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Istituto Superiore di Studi Musicali "Franco Vittadini", Pavia

Corso di Diploma Accademico di I livello

Boncompagni Eleonora - Matricola: T0137


Esame: ”Letteratura dello strumento”
Ludwig van Beethoven
Concerto per pianoforte e orchestra
n° 3, op. 37

Il piano Broadwood usato da L. van Beethoven

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Indice

1- Cenni storici sull’origine e l’evoluzione del “concerto per Pianoforte e


orchestra” tra il 1700 e il 1800. 2

2- I Concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven. 5


2. 1. Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra in do maggiore, op. 15. 5
2. 2. Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in si bemolle maggiore, op. 19. 6
2. 3. Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in do minore, op. 37. 6
2. 4. Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra in sol maggiore, op. 58. 6
2. 5. Concerto n. 5 per pianoforte e orchestra in mi bemolle maggiore, op. 73. 7

3- Approfondimento sul concerto n. 3, op 37. 8


3.1. Contesto storico e musicale. 8
3.2. Gestazione e prima esecuzione. 9
3.3. I tempo: Allegro con brio. 10
3.4. Largo. 12
3.5. Rondò - Allegro – Presto. 13

4- Fonti. 14

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1- Cenni storici sull’origine e l’evoluzione del “concerto per Pianoforte e
orchestra” tra il 1700 e il 1800.
L’etimologia del termine “Concerto” è incerta. Rimanda, infatti, a due diverse parole latine:
concertatum (dal verbo concertare, ‘combattere’, ‘gareggiare’) e consertum (dal verbo conserere,
‘intrecciare’, ‘annodare’). Entrambi i significati implicano un confronto, e perché vi sia un confronto
deve sussistere, come dice Lorenzo Bianconi, una molteplicità di elementi: “Il concetto di
‘concerto’ presuppone la pluralità, la molteplicità, la diversità delle componenti d’un esecuzione,
o d’una composizione musicale”.
L’origine del concerto per strumento solista e orchestra viene tradizionalmente individuata nei
“Concerti musicali a quattro” op. 6 di Giuseppe Torelli (1698), violinista e compositore nella
cappella di San Petronio a Bologna. In quest’opera, per la prima volta, compaiono i due termini
‘Solo’ e ‘Tutti’, che in partitura indicavano sezioni di musica in cui spiccava lo strumento solista
(‘Solo’), e sezioni riservate all’orchestra (‘Tutti’). Heinrich Christoph Koch (1749-1816), fra i più
importanti teorici musicali del Settecento, ravvisa nel concerto e nel rapporto tra Solo e Tutti, una
somiglianza con ciò che accade nell’antica tragedia greca: “Immagino il concerto come qualcosa di
simile all’antica tragedia, dove l’attore esprimeva i suoi sentimenti non alla platea ma al coro, il quale dal
canto suo era profondamente coinvolto nell’azione, e allo stesso tempo era autorizzato a partecipare
all’espressione dei sentimenti. … C’è invero una conversazione appassionata tra il solista del concerto e
l’orchestra che lo affianca. A questa egli esprime i suoi sentimenti; a sua volta, mediante brevi frasi
interpolate, essa gli segnala il suo consenso o ne assevera l’espressione”.
Questo tipo di composizione musicale, denominata ‘Concerto solistico’, si diffuse ampiamente in
Italia con Antonio Vivaldi, e in Germania e in Inghilterra con Johann Sebastian Bach e i suoi due
figli Carl Philipp Emanuel e Johann Christian. Inizialmente, lo strumento solista principale è il
violino, la cui supremazia alla fine del 1700 è sostituita dal pianoforte grazie a W.A. Mozart. Ma già
durante questo secolo vengono composti importanti concerti per tastiera: Bach padre scrive 7
concerti per cembalo ed archi (dei quali è particolarmente celebre quello in re minore) in cui il
clavicembalo ha funzione prevalentemente solistica, e dove “l'orchestra non si limita ad
accompagnare, ma assume una vera pienezza sinfonica”.
I due figli scrivono concerti per tastiera e orchestra con ridotto accompagnamento orchestrale,
formalmente vicini alla struttura del concerto barocco, ma già orientati verso uno stile dialogico.
Quindi la contrapposizione netta tra le sezioni solistiche e quelle orchestrali (che caratterizzava le
composizioni ad esempio di Vivaldi), si attenua per dare spazio ad una maggiore interazione
dialogica tra i due “attori”, Solo e Tutti. J.C Bach fu il primo esecutore che nel 1768 adottò il
pianoforte in un’esecuzione pubblica di un pezzo per strumento a tastiera.
Il concerto del periodo classico è tipicamente articolato in 3 movimenti secondo lo schema veloce-
lento-veloce. Il primo, come nella sonata e nella sinfonia classica è in forma “Allegro di sonata”,
ma ha delle caratteristiche specifiche: a) due esposizioni separate, una dell’orchestra e una del
solista accompagnato dall’orchestra; b) una cadenza verso la fine della ri-esposizione durante la
quale è concesso al solista di eseguire, o di improvvisare, una fantasia sui temi del primo tempo.
Nel secondo tempo viene di preferenza adottata la forma tripartita di canzone, e nel terzo la forma
di Rondò. Mozart usa talvolta sia nel secondo che nel terzo tempo la forma di tema con variazioni.
Nell'ambiente musicale viennese, il concerto per pianoforte trovò un terreno fertile. A Vienna
dominava la figura di F. J. Haydn, in realtà più interessato agli sviluppi strutturali della sinfonia e
del quartetto che non al concerto. I concerti di Haydn sono più semplici sia strutturalmente che

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strumentalmente dei coevi concerti di Mozart, anche perchè erano pensati per dilettanti e non per
professionisti.
Il compositore che più concorse allo sviluppo di della forma musicale del concerto, come
accennato, è W.A. Mozart. Scrisse 27 concerti per pianoforte e orchestra (5 dei quali sono
trascrizioni su materiali per cembalo di altri compositori), compresi concerti per 2 e 3 pianoforti. A
causa della debole sonorità dei primi pianoforti, lo strumento domina le sezioni solistiche: il ruolo
dell’orchestra doveva essere marginale così da consentire l’udirsi del pianoforte. Il carattere della
parte pianistica era ancora alquanto clavicembalista, ma Mozart non solo conobbe il pianoforte e
lo usò nei concerti, ma intuì anche molte delle sue risorse e possibilità. La forma di tutti i suoi
concerti non presenta particolari innovazioni strutturali, avendo come riferimento i modelli
tradizionali della scuola Viennese. Troviamo una maggiore libertà solo negli ultimi concerti. Ciò che
è importante nelle sue composizioni, come sottolinea il compositore ed editore Hans Georg Nägeli
(1773-1836), è come nei concerti di Mozart il dialogo non si riduca ad un mero contrasto tra’ Solo’
e ‘Tutti’, ma si arricchisca del contributo di “solisti intermedi” (rappresentati da diversi strumenti,
ma in particolare quelli a fiato). Nägeli scrive: “ … Mozart fra lo strumento solista principale e il Tutti fa
spiccare anche i solisti intermedi, rappresentati dai diversi strumenti, ciascuno con lo splendore che gli sono
propri; talché questi strumenti, collocati come intermediari, con i loro offici ed alte cariche, tra il principe e
il popolo in qualità di ministri, nobili e deputati dello Stato dell’Arte, completano il superiore organismo
dell’universo artistico”.
Oltre a questi autori, si può ricordare la produzione di Georg Christoph Wagenseil, che scrisse
cento concerti per cembalo e orchestra, di Jan Ladislav Dussek e dell’italiano Giuseppe Cambini .
Tra i musicisti della generazione successiva solo Ludwig van Beethoven proseguì sulla scia di
Mozart: tra i suoi cinque concerti per pianoforte e orchestra, gli ultimi tre (quelli in do minore, sol
maggiore e mi bemolle maggiore) saranno pietre miliari nella storia del genere concertistico per
tutti i compositori dell'epoca romantica. Un’analisi più approfondita sulla produzione concertistica
di Beethoven verrà effettuata nella seconda parte della tesina.
Dopo Beethoven, il Romanticismo incalza, e i compositori sono tormentati da nuovi ideali e nuove
aspirazioni. I profondi stravolgimenti politici, sociali, artistici e culturali dell'Ottocento si
ripercuotono in ambito musicale. È un periodo in cui i compositori, spinti dallo spirito innovatore
dello “Sturm und Drang”, rifiutano le regole imposte dalla tradizione, in favore di forme musicali
più libere e di ridotte dimensioni (per es.: improvvisi, notturni, ballate). Il concerto, in particolare,
comincia a perdere quel senso di unità, tipico del periodo classico, assumendo un carattere più
libero. Quello per pianoforte e orchestra è stato uno dei concerti solistici più praticati dai grandi
compositori romantici. Le ragioni sono molteplici: la maggior parte dei compositori erano pianisti
e conoscevano bene lo strumento, per cui potevano eseguire loro stessi le proprie composizioni.
Ma soprattutto, il concerto per pianoforte metteva a confronto due organismi polifonici complessi
e autonomi ed era perciò uno dei generi musicali più stimolanti per la creatività dell'artista. Le
risorse dei due ambiti aprivano ampie possibilità di manipolazione del materiale e offrivano nuovi
stimoli, soprattutto in campo timbrico.
Alcuni autori romantici non scrissero nulla per pianoforte ed orchestra (per es. Schubert) e anche
altri grandi compositori dell'epoca come F. Mendelssohn, F. Chopin, R. Schumann e F. Liszt, che in
campo pianistico hanno lasciato una vasta produzione, hanno composto solo pochi concerti per
pianoforte e orchestra, apportando però significative modifiche al genere. In queste nuove
composizioni, infatti, viene privilegiato lo strumento solista rispetto all'orchestra, che si
sottomette, dunque, alla sonorità del pianoforte. Inoltre, prende piede l'uso della concatenazione
dei movimenti, avvicinandosi al tipo del concerto in unico movimento (senza la canonica
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suddivisione in 3 tempi, nonché del succedersi rigoroso di temi, esposizione, ri-esposizione, ecc).
In Chopin l'esaltazione del solista è notevole, infatti egli fa un minore uso delle sonorità orchestrali,
che predominavano in Beethoven.
Una delle più importanti opere della letteratura concertistica Romantica è il concerto in la minore
di R. Schumann. Il pianoforte assume qui un carattere totalmente diverso da quello del concerto
beethoveniano. Lontano dalla drammaticità di Beethoven e dal virtuosismo in voga in quel
periodo, possiamo leggere le intenzioni dell’autore in una lettera scritta a Clara Wieck, destinata a
diventare sua moglie: “Quanto al concerto ti ho già detto che si tratta di una via di mezzo fra la
sinfonia, il concerto e la sonata grande. Mi rendo conto che non posso scrivere un concerto da
'virtuoso' e che devo mirare a qualcos'altro."
Con Liszt la rottura con gli schemi del passato è più netta: nei suoi due concerti abbraccia nuovi
ideali, attraverso una maggiore libertà nella forma, l'abbandono dello schema del concerto in tre
tempi, il frequente ricorso a ritorni tematici e i collegamenti tra un movimento e l’altro.
L'Ottocento è anche, come accennavo prima, il secolo del “virtuosismo”. Lo spunto allo sviluppo
del grande virtuosismo proveniva da Paganini, la cui sperimentazione tecnica appariva, agli occhi
dei romantici, come uno “slancio prometeico”, teso al superamento dei limiti fisici del violino.
Ispirati dal modello violinistico di Paganini, i compositori romantici fanno del pianoforte lo
strumento virtuosistico per antonomasia. Questo atteggiamento culturale dell'epoca si ripercuote
anche sul concerto, favorendo l’elemento esibizionistico, che cominciò ad avere una priorità sugli
aspetti puramente musicali. Lo stile dei compositori “virtuosi” era sofisticato. Da una parte
tentavano di rendere “cantabile” la partitura del piano, dall’altra si sforzavano di divertire e stupire
il loro pubblico con esecuzioni che richiedevano grandi doti tecniche.
Il concerto virtuosistico entra in crisi verso gli anni 30 dell’800. Dopo Listz il concerto pianistico
entra in una nuova fase: gli ardori rivoluzionari del primo romanticismo si placano e maturano
tempi più propensi alla meditazione e alla riflessione. Si comincia a pensare seriamente di
riprendere quelle forme di musica “pura” che il Romanticismo aveva disdegnato e ritornano in
voga i principi della grande arte classica. Il concerto solistico verso la metà dell'Ottocento, viene a
poco a poco chiamato ad assolvere una funzione alquanto diversa da quella della grande epoca
romantica. Perde, cioè, il suo carattere prevalentemente virtuosistico, verso una maggiore,
sempre più intima, collaborazione sinfonica con l’orchestra e il primo Concerto in re minore di
Bhrams (1858) ne è un esempio. Vent’anni dopo Bhrams scrisse un secondo concerto (in si bemolle
maggiore), che non segna un progresso sul primo in termini di forma e significato, ma per bellezza
non è certo inferiore all’altro. Ha un carattere assai più sereno, però ritroviamo la medesima
concezione sinfonia dei rapporti tra pianoforte e orchestra.
Sotto la diretta influenza di Brahms, Giovanni Sgambati e Giuseppe Martucci sono i due pionieri
a cui dobbiamo i primi concerti pianistici italiani dell’Ottocento. Entrambi scrivono un solo
concerto per pianoforte e orchestra, sviluppando le loro opere secondo i dettami tradizionali, ma
con maggiore libertà rispetto ai loro contemporanei. I concerti si articolano secondo i classici tre
tempi, e, come in Brahms, l'intreccio tra il solista e l'orchestra è tale da raggiungere in alcuni punti
una forte omogeneità.
Sono anche da ricordare: C. Saint-Saëns, P. Čajkovskij ed E. Grieg, nei lavori dei quali si possono
notare tendenze diverse, frutto di una continua ricerca di nuovi mezzi di espressione.
Nell’ambito di questo panorama, ho voluto approfondire il Concerto per Pianoforte e Ochestra op.
37 in do minore di L. Van Beethoven. Ho scelto Beethoven in quanto, grazie a lui, la musica
conquistò nell'estetica romantica un posto di rilievo tra le arti, e diventò oggetto di numerose
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riflessioni. Beethoven divenne un modello a cui ispirarsi per i compositori dell’epoca, i quali, oltre
alle conquiste estetiche, poterono servirsi delle conquiste tecniche che nel frattempo stavano
continuando a modificare la meccanica pianoforte, e a cui Beethoven contribuì notevolmente. Il
compositore, infatti, richiese espressamente ad alcuni tra i più rinomati costruttori attivi a Vienna,
come A. Stein e J. A. Streicher, tastiere più estese, una meccanica più pesante ed una maggiore
potenza sonora.
In particolare ho scelto il concerto num. 3 perché è considerato il primo pezzo per strumento
solista e orchestra che reca inconfondibili tracce del genio Beethoveniano. Inoltre, può essere visto
in duplice modo: come conclusione del concerto classico, e come inizio di un nuovo percorso
dell’autore. Fu anche uno tra i suoi concerti più eseguiti del periodo, come testimoniano non solo
una trascrizione di Quintetto d’archi e pianoforte ad opera di Vinzenz Lachner, ma anche le
numerose cadenze scritte per il primo tempo, tra cui spiccano quelle di Bhrams, Liszt e Clara
Schumann. Infine, in questo concerto troviamo esempi di alcune delle innovazioni e delle nuove
possibilità espressive sfruttate e sperimentate da Beethoven al pianoforte: l’uso del pedale di
risonanza (nel I tempo, battute 215-216; 225-227; 401-402; nel secondo tempo, battute 1-4) e
l’estensione della tastiera una quinta in più sul registro acuto (es. I tempo battute 225-227; nel
terzo tempo: battute 346-349).

2. I Concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven.


Il primo concerto per piano e orchestra Beethoven lo scrisse nel 1784, quando non aveva ancora
compiuto i 14 anni. Di questo “concerto in mi bemolle maggiore”, assai difficile e ricco di audaci
passi virtuosistici, ci è pervenuta la sola parte del pianoforte, con annotazioni per la
strumentazione. Beethoven riprese poi a scrivere per pianoforte e orchestra alcuni anni dopo,
quando gli si presentano concrete occasioni per intraprendere la carriera del pianista virtuoso.
Scrive i suoi 5 concerti per pianoforte ed orchestra nell’arco del ventennio tra il 1790 e il 1809.

2. 1. Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra in do maggiore, op. 15.

1. Allegro con brio; 2. Largo; 3. Rondò. Allegro scherzando


Il concerto è numerato come primo, ma in realtà fu il secondo in ordine di composizione in quanto
scritto nel 1795 dopo quello in si bemolle maggiore iniziato nel 1793. La discrasia tra la
numerazione e l’ordine di composizione è dovuta probabilmente al fatto che Beethoven compose
questi concerti per eseguirli personalmente come solista e, quindi, si riservava di apportare delle
modifiche suggerite dall’esecuzione e dall’impatto con il pubblico.
Il concerto è dedicato a “Babette”, la principessa Anne Luise Barbara d'Erba Odescalchi,una delle
sue allieve più care , alla quale Beethoven nel 1797 aveva già dedicato la sonata per pianoforte op.
7. Fu con questo concerto che Beethoven si fece conoscere al pubblico di Vienna.
Nella primavera del 1795 la Società dei musicisti “Tonkünstlergesellschaft” organizzò tre serate
consecutive in onore degli orfani e delle vedove dei musicisti all'Hofburgtheater (lo stesso teatro
dove Mozart rappresentò per la prima volta “Ratto dal serraglio”, “Così fan tutte” e le “Nozze di
Figaro”). L’intero incasso dell’ultima serata, in cui Beethoven eseguì il Concerto in re minore del
suo insigne predecessore Mozart, fu completamente devoluto palla vedova di quest’ultimo.
Inoltre, in questa occasione, Beethoven ideò la ancor oggi eseguita cadenza per il concerto
mozartiano. Durante la prima serata, invece, eseguì il suo Concerto per pianoforte in do maggiore
op. 15.
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Sbrigativamente liquidato dalla critica come lavoro giovanile privo di particolare interesse, il
concerto op 15 è invece caratterizzato da un linguaggio completamente nuovo,anche se ancora
acerbo, che si distanzia notevolmente dai modelli di Mozart e Haydn. Troviamo già le sue arditezze
formali e, soprattutto, il concerto è caratterizzato da un carattere solenne, marziale e radioso (in
particolare il primo tempo), che anticipa l'ultimo Concerto, detto “Imperatore”.

2. 2. Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in si bemolle maggiore, op. 19.

1. Allegro con brio; 2. Adagio; 3. Rondò. Molto Allegro


Il concerto n. 2 op. 19, dedicato a Carl Nicklas Edler von Nickelsberg, venne eseguito al Burgtheater
di Vienna nel marzo del 1795, con Antonio Salieri come direttore d’orchestra e Beethoven stesso
al pianoforte. Rivisitato nel 1798, fu scritto da un Beethoven giovane che ancora vedeva nella
scrittura per pianoforte una “fatica creativa funzionale all’esecuzione concertistica”, tramite la
quale il musicista si sarebbe fatto conoscere dal pubblico di Vienna per le sue doti virtuosistiche.
Come si può leggere in una lettera indirizzata all’editore Hoffmeister di Lipsia, Beethoven mostrava
di non tener molto in gran conto questo lavoro, che rimase la “Cenerentola” dei cinque concerti
beethoveniani, cioè quello meno eseguito dagli interpreti e meno considerato dalla critica.

2. 3. Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in do minore, op. 37.

1. Allegro con brio; 2. Largo; 3. Rondò. Molto Allegro


Il concerto è dedicato “A Son Altesse Royale Monseigneur le Prince Luis Ferdinand de Prusse”, un
aristocratico, nipote di Federico II, abile pianista che ammirava moltissimo Beethoven e da cui il
musicista si considerava trattato alla pari, condizione indispensabile affinché un nobile entrasse
nelle sue grazie.
In generale, lo stile del concerto è considerato anomalo e sperimentale, in quanto caratterizzato
quasi completamente dalla convivenza di elementi del Settecento con emergenti novità, sia
nell'orchestrazione che nella tecnica pianistica. A differenza dei due precedenti concerti il ruolo
dell’orchestra è ben sviluppato, recuperando la concezione “sinfonica” del concerto mozartiano e
ponendosi in forte contrasto con le tendenze dell’epoca, sempre più tese a relegare la parte
orchestrale ad una funzione di semplice accompagnamento. La caratteristica formale della
conclusione del primo tempo affidata al pianoforte e orchestra (non alla sola orchestra), sebbene
insolita, non manca di precedenti (es. concerto K 491 di Mozart). La scrittura pianistica, invece non
è più classica, per esempio nella prima entrata del solista nel primo movimento, con il tema
esposto in doppie ottave, e nell’uso del pedale.
Il concerto num. 3 verrà analizzato più in dettaglio successivamente in questa tesina.

2. 4. Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra in sol maggiore, op. 58.

1. Allegro moderato; 2. Andante con moto ; 3. Rondò. Vivace


Il concerto, dedicato all’Arciduca Rodolfo d’Asburgo-Lorena, venne eseguito in forma semi-privata
nel palazzo del principe Lobkovitz nel marzo del 1807, mentre l'esecuzione pubblica avvenne
successivamente, nel dicembre 1808 con Beethoven al pianoforte in una lunghissima Accademia
presso il ‘Theater an der Wien’. Durante il concerto vennero eseguite altre opere del compositore:
le sinfonie n. 5 e n. 6, la Fantasia corale op. 80 e parti della Messa in do maggiore op. 86. Fu l'ultimo

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dei concerti per pianoforte che Beethoven eseguì personalmente, prima che la sordità lo
obbligasse a cedere il passo ad altri virtuosi della tastiera.
Dal punto di vista pianistico il concerto mette in luce le innovazioni tecniche di cui lo strumento si
stava arricchendo in quegli anni: mentre primi tre concerti per pianoforte e orchestra sono
composti su pianoforti non molto diversi da quelli che usava Mozart, nel 1806 Beethoven poté
usare un nuovo pianoforte Erard, francese con meccanica inglese. Il nuovo strumento
comprendeva sei ottave (il concerto contiene molti passaggi significativi nel registro acuto dello
strumento), ma soprattutto presentava un nuovo meccanismo con quattro pedali: il primo
consentiva di percuotere una sola corda per ogni nota, il secondo era la sordina, il terzo era il
pedale di risonanza, il quarto infine produceva un effetto “liuto”, un suono di grande dolcezza, in
una gradazione dinamica e coloristica assolutamente inedita.
Il quarto concerto rappresenta la manifestazione massima del contrasto dialettico fra due poli
opposti: il pianoforte, che distende un tema quasi da corale, contrapposto alla “furia”
dell’orchestra, sempre forte e in staccato, una melodia concisa e dal ritmo propulsivo. La
particolarità e unicità dell'incipit sta nell'introduzione affidata al solista, e nella modalità con cui
tale scelta viene realizzata: l'ingresso del pianoforte, che si appoggia delicato su un accordo di sol
maggiore sembra un “improvvisato preludiare”, senza una direzione. Questo motivo,
apparentemente casuale del pianoforte, diventerà il primo tema dell'esposizione orchestrale.
Anche Mozart nel suo concerto “Jeunehomme” aveva, cosa assai rara, iniziato un concerto per
pianoforte e orchestra con una introduzione del solo pianoforte senza l'orchestra.

2. 5. Concerto n. 5 per pianoforte e orchestra in mi bemolle maggiore, op. 73.

1. Allegro; 2. Adagio un poco mosso; 3. Rondò. Allegro.


L'opera fu composta nel 1809 ed è dedicata, come il quarto concerto, all’arciduca Rodolfo.
E’ l'unico concerto che Beethoven non riuscì a presentare di persona al pubblico. Dopo che fu
consegnato all'editore Breitkopf nel febbraio 1810, la prima esecuzione si ebbe nel novembre del
1811 a Lipsia, nella settima serata della stagione al Gewandhaus, con Friedrich Schneider come
solista e J. Ph. Christian Schulz come direttore. Il concerto divenne presto un cavallo di battaglia
dei più importanti virtuosi dell'epoca, come Czerny.
Il titolo di “Imperatore” che lo accompagna è apocrifo e pare sia stato diffuso dal pianista ed
editore J. B Cramer, mentre Beethoven lo aveva nominato “Gran concerto”. Il 1809 è un anno di
guerra (Napoleone sta mettendo a ferro e fuoco l'intera Europa e Vienna subisce diversi
bombardamenti ed un assedio), e il musicista scrive all'editore Breitkopf: “che vita piena di
distruzione attorno a me, nient'altro che tamburi, cannoni e umane sventure di ogni tipo”. Durante il
periodo dell'assedio Beethoven compose poco o nulla, rifugiato a casa del fratello Carl (o, secondo
altri biografi, dall'amico poeta I. F Castelli). Dopo un'estate trascorsa fuori città, Beethoven tornò
a Vienna nell'ottobre 1809, dove iniziò a comporre il concerto in mi bemolle maggiore. É evidente
come il concerto, col suo carattere marziale, rispecchi gli eventi militari di quegli anni. Non bisogna,
tuttavia, fare l'errore di mettere in rapporto troppo da vicino le vicende belliche con l'ispirazione
del concerto. Il tono eroico e marziale, infatti, è uno dei tratti tipici del linguaggio beethoveniano
già perfettamente delineato fin dal Primo concerto.
Nel 1822 la rivista tedesca “Zeitung für Theater und Musik”, lo descrisse come un “meraviglioso
dipinto musicale, percorso da tratti bizzarri e barocchi, che solo la eccentrica e geniale personalità
creatrice di Beethoven poteva produrre.”

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3. Approfondimento sul concerto n. 3, op 37.

3. 1. Contesto culturale e musicale.

Beethoven si colloca perfettamente a cavallo tra Classicismo e Romanticismo. Gli anni tra la fine
del Settecento e l’inizio dell’Ottocento vedono la nascita del movimento Sturm un Drang
(“sconvolgimento e impeto”), precursore del romanticismo tedesco. Tale movimento rivaluta
l’irrazionale nella vita e nell’arte, in opposizione all’intellettualismo illuministico; afferma la
supremazia delle passioni e degli istinti sulla razionalità illuministica. Sebbene Beethoven non sia
facilmente incasellabile in alcuna etichetta, si può riscontrare un’associazione tra questa nuova
visione del mondo e l’impeto di tante sue opere, anche se il suo approccio stilistico e armonico
non è di rottura con la classicità.
I massimi rappresentanti dello Sturm un Drang sono Goethe e Schiller, con cui Beethoven ha una
forte affinità spirituale, tanto che inserisce l’Inno alla Gioa di Schiller nel quarto movimento della
Nona Sinfonia, per sancire in musica e versi, l’ideale di fratellanza universale, la vittoria dell’uomo
sulle tirannidi e su ciò che moralmente opprime la sua esistenza.
In questo periodo Vienna diviene capitale musicale dell’Europa centrale: la corte asburgica
richiama numerosi artisti facendo della città il fulcro di correnti contrastanti. Il mecenatismo
musicale è ancora presente nell’alta società e la nobiltà viennese assicurò a Beethoven un
supporto finanziario stabile senza imporgli nessuna condizione od obbligo.
In questo periodo cambia la fruizione della musica: dopo i teatri di corte cinque-seicenteschi, e
quelli pubblici settecenteschi, compare la moda dell’”Hausmusik” (musica da casa), conseguenza
dell’ascesa della borghesia, per la quale la musica diventa un simbolo di affermazione sociale.
Iniziano, inoltre, a diventare sempre più diffusi i concerti pubblici (le cosiddette “Accademie”) che,
pur essendo un fenomeno elitario, aprono la strada a ciò che diventerà il concerto nella seconda
metà del XIX secolo. I concerti erano molto diversi da ora: divisi in due parti da almeno 90 minuti
e la programmazione era molto varia e lasciava largo spazio alla musica vocale e da camera.
Nel 1771 a Vienna venne fondata la Tonkünstlersocietät, una delle prime società concertistiche.
La cultura musicale era in rapida espansione e quasi tutte le città dell’Inghilterra, della Francia e
dell’Europa centrale avevano una propria società concertistica.
Oltre all’organizzazione di concerti, l’attività che esercitò una forte attrazione sui musicisti era
l’editoria musicale: C.P.E. Bach, per esempio, pubblicò molte delle sue opere. Durante gli anni
Sessanta e Settanta si stamparono spartiti di eccezionale qualità e bellezza, con la decorazione dei
frontespizi molto curata. È rilevante, a questo proposito, il ruolo del compositore inglese S. Arnold
(1740-1822), che nel 1787 iniziò la pubblicazione delle composizioni di Häendel, impiegando circa
dieci anni. La collana da lui curata (180 volumi) comprendeva tre quarti dell’opera häendeliana;
l’edizione era sontuosa e i frontespizi curati da artisti di rilevo. Nonostante alcuni dei criteri
impiegati da Arnold possano oggi dirsi obsoleti e imprecisi, la sua impresa rappresenta una pietra
miliare nella storia dell’editoria musicale. Intanto, a Parigi, Pleyel (1757-1831) lavorò alla
pubblicazione di tutte le composizioni pianistiche di Mozart. Si diffuse, dunque, in questo periodo
la consapevolezza dell’importanza della pubblicazione integrale delle opere di un maestro
prolifico. Sempre in tema di pubblicazioni è importante citare la lessicografia e la biografia
musicale, che bilanciarono le mancanze in campo storiografico. Le opere più importanti furono il
Dictionnaire de musique (Parigi, 1768) di J.J Rousseau e l’Historisch-biographisches Lexicon der
Tonkünstler di E. L Gerber (1746-1819), dove l’autore unisce la biografia musicale e l’informazione
generale ai dati bibliografici.
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Un’ulteriore testimonianza del crescente interesse musicale da parte del pubblico è la rapida
crescita del giornalismo musicale. Già nella prima metà del Settecento, molto diffusa era la pratica
della pubblicazione periodica di lavori musicali, anche se rivolta ad un pubblico ristretto. La svolta
avviene nel 1798, quando la casa di Breiktopt & Härtel di Lipsia affida a J. F. Rochlitz il compito di
portare ad alti livelli un giornale, il cui obiettivo primario era quello di registrare gli eventi e
plasmare l’opinione pubblica. Durante i primi anni del XIX secolo vennero istituite oltre una
cinquantina di riviste musicali di richiamo prevalentemente locale, e che riflettevano il crescente
interesse alla musica da parte della borghesia, che caratterizzò tutto l’Ottocento. Gli altri Paesi,
prima del 1830, avevano una scarsa pubblicazione musicale, ma di elevata qualità. Tra gli esempi
degni di nota troviamo il “The Quarterly Musical Magazine and Review”, rivista inglese che seguì
un’importante carriera tra il 1818 e il 1828 e in Francia “La Revue musicale”, fondata nel 1827 e
pubblicata fino al 1880.
Dal punto di vista pianisitico, durante la seconda metà del periodo dell’attività beethoveniana, la
tecnica strumentale migliora notevolmente. Nonostante sia un fenomeno di piccola portata, se
confrontato con i progressi formidabili avvenuti durante il Romanticismo per poter rispondere alle
richieste di compositori quali Liszt e Wagner, è comunque notevole rispetto a ciò che era la tecnica
strumentale settecentesca. Questo periodo abbonda di virtuosi e grazie a loro il pianoforte
incrementa la sua popolarità. Tra di loro primeggiano J.B Cramer e M. Clementi nella vecchia
generazione, e l’emergente giovane F. Liszt, di bravura paragonabile a N. Paganini al violino.

3.2 Gestazione e prima esecuzione.

Il Concerto per pianoforte e orchestra, op. 37 n.3 venne terminato da Beethoven nel 1800, ma ebbe
una gestazione lunga e complessa. Fu elaborato in circa 8 anni: le prime bozze risalgono al 1796,
la prima esecuzione al 1803, e fu pubblicato nel 1804. Venne scritto in un periodo di grave crisi
esistenziale e anche musicale di Beethoven, che nello stesso periodo scrisse il famoso testamento
di Heiligenstadt, testamento spirituale indirizzato ai familiari ai quali Beethoven confidò le sue
confessione riguardo al proprio malessere, ai propri ideali e al suo rapporto con l’umanità.
In una lettera del 15 dicembre 1800, indirizzata all’editore Hoffmeister di Lipsia, il compositore
dichiara di avere un nuovo concerto, migliore dei due precedenti, che intende riservare per le
grandi occasioni. Nonostante egli definisca il concerto in do minore “migliore”, anche i due
precedenti ebbero una certa rilevanza, distaccandolo dalla tradizione mozartiana e conquistando
gli uditori delle Accademie viennesi soprattutto per la scrittura brillante e virtuosistica. I primi
abbozzi, come accennavo, sono anteriori di qualche anno al 1800, ma l’occasione per la prima
esecuzione si presentò solo nell’aprile del 1803: Beethoven istituì un’ Accademia nel teatro “An
der Wien”. Il programma prevedeva l’oratorio “Cristo sul Monte degli ulivi”, la prima esecuzione
della Seconda Sinfonia e una replica della Prima Sinfonia e Beethoven stesso era il solista.
Nonostante l’ormai affermata fama del solista-compositore, uno spiacevole evento rischiò di
compromettere il futuro dell’esecuzione: per lo stesso giorno, l’avversario del fondatore del teatro
(E. Shikaneder), il Barone von Braun, programmò un altro concerto di egual prestigio, al fine di
sottrarre pubblico all’odiato Shikaneder. Oltre alla forza di attrazione della prima esecuzione
dell’oratorio “La Creazione” di Haydn, il fatto che questo richiedesse un doppio organico
orchestrale significava tenere occupati i migliori strumentisti della città. Sin dalle prove, il direttore
d’orchestra I. Von Seyfried, riferisce che l’orchestra si rivelò un disastro: la sera della prima
Beethoven si dichiarò insoddisfatto dell’esecuzione, anche se i profitti furono consistenti.

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Anche dopo la prima esecuzione Beethoven continua a elaborare e modificare la parte solistica. Il
volta-pagine scrive della prima esecuzione: “Per l'esecuzione del suo Concerto egli mi invitò a voltargli
le pagine, ma la cosa era più facile a dirsi che a farsi: non vedevo avanti a me quasi altro che fogli vuoti;
tutt'al più qualche spunto da servire come promemoria, incomprensibile per me come un geroglifico
egiziano; poiché egli suonava la parte principale quasi tutta a memoria non avendo avuto, come quasi
sempre accadeva, il tempo di fissarla completamente sulla carta; e mi faceva soltanto un impercettibile
cenno quando era alla fine di tali passaggi. “
La parte completa per pianoforte venne scritta solamente un anno dopo per una esecuzione estiva
all'Augarten, con al pianoforte l'allievo Ferdinand Ries.
L’interesse dei critici fu calamitato dal nuovo oratorio, ma non mancarono alcune contrastanti
osservazioni in merito al nuovo concerto di Beethoven. Il cronista della “Zeitung für die elegante”
Welt commentò: “Meno riuscito il Concerto in do minore, che il sig. Beethoven, già conosciuto per essere
un eccellente pianista, eseguì senza sollevare la piena soddisfazione del pubblico”. La rivista
“Freymüthige” parlò di scarsa riuscita di tutte le nuove composizioni, compreso il concerto in do
minore. Solo dalle colonne dell’”Allgemeine musikalische Zeitung” provenne un accenno di
ottimismo, che celebrava l’improvviso invecchiamento del linguaggio mozartiano: ”Prova
straordinaria. Questo conferma l’opinione secondo la quale Beethoven possa rivoluzionare nel nostro tempo
la musica di Mozart”.
Il concerto fu pubblicato nell’estate del 1804, dedicato a Ferdinando di Prussia. Il motivo è da
attribuirsi a un episodio avvenuto a Vienna nello stesso anno: durante un grande ricevimento la
nobile padrona di casa aveva assegnato a Beethoven il posto in mezzo a gente di poco riguardo e
Beethoven se ne era andato senza sedersi né congedarsi. Quella sera era presente il principe Luigi
Ferdinando di Prussia, nipote di Federico II, eccellente pianista, ammiratore e amico di Beethoven,
ed egli volle riparare l'offesa. Qualche giorno dopo invitò alla sua tavola Beethoven e l'incauta
dama mettendo l'uno alla sua destra e l'altra a sinistra. Quando nell'autunno di quell'anno il
concerto op. 37 fu pubblicato da Breitkopf und Hartel esso uscì con la dedica «A Son Allesse Royale
Monseigneur le Prince Louis Ferdinand de Prusse», quasi una risposta di considerazione e di stima
che Beethoven dava al suo amico principe, alla pari. Un giorno, a dimostranza della bravura del
Principe prussiano, Beethoven gli disse: “Lei non suona come un principe, ma come un musicista”.
L’organico prevede 2 clarinetti, 2 flauti, 2 oboi, 2 fagotti, 2 trombe, 2 corni, timpani e archi.

3.3 I tempo: Allegro con brio.

Il primo movimento del concerto è do minore e ha la tipica forma dei primi movimenti di sonate,
concerti e sinfonie del Classicismo: la forma sonata, articolata in esposizione, sviluppo e ripresa.
L’esposizione si apre in “Piano” con la semplice scansione ascendente dell’accordo fondamentale
in valori lunghi, da parte degli archi nel registro grave, e si chiude con l'intervallo ripetuto
dominante-tonica. Un tema severo e incisivo, quasi scarno e primordiale, che si presta però a
numerose rielaborazioni nel corso del movimento. Al primo tema esposto dagli archi segue una
risposta dei fiati ed infine il tema risuona nel registro più luminoso dei violini nella tonalità di mi
bemolle maggiore.
Il primo tema si può scomporre in due periodi: a (batt. 1-8) e b (batt. 9-16). Il primo periodo a sua
volta si può suddividere in due frasi parallele (a e a′): la prima esposta dagli archi (batt. 1-4) e la
seconda, come fosse una risposta, dai fiati (batt. 5-8). Il periodo b è caratterizzato da un profilo
melodico discendente. Il tema è espresso perlopiù in una dinamica “piano”: questo è determinato,
non solo dalla prescrizione di suonare” p” in partitura, ma anche dal fatto che le prime due frasi
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(a e a') sono affidate non a tutta l’orchestra, bensì a sezioni diverse, la prima agli archi e la seconda
ad alcuni fiati. Le ultime due battute di b (15-16) sono invece proferite in “ƒ” dall’intera orchestra,
a sancire la conclusione del tema (Fig. 1).

a’
b

Fig. 1 – Concerto op. 37, Allegro con brio, batt. 1-16. Primo tema suddiviso in 2 periodi (a e b). Il
primo periodo, a sua volta suddiviso in 2 frasi (a ed a’).

Dopo una pausa e tre accordi dei fiati (cui si aggiungono i timpani), il tema viene riproposto in una
luminosa tonalità maggiore (mi bemolle), “forte” e con una ricca orchestrazione. È l'inizio del ponte
modulante che conduce ad un secondo tema (bat. 50), cantabile, dolce e velatamente
malinconico. Questo ha un profilo melodico più ornato e un incedere ritmico più sciolto, non
marziale e ostinatamente cadenzato come il primo. È esposto inizialmente dai violini (sempre in
mi bemolle maggiore) e si sviluppa in un breve dialogo di proposte e risposte tra archi e fiati. Segue
poi una concitata serie di confronti con il primo tema, il cui 'epilogo' torna insistentemente, anche
come segmento tematico autonomo. Nella sezione conclusiva (batt. 86-111), emerge un terzo
elemento tematico caratterizzato da note ribattute dei legni, enunciato “piano e con espressione”.
L’orchestra, verso la fine, richiama di nuovo un frammento del primo tema (batt. 104-111), ma
stavolta in fortissimo (sia perchè specificato con un “ƒ” in partitura, sia perchè il tema è intonato
dall’intera orchestra all’unisono), prima di arrestarsi con decisione su tre “colpi” sulla tonica, di cui
l’ultimo è allungato dalla corona. Il crescendo drammatico che caratterizza questa sezione si
realizza anche mediante la sovrapposizione a canone di fiati e archi: l’inizio del primo tema esposto
dai fiati a batt. 104 è ripreso subito a canone dagli archi a batt. 105.
Charles Rosen, in un suo famoso testo, afferma: “L’aspetto più importante della forma del concerto è
che il pubblico aspetta l’entrata del solista, e quando egli smette di suonare l’attesa ricomincia. … Nel
concerto classico l’entrata del solista è un avvenimento, equivalente all’arrivo di un personaggio nuovo
nell’opera, e di conseguenza viene posto in evidenza con una quantità di mezzi”.
L’attesa del ‘Solo’ di cui parla Rosen è tanto più spasmodica quanto più lunga è l’esposizione del
‘Tutti’. In effetti, il primo ‘Tutti’ del terzo concerto di Beethoven è abbastanza lungo, ed è come se
il ‘Solo’ avesse ascoltato in silenzio per poi prendere la parola a sua volta. Quando il solista entra,
sul silenzio dell’orchestra, propone inizialmente tre potenti scale ascendenti di do minore, in
doppia ottava (tecnicismo pianistico tipicamente romantico), che conducono in un registro molto
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acuto. Se da una parte è vero che il pianoforte replica lo stesso tema del Tutti, dall’altra però lo
espone in un modo tutto suo, in un registro alto, dopo una corsa slanciata e sgranata (le scale) e
con attegiamento imperioso.
Nell’esposizione pianistica Beethoven decide di non introdurre nuovi elementi tematici,
limitandosi a rielaborare quelli precedentemente proposti dall’orchestra e impreziosendoli con
abbelimenti. Dopo l’incipit del suo discorso, il pianoforte dialoga serratamente con l’orchestra,
suddividendo il discorso musicale tra tutti gli altri elementi. Si alternano momenti in cui il
pianoforte è sostenuto dall’orchestra, ad altri in cui quest’ultima si limita ad accompagnare (batt.
122-130), e altri ancora in cui i due interlocutori si scambiano delle frasi (batt. 131-145).
L’esposizione del pianoforte termina col cosiddetto ‘episodio di bravura’ (batt. 199-226), in cui il
solista erompe in una serie di “cascate” di note veloci, tra scale arpeggi e trilli. Il trillo finale è un
ingrediente basilare dei Concerti, sia di Mozart sia di Beethoven: rappresenta il vero e proprio
sfogo esplosivo e il culmine, di tutta l’Esposizione, e lo sarà anche nella Ripresa e nella Cadenza.
Lo sviluppo, breve ed espressivo, inizia con una nuova esposizione delle scale ascendenti, poi il
pianoforte continua a interagire con il “Tutti”, riproponendo per primo il tema iniziale, questa volta
in sol minore, ripetuto scalarmente da fagotti e oboi e, successivamente, da flauti e clarinetti. I
temi dell’esposizione vengono ulteriormente scomposti e ricomposti, ridotti e ampliati, accennati
e approfonditi. Il pianoforte crea una particolare atmosfera timbrica, impalpabile ed eterea, come
se pianoforte e orchestra si fondessero in un delicato impasto, rinunciando a mantenere i propri
“contorni” (es. batt. 280-291 in cui il pianoforte stende un delicato tappeto di crome che fa da
sfondo alle sonorità evanescenti degli strumenti a fiato). Molto più vasta è la ripresa, che contiene
un’evoluzione supplementare del primo e del secondo tema, la cui successione di note ribattute
offre al solista lo spunto per l’elaborazione di lunghe sequenze di semicrome. Si giunge poi alla
monumentale cadenza, che interessa una trentina di battute solistiche, dove oltre a riproporre il
primo tema (battute 420-424), offre al pianista l’opportunità di sfoggiare il proprio virtuosismo. La
cadenza, più di ogni altra sezione di questo primo tempo, mette in risalto una qualità del concerto,
che è quella dell’“esibizione”, dello sfoggio di abilità, già emersa peraltro nei cosiddetti ‘episodi di
bravura’. Nella cadenza si può ravvisare una sorta di rivalsa del Solo. Il pianoforte riprende i temi
principali del discorso (in particolare il I tema, batt. 419, 431-436, e il II tema, batt. 434-, 442-) e,
quasi improvvisando, li trasforma in “funamboliche acrobazie.” Durante il trillo cadenzale si
sentono gli echi del primo tema, riproposto da corni e clarinetti. Dopo la cadenza, insolitamente
lunga, nella coda rientra l’orchestra con il misterioso intervento del timpano, che ripropne la
scansione tonica-dominante e apre un crescendo intenso e drammatico dove la potenza dinamica
dell’orchestra è sviluppata al massimo. La chiusura del primo movimento è energica e il pianista
ripropone le tre scale ascendenti che caratterizzarono il suo ingresso.
È da notare la precisa intenzione di Beethoven di spostare il punto culminante dalla cadenza alla
coda. La conclusione della cadenza, nel concerto classico, avviene normamente nella tonalità
d’impianto. Nel terzo di Beethoven la concusione è tonalmente ambigua e crea un clima di
instabilità che tiene desta la tensione psicologica dell’ascoltatore.

4.3 Largo.

Il movimento è in forma di Romanza tripartita del tipo ABA′ (A: batt. 1-24; B: batt. 25-53; A′: batt.
53-83; coda: batt. 83-90) ed è caratterizzato da un’atmosfera intima e delicata, uno stacco netto
rispetto a quella del primo tempo. Se nell’ ”Allegro con brio” domina il dialogo acceso, quasi una
sorta di sfida, a tratti conciliante a tratti infuocata, nel Largo il ‘Solo’ e il ‘Tutti’ sembrano aver
deposto le armi. Dopo le tonalità di mi bemolle e di do minore, Beethoven decide di improntare il
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secondo movimento sulla lontana mi maggiore, in maniera anomala rispetto alle regole che
presiedono i rapporti tra i movimenti, tipiche della composizione classica. Ad attenuare la
luminosità del movimento intervengono i timbri scuri dei fiati (flauti, corni e fagotti), mentre gli
archi suonano in sordina.
Il pianoforte apre il movimento e la sua entrata in “pianissimo” ha un carattere austero e riflessivo.
Il tema è ripreso dall’orchestra che ne amplifica l’espressività, e lo elabora rendendolo quasi
irriconoscibile. Gli archi rendono ancora più “scuro” e morbido il colore, soprattutto grazie ai
violoncelli e contrabbassi che sprofondano verso le note più gravi. Nella parte centrale il pianoforte
si fonde con il Tutti in un “magico impasto timbrico”. Qui il pianoforte “accompagna” l’orchestra
con un flusso di arpeggi, creando “una soffice massa” su cui si stagliano gli interventi solistici di
vari strumenti (soprattutto flauti e fagotti); è essenziale, nella creazione della sonorità del
pianoforte, l’uso del pedale di risonanza, prescritto dall’autore.
Segue poi una transizione in cui il solista sfoggia le proprie abilità, arrivando a figurazioni composte
da triscrome, senza mai perdere la dolcezza della melodia. Questa sezione, caratterizzata dalle
sestine arpeggiate del solista accompagnate dai fiati (fagotto e flauto, che dialogano), non ha una
vera e propria identità tematica. In seguito il pianoforte, in sordina, ripropone l’aulico tema iniziale,
arricchendolo di elementi virtuosistici (es. bat 77 cinquantuno note in una sola battuta, fig. 2 ).

Fig. 2. Battuta 77 del Largo.


La ripresa della prima parte è svolta dall’orchestra, mentre il pianoforte distende una trama
finissima di scale ascendenti, con cui approda ad una breve cadenza, al termine della quale il
movimento giunge all’epilogo. I corni sovrastano progressivamente il solista, portando l’orchestra
al silenzio.

4.4 Rondò - Allegro – Presto.

Il terzo movimento è in forma di Rondò-sonata in 7 episodi, con 3 temi principali. Rispetto al


Rondò, in luogo dell’alternanza tra ritornelli ed episodi (ABACADA…), il Rondò-sonata presenta un
unico episodio centrale e due sezioni estreme che si ripetono, ABACABA, come lo schema tripartito
della forma-sonata.
La tonalità minore, la stessa dell ”Allegro con brio”, perde la cupa drammaticità del primo tempo
ed il clima è di gioia spensierata e humour cordiale, nei dialoghi tra solista e orchestra.
Ritroviamo la logica di contrasti del tempo iniziale, ma convertita verso fini più giocosi, e l’intero
movimento è all’insegna di un’incredibile brillantezza. Anche qui è il pianoforte a iniziare il
movimento, in ossequio alla tradizionale apertura dell’ultimo movimento dei concerti, sul silenzio
orchestrale. Inizia molto felicemente con uno scatto agile (corta ascesa di semitono e ampia
discesa di settima) del pianoforte, che continua esponendo il tema principale destinato a tornare
nelle ripetizioni tipiche del Rondò. Infatti, il ritmo e la struttura melodica del tema che si sente
all'inizio anima e caratterizza tutto il brano grazie alla rielaborazione cui Beethoven lo sottopone,
allungandolo, accorciandolo, stirandolo verso l'alto, inserendovi abbellimenti o utilizzandone
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segmenti. Il modo di esprimere il tema cambia in continuazione: esultante se proposto dal
pianoforte, umoristico quando eseguito da oboi e fagotti sul pizzicare degli archi, “agrodolce”
quando ripetuto da tutta l’orchestra in fortissimo.
La seconda strofa è basata sulla ripetizione di quattro crome. Segue un canone a quattro voci che
vede entrare in gioco gli archi e poi un serio contrappunto, dove il motivo di testa è un intervallo
di settima discendente, inframmezzato dagli oboi e dagli archi gravi. Nell’ultima parte riemerge il
pianoforte, che, accompagnato dai timpani, ripropone virtuosistiche sezioni, quasi a citare quelle
del Largo. Per accentuare l’intenzione satirica del movimento, basata su contrasti, Beethoven
decide di chiudere il concerto con un contrastante do maggiore, quasi dimenticando la severità
con cui il concerto era iniziato. Non c’è la cadenza del pianoforte, con relativa fermata
del’orchestra. O meglio, quando l’orchestra si ferma (su una settima di dominante) il pianoforte
attacca una piccola cadenza scritta che serve di collegamento con la coda, costruita sul primo tema
in maniera umoristica. Anche in questa coda, ricca di brillanti e virtuosistici passaggi pianisitici
(mentre l'orchestra risponde ironica), si riscontra l’influenza del concerto K 491 di Mozart, che si
conclude in modo analogo. Il solista non suona nelle ultime battute, tipica caratteristica classica.
Per usare una metafora di Kerman, se il primo tempo del concerto è il luogo dell’interazione, dello
scambio dialogico-drammatico, e il secondo è il regno della contemplazione e della sospensione
di ogni dissidio, nel terzo tempo ‘Solo’ e ‘Tutti’ imparano a convivere e a collaborare felicemente.

5. Fonti.
• Beethoven L.V, Lettere e colloqui di Beethoven. Ed. Longanesi & Co., 1950.
• Casella A. Il pianoforte. Ed. Ricordi, 2004.
• Rattalino P. “Il Concerto per pianoforte e orchestra. Da Haydn a Gershwin”. Ed. Giunti
Ricordi, 2001.
• Rosen C. Lo stile classico. Ed. Feltrinelli, 1989.
• Guida alla Musica da Concerto. Il repertorio per solista e orchestra. A cura di Bolzan C, 2014.
• www.flaminioonline.it. Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in do minore, op. 37
• Petrucci Music Library, Piano Concerto No. 3, impsl.org (Curatore: Wilhelm Altmann)

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