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Beethoven: sonate per violino e pianoforte

Letteratura cameristica per due strumenti verso la fine del XVIII sec.
Durante gli anni Settanta del 1700 la letteratura cameristica per uno strumento ad arco o a fiato (violino e
violoncello, flauto e oboe), combinato con uno strumento a tastiera si articolava in due branche
nettamente distinte. Da una parte, proseguiva la matrice barocca della vecchia sonata per “solo” con basso
continuo: autori come Boccherini, Viotti, Rolla, Campagnoli compongono sonate per violino, viola,
violoncello con basso cifrato (da realizzarsi su fortepiano). Dall’altro lato, si stava diffondendo in ambito
dell’editoria francese e inglese la letteratura clavicembalistica galante strutturata secondo il genere di
sonata per cembalo o fortepiano accompagnato da violino o flauto ad libitum. I due strumenti
“accompagnanti” si limitavano ad eseguire note intermittenti per sostenere le armonie al basso, o
mediante melodie che procedevano per terze o seste rispetto alla melodia intonata dal pianoforte.
Novità mozartiana
In questo contesto si innesta la novità portata da Mozart: quella appunto della moderna sonata per
pianoforte e strumento non più ad libitum, ma “obbligato” (dicitura che verrà utilizzata fino alla metà
dell’Ottocento). Mozart creò quindi, soprattutto con i tre capolavori K 454, 481 e 526, il primo modello di
sonata moderna concertante. Nelle tre sonate dell’op. 12 Beethoven non fa altro che portare al massimo
sviluppo, ingigantendone e irrobustendone la struttura formale: eccetto la Sonata a Kreutzer tutte le sonate
beethoveniane per violino e pianoforte si accostano alla linea mozartiana, cosa che non fa per le sonate per
pianoforte e violoncello e naturalmente per le sonate per pianoforte solo che rappresentano l’elaborazione
più articolata del linguaggio beethoveniano. Di “stile” mozartiano sono la caratteristica di iniziare l’ultimo
tempo a mo’ di finale di concerto con il pianoforte solo che enuncia il tema principale.

Le sonate per violino e pianoforte testimoniano la perfetta padronanza che aveva Beethoven per scrittura
squisitamente violinistica. Al violino sono affidati passaggi brillanti, talvolta a doppie triple corde, bruschi
cambiamenti di dinamica e di registro, ampie curve melodiche spesso aggraziate o enfatizzate da
appoggiature semplici o doppie. I due strumenti sono in generale trattati su un piano di parità: i materiali
tematici sono equamente distribuiti , con frequenti dialoghi serrati fra l’uno e l’altro strumento. Beethoven
mantenne una speciale predilezione per questo strumento: iniziò a studiarlo a Bonn e si perfezionò a
Vienna.
Sonate op. 12 n. 1 - 2 - 3 (1797 – 98)
Scritte prima del 1799, anno della loro pubblicazione, sono dedicate ad Antonio Salieri verso il quale
Beethoven si sentiva debitore in materia dello “stile vocale” e “teatrale” (almeno durante il primo periodo
di produzione). B. utilizza come modello ovviamente quello mozartiano: Mozart aveva definitivamente
affermato il duetto violino e pianoforte nel quale i due strumenti dialogano con pari dignità nell’ ambito di
una concezione tipicamente concertante.
Le tre sonate mostrano una ricchezza inventiva e uno stile personale: la prima in re maggiore è
caratterizzata da varietà ritmica e tematica; la seconda in la maggiore nell’Allegro vivace mostra il dialogo
tra i due strumenti che cercano di imitare ognuno gli espedienti tecnici e timbrici dell’altro, trovate che non
piacquero ai critici che accusarono Beethoven di non sapere usare con criterio gli strumenti; la terza sonata
in mi bemolle maggiore è tipica dello stile brillante.
Sonate op. 23 (1800) e op. 24 (1801)
Sonate dedicate entrambe al conte Motitz von Fries, aristocratico banchiere svizzero e uomo di mondo che
intorno al 1810 andò verso il fallimento, uno dei più colti e attivi mecenati del maestro. Inizialmente
vennero stampate sotto l’unico numero d’opera 23 a cura dell'editore Mollo di Vienna, nell'ottobre del
1801; in seguito, nel 1802, per rimediare a un disguido editoriale, la seconda fu ristampata separata con il
nuovo numero d'opera.
Beethoven scrisse ancora sulla scia mozartiana due opere contrastanti tra loro e con un’impronta più
decisiva rispetto alle sonate precedenti.

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La sonata in la minore inizia con un presto dai toni scuri e concitati; segue con un secondo tempo che
ricorda le Kinderszenen di Schumann e termina con un finale che ricorda invece il carattere patetico e
concitato del motivo principale, abbracciato da un episodio centrale in stile corale, elementi tipici della
scrittura mendelssohniana.
La sonata in fa maggiore (la cosiddetta “Primavera”) ha carattere più familiare e consueto rispetto alla
sonata precedente. Sebbene l'indicazione originale fosse quella di "Sonate pour le PianoForte avec un
Violon", in questo quinto lavoro beethoveniano il violino ha un ruolo per nulla subordinato nei confronti
della tastiera. La scrittura ne evidenzia le caratteristiche peculiari legando indissolubilmente il particolare
timbro dello strumento alle idee musicali.
Nel primo tempo è evidente l’intento di Beethoven di emulare l’amabilità di certe sonate mozartiane come
la K378. Ma Beethoven riesce comunque a non farsi influenzare eccessivamente dallo stile neoclassico:
anche quando nell’”Adagio molto espressivo” sembri ispirarsi all’eloquenza tipica dello stile di Viotti o
Clementi, lo stile centrale con il suo concatenarsi di “oscure” modulazioni porta il discorso verso atmosfere
più espressive. Questa sonata è la prima di Beethoven che contiene lo “Scherzo”: breve e leggiadro che si
collega efficacemente al “Rondò”, basato su un tema “ingenuo” di canzone ripreso forte dall’ultimo tempo
del Trio mozartiano K498 per pianoforte, clarinetto e viola.
Sonate op. 30 (1803)
Il gruppo di Sonate dell’op. 30 appare nel 1803 riunendo tre creazioni molto differenti tra loro: si compie un
altro passo nella scoperta di forma e dello stile musicale personali, scoperta legata all'impulso dell'idea
quanto al continuo perfezionamento tecnico degli strumenti, in questo caso del pianoforte, nonché della
tecnica violinistica, padroneggiata da virtuosi come Rode o Kreutzer, che il maestro di Bonn conobbe.
Si tratta di lavori, diversi nei contenuti, che caratterizzano l'orizzonte espressivo beethoveniano dei primi
mesi del 1802, mesi cruciali di grave crisi interiore che di lì a poco produrranno il celebre documento noto
come il "Testamento di Heiligenstadt". Il gruppo di sonate è dedicato ad Alessandro I di Russia, e pubblicato
dal "Bureau d'Arts et d'industrie" di Vienna nel corso del 1803.
La prima in la maggiore è forse la meno importante delle sonate per violino e pianoforte: oscilla tra lo stile
mozartiano del primo tempo e quello haydniano del secondo; il terzo tempo sproporzionato per stile ed
inventiva rispetto agli altri due andrà poi a confluire nella Sonata a Kreutzer e in questa sonata verrà
sostituito da un tema su variazioni.
La seconda sonata in do minore segna la grande affermazione dello stile del maestro in questo genere e
l’emancipazione dal modello classico: disattendendo completamente la formula della presentazione, che
indica ancora una volta il pianoforte con accompagnamento di violino, appare come la più avanzata del
gruppo in quanto a solidità, virtuosismo e portata intellettuale della scrittura.
Essa anticipa, in qualche modo, la Sonata "a Kreutzer", composta circa un anno più tardi (1803). Qui la
tonalità di do minore, nella quale Beethoven espresse sempre accenti intensi, eroici o patetici - dal
Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra, alla Sonata op. 13, dal Quarto Quartetto op. 18 alla Quinta
Sinfonia - sottolinea efficacemente l'indirizzo espressivo, che appare particolarmente deciso, senza alcuna
concessione al convenzionale.
Le idee sono meticolosamente selezionate e l'elaborazione è esemplare. Non certo può mettersi al pari
delle sonate per pianoforte op. 26 e 27 ma nei primi due tempi si accosta per carattere alla “Patetica”:
l’“Allegro con brio", che non porta il tradizionale segno di ritornello al termine dell'esposizione, ha un tono
perentorio, mentre il seguente "Adagio cantabile", in la bemolle maggiore, ne appare come il
prolungamento pensoso, teso in un misterioso raccoglimento. Dopo lo “scherzo” conciso ed energico,
l”Allegro” conclusivo “con il suo tema struggente preparato da una oscura introduzione piena di contrasti
dinamici e con la sua coda affannosa e violenta, è il secondo “Finale” beethoveniano dopo quello del
“Chiaro di Luna”, ma, se possibile, di una tensione e di una ricchezza e complessità ancora maggiori”.
Nella terza sonata in sol maggiore, la climax drammatica della precedente viene smorzata attraverso una
scrittura semplice ed essenziale, evitando, una volta tanto, la ricerca e la sperimentazione, per riscoprire
invece spiritose agilità, amabilità e serenità. Ma nonostante questo non perde i caratteri personali
beethoveniani: a differenza della Primavera, qui ogni traccia mozartiana è scomparsa e si riscontrano tratti

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strumentali personali. Il primo tempo un "Allegro assai", è caratterizzato da una irruenza appena trattenuta
da episodi contrappuntistici brevi e lirici: caratteristici sono i passaggi veloci all’unisono dei due strumenti. Il
"Tempo di Minuetto, ma molto moderato e grazioso", in mi bemolle maggiore, malinconicamente effusivo,
non ha più nulla di Settecentesco; infine un "Allegro vivace" è arioso e dal ritmo ininterrotto, vicino alla
circolarità del moto perpetuo.
Sonata op. 47 “Kreutzer” (1805)
Le ultime due sonate videro la luce a dieci anni prima di distanza l’una dall’altra e sono da considerarsi il
massimo livello raggiunto da Beethoven per quanto riguarda la sonata per violino e pianoforte.
La sonata in la maggiore op. 47 fu composta originariamente per il violinista George Polgreen Bridgetower
che la eseguì insieme con l’autore all’Augarten il 24 maggio 1803. Forse per questioni sentimentali seguì
una rottura tra Beethoven e il violinista, che portò il maestro a cambiare la dedica alla sonata: venne
destinata e Rodolphe Kreutzer, celebre virtuoso didatta e compositore francese giunto a Vienna in quegli
anni. Dell’incontro tra Beethoven e il violinista si ha una testimonianza in una lettera scritta il 4 ottobre
1804 da Beethoven all’editore Simrock: “questo Kreutzer è una caro e buon amico che quando è stato a
Vienna mi ha fatto molto piacere: la sua modestia, la sua naturalezza mi sono più care di ogni extérieur e
intérieur di quasi tutti i virtuosi: Siccome la sonata è scritta per un violinista valente, così al dedica è tanto
più adatta a lui”. Il titolo della composizione riporta tale dicitura Sonata per pianoforte e un violino
obbligato, scritta in uno stile molto concertante, quasi come un concerto … : la lettura del frontespizio
chiarisce quali fossero i caratteri della sonata per pianoforte e violino nell’anno in cui apparve la sonata op.
47 e in che cosa consistesse la portata rivoluzionaria del lavoro beethoveniano. Ancora nel 1805 si riteneva
ancora indispensabile precisare sul frontespizio che la parte del violino era da considerarsi “obbligata”: ciò
significa che l’ipotesi di una sonata per pianoforte con “accompagnamento ad libitum” del violino,
nonostante la produzione mozartiana e le precedenti otto sonate dello stesso Beethoven, veniva ancora
ritenuta plausibile dall’editoria europea. Inoltre, la specificazione dell’autore sul carattere “molto
concertate” del lavoro indica chiaramente che in tale opera Beethoven forzò i limiti dell’equilibrio raggiunto
da Mozart tra carattere concertante e carattere cameristico: il logo deputato per la sua esecuzione non è la
camera, ma la sala da concerto, il nuovo tempio per i nuovi riti musicali della nuova società.
Il carattere concertistico della sonata op. 47 è ravvisabile sin dalle prime quattro battute dell’introduzione
lenta, affidate ad eloquenti accordi del violino cui fa eco il pianoforte. Il Presto iniziale in la minore è il
movimento più importate, ricco e complesso: su di esso si concentra la maggior parte della carica inventiva
ed emozionale. “Vi domina la travolgente e impetuosa ispirazione degli anni del volontarismo eroico
beethoveniano, con in più un brivido di inquietante demonismo e di oscura passione, dati dall’onnipresente
voce del violino...”. Mai prima d’ora la dialettica concertante tra pianoforte e violino era stata così fitta ed
elaborata, né la scrittura dei due strumenti aveva raggiunto un tale grado di splendore virtuosistico e
pregnanza espressiva. L’”Andante con variazioni”, il cui tema teneramente affettuoso va incontro ad una
progressiva dissoluzione di squisita valenza timbrica, ci riporta, dalla pensosa e concentrata interiorità dei
secondi tempi dell’Appassionata o della Terza Sinfonia, al clima di evasione lirica della Patetica.. il “Finale”
che come si è detto apparteneva in origine alla sonata op. 30 n.1 è la liberazione di tutte le energie del
primo tempo, in un incalzante ritmo di tarantella.
Sonata op. 96 (1816)
A 42 anni Beethoven pose termine al ciclo delle Sonate per violino e pianoforte con questo decimo lavoro,
quasi 10 anni dopo l'op. 47. Con la sua ultima sonata Beethoven cerca di rientrare nei ranghi della
tradizione. Pubblicata nel 1816 fu destinata in origine ad un grande virtuoso, il violinista francese Pierre
Rode che la eseguì nel 1813. A differenza della sonata a Kreutzer non è una Konzertsonate, né aspira al
rango di lavori importanti: il suo posto ideale, oltre che cronologico, è accanto ad opere come la Sonata in
mi minore op. 90 per pianoforte o il Quartetto in fa minore op. 95, vibranti di intima e intensa poesia sotto
le spoglie dimesse di una “seconda semplicità” e di un apparente disimpegno espressivo: quest'ultima
esperienza sonatistica si fa portatrice di un messaggio riassuntivo e in qualche modo definitivo, che si
traduce in una scrittura sapiente, in una maturità pacata e profonda che nobilita armoniosamente tutti e 4 i
movimenti della partitura. Se l’op. 47 è grandiosa e ambiziosa, la sorella in sol maggiore la supera in pura

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bellezza e nella sua purezza dell’equilibrio strutturale. L’assenza di qualsiasi influsso troppo soggettivo, la
rinata fiducia mozartiana sono evidenti nel primo tempo fin dalla enunciazione del nucleo tematico
fondamentale: una minima cellula melodica – ritmica all’inizio del pentagramma per dare inizio alla sonata.
Un tale incipit così poco affermativo, così vago ed indefinito non è che il più prezioso frutto della tardiva
comprensione e ammirazione di Beethoven per Mozart. E tale ritorno affettuoso e consapevole a Mozart è
evidente un po’ ovunque: in quel “solo” di pianoforte che apre il breve e intensissimo “Adagio” con una
delle più dolci idee melodiche ideate da Beethoven; nel Trio dello “Scherzo” come nel tema “innocente”
delle variazioni conclusive: uno dei più avanzati e maturi modelli di variazione beethoveniana di questi anni,
in cui ogni vecchio procedimento figurativo (per es. L’Andate della sonata a Kreutzer) ha ceduto il posto a
una metamorfosi più profonda ed integrale, che investe il tema in ogni sua struttura, rigenerandolo
attraverso una serie di nuove “interpretazioni”.

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