
prima raggiunti, presentando caratteristiche già riferibili alle ultime sonate, specie nell’impiego
delle liquide sonorità del registro acuto e del trillo, di volta in volta impennata drammatica ed
estatica catarsi. Talora, come nell’entrata del pianoforte ad ampi accordi in pianissimo dopo
l’introduzione orchestrale, balzano in primo piano quei tratti prodigiosamente avveniristici, dove i
parametri timbro, massa e intensità hanno il sopravvento sugli altri elementi del discorso musicale,
trasfigurando radicalmente il significato del materiale tematico.
L’Adagio un poco mosso nella lontana tonalità di si maggiore, cui Beethoven perviene mediante un
radioso scambio enarmonico, prende l’avvio con un’estatica melodia esposta dai soli archi in
sordina, cui il pianoforte risponde con una lunga cantilena sorretta da un molle accompagnamento
di terzine che in certi tratti, come nelle battute 34-37, presenta impressionanti analogie chopiniane.
Collegato senza soluzione di continuità col secondo tempo mediante un geniale aggancio tematico-
ritmico, il Rondò finale irrompe con un tema pieno d’esuberante aggressività, la cui eccentrica
struttura ritmica emiolica, basata sull’opposizione del ritmo binario della mano destra a quello
temano della sinistra, costituisce tuttora per gli esecutori un dibattuto problema interpretativo.
L’Imperatore portò all’apogeo quel tipo di concerto per pianoforte tra marziale e brillante che
dominò i primi decenni del XIX secolo; ma insieme ne esaurì tutte le possibilità con una carica di
energie musicali e un’urgenza di contenuti espressivi che soltanto un Beethoven poteva ancora
fare coincidere con la retorica cerimoniale e virtuosistica di un genere ormai storicamente
concluso. Già vivente Beethoven, e nonostante la presenza incombente delle op. 58 e 73 (o, forse,
proprio a causa di tale presenza), ebbe fine la parabola del concerto uscito dalle mani di Mozart e
poi di Beethoven nella sua inscindibile unità ipostatica di due entità, quella dello strumento solista
e quella dell’orchestra. I compositori-concertisti del Biedermeier, gonfiando a dismisura
l’apparato virtuosistico del loro strumento, ne faranno la fondamentale e pressoché autonoma
struttura portante dell’intera composizione, riducendo l’orchestra a funzioni di mero supporto
decorativo e accessorio, spesso facoltativo. Tra gli Hummel, i Ries, i Czerny, i Field, i Moscheles, i
Kalkbrenner, nonché i Weber, i Paganini, i Rode, i Kreutzer, non fa eccezione, nell’applicarsi a tale
prassi, il giovane Chopin. Saranno Mendelssohn, Schumann e infine Liszt ad avvertire la
necessità di un ritorno all’essenza del concerto classico, che è dire al ricupero, in forme e
contenuti profondamente mutati, della sua duplice anima solistica e sinfonica. La fronda viva
del concerto per pianoforte romantico continuerà così a germogliare e a produrre frutti,
ricevendo inesauribile linfa principalmente dal tronco del Concerto in sol maggiore: il vero
modello riconoscibile nel raccolto fervore cameristico delle composizioni schumanniane e più
che mai nell’intimità espressiva dai contorni sfumati, dissimulata gelosamente sotto le
ambiziose architetture e l’apparato virtuosistico, dei concerti brahmsiani. (Beethoven, Rusconi,
Milano, 1985, pp. 361-3)

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Fantasia corale “Schmeichelnd hold” (Lusinga amichevole) per pianoforte,


soli, coro ed orchestra in Do minore, op. 80
Testo: Christoph Kuffner

Adagio – Allegro
Meno Allegro
Allegretto ma non troppo

Organico: 2 soprani, 2 contralti, 2 tenori, basso, coro misto, pianoforte, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2
fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1808
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 22 Dicembre 1808
Edizione: 1811
Dedica: Re Massimiliano Giuseppe di Baviera

Giorgio Pestelli
Un’opera di Beethoven che non reca i segni di una imperiosa volontà ci sorprende e ci spiazza; è
un po’ il caso della Fantasia op. 80, la quale pur appartenendo all’età suprema del sinfonismo e
concertismo beethoveniano non presenta quello spiegamento di idee musicali scolpite e necessarie
che ne convalida la vicenda morale più tipica. Se non scava nel profondo dell’uomo, riflette
tuttavia il musicista nel suo tempo e nella sua società. Beethoven che con le sue opere stava
modificando le abitudini di ascolto e creando il moderno concerto pubblico, con la Fantasia op. 80
sembra ancora intrattenersi con l’Accademia musicale dell’epoca passata, fatta di composizioni
diverse per impegno e organico, solistiche, vocali e strumentali, tenendo d’occhio con la varietà
della rassegna anche la vivacità dell’intrattenimento. Curiosamente proprio questa disposizione
spirituale più rilassata diventa propizia al sondaggio di qualche esperimento, di qualche
accostamento inedito, e infatti quest’opera dal tono così conciliante e gradevole contiene pure un
nucleo formale che troverà impiego e sviluppo in un’opera immane e cioè, come la critica ha più
volte indicato, addirittura nella Nona Sinfonia “con Cori”.
La composizione è da collegare al concerto del 22 dicembre 1808 a Vienna, il cui programma tutto
beethoveniano doveva concludersi con la Quinta Sinfonia in prima esecuzione; secondo una
testimonianza di Carl Czerny, per non rischiare un boccone così grosso alla fine della lunga
serata, Beethoven decise di piazzare in quel punto un «brillante pezzo di chiusura»; pertanto,
sempre nel ricordo di Czerny, «scelse il motivo di un Lied composto molti anni prima, vi incluse le
variazioni e il coro, mentre il poeta Kuffner, con suggerimenti di Beethoven, dovette rapidamente
metterci su nuove parole; così è nata la Fantasia con coro op. 80, che fu allestita tanto in fretta che
quasi non si trovò il tempo di provarla». Il Lied composto in precedenza risale al 1795,
«Gegenliebe» («Amore reciproco») WoO 1184, e il tema riutilizzato appare nella seconda parte
della composizione; il nuovo testo approntato da Christoph Kuffner, una semplificazione delle
«poesie filosofiche» di Schiller o Goethe, tesa a magnificare la vita come cosa bella, unione
armoniosa di nobiltà e gioia sotto l’incanto dell’Arte, non appare nelle opere complete del poeta,
molto vicino a Beethoven nella seconda parte della sua vita; alcuni studiosi tendevano pertanto a
negargli la paternità del testo, ma, come ha suggerito Carli Ballola, la prova non è decisiva, sia

4
WoO: Werke ohne Opuszahl, Composizioni senza numero d’opus.
perché quei versi hanno un carattere di evidente improvvisazione, sia perché i concetti espressi
rispecchiano argomenti discussi dal poeta e dal musicista nei «Quaderni di conversazione»
utilizzati da Beethoven negli anni della sordità.
La composizione incomincia con un Adagio per pianoforte solo nel carattere libero e rapsodico
della Fantasia praticata da Carl Philipp Emanuel Bach; il brano fu scritto in occasione della stampa,
perché al suo posto, la sera del 22 dicembre 1808, l’autore improvvisò sul momento un’altra
pagina; lo stile e il procedimento dell’improvvisazione si sente in ogni caso anche nel testo
tramandato. Segue l’Allegro, aperto da un tema di marcia nei bassi, di dialogo ravvicinato fra il
pianoforte e l’orchestra e quindi l’esposizione (Allegretto) del tema in do maggiore di «Gegenliebe»
annunciato da un caratteristico richiamo di “quinte” dei fiati; le variazioni alternano una
concezione ornamentale e brillante a più decise trasformazioni: una in do minore, di impetuose
alternanze fra solo e orchestra, e un’altra lenta (Adagio ma non troppo) dove domina l’iniziativa
poetica del pianoforte: per un momento sembra di percepire l’ombra del genio che passa come
una nuvola a grande altezza. Un episodio «alla marcia» ci desta dal sogno e dopo alcune accorte
diversioni la Fantasia imbocca l’ultimo episodio con l’entrata del Coro: non c’è nuovo materiale
inventivo, ma ripresa dei temi precedenti, arricchiti di combinazioni timbriche per la casta sonorità
corale e gli spumeggianti trilli del pianoforte nel registro acuto. Quel contrasto di soli e orchestra
che nei grandi Concerti era fulcro di indomite passioni, qui è spettacolo, veicolo di socievolezza e
visione serena della vita.

Alessandro De Bei
La Fantasia corale op. 80 venne composta da Ludwig van Beethoven durante l’anno 1808 e vide la
sua prima esecuzione il 22 dicembre dello stesso anno, insieme alla Quinta e alla Sesta sinfonia, al
Theater an der Wien di Vienna: al pianoforte sedeva lo stesso Beethoven, mentre l’orchestra era
affidata alla direzione di Ignaz von Seyfried.
Sappiamo che Beethoven pensava di musicare l’ode An die Freude già nel corso degli anni giovanili
di Bonn; il progetto avrebbe trovato realizzazione solo molti anni più tardi, con il finale corale
della Nona Sinfonia. In questo senso la Fantasia corale op. 80 può essere letta come una sorta di
“prova generale” della Nona sinfonia, non solo perché il tema del coro finale ricorda la “melodia
della gioia”, ma anche perché il testo della Fantasia di Christoph Kuffner richiama
ideologicamente i temi della fratellanza universale di Schiller.
La composizione prende le mosse da un Adagio per pianoforte solo dal carattere rapsodico: la sera
del 22 dicembre Beethoven infatti improvvisò al pianoforte. Il brano, così come lo conosciamo oggi,
venne scritto in occasione della pubblicazione della Fantasia.
L’Allegro seguente viene introdotto da un saltellante tema annunciato da violoncelli e contrabbassi
che subito dialogano col pianoforte. Una specie di “richiamo” di oboi e corni in quinta annuncia il
tema principale in do maggiore (Meno allegro), tema che lo stesso Beethoven aveva utilizzato per
il suo Lied Gegenliebe (Amore reciproco) nel 1785. Il dialogo fra solista e orchestra prosegue con una
serie di brillanti e gradevolissime variazioni sul tema principale che coinvolgono ora il flauto solo,
ora i legni, ora gli archi, ora tutta l’orchestra in un moto di irrefrenabile gioia. La variazione in do
minore scatena nel pianoforte e nell’orchestra una sorta di eroismo che sarà del Beethoven maturo,
mentre la variazione lenta in la maggiore (Adagio ma non troppo) viene dominata dal pianoforte. La
Marcia assai vivace in do maggiore è l’ultima festosa variazione prima dell’ingresso del coro:
Beethoven riprende i temi uditi in precedenza, li elabora e li varia. Il tema dell’“amore reciproco”
viene esposto dal coro con spensierata gioia e arricchito coi trilli e con le volatine del pianoforte. Il
finale della Fantasia ci appare allora veramente come un preannuncio dell’Ode alla gioia della
Nona sinfonia.

Giovanni Carli Ballola


[Nei primi anni ’20] Beethoven, […] ancora confusamente, sente prossima l’attuazione di un
progetto che aveva messo radici nella sua coscienza fin dai tempi della prima giovinezza e il cui
fantasma aveva accompagnato tutta la sua esistenza. Il 26 gennaio 1793 Ludwig Bartholomaeus
Fischenich, docente di diritto all’Università di Bonn e intimo di Schiller, inviava questa lettera a
Charlotte, moglie del poeta:

Vi accludo una composizione sulla poesia Feuerfarb’, vorrei conoscere il vostro giudizio in merito ad essa. È
stata composta da un giovanotto della nostra città, il cui talento musicale è ovunque apprezzato e che è stato
mandato recentemente dal nostro Elettore a Vienna da Haydn. Egli comporrà anche An die Freude di Schiller,
ogni strofa separatamente. Io mi attendo da lui qualcosa di perfetto, giacché egli prova interesse soltanto per
gli argomenti grandiosi e sublimi.

Charlotte Schiller rispose lodando il Lied inviatole e dichiarandosi impaziente di conoscere la


musica sull’ode Alla gioia. Anche se il giovanotto di Bonn deluderà l’attesa di Schiller, l’ode Alla
gioia si era ormai impadronita del suo spirito e continuerà a penetrarvi nel profondo. L’“idea fissa”
riaffiora continuamente nel corso della parabola creativa del Maestro, sotto forma di progetti di
volta in volta accarezzati e accantonati. Beethoven si sente irresistibilmente attratto dal testo
schilleriano, esaltante quella fratellanza umana nell’abbraccio di un amore universale e quella
«meraviglia» kantiana di fronte alla maestà dell’Assoluto che avevano sempre fatto fremere il
suo petto e nutrito i suoi ideali; ma non è ancora riuscito a definire entro precise strutture
musicali l’urgere tumultuoso delle idee e degli affetti suscitati dalla lettura dell’ode. Di almeno una
cosa, tuttavia, egli sembra certo, in questa lunga fase di oscura gestazione: l’interpretazione
musicale di An die Freude non si dovrà concretare nei tradizionali generi della cantata o dell’inno,
ma nell’ambito di un piano formale più vasto e complesso e nel dispiegamento di tutte le
risorse del sinfonismo e della vocalità.
In un quaderno d’appunti databile dal 1809 al 1812, tra gli schizzi per le future Settima e Ottava
troviamo infatti il progetto per una Ouverture corale sull’ode di Schiller. Ma già nel dicembre 1808,
aggirando lo scoglio di An die Freude e delle sue grandiose implicazioni spirituali, Beethoven aveva
tentato di affrontare in termini sperimentalistici la soluzione del problema che lo angustiava
mediante quella che si deve annoverare tra le sue opere più strane, stimolanti e, insieme,
deludenti. Intendiamo parlare della Fantasia in do minore op. 80 per pianoforte, coro e orchestra,
che, sotto molti aspetti, si può considerare come una sorta di studio preliminare per il finale della
Nona Sinfonia, e, più in generale, un tentativo fatto da Beethoven al di fuori delle forme
consacrate dalla tradizione per saggiare l’innesto dell’elemento corale su quello sinfonico e
concertante. Il lavoro venne espressamente composto come brano conclusivo dello storico concerto
tenuto il 22 dicembre 1808 al teatro An der Wien e fu esattamente descritto dalla «Wiener Zeitung»
come «una fantasia per pianoforte che termina con il grande intervento di tutta l’orchestra e dei
cori come finale».
La Fantasia si apre con una tenebrosa introduzione in do minore, nella quale lo strumento solista si
drappeggia sontuosamente nei grevi velluti neri di un’eloquenza tra funebre e cavalleresca che fa
presagire Liszt. Alla fine, l’orchestra fa il suo ingresso a passi furtivi, su un motivo «alla marcia»
d’impronta berlioziana ante litteram e hanno quindi inizio le variazioni sul tema proposto dal
pianoforte: un motivo derivato da Gegenliebe [Amore corrisposto], la seconda parte di un Lied a
dittico composto nel 1797 su testi di G[ottfried] A[ugust] Bürger, e che gli spiritosi hanno voluto
paragonare (non del tutto a torto) all’aria di Berta «Il vecchiotto cerca moglie» del Barbiere
rossiniano. Il pianoforte dialoga con l’orchestra, dapprima con formule d’accompagnamento
piuttosto elementari, poi con soluzioni sempre più complesse. Lo scoperto sperimentalismo di
queste variazioni procede tra forti sbalzi di qualità inventiva: formule scontate di un mozartismo
di maniera si alternano così a momenti di alta poesia strumentale, come il passo quasi brahmsiano
che conduce al breve ritorno del movimento «alla marcia» iniziale, prima dell’entrata finale del
coro.
Per quest’ultimo Beethoven si servì delle tre strofe di una poesia attribuita da Czerny allo scrittore
e musicista viennese Christoph Kuffner (1780-1846), al quale Beethoven fu legato da lunga
amicizia, come attestano i quaderni di conversazione del 1826. Per la tragedia Tarpeia di Kuffner,
rappresentata a Vienna il 26 marzo 1813, Beethoven scriverà una magnifica Marcia trionfale in do
maggiore; al nome del drammaturgo sono legati inoltre i progetti degli oratori Saul e David e Gli
elementi, vagheggiati dal Maestro negli ultimi anni di vita. Il fatto che i versi utilizzati per la
Fantasia op. 80 non figurino in nessuno dei venti volumi delle opere edite di Kuffner non è una
ragione sufficiente per negarne l’attribuzione all’autore di Tarpeia, come ha fatto Nottebohm. La
conferma di tale paternità può essere ricavata, indirettamente, dall’importantissima conversazione
tra Kuffner e Beethoven avvenuta nell’aprile del 1826, nella quale, tra varie considerazioni attinenti
la letteratura, la filosofia e la politica, troviamo alcune riflessioni sulla potenza espressiva del
linguaggio dei suoni che non possono non rimandarci alla seconda strofa del testo della Fantasia
corale: «Quando domina la magia dei suoni e la sacra parola si esprime, allora il meraviglioso si
manifesta. Notte e tempesta diventano luce. Allora la pace all’intorno, e la letizia nel cuore regnano
per i felici. Il sole primaverile delle arti fa scaturire la luce della loro unione».
Con questa celebrazione dell’unione della musica con la parola si conclude la Fantasia corale.
Desinit in piscem [lett. «termina in pesce», ossia “è inferiore alle intenzioni”], avrebbe detto Orazio,
giacché il men che mediocre coretto che ripete meccanicamente il tema delle precedenti variazioni
è ben lungi dal realizzare l’ambizioso assunto implicito nella scelta del testo. Ma il significato e
l’importanza sperimentali, assai più che estetici, di questo lavoro singolare vanno visti col senno
di poi, alla luce, cioè, del finale della Nona col quale la Fantasia op. 80 presenta numerosi titoli di
affinità strutturale, tanto da poterne essere considerata, già lo si è detto, come una specie di
“cartone”. (Beethoven, Rusconi, Milano, 1985, pp. 334-337)
Testi

Gottfried August Bürger, Seufzer eines Ungeliebten – Gegenliebe

Christoph Kuffner (?), Schmeichelnd hold


Beethoven, Fantasia corale op. 80

Schmeichelnd hold und lieblich klingen Con lusingante dolcezza


Unsers Lebens Harmonien, risuonano le armonie della nostra vita
Und dem Schönheitssinn entschwingen e dalla poesia sbocciano fiori sempre verdi.
Blumen sich, die ewig blühn. Pace e letizia scorrono
Fried und Freude gleiten freundlich, come il fluire delle onde;
Wie der Wellen Wechselspiel. il rancore e l’amarezza
Was sich drängte rauh und feindlich, che premevano dentro di noi
ordnet sich zu Hochgefühl. lasciano il passo a più nobili sentimenti.
Wenn der Töne Zauber walten Quando domina la magia dei suoni
Und des Wortes Weihe spricht, e la sacra parola si esprime,
Muß sich Herrliches gestalten, allora il meraviglioso si manifesta,
Nacht und Stürme werden Licht. notte e tempesta diventano luce;
Äuß’re Ruhe, inn’re Wonne la pace all’intorno e la letizia interiore
Herrschen für den Glücklichen, regnano per i felici.
Doch der Künste Frühlingssonne Il sole primaverile delle arti
Läßt aus Leiden Licht entstehn. fa scaturire la luce dalla loro unione.
Großes, das ins Herz gedrungen, Quanto di grande c’è nei nostri cuori
Blüht dann neu und schön empor, torna a fiorire più bello,
Hat ein Geist sich aufgeschwungen, non appena lo spirito si eleva
Hallt ihm stets ein Geisterchor. un coro celestiale risuona tutt’intorno.
Nehmt denn hin, ihr schönen Seelen, accogliete, anime belle,
Froh die Gaben schöner Kunst! lietamente i doni dell’arte.
Wenn sich Lieb’ und Kraft vermählen, Quando l’amore si unisce alla forza
Lohnt dem Menschen Götter Gunst. l’uomo è ricompensato dal favore degli dei.

Friedrich Schiller, An die Freude


Beethoven, Sinfonia n. 9 op. 125

Freude, schöner Götterfunken, Gioia, bella scintilla degli dèi,


Tochter aus Elysium, figlia dell’Elisio,
wir betreten feuertrunken, ebbri e ardenti noi entriamo,
himmlische, dein Heiligtum! creatura celeste, nel tuo santuario!
Deine Zauber binden wieder I tuoi incantesimi tornano a legare
was die Mode streng geteilt, ciò che la moda ha severamente diviso;
alle Menschen werden Brüder tutti gli uomini divengono fratelli
wo dein sanfter Flügel weilt. dove la tua dolce ala si posa.

Wem der grosse Wurf gelungen, Chi ha sortito la gran ventura


eines Freundes Freund zu sein, d’esser amico di un amico,
Wer ein holdes Weib errungen, chi s’è conquistata una dolce compagna,
mische seinen Jubel ein! mescoli nella folla il suo giubilo!
Ja, wer auch nur eine Seele Sì, chi anche un’anima sola
sein nennt auf dem Erdenrund! possa dir sua sul globo terrestre!
Und wer’s nie gekonnt, der stehle E chi non l’ha mai potuto s’allontani
weinend sich aus diesem Bund. in lacrime da questo sodalizio.

Freude trinken alle Wesen Gioia bevono tutti gli esseri


an den Brüsten der Natur; dal seno della natura,
alle Guten, alle Bösen tutti i buoni, tutti i malvagi
Folgen ihrer Rosenspur. seguono la sua traccia fiorita di rose.
Küsse gab sie uns und Reben, Baci ci ha offerto la natura, e viti,
einen Freund, geprüft im Tod; e un amico a tutta prova;
Wollust ward dem Wurm gegeben, voluttà fu concessa al verme,
und der Cherub steht vor Gott. e il cherubino è al cospetto di Dio!

Froh, wie seine Sonnen fliegen Lieti, come i suoi soli trascorrenti
durch des Himmels prächt’gen Plan, per la splendida pianura del cielo,
wandelt, Brüder, eure Bahn, seguite, fratelli, il vostro cammino,
freudig, wie ein Held zum Siegen. gioiosi come l’eroe della vittoria.
Deine Zauber binden wieder I tuoi incantesimi tornano a legare
was die Mode streng geteilt, ciò che la moda ha severamente diviso;
alle Menschen werden Brüder tutti gli uomini divengono fratelli
wo dein sanfter Flügel weilt. dove la tua dolce ala si posa.

Seid umschlungen, Millionen! Abbracciatevi, moltitudini!


Diesen Kuss der ganzen Welt! Un bacio al mondo intero!
Brüder, über’m Sternenzelt Fratelli! Oltre il firmamento
muss ein lieber Vater wohnen. deve abitare un padre amato.
Ihr stürzt nieder, Millionen? Non vi prostrate, moltitudini?
ahnest du den Schöpfer, Welt? Non senti la presenza del creatore, mondo?
Such ihn über’m Sternenzelt! Cercalo oltre il firmamento!
Über Sternen muss er wohnen. Oltre il firmamento deve abitare.

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