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TESI № 24

Origini e prime forme della musica strumentale moderna:


canzone, fantasia, ricercare, toccata e fuga.
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Musica strumentale
Origini, diffusione, funzioni ed usi.
.

LE ORIGINI_

Alle soglie del XV secolo la musica strumentale, documentata per lo più per merito in modo
indiretto grazie all’iconografia e dalle cronache storiche, non aveva ancora un repertorio scritto
proprio e specifico, salvo rare eccezioni come quella delle danze riferite da Johannes de Grocheo, o
le musiche del Codice di Faenza 117, compilato intorno al 1420. E la prassi strumentale risultava
ancora divisa fra musiche di danza e adattamenti di composizioni vocali. Avremmo potuto quindi
categorizzare così le specie di musica strumentale:

- musiche propriamente strumentali;


- musiche per cantare et sonare, che avevano alla base il raddoppio o la sostituzione di voci
con strumenti;
- musiche per sonare, basate sulla sostituzione di voci con strumenti, oppure compilate su
uno strumento solo (intavolatura). Queste ultime, in particolare, la materia sonora – sia
canto solo sia canto a più voci – era oggetto di variazione e di parafrasi, di concreto
adattamento quindi al mezzo meccanico di riproduzione.

E’ nel corso del Cinquecento (XVI secolo) che la musica strumentale cominciò gradatamente ad
emanciparsi e a distaccarsi, dapprima lentamente e poi via via sempre in più rapida ascesa, dalla
condizione di subordinazione avuto sino ad allora rispetto alla musica vocale ed ai suoi modelli.
Basti considerare come si è detto (a riprova di tale subordinazione) che in tal periodo era ancora
d’uso trovare partiture date alle stampe che prevedessero il raddoppio o la sostituzione di voci con
strumenti (tali tipologie di musica solevano recare, nei titoli, l’espressione “per cantare et
sonare”).
Lentamente, in conseguenza di questa evoluzione, il repertorio di musiche propriamente
strumentali iniziò a crescere (come si è già accennato nell’introduzione), seppur consistente
perlopiù di arrangiamenti o adattamenti di brani vocali, le cui melodie, prevedendo spesso delle
variazioni, solevano affidare tali variazioni ai singoli strumenti, come ad esempio al liuto, agli
strumenti a tastiera o anche a più ampie compagini polistrumentali. In tal senso, si noti che i brani
di musica d’insieme non erano destinati a strumenti ben determinati, motivo per il quale molto
spesso essi recavano nei titoli la dicitura “per ogni sorta di strumenti” come manifestazione
della libertà di poter scegliere i timbri ritenuti più appropriati alle esigenze del caso (ad esempio in
funzione dell’ambiente ove i brani avrebbero dovuto essere eseguiti, oppure in base alla quantità di
esecutori a disposizione).
Emancipazione ed evoluzione lente, si diceva, della musica strumentale rispetto a quella vocale
dipendenti anche da quel concetto rinascimentale secondo il quale – come ci fa notare il
compositore e teorico Silvestro Ganassi (1492-netà XVI sec.) nel suo manuale per flauto “Opera
intitulata Fontegara”:

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[…] Tutti li instrumenti musicali sono rispetto e comparazione alla voce umana mancho degni per tanto noi si
rafforzeremo da quella imparare e imitarla […] come il degno e perfetto dipintor imita ogni cosa creata alla natura
con la variazion di colori, così con tale instrumento di fiato e corde potrai imitare el proferire che fa la humana voce.

Evidentemente, dunque, la musica strumentale, indegna rispetto a quella vocale, doveva da essa
apprendere e imparare l’uso dei colori proprio come fa un pittore al fine di poter rappresentare la
natura e le sue sfumature cromatiche (nel caso della musica: le sfumature del sentimento).

Proprio in conseguenza di questo processo, la composizione strumentale venne lentamente ad


allontanarsi – nel corso del XVI secolo – dai modelli vocali, giungendo via via ad una
valorizzazione delle potenzialità di ogni singolo strumento all’epoca utilizzato. E’ a questo punto, e
su queste basi, che comincia a farsi strada la pratica del virtuosismo, alla sua coltivazione e di
conseguenza alla registrazione scritta delle pratiche di improvvisazione sino ad allora sempre
adottate. Sono un esempio, in tal senso, le diminuzioni, cioè i floridi passaggi (gruppi di note di
breve durata, ornamentazioni, trilli) che sostituiscono una melodia originaria, cominciano ad
essere dati per esteso dall’autore, rispondendo così alla volontà di rendere più espressivo, vitale e
piacevole il testo musicale.
Questa attitudine al conferimento di valore espressivo al virtuosismo improvvisativo strumentale
venne riconosciuto e codificato in alcuni manuali teorico-pratici del tardo Cinquecento, redatti
per lo più da abili strumentisti della regione veneto-lombarda:

- “Il vero modo di diminuir, con tutte le sorte di stromenti di fiato & corde & di voce humana”, di
Girolamo Dalla Casa (Venezia 1584).
- “Ricercate, passaggi et cadentie”, di Giovanni Bassano (Venezia 1585).
- “Passaggi per potersi esercitare nel diminuire”, di Riccardo Rognoni (Venezia 1592).

Un’altra importante causa del diffondersi della pratica autonoma della musica strumentale fu il
nascere del dilettantismo strumentale, coltivato perlopiù presso i cenacoli nobiliari e presso le
case dei ricchi mercanti. E’ in questo contesto che ad esempio notiamo il nascere dell’uso della
intavolatura, uno specifico tipo di scrittura musicale, finalizzata alla facilitazione della lettura dei
brani da eseguirsi per strumenti a corde e a tastiera. Poco ha a che fare con la notazione utilizzata
per le composizioni polifoniche, poiché in tal caso essa indicava all’autore, mediante un sistema di
numeri (italo-spagnoli), di lettere dell’alfabeto (francesi) o simboli grafici vari (di tipo tedesco)
quale fosse la posizione che dovevano avere le dita sulle corde o sulla tastiera. I valori di durata
erano definiti da gambi verticali differenti posti in un’unica fila sopra il rigo. Le prime intavolature
a noi giunte furono per liuto, strumento all’epoca formato da un manico con sei corde e nove tacche
trasversali. Ecco qui in basso proprio un esempio di pagina estratta dalla raccolta “Itabulatura de
lauto” di Francesco Spinacino (Venezia, 1507):

surian tomo 2 pagina 7

Trascrivere musiche vocali per strumenti – a carattere profano o sacro - fu dunque una pratica
molto usata, durante il Cinquecento, dai liutisti e dal resto degli strumentisti.
Sempre in questo periodo, cominciarono a nascere anche i primi manuali pratici che
descrivono le proprietà dei singoli strumenti e che danno istruzioni su come suonarli. Significativo
è che fossero scritti, inoltre, in vernacolo e non in latino, poiché a fruirne non erano i teorici ma gli
strumentisti stessi. Primo fra gli autori a noi noto è Arnolt Schlick (1460-1521), di origine tedesca, il

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cui trattato “Specchio degli organari e degli organisti” (Speyer, 1511) è un chiaro tributo all’organo
e alla sua pratica. Seguirono poi anche i manuali di Sebastian Virdung (ca. 1465-?), fra cui spicca il
suo “Musica getutscht” (“Musica”, in tedesco), edito a Basilea nel 1511, che descrive gli strumenti
del tempo, la loro intavolatura, ed è dunque fonte primaria per la storia degli strumenti
rinascimentali.
Possiamo citare infine altri manuali di rilievo storico, ed oggi reperibili in commercio su copie
facsimili:

- “Musica instrumentalis deudsch” (“Musica strumentale tedesca”), di Martin Agricola (Wittemberg,


1529).
- “La Fontegara la quale insegna a sonare di flauto” e “La regola rubertina che insegna sonar de
viola d’archo tastada”, ambedue di Silvestro Ganassi (Venezia 1535, Venezia 1542).
- “Trattatdo de glosas […] en la musica de violones” (“Trattato di Ornamentazione nella musica del
violone”, di Diego Ortiz (Roma 1553).
- “Fronimo […] nel quale si contengono le vere et necessarie regole dell’intavolare la musica del
liuto”, di Vincenzo Galilei (Venezia 1568, ampliato nel 1584).

Parallelamente alla diffusione degli strumenti musicali, venne anche l’evoluzione della
costruzione di tali strumenti. Ad esempio, tiorbe e chitarroni vennero perfezionati nei loro
registri bassi, oppure per gli strumenti a tastiera (cembali, spinetta, organi) venne migliorato il
rendimento acustico e sonoro (aumentando il tiro delle corde, e ampliamento del numero dei
registri per le tastiere), e per gli strumenti ad arco fu notevolmente aumentata la qualità sonora. Si
migliorarono, infine, anche le rifiniture decorative esterne degli strumenti.
In conseguenza di questi cambiamenti (sia estetici che pratici) degli strumenti musicali, anche il
lessico armonico venne ad arricchirsi: l’intonazione degli strumenti, ad esempio, venne lentamente
a migliorare, e le dissonanze prodotte all’emissione sonora si affievolirono sempre di più. Crebbe
anche la sensibilità armonico-verticale, venne fatto sempre più ampio uso dei colori, dei timbri e si
svilupparono strategie di concertazione per gli insiemi di più strumenti.

Le cantine di produzione degli strumenti musicali di questo periodo erano varie e


dislocate in differenti zone dell’Europa. Pare, ad esempio, che Germania ed Austria fossero
all’avanguardia nella produzione di strumenti a fiato, di legno e d’ottone; così come le officine
dell’Italia del Nord (Cremona, Venezia, Brescia) erano specializzate nella produzione di strumenti
ad arco. Famose, in tal senso, furono le botteghe di Andrea Amati (1511-1580), a Cremona, e di
Gasparo de Salò (1540-1609) a Brescia, note per la produzione di violini di alta qualità tecnica e
sonora. Discendenti di tali famiglie di liutai furono le famiglie dei Guarnieri e degli Stradivari, che
mantennero alta per lungo tempo la tradizionale superiorità della liuteria italiana. E’ giusto notare
che la bravura dei mastri liutai nelle zone veneto-lombarde fondava le sue radici nella pratica della
musica da camera coltivata proprio nelle corti e nelle residenze signorili del nord Italia. E forse
proprio in conseguenza di questa corsia preferenziale intrapresa dal nostro paese nella produzione
di strumenti ad arco, intorno alla fine del Cinquecento e nei primi anni del Seicento, vennero
riconosciute al violino le possibilità superiori (virtuosistiche ed espressive) rispetto ad altri
strumenti, inducendo dunque ad un uso maggiore di questo strumento nelle compagini musicali,
sino ad ingrandirne il repertorio; fatto, questo, che apre un nuovo capitolo nella storia della musica
strumentale. Scrive infatti Giovanni Battista Doni (1595-1647) nel suo trattato “Annotazioni sopra
il compendio de’ generi e de’ modi della musica” (Roma 1640):

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Fra tutti gli strumenti musicali meravigliosa veramente è la natura del violino: poiché niuno ve n’ha […] che meglio
esprima la voce humana, non solo nel canto (che ne comunica pure con alcuni strumenti da fiato) ma nella favella
istessa: il quale [il violino] imita così bene in quei velocissimi accenti, quando da perita vien maneggiato ch’è cosa
degna di stupore: e questa è sua particolarissima dote.

FUNZIONI ED USI_

In un primo momento, la musica strumentale fu impiegata – sia in ambito profano che sacro –
con la funzione di intonazione, di pre e di post, nonché di interludio ad eventi liturgici, cerimoniali
e scenici. Fino ad almeno i primi anni del Seicento, in particolare, veniva impiegata anche come
accompagnamento a movimenti di danza, melodie queste prese in prestito dalla tradizione
popolare e riadattate poi all’uso. E il repertorio per danze venne lentamente a crescere durante il
XVI secolo, sdoganandosi dall’impiego di consumo fatto sino ad allora per assumere la forma di
musica d’arte stilizzata, di musica da camera domestica diffusa nelle cerchie di strumentisti
dilettanti.
In ambito liturgico, gli strumenti musicali non erano mai usati, eccezion fatta per l’organo;
avremmo potuto trovare complessi strumentali solamente durante le occasioni di festività religiosa
importante, come nel caso delle processioni o di eventi solenni tenuti all’aperto. L’assegnazione,
invece, di un posto stabile per gli strumentisti all’interno delle cappelle cominciò ad essere
assegnato solamente a partire dagli ultimo decenni del Cinquecento, il cui uso venne gradualmente
ad ampliarsi di lì in poi.
In generale, i repertori di musiche strumentali per organo, clavicembalo e altri tipi di strumento
trovarono la loro culla fertile a Venezia (come abbiamo visto inoltre è proprio in questa città che
durante il Cinquecento videro la luce molti manuali teorico pratici per strumento). Dobbiamo
ricordare, infatti, che Venezia si dimostrò molto insofferente verso i dettami della Controriforma,
che per l’appunto escludeva dal servizio religioso l’impiego di strumenti differenti dall’organo.
Motivo per il quale, proprio in questa città e per la sua Basilica di San Marco in particolar modo, vi
fu ampia prolificazione di opere strumentali date alle stampe per uso liturgico.
A curare gli affari musicali della città di Venezia era uno speciale gruppo di amministratori
definiti procuratori, usualmente appartenenti alle famiglie patrizie della città. Essi stabilivano il
numero di musicisti da impiegare, quali impiegare, quanto pagarli, ecc. A sovrintendere invece alle
esecuzioni musicali era ovviamente il maestro di cappella (dal 1607 cominciò ad essere
affiancato anche da un vice maestro). Se agli inizi del Cinquecento la Basilica poteva contare su un
gruppo di una ventina circa di coristi, verso la fine del secolo avremmo potuto vedere persino due
organisti alternarsi di settimana in settimana fra i due organi principali della Basilica; di solito, al
secondo organista spettava il compito di accompagnare il complesso strumentale e di offrire
esibizioni virtuosistiche sul suo strumento. Motivo per il quale molta musica strumentale
organistica di San Marco fu scritta proprio da musicisti come Claudio Merulo (1533-1604) e
Andrea Gabrieli (1533-1585). L’introduzione del primo complesso strumentale attivo all’interno
della Basilica risale, di fatto, al 1568, quando i procuratori assoldarono un gruppo di dodici
strumentisti diretti dal “maestro di concerti”, cornettista, Girolamo Dalla Casa (1543-1601). Ad
esso succedettero Giovanni Bassano (1558-1617) e Monteverdi stesso, sotto il quale fu istituita
un’orchestra permanente di sedici suonatori cui furono attribuiti regolari stipendi (1614), organico
che venne ad essere incrementato negli anni successivi, soprattutto di violinisti per le feste
maggiori.
Il complesso strumentale di San Marco fu impiegato non soltanto per accompagnare i cori ma
anche durante le feste religiose, di una certa solennità, per eseguire musica d’insieme durante la
lettura del Graduale della Messa e durante i Vespri. Durante l’Elevazione, il momento culminante

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della Messa, si fece uso di brani solistici come le Sonate per uno o più strumenti e basso
continuo, mentre i pezzi per organo solo come le Toccate, le Canzoni e i Ricercare, furono
impiegati durante le letture del proprio della Messa, di rado nel momento dell’Elevazione. E non
potremmo proseguire in questo percorso senza nominare le celebri Messe per Organo, giù
documentabili a partire dal XV secolo in Germania e Italia. Era prassi che l’organista suonasse i
brani alternatamente al coro (da cui il nome di alternatim per indicare questa prassi), piuttosto che
accompagnandolo nelle varie parti del Kyrie, del Sanctus, e dell’Agnus Dei. Strutturalmente, questi
pezzi organistici erano fondati su una melodia gregoriana trattata ed elaborata attraverso intrecci
contrappuntistici imitativi (si parla dunque della pratica del cantus firmus). Sono un esempio in tal
senso le tre messe organistiche contenute nel secondo libro de “L’intabulatura d’organo” (Venezia
1543) di Girolamo Cavanozzi, o anche nelle tre messe comprese ne “I fiori Musicali” (Venezia 1635)
di Girolamo Frescobaldi.

I PROCEDIMENTI COMPOSITIVI_

Proprio parlando di procedimenti compositivi, si deve notare che il compositore di musica


strumentale, di norma era anche esecutore, spesso un virtuoso. Doveva dunque occuparsi egli
stesso di dare assetto formale ad un brano musicale privo della guida di un testo poetico.
La fattura delle forme strumentali variava dal semplice ricalco delle voci a forme di invenzione
autonoma. Pertanto si avevano:

- trascrizione fedele del modello cantabile;


- parafrasi (cioè libera rielaborazione) ornata del modello;
- variazioni;
- composizione strumentale originale, per la quale si aveva:
a) presa in prestito al campo vocale;
b) indipendenza da altri modelli;
c) valorizzazione tecnica e fonica dello strumento.

Procedendo per gradi, dunque, una delle organizzazioni formali più utilizzate si basava
sull’impiego di una semplice elaborazione contrappuntistica sopra una melodia data, perlopiù di
origine vocale; poteva trattarsi del tema di una chanson, o di una frottola, talvolta anche di un
motivo familiare di una danza. Questo tema, veniva usato al basso o nella linea melodica e su di
esso venivano stese una serie di variazioni. Oppure, come si è visto poco sopra, si utilizzava il
procedimento dei cantus firmi fondati su un frammento di canto gregoriano. Sebbene questi
procedimenti fossero già stati ampiamente adottati in passato dalla musicale vocale del XV secolo,
il poterli impiegare per la sola musica strumentale certamente permetteva una certa dose di libertà
in più, dal punto di vista creativo. Varietà e contrasto divennero le parole d’ordine dei brani
strumentali: si potevano avere momenti di stabilità e di elasticità ritmica, melodica, armonica, per
poi passare gradualmente o immediatamente ad episodi carichi di tensione, ove prevalevano i
valori e le frasi brevi, reiterazione di accordi, imitazioni ravvicinate, figurazioni melismatiche,
arpeggi a scroscio, rapide successioni di crome.
Queste tipologie di composizione erano oltremodo applicate a quei tipi di composizioni non
dipendenti da un materiale tematico, come la Toccata e la Fantasia.

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Musica strumentale
Le forme: il Ricercare, la Fantasia e il Capriccio.

IL RICERCARE_

Il termine “ricercare” apparve per la prima volta nei due volumi di opere per liuto
“Intabulatura de lauto” di Francesco Spinacino (XV sec.-1507), stampate a Venezia dall’editore
Ottaviano Petrucci (amico di Spinacino) nel 1507, al fine di indicare brevi composizioni di carattere
improvvisativo e rapsodico, cioè ornamentale da esuberanti passaggi che sfruttano una
determinata tecnica (rapide scale, passi accordali) dello strumento stesso. La funzione del ricercare
era probabilmente quella di preludio e interludio fra le strofe di opere vocali trascritte (intavolate)
per liuto.
Se in un primo momento, dunque, il ricercare era stato sfruttato nelle intavolature per liuto, fu
con il compositore e organista Marco Antonio Cavazzoni (1490-1560) che esso venne applicato
anche all’organo, così come ci testimonia il suo “Recerchari mottetti canzoni […] – Libro Primo”
edito a Venezia nel 1523.
Intorno al 1540, il ricercare a carattere improvvisativo fu soppiantato da un tipo di ricercare
rigorosamente imitativo, privo dunque di formule di abbellimento, e concepito sul modello del
mottetto vocale da chiesa della prima metà del Cinquecento: più sezioni concatenate fondate sulla
tipologica del testo - in latino - con un fitto tessuto polifonico e una scrittura per l’appunto
imitativa. La parola ricercare, si noti, alludeva proprio al “ricercare ripetutamente”, cioè
all’intensiva replica di una determinata figura, di una specifica costruzione e azione.
Dunque, se come abbiamo visto in un primo momento il ricercare era stato fondato sulle ricerca
di libere improvvisazioni contrappuntistiche rispetto ad una melodia prescelta, nella letteratura
organistica divenne grazie a Cavazzoni, all’organista Giacomo – o Jacobo – Fogliano (1468-1584), a
Julio Segni (1498-1561) e ad Adrian Willaert (1490-1562) una composizione suddivisa in più
sezioni (da tre in su) in ognuna delle quali veniva successivamente presentato, in stile imitativo, un
differente tema (ricercare pluritematico). A volte, il tema stesso poteva sovrapporsi anche agli
altri temi precedentemente esposti; un quasi mottetto, come abbiamo già spiegato.
Avremmo potuto trovare, in generale, ricercare per liuto (primi anni), per organo e per complessi
strumentali diversi (evoluzione); e non sarebbero mancati anche ricercare per complessi vocali.
Tutti questi generi erano prettamente elaborati nell’austera modalità gregoriana.
Ecco alcune fonti musicali del periodo:

- “Musica nova accomodata per cantar et sonar sopra organi et altri strumenti”, Venezia 1540. Si
tratta di una raccolta di ricercare in stile imitativo ad opera di Julio Segni e Adrian Willaert.
- “Ricercari canzoni himni”, Venezia 1543. La prima raccolta di ricercare a stampa per organo di
Girolamo Cavazzoni; erano a carattere severo e politematico, e servivano da interludi per brani vocali
da Chiesa.

Rispetto ai suoi contemporanei (Capriccio, Fantasia, Canzone), il ricercare si differenziava per


l’austerità, il carattere severo e meditativo (celebri sono i ricercare di Frescobaldi). Il Ricercare può
inoltre essere definito come il più lontano antenato e precursore della Fuga: ciò fu dovuto ad una
sua successiva evoluzione a costruzione contrappuntistica più solida e più omogenea, caratterizzata
fra l’altro dal passaggio al monotematismo per il quale tutta la composizione si sviluppava su di un
unico tema che circola per varie tonalità e dove le parti si ricercano l’un'altra per costruire un
edificio musicale. In tal senso, precursore del genere fu Jacques Buus (1500-1565) che, nelle sue tre

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raccolte “Recercari”, pubblicate a Venezia nel 1547 e del 1549, propose composizioni rette da una
scrittura contrappuntistica molto densa e complessa; alcuni di questi ricercare utilizzavano proprio
un unico elemento tematico; questo procedimento sarà spesso utilizzato nel corso del secondo
Cinquecento, e compositori come lo stesso Andrea Gabrieli – nonché di molti altri compositori
italiani di epoca successiva – verranno particolarmente influenzati da questa scelta formale.

LA FANTASIA_

La Fantasia molto ha in comune con il ricercare dal punto di vista della forma e dello stile, tant’è
che spesso la differenza risulta essere piuttosto sottile. I due generi vanno al più distinti da un
punto di vista sociologico: mentre il ricercare sembrava essere destinato in prevalenza allo studio e
all’apprendimento musicale, la fantasia era concepita perlopiù in funzione dell’esecuzione pratica.
Col termine di fantasia si soleva indicare estrosità d’ingegno inventivo; da un punto di vista
strutturale, essa era piuttosto libera e di carattere brillante e meno severo rispetto al contrappunto
strettamente imitativo e rigoroso del ricercare di cui si è parlato. Possiamo avere un’idea di questa
forma cinquecentesca grazie al racconto di Tomás de Santa Maria (?-1570), che così delinea i suoi
tratti caratteristici nella seconda parte del suo trattato “Arte de tañer fantasia” (Valladolid 1565,
città della Spagna nord-occidentale): invenzione, svariate possibilità – contrappuntistiche, ritmiche
e armoniche – di elaborazione del tema, concatenamento dei diversi passi che si susseguono,
alternanza fra consonanze e dissonanze, eleganza del discorso musicale. Si noti come, secondo
Santa Maria, il modello di base da seguire per la composizione di una buona fantasia, dovesse
essere quello imitativo adottato da J. Desprez.
La Fantasia era destinata – come il ricercare – a strumenti a tastiera e a pizzico e, come illustrato,
poteva dunque avere carattere di improvvisazione molto brillante (in relazione alla tecnica degli
strumenti cui era destinata) o stilata in scrittura polifonica con procedimenti imitativi dedotti dalla
polifonia vocale ma adatti alle possibilità tecniche e foniche degli strumenti. In seguito prevalse
una forma che potremmo definire mista: alternanza di episodi leggermente polifonici ad altri
omofonici o di carattere virtuosistico, con accenni a spunti melodici quasi di recitativo.
Nel corso del secondo Cinquecento, si affermò la tendenza a ridurre (tanto nella fantasia quanto
nel ricercare) il numero dei motivi di imitazione (che come si era precedentemente visto potevano
variare da tre a cinque), preferendo piuttosto aumentare il numero delle sezioni dedicate a
ciascuno di essi.
La Fantasia poteva inoltre prendere il nome di Preludio quando precedeva un altro brano, ad
esempio una Fuga.
Celebri compositori di Fantasia furono Frescobaldi, Purcell, Telemann, Froberger, ecc. Ma anche
Bach annovera nel suo repertorio fantasie a noi oggi molto note; egli soleva premetterle alle sue
grandiose fughe per organo (si veda il caso della Fantasia in SOL minore che precede la Fuga BWV
542).
Analoga alla Fantasia quanto al ricercare, ma di importazione spagnola, era il Tiento, anch’essa
forma musicale per strumenti solisti. Sebbene inizialmente si adottò questo nome per composizioni
musicali scritte per differenti strumenti come arpa, vihuela, clave o organo, a partire dalla fine del
secolo XVII si composero solo tientos per strumenti a tastiera, specialmente organo. Si tratta di
una forma musicale che tenta di esplorare le possibilità dello strumento, potendo considerarsi
come l'antecessore dello studio; di fatto a volte si ordinano con difficoltà crescente, come esercizio
di apprendistato tecnico. Fra i compositori importanti che lo coltivarono, si possono citare Antonio
de Cabezón (vedi sopra) , l’organista Francisco Correa de Araujo (1576-1654) e Juan Cabanilles
(1644-1712).

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IL CAPRICCIO_

Un’altra forma molto utilizzata nella seconda metà del XVI secolo, che in comune con il Ricercare
e la Fantasia aveva l’uso dei procedimenti costruttivi intesi a mettere in luce l’estro e l’ingegno
inventivo del suo compositore, fu il Capriccio.
Di carattere estroso, dunque, si svolgeva senza un prestabilito schema di struttura formale; molto
spesso esso risultava costruito da una successione di varie sezioni giustapposte e frequentemente
scritte in stile contrappuntistico, magari sullo stesso tema.
Le prime opere strumentali di questo tipo sono i “Capricci in musica a tre voci” (Milano 1564) di
Vincenzo Ruffo (1508-1587), compositore veronese che operò come maestro di cappella a Milano e
Verona. Nei suoi capricci si può riscontrare un’elaborazione tematica molto intensa; in alcuni di
essi, il tema viene presentato in diminuzione ritmica (1) progressiva (come nel Capriccio n. 7) o un
basso ostinato è ripetuto ogni volta in forma discendente di una seconda (Capriccio n. 3).

RICERCARE, FANTASIA E CAPRICCIO: AUTORI VARI_

Come si è detto, i più proficui compositori di ricercare furono senz’altro Andrea Gabrieli e
Claudio Merulo; ma anche Giovanni Gabrieli (1557-1612), nipote di Andrea, contribuì a lasciarci un
buon numero di composizioni di questo tipo.
In molti loro ricercare, possiamo trovare austerità e solennità, ritmi squadrati, pochi soggetti
abbastanza estesi e ampiamente sviluppati, oppure al contrario un unico soggetto che si intreccia
con una serie di controsoggetti. Al contrario, in quelli di Giovanni Gabrieli avremmo trovato una
particolare sensibilità armonica, il più delle volte orbitante su cardini rudimentali ma ben definiti;
e inoltre, progressioni basate su armonie del I-IV-V grado, e persino lunghe catene di modulazioni
del cosiddetto circolo delle quinte.
Non soltanto questi maestri veneziani furono abili nel maneggiare le strutture del ricercare, ma
anche i compositori napoletani seppero padroneggiare tale rigore contrappuntistico: lo
arricchirono di arditezze armoniche – catene di accordi cromatici, risoluzioni irregolari delle
dissonanze –, di ritmi nervosi e cangianti, di animate figurazioni melodiche nonché di una
particolare sensibilità per lo sfruttamento delle possibilità e dei caratteri timbrici specifici dello
strumento impiegato.
Fra i maggiori maestri della tradizione fiamminga che molto influenzarono i compositori
napoletani, fa capolino il francese Giovanni de Macque (1550-1614). Egli, trasferitosi nella capitale
partenopea intorno al 1585, operò come organista in varie chiese cittadine e dal 1594 sino alla
morte si trovò nella cappella della Corte Reale. Suoi allievi furono i napoletani Ascanio Mayone
(1565-1627) e Giovanni Maria Trabaci (1575-1647).
Di Trabaci in particolare, molto noti sono i suoi ricercare e i capricci, pubblicati nei due libri di
“Ricercate […]” (Napoli 1603 e 1615): oltre che essere retti da un solidissimo e severo impianto
polifonico, il ricercare di Trabaci sono caratterizzati dalla singolare compiacenza per alcune
dissonanze in forma di appoggiatura sui tempi forti (esempio: il ricercare “Ottavo tono sopra
Rugiero”). Altre peculiarità dello stile di Trabaci erano la predilezione per gli urti armonici
dissonanti, che eserciteranno un certo influsso anche su Frescobaldi.
Altra importante figura dell’ambiente napoletano (specie per quanto riguarda la ricca fioritura del
repertorio cembalo-organistico) è quella del compositore – napoletano di adozione – Antonio

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Diminuzione: si ricordi che con tale termine si suole intendere quel procedimento contrappuntistico in base al quale
un tema o un motivo veniva ripresentato con valori di durata delle singole note proporzionalmente diminuiti rispetto a
quelle della prima esposizione. Il termine diminuzione è il contrario di aumentazione e aggravamento.

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Valente (1565-1580). Pare che egli fosse cieco fin dalla prima infanzia; fu organista a Napoli presso
presso Sant’Angelo a Nido e la sua opera più importante è senz’altro “Intavolatura de cimbalo”.
Essa comprende praticamente tutti i generi allora praticati nella musica per strumenti a tastiera:
sei ricercare, una fantasia, tre canzoni, tre danze stilizzate, sette cicli di variazioni su melodie
preesistenti. Questa raccolta assume una sua rilevanza storica perché ha affermato, forse per la
prima volta, la distinzione fra stile cembalistico e stile organistico mediante una scrittura
idiomatica al cembalo – figurazioni diminutive, passaggi di velocità, abbondanti trilli non eseguibili
con facilità all’organo dell’epoca -. Molta affinità passa fra Valente e il suo contemporaneo Antonio
de Cabezón (1510-1566), spagnolo di origine (anch’egli pare fosse cieco dalla nascita), florido
compositore di musiche per tastiera, da alcuni anche definito il « moderno Bach spagnolo » (vedi
dopo).
Uscendo invece fuori dall’Italia, avremmo potuto trovare nei Paesi Bassi compositori di ricercare
e fantasie molto rinomati per l’epoca come lo fu Jan Pieterszoon Sweelinck (1562-1612), il quale
operò ad Amsterdam nelle vesti di organista. La sua arte fu nota non soltanto nel suo paese ma
anche in Germania e nel resto d’Europa, tanto che la sua influenza giunse persino a Bach. Le sue
fantasie e i suoi ricercare si distinguono quasi tutti per l’uso di un unico elemento tematico che si
mantiene prevalente e dominante su tutta la composizione, presentato poi in maniera sempre
diversa per aumentazione, diminuzione, inversione ecc., assieme a una moltitudine di controtemi.

Musica strumentale
Le forme: la Canzona.

Nei primi anni del Cinquecento, era molto in voga la trascrizione – in veste strumentale – di
chanson polifoniche vocali di stampo francese. In un primo momento, queste trascrizioni erano
state destinate solamente al liuto, come possiamo riscontrare nelle “Inatbulatura de lauto” di
Spinacino (1507), ed erano arricchite più che altro da passaggi ed elaborazioni varie. Col tempo,
questo genere di trascrizione così fedele all’originale fu abbandonata.
Trascrizioni, invece, per tastiere e strumenti d’insieme presero ad essere adottate solo dalla
seconda metà del Cinquecento.
La canzona, o come spesso veniva chiamata canzon francese, oppure aria di canzon, oppure –
più tardi – canzon da sonar, è un termine che spesso sarà usato come sinonimo di sonata. Essa
divenne uno dei generi di musica strumentale più diffusi ed ebbe un’influenza decisiva nello
sviluppo della sonata e del concerto.
A godere del massimo favore di elaborazione strumentale da parte dei compositori fu proprio la
chanson parigina, così definita in quanto il suo stile fu fissato (a partire dal 1530 circa) da
compositori nati o attivi a Parigi. Ricordiamo, del resto, che durante il Cinquecento la chanson
vocale francese aveva avuto modo di potersi diffondere grazie agli stretti rapporti tra Francia e
Italia: Francesco I di Francia aveva viaggiato spesso in Italia, stesso può dirsi per Renata di Francia
figlia di Luigi XII, che aveva sposato Ercole d’Este II, duca di Ferrara. Gli scambi culturali, e le
relative importazioni, furono dunque inevitabili.
La chanson parigina annoverava, fra le sue caratteristiche principali, la chiara inclinazione alla
musica a programma, ovvero alla musica finalizzata a cogliere gli elementi narrativi descrittivi del
testo poetico attraverso l’uso di una tecnica polifonica movimentata, caratterizzata da ritmi sillabici
e vivaci, nonché da richiami onomatopeici. Il primo rappresentante di questo genere è senza
dubbio Clément Janequin (1485-1558), ricordato in particolar modo per la sua “La Guerre, ou la
Bataille” (1528), brano di notevole ampiezza ispirato alla battaglia di Marignano del 1515 (anche
detta Battaglia dei Giganti) avvenuta per ottenere il controllo del Ducato di Milano da parte di

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Francesco I di Valois, re di Francia. La Bataille è ricolma di onomatopee ispirate ai rumori della
battaglia (imitazioni di trombe e tamburi, di agitazione della mischia, ecc.), e colpì così tanto
l’attenzione dei vari compositori da indurli, nel corso degli anni, a proporne innumerevoli
trascrizioni e libere parafrasi sia per strumenti soli (liuto e tastiera) che per complessi di strumenti.
Come accaduto per il ricercare e la fantasia, anche la canzona fu in un primo momento basata su
procedimenti di scrittura contrappuntistico-imitativa (lo stile omofonico, prima della fine del
secolo, fu raro). E, a differenza del ricercare, la canzone conservava alcuni tratti stilistici e formali,
più o meno evidenti, della chanson vocale: il tempo era implicitamente più veloce, con adozione
molto spesso di temi brevi presentati in stretti (cioè in entrate imitative ravvicinate), vi era largo
uso di temi iniziali con triplice ripetizione della stessa nota, e alternanza di sezioni a carattere
contrastante di misura binaria o ternaria.
A scrivere canzone per organo fu in particolar modo Cavazzoni nel suo “Intavolatura […] – Libro
Primo” (1543), in cui possiamo anche rintracciare brani rielaborati, per mezzo di parafrasi, sulle
chanson di J. Desprez.
A proseguire sull’ondata del modello a base francese fu anche Andrea Gabrieli, le cui canzoni
erano spesso suddivise in tre sezioni (iniziale, mediana, finale) e sfruttavano il procedimento –
molto usato nelle chansons – della imitazione a coppie: le voci superiori e le voci inferiori si
contrapponevano in coppie, con la seconda voce che imitava la prima, alternandosi nella
presentazione del tema. La sezione contrastante era quella mediana, dominata da motivi brevi in
scrittura omofonica accordale e da effetti di eco probabilmente derivanti dalla pratica in voga
all’epoca a Venezia dei cori spezzati. In tal senso, l’organo era lo strumento principe per la
realizzazione gli effetti d’eco. Una curiosità: in effetti, un primo vero accenno di segni di dinamica
non compare solo nella “Sonata Pian e Forte” (1597) di Giovanni Gabrieli, ma anche in una
canzone di Adriano Banchieri del 1596 dall’esauriente sottotitolo: “Echo”. Banchieri, infatti, si
premurò di apporre i simboli F e P per indicare il forte e il piano per meglio lasciar intendere il tipo
di effetto d’eco che voleva venisse realizzato dall’esecutore. In tal senso, una fonte più precisa in
merito ai precetti della prassi esecutiva della canzona strumentale era il manuale in due volumi
(1593 e 1609), indirizzato ai suonatori di tasto, dal titolo “Il transilvano” di Girolamo Diruta (che
ebbe per maestri nomi autorevoli come Zarlino Gioseffo e Claudio Merulo). Il manuale contiene
non soltanto una quantità di informazioni sulle diteggiature da adottare e le ornamentazioni da
praticare, ma offre anche utili consigli sul come mettere bene in evidenza il carattere distintivo,
gaio e slanciato della canzona, raccomandando più volte grazia, leggiadria e velocità
dell’esecuzione.
A scostare la canzona dalla cugina chanson francese su cui si fondava, fu proprio Claudio Merulo.
Nel suo “Canzoni d’intavolatura d’organo” la maggior parte delle canzoni recano nomi italiani,
come ad esempio “La Bovia”, “La Gratiosa”, “La Zambeccara”, ecc. (i nomi erano forse ispirati a
famiglie patrizie, oppure all’indole del brano stesso, o al semplice estro del suo esecutore). In
generale, nel caso di Merulo, le canzoni erano divise in più sezioni – da quattro a cinque – che si
differenziavano l’un l’altra non solo per l’invenzione tematica ma anche per il loro stile (quando
imitativo e quando accordale). E’ importante notare che l’adozione di questo principio formale,
cioè della suddivisione della composizione in più sezioni contrastanti e indipendenti l’una
dall’altra, condurrà poi alla distinzione e alla pluralità di vari tempi nella futura sonata
strumentale da chiesa.
Alcune delle canzoni di Merulo scritte per organo-cembalo erano forse state destinate, in un
primo momento, all’esecuzione polistrumentale, concepite fra l’altro senza riferimenti a modelli
vocali. Per questo motivo, tali canzoni, per essere distinte dalle loro sorelle maggiori, venivano

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chiamate canzoni da sonar. Nicola Vicentino (1511-1572) fu probabilmente uno dei primi a
concepire questo genere di canzoni per complesso strumentale.
In generale, in esse non vi avremo trovato (come del resto si è già precedentemente spiegato)
indicazioni sul tipo di strumenti da adottare, né la quantità. Si sa tuttavia che usualmente erano
destinata a complessi di strumenti ad arco o all’organo (canzoni di provenienza bresciana) oppure
agli strumenti a fiato sul genere dei cornetti, tromboni e cromorni (canzoni di provenienza
veneziana).
Fra le canzoni per complesso strumentale di Giovanni Gabrieli possiamo rintracciare la
coesistenza di due o più gruppi di strumenti che partecipavano all’esecuzione, sfruttati per
conferire contrasto sonora (come già avveniva, del resto, nelle composizioni vocali policorali, che
pure prevedevano l’impiego di strumenti). Questa configurazione strumentale permise l’abbandono
degli artifici contrappuntistici in favore di una scrittura perlopiù accordale e omofonica. In
particolare, le parti strumentali estreme assunsero un ruolo di preminenza, mentre quelle mediane
vennero ridotte a semplici ripieni sonori. E’ evidente che, in tal senso, la canzone strumentale
partecipò in maniera rilevante alle nuove tendenze della monodia vocale e alla prassi del basso
continuo. Le canzoni per strumenti di Gabrieli vennero pubblicate a Venezia nelle raccolte delle
“Sacrae symphoniae”, delle “Canzoni per sonare con ogni sorta di stromenti” (1608) e delle
“Canzoni e Sonate” (1615). Erano generalmente composte da un gruppo di strumentisti che variava
da quattro a quindici, per una media di otto parti circa; articolate in più sezioni d’una certa
ampiezza, a volte con cambiamenti di metro che invece erano rari nelle canzoni per tastiera,
avevano spesso una disposizione ciclica, cioè con una parte iniziale che veniva ripresa alla fine.
Alcuni degli episodi, spesso in ritmo ternario di danza, erano frequentemente ripetuti a modo di
ritornello. Solevano iniziare con una sezione imitativa in metro ternario, affidata al primo coro di
strumenti; al secondo, spettava una risposta in forma polifonica, oppure con un episodio in stile
omofonico basato su un nuovo tema. A seguire, sezioni di cori alternati, sfocianti perlopiù in un
episodio finale in stile omofonico, a cori riuniti, con qualche imitazione fra le parti estreme.
Gabrieli soleva poi condire il tutto con contrasti sonori, fra le varie sezioni, dettati da inserimento
di passaggi fioriti, formati da note a valori piccoli, affidati a pochi strumenti; oppure, creava
contrasto per mezzo dell’intensificazione ritmica per riduzione.
Probabilmente, Gabrieli fu il primo ad avvalersi del termine sonata per designare brani
strumentali di insieme. Spesso la differenza tra canzone e sonata diveniva così sottile da non poter
essere distinta (come accade per le “Canzoni e sonate” edito nel 1615, raccolta in cui i due termini
sono usati indifferentemente). Secondo Michael Praetorius (1571-1621) la differenza stava nel fatto
che « le sonate sono gravi e solenni, alla maniera dei mottetti, mentre le canzoni trascorrono
gaie, liete e rapide con molte note nere [ = a valori brevi ] ».
Possiamo infine riscontrare persino alcune somiglianze fra le sonate di Gabrieli e i ricercare per
organo dei suoi predecessori:

- il brano spesso comincia con la figurazione ritmica di una semibreve col punto seguita da
una minima;
- non si hanno cambiamenti di metro;
- è monotematica ed impiega numerosi episodi in stile imitativo.

Concludiamo sottolineando che in questo particolare periodo storico non è sempre facile cogliere
la distinzione fra la canzona e gli altri generi strumentali dell’epoca. Non pochi infatti sono i casi di
dubbio che si possono incontrare, come per i “Capricci, ovvero canzoni” (Milano, 1594) di Ottavio
Bariolla, o delle “Fantasie, ovvero canzoni alla francese” (Venezia, 1603) di Andrea Banchieri.

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Esistono persino casi di accostamenti della canzona alla fuga del repertorio tedesco, associazione
probabilmente dovuta al carattere imitativo che governava lo stile di molte canzoni tastieristiche,
specie quelle dei maestri napoletani e di Frescobaldi. In base a questa considerazione, dunque,
possiamo in fondo considerare anche la canzona, più o meno quanto il ricercare, il degno
precursore della Fuga che, con Bach, raggiungerà poi il suo massimo vertice e splendore.

Musica strumentale
Le forme: la Toccata.

Tanto quanto il ricercare, la Toccata agli inizi del secolo XVI condivideva con esso la funzione di
brano preludiante e introduttivo, dall’andamento libero e fantasioso, derivato da una ricerca
estemporanea sullo strumento. Il termine stesso si riferisce alla specifica maniera di realizzazione
sonora ottenuta mediante il toccare lo strumento.
Questa forma quasi esclusivamente strumentale (nello specifico, per strumenti a tasto) fu
dapprima applicata ai brani per liuto (avremmo potuto trovare la dicitura “tastar de corde” in tal
caso) e la “Itabulatura de Lauto – Libro Quarto” di Joan Ambrosio Dalza (metà XV secolo-1508)
costituisce un esempio, in tal senso.
Da un punto di vista tecnico, la Toccata è caratterizzata da rapidi passaggi contro accordi tenuti,
da ricchezza di figurazioni ornamentali e da una libera struttura formale; possiamo ritrovare queste
caratteristiche anche nei ricercare compresi nella raccolta “Ricerchari mottetti canzoni” del 1523 di
Cavazzoni, ma la più antica testimonianza dell’impiego del termine in una raccolta data alle stampe
si trova nella “Itabulatura de lauto de diversi autori” (Milano, 1536) ad opera di tale Giovanni
Antonio Casteliono.
Nella seconda metà del Cinquecento, la Toccata era il solo genere del repertorio da Chiesa,
coltivato specialmente a Venezia, destinato esclusivamente all’organo. Nelle Toccate di Annibale
Padovano (1527-1575), di Andrea e Giovanni Gabrieli, nonché anche di Claudio Merulo, avremmo
potuto riscontrare veloci passaggi a base di scale per una mano e accordi per l’altra, che inquadrano
una sezione mediana di semplice scrittura imitativa. Nelle opere a stampa di Gabrieli è anche
adoperato il termine di intonazione per denotare una forma miniaturizzata di toccata che serviva
esclusivamente per dare l’intonazione all’officiante o al coro, i quali avrebbero poi cantato il brano
vocale che seguiva alla Toccata stessa. Queste « intonazioni » erano quindi molto brevi (da 5 a 20
battute), con carattere pressoché improvvisativo, ma in ogni caso dotate di grande forza espressiva.
Solevano cominciare con due o tre battute di passi accordali, a cui seguivano scale rapide –
ascendenti e discendenti – contro note tenute. Considerata, tuttavia, la grande facilità di
improvvisazione (qualità molto richiesta in quel periodo, specie agli organisti di San Marco) per
queste intonazioni, poche sono le raccolte ad esse dedicate; probabilmente, la più nota è quella di
Andrea e Giovanni Gabrieli, “Intonazioni d’organo […] composte sopra tutti li dodeci toni della
musica” (Venezia 1593), al cui interno erano presenti per l’appunto trenta intonazioni. Banchieri,
invece, ci ha lasciato un trattato sulla maniera di improvvisare queste intonazioni, dal titolo
“L’organo suonarino” (Venezia 1605).
Parlando invece delle Toccate organistiche ad opera di Giovanni Gabrieli, che molto
probabilmente risalgono ai primi anni della sua gioventù, solevano cominciare con accordi tenuti
(caratteristica questa, in realtà, molto comune fra i maestri veneziani, un vero e proprio timbro di
fabbrica) per proseguire poi con brillanti passaggi do bravura affidati a una mano, con accordi di
triade del valore di una breve o semibreve eseguiti dall’altra mano. A volte, fra due sezioni
costituite da rapidi passaggi ornamentali, si poteva trovare una sezione mediana contrappuntistica,
di solito molto breve. Infine, per alleviare la monotonia ritmica dei lunghi passaggi rapidi, Gabrieli

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fece uso di pause, di progressioni melodiche e armoniche, nonché di trasposizione all’ottava di
motivi melodici.
Ma compositore realmente prolifico di Toccate per organo fu Claudio Merulo. Le sue Toccate,
stampate a Venezia fra il 1598 e il 1604, ci mostrano una notevole varietà della base armonica e
della figurazione ritmica, nonché un significativo avanzamento della struttura formale rispetto allo
stile toccatistico, che come detto soleva essere rigido e schematico, di alcuni suoi contemporanei
come lo stesso Gabrieli.
Fr ai più comuni processi compositivi adottati da Merulo, avremmo trovato l’interruzione del
libero gioco improvvisativo con sezioni scritte nello stile figurato del ricercare. Questa struttura,
formata da più sezioni (fino a cinque) fu determinante per il successivo sviluppo della Toccata,
specie di quella tedesca. Joan Jacob Froberger, Dietrich Buxethude (1637-1707) e Bach molto
saranno influenzati da questo genere di Toccata multisezionale, e ne amplieranno di molto la
struttura complessiva. Infine, Merulo adottò anche una grande varietà di figurazioni virtuosistiche,
spesso molto espressive, che compaiono in differenti ritmi (ottavi, sedicesimi, trentaduesimi,
talvolta anche puntati o sincopati). Al posto degli accordi tenuti e dellr apide scale sopra e sotto di
essi, prevalgono figurazioni che si susseguono a rotazione ora in questa, ora in quella parte. E’ un
esempio, in tal senso, la “Toccata Quarta, Secondo Tuono” tratta dalle sue “Toccate d’intavolatura
d’organo – Libro secondo” del 1604.
Ricordiamo, infine, che a volte le Toccate potevano prendere anche il nome di Preludio, o di
Intrada (da non confondere però quest’ultima con l’omonimo brano che fungeva da introduzione
al Balletto).

Musica strumentale
Le forme: la Fuga.

Il termine « fuga » (dal latino “fungere”: fuggire, rincorrere e quindi, in musica, il rincorrersi
delle voci) servì dapprima ad indicare il canone che è il più antico ed autentico capostipite di tutte
le forme in stile imitativo, conosciuto e praticato sin dal 1200. La ragione di tale scelta sta nel fatto
che nel canone un tema fugge davanti all’altro che ha lo scopo di rincorrerlo, senza mai
raggiungerlo: se le voci sono più di due, poi, l’effetto di questa rincorsa è ancora più evidente ed
efficace.
Sebbene la Fuga provenga dal canone, fra l’una e l’altra c’è una iniziale differenza tecnica basilare:
mentre infatti nel canone la risposta, cioè la stretta imitazione da parte della voce che entra dopo la
proposta, annunciata dalla precedente voce, può essere strutturata come inizio a qualsiasi
intervallo (infatti si possono avere il canone « alla seconda », « alla terza », « alla quarta », « alla
quinta », e così via), nella Fuga la risposta al soggetto sarà sempre e soltanto alla dominante (V
superiore o IV inferiore).
La Fuga si sviluppò nel XVII secolo dalle forme imitative del secolo precedente e del primo
Barocco, dunque – come si è già accennato – dalla Fantasia, dal Tiento, e soprattutto dal Ricercare.
In particolare, al differenza fra quest’ultimo e la Fuga sta nella diversità della componente
armonica di ambedue: mentre il ricercare è, in quel periodo, ancora saldamente vincolato al mondo
armonico modale, la fuga invece è di carattere decisamente tonale, connessa cioè strettamente con
la conquista della moderna tonalità. Se si considerano, le due composizioni dal lato architettonico,
ad ogni modo, si noterà che l’ultima fase evolutiva della forma del ricercare è simile – se non del
tutto identica – a quella della Fuga.

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La Fuga nasce come brano strumentale a sé, per strumenti polivoci, passando poi a far parte
anche di composizioni per orchestra e la si troverà quindi più in là come parte centrale
dell’Overture alla francese, nei movimenti allegri della Sonata da Chiesa, come brano concertante
nei Concerti Grossi, fino ad estendersi anche al campo vocale delle Cantate, negli Oratori, nelle
Messe (specie il Kyrie, le parti finali del Gloria e del Credo, del Sanctus, ecc.), nonché come
eccellente esemplificazione di scienza ed arte contrappuntistica e formale in grandi raccolte quali
“Il Clavicembalo Ben Temperato” (Vol. I e II), “L’Arte della Fuga”, e le grandi Fughe per organo di
J.S. Bach. E’ proprio con Bach che si giunse alla perfezione costruttiva ed espressiva della Fuga.
Volendo affrontare un excursus storico, dobbiamo dire che la grande effervescenza di questa
forma musicale avvenne prettamente nel Barocco; nel periodo Classico perdette un po’ della sua
autonomia e popolarità anche perché i compositori cercarono di irretirla nella forma Sonata e di
adattarla alla struttura di quest’ultima, nonché perché si tentò di dare ad essa un certo contenuto
poetico e programmatico (come nel caso di Beethoven). Anche i compositori tardo-romantici, come
Liszt, Franck, Reger, ecc., trattarono la Fuga come composizione a sé, dando ad essa dimensioni
non comuni, mentre compositori del neo-classicismo come Hindemith, Strawinskj, ecc., cercarono
di adattarla ai loro canoni estetici.
L’arte contemporanea ha ripreso interessa per la Fuga, interesse quasi completamente perduto
verso la fine del secolo scorso, sebbene non sia trattata come brano a sé ma inclusa in opere di più
ampie dimensioni, stilata in forma più libera pur mantenendo inalterate le sue basilari norme
architettonico-compositive.

Soffermiamoci ora sulla personalità stessa della Fuga: essa è una composizione di stile polifonico
sviluppata su di un tema principale secondo un proprio schema formale. Tre sono i caratteri
preminenti della Fuga:

a) anzitutto lo stile polifonico, inteso nel senso più stretto ed univoco della parola, quindi non
un semplice stile imitativo occasionale ma un continuo dialogo fra le parti (dette voci) che si
imitano, si rincorrono, riprendono lo stesso tema o i vari suoi frammento, per concludere
poi alla fine – pressoché sempre – con un serrato e vivace interloquire fra di esse.
b) forma tripartita: comprende cioè tre parti ben caratterizzate fra loro, anche se spesso non
nettamente distinte. Esse sono: l’esposizione, lo sviluppo (formato da divertimenti) e la
riesposizione).
c) unicità tematica: la Fuga è la composizione tematica per antonomasia. Tutto in essa è
imperniato sul tema principale e, in subordine, a qualche tema secondario (parliamo in tal
caso di fuga doppia, oppure tripla, ecc. Un esempio, in tal senso, è la Fuga in FA# minore,
Libro II del “Clavicembalo ben Temperato” di Bach). Pertanto, lo sviluppo avviene e deve
avvenire rigorosamente solo sui suddetti temi.

Esaminiamo allora i vari elementi costitutivi della Fuga. Anzitutto, il soggetto. Esso è il tema
fondamentale, generatore della Fuga che, proprio per la sua basilare importanza, veniva sempre
impostato in una data tonalità, chiaro e incisivo, originale in modo da essere facilmente
riconosciuto e reperibile nel groviglio polifonico delle voci. Anticamente, soleva essere anche
denominato dux, cioè condottiero. Usualmente il tema non è molto lungo e si presenta senza alcun
sostegno armonico né contrappuntistico (è raro che accada il contrario, a meno di un soggetto
fortemente modulante, nel qual caso la lunghezza avrà la funzione di specificare meglio queste
modulazioni). Una vera e propria presentazione in pompa magna.

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Occorre ora definire il ruolo della risposta: essa è la ripresentazione del soggetto da parte di
un’altra voce, che entra successivamente in relazione alla proposta fatta dalla precedente. Pertanto
il soggetto veniva riprodotto, come risposta, nella tonalità della dominante: se il soggetto era in RE
maggiore, la risposta era in LA maggiore. E così via. Se il tema iniziava invece in tonalità minore,
ad esempio LA minore, la risposta era tipicamente al relativo tono maggiore, cioè nel caso specifico
DO maggiore. A volte, la risposta veniva anche denominata « comes » (cioè conseguente. Retaggio,
probabilmente, del canone). Si potevano avere vari tipi di risposta:

- reale: quando in essa gli intervalli costituenti la melodia del soggetto sono riportati, nel
tono della dominante, assolutamente identici;
- tonale: quando qualcuno di essi, o più di uno, viene mutato nella risposta in un altro
intervallo, pur restando essa globalmente nella tonalità della dominante. Questa operazione
era anche definita mutazione. Un esempio di Fuga tonale è la Fuga in SOL minore tratta dal
“Clavicembalo Ben Temperato” (Libro I) di J.S. Bach.

In base alla scelta del tipo di risposta, anche la Fuga poteva prendere il nome di fuga tonale o di
fuga reale. In alcuni casi, la risposta doveva essere necessariamente reale (se il soggetto iniziava e
finiva con la tonica senza giungere alla dominante, oppure se pur toccandola o oltrepassandola non
la fissava decisamente, cioè totalmente) o tonale (se il soggetto iniziava con la dominante, o si
portava subito su di essa, o se modulava subito alla dominante).
Altro elemento di fondamentale importanza, nella Fuga, è il controsoggetto. Il termine stesso
indica, nella sua etimologia, un elemento tematico – anche se non di primaria importanza – che è
in qualche modo contrapposto al soggetto, con caratteristica di essere riconoscibile sia
figurativamente (in base al valore metrico delle note), sia melodicamente, dal soggetto. Il
controsoggetto va in fondo visto come una logica conseguenza del soggetto, quasi derivante da
esso, una sorta di promanazione. Può essere strutturato dal compositore in contrappunto doppio
all’ottava, cioè che possa – senza alcun errore armonico o contrappuntistico – alternarsi di
posizione sopra o sotto con il soggetto e, s’intende, con la relativa risposta. Dopo la sua necessaria
presenza nella parte espositiva della Fuga, il controsoggetto compare, nel corso di essa,
accompagnandosi al soggetto o alla risposta, ma non obbligatoriamente. Essendo esso un elemento
tematico di un certo interesse, può anche fornire la base di eventuale divertimento o anche di
eventuale stretto, non in sostituzione ma in aggiunta a quello del Soggetto. Ricordiamo che
potevano coesistere anche più controsoggetti, e il secondo in ordine di apparizione poteva persino
sostituire del tutto il precedente.
Ulteriore elemento della Fuga è la Coda. Rappresenta un elemento di aggiunta a qualcosa di
importante, in questo caso è un breve tratto melodico, spesso presente nell’esposizione ma non più
necessariamente nello svolgimento della Fuga, e che posto alla fine del soggetto può servire a
collegare, nella medesima voce, il soggetto stesso all’inizio del controsoggetto, o ad immettere la
necessaria modulazione verso il tono di dominante in cui si presenterà la risposta.
Esistono poi le parti libere: quando infatti una voce ha esaurito il suo compito continuerà il
colloquio con le altre voci con spunti melodico-contrappuntistici che non alterino il logico fluire
musicale sia della propria singola parte sia che relazionata alle altre voci presenti. E’ dunque da
notare e da tenere ben presente il modello con cui, nella Fuga, le voci si presentano di volta in volta,
un modello che potremmo definire quasi a cascata: entra la prima voce (soprano, usualmente, ma
non è una regola costrittiva) che espone il soggetto, poi il controsoggetto e prosegue la sua linea
esponendo “liberamente” elementi melodico contrappuntistici che completano ed arricchiscono
l’ordito musicale. La seconda (contralto, che in tal caso rappresenta la risposta, col soggetto alla

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dominante) entrerà non appena la prima avrà terminato di esporre il soggetto, proseguendo poi il
suo itinerario secondo lo stesso schema seguito dalla prima voce (controsoggetto, parte libera). La
terza voce (tenore) entrerà appena la seconda avrà terminato di esporre il soggetto alla dominante,
stavolta riesponendo tale soggetto alla tonica (come aveva fatto la prima voce) e proseguendo poi lo
stesso iter della prima e della seconda voce (controsoggetto, parte libera). Analoga sorte toccherà
alla quarta voce (basso), che esporrà il soggetto alla dominante. Qui di seguito è riportato lo
schema delle entrate nella Fuga:
surian, vol. II, pagina 259

Veniamo ora alle fasi, ai momenti della Fuga: esposizione, sviluppo, ripresa. Da tale
organigramma si rivela una certa somiglianza tra le forme della Fuga e quella del I tempo della
Sonata classica: ambedue infatti sono tripartite e le loro rispettive parti hanno la medesima
funzione pur se con una basilare differenza, ovvero mentre la Sonata è bitematica, la Fuga è
monotematica. Certamente, poi, potremmo riscontrare ulteriori differenze analizzando lo stile,
l’armonia, il contenuto, la dialettica interna, ecc.

- ESPOSIZIONE: è la fase iniziale della Fuga in cui vengono proposti, ordinatamente, tutti gli elementi che
abbiamo appena citato, elementi che saranno poi alla base dello Sviluppo. Come abbiamo accennato sopra,
la Fuga va da un minimo di 2 voci a un massimo di 5; la consuetudine è data dalla via intermedia, e cioè
dall’avere 4 voci: soprano e contralto (sezione femminile), tenore e basso (sezione maschile). Si ricordi che
soprano e tenore vengono anche classificate come voci acute della Fuga, mentre contralto e basso sono le
voci gravi. L’esposizione, dunque, procede presentando (come riporta lo schema poco più sopra) il soggetto
per mezzo delle entrate delle varie voci; con Bach assistiamo tuttavia all’introduzione, pressoché in tutti i
casi, di un momento di distensione chiamato divertimento breve prima di riagganciare il soggetto al tenore.
- SVILUPPO: è il momento in cui, in conclusione della presentazione del soggetto per mezzo delle voci, il
materiale esposto viene elaborato per mezzo di progressioni modulanti e relative possibili imitazioni,
sfociando abitualmente in una tonalità vicina in cui comparirà il soggetto (o la risposta) con il relativo
controsoggetto. Saranno proprio gli elementi che più hanno suscitato un interesse nel suo compositore ad
essere elaborati nello Sviluppo. Senz’altro, questa fase rappresenta uno dei momenti più delicati della Fuga,
nel quale si può rischiare di cadere nella monotonia più sconfortante e nella freddezza più meccanica,
dunque i divertimenti proposti possono comprovare senz’altro l’autentica inventiva, più o meno fertile e
geniale, del compositore. Fra i vari procedimenti adottati in questa fase della Fuga, compaiono senz’altro
l’intervento del tema in forma aggravata o diminuita, o per moto contrario, per moto retrogrado, nuovi
controsoggetti, tutto ciò insomma che possa contribuire a rendere interessante, nuovo e attraente il dialogo
fra le varie voci della Fuga. Si noti, in merito al soggetto, che esso può in ogni caso essere ripresentato nello
Sviluppo – così come i vari altri elementi – anche in tonalità, seppur transitorie, più lontane.
- RIPRESA: giungiamo infine alla Ripresa, momento in cui si ritorna obbligatoriamente alla tonalità di base,
quella iniziale, nonché ad una ripresa totale o parziale anche degli elementi presentati nell’Esposizione. La
voce che riannuncia il soggetto, infatti, non è praticamente mai da sola, ma accompagnata dalle altre voci
che magari stanno ancora continuando il loro discorso, prima di raccordarsi anch’esse. Frequenti sono, in
questa fase, gli stretti, momenti in cui il soggetto viene presentato dalle voci in una cascata fragorosa e
ravvicinatissima, quasi affannata, l’una a ridosso dell’altra. Prima della chiusa finale, inoltre, si presenta di
solito anche un pedale di tonica (preceduto o meno da quello di dominante) sul quale viene ripreso il tema
per intero nella tonalità base, con frequente cadenza plagale. Vi sono casi in cui il pedale può essere anche
doppio, cioè di tonica e dominante insieme.

Si osservi che un altro dei tratti salienti della Fuga è costituito dalla assoluta parità delle voci che
la compongono. In un passo del trattato “Sistema per costruire Fughe” (Offenbach, 1818) il teorico
Georg Joseph Vogler così riassume molto chiaramente il senso della scrittura fugale:

La Fuga è una conversazione fra un insieme di voci […] è pertanto un’opera d’arte in cui nessuno accompagna,
nessuno prevale, nessuno ha un ruolo secondario, ma ciascuno ha una parte principale.

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Si tenga ben presente, inoltre, che il modello di Fuga qui sopra esposto obbedisce, per così dire, a
una schematizzazione scolastica, in cui ogni elemento è presente ed elaborato secondo regole
rigide. Ma nella realtà (e soprattutto quando a comporre Fughe era il sommo Bach) non sempre
questi schemi venivano rispettati integralmente. Le Fughe per clavicembalo ed organo contenute
nella “Arte della Fuga” di Bach, del resto, rappresentano in tal senso proprio un esempio di Fuga
per così dire artistica, non rigida, ma allo stesso tempo non priva degli elementi caratteristici che
contraddistinguono questa forma musicale tardo cinquecentesca.

Come alcuni ricercare/fantasie del XVI-XVII secolo, molte Fughe di Bach furono concepite con
finalità didattiche (per dimostrare in che maniera si potesse padroneggiare bene il rigore del
contrappunto sapiente), destinate ai figli alla moglie e agli allievi. Fra questi lavori figura per
l’appunto la monumentale raccolta del “Clavicembalo Ben Temperato (ovvero Preludi e Fughe
attraverso tutti i toni e semitoni)”; storicamente, esso fu completato nel 1722 – Primo Libro – e nel
1744 – Secondo Libro – sfruttando pezzi in parte già scritti precedentemente. E’ evidente l’intento
di Bach di sfruttare tutte le possibilità tecniche offerte dagli strumenti a tastiera a suono fisso
(come il cembalo, il clavicordo, la spinetta e l’organo che i tedeschi con unico termine indicavano
con Klavier) di suonare in tutte le tonalità con l’aiuto del sistema di accordatura cosiddetto
temperato o equabile. Tale sistema fu concepito allo scopo di superare le differenze di intonazione
esistenti fra diesis e bemolle negli strumenti a tastiera: l’ottava fu così divisa in dodici semitoni
uguali (il diesis è quindi enarmonicamente equivalente al bemolle), senza distinzione fra diverse
grandezze di semitoni, e fra toni « grandi » e « piccoli » su cui in precedenza era basata la scala
naturale del sistema modale ecclesiastico. A proporre questo genere di accordatura equabile
furono, come potremo ricordare, Vincenzo Galilei (1520-1591) nel suo “Discorso intorno all’opere
di Zarlino Gioseffo (Firenze, 1598) e Giovanni Maria Artusi (1540-1613) nel suo “L’Artusi, overo
Delle imperfettioni della moderna musica” (Venezia, 1600). Anche l’organista luterano Andreas
Werckmeister (1645-1706) diede un importante contributo in tal senso per merito del suo trattato
“Temperamento musicale” (Francoforte-Lipsia, 1691).
Fra gli autori che prima di Bach sperimentarono sul piano pratico il sistema di intonazione
equabile figura Johann C. F. Ficher (1670-1746), autore della raccolta “Adriadne musica” (1702)
che certamente servì da modello al Clavicembalo Ben Temperato dello stesso Bach: la raccolta,
infatti, comprende una serie di preludi e fughe per organo disposti in venti tonalità.
E proprio parlando del CBT, in esso alcuni preludi svolgono una funzione introduttiva alle fughe,
ove l’esecutore è posto di fronte ad una mirabile varietà di atteggiamenti stilistici e tecnici della
scrittura tasti eristica: alcuni hanno il carattere della Toccata (esempio: Preludio 21, Libro I), altri
sono concepiti come invenzioni a due (esempio: Preludio 11, Libro I) o a tre voci (Preludio 9, Libro
I), altri ancora sono concepiti nello stile arcaico del ricercare (come il Preludio 6 del Libro I). Nel
Libro II, inoltre, i Preludi hanno una maggiore ampiezza e Bach riserva loro una speciale
attenzione per la struttura bipartita (che nel Libro I avremmo invece trovato solamente nel
Preludio 24), in particolare ai Preludi nr. 2, 5, 8, 9, 10, 12, 15, 18, 20, 21).
“L’Arte della Fuga” è invece l’opera di Bach in cui egli dimostra di saper unire la più esperta
padronanza della tecnica contrappuntistica – secondo il concetto antico di ars musicale intesa
come « scienza » - a un’impareggiabile spontaneità e ad una quantità espressiva inconfondibile.
Nella partitura autografa del 1740-42 mancavano indicazioni circa l’organico, il tempo e la
dinamica, e il titolo originale fu apposto solamente dal genero e allievo di Bach, J. Christoph
Altnikol (1719-1759). L’opera fu ad ogni modo concepita per lo studio e destinata ai perfetti
conoscitori dei sistemi contrappuntistici più complessi e rigorosi. Complessivamente, si

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componeva di 19 brani tutti basati su di un unico tema, o su una sua trasformazione, e arrangiati in
ordine di complessità sempre crescente:
- 14 contrapuncta (ovvero fughe semplici);
- 4 canoni
- 1 fuga finale a 3 soggetti, il terzo dei quali viene annunciato alla battuta 193 sulle note che,
secondo la nomenclatura tedesca, corrispondono al nome di Bach (B = SIb, A = LA, C = DO,
H = SI).

Dobbiamo infine concludere specificando che esistono vari tipi di Fuga o, per meglio specificare,
la Fuga ha lasciato nel corso della storia varie tipologie, varie forme, vari surrogati di Fuga.
Nella fattispecie, in letteratura, possiamo trovare:

a) Fugato: breve pezzo a sé stante o soltanto un episodio, inserito nell’ordito di una


composizione strumentale, vocale o orchestrale di più ampie dimensioni, di stile
strettamente contrappuntistico con le caratteristiche specifiche, per le varie entrate delle
voci, della esposizione di una Fuga. Usualmente, tuttavia, in essi è appena accennato lo
sviluppo, ma certamente è assento ogni forma di riesposizione. Uno degli esempi più noti di
questo genere è quello dell’episodio in DO Maggiore (Trio) dello Scherzo della V Sinfonia di
Beethoven che, nell’ambito delle misure 141-235, oltre alla dovuta esposizione, aggiunge
una quasi contro-esposizione ed accenna anche ad un lieve sviluppo. Lo stile fugato deriva
dunque da quello usato nella Fuga e cioè, pur senza l’apparato formale della Fuga, si svolge
in uno stile contrappuntistico in cui predomina l’imitazione piuttosto stretta e continua.
b) Fughetta: è una fuga di limitate proporzioni, cioè una fuga in miniatura. Con numero
limitato di voci (da due a tre) anche l’esposizione è di non lunga portata; uno sviluppo quasi
appena accennato con pochi divertimenti e questi di piccole dimensioni, ed infine un
embrione di ripresa.
c) Fughe doppie, triple e quadruple: oltre a quelle abituali ad un solo soggetto, infatti,
esistono anche altre a più soggetti, fino ad arrivare persino a fughe quadruple.
Considerando il numero molto elevato dunque di soggetti, è necessario che essi siano
strutturati secondo le regole del contrappunto doppio, triplo o quadruplo. Possiamo
trovare Fughe a due soggetti nelle opere di Bach (CBT, Volume I, nr. 19), nel Requiem di
Mozart, nel Gradus ad Parnassum di Clementi (Studio nr. 54). Meno frequenti quelle triple,
che possiamo trovare nel CBT Volume II, Fuga nr. 14. Ancor più rare, poi, quelle quadruple.

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