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https://it.wikipedia.org/wiki/Ludwig_van_Beethoven
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mero_d’opera
Sinfonie
https://www.youtube.com/watch?v=KQRBOr4L-yk
https://www.youtube.com/watch?v=USHg3KypLv8
https://youtu.be/y1vGCGh-IxU?list=TLPQMTgwOTIwMjCOori6CWEYdA
https://www.youtube.com/watch?v=4C3eAbYFTHo&list=PLYiZl0A2kNDU-JMqvdBh-
hjP6W-DTvNa8
Op. 21 1800
Sinfonia n. 1 in do maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=EVKdd-gI_aQ
https://www.youtube.com/watch?v=CplmVMyPH80
Beethoven soleva mandare avanti più composizioni alla volta, maturandole ciascuna
lentamente. Questo non va inteso nel senso che il lavoro vero e proprio di composizione
durasse molti anni; ma sì la decisione sui temi fondamentali delle varie opere. Possiamo
intenderlo dai numerosi taccuini di appunti musicali che di lui ci sono rimasti, qualche volta
accompagnati da annotazioni. Questi appunti e annotazioni non portano date; ma spesso le
date possono essere, almeno, delimitate dall'ordine in cui si presentano: trovando, per esempio,
il tema di un'opera eseguita per la prima volta in un dato anno fra appunti relativi a un'altra
apparsa sei ami avanti, possiamo stabilire che quel tema era stato concepito almeno sei anni
avanti alla sua utilizzazione definitiva.
Per quanto riguarda la Prima Sinfonia, abbiamo degli abbozzi che chiaramente (se non
letteralmente) prefigurano il tema principale del suo finale e, un po' meno chiaramente, quello
del primo tempo, e che risalgono a non oltre il 1794-95. Ora questo non ci dice esattamente
quando questa sinfonia, per la prima volta eseguita il 2 aprile 1800, fu composta; ci dice però
che non fu scritta al modo delle sinfonie di Mozart, il quale compose le sue tre ultime, e
maggiori, nello spazio complessivo di un mese e mezzo.
L'esecuzione della Prima Sinfonia ci dice anche che Beethoven non ancora trentenne, aveva
già conquistato rinomanza e autorità; perché fu data al Kärtnertortheater (Teatro di Porta
Carinzia), cioè all'Opera Imperialregia; e in un concerto a suo beneficio in cui, oltre a due
pezzi dell'oratorio La Creazione di Haydn e a una sinfonia di Mozart, si dettero dì Beethoven,
oltre alla Prima Sinfonia, un concerto per pianoforte e orchestra (non sappiamo se il primo o il
secondo) e il Settimino. Inoltre Beethoven improvvisò al pianoforte sul tema dell'Inno
Imperiale di Haydn.
La Prima Sinfonia, in do maggiore, è assai vicina a Haydn, più che a Mozart; ma già mostra
alcuni tratti innegabilmente nuovi, cioè puramente beethoveniani. Nel primo tempo per
esempio, scritto in forma-sonata, si possono dire di sapore haydniano il tema principale, e
anche il fatto che questo tema abbia forti parentele col secondo tema e con il "ponte" che lega
l'uno all'altro: giacché la prassi di derivare il secondo tema dal primo è tipicamente haydniana.
Ma già Beethoven si annuncia nel sorprendente inizio dell'introduzione ",adagio molto" (un
accordo di settima dominante nel tono di fa, dunque diverso dalla tonalità principale) - nel
fatto che nel primo tema il moto ascensionale degli archi è interrotto ogni volta da un indugio
imposto dagli strumenti a fiato - nel breve sviluppo in minore del secondo tema che segue
immediatamente, oscurandola, l'enunciazione del tema stesso - infine in non pochi momenti
della seconda sezione (sviluppo).
Una reminiscenza mozartiana è nel tema principale del secondo tempo (Andante cantabile con
moto, in fa maggiore), che ricorda molto nettamente quello del secondo tempo della Sinfonia
in sol minore, uno dei culmini di tutto Mozart. Mozart è anche evocato in una soavissima
modulazione che conduce lo sviluppo in una tonalità lontana (re bemolle) con casta gentilezza;
ma Haydn è ancora presente nel fatto che, anche qui, il secondo tema deriva nettamente dal
primo. Questo tempo è in forma-sonata come il primo; ma abbiamo già rilevato il diverso
carattere che la forma-sonata assume anche in Beethoven, nei brani di carattere lirico, nei quali
ogni contrasto radicale fra tema e tema è esitato: com'è qui il caso. La soluzione del brano è
sorridente, in tono quasi settecentesco.
La gran novità di questa sinfonia è il terzo tempo; che Beethoven intitola minuetto ma che
minuetto non è più. Come abbiamo visto, il minuetto era la stilizzazione d'una sopravvivenza
arcaica, un diversivo ",leggero" nella cornice severa della sinfonia. Beethoven porta la
stilizzazione oltre, conservando lo schema formale del minuetto; ma tramuta la sua fisionomia
di danza atteggiata e cerimoniosa in un'altra mossa e scapigliata.
Lo scherzo si distingue nettamente dal minuetto per il tempo più rapido che porta a doverlo
battere in uno anzi che in tre; in altri termini, è in metro ternario come il minuetto, ma ha un
solo accento al principio della battuta mentre nel minuetto sono percepibili accenti secondari
sul secondo e terzo tempo (che infatti corrispondono, nel danzare, ad altrettanti "passi"). Il
minuetto passeggia, lo scherzo vola. E questo implica un'ispirazione tematica d'altro genere, e
sviluppi corrispondenti. Lo scherzo della Prima Sinfonia ha infatti un tema impetuoso, che
nessuno prenderebbe mai per un tema di minuetto; e che modula subito, capricciosamente e
nervosamente, in tonalità lontane, per tornare altrettanto improvvisamente alla tonalità
principale. Il trio (s'è detto che lo schema formale dello scherzo è lo stesso del minuetto, già
descritto nel capitolo sulla "Wienei Klassik", dunque comporta un trio) è nello stesso tono
della prima parte (cioè in do maggiore), e ha ritmo più molle e distensivo, com'è nella
tradizione del minuetto; ma diversamente che in questa conclude in modo energico.
La Prima Sinfonia è l'unica che appartenga chiaramente alla prima maniera di Beethoven. Che
tuttavia non confonderemo come una fase di apprendistato, di incertezza. Anche se di livello
inferiore alle sinfonie successive, e ai capolavori di Haydn e di Mozart, la Prima Sinfonia è
pur sempre una cosa in sé perfetta e compiuta: l'opera d'un maestro. Per prima maniera di
Beethoven non s'intende infatti qualcosa di manchevole: soltanto, il periodo in cui gli elementi
propriamente originali di Beethoven coesistono con altri, invece, ricevuti, e adottati come tali.
Tuttavia l'amalgama fra vecchio e nuovo è completamente riuscito, non suona mai come
eclettismo: noi distinguiamo, oggi, gli elementi vecchi dai nuovi soltanto perché conosciamo il
Beethoven di poi, quello nel quale ogni elemento ricevuto è trasformato e rivissuto sul piano
del ",nuovo". Ma in sé moltissime opere della prima maniera di Beethoven possono essere
tranquillamente riguardate come perfette, e legittimamente formano ancora oggi, per i
frequentatori di concerti, altrettante gioie senza ombra.
Fedele d'Amico
Un monumento rivoluzionario, una vera e propria pietra di paragone ineludibile per tutti i
compositori che volessero cimentarsi nel genere della sinfonia; così fu inteso dai
contemporanei e dai posteri il corpus sinfonico di Ludwig van Beethoven; e non senza motivo,
poiché l'impegno di Beethoven nel campo sinfonico valse a trasformare nel volgere di pochi
lustri la sinfonia da genere di intrattenimento, destinato a un pubblico di ascoltatori
specializzati, a veicolo delle più profonde riflessioni dell'autore, rivolto verso un'utenza
idealmente universale.
È noto peraltro che l'ingresso a pieno titolo di Beethoven nel mondo della sinfonia (dopo una
prova giovanile risalente ancora al periodo formativo di Bonn, nota come "Sinfonia di Jena"
dal luogo del rinvenimento del manoscritto; e dopo altri abbozzi minori) avvenne nel segno
della continuità con il passato. Collocata all'apertura del nuovo secolo (la prima esecuzione è
del 2 aprile 1800, e si calcola che la gestazione sia durata circa un anno; la prima edizione a
stampa, in parti staccate, fu effettuata a Lipsia nel 1801 da Hoffmeister e Kühnel) la Sinfonia
n. 1 guarda in realtà verso il secolo appena concluso, verso quell'ambiente di squisiti
intenditori di estrazione aristocratica e alto-borghese che si riuniva nei palazzi gentilizi
viennesi per dar luogo alle lunghissime e composite "accademie" musicali (alla prima
esecuzione la Sinfonia op. 21 fu preceduta, fra l'altro, da un Concerto per pianoforte, forse il n.
1, e dal Settimino per archi e fiati).
Il carattere "conservativo" della Prima Sinfonia, riconosciuto da tutti gli esegeti, deve essere
considerato una precisa scelta da parte del compositore che, prima di questo ventunesimo
lavoro del suo catalogo, aveva già dato alle stampe lavori pianistici e cameristici di portata
rivoluzionaria, fra i quali basterà citare le due Sonate per violoncello opera 5 e la Sonata per
pianoforte opera 13. Ancora al passato, per molti versi, guardavano invece i sei Quartetti
dell'opera 18; e non a caso il genere del quartetto e quello della sinfonia erano considerati dai
contemporanei come i generi più "alti" concettualmente e più complessi tecnicamente fra
quelli che un compositore poteva affrontare.
Nasce proprio da questa considerazione la cautela del giovane Beethoven nel rinnovare il
genere sinfonico. Prima di cimentarsi nel radicale rinnovamento della sinfonia (i primi abbozzi
dell'"Eroica" sono del 1802, appena due anni più tardi) il compositore doveva dimostrare di
essere perfettamente in grado di rispettare i modelli augusti dell'età del Classicismo, Mozart e
Haydn (e va rilevata la dedica della partitura al barone Gottfried van Swieten, il mecenate
olandese che aveva introdotto Mozart allo studio di Händel e Bach e che aveva fornito a
Haydn i testi per i suoi tardi oratori, La Creazione e Le Stagioni), Anzi, più che al forte
soggettivismo delle ultime tre Sinfonie di Mozart, Beethoven si volse ai frutti maturi
dell'esperienza sinfonica haydniana, a quelle Sinfonie "londinesi" che erano nate in stretto
contatto con un pubblico pagante, e che forse anche per questo motivo erano segnate dal gusto
del continuo "stupore", della ingegnosa trovata che tenesse sempre desta l'attenzione
dell'ascoltatore (anche l'organico orchestrale della Prima è lo stesso che nelle ultime Sinfonie
di Haydn: archi e timpani più coppie di flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni e trombe).
E infatti proprio in quest'ottica è giusto leggere la Prima Sinfonia di Beethoven; non senza
rilevare che questo gusto dello "stupore", pur sempre legato all'estetica dell'intrattenimento,
varca in realtà non di poco i confini delle "buone maniere", ai quali si era sempre
scrupolosamente attenuto Haydn. Come dire che, nel riallacciarsi ai modelli di un passato
prossimo, Beethoven non mancava di esibire l'intemperanza verso le regole, l'urgenza
dell'evasione verso altre e più ambiziose prospettive.
Esempio lampante di questa logica "ribelle" è l'introduzione lenta al primo movimento, che si
apre, contro ogni regola, su un accordo dissonante (cioè non in una situazione statica, di
riposo, ma in una situazione dinamica), e che evita di affermare perentoriamente la tonalità
d'impianto anche nella levigata melodia che segue, esposta dai violini. Il primo tempo
prosegue con un vasto Allegro con brio, che è internamente innervato dall'energia propulsiva
del primo tema (una semplice cellula di tre note presentata dai bassi), rispetto al quale la
seconda idea (esposta da flauto e oboe) costituisce poco più che un diversivo; quasi
interamente al primo tema, infatti, sono affidate la sezione dello sviluppo e la coda fragorosa
che chiude il movimento. Beethoven riprende tutti gli artifici dello stile "sinfonico" dei
viennesi, ma secondo una irruenza peculiare; come peculiare è anche la nitida affermazione
dei temi nell'esposizione, la loro massima elaborazione nella sezione centrale dello sviluppo.
Direttamente legato ad Haydn è il tempo lento, Andante cantabile con moto, aperto da un tema
di canzone esposto dai violini soli; infatti predominano nella pagina una leggerezza di
espressione, un garbo espositivo, una chiarezza assoluta di scrittura in cui manca del tutto
l'impronta di soggettivismo; la nitidezza dell'impulso ritmico è sottolineata in modo ricercato
dall'uso del timpano. Ben più personale il Minuetto, che, con l'irruenta propulsione, il
fraseggio asimmetrico, gli sbalzi dinamici, è in realtà il prototipo dello Scherzo beethoveniano.
Il Trio è tutto basato sulla contrapposizione fra archi e fiati.
Come nel tempo iniziale, anche il Finale si apre con un esordio a sorpresa: un forte unisono di
tutta l'orchestra viene seguito da brevi e "singhiozzate" scalette dei violini in pianissimo; un
effetto di sospensione che sfocia infine nel brillantissimo Allegro molto e vivace, un rondò
dominato dal carattere scorrevole del refrain, con episodi diversivi di ambientazione coerente e
una coda ad effetto con divertenti giochi di inseguimenti e scambi fra archi e fiati; e proprio
negli accenti vagamente marziali di questa coda l'esuberanza del giovane maestro prende
l'ultima volta il sopravvento sulle "buone maniere" che costituiscono il modello prevalente di
questo ultimo tempo come dell'intera Sinfonia.
Arrigo Quattrocchi
Spigolature d'archivio (nota 3)
1862 - Quest'opera per la forma, per lo stile melodico, per la sobrietà armonica e la
strumentazione, si distingue completamente dalle altre composizioni di Beethoven che l'hanno
seguita. Scrivendola, l'autore è rimasto evidentemente sotto l'impero delle idee di Mozart,
ch'egli ha qualche volta ingrandito, e dovunque ingegnosamente imitato. Tuttavia nel primo
tempo si vedono spuntare ogni tanto alcuni ritmi di cui l'autore del Don Giovanni, è vero, ha
fatto uso, ma molto di rado e in un modo molto meno rilevato. Il primo Allegro ha per tema
una frase di sei battute che, senza avere in sé niente di molto caratteristico, diviene in seguito
interessante per l'arte con cui è trattata. Gli succede una melodia episodica, d'uno stile un po'
comune; e a mezzo di una semicadenza ripetuta tre o quattro volte si arriva a un disegno di
fiati in imitazione alla quarta, che si è tanto più stupiti d'incontrare in quanto era già stato
impiegato spesso in parecchie ouvertures d'opere francesi.
L'Andante contiene un accompagnamento di timpani piano che oggi sembra qualche cosa di
molto ordinario, ma in cui bisogna tuttavia riconoscere il preludio di effetti caratteristici che
Beethoven ha prodotto più tardi coll'aiuto di questo strumento, in genere adoperato poco e
male dai suoi predecessori. Questo pezzo è pieno d'incanto, il suo tema è grazioso e si presta
bene agli sviluppi fugati, mediante i quali l'autore ha saputo trarne un partito così ingegnoso e
arguto.
https://www.youtube.com/watch?v=70e28x9OaPQ
https://www.youtube.com/watch?v=E__X8IDR6a0
https://www.youtube.com/watch?v=x0VeH5qxJz8
I primi abbozzi della Seconda Sinfonia, sulla base dei taccuini di lavoro, risalgono all'anno
1800 e si intensificano nel periodo che va dall'ottobre 1801 al maggio 1802; l'opera viene
completata nell'estate durante la villeggiatura trascorsa a Heiligenstadt (a quei tempi piccolo
centro a nord di Vienna) e presentata al pubblico della capitale il 5 aprile 1803 sotto la
direzione dell'autore; il concerto, al Teatro an der Wien era tutto di musiche di Beethoven:
l'Oratorio Cristo al Monte degli Ulivi, la Prima Sinfonia, la Seconda appunto, e il Terzo
Concerto per pianoforte e orchestra.
Mentre nasce quest'opera pervasa di energia e serenità, la vita di Beethoven attraversa uno dei
momenti più dolorosi e scoraggianti; è di quel tempo infatti il manifestarsi della sordità
dell'artista in forma acuta e la conseguente decisione di abbandonare la carriera concertistica;
nonché la delusione sentimentale di essere stato rifiutato dalla Contessina Giulietta Guicciardi.
"Posso dire che faccio una ben misera vita", scrive Beethoven all'amico Wegeler di Bonn, "da
quasi due anni evito compagnia perché non mi è possibile dire alla gente: sono sordo!"; ma
tutto ciò, lungi dal penetrare allo stato grezzo nella composizione, si traduce in uno stimolo a
moltiplicare le sue possibilità espressive, a consegnarsi anima e corpo alla sua vocazione
creativa.
La Sinfonia, dedicata al fraterno amico principe Carl von Lichnovsky, si apre con una
straordinaria introduzione lenta: dopo poche battute di cerimoniosa compostezza, ecco che si
avvia per campi armonici cangianti, presentando e subito mettendo da parte frammenti e
spunti melodici e ritmici sempre nuovi, come fosse decisa a misurare i confini di una regione
sconosciuta: molto giustamente, Paul Bekker ci ha sentito dentro una sorta d'"improvvisazione
per orchestra"; di qui si dinamizza l'Allegro con brio, basato su un'idea proposta sottovoce da
viole e violoncelli, un'idea che sfreccia inquieta, stretta parente del nervosismo dell'Ouverture
delle Nozze di Figaro mozartiane; ma una quantità di altre idee, e talvolta solo di brevi
accenni, ma tutti di plastica evidenza, si stipano nella pagina in preda a un vero entusiasmo
costruttivo.
Puro ritmo, al contrario, è l'essenza dello Scherzo, di geometrica economia di linee; mentre
una vasta ricapitolazione di tutti gli atteggiamenti espressivi della Sinfonia è squadernata dal
Finale, che parte da un tema che più di un tema pare un gesto fulmineo e scontroso; certo
simili corse, leggere e crepitanti, specialmente Haydn aveva fatto conoscere; ma qui si
sbrigliano con un gusto per i contrasti, per gli ostacoli da abbattere, che scuote da vicino il
pacifico ascoltatore; siamo ancora nei limiti del Finale giocoso, ma messo a soqquadro da una
vena umoristica turbolenta che ha ormai scavalcato la "vivacità".
Giorgio Pestelli
La sinfonia n. 2 in re maggiore è stata composta tra il 1800 e il 1802. Essa si situa sul margine
estremo dell'esperienza beethoveniana che ancora risente degli influssi della tradizione,
soprattutto di Haydn e di Mozart. Siamo ancora nella sfera delie opere giovanili dove già si
avverte una delle caratteristiche fondamentali dello stile di questo maestro: la concisione.
L'arte del comporre arriva con Beethoven ad un punto cruciale come mai si era verificato nel
passato. Il materiale sonoro viene ora sottoposto ad un controllo rigoroso, ad una verifica
imparziale in base ai quali vengono inesorabilmente scartati il superfluo, tutto quello che non
inquadra perfettamente col pensiero dell'autore. Questo processo selettivo si manifesta
chiaramente negli innumerevoli abbozzi lasciati da Beethoven e che servivano a preparare ed a
formare l'opera futura. Se l'idea non possedeva una sua precisa impronta, veniva eliminata
oppure elaborata fino alla sua definitiva individuazione. Un simile modo di operare, se da un
lato rallentava di gran lunga i tempi necessari per la produzione di una composizione, dall'altro
offriva il vantaggio di poter disporre di un lavoro formato da materiale sceltissimo e di
altissima qualità. Naturalmente ad un simile trattamento sono sottoposti tutti gli elementi
strutturali dell'opera fondendosi in un equilibrio perfetto per essenzialità e compiutezza
formale.
La sinfonia n. 2 venne eseguita per la prima volta nel 1803 a Vienna sotto la direzione
dell'autore in un concerto che comprendeva anche il «Terzo concerto per pianoforte ed
orchestra» e l'oratorio «Cristo sul monte degli Ulivi». L'opera si apre con una introduzione in
tempo lento, dalle ampie arcate ombrose e raccolte. L'«Allegro molto» che segue ci trasporta
in un clima sonoro dai toni squillanti e dai ritmi energicamente delineati. I due temi e gli
sviluppi si succedono con un'intensa ebrietà di suono. Il secondo movimento viene elargito
con la profonda, calcolata misura espressiva già tutta beethoveniana. Il profilo melodico si
piega ad un'incisiva e talora rude cantabilità in una mirabile disposizione di parti ed in un
inconfondibile interscambio tra luci e ombre. Lo «Scherzo» è un'agile brano dal tono leggero e
delicatamente tratteggiato. Il suo «trio» riecheggia alcune movenze derivanti dalla tradizione.
Da notare che lo «Scherzo» sostituisce il «minuetto» di prammatica nelle opere sinfoniche del
700.
L'impulso ritmico che anima l'ultimo movimento, ci richiama ad una di quelle solari ed aperte
visioni che nelle opere beethoveniane della maturità dense di contrasti drammatici avranno il
compito di sciogliere i nodi della tensione ed almeno in parte gettare luce sugli enigmi di
ansiosi interrogativi.
Antonio Mazzoni
Op. 55 1803
Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore "Eroica"
https://youtu.be/voz8NTrNUT0
https://www.youtube.com/watch?v=pQdsGfJVQHk
https://www.youtube.com/watch?v=EGka-nzBWW4
https://www.youtube.com/watch?v=wFv64fusWuI
https://www.youtube.com/watch?v=B8zb_DPBSho
Fiumi di inchiostro sono stati versati per narrare e commentare la mancata intitolazione della
sinfonia a Napoleone. Converrà riassumere i termini della questione, partendo ancora una
volta dal racconto di Ferdinand Ries - allievo, amico e poi biografo del compositore:
«A proposito di questa Sinfonia Beethoven aveva pensato a Napoleone, ma finché era ancora
primo console. Beethoven ne aveva grandissima stima e lo paragonava ai più grandi consoli
romani. Tanto io, quanto parecchi dei suoi amici più intimi, abbiamo visto sul suo tavolo
questa sinfonia già scritta in partitura e sul frontespizio in alto stava scritta la parola
"Buonaparte" e giù in basso "Luigi van Beethoven" e niente altro. Se lo spazio in mezzo
dovesse venire riempito e con che cosa, io non lo so. Fui il primo a portargli la notizia che
Buonaparte si era proclamato imperatore, al che ebbe uno scatto d'ira ed esclamò: "Anch'egli
non è altro che un uomo comune. Ora calpesterà tutti i diritti dell'uomo e asseconderà solo la
sua ambizione; si collocherà più in alto di tutti gli altri, diventerà un tiranno!" Andò al suo
tavolo, afferrò il frontespizio, lo stracciò e lo buttò per terra.»
Altro discorso è quello di come questo pensiero politico potesse inverarsi all'interno di una
partitura musicale. Già larga parte della produzione cameristica dell'autore aveva riflettuto in
termini musicali un conflitto di alte tensioni etiche. Tuttavia, proprio a partire dall'Eroica, è al
genere della Sinfonia che il compositore doveva affidare soprattutto il compito di veicolare i
suoi ideali illuministici, sconvolgendo di fatto gli obiettivi puramente intrattenitivi che
avevano fino allora contraddistinto il genere sinfonico anche nelle sue forme più raffinate e
impegnate, quali le ultime Sinfonie di Mozart; e che, di fatto, avevano ancora interessato le
prime due compiute esperienze sinfoniche di Beethoven. Nata come genere di intrattenimento
per udienze esclusivistiche, la Sinfonia veniva caricata così di significati estremamente più
complessi ed ambiziosi. In che modo ciò potesse avvenire lo ha spiegato nel 1918, in termini
nitidissimi, il musicologo tedesco Paul Bekker:
«Beethoven modifica la destinazione del genere sinfonico, nel senso che esso, se fino a quel
momento serviva come intrattenimento per un ambiente ristretto e chiuso, supera ora questi
limiti e diventa oggetto di discussione per una moltitudine finora sconosciuta, totalmente
nuova nel numero e nella sua composizione. Lo schema tecnico musicale secondo il quale
Beethoven scrive le sue Sinfonie è, nei caratteri fondamentali, quello tradizionale. La novità
rivoluzionaria, grazie alla quale la Sinfonia di Beethoven rappresenta per noi l'inizio di una
nuova era musicale, sta nel fatto che - se posso servirmi di una definizione drastica -Beethoven
compone non una nuova musica, ma un nuovo uditorio. La Sinfonia di Beethoven viene
concepita partendo dall'idea di un uditorio completamente nuovo. Tutte le differenze in senso
strettamente musicale rispetto ai predecessori si possono spiegare, in parte persino riconoscere,
come riflessi dell'idea dell'uditorio che è loro alla base. L'immagine ideale di un uditorio per il
quale Beethoven scrisse, e da cui attinse la forza e l'impeto delle sue idee, fu un'ulteriore
elaborazione del grande movimento democratico che dalla Rivoluzione francese condusse alle
guerre di liberazione tedesche. Elaborazione come si presentò allo spirito di Beethoven.
Possiamo percepirla ogni volta di nuovo quando viviamo in noi stessi la potenza catartica e
solenne di una Sinfonia di Beethoven, poiché in tali momenti noi stessi diventiamo il pubblico
per il quale Beethoven ha composto, la comunità cui egli parla.»
Lo slancio delle parole di Paul Bekker - scritte mentre l'Europa usciva dal primo conflitto
mondiale e credeva di avviarsi verso la pace - sembra figlio di un intero secolo di idealismo,
sommato a una solidità di analisi scaturita dalla musicologia positivistica. E tuttavia concetti
simili li ritroviamo - come suggerisce Carl Dahlhaus - già nel 1802, nel Musikalisches lexicon
di Christoph Koch: «Poiché la musica strumentale non è altro che imitazione del canto, la
Sinfonia in specie, prende il posto del coro e perciò, come il coro, ha lo scopo di esprimere i
sentimenti di una intera moltitudine».
Tali novità si impongono immediatamente nel movimento iniziale, il gigantesco Allegro con
brio sulla cui analisi si sono soffermati, in modo tutt'altro che univoco, decine e decine di
commentatori. Due grandi "colpi" orchestrali fungono da sipario per quanto segue, affermando
la tonalità di mi bemolle con una nitidezza che presto verrà appannata. Come si è accennato, la
dialettica classica vedeva contrapposti, all'interno della "forma sonata", due temi principali, e
alcune idee secondarie, che si confrontavano in modo piuttosto distinto. Nell'Eroica questo
principio viene meno, nel senso che le varie idee tematiche non sono fra loro contrapposte, ma
germinano l'una dall'altra, secondo un processo di continua tensione-distensione. La stessa
idea principale - l'arpeggio dei violoncelli che si presenta all'inizio - difficilmente può essere
considerato un vero "primo tema", ma piuttosto una cellula neutra, da cui scaturiranno l'una
dopo l'altra le varie idee. E infatti il vero principio costruttivo del movimento lo troviamo
subito dopo, quando l'armonia di mi bemolle che era rimasta inalterata per le prime sei battute,
scivola in un cromatismo e si increspa nelle note sincopate dei violini (la sincope è uno
spostamento d'accento che crea dinamismo). Ecco dunque l'idea di base: l'instabilità, la
tensione continuamente rinnovata, che vuole tradurre appunto in termini musicali quella
tensione ideale di cui si diceva. Tutte le altre idee tematiche (un dolce dialogo dei legni con i
violini; una lunga serie di note ribattute dei fiati; una melodia ascendente e cromatica)
costituiscono ciascuna una tappa diversa di questo percorso di instabilità.
Se questa è l'esposizione, la sezione dello sviluppo, in cui l'autore deve rielaborare le idee
precedentemente esposte, appare altrettanto ambiziosa, e si segnala per le sue proporzioni (250
battute). Beethoven vi riutilizza quasi tutte le idee già udite (tranne l'ultima, la melodia
ascendente e cromatica), evitando però di attribuire loro delle chiare cesure cadenzali,
portandole verso peregrinazioni lontane, attraverso un percorso conflittuale che, se non
rinnega i principi dell'esposizione, pure attribuisce orizzonti non ancora esplorati a quelle idee.
Se è impossibile una descrizione pedissequa di questo percorso, occorre segnalare in esso
almeno due momenti: una vasta sezione in minore, con un dinamico fugato basato su un tema
nuovo, e il passaggio che conduce alla riesposizione. In questo passaggio il conflitto fra le
varie idee si è progressivamente spento, e su un tremolo degli archi entra, come in lontananza,
il corno, riproponendo l'arpeggio che aveva dato il via a tutta la Sinfonia; il punto è che archi e
corno portano con sé due armonie differenti, contraddicendo alle regole della buona
composizione; e proprio questa sovrapposizione armonica crea un effetto di dissolvenza che
porta alla riesposizione.
Come nella Sonata per pianoforte op. 26, Beethoven sceglie, per il tempo lento della Sinfonia,
la forma della marcia funebre, che, da una parte rimanda in senso lugubre alle tante marce
rivoluzionarie della musica francese, dall'altra getta un ponte verso altre pagine di consimile
luttuosità, come la marcia funebre che apre la Quinta Sinfonia di Mahler, o Metamorphosen di
Strauss, dove 23 strumenti ad arco intrecciano polifonie che conducono, attraverso una
progressiva chiarificazione, al tema principale di questa Marcia funebre dell'Eroica, come
simbolo di una civiltà che esce prostrata dalla guerra, alla ricerca delle proprie radici.
Pagina simbolo di una civiltà, dunque, attraverso il "sovvenire" dell'eroe latore di un
messaggio ideale. Sono gli archi a proporre il ritmo di questa marcia in do minore (importante
il sostegno dei contrabbassi), in una prima sezione di granitica coerenza. Ed ecco che il minore
diventa maggiore per la sezione del Trio, dove, sulle morbide terzine "napoletane" degli archi,
i legni dipanano limpidi e nostalgici intrecci. Si giunge così alla sezione dello sviluppo, dove il
ritorno del tema di marcia cede subito ad un lungo e solenne fugato, per seguire poi le tracce di
sempre rinnovati bagliori. A una riesposizione resa più intensa da una più fitta strumentazione,
segue la coda, in cui Trio e Marcia figurano in posizione invertita, lasciando spegnere il
movimento sui frammenti del ritmo che lo aveva aperto.
Il movimento meno complesso della Sinfonia è certamente lo Scherzo; pagina che, tuttavia, si
presta a qualche ambiguità di interpretazione. Se la sua scrittura aerea e trapuntata precorre
Mendelssohn, troviamo in esso sia quel principio di increspamento cromatico che si imponeva
già nel tempo iniziale, sia, nella sezione del Trio, una robusta fanfara di corni intorno
all'arpeggio di mi bemolle, che riecheggia la pseudo-prima idea dell'inizio. In definitiva appare
stimolante l'idea di Paul Bekker che questo tempo costituisca una conversione verso una
scrittura leggera e quasi ludica di quei principi costruttivi che erano alla base del primo tempo.
Si giunge così al finale, movimento che si stacca nettamente rispetto ai modelli di Mozart e
Haydn innanzitutto perché adotta la forma di una libera variazione, sostanzialmente assente
dal sinfonismo classico (Beethoven la reimpiegherà poi nella Nona Sinfonia). Ma, se per i suoi
"predecessori", la forma della variazione come finale, nella musica da camera, implicava un
alleggerimento dei contenuti della composizione, in una dimensione di giocoso disimpegno,
Beethoven carica invece la variazione di complesse implicazioni concettuali. Non a caso il
tema di questo finale trova qui la sua ultima collocazione dopo un "viaggio" che lo aveva visto
apparire in una raccolta di danze strumentali, in un ciclo di variazioni pianistiche e,
soprattutto, nel finale del balletto Le creature di Prometeo che il compositore aveva creato, nel
1801, per la coreografia del sommo Salvatore Viganò.
Se è vero che il finale del balletto non vedeva in scena il personaggio di Prometeo ma piuttosto
quello di Bacco, è difficile resistere alla tentazione di seguire ancora Bekker nello stabilire una
sorta di sovrapposizione, di coincidenza, fra il mito di Prometeo (l'uomo che aveva portato
sulla terra le arti, le scienze, la civiltà) e quello dell'eroe latore di valori universali.
Coincidenza che chiarisce, se ce ne fosse bisogno, il significato ideale della Sinfonia.
A conferire la sua ingegnosità a questo finale è il fatto che esso non si basa su un tema solo,
ma piuttosto su due temi che sono in relazione fra di loro. Dopo una rapida introduzione
animata da una vibrante cascata di note, sono gli archi a proporre, in pizzicato, il primo dei
due temi, subito ripreso in contrattempo, e interrotto da vigorosi ribattuti dei fiati; ma questo
primo intervento costituisce già di per sé una prima variazione di un tema "a priori", che non
viene enunciato. La seconda variazione introduce un contrappunto degli archi. La terza
variazione coincide con l'apparizione del secondop tema, che chiarisce la natura del primo: se
il primo è la nuda linea del basso, il secondo è la vera linea melodica, una sorta di canzone
popolare intonata dai legni. Una breve transizione conduce alla quarta variazione, un serrato
fugato basato sul primo dei due temi. Da questo momento le variazioni diventano più
complesse e non sempre nitidamente scandite, portando in primo piano l'uno o l'altro dei temi,
se non entrambi; si distinguono soprattutto una vigorosa marcia in minore, e una lunga sezione
in Poco Andante, aperta dai legni, che costituisce una sospensione lirica prima della
conclusione. Attraverso queste trasformazioni il movimento realizza così una progressiva
lievitazione espressiva, sigillata da una coda insieme festosa, solenne e quasi trionfale. Non è,
questo finale dell'Eroica, il movimento in cui trovano sfogo tutte le tensioni accumulate nella
partitura, ma piuttosto l'ultimo quadro di un polittico in cui mitologia e politica si sommano e
si traducono in termini puramente musicali, secondo una lezione che - partendo dai 28
esecutori che si applicarono alla prima esecuzione privata nel palazzo del principe Lobkowitz,
nell'agosto 1804, fino alle moderne orchestre sinfoniche - non ha mai cessato di dettare le sue
alte ragioni alle generazioni.
Arrigo Quattrocchi
Il rapporto esterno con la storia, anzi con Napoleone, è notissimo, ridotto come è quasi ad
aneddoto pittoresco, uno dei tanti su Beethoven. All'inizio del 1798 il giovane Jean Baptiste
Bernadotte, legato di Francia presso la corte di Vienna, chiese a Beethoven di dedicare una
composizione al generale Bonaparte. Non sappiamo in quali termini Beethoven abbia risposto:
certo è che non creò nulla subito, ma cominciò a rifletterci. È tuttavia la richiesta di Bernadotte
in sé è rivelatrice, non solo della considerazione di cui ormai godeva Beethoven ma anche del
fatto che egli fosse noto come artista favorevole alla Francia repubblicana e al suo bellicoso
campione. Ammiratore di Napoleone Beethoven era davvero, almeno ancora per qualche anno.
Sì che terminata la sua grande Terza Sinfonia cinque anni dopo (ma i primi appunti sono del
1802) Beethoven la dedicò a Napoleone: e qui si inizia l'aneddoto della furiosa delusione, un
po' accertato, un po' abbellito. La Sinfonia "Buonaparte" fu conclusa alla fine del 1803. Il 18
maggio 1804 a Bonaparte fu offerta la corona di Imperatore dei Francesi, e quando la notizia si
seppe a Vienna Beethoven indignato sfogò il suo furore strappando e distruggendo la prima
pagina del manoscritto con la dedica.
Dopo un'esecuzione privata nel palazzo del principe Lobkowitz (nuovo destinatario della
dedica) nella tarda estate 1804, un'altra esecuzione fu allestita dal principe nel suo castello di
Raudnitz (l'orchestra privata era sempre a disposizione) in onore del principe Louis Ferdinand
di Prussia che era in visita a Vienna. Il principe prussiano era un musicista competente, sì che
la Terza, nuovissima, deve avergli fatto grande impressione ed egli ammirato ne chiese il bis.
Infine, dopo un'ora di conversazione, quasi al congedo, addirittura domandò di riascoltarla!
Ripetuto tre volte in una sera il capolavoro era già leggendario. Qui ci fermiamo con gli
episodi e i casi curiosi, che sull'Eroica sono tanti quanti non toccano a nessuna delle altre
sinfonie: e già questo è segno di un carattere speciale.
La prima esecuzione pubblica fu il 7 aprile 1805, al Theater an der Wien, con successo
contrastato, in una parte del pubblico e nei critici (la sinfonia fu giudicata "pesante,
interminabile, sconnessa").
Schering crede che nei primi tre tempi dell'Eroica Beethoven si sia interamente ispirato
all'Iliade. Schering (1877-1941), grande storico della musica, è il rappresentante più
autorevole della critica simbolica e contenutistica. Il suo ragionamento, i confronti con il testo
omerico, le integrazioni che Beethoven avrebbe immaginato - tutto è così accurato, e ben
scritto, che si resta perplessi, anche se alla fine si rinuncia a tentare di comprendere una grande
musica con una grande poesia. Forse la guida ancora oggi più efficace è quella romantica e
idealistica, non letteraria né descrittiva, che pensò Richard Wagner. Per illustrare il contenuto
di questa musica egli insiste sull'idea di un umanesimo totale: «Prima di tutto la definizione di
"eroica" è da prendere nel significato più ampio e non è mai da intendere riferita solo a un eroe
militare. Se con "eroe" comprendiamo l'uomo vero e intero, al quale appartengono nella loro
massima pienezza e potenza tutte le emozioni puramente umane - dell'amore, del dolore, della
forza -, allora comprendiamo il vero tema che l'artista vuole comunicarci con il linguaggio così
commovente della sua opera musicale. L'area artistica di quest'opera è tutta riempita dalle
diverse emozioni, potentemente allacciate una all'altra, di un'individualità completa e forte,
alla quale nulla di umano è estraneo, ma che contiene in sé tutto ciò che è veramente umano e
lo esprime in modo tale che essa dopo schietta manifestazione di tutte le passioni nobili giunga
alla definizione della propria natura in cui si congiungono il sentimento più delicato con la più
sicura energia».
Le diverse analisi dell'Eroica, come ho detto, sono più numerose che quelle di ogni altra
sinfonia, e non solo di Beethoven. E questo è il segno indubbio della sua eccezionale
complessità, di forma e di significato. Di sicuro noi sappiamo che ancora il 26 agosto 1804,
dopo la "crisi" di maggio, la sinfonia si intitolava Buonaparte (lettera di Beethoven agli editori
Breitkopf e Härtel), ma che nella prima esecuzione a palazzo Lobkowitz era già l'Eroica, se
non nel titolo certamente nel significato. Nella prima edizione delle parti staccate d'orchestra
(ottobre 1806) il titolo definitivo, in italiano, è Sinfonia Eroica, composta per festeggiare il
sovvenire di un grand'Uomo e dedicata a Sua Altezza Serenissima il Principe di Lobkowitz da
Luigi van Beethoven, op. 55 n. 3 delle Sinfonie.
Dunque, Napoleone fattosi tiranno imperatore è scomparso da questa musica: che nella sua
destinazione finale ci presenta un grande uomo, un Eroe, di cui la musica festeggia, cioè
onora, la vita e le lotte (primo movimento), compiange con le lacrime di tremendo sgomento
ma anche di speranza la morte (la Marcia funebre), celebra con esultanza il suo ricordo e
l'eternità del suo valore (terzo e quarto movimento).
Ripeto: la Terza ha radunato più aneddoti di tutte le altre opere di Beethoven, non tutti
autentici. Ma questo lo è. Nel 1817 il poeta e funzionario di Corte Christoph Kuffner, che dieci
anni prima per Beethoven aveva scritto i versi della Fantasia per pianoforte, coro e orchestra
op. 80, tornò a frequentare il musicista per qualche tempo. Una sera a cena, vedendolo di
buonumore, gli chiese quale preferiva delle sue sinfonie. «Eh, eh! L'Eroica.» E Kuffner,
meravigliato: «Avevo immaginato quella in do minore [cioè la Quinta, fino ad allora
Beethoven ne aveva scritte otto]», «No, no, l'Eroica».
Franco Serpa
«Tout est dit», potremmo ripetere con La Bruyère iniziando una presentazione dell'Eroica.
Oggetto da quasi due secoli delle interpretazioni più disparate, analizzata, studiata ed eseguita
innumerevoli volte, questa mitica partitura appartiene a quel ristretto numero di capolavori
ascoltando i quali sembra davvero di entrare in contatto non tanto con l'opera stessa, quanto
con l'immagine collettiva che ce ne siamo fatti. Sia o no un'invenzione del biografo Schindler
l'invito rivolto dal generale Bernadotte a Beethoven nel 1798, durante una missione a Vienna,
a scrivere un'opera celebrativa per Napoleone, certo è che l'eccezionale stimolo esercitato dalla
figura di Bonaparte sulla fantasia del compositore, e l'indubitabile, ardente desiderio di questi
di dare forma artistica agli ideali di libertà della rivoluzione francese non bastano ancora a
spiegare il fenomeno Eroica, che rappresenta il più grande balzo in avanti mai compiuto da un
musicista rispetto alla propria produzione precedente. Il 1802, con la Seconda Sinfonia e le
sperimentali sonate pianistiche dall'op. 26 alla 31, era stato un anno di svolta. Ma Beethoven
non era soddisfatto di quei lavori: «da ora in avanti voglio battere un nuovo sentiero», pare che
confidasse all'amico Krumpholz nel 1803. L'Eroica, ultimata ai primi del 1804, era allora in
piena gestazione, come testimoniano i quaderni di abbozzi pubblicati dal Nottebohm; il
«nuovo sentiero» passava dunque attraverso una profonda, radicale rimeditazione della grande
forma classica, che proprio in questa sinfonia, e in particolare nel suo primo movimento, uno
dei più grandi tempi di sonata mai scritti, sarebbe stata condotta ad altezze vergiginose. L'idea
di una unità organica ottenuta mediante l'interconnessione di tutti gli elementi tocca nell'Eroica
una vetta che sarà superata soltanto nella Nona Sinfonia: il processo sinfonico è pensato
(hegelianamente, si direbbe) come totalità che chiude in sé il particolare, dove ogni dettaglio è
sottomesso a un progetto architettonico organizzato con una lucidità e una coerenza senza
precedenti, e pari soltanto al poderoso slancio epico che anima da un capo all'altro la sinfonia.
L'Allegro con brio investe di forza l'idea del processo sin dall'attacco: i due accordi di tonica
che fungono da introduzione (scritti nella forma definitiva solo in partitura), spostando in
avanti di due battute l'asse ritmico del tema principale, gli conferiscono un impulso che esso
non potrebbe raggiungere da solo; e a ben vedere non siamo qui neppure in presenza di un
tradizionale tema a struttura periodica, quanto piuttosto di un semplice motivo ricavato
snodando l'accordo perfetto di mi bemolle, affidato dapprima ai violoncelli, ripreso poi dal
corno con i legni, e finalmente presentato nello splendore della piena orchestra. Neanche il
secondo tema, che compare nei legni (batt. 83 sgg.) dopo l'enunciazione di un importante
motivo secondario e amplissime formule cadenziali, ha la fisionomia consueta del tema
cantabile sonatistico, ed appare piuttosto come una parentesi meditativa nell'inarrestabile
incedere del brano. Ma la semplicità dei materiali tematici è inversamente proporzionale alla
loro elaborazione: alla già vasta esposizione, caratterizzata verso la fine da poderosi accordi in
ritmo binario, succede uno sviluppo gigantesco (245 battute), basato sul motivo principale e su
numerosi spunti secondari già ascoltati nell'esposizione, mentre il ritmo del secondo tema
circola onnipresente come una sorta di mastice. Un climax di straordinaria potenza, reso più
drammatico da grandiosi accordi dissonanti e sincopati, prepara l'ingresso del famoso «terzo
tema» in mi minore, affidato agli oboi su un contrappunto dei secondi violini e dei violoncelli.
Questa innovazione, come mostrano gli abbozzi, fu sin dall'inizio chiara nella mente di
Beethoven; e con essa compare nei primi appunti, in varie stesure, anche l'idea di presentare,
un istante prima della ripresa, il tema principale alla tonica (nel corno) su un tremolo di
settima di dominante dei violini. Si tratta di una sconcertante violazione delle regole
armoniche: eppure proprio questo celeberrimo passo 'sbagliato' (alla prova generale della
prima esecuzione Ferdinand Ries, pensando a un errore del cornista, imprecò contro
l'innocente esecutore, e poco mancò che Beethoven non gli assestasse un ceffone) testimonia
della stupefacente capacità di Beethoven di pensare il processo armonico per cosi dire per
campi gravitazionali: dopo l'amplissimo giro di modulazioni dello sviluppo, la forza di
attrazione della tonica mi bemolle sembra qui scavalcare persino la successione temporale
necessaria al processo di risoluzione accordale. La ripresa assume cosi il senso di una
schiacciante conferma del principio di identità, come avverrà, ma con mezzi diversissimi, nella
Nona Sinfonia; e come in quella è seguita da una coda di proporzioni imponenti, dove anche il
terzo tema fa la sua ricomparsa.
All'epico primo movimento succede la trenodia della Marcia funebre, anch'essa frutto di una
lunga elaborazione. E interessante notare come la luminosa sezione in do maggiore, che con le
sue visionarie accensioni subentra alla prima esposizione della marcia (un vero «lamento e
trionfo»), dovesse nel progetto originario essere preceduta dal grandioso fugato in fa minore;
ma nella stesura definitiva Beethoven rovesciò la successione degli episodi, facendo cosi del
secondo l'apocalittico vertice dell'intero Adagio molto, dove il contrappunto barocco è
letteralmente portato oltre se stesso, lontanissimo dalla «quietas in fuga», e investito di una
forza espressiva inaudita. Alla ripresa della marcia segue uno smorto episodio in modo
maggiore, dominato dai singhiozzanti ocheti dei violini; infine, nella coda (conquistata
faticosamente, nota dopo nota: negli abbozzi si trovano ben otto versioni del passo), il tema
della marcia si frantuma a poco a poco, interrotto da pause e da pizzicati dei bassi, sino
all'ultima impennata prima del lungo accordo conclusivo. Anche lo Scherzo (che Paul Bekker,
nella sua monografia beethoveniana, avrebbe curiosamente desiderato al secondo posto)
immette nella cornice formale classica (sul modello del minuetto con due sezioni ripetute, trio
e ripresa) una forza e una vitalità sconosciute persino ai movimenti corrispondenti delle due
prime sinfonie. Al ritmo vivacissimo e a tratti rude delle sezioni estreme, con brusche sincopi e
persino un improvviso cambio di tempo nella ripresa, si contrappone la festosa fanfara dei
corni nel trio. Segue quasi senza interruzione il finale, che attacca con una vertiginosa cascata
di sedicesimi degli archi, conclusa da robusti accordi di tutta l'orchestra e da una corona
solenne: è l'introduzione a una serie di variazioni su un tema utilizzato da Beethoven almeno
altre tre volte prima dell'Eroica, nel balletto Le creature di Prometeo, in una delle 12
contraddanze del 1801-1802 e nelle variazioni op. 35 per pianoforte. Anche qui l'idea dello
sviluppo organico si fa luce pienamente: quello che gli archi in pizzicato presentano dopo il
tumultuoso preludio è infatti solo il basso del tema, il suo scheletro armonico, su cui si
innestano poi contrappunti a tre e a quattro; solo nella terza variazione la linea melodica fa la
sua prima comparsa, affidata all'oboe. Procedimenti fugati e inversioni del tema arricchiscono
le variazioni successive, che crescono d'intensità sino al Poco andante, dove la melodia
principale ritorna dapprima nella sua purezza, e viene poi condotta a una trionfale apoteosi. Le
ultime due variazioni fungono da raccordo alla coda: impressionante la seconda, dove il tema
viene dissolto in una sorta di puntillismo dalle spettrali sonorità del flauto e del fagotto su un
lunghissimo pedale dei violoncelli, rievocando a tratti la conclusione della marcia funebre.
Poi, con una ripresa modificata dell'introduzione, la sinfonia vola verso lo splendido epilogo,
autentica celebrazione di un umanesimo laico e rivoluzionario: l'opera di Prometeo è
compiuta, il cammino futuro segnato.
Maurizio Giani
Spigolature d'archivio
Nel 1802 Beethoven completò a Dobling presso Vienna la composizione della sua Terza
Sinfonia, la "Sinfonia Eroica"... In quest'opera si ispirò alla figura di Napoleone, quando era
ancora primo console ed egli aveva di lui un altissimo concetto. lo e gli altri amici che
frequentavamo la sua casa, vedemmo ripetute volte sul suo tavolo la partitura della nuova
Sinfonia con scritto in fronte il nome "Bonaparte" e in fondo "Ludwig van Beethoven", non
altro... Fui io il primo a recargli la notizia che Napoleone si era proclamato Imperatore.
All'udir ciò, Beethoven grido furibondo: "Anche lui non è dunque che un uomo come tutti gli
altri. Ora calpesterà i diritti dell'uomo per soddisfare la sua ambizione. Vorrà essere il signore
del mondo, diverrà un tiranno". E così dicendo andò alla scrivania, e afferrato il frontespizio
della Sinfonia, lo lacerò e lo gettò a terra. La prima pagina fu trascritta ancora una volta e
appena adesso la Sinfonia fu intitolata: "Sinfonia Eroica, composta per festeggiare il sovvenire
di un grand'uomo". In seguito il principe Lobkowitz comprò questa composizione che fu
rappresentata diverse volte nel suo palazzo. [...] Nell'Allegro c'e un brutto tiro scritto da
Beethoven per il corno; Beethoven lascia intonare al corno alcune battute, prima che nella
seconda parte ritorni l'intero tema, li dove i due violini continuano a suonare un accordo di
seconda. Chi non conosce la partitura ha l'impressione che il cornista abbia contato male, e sia
entrato male.
Alla prima prova della Sinfonia, davvero disastrosa, il cornista entrò al momento giusto; io ero
in piedi accanto a Beethoven, e nella convinzione che si fosse sbagliato, dissi: "Maledetto
cornista! Non sa contare? È tutto sbagliato!". Penso di aver rischiato di ricevere uno schiaffo;
per molto tempo Beethoven non me lo ha perdonato.
In Beethoven. Memorie di contemporanei: Lettere e diari. A cura di Otto Hellinghaus, Milano,
Modernissina, 1925.
Questo poema musicale di somma importanza - la Terza Sinfonia del maestro, l'opera con la
quale egli si mise la prima volta sulla strada sua particolare - e in più riguardi meno laoilu da
capire di quanto si potrebbe supporre dal nome che ha |...|. Prima di tutto la definizione di
"Eroica" va intesa in un senso molto lato e non è affatto da riferire a un eroe militare. Se per
"eroe" in genere intendiamo l'uomo completo cui sono pioprie tutte le sensazioni puramente
umane - amore, dolore, energia - nella loro massima pienezza e potenza, afferreremo
giustamente l'oggetto che l'artista ci comunica coi suoni vivamente parlanti dell'opera sua. [...]
Il primo tempo abbraccia come in un centro rovente tutte le sensazioni di una ricca natura
umana nell'impeto incalzante d'un'attività giovanile. Gioia e dolore, piacere e sofferenza,
grazia e malinconia, riflessione e desiderio, anelito e tripudio, audacia, ostinazione e
indomabile coscienza di sé, tutto ciò si alterna e si compenetra così intimamente che, mentre
anche noi proviamo tutte queste sensazioni, nessuna di esse può staccarsi dalle altre, ma la
nostra simpatia deve rivolgersi soltanto a colui che ci si rivela uomo capace di tutte le
sensazioni. Tutte però scaturiscono da una facoltà principale che è la forza. Questa forza,
aumentata all'infinito attraverso tutte le impressioni è spinta a manifestare la sua esuberanza, è
il principio motore di questo brano musicale: verso la metà del brano essa arriva a diventare
una potenza che distrugge, e nella sua massima ostinazione ci sembra di vedere uno che
schiaccia il mondo, un titano in lotta con gli dèi.
Questa forza schiacciante, che ci empie di entusiasmo e di terrore nello stesso tempo, fa
presagire una catastrofe tragica la cui gravità si affaccia al nostro sentimento nel secondo
tempo della Sinfonia. Il musicista dà a questa manifestazione la veste musicale della marcia
funebre. Una sensazione frenata da un grande dolore, mossa da una tristezza solenne, ci viene
comunicata in un linguaggio musicale impressionante: una grave e virile malinconia passa dal
lamento alla tenera commozione, al ricordo, alla lagrima dell'amore, alla fervida elevazione, al
grido di entusiasmo.
[...] Il terzo tempo ci mostra nella sua ardita serenità la forza che, domata dal proprio dolore, è
ormai priva della smania di distruggere. L'impeto selvaggio si è trasformato in una fresca e
alacre attività; ora abbiamo davanti a noi l'uomo gaio e amabile che passeggia lieto e contento
sui prati della natura, guarda sorridendo le campagne, fa squillare dai monti boscosi gli allegri
corni da caccia; e il Maestro ci comunica tutti i suoi sentimenti in queste figure sonore, robuste
e serene, e ce li fa ripetere infine da quei corni da caccia che danno espressione musicale al
bello e gaio, ma anche tenero fervore dell'uomo stesso. [...]
Nel quarto e ultimo tempo il Maestro unisce questi due lati e ci mostra finalmente l'uomo
completo, in armonia con sé stesso, nel quale persino il ricordo del dolore si trasforma
nell'incitamento ad agire nobilmente. Questo tempo finale fa esattamente riscontro al primo
tempo: come là abbiamo visto tutte le sensazioni umane nelle più diverse e molteplici
manifestazioni, ora compenetrarsi ora respingersi violentemente, così qui la contrastante
varietà si fonde in una conclusione che accoglie armoniosamente tutte queste sensazioni e ci si
presenta in forma plastica e benefica. Il Maestro racchiude questa forma anzitutto in un tema
semplicissimo che si fa sentire deciso e sicuro, suscettibile di infiniti sviluppi, dalla più tenera
delicatezza alla massima energia. Intorno a questo tema, che possiamo chiamare la salda e
virile individualità, si intrecciano sin dall'inizio del tempo tutte le più tenere sensazioni; e
queste si sviluppano fino ad esprimere il puro elemento femminile che alla fine, accanto al
tema virile attraversante l'intero brano, si rivela con sempre maggiore e varia simpatia come il
potere supremo dell'amore. [...] Soltanto col linguaggio musicale del Maestro era possibile dire
l'indicibile, ciò che la parola ha potuto qui accennare soltanto con molto imbarazzo.
Richard Wagner. Ricordi battaglie visioni. Prefazione di Massimo Mila. Traduzione di Ervino
Pocar. Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli, 1955.
Op. 60 1806
Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=dCMYxJIji1g
https://www.youtube.com/watch?v=vJ1kI5IeJmg
https://www.youtube.com/watch?v=wFv64fusWuI
https://www.youtube.com/watch?v=GE98hByOCKY
https://www.youtube.com/watch?v=NDSpRYp2-rE
Dopo aver terminato all'inizio del 1804 la Sinfonia "Eroica" - eseguita nell'agosto dello stesso
anno e pubblicata nell'ottobre 1806 - Beethoven si applicò quasi immediatamente alla stesura
di una nuova partitura sinfonica in do minore, che sarebbe stata completata solamente all'inizio
del 1808. Ricca di dubbi e ripensamenti, la gestazione di questo capolavoro (la futura Quinta
Sinfonia) avrebbe dunque costituito per un periodo di quattro anni un impegno gravoso e quasi
ossessivo, senza tuttavia impedire al compositore non solo di portare a termine il Quarto
Concerto per pianoforte, il Concerto per violino, le prime due versioni di Fidelio, ma anche di
scrivere un'intera altra Sinfonia, la "Quarta", e di abbozzarne un'altra ancora per grandi linee,
la Pastorale.
La Sinfonia op. 60 nacque così all'ombra dell'opera maggiore quasi come diversivo rispetto a
questa, come spingono a ritenere le stesse circostanze della genesi. Fu nell'autunno del 1806
che Beethoven, in compagnia di uno dei suoi primi mecenati, il principe Lichnowsky, compì
una visita al castello del conte Franz von Oppersdorf, nella Slesia Superiore. Amante delle arti,
Oppersdorf manteneva alle sue dipendenze un'orchestra che, in occasione della visita del
maestro di Bonn, eseguì la Seconda Sinfonia; il padrone di casa chiese al compositore di
scrivere per lui un'altra partitura sinfonica e questi, certo allietato da considerazioni
economiche, accondiscese; in un primo momento pensò di destinare ad Oppersdorf la Sinfonia
in do minore, ma evidentemente il completamento di questa avrebbe richiesto dei tempi troppo
lunghi. Di qui l'idea di una partitura totalmente nuova; e, di fatto, la "Quarta" nacque in un
periodo di tempo realmente breve; la mancanza dei consueti, vastissimi abbozzi preliminari,
che è stata spesso attribuita a smarrimento, è invece più probabilmente da attribuirsi proprio al
fatto che tali abbozzi non furono stesi affatto. Dedicata, ovviamente, a Oppersdorf, la Sinfonia
in si bemolle fu eseguita il 5 marzo 1807 nel palazzo viennese del principe Lobkowitz, e fu
pubblicata l'anno seguente.
Il carattere quasi parentetico della composizione della "Quarta" si riflette anche sul suo
contenuto musicale, alieno da ambizioni titaniche e ispirato piuttosto ,a principi estetici di puro
intrattenimento, per certi versi ancora settecenteschi; tanto che, schiacciata fra i massicci
monumenti dell'"Eroica" e della "Quinta", la Sinfonia in si bemolle ha spesso imbarazzato la
critica romantica. Gradita a Schubert (che d'altra parte, nelle sue prime Sinfonie seguiva la scia
haydniana), fu definita da Schumann «una slanciata ragazza greca fra due giganti nordici», con
un complimento che è tale solo apparentemente; e in effetti per accettare pienamente la
Sinfonia i romantici ebbero bisogno di ricercare il solito connubio fra l'uomo e l'artista,
attribuendo il contenuto "sereno" della partitura al momento "sereno" attraversato dal
musicista, innamorato di Teresa Brunswik.
Ma, se manca di forte impegno contenutistico, non per questo la "Quarta" segna un
arretramento nello stile sinfonico beethoveniano. La consapevolezza raggiunta dall'autore con
l'"Eroica" nella scrittura sinfonica e nella tecnica della dialettica tematica segna un divario
incolmabile rispetto alle Sinfonie "settecentesche", la "Prima" e la "Seconda". A suo modo la
"Quarta" spinge i suoi compiti d'intrattenimento verso limiti difficilmente valicabili; le
sperimentazioni timbriche che percorrono internamente l'intera partitura non hanno un
carattere decorativo, ma minano dall'interno la struttura tradizionale, apparentemente rispettata
nella scansione in quattro movimenti che si rifanno ai moduli haydniani: primo tempo in
forma sonata con introduzione lenta, secondo tempo contemplativo, Minuetto con Trio e
Finale con "moto perpetuo" in forma sonata.
L'Adagio introduttivo si svolge in un misterioso clima aspettativo, che sfocia nei bruschi
"colpi" orchestrali che aprono l'Allegro vivace; qui emergono subito i tratti caratteristici di
ironia che appartengono a tutta la partitura: l'aggressività ritmica, la contrapposizione fra
gruppi strumentali, il dolce rilievo espressivo del gruppo dei legni, la raffinatezza cameristica
dei giochi timbrici, evidente soprattutto nel periodo che conclude lo Sviluppo, prima della
Ripresa. L'Adagio, il secondo movimento, si anima di idee cantabili dal profilo non nettamente
definito, cementate fra di loro da un principio ritmico giambico che appare immediatamente
come figura di accompagnamento e assume poi, nel corso del movimento, le più diverse
funzioni. Ancora un principio ritmico è alla base del Minuetto (un ritmo binario calato in una
misura ternaria), che si contrappone poi nettamente al Trio, con la cantilena dei fiati; è questo
il movimento dove appare più scopertamente la logica di contrapposizione fra archi e fiati.
Chiude la Sinfonia un Allegro ma non troppo estremamente brillante, simile nell'impostazione
a certi Finali di Haydn, ma con una ruvidezza ritmica e dei contrasti dinamici che sono del
tutto peculiari; e una conclusione ad effetto riafferma con decisione i contenuti giocosi della
partitura.
Arrigo Quattrocchi
Poco dopo aver terminato l'Eroica, nel 1804, Beethoven affrontava un nuovo grande sforzo
sinfonico, più o meno nella stessa direzione di quello precedente: vale a dire un lavoro dove la
tensione dell'impegno formale andasse di pari passo con una drammatizzazione, anche
esteriore, del fatto musicale, all'epoca ambedue inaudite presso qualunque altro musicista che
lui. In altre parole, Beethoven si accingeva a compiere un altro passo (e che passo, visto ciò
che ne venne fuori) lungo la via di quella che poi sarebbe stata identificata come la sua
seconda maniera: affermata, in campo sinfonico, giusto con la Terza sinfonia, raggiungendo
così nella corsa all'evoluzione stilistica il pianoforte, che ne era stato, come sempre sarebbe
avvenuto, il battistrada; e destinata a giungere al proprio apogeo negli anni immediatamente
successivi. In tempo relativamente breve, Beethoven condusse a buon punto la stesura dei
primi due movimenti della nuova Sinfonia, poi si fermò, rimandando il completamento
dell'impresa ad altro momento: quella che avrebbe dovuto essere la Quarta sinfonia di
Beethoven divenne, fra il 1807 e il 1808, la Quinta. A occupare il numero d'ordine
immediatamente seguente all'Eroica fu un lavoro di carattere in molte cose antitetico ai due
capolavori che la successione cronologica gli assegna come temibili vicini, la Sinfonia in si
bemolle maggiore composta, con insolita rapidità nell'estate del 1806 a Martonvasar, dove
Beethoven era ospite dei Brunswick, eseguita per la prima volta nel marzo 1807 nel palazzo
del principe Lobkowitz a Vienna, e pubblicata nel 1808 come op. 60 dal «Bureau d'arts et
d'Industrie».
«Una snella fanciulla greca fra due giganti nordici». Cosi, unendo al solito la felicità della
visione letteraria con la sicurezza dell'individuazione critica, Robert Schumann ritraeva la
Quarta sinfonia di Beethoven, in relazione alle due consorelle a lei più vicine nel tempo. E
certamente, considerata nel corpus delle Sinfonie beethoveniane, la Quarta desta
un'impressione simile: per l'eleganza composta delle sue linee, per la freschezza
dell'invenzione tematica e ritmica, per l'agilità della sua struttura formale, giustificando tre
parole («snella fanciulla greca») in cui Schumann ne volle condensare l'essenza stilistica; così
come risulta abbastanza azzeccata l'immagine escogitata per l'Eroica e la Quinta. La snella
fanciulla da una parte, i giganti dall'altra; soprattutto, la «greca», ossia la classica rispetto ai
«nordici», ossia a quanto, soprattutto per un esegeta sottilmente e legittimamente capzioso
come Schumann, l'Eroica e la Quinta potessero presentare di tedesco, e dunque di romantico e
al tempo stesso di complesso sul piano della costruzione. Un'immagine felice, che non val la
pena di voler stirare fino a verificarne tutta l'esattezza, giacché di una rapida identificazione si
tratta, non di un'analisi in profondo: è chiaro che la Quarta, sottopelle, rivela una muscolatura
non meno vigorosa delle altre Sinfonie di Beethoven: basterebbe spostare il paragone
dall'Eroica e dalla Quinta alla Prima e alla Seconda per rendersene conto. Quel che importa è
sottolineare una profonda differenza di intenti, oltre che di risultati, che la separa dalle altre.
Accanto a ciò, non è privo di interesse anche il rapporto che la Quarta mantiene, oltre che con
gli altri frutti del sinfonismo beethoveniano di quel momento, con tutto il resto della
produzione con cui giunge al coronamento la «seconda maniera»: dominata dalle prime due
versioni del Fidelio, e dai traguardi raggiunti, in campo strumentale, con l'Appassionata, con il
Quarto concerto per pianoforte, con i tre Quartetti Razumowsky. Tutte opere al cui confronto
la Quarta non soltanto conferma la sua fisionomia di «snella fanciulla greca», ma soprattutto
sembra proporsi come un'anomalia addirittura. «Seconda maniera», per quel che può valere la
tripartizione degli stili e dei periodi beethoveniani introdotta dal Lenz, significa, sì, titanismo
prometico, individualismo e tante altre belle cose di questo ordine; ma soprattutto, e per
rimanere in terreno musicale, significa ricerca, crisi anche drammatica e ricostruzione anche
violenta della forma, disintegrazione e ricomposizione del linguaggio e dello stile: fatti di cui
le opere che dianzi si elencavano di sfuggita serbano quale più, quale meno vistosamente, le
tracce. Laddove la Quarta sinfonia ci offre l'immagine imprevedibile di Beethoven
tranquillamente intento a lavorare entro gli schemi consacrati della tradizione classica: lavoro
strutturato sui quattro tempi canonici, con il primo di essi preceduto dall'introduzione lenta
(modo di fare tipicamente settecentesco, di cui l'Eroica pareva aver fatto giustizia per sempre
«rimpiazzandola» con le due vigorose strappate di tutta l'orchestra immediatamente precedenti
l'avvio del primo tema) e svolto secondo tutte le buone regole della forma-Sonata; e mantenuto
in dimensioni senz'altro assai ridotte, rispetto alla dilatazione inedita dell'Eroica, così come
ridotto ne è, tutto sommato, anche il potenziale fonico, con tutto che l'organico (un flauto,
oboi, clarinetti, fagotti, corni e trombe a due, timpani e archi) sia di poco più ristretto (la Terza
ha in più un secondo flauto e un terzo corno).
Complessivamente, dunque, una sorta di passo indietro, almeno nelle apparenze, nel quadro di
un divenire stilistico (e formale) profondamente travagliato e faticato quale è quello che si
manifesta nel Beethoven fra i trenta e i quarant'anni. Così Giovanni Carli Ballola spiega la
«diversità» della Quarta: «Dopo i primi due tempi della Sinfonia in do minore, l'Appassionata
e i Quartetti Razumowsky che erano stati quasi un'eco, un'irrefrenabile conseguenza della
grandiosa eruzione epica ed eroica della Terza Sinfonia, il musicista sentì finalmente il
bisogno di riprendere fiato e di volgere l'animo a visioni interiori più distese e serene: la
Quarta (e il Concerto per violino, composto subito dopo) nacquero così come insopprimibile
contrappeso distensivo ed equilibratore a uno sforzo titanico, secondo un processo che
potremo chiamare di compensazione spirituale, ravvisabile nella parabola creativa di molti
artisti (anche Mozart, nel mezzo del cerchio infuocato del Don Giovanni, sentì la necessità di
comporre la Piccola Serenata notturna in sol maggiore)». Ma oltre che di visioni interiori più
serene, la Quarta (a differenza del Concerto per violino), ci parla di sguardo al passato, alla
storia: con quel suo ripercorrere, con ostentata sicurezza, i cammini indicati da Haydn.
Qualcosa di non lontano da questo Beethoven avrebbe fatto qualche anno dopo, con l'Ottava:
con la differenza che in quest'ultimo caso lo sguardo all'indietro avrebbe avuto l'aspetto, anche
esteriormente, di un'affettuosa ironia, quasi, se la parola non suonasse come una bestemmia di
fronte a un Beethoven, al modo di un neoclassico del Novecento. Mentre nella Quarta si ha il
sereno compiacimento della propria forza, il senso quasi del «giocatore in casa», dopo che si
sia dimostrato di poter anche fare a meno di quelle stesse forme che presentemente ci si diletta
di impiegare. Avviene allora, con solo apparente contraddizione, che il ritorno di Beethoven ad
abitudini da lui stesso revocate in dubbio avvenga con straordinaria pulizia di esiti, laddove i
primi contatti con la Sinfonia avevano dato vita a quegli stupendi disagi che nella Prima e
nella Seconda sinfonia ci avvertono che Beethoven è già musicista assai più moderno della
musica che sta scrivendo, e che questa musica ha bisogno di involucri di tutt'altra capienza da
quelli che lui sta riprendendo da Haydn; la Quarta, viceversa, è così perfetta proprio perché è
l'opera di un Beethoven che è ormai diventato perfettamente «beethoveniano», e dunque è in
grado di lavorare in tutto suo agio anche in terreni già sfruttati.
Rinuncia allo sperimentalismo, tuttavia, non vuol dire nella Quarta rinuncia all'originalità o a
un profondo impegno compositivo. Anzi, proprio nelle sue strutture leggere e scorrevoli
Beethoven sa profondere scienza e invenzione con speciale sottigliezza. Basterebbe l'impianto
del primo movimento, per la ricchezza del materiale tematico che già dall'introduzione lenta si
avvia a prendere forma, e che dopo la partenza rapida e trascinante dell'Allegro si distribuisce
lungo i due temi principali della forma-Sonata: il primo dei quali in realtà è un gruppo di due
motivi, mentre il secondo ne accoglie in sè addirittura tre. E poi, lungo lo sviluppo, la
straordinaria vivacità dell'invenzione timbrica, con il timpano (a testimoniare, una volta di più,
l'interesse che Beethoven portò sempre alla scarsa percussione del suo tempo) spesso in primo
piano, e determinante nell'accumulo di tensione che precede l'irresistibile inizio della ripresa.
La grande scoperta della Quarta è tuttavia l'Adagio. Del quale Berlioz, che della Quarta fu
grandissimo ammiratore, trovò che «sorpassa tutto ciò che l'immaginazione più ardente potrà
mai sognare di tenerezza e di pura voluttà», giacché «è così puro nella forma, così angelico
nell'espressione melodica, tanto irresistibile di tenerezza che l'arte prodigiosa della sua
costruzione scompare completamente. Questo pezzo par essere stato sospirato dall'Arcangelo
Gabriele il giorno in cui, colto da malinconia, contemplava i mondi dalla soglia dell'Empireo».
Se non dall'Arcangelo Gabriele, certo l'Adagio è stato creato da un Beethoven insolitamente
lieve di mano nell'effusione melodica, resa vieppiù pudica da una castigatissima compostezza,
quasi la raffrenasse quel filo ritmico che fin dall'inizio le si accompagna, e che poi sale in
primo piano quasi sommandosi ai due temi sui quali si regge il pezzo, in forma di Sonata
senza sviluppo. Sapido e significativo intermezzo di riflessione, prima che gaiezza e
ammiccamento al passato riprendano il campo, con la genialità ritmica del terzo tempo,
intervallata dalle sonorità quasi naturalistiche dei legni del Trio, e il turbinare quasi
virtuosistico del Finale, dove le architetture della forma-Sonata accolgono un materiale
ricchissimo di proposte, anche timbricamente (qui, come in tutta la Sinfonia, Beethoven lavora
sui legni quasi a saggiare il terreno per i numerosi colori della Pastorale): un po' come se la
snella giovinetta greca di Schumann si lanciasse in una danza aerea e fantastica.
Daniele Spini
Spigolature d'archivio
Quest'artificio, benché fecondo in risultati curiosi e interessanti, era già stato usato da Mozart
con uguale fortuna. Ma nella seconda parte dello stesso allegro, si trova un'idea veramente
nuova, le cui prime battute incatenano l'attenzione, e che dopo aver trascinato lo spirito
dell'ascoltatore in misteriosi sviluppi lo colpisce di stupore per la sua conclusione inattesa. [...]
Quanto all'Adagio, sfugge all'analisi... È così puro di forme, l'espressione della sua melodia è
così angelica e d'una tenerezza così irresistibile, che l'arte prodigiosa della sua messa in opera
scompare completamente. Fin dalle prime battute si è colti da un'emozione che alla fine per la
sua intensità diviene opprimente; solo in uno dei giganti della poesia possiamo trovare un
punto di confronto con questa pagina sublime del gigante della musica. Niente infatti somiglia
di più all'impressione prodotta da questo adagio di quella che si prova leggendo il toccante
episodio di Francesca da Rimini nella Divina Commedia, del quale Virgilio non può sentire il
racconto senza singhiozzare, e che all'ultimo verso fa cadere Dante "come corpo morto cade".
Questo pezzo sembra essere stato sospirato dall'arcangelo Michele il giorno in cui, colto da un
accesso di malinconia, contemplava i mondi ritto sulla soglia dell'Empireo.
Lo Scherzo consiste quasi interamente in frasi ritmate in tempo binario, costrette a entrare
nelle combinazioni della battuta ternaria. Questo mezzo, molto usato da Beethoven, dà molto
nerbo allo stile; le desinenze melodiche divengono più pungenti e inattese; [...] La melodia del
trio, affidata ai fiati, è d'una freschezza deliziosa; il suo tempo è più lento di quello del resto
dello scherzo, e la sua semplicità risalta ancor più elegante dal contrasto colle piccole frasi che
i violini gettano sull'armonia, come dei vezzi incantevoli.
Il Finale, gaio e brioso, rientra nelle forme ritmiche ordinarie; esso consiste in un tintinnio di
note scintillanti, in un cicaleccio continuo, interrotto tuttavia da qualche accordo rauco e
selvaggio. [...]
Hector Berlioz, L'Europa musicale da Gluck a Wagner, Torino, Einaudi 1950
https://www.youtube.com/watch?v=WFifaY_eZU0
https://www.youtube.com/watch?v=ZU4JhPgA5EM
https://www.youtube.com/watch?v=D-_wqx76mpc
https://www.youtube.com/watch?v=-x4X95m_n0o
https://www.youtube.com/watch?v=4DUqqpqsSXw
Allegro con brio
Andante con moto (la bemolle maggiore)
Allegro
Allegro (do maggiore)
Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, corno di bassetto, 2 corni, 2 trombe,
3 tromboni, timpani, archi
Composizione: 1806
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 22 Dicembre 1808
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1809
Dedica: Principe Joseph Max von Lobkowitz e Conte Andreas Razumovsky
La stesura della Quinta Sinfonia beethoveniana occupa un periodo di tempo assai ampio. Dopo
i primi abbozzi risalenti al 1804, il compositore la riprese nel 1807 e la completò solo nella
primavera dell'anno successivo; una testimonianza della particolare cura e attenzione che
Beethoven riservò al suo lavoro, frutto di un processo creativo lungo e sofferto.
La «prima» della Sinfonia ebbe luogo il 22 dicembre 1808 nel celebre teatro viennese An der
Wien sotto la direzione dello stesso autore. Durante il concerto, dalla durata interminabile, -
secondo l'uso avvalso nell'epoca - furono eseguiti anche la Sesta Sinfonia, sezioni della Messa
in do maggiore, il Quarto Concerto per pianoforte e orchestra e altre composizioni ancora.
Come per la Terza Sinfonia, Beethoven torna nella Quinta a un fitto reticolo di riferimenti
allegorici e morali, un simbolismo perfettamente radicato nella cultura filosofica e spirituale
del tempo, fortemente imbevuta di concezioni illuministiche.
Pensiamo già solo al ritmico e lapidario inciso d'apertura che l'orchestra disegna subito in
modo netto e perentorio, «il destino che bussa alla porta» - secondo l'interpretazione che un
giorno ne diede l'amico Anton Schindler.
Così nella Sinfonia vediamo continuamente emergere gli opposti in lotta, in una gigantesca
visione antagonistica in perenne mutamento: contrasti violenti si susseguono a momenti più
mitigati e lirici, passi ritmici tensivi si alternano a più morbidi accenti, la concitazione
melodica si confronta con linee tematiche più tenui ed addolcite nel loro profilo. Infine i
quattro movimenti paiono procedere in modo ineluttabile verso un compimento che pare già
presagito, attraverso una sapiente progressione simbolica che conduce all'apoteosi finale.
È un Beethoven titanico, quello della Quinta. Ma è anche un Beethoven più asciutto e meno
enfatico rispetto a quello dell'Eroica. La forma stessa è essenziale, senza espansioni retoriche,
la coerenza interna rigorosa. I temi sono netti e concisi, come lo scarno inciso d'apertura, un
motto di sole quattro note. Così si apre il primo movimento, l'Allegro con brio. Ancora
sull'inciso «del destino» è fondato il primo tema, che percorre interamente la Sinfonia
rendendola ulteriormente più solida ed unitaria. Proprio a questa estrema concentrazione
tematica, a questa sobrietà di caratteri va ricondotta la grande efficacia espressiva che la
Sinfonia in do minore esprime. Una vigorosa frase di transizione, consistente nella
trasformazione del primo tema e dell'inciso d'apertura, porta al delicato secondo tema
principale, introdotto da uno squillante richiamo dei corni pure ricavato dal motto d'apertura.
Questo momento disteso e cantabile però non riesce a rimuovere il ricordo dell'inciso iniziale,
che infatti presto si fa di nuovo avanti sotto forma di ripetute iterazioni nella parte finale
dell'Epilogo. Si conclude così l'Esposizione, la prima grande sezione di forma-sonata in cui il
movimento è costruito. Anche la parte centrale di Sviluppo è aperta dalle quattro scolpite note
del motto, seguite da una varia ed articolata elaborazione del primo tema. E il momento di
maggior intensificazione drammatica della Sinfonia, là dove sono più vividi i contrasti
armonici, le opposizioni motivico-dinamiche e più marcata la densità contrappuntistica.
La meccanica frase di transizione riporta all'impeto originario, poi la Ripresa prosegue nel
richiamo che prima era stato enunciato dai corni, ora lasciato al timbro nasale dei fagotti.
Dopo il secondo tema, interviene infine l'Epilogo. Beethoven compie qui ancora una deroga
alla regola: l'Epilogo non si conclude, ma prosegue in una ulteriore e imprevista frase enfatica
costruita sul motto del primo tema sino ad un fragoroso climax, ancora sul motto. Nella Coda
una breve ripresa del primo tema conclude «eroicamente» il movimento.
L'Andante con moto corrisponde ad un momento di stacco emotivo, con due temi cantabili di
matrice popolare.
Mentre però il secondo tema nel corso del brano viene semplicemente ripreso e in sostanza
solo nell'accompagnamento subisce alcune varianti ornamentali, il primo tema si ripresenta più
frequentemente ed è sottoposto ad una assai articolata serie di variazioni che ogni volta lo
ripropongono in modo diverso nel profilo melodico, nella quadratura ritmica,
nell'orchestrazione.
Dopo la fluente prima variazione, in cui il primo tema è letteralmente diluito nel moto denso di
semicrome dipanato da viole e violoncelli - mentre il clarinetto vi sovrappone la sua voce
piena e pastosa -, nella seconda variazione un flusso ancora più movimentato di quartine di
biscrome passa dal gruppo di viole e violoncelli a quello dei violini primi e poi ancora a celli-
contrabbassi, là dove l'orchestra tutta inizia a fremere con trasporto su di una robusta ed
energica enunciazione corale.
Nella terza variazione i legni eseguono il primo tema in modo minore e a note staccate e
puntate, offrendo una versione assai lontana dall'originale. Il ritmo è di marcia e l'incedere
nobile e solenne, sostenuto dal ben scandito pizzicato degli archi.
Ora le frasi di collegamento, ora i già citati ritorni del secondo tema costituiscono i raccordi
per l'avvento di ogni nuova variazione. La quarta, ad esempio, è preparata da una scala prima
intonata timidamente da flauto e clarinetto, poi resa via via scorrevole dalla spinta
dell'orchestra che letteralmente prorompe nella grandiosa enunciazione del tutti. Una zona di
Epilogo si incarica di condurre a compimento l'Andante.
Il terzo movimento, l'Allegro, si apre con un fosco e misterioso arpeggio dei bassi cui risponde
la voce più chiara di violini e clarinetti. A questo primo elemento ne fa seguito un secondo più
netto e deciso nello squillo dei corni, in realtà una variante del motto «del destino» del primo
movimento, che immediatamente pare risvegliare antichi presagi.
Inizia uno scambio tra i due elementi, che cominciano a i confrontarsi dialetticamente ed in
modo serrato nelle varie regioni orchestrali.
Nella parte centrale interviene un pressante fugato affidato ai poco disinvolti contrabbassi e
violoncelli, presto imitati dai violini. È un episodio scherzoso, dalle tinte ironiche e
tipicamente beethoveniane, reso ancor più grottesco dalle frequenti e dispettose ripetizioni e
anche dall'imprevisto aggiungersi, poco più avanti, dei pesanti fagotti.
Ad ogni ripresa esita, poi si riavvia senza interrompersi. Nella parte conclusiva, dopo il solito
avvio ripetitivo e titubante, il soggetto punta verso l'alto, trasmigra dal gruppo dei
contrabbassi-violoncelli a quello dei violini, poi su sino al primo flauto; infine, come deprivato
del peso, si spegne gradualmente in un tenue diminuendo, «sempre più piano» ed in pizzicato.
La scorciata Ripresa è fatta in termini sbrigativi, quasi dovesse risolversi in modo defilato, e
con fare commediante.
Il primo tema, ad esempio, torna quasi «regolarmente» all'inizio, però è subito come falsato
dall'interruzione del grande respiro in «legato» che l'aveva contraddistinto nella prima parte:
qui sono utilizzate ingegnose pause di semiminime poste all'interno della frase, in modo da
frazionarla. Poi viene ripetuto e si trasforma in un vezzoso pizzicato.
Anche il secondo tema non è più solenne come prima, ma risuona piano, come estraniato,
alleggerito nella voce solitària del primo clarinetto, o dell'oboe, o del flauto, o ancora nel
pizzicato leggero dei violini.
Il pedale immobile degli archi, su una lunga serie di colpi di timpano, annuncia infine la Coda.
Inizia in un cupo e turbato pianissimo che però, progressivamente, aumenta d'intensità, si
schiarisce ed infine - al culmine di un poderoso crescendo - sfocia nel quarto movimento.
Si apre così l'Allegro. L'orchestra annuncia il primo tema in una fanfara esultante. Una frase di
transizione, anch'essa dai toni trionfali, si collega al secondo tema con le sue slanciate e
svettanti terzine.
È l'annuncio della vittoria dell'intelletto e della ragione contro le forze oscure del destino, la
celebrazione finale dell'uomo che combatte contro le avversità. L'Epilogo completa in una
grandiosa frase di congedo la parte di Esposizione.
Nello Sviluppo è elaborato soprattutto il secondo tema, mentre un nuovo motivo presentato dai
tromboni viene presto enfatizzato dai violini, sino a giungere ad un vibrante climax. Qui
l'orchestra tutta pare palpitare, rapita e inebriata - nel registro sovracuto - come cullata dai suoi
stessi suoni. E un'atmosfera particolarissima, vivida e sognante, un'immagine di un Beethoven
solare assai vicina a quelle del finale della Nona Sinfonia.
D'improvviso la dinamica si riduce, dando vita ad una sezione di collegamento basata sulla
reminiscenza del secondo tema del precedente movimento. Ma è solo un momento di
passaggio, che lascia presto il posto all'incalzante Ripresa e all'Epilogo. Quest'ultimo è molto
più esteso rispetto a quello dell'Esposizione e comprende anche il ritorno del secondo tema.
Infine si aggiunge una complessa elaborazione del tema della transizione, questa volta imitato
a varie altezze e via via più esuberante e fremente sino alla vorticosa stretta conclusiva
(Presto).
Marino Mora
Ben quattro anni impiegò il Maestro a dare la veste definitiva a questa Sinfonia, attraverso
rifacimenti e innumerevoli ritorni. Ecco il destino che batte alla porta»: una tradizione degna
di fede vuole che Beethoven si sia cosi espresso riferendosi asll'attacco della Sinfonia formato
di quattro note lapidarie e scultoree. Ed è un destino contro cui Beethoven lotta, che
Beethoven vince e ricaccia nella tenebra della superstizione in nome della chiarezza della
ragione umana.
Nel primo tempo della Quinta, "Allegro con brio," si scatena cosi un violento turbine, dove c'è
da osservare che il solo protagonista rimane praticamente l'inciso iniziale, dal momento che il
secondo tema cantabile fa solo poche fugaci apparizioni: e l'arte di Beethoven raggiunge
altezze vertiginose nel trarre da un elemento di poche note una serie meravigliosa di variazioni
e di contrasti che comunicano con l'ascoltatore con immediatezza e vigore inarrivabili.
Ma nel finale - "Allegro" - ogni dubbio è fugato: sfolgora nella tonalità di do maggiore la
vittoria certa dell'intelletto e della ragione, che supera con slancio il ritorno del motivo centrale
della Sinfonia, dandogli ormai un valore affermativo.
Nel primo movimento (Allegro con brio) la forma sonata ha il suo teorema: nessuna pagina
aveva mai organizzato il principio del contrasto, del "patetico" schilleriano con una tale
integrazione fra scansione ritmica e invenzione tematica: tutto muove da una idea di quattro
note («Ecco il destino che batte alla porta» come avrebbe detto Beethoven al povero
Schindler) che invadono ritmicamente tutto lo spazio disponibile cancellando ogni distinzione
fra disegno e ornamento. L'Andante con moto, senza rigidità strofica, è impostato come un
tema con variazioni, interrotte per tre volte da improvvise fanfare degli ottoni. Lo scherzo
(Beethoven non usa più questo termine, ma solo Allegro) amplia la sua tradizionale funzione
di pezzo di alleggerimento con il colore sinistro, in pianissimo, dei contrabbassi: questi
strumenti (al cui virtuosismo solistico Beethoven si era interessato in quel tempo tramite
l'italiano Dragonetti) aprono il trio intermedio, in stile fugato nel modo più volte adottato nella
Sinfonia Eroica. Per la prima volta (in una sinfonia) Beethoven collega direttamente i due
ultimi movimenti: il ritmo dello scherzo (una reminiscenza del quale tornerà nel finale) si
dissolve in pianissimo e in un lungo episodio di transizione (solo il timpano esprime il
movimento ritmico, mentre gli archi tengono la stessa nota per 15 battute) si comprime
l'energia che investe il finale (Allegro), grandiosa costruzione su concetti semplici come l'inno
e la marcia. La sonorità dei tromboni (mai usati prima da Beethoven in una sinfonia), la
conclusione della pagina da Sempre più Allegro a Presto, l'insistenza sulla cadenza finale
danno un carattere di apoteosi riassuntiva dell'intera sinfonia.
"L'immagine ideale di un uditorio per il quale Beethoven scrisse, e da cui attinse la forza e
l'impeto delle sue idee, fu un'ulteriore elaborazione del grande movimento democratico che
dalla Rivoluzione francese condusse alle guerre di liberazione tedesche. Elaborazione come si
presentò allo spirito di Beethoven. Possiamo percepirla ogni volta di nuovo quando viviamo in
noi stessi la potenza catartica e solenne di una Sinfonia di Beethoven, poiché in tali momenti
noi stessi diventiamo il pubblico per il quale Beethoven ha composto, la comunità cui egli
parla".
Il primo tempo è forse la più perfetta applicazione della valenza tragica della tonalità di do
minore, e della dialettica beethoveniana, basata sul contrasto di due idee, una veemente e una
implorante; ma questa perfezione è dovuta innanzitutto alla configurazione icastica del tema - i
celebri "tre più uno" colpi iniziali, esposti all'unisono - poi a una tecnica di elaborazione che fa
percepire ogni dettaglio come logicamente consequenziale, necessario e imprescindibile; la
seconda idea è solo un diversivo, nel fitto reticolato dell'elaborazione, che viene tuttavia
interrotta da improvvisi silenzi e singole voci strumentali, dalla valenza angosciante ed
interrogativa.
In questo contesto l'Andante con moto, in la bemolle maggiore, non ha la semplice funzione di
stemperare la tensione, ma piuttosto di mantenerla sempre sottesa; per questo il tema dei
violoncelli che costituisce la tranquilla idea portante del movimento, cede più volte il passo ad
una improvvisa accensione degli ottoni, che preannuncia l'esito di tanti conflitti.
Con lo Scherzo si torna non solo alla tonalità minore iniziale, ma anche al medesimo inciso
tematico, solo variato ritmicamente; è questo il movimento chiave per donare coerenza alla
Sinfonia. Da una parte, infatti, il "motto" iniziale acquista, nella riproposizione, una valenza
fatalistica (ma non bisogna dimenticare lo studio sul timbro, come il sibilo dei contrabbassi
all'inizio, o il Trio contrastante, con entrate fugate); dall'altra parte il movimento sembra
spegnersi nel nulla, con il "motto" sussurrato dai timpani, e sfocia invece in un episodio di
transizione, tanto breve quanto decisivo, che congiunge direttamente i due ultimi tempi,
attraverso un calibratissimo ed entusiasmante crescendo. Si approda dunque, col Finale, alla
risoluzione di tutti i conflitti esposti, con una trionfale fanfara che è in realtà la conversione
ottimistica dell'idea iniziale; non a caso, nella mirabile costruzione in forma sonata di questo
finale, il secondo tema non è più, come nel primo tempo, in opposizione al primo, ma piuttosto
complementare ad esso. L'unico momento di interruzione di questo entusiasmo consiste nella
riapparizione di un frammento dello Scherzo, come ricordo delle ombre e delle sofferenze da
cui sono venute le conquiste finali. Ma per sottolineare ancora la sapienza costruttiva di questo
movimento, converrà riferirsi alla riesposizione, che ripropone il crescendo della transizione
ma in forma abbreviata, per evitare la debolezza di una replica testuale, e ricordare l'energia
propulsiva dei tantissimi accordi iterati delle ultime battute, sui quali grava il peso liberatorio
non solo del movimento ma di tutta l'arcata evolutiva del capolavoro sinfonico.
Arrigo Quattrocchi
Spigolature d'archivio
La Quinta Sinfonia ovvero il regno infinito degli spiriti di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann
E T. A. Hoffmann fu scrittore, regista, direttore d'orchestra, magistrato e critico musicale con
lo pseudonimo di Johannes Kreisler. Fra le sue numerose recensioni, la più celebre è
sicuramente quella dedicata alla Quinta Sinfonia in do minore, pubblicata all'epoca sulla
"Allgemeine Musikalische Zei-tung".
Non risuona forse una vaga voce spirituale che versa nel nostro petto speranza e conforto dal
grazioso tema dell'Andante con moto in la maggiore? Ma anche in questo penetra lo spirito
terribile che ha posseduto e intimorito il nostro animo durante l'Allegro e ogni momento ci
minaccia dalle nubi tempestose in cui esso è scomparso e dinanzi ai suoi fulmini fuggono
rapide le care figure che ci avevano circondato.
Che debbo dire del Minuetto? Udite le particolari modulazioni, le cadenze dell'accordo
maggiore dominante che viene poi ripreso dal basso del tema successivo in minore e che è il
tema stesso il quale continuamente si estende di alcune battute. Non vi afferra allora
nuovamente quella nostalgia irrequieta e indicibile, quel presentimento del meraviglioso regno
spirituale nel quale il maestro domina?
Ma come un'accecante luce solare irraggia improvvisamente il meraviglioso tema del tempo
finale nel giubilo ridondante di tutta l'orchestra. Che meravigliosi lacci contrappuntistici si
riannodano da questo punto all'intera composizione! Certo che tutto può passare rimbombando
sopra noi come una geniale rapsodia; ma l'anima di ogni uditore intelligente viene certo preso
da un sentimento che corrisponde appunto a quella nostalgia indicibile e profetica; e sino
all'accordo finale e nei primi momenti successivi non potrà uscire dal meraviglioso regno
spirituale in cui la circondano gioia e dolore, personificati da note musicali.
E.T.A. Hoffmann. Kreisleriana, Dolori musicali del direttore d'orchestra Giovanni Kreisler.
Traduzione di Rosina Pisaneschi. Rizzoli, Milano 1984.
Op. 68 1808
Sinfonia n. 6 in fa maggiore "Pastorale"
https://www.youtube.com/watch?v=LzMYaMk3R3w
https://www.youtube.com/watch?v=DcKMl7ZCfl8
https://www.youtube.com/watch?v=OGK12cdmOvQ
https://www.youtube.com/watch?v=fiIh80jYeGE
https://www.youtube.com/watch?v=t2VY33VXnrQ
La novità della Pastorale, la più eccentrica ed enigmatica tra le Sinfonie di Beethoven, consiste
paradossalmente nel carattere retrospettivo della sua musica. Un quaderno di appunti,
conservato al British Museum di Londra, consente il privilegio di gettare uno sguardo sul
lavoro preparatorio per la Sinfonia, che fu elaborata in gran pate tra il 1807 e il 1808. In
margine al primo foglio del fascicolo, Beethoven ha scritto una definizione interessante,
sinfonia caracteristica, che merita di essere approfondita. L'aggettivo "caratteristico", nel
Settecento, richiamava un insieme di aspetti peculiari dello stile e della forma di un brano
musicale, collocabile cosi in un genere più o meno strettamente codificato. Il concetto di
"carattere", in un'epoca ancora influenzata dal manierismo settecentesco, si riferiva in primo
luogo all'espressione di un unico sentimento, o affetto, nell'arco dell'intera composizione.
Nell'opera, per esempio, si usava definire "caratteristica" l'Ouverture legata al clima espressivo
della scena immediatamente seguente, come accade nel caso dell'Alceste di Gluck o del Don
Giovanni di Mozart.
L'interminabile dibattito sul valore da attribuire'al programma della Pastorale ebbe origine
probabilmente in questa natura ambigua della Sinfonia. Beethoven s'invaghì del progetto
ardito e sperimentale di comporre una Sinfonia cercando uno stile di mezzo tra l'antico e il
moderno, inoltrandosi su un sentiero radicalmente nuovo anche per lui. L'autore era
consapevole che il suo progetto non era facile da comprendere e si premurò di aggiungere, nel
manoscritto della Sinfonia usato per la prima esecuzione, avvenuta a Vienna il 22 dicembre
1808, la definizione divenuta celebre "Sinfonia pastorella - mehr Ausdruck der Empfìndung
als Malerey" (più espressione del sentimento che pittura).
La preoccupazione dell'autore non era infondata. Da allora infatti la critica ha oscillato come
un pendolo tra letture di tipo rigorosamente ermeneutico e la negazione di qualsiasi rapporto
tra forma musicale e descrizioni poetiche. Il musicologo americano Owen Jander, per esempio,
ha di recente propugnato la tesi che l'episodio dell'usignolo, della quaglia e del cuculo in coda
al secondo movimento raffiguri in realtà la profezia dell'imminente sordità. Ammesso che gli
argomenti portati a sostegno di questa tesi siano inoppugnabili, qual è il vantaggio in definitiva
di addentrarsi in una selva inestricabile, popolata di simboli e figure metaforiche che nessuno
può interpretare in modo ragionevole? D'altra parte sarebbe molto discutibile ignorare il fatto
che l'autore ha senza dubbio cercato di delineare nelle didascalie un disegno spirituale, che non
si può cancellare accantonando ogni aspetto non riconducibile direttamente al testo musicale.
La Pastorale è articolata sulla carta in cinque movimenti, ma in effetti la struttura complessiva
della Sinfonia è percepibile in due metà chiaramente distinte. La prima parte è formata dai due
movimenti iniziali, l'arrivo in campagna e la scena al ruscello, indipendenti l'uno dall'altro; la
seconda invece corrisponde alla sequenza ininterrotta degli ultimi tre movimenti, che
configurano nel loro insieme un percorso narrativo unico. La compresenza di un principio
descrittivo e di uno di tipo formale implica una tensione alternata della percezione del tempo,
che si articola in una duplice dimensione. La musica della prima parte, obbediente
all'impostazione classica, comprende due movimenti composti in forma-sonata, secondo la
tradizionale sequenza di un movimento iniziale molto elaborato e di un tempo lento. Pur
accomunati idealmente dal fatto di condividere il medesimo clima espressivo, non si stabilisce
tra loro alcuna relazione temporale. I due brani potrebbero esprimere lo stato d'animo di
un'esperienza vissuta tanto nello stesso momento, quanto a distanza di molti giorni. La musica
della seconda parte invece collega assieme nel tempo una serie di avvenimenti. Il
concatenamento degli episodi induce l'ascoltatore a recepire l'ultima parte della Sinfonia come
il racconto di un'unica vicenda, il cui significato è pienamente comprensibile solo attraverso le
didascalie.
La differenza tra le due parti non riguarda però soltanto il carattere narrativo, ma anche la
percezione psicologica del tempo musicale. Solo l'ultimo dei tre movimenti che formano la
seconda parte è concepito in forma classica. Il primo, la "Riunione dei contadini", ha più il
sapore che la forma di uno Scherzo beethoveniano, mentre la sezione indiscutibilmente più
descrittiva della Sinfonia, il "Temporale", è scritta in stile del tutto libero, quasi teatrale. La
forma-sonata classica, particolarmente in Beethoven, configura una concezione del tempo
fortemente direzionale, in cui predomina la volontà del presente di proiettarsi sul futuro. In
questa Sinfonia, a differenza delle altre, sembra che Beethoven cerchi di rappresentare in vece
la circolarità del tempo, il divenire immobile della natura nel suo percorso di eterno ritorno.
Nella Pastorale si nota uno stile compositivo insolito per l'autore, attraverso l'uso di forme
ripetitive, l'assenza di forti contrasti tematici, l'uniformità della struttura armonica.
La differenza di stile tra le due parti corrisponde a un diverso grado d'identificazione con la
figura del protagonista. La forma-sonata della prima parte esprime un senso elegiaco dello
scorrere del tempo, che rispecchia il mondo antico, stabile e ben ordinato della campagna. La
natura, vista dall'eroe, appare come un luogo sicuro e immutabile nel tempo, governato da
leggi patriarcali. Il carattere narrativo della seconda parte spezza invece il lento ruotare del
tempo. Lo scoppio del Temporale determina un'improvvisa accelerazione, catapultando nel
mondo immobile dell'elegia una dimensione estranea e lacerante. Il contrasto drammatico di
questo episodio è simbolicamente espresso dall'uso della tonalità di fa minore, che rappresenta
una radicale rottura con il resto della Sinfonia, interamente avvolta nella distesa tonalità di fa
maggiore. Ma il carattere elegiaco della prima parte era stato contraddetto in precedenza anche
dallo stile realistico impiegato da Beethoven per raffigurare il mondo contadino, nella scena
del ballo. La comicità dei musicanti, con i loro errori grossolani e la frettolosa, incongrua
sovrapposizione delle danze, sembra corrispondere a una qualche deformità morale,
intervenuta a turbare la purezza dell'antica vita pastorale. Il ritorno della forma-sonata nel
Finale acquista così un senso quasi religioso, apparendo appunto come una rilettura degli
antichi culti. Questo aspetto rituale è confermato, negli abbozzi di Beethoven, da una
precedente versione della didascalia che accompagna l'ultimo movimento, in cui si parla di un
ringraziamento an die Gottheit, alla divinità.
Resta da chiarire qual è il disegno ideale che collega l'intero percorso. Una lettura della
Pastorale non può prescindere forse dalla figura di Goethe, che s'intreccia in molteplici modi
con le opere create da Beethoven in quegli anni. Il tentativo della Sinfonia d'interpretare in
chiave moderna l'antico genere "pastorale", per esempio, potrebbe essere legato all'aspirazione
goethiana di rinnovare il genere dell'idillio, di cui lo scrittore si era occupato in un testo allora
notissimo, Hermann und Dorothea (1797). Ma certe risonanze profonde si percepiscono anche
mettendo a confronto la Pastorale con alcune pagine dei Dolori del giovane Werther. In una
delle prime lettere del romanzo (10 maggio), Werther parla della natura con accenti che
sembrano evocare immagini precise della Pastorale ("Una meravigliosa serenità, simile a
questo dolce mattino di primavera, mi è scesa nell'anima [...] Quando la bella valle effonde
intorno a me i suoi vapori e il sole alto investe l'impenetrabile tenebra di questo bosco [...] e io
mi stendo nell'erba alta accanto al torrente [...] oh, se tu potessi esprimere tutto questo, se tu
potessi effondere sulla carta ciò che in te vive con tanta pienezza e tanto calore...").
La famosa scena del ballo, cui è legato l'episodio cruciale dell'incontro con Lotte, mostra delle
sorprendenti affinità con la seconda parte della Sinfonia. Werther è invitato a un ballo ("I
nostri giovanotti avevano organizzato un ballo in campagna al quale ero felice di partecipare
anch'io"). Nel mezzo delle danze scoppia un temporale, che spaventa le ragazze e turba
l'animo di tutti. Passato il peggio, Lotte e Werther si ritrovano insieme a osservare il
paesaggio. "Ci avvicinammo alla finestra, tuonava ancora lontano, una magnifica pioggia
cadeva scrosciando leggera e soave sui campi e un profumo vivificante saliva fino a noi come
un soffio di vento pieno di tepore. [Lotte] stava appoggiata sui gomiti e contemplava la
campagna; alzò gli occhi al cielo, poi li rivolse verso di me e vidi che erano pieni di lacrime.
Posò la mano sulla mia e disse: - Klopstock! - mi ricordai subito della stupenda ode".
Oreste Bossini
Iniziata nell'estate del 1807 e portata a termine nel maggio 1808, la Sesta Sinfonia è dedicata
al principe Lobkowitz e al conte Rasumowsky come la Quinta e, come questa, ha avuto la
prima esecuzione il 22 dicembre 1808 al teatro An der Wien, sotto la direzione dell'autore. Nel
programma del concerto l'opera era definita come «Sinfonia Pastorale, piuttosto espressione
del sentimento che pittura», mentre ognuno dei cinque movimenti portava un'indicazione
programmatica: «Piacevoli sentimenti che si destano nell'uomo all'arrivo in campagna - Scena
al ruscello - Allegra riunione di campagnoli - Tuono e tempesta - Sentimenti di Benevolenza e
ringraziamento alla Divinità dopo la tempesta»: l'opera si collega quindi al genere della musica
a programma settecentesco nel momento stesso in cui supera, aprendo un nuovo capitolo nei
rapporti fra musica e natura: l'interesse batte sull'"espressione del sentimento" piuttosto che
sulla "pittura", e la natura, pur protagonista assoluta dell'opera, entra in gioco in quanto vista e
sentita dall'uomo, è il tempio di una religione della benevolenza che ha nell'uomo il suo
centro.
L'Allegro ma non troppo d'apertura infrange la regola beethoveniana del contrasto tematico;
nessuna opposizione fra primo o secondo tema o altri motivi ancora, ma una miracolosa unità
di tono pur nel formicolare delle idee. Qui, e cosi pure nel secondo movimento (Andante
molto mosso nello scorrevole ritmo di 6/8), molti modi pastorali derivano dalla tradizione
arcadica e settecentesca, dall'opera italiana fino alle Stagioni di Haydn: ma Beethoven rifonde
i luoghi comuni in una nuova espansione metrica, con frasi che superano i normali argini delle
battute pensate a due o quattro per volta, con abbondanza di note tenute, con ripetizioni di
disegni, la cui immobilità è accentuata da crescendi e diminuendi; sicché non resta più nulla
del bozzettismo descrittivo (salvo la citazione precisa di quaglia, cuculo e usignolo alla fine
del secondo movimento), e il vero argomento è la coscienza umana, sciolta dalla tirannide del
tempo eroico o drammatico della forma-sonata. Il posto dello scherzo è occupato dalla
"Allegra riunione" dei contadini, dove il linguaggio della classicità viennese gioca con la
categoria del "popolare"; lo scherzo ha due trii in tempo binario, il primo (Allegro) è una
rustica danza d'incontenibile vigore, il secondo (Allegro) è il quadro del temporale (unico
impianto in tonalità minore, il fa, di tutta l'opera), ricco di elementi descrittivi come sforzati e
scale cromatiche per denotare fulmini e sibilare del vento. Con una transizione d'indicibile
fascino, l'acquetarsi della tempesta si collega all'ultimo movimento (Allegretto), dominato da
una melodia (poi sottoposta a variazioni) impostata nel popolaresco ritmo di 6/8: qui ogni
descrittivismo lascia il posto al tono di inno religioso, suggerito anche dall'armonizzazione di
corale, che pervade tutto il brano anche nei momenti di più scoperta esultanza sonora.
Guida all'ascolto 3 (nota 3)
«Tutto questo» ha egli espresso, in maniera suprema, attraverso il vasto e profondo flusso delle
note della sua «Pastorale», in cui l'espressione «del sentimento» prevale assolutamente sulla
materiale e bruta riproduzione fonica di fenomeni naturali.
La «Sesta Sinfonia» si articola in cinque movimenti (è consuetudine, però, di indicarne solo
quattro): Allegro ma non troppo; Andante molto mosso; Allegro; Allegro; Allegretto. Gli ultimi
tre, come è noto, si eseguono senza soluzione di continuità.
Il primo, Allegro ma non troppo, è basato su un tema di chiara provenienza popolare che,
intonato dai violini, suscita un'immediata sensazione di serena letizia ad indicare l'atmosfera
d'euforica gioia e di ristoro rigeneratore al primo contatto con la vita dei campi.
Atmosfera, del resto, che lievita di se stessa tutta la compagine sonora e a cui l'animo di
Beethoven era fortemente sospinto e predisposto: «Onnipossente Iddio, nella foresta! lo sono
beato, felice, nella foresta: ogni albero parla di Te. Quale splendore, o Signore! In queste valli,
nell'alto è pace»...
Il secondo tempo, Andante molto mosso, che porta come sottotitolo l'annotazione «Scena
presso il ruscello», rafforza il tono bucolico della Sinfonia attraverso una breve melodia
intonata, anche questa volta, dai violini, preceduta da un fremito d'archi in cui è stato scorto il
segno dì un lieve sussurro d'acque fluenti, intraviste attraverso la densa massa del fogliame
d'una foresta, stormente alle sollecitazioni del vento. In questo ambiente la persona umana si
smemora, sottraendosi alle proprie ambasce e conglutinandosi all'immenso tutto in una
attitudine di stupefatta contemplazione; e anche il gorgheggio dell'usignolo (flauto) cui
risponde il canto della quaglia (oboe) affiancato dal verso del cuculo (clarinetto) non devono
essere considerati come elementari traduzioni strumentali di voci di uccelli ma, piuttosto,
come elementi concorrenti a rafforzare l'accento di assorta estasi che caratterizza il secondo
tempo della Sinfonia.
Vincenzo De Rito
Spigolature d'archivio
Velatevi il volto, poveri grandi poeti antichi, poveri immortali; il vostro linguaggio
convenzionale, così puro, così armonioso, non saprebbe lottare contro l'arte dei suoni. Siete dei
vinti gloriosi, ma dei vinti! Voi non avete conosciuto quel che noi oggi chiamiamo la melodia,
l'armonia, le associazioni di timbri diversi, il colorito strumentale, le modulazioni, i sapienti
conflitti dei suoni nemici che si combattono prima per poi abbracciarsi, le nostre sorprese
dell'orecchio, i nostri strani accenti che fanno risuonare le profondità più inesplorate
dell'anima. Il balbettio dell'arte puerile che voi chiamavate "musica" non ve ne poteva dare
un'idea; voi soli eravate per gli spiriti colti i grandi melodisti, gli armonisti, i maestri del ritmo
e dell'espressione.
Ma queste parole nelle vostre lingue avevano un senso molto diverso da quello che noi diamo
loro oggi. L'arte dei suoni propriamente detta, indipendente da tutto, è nata ieri; è appena
adulta, ha ventanni. È bella, è onnipotente; è l'Apollo Pizio dei moderni. Le dobbiamo un
mondo di sentimenti e di sensazioni che restò chiuso per voi. Sì, grandi poeti adorati, siete
vinti: Inclyti, sed victi.
Hector Berlioz, Studio critico sulle Sinfonie, in L'Europa Musicale, a cura di Fedele d'Amico,
Einaudi, Torino 1950
https://www.youtube.com/watch?v=RPTxuUJ0Yzg
https://www.youtube.com/watch?v=u6mNgN1LKbc
https://www.youtube.com/watch?v=V09RdzPUYVs
https://www.youtube.com/watch?v=i0l6ow_28u8
https://www.youtube.com/watch?v=ZU4JhPgA5EM
Poco sostenuto - Vivace
Allegretto (la minore)
Presto (fa maggiore)
Allegro con brio
La Settima Sinfonia nasce fra l'autunno 1811 e il giugno 1812, in comunione con l'Ottava e
con le musiche di scena per "Le rovine di Atene" e "Re Stefano" di Kotzebue. La prima
esecuzione pubblica fu organizzata l'8 dicembre 1813 nella sala dell'università di Vienna in
una serata a beneficio dei soldati austriaci e bavaresi feriti nella battaglia di Hanau dell'ottobre
precedente: il concerto comprendeva anche due Marce di Dussek e di Pleyel e, dello stesso
Beethoven, la Sinfonia "a programma" La battaglia di Vittoria, scritta per celebrare la vittoria
di Wellington contro i francesi: opera che, come è stato tramandato non senza una punta di
delusione, sconfisse risolutamente ogni altra pagina in quanto a considerazione e accoglienze
da parte del pubblico.
Non sarebbe giusto tuttavia tacciare di superficialità i viennesi che lì per lì, sotto l'urgenza
dello stimolo patriottico, sembrarono preferire il lavoro occasionale all'opera immortale; per
altro, già da quella prima esecuzione, il secondo movimento della Settima, il celebre
Allegretto, ottenne un successo strepitoso e se ne dovette dare il bis, circostanza che poi si
sarebbe ripetuta in tutte le frequenti esecuzioni dell'opera ancora vivo Beethoven.
L'aspetto estroso, ai limiti della stravaganza, fu uno degli elementi più avvertiti dal gusto del
tempo: non solo un arcigno come Friedrich Wieck (il padre di Clara Schumann) percepiva
nell'opera la mano di un ubriaco, ma anche un apostolo romantico come Weber individuò
eccessi oltre i quali non era più lecito spingersi (più tardi però, nel 1826, doveva dirigerne
un'ammirata edizione a Londra); anche la parigina "Revue Musicale", dopo una esecuzione del
1829, in cui l'Allegretto fu regolarmente replicato, giudicava il finale «una di quelle creazioni
inconcepibili che hanno potuto uscire soltanto da una mente sublime e malata». Anche
l'esaltazione della Settima fatta da Wagner sarà il capovolgimento di queste censure contro la
stravaganza e l'eccesso: «coscienti di noi stessi, ovunque ci inoltriamo al ritmo audace di
questa danza delle sfere a misura d'uomo. Questa Sinfonia è l'apoteosi stessa della danza., è la
danza, nella sua essenza più sublime». Danza quindi come sublimazione di una essenza
ritmica, che percorre tutta l'opera in un graduale e costante crescendo d'intensità metrica, da
una lenta messa in moto fino al massimo dell'eccitazione.
Non meno esaltante è quindi la strategia complessiva dimostrata da Beethoven nel maneggio
di formule e vocaboli spinti all'incandescenza espressiva. Il Poco sostenuto introduttivo si
richiama alle ultime Sinfonie di Haydn, alla K. 543 di Mozart, alle Sinfonie n. 1, 2 e 4 dello
stesso Beethoven: la sua trasformazione nel Vivace, attraverso la microscopia di una sola nota
ripetuta, è una di quelle invenzioni irripetibili che non consentono altri sfruttamenti, e infatti
Beethoven non scriverà più introduzioni lente in questo spirito.
Nel Vivace che se ne sprigiona la continuità ritmica è talmente costante che vengono cancellati
i confini tradizionali fra temi principali e secondari; anche la consueta ripartizione di
esposizione-sviluppo-ripresa diventa un punto di riferimento secondario rispetto all'unicità
dello slancio vitale.
Incorniciato da due accordi degli strumenti a fiato in la minore, l'Allegretto è in forma ternaria,
con uso di variazioni e scrittura fugala come nella Marcia funebre dell'Eroica: tiene il posto
dell'Adagio o dell'Andante tradizionale, e trasfigura il pathos della confessione in una
melanconia distaccata e come lasciata in sospensione dalla pulsazione ritmica anche qui
inarrestabile (un dattilo seguito da uno spondeo), che non si interrompe nemmeno nel
dolcissimo intermezzo in tonalità maggiore. Nel Presto l'accelerazione ritmica riprende il
sopravvento, appena arginata da un Trio (derivato, a quanto pare, da un canto popolare di
pellegrini che tuttavia assume qui scoperti caratteri marziali) intercalato due volte, come nella
Quarta Sinfonia, al movimento principale; e tuttavia non c'è vero contrasto, perché il Presto si
conclude ogni volta su una nota, un La, che resta tenuto e immobile per tutta la durata del Trio;
accorgimento, come ha notato l'orecchio finissimo di Fedele d'Amico, «che finisce col
costringerci a guardare il Trio, per così dire, dal punto di vista del Presto»; in altre parole, quel
La tenuto non disperde l'energia ritmica ma la trattiene e la prepara a una nuova corsa. Il
finale, Allegro con brio, il cui tema principale Beethoven aveva già usato nella trascrizione di
un canto popolare irlandese, riassume e porta a conclusione tutti quegli aspetti trascinanti,
bacchici, messi in luce da Wagner, ai quali nemmeno il gusto moderno, passato attraverso
nuovi scatenamenti, riuscirà mai a sottrarsi.
Giorgio Pestelli
Terminata nel 1812, cinque anni dopo la Sesta, la Settima venne eseguita sotto la direzione del
compositore all'Universitätssaal di Vienna durante un concerto benefico a vantaggio dei soldati
austriaci e bavaresi feriti nella battaglia napoleonica di Hanau. Il concerto fu accolto in modo
entusiastico dal pubblico e l'esecuzione fu giudicata eccellente, anche in virtù del fatto che vi
avevano collaborato i maggiori strumentisti residenti a Vienna nel periodo.
Richard Wagner, colpito dall'elemento ritmico che, incessante, pervade l'intera partitura, cosi
la definì: «Questa sinfonia è l'apoteosi della danza. È la dama nella sua massima essenza,
l'azione del corpo tradotta in suoni per così dire ideali».
Che la danza ed il ritmo penetrino in ogni settore della composizione è del tutto vero; il ritmo
ne diviene categoria generatrice: dà forma ad incisi ed idee, innerva e vivifica la melodia,
trasforma plasticamente i temi. Ma anche accelera i cambi armonici, concentra o disperde i
motivi tra le varie fasce timbriche, sostiene e sospinge vigorosamente le dinamiche in
espansione.
Come si era verificato per la Prima, la Seconda e la Quarta Sinfonia, un'Introduzione lenta
precede ed avvia l'Esposizione. Si tratta di una pagina di ampio respiro (tempo Poco
sostenuto), la più estesa mai scritta da Beethoven.
All'inizio ai secchi accenti dell'orchestra i fiati oppongono il loro dolce canto, mentre gli archi
disegnano un leggero e staccato moto scalare ascendente. Un'atmosfera satura, carica di attesa,
accoglie l'ascoltatore ed i suoni paiono i segni premonitori di un evento. Poi lo stesso
movimento di semicrome esplode d'improvviso in una fragorosa e partecipata enunciazione.
Sulla sua scia sonora, che lentamente si spegne, l'oboe intona una delicata frase bucolica ed i
violini la riprendono, prima che di nuovo l'orchestra prorompa, ed ancora più fragorosamente.
È un clima selvaggio e aurorale, quello che magistralmente va dipingendo Beethoven, fatto di
scosse decise e di curve rassicuranti, di tensioni e di distensioni.
La frase agreste torna, ma si infrange sui fortissimo orchestrali della Coda. Infine
l'orchestrazione si dirada, il ritmo rallenta ed un pronunciato esitare sulla nota mi segnala la
fine di ogni indugio. È l'annuncio che si aspettava, l'avvio vero e proprio della Sinfonia.
Proprio nella Coda l'accenno al principio della nota puntata corrisponde ad una anticipazione
dello scalpitante primo tema. Il valore della continuità nell'unità interessa tutti i tasselli della
forma-sonata che Beethoven va costruendo. Anche il secondo gruppo è derivato ritmicamente
dal primo, così come pure nell'Epilogo riemerge la figura metrica del primo tema. Persino
frasi, o piccole parti, paiono sintonizzarsi e rendersi compatibili con questo carattere ritmico,
come avviene nell'inciso di collegamento in apertura di Sviluppo o in prossimità della Coda
conclusiva.
La poetica del gioco è un altro elemento costante e ricorrente. Nella Ripresa, ad esempio, dopo
che il primo motivo è tornato regolarmente, interviene una significativa variante: al culmine
del crescendo c'è un repentino cedimento con fermata su corona, sospensione e risoluzione
evitata; ma il tema non si è dileguato, semplicemente riappare del tutto trasformato e filtrato in
una luce serena e leggiadra. Si tratta solo di un esempio dell'arte della variazione che,
costantemente, affiora da queste pagine beethoveniane.
Il contrasto violento di colore è un invito a voltar pagina, a passare ad altro, senza il quale non
sarebbe stato possibile cogliere con la stessa immediatezza il cambio di temperie emotiva. Un
tema fioco e sommesso è esposto nel registro grave dagli archi. Passa ai violini secondi,
mentre gli si sovrappone un tenue controcanto di viole e di violoncelli. Quando sale ai violini
primi e secondi è una linea ancora triste, ma limpida e trasparente. Infine si estende al tutti
compatto in un vibrante fortissimo. Da misterioso qual era, il tema è ora divenuto un solenne
canto di preghiera.
La parte centrale è una parentesi tranquilla e disimpegnata. Vede i fiati dialogare serenamente
in ameni scambi e giochi d'eco e lascia presto il posto alla Ripresa della prima sezione. Qui il
tema iniziale si ripresenta già diversamente rispetto alla prima sezione in un sordo pizzicato ai
bassi, mentre il controcanto risuona ai fiati ed i violini realizzano cesellate figure in
arpeggiato. Tuttavia si presagisce che qualcosa ancora deve cambiare: l'armonia, infatti,
ancorata ad un lungo pedale di tonica, si fa increspata nell'insistito ritmare al basso, cosa che
induce ad un diffuso senso di inquietudine. Beethoven rivela la sua spiccata vocazione teatrale
e decide di produrre tensione all'interno dei gruppi strumentali: si apre cosi uno splendido
fugato sul tema iniziale (il cui controsoggetto è la variazione del controcanto) che via via viene
notevolmente esteso ed amplificato.
L'irruzione del Presto rinnova il vitalismo del primo movimento. Beethoven ricorre qui ad un
uso massiccio della ripetizione: può interessare incisi o singoli frammenti, così come diramarsi
alle strutture portanti ed influenzare la grande forma. Già il tema di apertura, scattante e
brioso, è costruito sul principio di iterazione ritmico-melodica. Ma anche il meccanismo di
elaborazione tecnica che il materiale subisce poco dopo, l'imitazione, è pure una forma
particolare di ripetizione, così come la riproposta del tema principale alla coppia oboe-flauto e
la sua amplificazione all'intero organico. Se si estende il raggio di osservazione tale principio
si allarga alle sezioni: dopo che si è aperta una tranquilla zona centrale, Assai meno presto (un
delicato Trio di carattere arcadico), c'è una prima Ripresa dello Scherzo ed una del Trio stesso,
però duplicate in una seconda Ripresa dello Scherzo ed ancora del Trio accorciato in funzione
di Coda.
Il Finale della Settima, l'Allegro con brio fu cosi definito da Wagner: «Con una danza agreste
ungherese [Beethovenj invitò al ballo la natura; chi mai potesse vederla danzare crederebbe di
vedere materializzarsi di fronte ai suoi occhi un nuovo pianeta in un immenso movimento a
vortice». E di festa di suoni bisognerebbe parlare già all'ascolto del primo tema, variopinta
girandola sonora cui seguono la scoppiettante fanfara dei fiati ed il ritorno del tema stesso
variato ed imitato. Dopo il secondo gruppo, scattante e vivace e l'Epilogo, lo Sviluppo
ripresenta il primo tema in chiave scura e greve, poi lo prosegue schiarito nella limpida
tonalità di do maggiore. Si fa più volte ricorso ad accorgimenti ed artifici: ancora nello
Sviluppo, dopo un veloce e trafelato episodio di progressione armonica, una vistosa cadenza a
fa maggiore introduce un'anticipazione del primo tema nella voce del primo flauto, ma
«spostata» a si bemolle maggiore.
Ben si comprende come si tratti di una simulazione di Ripresa. Quest'ultima interviene invece
«regolarmente» poco dopo con la citazione dell'intero materiale tematico contenuto
nell'Esposizione, questa volta nel tono d'impianto.
Marino Mora
Fra il compimento delle Sinfonie quinta e sesta e quello della settima passarono circa quattro
anni, durante i quali Beethoven compose fra l'altro i due Trii op. 70, il Trio op. 97, la Sonata
per pianoforte op. 78 e quella op. 81a (detta L'adieu, l'absence et le retour), il Quartetto op. 74
e quello op. 95, il Quinto Concerto per pianoforte e orchestra, le musiche di scena per la
tragedia Egmont di Goethe. La Settima Sinfonia fu probabilmente stesa nell'inverno 1811-12,
certo era compiuta in maggio; ma le sue prime idee risalgono a vari anni addietro: alcuni dei
suoi abbozzi sono mescolati, nei taccuini di Beethoven, ad appunti relativi al Quartetto op. 59
n. 3, che fu compiuto nel 1806. Fu eseguita per la prima volta oltre un anno e mezzo dopo il
suo compimento, l'8 dicembre 1813, in un concerto all'Università di Vienna organizzato da
Malzel (l'inventore del metronomo e di cento altri congegni d'orologeria musicale e affini) a
beneficio dei soldati austriaci e bavaresi feriti alla recente battaglia di Hanau (30-31 ottobre).
II concerto era una manifestazione patriottica; e il suo pezzo forte non fu la Settima bensì un
pezzo "militare" in due parti composto da Beethoven in ottobre per celebrare il trionfo di
Wellington sull'esercito francese in Ispagna, presso la città di Vitoria, il 21 giugno, e appunto
intitolato Wellington Sieg bei Vitorìa, cioè La Vittoria di Wellington a Vitoria (inutile spiegare
che l'involontaria freddura è solo della traduzione). Della partitura di questo pezzo facevano
naturalmente parte ordigni fabbricati da Malzel, che imitavano le cannonate. I primi musicisti
di Vienna parteciparono alla sua esecuzione: ai "cannoni" erano Salieri (che conosciamo come
uno degl'insegnanti di Beethoven) e il pianista-compositore Kummel, alla grancassa era il
giovane Meyerbeer, primo violino era Schuppanzigh, e fra gli altri violini era Spohr,
compositore assai ragguardevole e futuro direttore d'orchestra di primissimo ordine. E il
successo fu strepitoso: con nessun'altra delle sue partiture Beethoven ottenne in vita tanti
applausi. Il concerto intero (che comprendeva anche due marce di altri compositori) fu ripetuto
quattro giorni dopo, con incasso eccezionale.
Tuttavia anche la Settima Sinfonia, che lo concludeva, fu ammirata. Il pessimismo sul gusto
dei pubblici che potrebbe nascere considerando il non immeritato oblio in cui oggi è lasciata la
Vittoria di Wellington, tanto ammirata allora, può essere equilibrato da una considerazione
opposta: che il secondo tempo della Settima, quell'Allegretto che oggi è da tutti stimato una
delle più stupende creazioni di tutta la musica, fu immediatamente compreso e portato alle
stelle. Se ne dovette infatti dare il bis, come poi tornò ad accadere per molti anni quasi
dovunque la Settima fosse eseguita. Quanto alla Sinfonia nella sua integrità, incontrò come le
altre qualche opposizione nei particolari; ma il suo successo complessivo è indubitato, e tra
l'altro attestato dal fatto che nel 1816 se ne pubblicarono, insieme con la partitura, ben sei
trascrizioni diverse (per banda, per quintetto, per trio, per pianoforte a quattro mani, per due
pianoforti, per pianoforte solo).
La Settima Sinfonia non esprime un dramma nel senso in cui lo esprime la Quinta; ma tuttavia
non si trova davvero nella situazione della Pastorale, il cui assunto è puramente idillico, e
perciò radicalmente estraneo ad ogni idea drammatica (a meno che non si voglia chiamar
drammatico il contrattempo d'una festa all'aperto interrotta da un acquazzone). Nella Settima il
dramma vero e proprio è come in un antefatto; ma un antefatto le cui vibrazioni sono
immanenti nel discorso ch'essa svolge ora dinanzi a noi. È come se le conquiste compiute nella
Quinta (oltre che in tante opere di musica da camera o per pianoforte) si fossero tradotte in uno
stato d'animo: in una fremente esaltazione delle energie vitali che l'esperienza del "dramma"
aveva scatenato. Se dunque per dramma s'intenda, come per la Quinta, un conflitto fra principi
avversi che, posto all'inizio della sinfonia, sia risolto alla fine, non lo troveremo nella Settima;
vi troveremo però un linguaggio drammatico, un'animazione che ripropone il contrasto al
livello d'un gioco psicologico continuo di azioni e reazioni che non sono più la dialettica fra il
fato e l'uomo, fra il male e il bene, fra la materia e lo spirito, bensì quella dialettica fra luce e
ombra, fra tensione e riposo, ch'è insopprimibile alla vita interiore. E che nel nostro caso si
trova lanciata nella scia di una vittoria: quando il dramma fra il male e il bene è stato
preventivamente risolto in favore del bene, cioè della positività della vita.
Dunque il primo tempo della Settima, diversamente da quello della Quinta, non pone i termini
d'un conflitto che il quarto risolverà: avvia invece una specie di vortice che il quarto tempo
non "concluderà" bensì porterà al parossismo. In questo senso va interpretata la famosa
definizione che Wagner dette di questa sinfonia: "l'apoteosi della danza". In questa definizione
c'è ben più che una vaga suggestione poetica. Danza, dal punto di vista musicale, è infatti una
composizione il cui genere si definisce non tanto dalla sua forma quanto dal metro, cioè da
quel determinato ritmo che la percorre costantemente. Ora è vero che le forme, nella Settima,
sono quelle sinfoniche, che ben conosciamo; ma è anche vero che qui contano meno del
divenire ritmico generale. Non tanto abbiamo un sistema di temi contrapposti quanto una loro
varietà che si rileva su una continuità di fondo: una continuità, appunto, ritmica, che parte da
un minimo per arrivare a un massimo di animazione.
L'allegretto della Settima non costituisce rispetto agli altri tempi un contrasto reale, è solo un
episodio fra i tanti. Ma riceve uno spicco particolare dalla sua andatura immateriale, da quel
suo librarsi in una sorta di stratosfera della coscienza; l'ingresso alla quale (e l'uscita dalla
quale) è simboleggiato dall'accordo degli strumenti a fiato che lo apre e lo chiude. La stessa
malinconia che sembra aver presieduto alla sua nascita è solo un antecedente, ormai risolto in
un lirismo che la trascende in una contemplazione del tutto rasserenata.
Questa la forma del pezzo, molto semplice; ma anche qui, il fatto più rilevante è la continuità
ritmica. La melodia di A deve la sua fisionomia inconfondibile a un metro caratteristico
costituito dalla successione di due battute, la prima scandita in due semiminime, la seconda in
una semiminima seguita da due crome: abbiamo dunque, in termini di metrica classica, un
dattilo seguito da un spondeo. E questo ritmo percorre tutto il pezzo, compresa la sezione B; la
cui melodia, abbandonata su un accompagnamento di molli terzine degli archi, si rileva pur
sempre su un basso che ripete il metro dattilico senza abbandonarlo un istante.
Il principio della continuità sussiste, in qualche modo, anche nel successivo Scherzo. Questo
Scherzo (in fa maggiore, col Trio in re maggiore) riprende l'innovazione che abbiamo visto in
quello della Quarta Sinfonia: cioè una seconda apparizione del Trio dopo la ripresa della prima
parte, seguita da una ulteriore ripresa di questa in fine (dunque A-B-A-B-A in luogo del
tradizionale A-B-A). Qui il Trio ha carattere molto diverso dell'accaldato "presto" che
costituisce la prima parte: è una distesa melodia (in tempo "assai meno presto") che deriva, a
quanto pare, da un canto popolare di pellegrini. Dunque il principio della continuità ritmica,
letteralmente parlando, parrebbe sostituito da quello del contrasto. Ma in pratica le cose non
vanno così perché il "presto" si conclude, ogni volta, con una nota tenuta dai violini (un la),
che durante tutto il corso del Trio i violini non abbandoneranno più se non per passarla ad altri
strumenti; e questa nota finisce col costringerci a guardare il Trio, per così dire, dal punto di
vista del "presto" da cui essa proviene. Sì che il Trio ci si presenta come un suo interno
indugio, una sua parentesi, non come qualcosa che gli opponga un contrasto.
Il finale, come s'è già inteso, è il culmine della Sinfonia, il luogo in cui gl'impulsi posti nel
primo tempo, e variamente avviati negli altri due, arrivano al dispiegamento più violento, a
un'esaltazione dionisiaca. Il suo carattere è determinato soprattutto dal primo tema, che
Beethoven aveva già usato nella sua trascrizione d'un canto popolare irlandese, ma in altra
forma. Questo tema è come un seguito di scosse che percorrano una folla trascinandola al
tumulto: i temi secondari (dei quali quello, sfacciatamente chiassoso, che risponde
immediatamente al primo tema, è tratto da un canto popolare russo) sono come ingoiati nel
suo gorgo ascendente. Nel quale d'altronde sembra sboccare l'intera Sinfonia, anche perché
molte idee ritmiche e armoniche dei tempi precedenti vi riappaiono, a un grado di esaltazione
maggiore: esempio tipico quella lunga linea cromatica dei bassi che serpeggia a lungo prima
della conclusione mentre i violini e le viole si rimandano a vicenda, freneticamente, i
frammenti del tema, con un procedimento che ha lo stesso senso di quello che abbiamo
ricordato per la conclusione del primo tempo.
Fedele d'Amico
Quattro anni separano la Settima dalla Sesta Sinfonia ed in questo arco di tempo la creatività
beethoveniana, protesa alla sperimentazione di un più aggiornato linguaggio espressivo ed al
raggiungimento di nuove dimensioni formali, s'era principalmente impegnata nella produzione
cameristica.
La prima intenzione dell'idea di Beethoven di scrivere quella che diverrà la Settima Sinfonia è
rinvenibile in un appunto vergato sui suoi Taccuini del 1808, ma il primo abbozzo di un inciso
tipico di quest'opera lo si può rinvenire ancor due anni prima, negli schizzi relativi al Quartetto
in do maggiore op. 59 n. 3, con la precisa delineazione del caratteristico disegno ritmico
dell'Allegretto.
La cura profusa da Beethoven nella genesi della Settima indurrebbe a verificare nella partitura
l'intreccio sugli impasti timbrici, nella convinzione che l'organico della Sinfonia risulti assai
più nutrito che nei precedenti lavori: ma in realtà si scopre il contrario. Nella Settima infatti
Beethoven priva l'organico dell'ottavino, del trombone, del controfagotto, sviluppando, per
contro, la parte dei fiati (soprattutto dei corni) per produrre sonorità più ampie in un registro
acuto mai fino ad allora raggiunto. Man mano che procedette alla stesura della Settima,
apparve evidente l'intento di Beethoven a semplificare e concentrare i mezzi espressivi, oltre
ad esibire uno sconvolgente magistero orchestrale nell'articolazione del Finale rispetto al
tradizionale schema della forma-sonata.
Composta fra l'autunno del 1811 ed il giugno 1812, la Settima Sinfonia fu conosciuta la prima
volta l'8 dicembre 1813 nell'Aula Magna dell'Università di Vienna nel corso d'un concerto
organizzato da Malzel (l'inventore del metronomo) per raccogliere fondi a favore dei soldati
austriaci feriti nella battaglia di Hanau, che l'esercito confederale aveva combattuto contro i
francesi nel tentativo di tagliare la ritirata a Napoleone dopo la disfatta di Lipsia. Nella
medesima serata vennero eseguite due marce militari di Dussek e di Pleyel e, ancora di
Beethoven, la Vittoria di Wellington o la battaglia di Vitoria, a celebrazione dei successi in
terra di Spagna sulle truppe francesi da parte degli inglesi. Toccò singolarmente a quest'ultimo
lavoro, che era un pastiche di effetti onomatopeici e di inni nazionali, il maggior successo
dell'intero concerto mentre l'esecuzione della Settima passò quasi inosservata.
Un accordo di la minore per i fiati apre, e infine conclude, l'Allegretto, che è uno dei
movimenti più amati ed ammirati della produzione sinfonica beethoveniana e si fonda quasi
integralmente su di un solo modulo ritmico, la cui funzione discorsiva resta sempre prevalente
su qualsiasi altro parametro musicale. Tale movimento non è davvero una "marcia funebre",
come fu sostenuto da alcuni esegeti, pur se il suo clima espressivo appare pervaso da
quell'indefinibile senso di mestizia e da quegli accenti serenamente trasfigurati che si
troveranno, alcuni anni più tardi, nelle scansioni ritmiche del Lied schubertiano La morte e la
fanciulla. Dal Rietzler al Rolland, vari studiosi si sono soffermati a considerare le ascendenze
anche lontane del pulsare ritmico della Settima, accostando ad esso stilemi di danza e figure
ritmiche dell'antichità classica. Ad accrescere il fascino e le seduzioni di questa musica
contribuisce anche la cantabilità melodica, intessuta di passione sconsolata, del soggetto
principale che si propaga gradatamente a tutta l'orchestra, raggiunge il climax espressivo della
piena sonorità e poi decresce e muore. Subentra nei fiati una melodia, sorretta dal ritmo
originario, mentre, poco innanzi, è l'idea principale a ricomparire ancora tracciando la sua
parabola sempre nel canto dei fiati. Uno sviluppo fugato conduce all'estrema e più marcata
celebrazione ritmica, poi tutto sembra dileguarsi, con un procedimento di rarefazione simile a
quello esperito dallo stesso Beethoven alla conclusione della Marcia funebre dell'Eroica.
Lo Scherzo (Presto) appare modellato sul consueto schema instaurato ormai dall'autore dopo
la Seconda Sinfonia, nell'alternarsi e susseguirsi di piccoli incisi melodici, giochi ritmici e
modulativi, improvvisi furori delle varie sezioni strumentali, mentre nel Trio sembra cogliersi
l'eco di un motivo di canto popolare religioso dell'Austria meridionale, e tale elemento funge
da ritornello della melodia d'assorta e serena compostezza (Presto meno assai) ma anche di
sensibilissimo afflato lirico.
Il Finale (Allegro con brio) si riallaccia all'incalzare gioioso e all'estatica esaltazione ritmica
del primo movimento, imprimendo alla musica un andamento vorticoso. Preannunciato da una
marcata pulsazione metrica, l'ultimo movimento della Settima irrompe con un soggetto
danzante da cui l'inventiva dell'autore prende subito il volo per prodigarsi in un frenetico
tripudio di spunti motivici, partendo dal cupo, quasi indistinto mormorio dei bassi per crescere
man mano e coinvolgere da ogni parte tutti gli impulsi di slancio e di ascesa, per farli confluire
nel vortice fiammeggiante della perorazione conclusiva. L'appello ritmico, ribadito due volte
all'inizio, provvede poi imperiosamente a recidere l'atmosfera incantatoria della Settima, dopo
averne riaffermato, ancora una volta, tutto il suo luminoso ed impareggiabile splendore.
Luigi Bellingardi
La Settima Sinfonia nasce tra l'autunno 1811 e il giugno 1812, contemporaneamente all'Ottava
e alle musiche di scena per Le rovine d'Atene. La prima esecuzione pubblica, sotto la direzione
di Beethoven, fu organizzata l'8 dicembre 1813 nella sala dell'Università di Vienna in una
serata a beneficio dei soldati austriaci e bavaresi feriti nella battaglia di Hanau: l'accoglienza
fu entusiastica (come pure per la Vittoria di Wellington dello stesso Beethoven), in particolare
in virtù del secondo movimento, l'Allegretto, di cui venne subito chiesta la ripetizione. Già i
contemporanei, anche i più spregiudicati come C. M. von Weber, avvertirono nell'opera una
componente estrosa, una originalità spinta ai limiti del lecito; su questa linea si pone anche la
celebre definizione di Wagner di «apoteosi della danza» e di «musica delle sfere a misura
d'uomo». In effetti, mai il ritmo strutturale, come elemento basilare dell'invenzione, aveva
conosciuto una così straripante efficacia; come sempre, però, nella produzione centrale di
Beethoven l'energia scatenante è in equilibrio con il dominio formale, spinto qui a miracoli di
controllo e maestria combinatoria. Considerando la natura particolare delle sinfonie Ottava e
Nona, si può dire che con la Settima Beethoven chiude un capitolo nella storia della sinfonia,
esaurendo tutto il potenziale linguistico e comunicativo evidenziato dalle ultime sinfonie di
Haydn e Mozart circa venti anni prima. Alcuni spunti hanno una definizione così originale da
non consentire altri sfruttamenti: così il collegamento fra il Poco sostenuto introduttivo e il
Vivace (attraverso la ripetizione quasi iperbolica di una sola nota), la costanza del ritmo
puntato nel Vivace, l'essenzialità del profilo ritmico dell'Allegretto (una nota lunga e due
brevi), l'entusiasmo dello scherzo (compreso il marziale trio ripetuto due volte come nella
Quarta Sinfonia) e del finale (Allegro con brìo), testimoni di quella «onnipotenza bacchica»
messa in luce da Wagner e rimasta tale anche per il gusto moderno.
Per questa Sinfonia, compiuta da Beethoven nel luglio 1812, e successiva all'«Eroica», alla
Sinfonia «del destino», alla «Pastorale», i commentatori, da sempre, si sono tormentati per
trovare un titolo, un'indicazione di contenuto in modo da costituire con le altre sorelle una più
spiccata continuità. Fra le tante amenità che i più sprovveduti hanno immaginato a proposito di
questo o quel movimento (soprattutto problematico l'Allegretto, che ad alcuni è parso una
marcia funebre, ad altri una marcia nuziale!), il tentativo di definizione più illustre e forse più
centrato è certamente quello che Wagner lasciò nella sua Opera d'arte dell'avvenire, e che in
varia misura ritorna anche negli esegeti moderni (come il Bekker che definisce la Settima «una
specie di sublimazione ideale dell'antica 'suite' di danze»): «Questa sinfonia è l'apoteosi della
danza in sé stessa: è la danza nella sua essenza superiore, l'azione felice dei movimenti del
corpo incarnati nella musica. Melodia e armonia si mescolano nei passi nervosi del ritmo come
veri esseri umani che, ora con membra erculee e flessibili, ora con dolce ed elastica docilità, ci
danzano, quasi sotto gli occhi, una ridda svelta e voluttuosa, una ridda per la quale la melodia
immortale risuona qua e là, ora ardita, ora severa, ora abbandonata, ora sensuale, ora urlante di
gioia, fino al momento in cui, in un supremo gorgo di piacere, un bacio di gioia suggella
l'abbraccio finale».
Il ritmo come principio informatore di tutta la composizione: mai come in questa Sinfonia,
Beethoven, che pure ai disegni ritmici aveva da sempre rivolta un'attenzione ignota al
Settecento da cui pur proveniva (si pensi al finale della Sonata detta «Chiaro di luna», a quello
della «Patetica», dell'«Eroica»), mostra di voler privilegiare questo primario elemento
costitutivo della musica, celebrare in esso la pulsazione vitale, il «respiro del mondo»: dal
movimento ascensionale del primo tempo al solenne, ossessivo andamento di dattilo-spondeo
nell'Allegretto, alle più esplicite figurazioni di danza del III e IV tempo. Non vogliamo
intrattenerci più oltre e scendere ad analisi particolari dei quattro classici movimenti in cui la
Settima è articolata; vorremmo solo sottoporre agli ascoltatori una curiosità squisitamente
fiorentina: il 9 dicembre 1928 nasceva, sotto la guida di Vittorio Gui, la Stabile Fiorentina che,
nel suo primo concerto inaugurale, eseguì appunto la Settima di Beethoven. Per quella
occasione, fu lo stesso Gui a dettare le note di programma, che qui si possono rileggere non
senza qualche utilità: «Il primo tempo s'inizia con una serena introduzione, nella quale
spiccano le continue scale ascensionali dei vari strumenti (furono dette le scale dei giganti). Il
tema principale si manifesta quindi negli strumentini nel 'Vivace', e dilaga ben presto negli
altri gruppi orchestrali attraverso i suoi molteplici sviluppi predominanti dalla forza cadenzata
del ritmo logaedico, immagine ora di una gioia semplice ed agreste, ora lievemente tinta di
malinconia ed ora irrompendo irresistibile nel 'Tutti'. A proposito del secondo tempo, lasciamo
la parola a Berlioz: 'È il miracolo della musica moderna, in cui genio e arte profondono i più
potenti effetti della melodia, dell'armonia, dell'orchestrazione. Il pezzo comincia con un
profondo sospiro dei legni, dopo il quale un canto sublime si eleva gradatamente sino agli
accenti d'una sofferenza immensa, pari a quella del profeta delle Lamentazioni. Allontanando
per un momento il triste velo che copre il suo pensiero, il poeta getta quindi sul passato uno
sguardo triste come la pazienza sorridente al dolore; poi Beethoven ritorna a essere Geremia,
rientra nella Valle di lacrime e dopo averla percorsa interamente, lascia sfuggire di nuovo
quell'ineffabile sospiro che la previsione del dolore gli aveva strappato all'inizio'. Lo 'Scherzo'
originale e giocondo è come un risveglio, in cui Beethoven ha lasciato libero corso al fervore
deila sua immaginazione. Si vuole che il 'Trio', più lento, riproduca un canto di pellegrini noto
nella bassa Austria. Il focoso 'Finale' è una di quelle creazioni che non possono uscire che da
una mente sublime. Wagner disse che rappresenta una festa dionisiaca: certo è una vera orgia
di suoni e di ritmi, una pagina di una forza e di un'irruenza indescrivibili».
Cesare Orselli
Op. 93 1812
Sinfonia n. 8 in fa maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=fY4y1f2CKQY
https://www.youtube.com/watch?v=EpaxJk2uBEE
https://www.youtube.com/watch?v=A4pdnZ9xmlM
https://www.youtube.com/watch?v=GQ7-hbEWdw8
https://www.youtube.com/watch?v=rMqc2VEG6bQ
Allegro vivace e con brio
Allegro scherzando (si bemolle maggiore)
Tempo di Menuetto
Allegro vivace
Beethoven cominciò a lavorare all'Ottava Sinfonia nel 1811, ma tra ripensamenti e ritocchi
vari la completò nell'estate del 1812, durante i soggiorni nelle stazioni termali di Tepliz, in cui
avvenne il celebre incontro con Goethe, tanto ammirato dal musicista, Karlsbad e Linz. Una
prima esecuzione privata della sinfonia ebbe luogo nell'aprile 1813 nella residenza
dell'arciduca Rodolfo, mentre la sua presentazione pubblica avvenne il 27 febbraio 1814 nella
grande sala del Ridotto di Vienna. Per l'occasione il concerto era dedicato interamente a
musiche di Beethoven comprendenti fra l'altro la Settima Sinfonia e La vittoria di Wellington,
detta anche La Battaglia di Vittoria (Wellington Sieg oder die Schlacht bei Vittoria op. 91), una
pagina strumentale pomposa e magniloquente in cui erano inseriti temi degli inni inglesi "Rule
Britannia" e "God save the King" con .effetti onomatopeici di colpi di cannoni e rulli di
tamburi, nell'intento di celebrare la sconfitta delle truppe francesi avvenuta nella penisola
iberica per merito, appunto, del generale Wellington. Promotore di siffatto concerto era stato lo
studioso di problemi acustici Johann Nepomuk Maelzel, inventore con l'olandese Winkel del
metronomo e creatore di singolari macchine musicali, come il Panharmonikon, capaci di
riprodurre e ingigantire i suoni degli strumenti a fiato e della percussione. Maelzel potè
organizzare un programma così eterogeneo, in vista di grossi affari per le sue invenzioni, in
quanto si era guadagnato l'affetto di Beethoven promettendogli di costruire un apparecchio
infallibile contro la sordità. Tanto è vero che il musicista volle rendere un omaggio a Maelzel,
inserendo nel secondo movimento dell'Ottava Sinfonia uno spunto tematico che ricordasse
l'oscillazione del metronomo, preso da un canone scherzoso dello stesso Beethoven, elaborato
sulle parole: «Ta-ta-ta, caro Maelzel, addio...».
Un sentimento di serenità e di gioioso senso della vita esplode nell'Allegro iniziale, così
scapricciato e brillante nel suo variegato andamento strumentale, pur nell'estrema chiarezza e
linearità del disegno melodico. Si passa quindi allo scherzoso e umoristico Allegretto, dove la
frase elegante dei violini si espande con piacevolezza di impasti armonici dei fiati e degli
strumentini. Il Minuetto successivo non ha nulla della fatuità settecentesca e lascia trasparire
tra le sue pieghe un respiro ben più denso e premonitore di atteggiamenti brahmsiani.
L'Allegro finale è ricco di spensierata gaiezza nel suo travolgente discorso ritmico, anche se
tra qualche accento di pensosa riflessione sulla lieta giovinezza ormai declinante.
Ennio Melchiorre
Beethoven lavorò all'Ottava Sinfonia durante il 1811 completandola però nell'estate dell'anno
seguente a Teplitz, Karlsbad e Linz; fu eseguita la prima volta in pubblico, sotto la direzione
dell'autore, il 27 febbraio 1814 nella Sala del Ridotto a Vienna, in un concerto tutto di musiche
di Beethoven (fra le quali spiccava ancora la Settima Sinfonia). L'aspetto più singolare
dell'opera, sottolineato dalla ricomparsa del minuetto per il terzo movimento, è un certo ritorno
ad Haydn e Mozart dopo le novità di ogni genere affermate dalla Quinta Sinfonia, dalla
Pastorale, dalla Settima Sinfonia; ma il ritorno all'antico non è una vacanza (come suggerisce
anche la quantità di schizzi e appunti variamente elaborati), bensì una affermazione ulteriore di
umorismo e di vitalità capace di sorprendere e di giocara con le forme. Nel primo movimento
(Allegro vivace e con brio), a un primo tema di stampo cordiale (il fa maggiore d'impianto
ricorda il clima della Pastorale) ne succede un secondo dalla provocante asciuttezza ritmica,
costituito da un doppio salto di ottava; è un carattere meccanico, oggettivo che prosegue
nell'Allegretto scherzando, il cui tema d'avvio è identico a quello del canone scherzoso Ta-ta-
ta a 4 voci, senza numero d'opera, dedicato a Mälzel, l'inventore del metronomo. La
meccanicità parodistica ha per altro un risvolto di allegria rossiniana avanti lettera, che si
afferma anche nel finale (Allegro vivace), ripresa sofisticata del finale burlesco alla Haydn con
una estrosità di invenzioni pari alla maestria compositiva.
L'Ottava Sinfonia in fa maggiore fu composta, con una rapidità per Beethoven insolita, tra
l'estate e l'autunno del 1812, principalmente durante il soggiorno di cura a Teplitz (rimasto
famoso per l'incontro con Goethe) e Karlsbad. Di ritorno da Teplitz, Beethoven si fermò per
alcun tempo dal fratello Johann a Linz, dove sappiamo che dette gli ultimi ritocchi alla nuova
opera. Il manoscritto originale, infatti, reca annotato: «Sinfonia Linz, nel mese di ottobre
1812». La prima esecuzione ebbe luogo alla Redoutensaal di Vienna il 27 febbraio 1814, nel
corso di un concerto, come allora si usava, ponderoso assai, comprendente, oltre alla «Ottava»
e cose minori, «La battaglia di Vittoria» e la «Settima». E proprio alla Settima Sinfonia
l'«Ottava» si apparenta strettamente per circostanze di nascita e affinità di caratteri, tanto da
essere unanimemente indicata come la sua sorella gemella.
Vi furono, è vero, nel corso dell'Ottocento, voci che si levarono in difesa della «piccola
Sinfonia»: oltre a Wagner, che amò dirigerla sovente nei suoi concerti, quella di Robert
Schumann, profondo conoscitore e ammiratore di Beethoven, che scrisse, dopo un'esecuzione
dell'opera, il 10 dicembre 1840: «Fra le Sinfonie beethoveniane quella in fa è la meno eseguita
e ascoltata: perfino a Lipsia, dove tutte sono conosciute e quasi popolari, si nutre qualche
prevenzione proprio contro questa che per profondità umoristica non ha forse l'uguale fra le
opere del Maestro. I crescendo, come quello verso la fine dell'ultimo tempo, sono rari persino
in Beethoven, e quanto all'«Allegretto» in si bemolle non c'è niente da fare se non starsene zitti
e felici...». Valga, dunque, come indicazione di massima, il definirla la «Sinfonia del buon
umore»; a patto di chiosare, con Riezler: «Ma che potenti pensieri, sono quelli che gl'ispirano
questo buon umore! È davvero il buon umore di un dio; dal tema principale del primo
movimento fino al Finale, ogni battuta ha uguale ' peso specifico '». Che nulla fosse piú
estraneo a Beethoven dell'idea di un giocherellare aggraziato e sereno, lo dimostrano lo sforzo
e la meditazione di una piena consapevolezza stilistica nell'intenzionale ricorso alle forme del
passato (del «suo» passato, piú che di quello dei modelli classici), nel clima di ciò che il Lenz,
acutamente, chiama «un nuovo ordine spirituale». Sforzo, si è detto: di nessun'altra Sinfonia,
al di fuori della «Nona», sono rimasti tanti appunti, tanti abbozzi variamente elaborati, tante
diverse stesure per i vari tempi; senza contare i ritocchi e le aggiunte sostanziali apportate
anche dopo la prima esecuzione, come la soppressione di un'introduzione lenta al primo
tempo, che si slancia cosí fin dall'inizio come «in medias res», o l'aggiunta, al medesimo
primo tempo, delle trentaquattro battute della coda, con l'ultima intensificazione del tema
principale culminante in un fff, un forte con tre f, come non era accaduto mai neppure nei
vertici dell'Eroica o della Quinta. Altro che puro gioco musicale, altro che settecentesca
gracilità costituzionale! L'Ottava è il frutto della completa maturità di Beethoven, un frutto
prezioso e perfetto, una conquista dell'ultima postazione prima di spiccare il salto verso le
regioni incontaminate dell'ultimo e piú tardo stile. Che cosa è del resto la «gioia, bella scintilla
divina» della Nona Sinfonia se non una metafisica trasfigurazione del buon umore della
«Settima» e dell'«Ottava»? Cosí, i quattro tempi di cui l'opera si compone sembrano scandire
le tappe di un itinerario che dalla iniziale radiosità, colta per cosí dire di soprassalto, del primo
tempo, «Allegro vivace e con brio», giostrato su un'unica figura tematica che si espande
inarrestabile, giunge fino al calor bianco dell'ultimo tempo, spalancando profondità
improvvise e inattese aperture di grande pathos, in un subbuglio di forme, ora Sonata ora
Rondò, con due sviluppi e due riprese, e una finale, estesa coda, la quale finisce per proiettare
la sua luce sull'intero movimento, anzi sull'intera opera. Proprio per preparare il contrastante
squarcio di questo movimento finale, che dura da solo quasi quanto gli altri tre messi insieme,
Beethoven alleggerisce il peso dei due tempi centrali, legandoli a un materiale tematico e a
una temperie espressiva burleschi e ironici, ma soavemente leggeri. È noto che il secondo
movimento, il celebre «Allegretto scherzando», si basa sul tema di un canone composto da
Beethoven per Johann Nepomuk Mälzel, il perfezionatore del metronomo, in cui si allude,
appunto, per burla, all'implacabile ticchettio del metronomo. Sull'accompagnamento
«meccanico» dei legni, gli archi ricamano una linea melodica ora incisiva ora grottesca, come
di chi perdesse e ritrovasse la strada, in continua variazione. Qui ogni riferimento al Settecento
è francamente escluso: l'«Allegretto» - se ne accorse Berlioz - «è una di quelle creazioni alle
quali non si può trovare né modello né corrispondente», il parto di una fantasia scatenata e allo
stesso tempo controllata. Metteteci un po' di teatrale serietà, e di tragedia vera, e avrete le
Burlesche di Mahler.
Anche il terzo tempo, «Tempo di Menuetto», non nasce dalla volontà di riesumare una forma
che, nella Sinfonia, Beethoven aveva già da tempo superato e sostituito con il piú moderno
Scherzo. Il musicista ne accentua maliziosamente l'incedere pomposo e nel Trio crea un
piccolo capolavoro dove la parodia si eleva inconsapevolmente a poesia: su un
accompagnamento in terzine, vecchiotto e asmatico, dei violoncelli, i corni e il clarinetto
risuscitano la melodia di un minuetto scritto da Beethoven nel lontano 1792. Va dato atto a
Carli Ballola, la cui monografia beethoveniana sempre piú col tempo riluce, quando
stupendamente aggiunge e conclude: «Il vecchio motivo, nella seconda parte, ci riserva la sua
sorpresa piú incantevole, colorandosi magicamente d'iridescenze armoniche quasi brahmsiane:
un intenerimento improvviso, quasi uno struggente e fuggevole senso di rimpianto per il
ragazzo scontroso in codino e calze di seta della piccola Bonn, apparso per un istante alla
memoria dell'uomo maturo e amareggiato».
Sergio Sablich
Spigolature d'archivio
Segue l'Allegretto Scherzando, questo gioco di angioli tra bianche nuvole globose, ma qui pure
il meccanico dell'arte superiore, avvalorato dalla leggenda che questo scherzo è stato ispirato
dal tic tac del metronomo: clessidra dei musicisti.
Nel Tempo di Minuetto poi la mente musicale di Beethoven si sfronda anche più e si
assottiglia, finché arriva del tutto purificata al finale: al finale così squisitamente povero
d'invenzione, così parco di temi - questo finale che si direbbe scritto solo perché,
nell'economia di una sinfonia, finale ci vuole - e che in molte sue parti, e soprattutto nel finale
di lui finale, non è altro che note. E che altro è la musica che note? Gl'ignari, i rozzi, i d'insana
fame affamati trovano nella nota quello che nella nota naturalmente non c'è né ci può essere:
un valloncello, un fiume, gli occhi della donna amata, una nuvola che passa, il mare in
burrasca, le voci dell'uragano; mentre "chi sa" non chiede alla nota ciò che la nota non può
dare, ma ne accetta il suono soltanto e al più considera la nota e l'ama come segno sulla carta:
la nota con la sua testina ora bianca e ora nera, ora con l'asticciola al fianco ora senza; e di
questa scritta strategia si appaga.
Alberto Savinio, Scatole sonore, Milano, Einaudi 1955
https://www.youtube.com/watch?v=jl4mW2Mc9is
https://www.youtube.com/watch?v=JOaI93Ob2B4
https://www.youtube.com/watch?v=9dwNRpqcIEc
https://www.youtube.com/watch?v=Iymv42aYHzY
https://www.youtube.com/watch?v=tBLPDnTyxRo
https://www.youtube.com/watch?v=EyJYpVTygm8
https://www.youtube.com/watch?v=LShjcDZZ6Uk
https://www.youtube.com/watch?v=vHmAvynDVBU
Organico: soprano, contralto, tenore, basso, coro misto, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2
fagotti, controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, triangolo, piatti, grancassa, archi
Composizione: 1822 - 1824
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 7 Maggio 1824
Edizione: Schott, Magonza 1826
Dedica: Federico Guglielmo III, Re della Prussia
Monumento della musica di ogni tempo, la Nona Sinfonia prese forma molto lentamente
nell'arco della vita di Beethoven. Si può infatti risalire al periodo in cui il compositore, non
ancora ventenne, frequentava l'elite intellettuale di Bonn ed entrò in rapporti di amicizia con la
ricca famiglia von Breuning, presso la quale conobbe il grecista e poeta Eulogius Schneider,
entusiasta sostenitore degli ideali della Rivoluzione Francese e Ludwig Bartholomeus
Fischenich, docente di diritto all'Università di Bonn e amico di Friedrich Schiller. È molto
probabile che proprio in questa Università, dove Beethoven frequentava i corsi di filosofìa,
Fischenich abbia fatto conoscere al giovane musicista l'opera di Schiller, e quell'Ode An die
Freude (scritta nel 1785 e pubblicata nel 1786) che era diventata un simbolo degli ideali dei
giovani tedeschi. Già allora Beethoven aveva immaginato di mettere in musica questa poesia,
secondo quanto sostiene Fischenich in una lettera del 1793 indirizzata alla moglie di Schiller.
Ma il progetto non andò in porto, forse a causa dell'improvvisa partenza di Beethoven per
Vienna e della censura che aveva colpito le opere del poeta, messe all'indice nella città
austriaca come scritti «immorali» e «pericolosi» (solo a partire dal 1808 i suoi drammi furono
nuovamente rappresentati sulle scene e le sue opere poterono circolare liberamente). Progetto
che però rimase sempre nella mente del compositore, anche prima di essere realizzato, nel
1824, nel celebre Finale della Nona. Nel 1790 Beethoven aveva utilizzato un frammento
dell'Ode schilleriana nel testo della Kantate auf die Erhebung Leopold II zar Kaiserwürde, e
non è da escludere che in quegli anni giovanili possa aver composto anche un Lied, andato
perduto. Gli unici altri testi di Schiller che egli mise in musica furono una strofa della ballata
Das Mädchen aus der Fremde, nel 1810, e il Cesang der Mönche (dal Wilhelm Tell), per coro a
cappella, del 1817.
Molti elementi musicali della Sinfonia in re minore si possono individuare in lavori
precedenti, oltre a comparire in forma di appunti e schizzi nei taccuini di Beethoven sin dal
1794. Allo stesso anno risale la composizione del "Lied" Seufzer eines Ungeliebten und
Cegenliebe, su versi di Gottfried August Bürger (1747-1794), la cui melodia prefigura per la
prima volta il celebre tema dell'Ode alla Gioia della Nona. A questo tema Massimo Mila, nella
sua Lettura della Nona Sinfonia, riconduce anche un breve frammento melodico appuntato in
un quaderno del 1804. Già nei primi anni del secolo Beethoven immaginava di comporre un
grande affresco sinfonico e corale, e aveva anche pensato di concludere la Sinfonia Pastorale
con un coro religioso. Nel 1808 compose la Fantasia in do minore per pianoforte, coro e
orchestra, che si può considerare quasi uno studio preparatorio della Nona, sia per la
concezione sperimentale della forma, sia per il contenuto poetico, legato ai versi di Christoph
Kuffner che inneggiano alla pace, alla gioia, all'armonia universale. Altri spunti che anticipano
materiali motivici e soluzioni formali della Nona si possono cogliere nel Lied Kleine Blümen,
kleine Blätter, su testo di Goethe, del 1810; in un frammento melodico schizzato nel 1812 sul
verso «Freude, schöner Götterfunken», inizialmente pensato per un'Ouverture corale, e
successivamente utilizzato nell'Ouverture Zur Namensfeier del 1815; in un tema di fuga
annotato in un quaderno dello stesso anno, che appare come una chiara anticipazione del tema
del secondo movimento della Sinfonia. I primi abbozzi veri e propri della Sinfonia corale
risalgono però al 1817, nello stesso periodo della composizione della Sonata Hammerklavier.
Questo lavoro preparatorio proseguì fino ai primi mesi del 1819, quando Beethoven
abbandonò la Nona per dedicarsi ad altre composizioni, anche a causa delle esigenze
economiche che lo costringevano a trovare fonti di guadagno; in quegli anni videro la luce
capolavori come la Missa Solemnis, le Sonate per pianoforte op. 109, 110, 111, le 33
Variazioni su un Walzer di Diabelli.
La Nona Sinfonia apparve subito come un capolavoro rivoluzionario, non solo per la presenza
delle voci e del coro, ma perché metteva in crisi il concetto stesso di "Sinfonia". Oltre che una
sintesi di tutto ciò che era stato fino ad allora sperimentato e acquisito nel genere sinfonico,
dalla forma-sonata al Lied, dalle Variazioni allo stile fugato, la Nona è anche una grandiosa
architettura sonora nella quale Beethoven fa convivere altri generi musicali: lo stile operistico,
la musica militare, gli esotismi «alla turca», la scrittura polifonica tipica della musica sacra.
Elementi eterogenei che compongono un organismo unitario, ricco di invenzioni timbriche e di
finezze ritmiche e metriche (come le soluzioni poliritmiche del primo movimento o i
raggruppamenti alternativamente a tre e a quattro battute dello Scherzo), e caratterizzato da
continui impulsi dinamici che imprimono un'energia inesauribile al concatenamento delle
figure musicali. Nonostante la grandiosità della concezione (secondo Igor Markevitch la Nona
rappresenta «il massimo sforzo di sintesi e rinnovamento che mai sia stato compiuto nella
storia della Sinfonia»), che determinò la successiva evoluzione del sinfonismo romantico fino
a Mahler, in questa Sinfonia Beethoven ritorna allo stile eroico della Terza, composta tra il
1803 e il 1804, e sperimenta le sue audaci innovazioni rimanendo all'interno di un modello
classico, come aveva già fatto nella Hammerklavier, portando la forma sinfonica ereditata
dalla tradizione tedesca ai limiti estremi in senso dinamico ed espressivo. La solidissima unità
strutturale dell'insieme deriva dal sapiente trattamento dei percorsi tonali, ma anche dal ricorso
a matrici comuni per la sagomatura dei diversi temi: «tutti i temi tipici della Sinfonia - osserva
Vincent D'Indy - presentano l'arpeggio degli accordi di re o di si bemolle, le due tonalità di
base dell'opera; si potrebbe, di conseguenza, considerare questo arpeggio il vero tema ciclico
della Nona Sinfonia». La convenzionalità del linguaggio armonico e della superficie formale,
con una forma-sonata nel primo movimento, uno Scherzo nel secondo (con fugato e doppia
ripetizione) e due serie di variazioni nell'Adagio e nel Finale, non impedisce a Beethoven di
superare i modelli preesistenti e di individuare un percorso formale nuovo e di immediato
impatto all'ascolto.
Una delle novità più rilevanti di questa Sinfonia, che non si limita a concludere un grande
ciclo ma appare come la sublimazione dell'arte beethoveniana, è il superamento dello schema
sonatistico dei due temi contrapposti a favore di un'elaborazione più complessa che non solo
mette in gioco materiali diversi ma moltiplica i livelli di contrapposizione.
Ne è un esempio il primo movimento, Allegro ma non troppo, nel quale secondo Mila si
potrebbero contare fino a cinque temi differenti, «perché in realtà non si tratta di semplici temi
[...] a rigore si deve parlare di tre "gruppi tematici", cioè di tre complessi di idee strettamente
embricate l'una all'altra». In questo movimento la tradizionale forma-sonata si trasforma
quindi in un organismo musicale nel quale i temi si presentano a gruppi, formando un
serbatoio di elementi per l'elaborazione, ed esposizione e sviluppo si trovano strettamente
congiunti, producendo un continuo fermentare di motivi e di sequenze ritmico-armoniche.
Anche la ripresa presenta al suo interno una sorta di sviluppo che suscita nuove tensioni,
contribuendo a fare di questo movimento non un'arcata in sé conchiusa, ma un segmento di
una grandiosa arcata che abbraccia l'intera Sinfonia.
Il secondo movimento non è, come voleva la tradizione, un tempo lento, ma uno Scherzo,
Molto vivace, che si contrappone quindi al movimento precedente non sul piano agogico ma
su quello espressivo: dopo un Allegro dal tono cupo e drammatico, questa pagina appare come
un turbinio danzante e gioioso, nel quale fanno il loro ingresso anche i tromboni, assenti nel
primo movimento. Dopo le otto battute iniziali, in cui è esposta una brevissima cellula ritmica,
prima dagli archi, poi dai timpani, quindi da tutta l'orchestra, il tema principale emerge in
forma di fugato, in pianissimo, innescando un meccanismo di progressiva stratificazione
timbrica. Anche in questo movimento, molto più esteso di un tradizionale Scherzo, è presente
una sezione di sviluppo, e la funzione del Trio è affidata ad un Presto in 4/4, introdotto da un
disegno staccato del fagotto sul quale oboi e clarinetti espongono un calmo motivo di otto
battute che anticipa il tema della Gioia.
Dopo due tempi movimentati, l'Adagio molto e cantabile, in si bemolle maggiore, si presenta
come una vera e propria oasi lirica, che introduce l'elemento della cantabilità attraverso due
temi intensamente espressivi, i quali imprimono al movimento un sentimento di dolore e di
contemplazione che ricorda la Missa Solemnis. Una cantabilità ancora senza voce, anche se il
compositore aveva forse inizialmente progettato, stando a quanto sostiene George Grove, di
fare entrare il coro già in questo movimento, in coincidenza con la enunciazione del secondo
tema. Dal punto di vista formale, alla struttura del Lied Beethoven sovrappone quella della
variazione, individuando un modello che adotterà anche nei tempi lenti degli ultimi Quartetti
per archi. La raffinatissima trama strumentale è illuminata da un'orchestrazione sempre
cangiante, che si basa sul continuo scambio tra legni e archi, e che concorre a creare
un'atmosfera estatica, appena increspata da un'improvvisa fanfara delle trombe nella parte
conclusiva.
Ma è nell'ultimo movimento, Presto, che l'impulso al canto trova il suo sfogo e si materializza
nell'inserimento delle voci soliste e del coro, infrangendo le barriere del genere sinfonico.
Culmine dell'intera Sinfonia, questo Finale si snoda attraverso sezioni molto marcate e
nettamente contrastanti: all'inizio compaiono brevi reminiscenze orchestrali dei movimenti
precedenti, con temi che vengono accennati e immediatamente abbandonati; poi, lentamente,
prende forma il tema della Gioia, che inizialmente si presenta appena abbozzato (in quattro
battute) da oboi, clarinetti e fagotti, su un pedale dei corni, per poi espandersi in tutta
l'orchestra e nelle voci. Negli abbozzi per il recitativo del basso (sulle parole «O Freunde,
nicht diese Töne!») che precede l'esposizione cantata del tema della Gioia, Beethoven esplicita
il significato simbolico e musicale del rifiuto dei movimenti precedenti, quasi una catarsi
rispetto ai ricordi di lotte e tragedie, e scrive: «No, questo caos ci ricorda la nostra
disperazione. Oggi è un giorno di celebrazione, celebriamolo con canti e danze». Il resto del
movimento si dipana quindi festosamente intrecciando al celebre tema corale, quattro distinti
episodi: il primo costruito come un'elaborazione polifonica del tema stesso, il secondo che lo
trasforma in passo di Marcia, sottolineato da un'orchestrazione turchesca (con grancassa, piatti
e triangolo), il terzo che introduce un nuovo tema (Andante maestoso) sulla penultima strofa
dell'Ode «Seid umschlungen Millionen», il quarto che combina contrappuntisticamente il tema
della Gioia con quello del terzo episodio, dando vita ad una doppia fuga che porta alla
trionfale conclusione.
L'Ode di Schiller trovò quindi finalmente posto nella Nona Sinfonia. Ma nel metterla in
musica Beethoven ne fece un libero arrangiamento, utilizzando solo una parte delle strofe e
omettendo alcuni versi: quelli dionisiaci che inneggiavano al vino, e quelli che parlavano
troppo esplicitamente della libertà dalle catene dei tiranni e della magnanimità verso il
malvagio, versi evidentemente non politically correct in un'epoca di Restaurazione. Secondo
Mila l'intenzione segreta di Beethoven era quella di celebrare non la Freude (gioia), bensì la
Freiheit (libertà), e questa ipotesi è supportata da un quaderno del 1812 nel quale è annotato un
verso dell'Ode di Schiller che Beethoven intendeva mettere in musica: «Bettler werden
Fürstenbrüder» (i mendicanti saranno fratelli di principi) che poi diventò il più evangelico e
generico «Alle Menschen werden Brüder» (tutti gli uomini saranno fratelli). Rielaborando il
testo di Schiller Beethoven ottiene una sorta di sceneggiatura drammatica che ci pone all'inizio
davanti alla Gioia, incarnazione della madre nutrice («Freude trinken alle Wesen / An den
Brüsten der Natur»), che abbraccia tutta l'umanità («Alle Menschen werden Brüder / Wo dein
sanfter Flügel weilt») e prepara il loro ricongiungimento con il padre («Brüder, über'm
Sternenzelt / Muss ein lieber Vater wohnen»). Il tripudio musicale dell'ultimo movimento (nel
quale Maynard Salomon vede fuse insieme quattro componenti caratteristiche dell'ultimo stile
beethoveniano: il canto, la danza, la variazione e la fuga) diventa così festosa enunciazione di
un messaggio di libertà di fratellanza universale, che riprende da Schiller l'ideale di una nuova
società. Per il poeta tedesco, convinto seguace di Kant, lo scopo dell'arte era quello di
indirizzare l'umanità verso un nuovo ordine sociale, verso una nuova forma di armonia e di
pace, che avrebbe permesso il libero sviluppo di tutte le potenzialità umane. Sposando questo
modello utopico Beethoven, nella Nona, dà quindi una soluzione di stampo illuministico e
ideologico allo scetticismo e ai laceranti conflitti che caratterizzavano tante opere precedenti,
attraverso immagini idealizzate, proiettate nel futuro. La complessa struttura musicale della
Sinfonia, data anche dalle sottili correlazioni tematiche tra i primi tre movimenti e il Finale, si
può allora leggere come un vero percorso drammaturgico, una visione cosmica che va dalle
tenebre alla luce. E che rivela una sostanza etica, oltre che estetica.
Gianluigi Mattietti
La strada che porta alla Nona e ultima sinfonia di Beethoven parte da lontano» in una lettera
(1793) del consigliere di stato B. Fischenich alla figlia di Schiller si accenna alla volontà del
giovane Beethoven di musicare l'ode Alla gioia del poeta tedesco; un Lied del 1795 si
conclude con una melodia (Amore reciproco) che passerà dodici anni dopo nella Fantasia op.
80 e quindi, con alcune trasformazioni, nell'ultimo movimento della Nona; inoltre esistono
vari appunti e abbozzi, in anni dal 1798 al 1815, in un cui compare l'idea di mettere in musica
alcune strofe dell'ode di Schiller. Il progetto di un nuovo lavoro sinfonico, dopo la Settima e
l'Ottava si affaccia d'altra parte nel 1811, ma resta per un decennio larvato e di non chiara
delineazione: ancora nel 1822 Beethoven ha in mente due diversi lavori sinfonici, uno in re
minore per la Società Filarmonica di Londra (che gliene aveva fatta richiesta) e uno con
intervento corale su un testo tedesco ancora da reperire. Durante il 1823 i due progetti
confluiscono in uno: nella primavera il primo e il secondo movimento sono già quasi tutti
fissati in abbozzo e nell'ottobre è ultimato l'Adagio; nel febbraio del 1824, con l'inserimento
dell'ode schilleriana, la sinfonia è completata e cominciano lunghi imparativi e trattative per la
prima esecuzione, che avrà luogo a Vienna il 7 maggio 1824 al Teatro di Porta Carinzia sotto
la direzione dell'autore, con grandissimo successo di pubblico.
La Nona Sinfonia rende esplicito il messaggio ideologico presente in realtà in tutto Beethoven:
la Gioia illuministicamente sentita quale slancio vitale, Impegno ottimistico a superare i propri
egoismi in una fratellanza di tutti gli uomini, sicuri che sopra la volta stellata abita un caro
Padre. La voga viennese di grandi composizioni sinfonico-corali (gli oratorii di Haydn, la
ripresa ammirata di oratorii di Händel) può aver orientato Beethoven verso la cornice
grandiosa, ma questa è maturata per necessità interiore dal terreno della Sinfonia: l'aver
ordinato l'opera in modo tale che dopo tre movimenti radicati nella tradizione sinfonica, non
sembrasse più sufficiente il discorso strumentale, ma bisognasse saltare il fosso verso la
musica vocale, portatrice di significati ideologici indubitabili, fu un atto di straordinarie
conseguenze per la storia culturale della musica nel suo complesso e in particolare del genere
Sinfonia che qui, in pratica, concluse il suo corso in senso classico.
Reca un messaggio quest'opera? Una cosa sembra comune a tutto quanto è stato scritto:
attraverso i suoi quattro movimenti questa sinfonia è un grande percorso dal buio alla luce, il
passaggio da uno stato di angoscia, frenesia affanno, attraverso la speranza, la dolcezza, fino
ad arrivare alla gioia. Ma è ancora possibile considerarla 'seriamente'? Ossia, contrariamente a
ciò che riteneva Adorno, dopo Auschwitz e gli orrori del secolo scorso è ancora possibile un
dialogo sincero con una musica che parla ancora il tono della humanitas? Oppure -
considerando anche orrori ben più recenti - dobbiamo realisticamente lasciare la fratellanza
universale celebrata nel Finale tra le grandi illusioni?
Emblema di ogni questione sulle possibilità espressive della musica, oltre che opera dal
destino controverso, sospesa tra l'elevazione a mito della cultura europea e le pesanti critiche
mosse alla costruzione del Finale, la Nona di Beethoven suscita sempre nel pubblico
un'accoglienza rinnovata. In tale prospettiva, è davvero curiosa la dissonanza tra la grande
devozione dei Millionen che da sempre affollano le sale da concerto quando la Nona è in
programma, e una tradizione critica piuttosto consolidata che nell'ultimo movimento la vede
come opera sgraziata: certamente di grande presa emotiva, ma debole dal punto di vista della
perfezione formale rispetto ad altri capolavori del suo autore.
Dalle precedenti Settima e Ottava, entrambe del 1812, la Nona Sinfonia dista ben undici anni.
Si tratta all'incirca dello stesso intervallo di tempo che Beethoven impiegò nel primo decennio
del secolo per comporre tutte le altre sinfonie, emancipando tale genere musicale ricevuto
dalle mani di Haydn e Mozart - musica di elevato intrattenimento - e portandolo già con
l'Eroica alla concezione ottocentesca: ogni sinfonia deve essere 'un mondo', come sosteneva
Mahler.
Il 1823 fu l'anno in cui si dedicò totalmente alla composizione della Nona mentre il decennio
antecedente fu caratterizzato, in una prima fase, da una riduzione dell'ondata creativa: sono i
cosiddetti 'anni sterili' i quali possono essere però visti come quel momento di necessaria
sedimentazione dello 'stile eroico' da cui potranno emergere le ultime quattro sonate per
pianoforte e le Variazioni Diabelli. Successivamente venne quel periodo di intenso lavoro che,
basato su un rinnovato interesse per la vocalità antica - Palestrina anzitutto -, darà corpo in
quattro anni alla Missa Solemnis.
Tutto ciò non fu senza influenze sui progetti di nuove sinfonie che rimanevano
momentaneamente sospesi nell'animo del maestro. L'intenzione originaria era infatti di
comporne due: una in re minore destinata alla Società Filarmonica di Londra e un'altra con
cori in tedesco su testi religiosi e miti greci; solo nel 1822 i due progetti si fusero insieme in
quello che diverrà la Nona Sinfonia le cui prime idee musicali sono abbozzate in vari quaderni
di altri lavori dal 1815 al 1818. Va poi considerata la storia tutta particolare della Melodia della
Gioia: già utilizzata, anche se in forma variata, nel lied Ungeliebten und Gegenliebe del 1794 e
nella Fantasia corale op. 80 del 1808. Anche gli stessi versi di Schiller, amati da Beethoven fin
dalla giovinezza, solo nel 1822 presero il sopravvento su altre ipotesi e si unirono alla melodia
che arrivava da tempi remoti. Considerando tutti questi fattori si può ben dire che a differenza
delle sinfonie precedenti, nate in maniera 'scultorea' sgrossando e chiarificando una - una sola
- idea monolitica, la Nona è il risultato di una stratificazione geologica, è la sedimentazione di
una vita.
I preparativi furono estenuanti. L'orchestra era alle prese con una partitura intricata come non
mai e con l'inserimento di nuovi elementi a rinforzare le file per l'occasione. Le parti vocali
erano mostruosamente difficili, Beethoven venne supplicato di facilitare alcuni passaggi. A
complicare il tutto c'era il pochissimo tempo a disposizione per le prove: neanche un mese.
Nonostante tutto ciò, la sera del 7 maggio 1824 la Sinfonia fu accolta con enorme entusiasmo
dal pubblico viennese. Vennero eseguiti anche l'Ouverture 'La consacrazione della casa' op.
124 e tre parti della Missa Solemnis. Il responsabile generale del teatro, Duport, ci teneva che
Beethoven dirigesse personalmente l'esecuzione e questi accettò, anche se la sua sordità totale
ormai da tempo non gli consentiva più di condurre un'orchestra come si deve. Fu così che
Umlauf, l'anziano direttore, avvertì i musicisti di seguire solo i suoi gesti. Al termine
Beethoven non si accorse dell'entusiasmo del teatro. Fu il contralto Caroline Unger che
prendendolo dolcemente per le spalle lo fece voltare per vedere il pubblico che lo acclamava
sventolando un mare di fazzoletti bianchi.
La Nona Sinfonia è un'opera 'ampia', non tanto nella durata quanto nel suo espandersi in
entrambi i mondi espressivi più caratteristici del suo autore. Come un grande viaggio di
ritorno, essa ci riporta dalla sfera dell'ultimo Beethoven, cui il primo movimento tutto
appartiene, al piglio eroico del Finale, anche se vi risuona un eroismo ben diverso da quello di
vent'anni prima.
Nella sua ultima stagione creativa Beethoven approda a radicali mutamenti stilistici, ma quel
che più conta è il cambiamento dell'idea di fondo che si avverte nelle sue opere. L'essenza del
Beethoven 'eroico', quello che si è manifestato in modo lampante con la Terza Sinfonia e molte
opere che sono seguite in quegli anni, è quella di una lotta: il famoso voler «afferrare il destino
per la gola», che in molti lavori si concretizza nella tensione drammatico-dualistica della
forma-sonata. La musica di quel periodo ha una 'direzionalità' certa, benché tormentata: muove
spesso da un principio ostile verso un finale radioso conquistato con fatica. Nell'ultimo
Beethoven si sente invece la posizione di un uomo che sa trarsi "in disparte" rispetto alla scena
del mondo e approda a una visione più comprensiva. Non che vi siano eliminati i tormenti del
vivere, ma il gesto deciso dell'uomo forte che si butta nella lotta, cede allo sguardo di un uomo
- forse non meno forte - che sa cogliere questa nostra vita conscio delle sue ineliminabili
contraddizioni.
A tale visione - superiore, se vogliamo - forse non si poteva approdare se non passando
attraverso quegli anni di riflessione che vengono chiamati 'sterili'. La Sonata Hammerklavier
op. 106, nata a ridosso di quel periodo, è l'altra opera dall'arcata così ampia da lasciar
risuonare attraverso i suoi quattro movimenti lo stesso tracciato che congiunge le due sfere
espressive di Beethoven. Ma in quell'opera si partiva dal piglio eroico vittorioso del primo
movimento per arrivare, passando attraverso l'arguzia fugace dello Scherzo e il grande abisso
dell'Adagio, a quella regione magmatica pre-umana costituita dalla colossale tripla fuga finale,
nella cui conflagrazione, come in quella della Grosse Fuge op. 133, pare dissolversi ogni
umano sentire. A tale cosmo primordiale appartiene anche il primo movimento della Nona
(significativo, forse, che i suoi abbozzi si trovino sullo stesso quaderno dei quelli
dell'Hammerklavier). Toccherà dunque alla Sinfonia compiere il grande percorso a ritroso.
Il primo movimento (Allegro ma non troppo un poco maestoso) pare emergere dal nulla con
quelle quinte vuote in cui echeggia l'indistinto delle origini. Siamo di fronte a una concezione
spaziale fatta di molteplici piani sonori in cui nulla prevale davvero. La consueta tensione
bitematica della forma-sonata è scomparsa a favore di relazioni più complesse (i gruppi
tematici sono almeno tre). Lo sviluppo pur con la sua incandescenza non traghetta gli eventi a
nuove aree emotive.
Il secondo movimento (Molto vivace), che condivide col primo la tonalità di re minore, non è
affatto uno "scherzo" - se consentito il gioco di parole - ma un terreno di lotta drammatica. Già
nei rintocchi iniziali di ottave si sente il piglio di una volontà attiva di fronte alla scena
immane del movimento appena concluso. Il fugato frenetico e saltellante che segue non è un
abbandono selvaggio, orgiastico, alle pulsioni più elementari. È innegabile che sprigioni
grande energia ma non sfrenatamente incontrollata; si coglie invece uno sforzo accanito di
volontà e razionalità come reazione al cosmo insondabile del movimento precedente. Tensione
polifonica, rigidità ossessiva della figurazione ritmica e segni dinamici «f» (forte) disseminati
a profusione in principio di battuta, sono forse l'espressione di tanto ossessivo accanimento.
L'oasi in re maggiore costituita dalla sezione centrale, in cui è prefigurata la Melodia della
Gioia, non è che una quiete effimera destinata dapprima ad afflosciarsi su se stessa nell'unico
ritardando di questo movimento affannato, e infine a rivelarsi per quello che è: un miraggio
illusorio che svanisce in una battuta di silenzio.
La vera pace arriva con il terzo movimento (Adagio molto e cantabile). Due temi, entrambi di
ampio respiro, vi si alternano. Il primo (Adagio) dal carattere celestiale ritorna ogni volta
impreziosito da variazioni che ne ricamano la linea melodica, il secondo (Andante) dal tono
più conviviale viene esposto la prima volta dagli archi mentre la seconda è affidato ai fiati.
Dopo la severità dei primi due movimenti, il terzo è un paesaggio di sconfinata bellezza in cui
la musica si espande quieta come una preghiera che risuona nel profondo dell'anima. Sentiamo
il 'risveglio' di una voce interiore a lungo ignorata. «Com'om che torna a la perduta strada».
L'aura contemplativa di questo Adagio è illuminata sin dall'inizio da una luce via via più
intensa che verso la fine del brano diventa fulgore abbagliante: gli squilli di tromba che si
odono improvvisi e coinvolgono tutta l'orchestra - senza alcuna funzione di sveglia o minaccia
- sono il vertice, inaspettato, di tanta introspezione. Di tali squilli forse si avverte un
sotterraneo presagio nel passaggio che dalla seconda esposizione dell'Andante conduce alla
seconda variazione dell'Adagio: nel pizzicato degli archi sotto l'umbratile dialogo dei legni.
Dopo quest'attimo di fulgore tutto torna come prima e, sempre dolcemente, il terzo movimento
si avvia alla conclusione.
L'Adagio non era un sonno beato ma un risveglio spirituale, dunque nel Finale non abbiamo
un ritorno 'alla vita' ma, semplicemente, alla 'ruvida quotidianità' del vivere: ben presente in
quell'attacco brutale dei fiati a cui violoncelli e contrabbassi si oppongono con un vigoroso
recitativo strumentale. L'ultimo movimento non reca tracce di vita vissuta ma fremiti di vita
vivente che, prima di riprendere, si volge indietro a contemplare un 'cammino': sono le
reminiscenze dei movimenti precedenti che vengono richiamate alla scena, non per venir
necessariamente ricusate ma più per farne viva memoria. Sarebbe bene non tener conto di
quelle sei piccole frasi che Beethoven appuntò nei suoi abbozzi riferendole ai vari interventi
del recitativo strumentale le quali inducono a sentire un tono di rifiuto indistintamente in tutti
questi interventi degli archi gravi. Il credito assoluto dato a tali appunti - non presenti in
partitura - ha molto compromesso un ascolto 'pulito', semplicemente musicale, del prologo-
pantomima.
Terminato quest'ampio preambolo ecco la Melodia della Gioia ascendere, semplicissima, dalle
profondità degli archi e contagiare via via tutta l'orchestra. Canto senza parole, la 'Gioia',
prima ancora di rivestirsi delle belle parole di Schiller, è qualcosa che nasce nel cuore. La
'fanfara del terrore' (come Wagner ha ben indicato l'attacco del Finale) riesplode ancora in
questo tripudio orchestrale. Questa volta è una voce vera, di baritono, che si leva «Amici non
questi suoni! Ma altri intoniamone, più piacevoli e gioiosi». La massa corale si unisce alla
Gioia sempre preceduta dal singolo o dai solisti, quasi a significare la radice anzitutto
individuale di tale sentimento. Torna la voce del Beethoven eroico, ma con spirito mutato;
«angenehm» (gradevole) scrive sopra la parte del baritono dove attacca la Melodia della gioia.
Non è più lo scultore protervo che nel Finale della Quinta cassava il destino con otto colpi di
martello in do maggiore, ma un uomo conviviale, amabile.
I modi poco raffinati e a tratti esibiti di questo Finale restituiscono nel modo migliore il
trambusto della vita con la sua frammentarietà e incoerenza, ora però fecondate da una Gioia
che come un sottile filo rosso, pur non togliendo la fatica del vivere, tiene insieme tutta questa
dispersione. Altro che 'bel canto'! Nella Freudenmelodie e nelle sue variazioni si deve
avvertire fatica: la 'fatica della gioia'.
Poi la "volta stellata" scompare e una possente doppia fuga, che riconquista la tonalità di re
maggiore fondendo insieme la vitalità della Freudenmelodie e l'anelito trascendente
dell'arcaica melodia di «Seid umschlungen!», si impone come viatico definitivo: la Gioia,
appunto quale è nella sua essenza: «Schöner Götterfunken» (bella scintilla divina); davvero
divina ma 'scintilla', non pienezza di luce. Ed è solo con la debole forza di questa scintilla che
è possibile abitare il mondo e attraversare la vita.
Verso la conclusione solisti e coro si alternano più volte in rapida successione: momenti di
esultanza, concitati, sognanti, carezzevoli, frenetici, solenni. Beethoven termina quella che
rimarrà la sua ultima sinfonia in maniera davvero scomposta. Ma la gioiosa scompostezza di
questa stretta finale è come un'ulteriore parola di incoraggiamento per la nostra vita: anche
nella dispersione della quotidianità - con tutto ciò che non torna - ad affrontarla con forza, con
gioia.
Pur essendo germogliata dal duro terreno della sua epoca e dalla vita dissestata del suo autore
la Nona Sinfonia ha levato i suoi rami ad altezze insperate. Non è però, quella a cui perviene,
l'altezza di una sintesi operata nell'ideale monolitico della Quinta, bensì quell'altezza da cui
contemplare retrospettivamente l'itinerario umano compiuto, con un occhio desideroso di
rintracciarvi una logica, una propria 'unità', pur nelle evidenti fratture. È forse un grande
bisogno di 'unità interiore', nella dispersione della vita, ciò che rende sempre desiderata e
amata quest'opera di Beethoven anche al secolo attuale. Benché in opere successive, quali ad
esempio le sinfonie di Mahler, riecheggi maggiormente la frammentarietà del mondo moderno
- globale ma non davvero 'unito' - queste ultime vengono forse ascoltate con un affetto
fraterno: con la solidarietà che si può sentire con una musica la quale si trova nelle 'stesse
condizioni' di coloro che oggi la ascoltano. L'affetto che invece la Nona di Beethoven riceve,
oggi più che al tempo della sua creazione, è di tipo filiale. È un'insaziabile fame di 'unità
spirituale' quella che ci porta a questa musica alla quale chiediamo quasi un'adozione perché ci
ri-generi. In tale prospettiva se il tempo di Mahler è ormai venuto, possiamo constatare dalle
attese dell'animo che quello della Nona di Beethoven non è mai terminato.
Ad essa spontaneamente ci rivolgiamo, come singoli e come collettività, nei momenti nodali
della vita e della storia; quando vogliamo fermarci a contemplare il nostro passato non in
chiave nostalgica ma in maniera feconda per l'avvenire: all'inizio di un nuovo anno, di una
nuova stagione della vita, al cadere di muri di separazione. Quando vogliamo ripartire, come
scrisse Beethoven nella Canzona di ringraziamento del Quartetto op.132 là dove essa modula -
guarda caso - a re maggiore: «Neue Kraft fühlend», sentendo nuova forza.
Una visione del Finale come 'traguardo', meta beata, paradiso, fratellanza raggiunta - che
venne supportata anche da Wagner - è ciò che non permette di cogliere la 'vera' perfezione
formale di questa parte della Sinfonia. Se il Finale davvero alludesse a tutto questo, allora le
critiche sarebbero fondate: come 'paradiso' suona un po' sgangherato. Ma non lo è. Non sono
masse di beati, di pacificati, quelle che intonano le variazioni corali, non è la voce di
un'umanità migliorata ma quella di un'umanità che 'si vorrebbe' migliore, e che per tale anelito
ha intravisto una strada - la Gioia - ritrovata nell'ascolto di una voce interiore a cui rimanere
fedeli. Quelle imperfezioni che sono state spesso imputate al Finale (trattamento sgraziato
della vocalità, accozzaglia di stili eterogenei, polittico sonoro di momenti slegati tra loro)
assolvono invece nel modo più degno - «si che dal fatto il dir non sia diverso» - a veicolare
l'essenza di questi suoni: non una gioia raggiunta al di sopra delle miserie terrene ma 'dentro'
tali miserie.
Scarsa coesione? Accozzaglia di stili? È la varietà della vita! Adesso però tale dispersione è
tenuta insieme dalla Freudenmelodie la quale, come scrisse giustamente Wagner: «diventa il
Cantus firmus, il corale della nuova comunità».
Nel suo saggio su Beethoven Walter Riezler scriveva «nonostante tutta l'opposizione che essa
[la Nona] incontrò all'inizio e che ancor oggi trova qua e là, questa sua efficacia è così
possente e, soprattutto, così duratura, che può provenire solo da un'opera che deve la sua
esistenza non a un capriccio umano, ma ad una qualche misteriosa legittimità».
A fianco a questi finali ne scaturirono altri dal timbro più amabile, radicati nelle gioie semplici
della vita quotidiana. Anche questi sono 'il vero Beethoven': la tenerezza domestica del
secondo e ultimo movimento della Sonata per piano op. 90, il piglio spiritoso e bonario del
Rondò conclusivo della Sonata per piano e violino op. 96 e quello collocato a nuovo finale del
Quartetto opus 130. E infine quel finale-corale della sua ultima sinfonia: quel tema così
semplice, quell'invito all'abbraccio e all'unione delle moltitudini, quell'accostamento spudorato
di stili musicali così eterogenei... Musica indegna di un grande maestro! Come ha potuto
'buttarsi via' in questo modo?
Beethoven nel finale della Nona Sinfonia ha in buona parte 'dimenticato se stesso'. È molto
curioso il fatto che il suo brano musicale più popolare sia quello in cui viene meno uno dei
tratti più peculiari della sua musica: la profonda coesione organica dell'insieme. La capacità di
Beethoven di fondere nella perfezione della forma le strutture musicali e la ricchezza del suo
mondo interiore, nel Finale della Nona non arriva a quella parola lapidaria, univoca, quali
possono essere considerati i movimenti finali di tutta la sua produzione sinfonica precedente.
Perché questo passo indietro? All'epoca della composizione della Nona capolavori come le
ultime sonate per piano e le Variazioni Diabelli erano già 'porte spalancate' sugli ultimi
quartetti.
È possibile che Beethoven abbia avvertito, anche inconsciamente, che per far risuonare nella
sua musica un «bacio» che andasse veramente al «mondo intero», avrebbe dovuto parlare un
linguaggio più popolare: un linguaggio in cui le sue personali conquiste sul piano espressivo
venissero accantonate. La Gioia di Beethoven-Schiller non doveva essere per una minoranza
musicalmente evoluta ma per tutti, e a tale scopo il linguaggio dell'ultimo movimento si è
spogliato di quelle pietre preziose conquistate dal suo autore negli anni immediatamente
precedenti e si è anche rivestito - va riconosciuto - di una buona dose di istrionismo. Ma non è
'involuzione' questa scelta espressiva, consapevole o inconscia che sia stata. Questa mossa
sembra invece nello spirito di un 'passo indietro' rispetto alle proprie potenzialità, per quanto
evolute. Forse l'individuo evoluto è quello che di fronte ai suoi simili sa mettere 'tra parentesi'
la propria prepotente individualità, la propria spinta all'autonomia, per parlare un linguaggio
costruttivo, che forse all'apparenza “vola un po' basso”, ma sappia di maggior apertura.
Dunque accanto alle visioni mirabili, talvolta enigmatiche, degli ultimi quartetti, può
tranquillamente vivere la semplicità popolare del Finale della Nona, senza che tale 'passo
indietro' sul piano delle scelte espressive faccia pensare a una regressione. Esso è invece un
adeguamento - proprio a livello formale - allo spirito più autentico della Gioia.
Viene alla mente il monito evangelico «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi
perderà la propria vita per causa mia, la salverà». Beethoven nel Finale della sua ultima
sinfonia ha saputo «raggiungere i cuori» con un linguaggio che anche i più piccoli potessero
ascoltare.
Luca Cavaliere
Per quanto qualche abbozzo rudimentale della «Nona» rimonti al 1815 (in un quaderno di tale
anno accanto ai definitivi nuclei tematici della «Sonata in re maggiore op. 102, n. 2 per
violoncello e pianoforte» figura un embrione di fuga, il cui germe si convertirà, più tardi, nel
tema dello «Scherzo» della sinfonia corale) essa non fu strutturata, nell'attuale forma, che nel
1823, ricevendo gli ultimi ritocchi nel febbraio del 1824. La prima esecuzione ebbe luogo, in
Vienna, al teatro della «Porta di Carinzia», il 7 maggio 1824, sotto la direzione di Umlauf,
affiancato da Beethoven, già sordo e malaticcio, essendo interpreti, nel Finale, il soprano
Enrichetta Sontag, il contralto Carolina Unger, il tenore Haitzinger e il basso Seipelt. Il
successo fu strepitoso, ma gli incassi irrisori senza la minima possibilità di alleviare la miseria
del maestro.
La Nona sinfonia per ampiezza di forme, precorritrici di nuovi climi musicali, per vigore e
gigantismo d'ispirazione, per l'attitudine dello spirito beethoveniano che in essa si solleva in
un'atmosfera di sovrano distacco da tutto ciò che è individuale e contingente, s'incurva,
realmente, come è stato asserito, come cupola gigantesca sulle ampie navate delle sinfonie
precedenti. Tale immagine è efficacemente esatta, solamente se assunta come espressione della
preminenza della «Nona» sulle consorelle, ma distoglierebbe la mente dalla vera
comprensione del capolavoro, se venisse intesa quale simbolo di elemento conclusivo di tutto
l'immenso complesso musicale beethoveniano.
La «Nona», invero, a giudizio dei critici più sensibili ed avveduti, non rappresenta, come
afferma il Mila «il coronamento di opere precedenti», ma appare foriera di nuovi regni
dell'espressione musicale che avranno ripercussioni non lontane nella produzione sinfonica di
Mahler e Bruckner. L'individualismo macerato e dolente del Maestro cede, nella sinfonia, a
sentimenti e moti dell'animo, assunti in zone transterrene dove imperano, solamente, valori di
modulo universale o religiosi.
Camille Mauclair afferma che «La messa in re» e la «Nona» sono, in tutta l'opera di
Beethoven i due conflitti del suo genio con l'incommensurabile», rappresentando le due
composizioni «due momenti ciclopici ed eccezionali» per cui «un titano è uscito dall'umanità
per fare un passo più avanzatato verso l'Enigma, straordinario, illimitato dell'universo» ed
elevandosi «allo smisurato, verso una religione a cui nessun capolavoro umano oserebbe
ambire».
I quattro tempi della sinfonia non vanno considerati staccati, ma intimamente collegati, quasi
quattro momenti dello spirito umano, inconcepibili senza la dialettica dei rimandi e delle
fecondazioni reciproche. Allo stato d'animo tragico ed appassionato corrisponderebbe —
secondo il Biamonti — I'«Allegro non troppo, un poco maestoso », al «molto vivace» un
momento fantastico e mutevole. L'«Adagio molto cantabile» sarebbe l'espressione di uno stato
dell'essere contemplativo ed estatico, mentre l'intervento della voce umana, attraverso la
concretezza della parola darebbe sfocio alia gioia, intesa come vincolo ed affratellamento
universale tra gli uomini. È noto che l'introduzione della voce umana non ha trovato
consenzienti tutti gli uomini di musica. Riserve sull'ultimo tempo furono avanzate dal nostro
Verdi e — ciò che è tutto dire — da Mendelssohn che, per quanto di origine ebraica, era
munito di sacro ossequio verso tutto quello che era germanico e, più particolarmente, per tutto
ciò che apparteneva al regno della creatività beethoveniana. Più d'un critico parlò di forzatura
delle voci, trattate strumentalmente (lo stesso Maestro aveva confessato che l'apparizione
d'ogni idea musicale assumeva, immediatamente, nella sua fantasia veste strumentale) e pare
che il Maestro non fosse rimasto totalmente soddisfatto della sua innovazione se lo Czerny e
Sonnleitner assicurano che il Maestro, anche dopo l'esecuzione del 1824, pensava di chiudere
la «Nona» con un Finale puramente strumentale.
Il primo tempo, «Allegro, ma non troppo, un poco maestoso» s'apre con le famose quinte
vuote sullo sfondo, in pianissimo, di arpe e corni che sembrano provenire da un mondo vacuo
ed amorfo (a Nietzsche suggerivano l'immagine del caos primigenio). A poco a poco, quasi
con sforzo doloroso che potrebbe ricordare, per analogia, quello, titanico dei prigioni di
Michelangelo per sfuggire all'amplesso bruto della materia informe, le sonorità, attraverso un
crescendo, si determinano, con foga rapinosa, quasi a vendetta della faticosa gestazione,
nell'aspetto preciso del tema principale in re minore. Siffatto tema, gravido di ribellione e sfida
contro un destino tragico, è destinato a signoreggiare tutto il primo tempo. Dopo una parentesi,
caratterizzata dal fitto divincolio di sonorità dolorose, riemergono le quinte spettrali con i loro
guizzi da fuoco fauto, che richiamano per l'equilibrio della dialettica fonica, la riapparizione
dell'indomito e ribelle tema principale. Durante lo sviluppo, momenti di mortale angoscia
s'alternano a impeti di volontà di resurrezione con interposti, sui legni, frammenti di motivi
improntati a pietà consolatoria per il miserabile destino degli uomini. Segue una perorazione
in cui spicca l'inesorabile «ostinato» degli archi cui s'innesta, concludendo il primo tempo, il
parossistico martellamento del tema fondamentale.
Il secondo tempo, «molto vivace», è uno scherzo che trabocca, con una carica di propulsione
ritmica incontenibile, dagli archi ai timpani, martellato all'infinito dalle varie famiglie di
strumenti. Siffatto tema viene travolto nella ridda d'una immensa fuga, rianimata, quando a
quando, nel suo impulso motorio senza requie, dai sussulti esplosivi dei timpani.
Emerge dal tessuto sonoro un sanguigno motivo paesano, tipico d'una kermesse da villaggio
(vien da pensare alle danze scatenate e grottesche di contadini di Breugel il vecchio), finché
l'inesausta vitalità ritmica precipita nel vortice di un «Presto» che «ne scarica quasi
istantaneamente la forza viva, per introdurre — nota il Biamonti — nell'atmosfera di assoluta
limpidità» del Trio che evoca, con le sue preziosità, incanti di paesaggi agresti e di pace
rasserenante.
Il bacchico impulso ritmico si rigenera, ancora una volta, spazzato via da un'improvvisa
interruzione con la quale il secondo tempo è concluso. Il terzo tempo, «Adagio molto e
cantabile» ci trasporta, addirittura, in un'atmosfera trascendentale, remota dalla contingenza
terrena; qui l'ispirazione fluisce allo stato naturale, purificata da ogni scoria e totalmente
trasfigurata in sublime poesia. Il tempo inizia con una melodia, religiosamente raccolta,
risonante, a mezza voce, sul timbro ombroso degli archi, cui fanno eco clarinetti, fagotti e
corni che della melodia, però, sussurrano i soli frammenti terminali. Alla prima melodia ne
sussegue una seconda, sui violini secondi e viole, dal tono più intenso e dalla linea più rilevata
che esprime calma e distensione interiori, il gaudio proprio di un'anima rifugiata in zone
inaccessibili ai turbamenti umani. Due tentativi in effetti di disturbo brutale (dovuti al risonare
nella parte mediana del tempo di minacciose fanfare dei fiati) non riescono a dissipare
l'atmosfera di orante fervore che caratterizza l'«Adagio» il cui flusso, attraverso libere
variazioni dei due temi, continua ininterrotto fino alla smorzatura pacata della chiusa. Poche
misure precipiti ed esplosive dei fiati e timpani, nel Finale, fanno da introduzione a un
recitativo dei contrabbassi e violoncelli cui rispondono alcune battute riassuntive dei tre tempi
precedenti, respinti, impetuosamente, ogni volta, dalla frase perentoria degli archi bassi. Sugli
stessi contrabbassi e violoncelli, risuona, sussurrato a mezza voce, quasi per essere più
intimamente assaporato, il tema della gioia, spinto fino all'incandescenza, specie quando si
ripercuote sui fiati, nella successiva elaborazione orchestrale. Nel silenzio dell'orchestra, in
una atmosfera gravida d'attesa, tuona, poi la voce del basso invitante a «nuovi e più gioiosi
accenti» espressi subito dopo, sulla stessa linea melodica degli archi bassi, con le strofe
dell'ode di Schiller, «Alla gioia», invocata come liberatrice di ogni angoscia, sollievo ad ogni
male e quale divina effulgurazione dell'Eliso in terra. Siffatte strofe vengono, poi, riprese dal
coro e dal quartetto di voci con impeto sempre più ebbro e trascinante, seguite da un
intermezzo strumentale, «Allegro assai vivace, alla marcia» risonante sui fiati, sostenuti dai
ritmi esotici «turchi» di grancassa cimbali e triangoli sul cui motivo la voce del tenore
inneggia alla fraternità degli uomini, invitati, in un raptus d'entusiasmo, a percorrere il
cammino della vita, come «gli astri percorrono le smisurate aree dei cieli».
L'ulteriore sviluppo ed articolazione del «Finale» è affidato alle entrate dei solisti e
dell'insieme corale che, ora, s'abbandonano al vortice di un delirio collettivo, ora s'allentano in
momenti di rapita contemplazione finché, dopo un improvviso blocco su una cadenza, le voci,
«stringendo il tempo», sfociano, in un avvitamento mulinante, nel «Prestissimo», la cui
veemenza, esaltata dal tumulto conclusivo dell'orchestra, potrebbe, veramente, far pensare —
come qualcuno ha detto — ad un rito d'iniziazione bacchica.
Vincenzo De Rito
WoO 3 1822
Gratulations-Menuett
https://www.youtube.com/watch?v=p69M17FcSo4
https://www.youtube.com/watch?v=MK_nBPUMbgg
https://youtu.be/-W3nTTgsBwk
Maestoso
Allegro assai vivace
La Zur Namensfeier Ouverture op. 115 (così chiamata dalla nota preposta da Beethoven alla
partitura autografa, da cui risulta che la composizione fu ultimata «nel mese di vendemmia del
1814, la sera dell'onomastico del nostro Imperatore», ossia il 4 ottobre, festa di San Francesco)
è uno dei primi esempi di Ouverture da concerto, un «genere» fiorito agli inizi del secolo XIX,
come conseguenza dell'evoluzione dell'«accademia», da aristocratico trattamento musicale
dell'ancìen regime a carattere eminentemente cameristico (anche se in esso venivano eseguiti i
Concerti per pianoforte di Mozart e le Sinfonie di Haydn) a manifestazione pubblica di natura
spettacolare e di massiccia e composita costituzione (la serata, della durata di varie ore, poteva
comprendere un paio di Sinfonie, un concerto per strumento solista e orchestra, un oratorio o
una cantata, il tutto preceduto da un'introduzione sinfonica composta ad hoc e concluso da
un'improvvisazione dell'autore al pianoforte: pantagruelica imbandigione musicale, oggi
difficile da smaltire). «Per concerto e per ogni altra circostanza» fu, appunto composta la
brillante pagina sinfonica di cui ci stiamo occupando, eseguita per la prima volta il giorno di
Natale del 1815 insieme con il Cristo sul Monte degli Ulivi e la Cantata goethiana Meeresstille
und glückliche Fahrt (Calma di mare e viaggio felice), op. 112. L'Ouverture, in do maggiore, si
compone di una pomposa introduzione che anticipa, ma con maggior concisione, gli accenti
solenni e festivi della maggiore sorella op. 124 («Per l'inaugurazione del Teatro»), e di un
vivacissimo «Allegro» nel ritmo di sei ottavi, che le procurerà il secondo nomignolo di
«Ouverture della caccia». Ogni elemento troppo soggettivamente espressivo vi è
accuratamente evitato per un tono medio alquanto neutro, «formale» e cerimonioso: buono,
appunto, per «qualsiasi circostanza».
Op. 62 1807
Ouverture "Coriolano" in do minore
https://www.youtube.com/watch?v=YIDRuRPh86c
https://youtu.be/s3FUGhQmpHE
https://www.youtube.com/watch?v=Vvn2oGyji8s
L'Ouverture del Coriolano fu scritta da Beethoven nei primi mesi del 1807 come intermezzo
alla tragedia omonima di gusto classicheggiante di Heinrich Joseph von Collin (1771 - 1811),
poeta drammatico austriaco di un certo nome, stimato anche da Goethe. L'Ouverture,
concepita come brano musicale a sé stante e non come componimento di inizio dello
spettacolo teatrale, non fu eseguita per la prima rappresentazione del dramma, che ebbe luogo
il 24 aprile 1807 a Vienna, ma certamente più tardi, nel dicembre del 1807, dopo essere stata
presentata in una edizione privata, in casa del principe Lobkowitz nel marzo precedente,
insieme al Quarto Concerto per pianoforte e orchestra e alla Quarta Sinfonia. Il dramma del
Coriolano è ispirato alla leggenda dell'eroe Gaio Marcio, soprannominato Coriolano per aver
espugnato l'antichissima città dei Volsci, offrendo loro collaborazione per combattere contro i
romani. A questo punto la moglie Volumnia e la madre Veturia lo supplicano di non tradire la
patria ed egli, combattuto fra il sentimento dell'onore e quello della vendetta, viene assassinato
dai Volsci. Questa è la versione utilizzata da Shakespeare, mentre quella di Collin vede
Coriolano suicida, per l'insanabile contrasto di coscienza tra la parola data ai Volsci e
l'incapacità di marciare contro Roma. Su questa tesi si basa l'analisi estetica dell'Ouverture del
Coriolano tracciata da Wagner in uno studio apparso nel 1851 a Zurigo, in cui è scritto:
«Dell'intera tragedia Beethoven puntò su un'unica scena, certamente la più decisiva. Egli vi
concentrò la vera sostanza sentimentale, puramente umana di quel soggetto. Questa è la scena
tra Coriolano, sua madre e sua moglie nel campo avanti alle porte della città. Tutta la forza
d'odio che spingeva l'eroe alla distruzione della patria e le mille spade e frecce del suo
risentimento, egli le afferra con mano potente e terribile, ne forma una punta sola e se ne
trafigge il cuore. Sotto il colpo mortale che si e infiltro, il colosso cade e ai piedi della donna
che implora la pace ed esala, morendo, l'ultimo respiro».
La pagina beethoveniana (dura complessivamente circa sette minuti) si impone per la stringata
e intensa carica drammatica, sin dal Do iniziale in fortissimo, sfociante nel vigoroso accordo
di tutta l'orchestra. Segue la frase ascendente degli archi, ritmicamente inquieta e spezzata in
una continua alternanza fra gruppi di due crome staccate e due legate. Questo episodio
caratterizzato da accenti sincopati di incisiva espressività conduce ad una melodia in Mi
bemolle maggiore, affettuosamente distesa e sentimentale, a mò di implorazione della madre e
della moglie sull'animo orgoglioso dell'eroe. Il discorso si sviluppa con varietà di figurazioni
ritmiche e la frase melodica si affaccia nella coda, prima del ritorno al tema iniziale.
L'atmosfera tesa e sanguigna si dissolve in un impercettibile pianissimo, con cui si conclude la
possente Ouverture, che ha sempre incontrato il favore del pubblico e gode di una vasta
letteratura interpretativa da parte di musicologi di diversa estrazione culturale.
Arrigo Quattrocchi
Nel piano dei tumulti spirituali e compositivi che segnarono la nascita della Quinta Sinfonia, e
precisamente nel 1807, Beethoven scrisse per la tragedia «Coriolano» di Heinrich Joseph von
Collin (1771-1811), un autore che godeva ai suoi tempi di una certa fama avallata perfino
dall'interesse di Goethe, una Ouverture in do minore, fosca e tragica, possentemente
drammatica, vero e proprio geniale codicillo della grande «Sinfonia del destino». Anche se
l'Ouverture, pubblicata nel 1808 come op. 62, fu eseguita nel dicembre 1807 a parte dalla
tragedia cui era destinata (essendo il «Coriolano» di Collin già andato in scena il 24 aprile
dello stesso anno), Beethoven non fece mistero, dedicando a Collin la partitura, della sua
ammirazione per un'opera che, se confrontata con il ben altrimenti significativo capolavoro di
Shakespeare, ci appare di una ingenuità e una schematicità sconcertanti, tanto da chiedersi se
non fossero altre, piú profonde e intime, le suggestioni a cui Beethoven si abbandonò nel
comporre questa Ouverture. Se ne dovette accorgere anche Wagner il quale, in uno scritto
pubblicato a Zurigo nel 1851, immaginò addirittura che l'Ouverture fosse stata composta per la
tragedia shakespeariana, costruendo su tale supposizione una delle sue interpretazioni piú
fantasiose e capziose: «Possiamo concepire tutte le opere sinfoniche di Beethoven come
rappresentazioni di scene tra l'Uomo e la Donna, in quanto abbiamo il diritto di ritrovare
l'archetipo di queste scene nella Danza, dalla quale, in realtà, è derivata la forma d'arte
musicale della Sinfonia. Il «Coriolano» è una di queste scene. Tutta l'Ouverture potrebbe
legittimamente essere considerata come l'accompagnamento musicale di un'azione
pantomimica fondata sul contrasto tra Coriolano, immagine dell'Uomo, forza portentosa,
orgoglio indomabile, e la madre e la sposa, immagini della Donna, grazia, dolcezza, tenera
dignità. Noi vediamo i gesti con i quali Coriolano interrompe le suppliche femminili, le
alternative del suo rimorso, del suo orgoglio, del suo furore con gli atti delle preghiere, delle
suppliche della Donna, e infine le esitazioni dell'Uomo, la sua commozione e la decisione
eroica di sacrificare l'orgoglio e la sua stessa vita alla patria».
Sergio Sablich
Chi è vicino ai quarantanni non potrà aver dimenticato quel "Carosello" in cui, per evidente
analogia con le caratteristiche del prodotto che si intendeva reclamizzare (un amaro olandese
«dal gusto forte»), veniva presentato ogni volta un grande condottiero della storia nel difficile
momento in cui doveva prendere un'importantissima decisione da cui sarebbe potuta dipendere
la vittoria o la disfatta in battaglia, la fortuna o la rovina dello stato (inutile dire che alla fine ci
azzeccava sempre). La narrazione era affidata non tanto alla voce fuori campo, ma a dei
bellissimi e incisivi disegni in bianco e nero, accompagnati da una musica corrusca e carica di
tensione. Chi poi avesse proprio dimenticato questo "Carosello", sicuramente ne ricorderà la
forma breve, realizzata sulle prime due note di quella musica: un lungo unisono in fortissimo
degli archi a schermo vuoto preparava l'esplosione di un accordo a piena orchestra che
sottolineava il perentorio abbattersi su un tavolo del pugno chiuso di un armigero. Grazie a un
amaro olandese dal gusto forte, l'Ouverture Coriolano di Beethoven - o almeno una sua cellula
fondamentale - entrava così a far parte delle esperienze di ascolto familari a milioni di italiani.
La vicenda di Coriolano, narrata da Plutarco nelle Vite parallele, aveva già ispirato fra l'altro
l'omonima tragedia di Shakespeare (1607-1608, propriamente The Tragedy of Coriolanus),
opere serie di numerosi musicisti fra cui Cavalli (1669), Perti (1683), Caldara (1717), Graun
(1749), e una coreografia di Salvatore Viganò (1804). A loro si aggiunse anche Beethoven, con
questa Ouverture in do minore composta fra il gennaio e il marzo del 1807 per l'omonima
tragedia scritta dal suo amico Heinrich Joseph Edler von Collin che era stata rappresentata con
successo al Teatro di corte di Vienna nel 1802 e oggi è completamente dimenticata. La prima
esecuzione ebbe luogo a Vienna nel marzo del 1807 nel corso di due concerti a palazzo
Lobkowitz durante i quali furono presentati anche la Quarta Sinfonia e il Quarto Concerto per
pianoforte e orchestra. Il 24 aprile dello stesso anno l' Ouverture, che è dedicata a Collin, fu
eseguita per la prima volta in occasione di una ripresa della tragedia che l'aveva ispirata e nel
1808 fu pubblicata a Vienna come op. 62.
Nonostante il relativo successo goduto al suo apparire dalla tragedia di Collin, fu subito chiaro
che la creazione di Beethoven era infinitamente superiore al dramma che pure l'aveva ispirata:
E. T. A. Hoffmann, in un'entusiastica recensione del 1812, sottolineava in particolare la
grandezza dimostrata da Beethoven nel riuscire a innalzare «una costruzione di grande arte»
con «elementi estremamente semplici». Certamente nella vicenda dello sciagurato Coriolano,
Beethoven aveva potuto trovare elementi ideali che gli erano particolarmente cari, come il
confronto con la storia, la classicità e il mondo romano e il contrasto drammatico fra i
sentimenti dell'uomo e il suo senso etico; questo contrasto, così come quello fra lo slancio
rabbioso di un animo offeso e le voci pacificatrici e conciliatrici della madre e della moglie,
sembrano nati per essere condensati nell'opposizione fra poli di una struttura in forma-sonata.
Nasce così questa straordinaria pagina al calor bianco attraversata, dopo gli impressionanti
accordi in fortissimo d'apertura, da una continua tensione che si esprime con un andamento
ansimante, ottenuto tramite i continui spostamenti d'accento provocati dalle sincopi e lunghe
pause di silenzio utilizzate in chiave espressiva; la tensione, mitigata per pochi istanti dalla
comparsa del cantabilissimo secondo tema, è accresciuta anche dalla folgorante concisione del
brano, in cui ogni nota sembra essere assolutamente ineluttabile così come accade, ad
esempio, nel primo tempo della coeva Quinta Sinfonia, con cui l'Ouverture Coriolano
condivide la tonalità di do minore e la pregnanza dell'elemento ritmico.
Carlo Cavalletti
https://www.youtube.com/watch?v=THyZq67bkXk
https://youtu.be/HhyomUiaWQM
Beethoven compose un'unica opera teatrale, più volte rimaneggiata, il cui titolo originario di
«Leonora» fu mutato, in una successiva versione, con quello di «Fidelio». Delle quattro
Ouvertures scritte per quest'opera, soltanto l'ultima, in mi maggiore, si suole far precedere alla
sua rappresentazione; mentre le altre si eseguono in concerto. La prima di esse segue la forma
della tradizionale Ouverture teatrale e svolge dei temi tratti dall'opera, di cui riassume le
situazioni fondamentali: l'angosciosa tensione di Leonora per salvare il marito Florestano
ingiustamente imprigionato; e l'esultanza per la liberazione alfine raggiunta. Il pezzo è formato
da un Andante introduttivo, i cui contorni indeterminati e le cui frequenti modulazioni rendono
l'inquieto stato d'animo della protagonista; e da un Allegro pieno di slancio, terminante con un
irresistibile crescendo, rossiniano avanti lettera, e intramezzato da un episodio lento che fa
udire il tema di Florestano.
Nicola Costarelli
https://www.youtube.com/watch?v=PWOqZ5P0E0I
https://www.youtube.com/watch?v=egp07RjNlQI
https://www.youtube.com/watch?v=g1o95TFXMDA
Adagio - Allegro
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 2 tromboni, timpani, archi
Composizione: 1805
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 20 novembre 1805
Scritta per la prima versione dell'opera Fidelio
Ennio Melchiorre
https://www.youtube.com/watch?v=dRhwyzJABvI
https://www.youtube.com/watch?v=RpCNGTRvQVI
https://youtu.be/fP0mVu9XS0I
https://www.youtube.com/watch?v=gRIirmLnW4c
Adagio - Allegro
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, tromba interna, 3 tromboni,
timpani, archi
Composizione: 1806
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 19 marzo 1806
L'ouverture, in forma sonata preceduta da una introduzione lenta, si apre con un colpo di
timpano, cui segue un lento diminuendo; già questo Adagio è estremamente complesso, perché
presenta una delle caratteristiche più fascinose della pagina, quella di non puntare su temi
fortemente scanditi e definiti, ma su temi che nascono e finiscono in dissolvenze, in un gioco
di inseguimenti e dilazioni che sembra rimandare sempre una chiara e definitiva affermazione
tematica. Si fa largo così, sempre nell'introduzione, un tema esposto dai legni, che è quello
dell'aria cantata da Florestano, prigioniero nel sotterraneo, all'inizio del secondo atto. Poi si
inscguono flauto e violini, contrastati da un tutti orchestrale, e i legni si impegnano in una
invocazione sospesa.
Arrigo Quattrocchi
Op. 91 1813
Wellingtons Sieg oder die Schlacht bei Vittoria
https://www.youtube.com/watch?v=R_ibES7i-HU
https://www.youtube.com/watch?v=MCTV7z9e31M
Seconda parte:
Sinfonia di Vittoria - Allegro ma non troppo (re maggiore) - Allegro con brio (do maggiore)
Organico:
Prima orchestra: ottavino, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, tromba, tamburo, archi
Seconda orchestra: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, tromba, triangolo,
piatti, grancassa, tamburo, macchine per colpi di cannone e fucileria, archi
Composizione: 1813
Prima esecuzione: Vienna, Sala dell'Università, 8 dicembre 1813
Edizione: Steiner, Vienna 1816
Dedica: Giorgio IV, Principe d' Inghilterra
Questo brano, dedicato al principe reggente Giorgio d'Inghilterra, fu composto tra l'ottobre e il
novembre 1813 e venne pubblicato a Vienna, dall'editore Steiner, nel febbraio 1816, in due
fascicoli comprendenti la partitura e le parti d'orchestra. Il manoscritto originale è depositato
alla Deutsche Staatsbibliothek di Berlino e della composizione l'autore parla in numerose
lettere. Inizialmente la musica era stata ideata per il Panharmonicon, uno strumento
meccanico, in grado di riprodurre il suono di archi, fiati e strumenti a percussione, inventato e
costruito da Johann Nepomuk Malzel. E a questo venne dedicato in un primo momento il
lavoro, ma poi il nome del Malzel venne cancellato (sembra che l'amico di Beethoven si fosse
addirittura appropriato della «Schlachtsymphonie») e venne dedicato al suddetto principe
reggente il quale, però, non sembrò gradire eccessivamente tale atto di omaggio.
Come annota Emily Anderson nelle «Lettere di Beethoven» pubblicate dalla Ilte, l'8 e il 12
dicembre 1813, nell'Aula Magna dell'Università, si diedero due concerti di grande successo a
beneficio dei soldati austriaci e bavaresi feriti nella battaglia di Hanau. In quell'occasione
furono eseguite per la prima volta la Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92, e la Battaglia di
Vittoria op. 91. I concerti furono ripetuti in due serate beneficile a favore di Beethoven alla
Grosser Redoutensaal il 2 gennaio e il 27 febbraio 1814, ottenendo un nuovo grande successo.
Poco dopo il compositore, scrivendo a Nikolaus Zmeskall von Domanovecz, annotava:
«Presto dovrò partire per Londra, se intendo ricavare qualche cosa dal Vellingtons Sieg».
In un manoscritto conservato al British Museum, diretto a George Thomson, Beethoven fa
scrivere in data ottobre 1814, da altra mano, in un italiano non corretto, quanto segue, che
pubblichiamo nella grafia originale: «Attesa la nostra antica conoscienza le offerisco una mia
opera sul trionfo di Wellington nella battaglia di Vittoria la quale è composta di due parti:
prima parte la battaglia, seconda parte sinfonia di trionfo. L'opera è scritta per grande
orchestra, ha riscosso qui in Vienna un applauso generale ed a comune richiesta verrà anche
adesso eseguita all'occasione della presenza de sovrani alleati. Potrà averla in partitura e in
Estratto per Fortepiano da me stesso a questo fine composto qualora ciò sia di suo
aggradimento. Basta che me ne faccia in tempo avvertito, affinchè possa prendere le
necessarie misure. Questa composizione e dedicata al Principe Regente di Inghilterra e
trattandosi d'un soggetto che tanto interessa la di Lei patria non può mancare di far fortuna».
Della stessa composizione Beethoven parla anche, sempre da Vienna, nel giugno 1815, al
principe Esterhazy o, forse, al visconte Castlereagh; più probabilmente al primo, però, che era
stato nominato ministro plenipotenziario austriaco a Londra. Tra l'altro egli dice: «L'opera
esalta uno dei suoi più grandi condottieri e celebra un evento notoriamente glorioso della
storia d'Inghilterra, che è stato uno splendido contributo alla liberazione dell'Europa».
Le due parti del lavoro si susseguono senza interruzione. La prima, che ha per titolo La
battaglia, ha inizio con i «rulli del tamburo di parte inglese» seguiti da squilli di tromba dello
stesso esercito. Flauto piccolo, clarinetti, fagotti, corni e tromba attaccano poi il Rule
Britannia, una marcia ben scandita. Rispondono quindi i francesi con altri rulli di tamburi e
altri squilli, che poi lasciano il passo alla Canzone di Marlborough intonata da un'orchestra
composta dagli stessi strumenti di cui sopra a cui si aggiungono triangolo, piatti, grancassa e
archi. Segue una piccola marcia in 6/8, anch'essa ben cadenzata. Quindi ha inizio il
combattimento che si compone: della Battaglia (Schlacht) in Allegro caratterizzata da un
disegno discendente di natura essenzialmente descrittiva; di un Meno allegro a ritmo di
galoppo e infine di una Marcia d'assalto (Allegro assai). La visione della disfatta francese è
data dalla stessa melodia della Canzone di Marlborough, presentata in moto stanco e in modo
minore.
La Sinfonia di Vittoria caratterizza la seconda parte della composizione, pagina che presenta
un tema irruente, che poi si traduce in marcia non troppo variata, con apparizione del tema di
God save the King prima in Andante grazioso, poi in Minuetto moderato e festoso per
giungere alla conclusione con un fugato sulla base dello stesso inno inglese.
WoO 4 1784
Concerto per pianoforte in mi bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=f8tH7lGIQa0
https://www.youtube.com/watch?v=MsZ4V9USOZI
Allegro moderato
Larghetto
Rondò
https://www.youtube.com/watch?v=xa4jhXi73ns
https://www.youtube.com/watch?v=Wrqunl3LmlE
Organico: pianoforte, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Dedica: Julie von Breuning
Op. 15 1795
Concerto per pianoforte n. 1 in do maggiore
Prima versione
https://www.youtube.com/watch?v=KCXalr9IgPE
https://www.youtube.com/watch?v=nRO-ZMTngkk
https://www.youtube.com/watch?v=fkgjY76CnCE
https://youtu.be/Sa__I4FwjlA
Organico: pianoforte, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1795
Prima esecuzione: Vienna, Großer Redoutensaal del Burgtheater, 18 Dicembre 1795
Edizione: Mollo, Vienna 1801
Dedica: Principessa Barbara Keglevich Odescalchi
Beethoven ha revisionato il concerto nel 1800 in vista della pubblicazione con l'editore Mollo,
presentandolo a Vienna nel Burgtheater il 2 Aprile 1800
Quando il giovane Ludwig nel 1787 era giunto per la prima volta a Vienna per
l'interessamento di Maximilian Franz, figlio cadetto di Maria Teresa nonché arciduca d'Austria
e principe elettore di Colonia, certo non avrebbe mai immaginato che la splendida capitale
asburgica sarebbe presto divenuta la sua patria adottiva, e che lì, nel marzo del 1827, dopo
anni di gioie, sofferenze, glorie riconosciute ed amarezze, avrebbe incontrato il suo destino
ultimo.
A diciassette anni Beethoven lasciava Bonn per immergersi nel caleidoscopico mondo
viennese, fatto di musica e mondanità, ed in cui ancora brillava, pur con qualche opacità,
l'astro di Wolfgang Amadeus Mozart, pianista e compositore; l'agiografia musicale non poteva
non ricamare su questa presenza fianco a fianco dei due grandi, ed ecco il dicitur dell'incontro
tra i due, dell'improvvisazione al pianoforte che il ragazzo tedesco esegue su di un tema dato lì
per lì da Mozart, e del "questo ragazzo farà parlare di sé il mondo" esclamato dal maestro di
Salisburgo. Ma dura poco. La madre si ammala e muore, ed in luglio i capricci del destino lo
riportano a casa, lasciandogli però nel cuore l'idea che Vienna non è più così lontana.
Passano cinque anni, Beethoven è cresciuto, la sua musica sta maturando, e si notano i primi
decisi segni di una personalità musicale in cui le suggestioni dei maestri assumono i tratti di
una lettura critica. Il caso fa sì che una Cantata scritta da Beethoven nel 1790 in memoria del
Kaiser Joseph II giunga tra le mani di Haydn e che questi apprezzi le qualità del giovane
autore tanto da proporgli di raggiungerlo a Vienna. Le occasioni non vanno perse, ed ecco che
due anni appresso, nel 1792, con l'aiuto del conte Waldstein, Beethoven torna nuovamente a
Vienna per studiare con il grande maestro. Dietro di sé lascia la giovinezza ed una musica
principalmente di carattere gioioso nei generi più in voga all'epoca: brevi composizioni per
pianoforte, una suite orchestrale per balletto, ed alcuni semplici lieder. La formazione viennese
inizia con Haydn, ma nel 1794 alla sua partenza per Londra, prosegue con Schenk e
Albrechtsberger, con i quali approfondisce lo studio del contrappunto; mentre per lo studio
della vocalità si rivolge al grande Salieri che, tra il 1793 ed il 1802, cerca di svelargli i segreti
del magico accordo tra suoni e parole nella lingua italiana, facendolo esercitare su testi del
Metastasio.
Anche grazie all'appoggio dei suoi maestri, negli ambienti colti ed aristocratici si iniziano ad
apprezzare le qualità pianistiche di Beethoven, specialmente il suo stile brillante ma non
spericolato e funambolico dei molti virtuosi dell'epoca. Il gusto equilibrato ma robusto, capace
di alternare tenerezze melodiche a ritmica marziale, gli apre le porte di molti salotti, e le
'accademie' cittadine gli offrono l'occasione di eseguire sue composizioni. Il 29 marzo 1795,
infatti, Beethoven esordisce in pubblico al Burgtheater, riportando un lusinghiero successo;
tutti apprezzano il suo talento di pianista sia come esecutore di musiche altrui sia come
improvvisatore, ma è ancora incerto il giudizio sul Beethoven compositore. Al suo esordio il
musicista di Bonn esegue prima il Concerto in re minore di Mozart, e poi, a ruota, il suo
Concerto in si bemolle maggiore (1794/5), quello che poi sarà il Secondo Concerto, l'op. 19
nella revisione del 1798, pubblicato solo nel dicembre 1801. Nel mentre, Beethoven affronta la
sua prima tournée nel 1796, e ritorna sul pianoforte per lavorare ad un altro Concerto per
pianoforte, questa volta in do maggiore; che diverrà poi il Primo Concerto, l'opera 15. Per onor
di cronaca, occorre anche citare un Concerto per pianoforte giovanile che il maestro aveva
scritto, ancora ragazzo, nel 1784 a Bonn; un lavoro più o meno sbozzato, ed assolutamente
inadeguato a figurare tra le sue composizioni, tant'è che Beethoven non lo inserì nel suo
catalogo.
Il Concerto in do maggiore venne ultimato nel 1798 e pubblicato soltanto nel marzo del 1801
dall'editore viennese Mollo. Beethoven lo dedicò ad una sua giovane allieva, Anna Luisa
Barbara von Keglevich, detta 'Babette', a cui aveva da poco fatto dono anche della Sonata in
mi bemolle maggiore per pianoforte, op. 7, composta nel 1797.
Suddiviso in tre movimenti: Allegro con brìo, Largo, Rondò. Allegro scherzando, il Concerto
in do maggiore op. 15 si presenta all'ascoltatore con la gaia freschezza del suo primo
movimento; i due temi, l'uno fiero e marziale, l'altro cantabile, passano al solista dopo
un'ampia presentazione dell'orchestra. Immediatamente tornano all'orecchio le suggestioni
mozartiane, ma anche di Karl Philipp Emauel e Johann Christian Bach, in un rincorrersi di
fierezza e galanteria melodica, in cui Beethoven sa immediatamente imporre il suo marchio
dinamico e timbrico. Tra esposizione, sviluppo e ripresa, questo Allegro, il movimento più
lungo e strutturalmente più corposo del Concerto, scorre via amabilmente sui fraseggi tra
pianoforte e le varie famiglie strumentali dell'orchestra; la cadenza finale è ampia ed
importante all'interno del movimento, tant'è che Beethoven ne scrisse ben tre tra il 1807 ed il
1809 forse dedicate all'arciduca Rodolfo d'Austria, e conduce ad un finale di tempo
sicuramente elegante.
Il Largo centrale è nella morbida e sognante tonalità di la bemolle maggiore. Le sue volute
melodiche sono molto ampie e l'espressività raggiunta dal compositore, considerando il suo
momento artistico, è senza dubbio notevole. Il tema è ben giocato tra gli strumenti ed il solista;
l'orchestra sostiene ed accompagna questo dialogo, questo scambio di piccole frasi, di dolci
accenni, per rinforzarsi qua e là in brevi sussulti di vigore che ridanno dinamismo alla
melodia, nitida anche nelle sue transizioni tonali tra minore e maggiore. Conclude il Concerto
un Rondò seguito da un Allegro scherzando. L'orchestra ampia e ben equilibrata può qui
aprirsi ad un'atmosfera vagamente popolare caratterizzata dal ritmo sincopato che induce alla
spensieratezza del gioco e della danza, forse un'eco della vita più semplice vissuta a Bonn, così
come anche nelle opere coeve (Settimino op. 20 e nella Prima Sinfonia op. 21). Il Rondò è una
forma che all'epoca attirava la fantasia creativa di Beethoven, tant'è che lo troviamo anche
nell'op. 19 e nell'op. 37, si ipotizza che nel Concerto in do il Rondò possa essere stato aggiunto
successivamente a sostituzione di un altro movimento ora perduto. Colpisce la forte
caratterizzazione del tema nell'andatura briosa che dà modo al pianista di fare sfoggio della
sua abilità virtuosistica.
Giancarlo Moretti
Eseguito spesso da Beethoven tra il 1796 e il '98 (durante l'unica tournée della sua vita)
davanti ai pubblici di Berlino, Dresda, Praga, Budapest e altre città, non è ancora possibile
scorgervi gli elementi di una ben delineata personalità, salvo che nello splendido "Rondò"
finale. Il Concerto rimane una elegante musica di società, e risente ancora dell'influsso di
Haydn e di Mozart: nei tre tempi che lo compongono - "Allegro con brio," "Largo" e "Rondò"
('Allegro scherzando') - va ammirata soprattutto l'eleganza dello strumentale e la scorrevolezza
della tecnica pianistica, che danno vita a un discorso fluido e piacevole.
Composto fra il 1795 e il 1798 e pubblicato nel marzo 1801 presso l'editore Mollo di Vienna,
fu probabilmente eseguito da Beethoven durante la tournée concertistica del 1798 a Praga.
L'aspetto "pubblico", di brillante esito sonoro, è una delle molle del lavoro: il pianismo è più
vicino ai modelli di Clementi e Kummel, con la tipologia sommaria di scale, arpeggi e altre
formule di studio, piuttosto che alla raffinata invenzione mozartiana. Questo aspetto della
scrittura pianistica si sposa, nel primo movimento (Allegro con brio), con una tematica
orchestrale quanto mai netta e squadrata che, anche per la strumentazione con trombe e
timpani, ricorda la simpatia del giovane Beethoven per le marcie e la musica militare di
matrice francese. Anche nell'amabile Largo centrale l'esempio della romanza mozartiana
riceve un'ambientazione più larga ed esplicita; ma il movimento più personale è il Rondò per
la trascinante carica ritmica e per la quantità e l'umorismo degli episodi secondari
II primo movimento (Allegro con brio) del Concerto op. 15 è concepito entro un'asciutta
attillatura tematica: scale, arpeggi e accordi perfetti dagli spigoli netti e con tutte le strutture in
evidenza; il compositore sembra indossare un abito da cerimonia, e da cerimonia un poco
militaresca per il carattere di marcia e l'éclat di ottoni e timpani; nella scrittura pianistica
colpisce anche il carattere "meccanico", nel senso di meccanismo tecnico alla Muzio Clementi,
nei gruppi di note sgranate tutte uguali e negli scambi simmetrici degli stessi passaggi fra la
mano destra e la sinistra, come alludendo, non senza un poco d'ironia, a risapute formule di
studio o esercizio "per l'uguaglianza delle dita"; tutta haydniana e mozartiana per contro è la
strategia tonale, con le improvvise modulazioni che allargano il campo a sorpresa, e lo slancio
espressivo di ampie melodie cantabili che riescono a farsi largo. La pagina andrebbe in realtà
collegata al primo movimento della Sonata per pianoforte op. 2 n. 3 di cui rappresenta allo
stesso tempo un ampliamento e una semplificazione; anzi, si può dire che quel senso di
maggiore autonomia, quella sicurezza un poco spavaldina che questo Allegro presenta nei
confronti dell'op. 19 composta prima, deriva proprio dal fatto di appoggiarsi alla Sonata op. 2
n. 3; nell'op. 19 Beethoven vuole scrivere un Concerto fatto secondo le regole e degno dei più
illustri modelli; nell'op. 15, meno preoccupato della cosa, pesca nel proprio e sembra più
interessato al riutilizzo di una concezione compositiva che fa già parte del suo patrimonio.
L'accento intimo, il calore affettuoso di Mozart riappare all'orizzonte nel Largo successivo:
aperto subito dal pianoforte con un tema che sembra la trascrizione lenta di una fioritura
squisitamente vocale; il modello della "romanza" mozartiana è appena variato in teneri
dialoghi ravvicinati, cameristici, fra il solista e i fiati, con spicco particolare dei clarinetti.
L'indugio poetico della pagina, conclusa da un pensoso "calando" in pianissimo nei lenti
arpeggi del pianoforte, è scompigliato dal sopraggiungere, come saltellando, di un fitto
picchiettio: è il primo tema del Rondò, il cui carattere capriccioso è accresciuto e screziato di
novità a ogni nuova apparizione. Senza dubbio questo Rondò finale è l'asso nella manica di
tutto il Concerto: fra la messe di arguzie e trovate umoristiche, s'intrufola anche un episodio
centrale di stampo "turchesco", esibito con spassosa incuranza per le maniere auliche del
classicismo.
Giorgio Pestelli
Nonostante occupi il primo posto nella numerazione dei concerti per pianoforte beethoveniani,
il concerto in do maggiore - ultimato nel 1798 - è in realtà la terza opera consimile composta
da Beethoven. Dopo un giovanile concerto in mi bemolle del 1784 (negletto dall'autore e edito
solo alla fine del secolo scorso), nel catalogo beethoveniano va infatti collocato il concerto in
si bemolle, scritto nel 1794 ma pubblicato - come opera 19 nel 1801 - dopo il nostro concerto
in do maggiore (considerato evidentemente più meritevole di esser dato alle stampe) e noto
quindi come Concerto n. 2. D'altra parte se Beethoven prediligeva l'opera 15 rispetto all'opera
19 pure egli dichiarava all'editore Hoffmeister (lettera del 15 dicembre 1800) la decisione di
non destinare immediatamente alla pubblicazione ma di tenere per il proprio personale uso
concertistico i "migliori" fra i suoi concerti pianistici - vale a dire in sostanza il concerto in do
minore poi pubblicato nel 1804 come n. 3 opera 37.
Non deve certo stupire che, proiettato verso i trasgressivi traguardi del Terzo concerto,
Beethoven valutasse con distacco le due opere giovanili che, nella sostanza, ancora si
ispiravano al superiore equilibrio del modello mozartiano. Come il fratello opera 19, infatti, il
Concerto opera 15 si riallaccia ad una estetica di intrattenimento di matrice pienamente
settecentesca, composto dal giovane provinciale con l'intento di soggiogare il pubblico
tradizionalista della capitale dell'impero (e quello, più aperto, della fertile Praga) nella doppia
veste di compositore e virtuoso "alla moda".
Proprio nella perfetta aderenza ai canoni disimpegnati del gusto viennese vanno ricercate la
felicità inventiva e la godibilità d'ascolto del Concerto in do maggiore, che mostra peraltro,
rispetto a quello in si bemolle, una maggiore generosità creativa e una maggiore sicurezza
nell'affermare l'esuberante personalità dell'autore. Già nell'Allegro con brio iniziale, alla scelta
di un materiale tematico di sapore galante e un poco manieristico (con la consueta
contrapposizione fra un primo tema ritmicamente pronunciato e un secondo dal carattere più
melodico), al rispetto delle regole canoniche nell'alternanza strutturale fra solista e orchestra,
si contrappongono le imprevedibili modulazioni (come quelle della presentazione orchestrale
del secondo tema), la varietà e l'incisività della strumentazione (che include anche clarinetti,
trombe, timpani) e soprattutto il ruolo protagonistico della scrittura pianistica, incline a
sforzare la sonorità verso la inedita brillantezza delle scale cromatiche, delle potenti ottave, dei
ruvidi abbellimenti. Per questo movimento Beethoven ci ha lasciato due cadenze complete
(posteriori però di diversi anni: 1807-1809) non dissimili nel contenuto ma assai diverse per
dimensioni: agile e snella l'una, smisurata l'altra e forse ingombrante in relazione alle
dimensioni del concerto.
Arrigo Quattrocchi
Il Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in do maggiore di Beethoven uscì nel 1801 a Vienna
per i tipi dell'editore Mollo. Fu in quell'occasione che ricevette il suo numero d'opera, cioè
l'op. 15, così come il Concerto n. 2 in si bemolle maggiore ebbe il numero d'opera 19,
sequenze che però in realtà invertivano il reale ordine cronologico di composizione. Era stato
infatti scritto per primo il Concerto in si bemolle in una versione risalente già al 1794-95, e
tale stesura era stata in parte abbozzata da circa un decennio, sin dal 1785; in questa versione il
Concerto in si bemolle fu eseguito il 29 marzo 1795 e replicato in un'accademia di Haydn il 18
dicembre dello stesso anno, ma poi andò perduto. Solo successivamente fu composto il
Concerto in do maggiore, dai primi abbozzi del 1795 sino alla stesura completa, quella del
1798. Il Concerto in si bemolle fu quindi riproposto in una seconda versione, quella «ufficiale»
giunta fino a noi e messa alle stampe da Hoffmeister & Kühnel a Lipsia nel 1801.
Comunque sia, i primi due concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven riflettono
l'immagine di un compositore non certo alle prime armi: sono sì opere giovanili, ma solo per
l'età anagrafica dell'autore; dal punto di vista del valore musicale non rappresentano certo
composizioni anonime o di maniera. Beethoven si rifà, naturalmente, alla grande tradizione del
concerto per strumento solista e orchestra, ma introduce suoi elementi caratteristici firmando
in modo inconfondibile i propri lavori: vi ritroviamo il suo particolare e plastico timbro
pianistico, da esecutore virtuoso qual egli era - noto al pubblico viennese per la tecnica solida
e granitica -, deliziose quanto improvvise venature di passaggi cangianti e impetuosi, grandi
collegamenti modulanti colorati di armonie ardite e inattese, combinazioni ritmiche di icastica
efficacia, lo spezzarsi della linea melodica in una serie di arcate irregolari di audace profilo. È
il Beethoven che tutti conosciamo, anche se non dimentico dei suoi illustri predecessori.
Ma quali sono i riferimenti stilistici più espliciti? In particolare lo sguardo è rivolto all'eredità
lasciatagli dai suoi grandi «maestri», Haydn e Mozart: il giovane Beethoven aveva infatti
avuto modo di leggere e conoscere alcune delle loro pagine più significative fissandone alcuni
dei tratti fondamentali, mutuandone, anzi, veri e propri «modelli» compositivi. Ad esempio,
ritroviamo nei concerti di Beethoven l'abitudine - tipicamente mozartiana - di enunciare il
materiale tematico in modo incompleto nell'Esposizione orchestrale, oltre alla scelta di inserire
una netta cesura prima dell'entrata del solista (Riesposizione) presentando poi segmenti
motivici anche del tutto nuovi; ha tratti ancora mozartiani il fatto di far emergere nella Ripresa
elementi ricavati sia dall'Esposizione orchestrale che dalla Riesposizione solistica. Si trattava
di vere e proprie «griglie» e regole compositive che, neila tipologia della forma-sonata
adottata nel concerto solistico, erano divenute schema noto al pubblico, che quasi
automaticamente si aspettava durante l'esecuzione certi passaggi, certi richiami che rendevano
l'ascolto più avvincente e interessante.
Nel Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in do maggiore op. 15 ad esempio, lo si vede già
nell'esposizione orchestrale del primo movimento, l'Allegro con brio con quel tema marziale e
perentorio deliziosamente introdotto dalle sfumature sonore dei violini, e con il secondo
motivo di carattere contrastante e dai toni un po' umbratili, schubertiani: entrambi
compariranno di nuovo, ma in modo diverso e in un certo senso «completati» nella parte del
solista. Che infatti proporrà, dopo una netta chiusura della prima parte, una riesposizione con
un vero e proprio primo tema principale di carattere ben diverso rispetto al motto orchestrale
introduttivo: esposto dal solo pianoforte in tono un po' leggero, sbarazzino, tutto giocato su
brevi scatti, scalette, corse improvvise, esibendo un gioco virtuosistico di elegante fattura.
Durante questa sezione l'orchestra scandirà di nuovo, sopra le volate del pianoforte, il motto
introduttivo, ma questa volta con intento ornamentale e funzione articolatoria della forma, non
certo per spezzare o frapporsi alla voce principale del pianista. Il secondo tema della
riesposizione solistica rappresenta il giusto completamento del suo omologo nell'esposizione
orchestrale; ma qui brilla per spirito totalmente nuovo, introdotto da una figurazione in levare,
definito da un'idea di particolare grazia e freschezza esposta dall'orchestra e soprattutto
rielaborato nella sua seconda arcata fraseologica dall'opera del solista. Di eredità mozartiana è
anche la consuetudine al recupero testuale o trasportato del materiale precedente anche non
tematico - soprattutto gli interludi orchestrali -, utilizzato in sezioni differenti, «scambiato di
posto» nella sua collocazione e con diversa funzione, come ad esempio succede nell'epilogo
della Riesposizione, dove riemerge il profilo scanzonato della coda dell'Esposizione
orchestrale, qui o alla fine della Ripresa, dove per la terza volta ricompare lo stesso modulo di
divertissement dal caratteristico arco melodico ad andamento rotatorio che quindi Beethoven
usa quasi come una sorta di «riserva sonora».
Nello Sviluppo altre trovate e accorgimenti sorprendono l'ascoltatore. Il suo inizio risulta
assolutamente imprevedibile, poiché, dopo essere stato aperto da un accenno al tema marziale,
è subito reso intenso e palpitante da un breve, malinconico inciso dell'oboe. Basta questo per
cambiare ex abrupto lo scenario dominante: il pianoforte, come ispirato, si getta in una sorta di
frase plastica e preludiante di tipo improvvisativo che suscita altre nuove idee: la linea fluente
si addensa ancor più in un calibrato gioco di proposte e richiami, coinvolgendo l'orchestra tutta
in un complesso percorso tonale dalle tinte intense e marcate, fatto di ampie ed estese
digressioni scalari, di passaggi tecnici del solista, in un clima armonico divenuto più livido e
incupito. In pochi passi siamo stati catapultati in un mondo nuovo, passando
dall'ambientazione solare e brillante della doppia sezione espositiva alle tensioni e alle
complessità anche architettoniche e contrappuntistiche della zona di Sviluppo che è sì
tradizionalmente tensiva, ma che Beethoven restituisce qui in modo assolutamente ampliato e
carico di drammatismo rispetto alla norma, firmando quindi, in un certo senso,
un'interpretazione molto personale, pregnante e carica di significati. Solo la Ripresa riporta
all'atmosfera iniziale, con il ritorno del materiale tematico tratto soprattutto dalla riesposizione
solistica e con la grande cadenza conclusiva del pianoforte. Si aggiunge solo una perentoria
frase finale di perorazione orchestrale, ancora una volta ricavata dalla sigla introduttiva;
conduce a compimento il movimento in un clima di travolgente festa corale.
Il tempo di mezzo, il Largo, apre un'oasi di quiete dopo l'agitazione precedente. La delicatezza
di tinte, l'iridescenza delle armonie, i tenui e morbidi profili tematici richiamano molto le
vellutate Romanze per violino e orchestra op. 40 e op. 50 dello stesso Beethoven, anche se qui
solista è il pianoforte. La forma ad arco adottata, la forma Lied (ABA), permette un ricambio
ordinato e ciclico dei motivi senza scontri o contrasti, preferendo invece uno stile stabile e
uniforme, qui rappresentato dalla scelta di scrivere per strumento pensando alla voce. Si
potrebbe dire che un unico grande canto si dipana per l'intero movimento, caratterizzandolo
nella sua interezza. Il delizioso tema principale in la bemolle maggiore, espresso all'inizio dal
pianoforte, risuonerà infatti più volte, differenziandosi - più che per il calco melodico o la
nervatura ritmica - per le sue innumerevoli sfumature timbriche, o la scelta di registro, o il tipo
di sostegno armonico. Ad esempio, dopo l'esordio, eccolo tornare nella voce pastosa del
clarinetto, adagiato sull'ondulato sostegno degli archi oppure, nella Ripresa, interpretato dal
pianoforte come un'ornata aria «col da capo», cesellato da meravigliose figurazioni in
abbellimento che lo rendono un autentico, piccolo gioiello; o ancora, sempre nella Ripresa,
ribadito dal piano in forma più estesa, allargato a una seconda arcata fraseologica - non ancora
comparsa - che ne svela e completa il «senso», costruito sul raffinato accompagnamento
armonico dello stesso solista e sull'elegante pizzicato degli archi; poco dopo eccolo di nuovo
nel suo «nuovo» secondo segmento riproposto dal clarinetto, infine riemerge nella coda, dove
è ancora il clarinetto a riportarne per primo il profilo come squisito ricordo in graduale
dissolvenza, iniziando un lento, sfumato intercalare che lo divide in brevi incisi con la voce
suadente del pianoforte. Altre idee e motivi si inanellano placidamente nel Largo, ma senza
troppo distanziarsi dalla tipologia del tema principale; come la melodia cantabile del
pianoforte nella parte centrale, contraddistinta da uno stile abbondantemente fiorito, o la
partecipata frase di collegamento della stessa sezione di mezzo, appena venata da corrucciate
armonie minori, come si conviene a una sezione sviluppativa, presto cautamente ricondotta
alla tonalità di base di la bemolle maggiore.
Marino Mora
Organico: pianoforte, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Prima esecuzione: Vienna, Burgtheater, 2 aprile 1800
Edizione: Mollo, Vienna 1801
Op. 19 1795
Concerto per pianoforte n. 2 in si bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=2zWtd1YI_7g
https://www.youtube.com/watch?v=ssX9mzeTxss
https://www.youtube.com/watch?v=e6OrZCq-ym8
https://www.youtube.com/watch?v=FbD0tjQGkNg
Nell'Adagio, anche se si può percepire una dipendenza dal movimento centrale (Andante) del
Concerto K. 450 di Mozart nella medesima tonalità, Beethoven afferma con più precisa
coscienza alcuni caratteri peculiari: Mozart procede con l'elisia fluenza di un corale, quasi al
passo con i sacerdoti del Flauto magico, con orchestra e pianoforte che si rispecchiano nella
medesima frase; mentre in Beethoven la cantilena, anche se tessuta in modo simile fra le pause
di un Corale, è meno continua, più lavorata di piccole intenzioni espressive, anche se allo
stesso modo rivolta a una amplificazione del respiro ritmico e di un fraseggio melodico esteso
alle soglie della vocalità; il solista poi si riserva il proprio spazio d'intervento, una volta che
l'orchestra ha esaurito la sua esposizione, presentandosi alla ribalta con un teatrale gesto di
entrata; di particolare evidenza è la conclusione, con il solista che si dedica a una cadenza in
stile di recitativo, lasciando all'orchestra il sommesso commento con frammenti del tema: una
liricità che invade anche la clausola finale, quando il flauto solo si sovrappone con un ultimo
intervento, marginando gli accordi conclusivi con un'ultima delicata insorgenza di canto.
Come il Concerto op. 15, il Rondò finale (che ha sostituito il Rondò WoO 6 che concludeva il
Concerto nella seconda versione) è il brano che conquista l'ascoltatore con maggiore
immediatezza, specie per le marcate accentuazioni sincopate: rese ancora più fervide in un
episodio centrale, dove il solista si produce in audaci salti in contrattempo, come un giocoliere
che salta fuori dalla schiera dei compagni e si mette a fare i suoi esercizi in prima fila; ultima
trovata, di stampo haydniano, è quella dì accompagnare all'uscita il pianoforte in punta di
piedi, con una nuova, amabile figura melodica impreziosita di acciaccature che si lasciano
dietro una lieve scìa di trilli nel registro acuto e una esitante cadenza in pianissimo, che
innesca la repentina replica dell'orchestra, adeguatamente robusta e conclusiva.
Giorgio Pestelli
Benché pubblicato da Hoffmeister di Lipsia alla fine del 1801 e quindi dopo il Concerto in do
maggiore, il Concerto in si bemolle maggiore op. 19 fu scritto qualche anno prima, tra il 1795
e il 1798, come rivela anche la maggiore sudditanza ai supremi modelli mozartiani del genere.
Derivati direttamente da Mozart sono l'entrata del pianoforte con un tema del tutto nuovo dopo
l'esposizione dell'orchestra (Allegro con brio), l'impasto timbrico di legni che fanno il tema, e
gli archi che accompagnano con pizzicati mentre il pianoforte riassume il quadro armonico
con arpeggi (Adagio); anche il ritmo di 6/8 per il Rondò finale è un suggerimento mozartiano
(Concerti K. 450 e 595), benché proprio qui Beethoven si faccia sentire in prima persona per
l'estrosità delle accentuazioni sincopate. Il concerto fu eseguito la prima volta da Beethoven
stesso nel 1798 a Praga, sotto la direzione dì Antonio Salieri. (In realtà si tratta di una seconda
versione, la versione originale è stata eseguita a Vienna il 29 Marzo 1795 n.d.r.)
Il Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in si bemolle maggiore op. 19 si apre con un vivace
e scoppiettante Allegro con brio. Beethoven dimostra tutta la freschezza dei suoi anni giovanili
in questo lavoro non troppo dominato dalla personalità delle linee tematiche, ma
assolutamente originale e spesso imprevedibile nelle soluzioni che egli imprime alla partitura.
Si notano nella scrittura soprattutto una notevole ricchezza inventiva e una duttile
articolazione dei profili motivici, con un fitto lavoro di intaglio e di recupero del materiale che
trapassa da una parte all'altra, da una sezione all'altra del Concerto, un po' secondo lo stile di
Haydn o di Mozart. Alcuni elementi sono ancora di retaggio palesemente «galante», così come
colpisce il taglio del Concerto, pensato prettamente per il pubblico, con soluzioni brillanti e di
sicuro effetto affidate all'orchestra e largo spazio per il virtuosismo dell'esecutore, mai
comunque fine a se stesso. D'altronde il compositore, nel momento in cui scriveva queste
pagine, era ancora e soprattutto un grande pianista desideroso di mostrarsi davanti alla sua
platea e di mettere alla prova proprio lì la sua «fatica». Dal punto di vista delle architetture
compositive è già evidente la sicurezza di Beethoven nel dominio della forma. A partire dal
citato primo movimento, l'Allegro con brio, appare interessante la cornice di riferimento
scelta: i due gruppi tematici principali sono ben distribuiti tra Esposizione orchestrale (primo
gruppo) e Riesposizione solistica (secondo gruppo), tanto che nella Ripresa proprio questi
ultimi sono scelti per essere riesposti, «saltando» le altre parti ritenute da Beethoven meno
pregnanti. All'interno della struttura compare anche uno Sviluppo molto complesso, che
recupera idee e spunti un po' da tutte le sezioni precedenti sottoponendole a profonde
mutazioni e varianti.
Ma per giungere a queste soluzioni risulta interessante il percorso seguito dal compositore. Il
primo gruppo dell'Esposizione orchestrale del movimento iniziale, ad esempio, spicca per la
sua segmentata composizione, costruito com'è su più parti indipendenti eppure perfettamente
collegate: lo definiscono, in alternanza, uno scalpitante motto su ritmo puntato pronunciato
dall'orchestra e un tranquillo inciso di risposta in levare dei violini; il tema prosegue poi in un
motivo acefalo non privo di gestualità galanti, basato su note ribattute. Dalla combinazione di
questi elementi, dalla loro variazione e permutazione dipenderanno molti dei passi successivi
dell'Allegro, come appare evidente ad esempio per il motivo acefalo, che ritorna nell'Epilogo
dell'Esposizione, o nel delizioso interludio orchestrale, in cui letteralmente ispira una nuova
frase opportunamente rivista in diminuzione e imitazione, o alla fine della Riesposizione, dove
torna più vicino al profilo ritmico-melodico originario. Ma è soprattutto il motto introduttivo a
dominare la scena fungendo da elemento base, da matrice sonora di molti passaggi: dopo
l'esposizione orchestrale ricompare infatti subito nella frase di transizione alla dominante resa
più instabile e nervosa proprio dal ritorno del motto puntato e dal raddoppio ritmico
dell'accompagnamento, vivacizzato dal sostegno di gruppi di crome reiterate; anche
nell'Epilogo dell'esposizione orchestrale ricompare, contribuendo ad aprire un episodio carico
di contrasti e di strappi impetuosi, mentre nella riesposizione solistica il pianoforte mostra il
suo volto più combattivo proprio quando prende in mano con personalità la situazione
esponendo l'inciso iniziale nel ponte modulante. Come si vede, è specie nelle situazioni di
contrasto, di movimento e di carattere che Beethoven fa riemergere il tratto incisivo del suo
motto, utilizzato dunque per spingere in avanti il discorso e nelle parti strutturalmente più
complesse ed elaborative; ancora lo ritroviamo infatti nei bassi per ispessire e innervare
ritmicamente il registro grave, o nella grande frase di commiato che segue, o anche alla fine
della Riesposizione, in un'anticipazione gravida di significati nella voce dei violini primi e
secondi, presto confermata a piena voce con l'inizio della Ripresa.
Invece il terzo componente del primo gruppo tematico, il tranquillo inciso di risposta al motto
introduttivo, compare in altri momenti musicali, di carattere e profilo diverso. Beethoven vi
ricorre in particolare per le situazioni inattese, o per creare diversivi sviluppando nuovi
episodi, oppure in funzione di chiusura di discorso, in questo caso associato al motivo acefalo
per formare una nuova unità tematica. L'orchestra si ferma di colpo su tre note orchestrali
all'unisono, poi ripetute un semitono sopra a re bemolle: è un vero e proprio coup de thèàtre,
poiché l'ascoltatore, dopo un incedere del movimento così filante, tutto si aspetterebbe tranne
che questo. Da tale interruzione compare, inaspettato, proprio il profilo dell'inciso di risposta,
con quel suo caratteristico incedere morbido e avvolgente proposto dai violini e subito rilevato
dai fiati in un meraviglioso dialogo sonoro; una simile situazione si ripropone durante lo
Sviluppo, quando però questa volta è anche il pianoforte che, sollecitato dall'orchestra, ne
disegna e ne sviluppa leggiadre elaborazioni. In altri casi ancora, l'inciso di risposta si collega
al motivo acefalo; dalla combinazione nasce un'idea di congedo di particolare delicatezza; così
è sfruttata alla fine dell'esposizione orchestrale poco prima dell'entrata del pianista, nella frase
di commiato che conclude la riesposizione solistica e precede lo Sviluppo, alla fine dell'intero
Allegro con brio, esposta dai violini primi in una brevissima coda di grazia e delicatezza
mozartiane. Dal punto di vista del ruolo del solista la figura del pianoforte non è mai
preponderante rispetto all'orchestra: non esiste un vero e proprio primo tema pianistico, poiché
l'entrata del solista è affidata a una plastica presentazione su una frase preludiante che ce lo
dipinge quasi in punta di piedi, come un protagonista atteso, brillante ma non ingombrante; e
anche il secondo gruppo tematico è affidato prima all'orchestra e solo in seconda battuta alla
voce del solista, che quindi guadagna terreno poco per volta e senza anticipare troppo i tempi,
rispettoso di precisi equilibri prestabiliti. Inoltre, secondo una strategia ben congegnata, prende
possesso della scena quasi replicando a specchio le esperienze dell'orchestra; dopo
l'esposizione del secondo gruppo, riproponendo ad esempio un nuovo episodio imprevisto
sullo stesso re bemolle, piano tonale che aveva già prediletto in precedenza l'orchestra; solo
dopo questi passaggi gerarchici eccolo impegnato in una grande sezione virtuosistica
interamente dedicatagli, estesa e «complessa» e con proprio nuovo materiale il pianoforte
aveva affrontato un passo tecnico, ma piuttosto breve e con elementi «recuperati» da
precedenti passi orchestrali. La cura di Beethoven nel disciplinare la forma è dunque
impressionante, in questo senso degno erede della tradizione viennese. Ritroviamo dunque già
in questo vivido e brillante primo tempo, una straordinaria opera di assemblaggio della forma
che si riversa con risultati sorprendenti nell'ascolto.
Il secondo movimento è un Adagio di delicata fattura. I toni sfumati evocano un'atmosfera
incantata da notturno mentre la parte tematica è di consistenza prettamente vocale. Si respira
una certa misura e gradualità nello svolgersi delle idee, tutto procede pacatamente e con
calma, quasi non si volesse smuovere troppo la superficie sonora, in un clima di quiete
bucolica. Il tema principale dell'Adagio, in mi bemolle maggiore, ne è un caso esemplare: la
sua fisionomia è svelata solo poco per volta ed esso prende forma progressivamente. All'inizio,
intonato sottovoce da archi e fagotti, non viene infatti esposto nella sua interezza, perché i
corni intervengono con un inciso ripetuto su ritmo puntato che ne smorza l'eloquio, sino a
comprimerlo, spegnendolo in un accordo irrisolto e procrastinato. Il denso flusso sonoro si
spezza in un fortissimo da cui si sprigiona una nuova frase che poco dopo tornerà ad assumere
caratteristiche sospensive, sul ritorno del ritmo puntato. Beethoven aspetta invece il pianoforte
per riavviare il tema e questa volta esporlo in tutta la sua interezza, ma sempre con il
caratteristico respiro lento, modellandolo poi finemente in una successiva e più ampia
riesposizione elaborativa che ne completa il carattere lirico. La sezione centrale dell'Adagio
(B) presenta una seconda idea nella dominante si bemolle maggiore. Scambiata in eco tra
pianoforte e orchestra, è conclusa in una frase sospirosa di grande trasporto del solista. A
questo punto l'orchestra commenta questo intervento con una sorta di piccolo sviluppo in nuce;
l'ambiente armonico si increspa e sono introdotti chiari elementi tensivi: è una scossa che
muove il solista a reintrodursi nel discorso con una frase di cerniera melodica verso la tonica
che riporta progressivamente allo stato di quiete. La Ripresa è doppia, poiché contempla il
ritorno sia di A che di B. Prima torna il tema principale dell'Adagio rivisitato in veste fiorita
dal pianoforte. Poi è lo stesso pianoforte che procede con un fluente movimento di terzine
simile a un dolce mormorio sul quale l'oboe, sostenuto dai fiati, intona con respiro struggente
la melodia principale, melodia che infine si conclude con la frase declinante del piano. È un
momento magico di questo movimento, che restituisce all'ascoltatore sensazioni di grazia
impagabile.
Anche la ripresa di B dipinge, attraverso squisite sfumature, il secondo tema, scambiato tra
pianoforte e orchestra, ma ora nel tono d'impianto di mi bemolle maggiore; questa volta però il
pianoforte prosegue in un nuovo, luminoso episodio in cui con il suo tocco vellutato diventa il
protagonista assoluto della vicenda sonora. Dopo il corrucciato commento dell'orchestra c'è
spazio anche per una piccola cadenza in stile recitativo del pianoforte, con gli archi che
rispondono in pianissimo con brevi respiri ricavati ancora una volta dal tema principale. Infine
una frase di coda pronunciata da tutta l'orchestra conclude l'Adagio con echi bucolici e
pastorali.
Marino Mora
Il Concerto in si bemolle op. 19 che da sempre tutti considerano e definiscono come il secondo
dei cinque per pianoforte e orchestra che figurano nel corpus beethoveniano è in realtà il
primo, precedendo nel tempo il Concerto in do maggiore pubblicato come op. 15 (e dunque
correntemente noto come Primo) di circa un paio d'anni. Il Concerto in si bemolle venne infatti
composto fra il 1794 e il '95 («frettolosamente», aggiunge qualcuno), per un'occasione ben
precisa, e molto importante per Beethoven, la serie di tre serate consecutive al Burgtheater
nella quale il musicista venticinquenne fece il suo debutto in grande stile come pianista e
compositore di fronte al pubblico di Vienna, nel quadro di una grande «accademia»
organizzata da Haydn a beneficio delle vedove dei caduti in guerra; oltre a eseguire il
Concerto K. 466 di Mozart e a esibirsi come improvvisatore, Beethoven presentò, all'inizio
della prima serata (29 marzo 1795), il Concerto in si bemolle, guadagnandosi, come riferì la
«Wiener Zeitung», «l'unanime approvazione del pubblico». Probabilmente fu proprio l'esito
felice di quella serata a spingere Beethoven a eseguire il Concerto in si bemolle, insieme con
quello in do maggiore composto nel frattempo, nel corso della tournées (le prime e le ultime
della sua vita) svolte fra il 1796 e il 1798 con grande successo e apprezzabili risultati
finanziari, e che lo portarono a Praga, Lipsia, Dresda, Presburgo, Budapest, Berlino. A
pubblicarlo, tuttavia, Beethoven si risolse soltanto dopo qualche anno, e non senza prenderne
in certo senso le distanze. Nel gennaio 1801, dopo aver già affidato la pubblicazione dell'altro
Concerto, il cosiddetto Primo, ad altri, Beethoven offriva all'editore Hoffmeister di Lipsia un
gruppo di composizioni fra le più importanti del suo primo periodo viennese: il Settimino op.
20, la Prima sinfonia, la Sonata op. 22 per pianoforte e appunto il Concerto in si bemolle: nel
proporre le sue condizioni, Beethoven mostrava di non tener più in gran conto il lavoro che gli
era valso tanto «unanime approvazione» poco tempo prima: «Il Concerto lo metto soltanto 10
ducati perché, come ho già scritto, non lo considero tra i miei migliori e non credo che il
prezzo, tutto compreso, Le sembri esagerato». Forse proprio al momento di dare alle stampe il
Concerto, Beethoven operò una sostituzione (non dimostrata al cento per cento, ma data per
probabile da molti), quella del Finale, la cui versione originaria sarebbe da rintracciare in un
isolato Rondò in si bemolle ripubblicato qualche decina di anni fa e che sporadicamente capita
di ascoltare.
Il giudizio sfavorevole dello stesso Beethoven, si direbbe, fu la prima e non ultima delle
ipoteche che, dopo le affermazioni dei primi anni, hanno pesato sul Concerto in si bemolle,
che è rimasto un po' la Cenerentola dei cinque Concerti beethoveniani, per essere quello meno
eseguito dagli interpreti e meno considerato dalla critica. E certamente, il cammino che
Beethoven fece percorrere nei quindici anni scarsi che separano questo suo primo confronto
(non valendo la pena di tener conto di quel Concerto in mi bemolle composto nel 1784, e del
quale ci è rimasta solo la parte pianistica) con un genere destinato sempre di più, nel corso del
secolo, a esser considerato «minore», perché più compromesso di altri con le esigenze più
esteriori del concertismo, e meno suscettibile di esser sottoposto all'intensa elaborazione e
integrazione formale di una Sinfonia o di una Sonata, dalle grandiose architetture
dell'Imperatore, è lungo assai; per tacere del fatto che già la prova immediatamente successiva,
il Primo concerto in do maggiore, e ancor più il Terzo, cui Beethoven stava appunto lavorando
quando svendeva all'editore il Secondo, denotano una consapevolezza compositiva e stilistica
ben più profonda, e connotati più originalmente «beethoveniani». Rispetto a questi, il Secondo
concerto resta quello che è: un lavoro relativamente disimpegnato, scritto a proprio uso per
imporsi presso un pubblico dai gusti ben definiti, senza turbarlo più che tanto: carattere che
potrebbe dar ragione, anche senza renderlo valido in tutto e per tutto, al netto rifiuto di un
Ferruccio Busoni, che ci vedeva soltanto una brutta copia dei Concerti di Mozart.
Daniele Spini
https://www.youtube.com/watch?v=2t29tFSwqrE
https://www.youtube.com/watch?v=OCPzb9lSldk
https://www.youtube.com/watch?v=xnvgLztSyck
https://www.youtube.com/watch?v=wM2AewRGPA8
Allegro moderato
Andante con moto (mi minore)
Rondò. Vivace
Organico: pianoforte, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1805 - 1806
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 22 Dicembre 1808
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1808
Dedica: arciduca Rodolfo d'Austria
Allegro con brio
Largo (mi maggiore)
Rondò. Allegro
Organico: pianoforte, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 corni, 2 fagotti, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1800 - 1802
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 5 Aprile 1803
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1804
Dedica: Principe Louis Ferdinand di Prussia
Composto fra il 1800 e il 1803, il Concerto in do minore occupa una posizione centrale nella
storia del concerto beethoveniano. Se infatti in esso la struttura e il rapporto fra solista e
orchestra sono ancora improntati al modello del concerto classico, la scrittura pianistica
sovente se ne distacca, assumendo tratti di inconfondibile originalità. Anche rispetto ai primi
due Concerti per pianoforte, il terzo si impone per un linguaggio più serrato e un uso della
tastiera più personale. La prima entrata del solista, con il tema esposto in doppie ottave e un
importante movimento degli avambracci, acquista un'imponenza di suono e un'evidenza
gestuale affatto nuove, e così pure l'uso del pedale di risonanza in funzione timbrica nel
secondo tempo. È come se la formidabile esperienza creativa delle Sonate per pianoforte, fino
all'op. 53 esclusa, l'incredibile ricchezza inventiva ivi esperimentata in rapporto alle possibilità
dello strumento, venisse per la prima volta efficacemente messa a frutto da Beethoven nella
diversa architettura del Concerto, nella sua peculiare articolazione dialogica del discorso
musicale.
Del ponte modulante resta la seconda idea. Il seguito della ripresa si svolge regolarmente fino
al tutti orchestrale che precede la cadenza. La coda comincia pianissimo in un clima di
instabilità tonale con un insolito dialogo fra pianoforte e timpani. Un irresistibile crescendo
conduce quindi all'energica chiusura del primo movimento.
Figura e caratteri tipici d'un rondò che accoglie la disposizione tripartita della forma-sonata, ha
invece il finale con schema A-B-A/C- sviluppo di A/A-B-A, ossia di rondò con quattro riprese
di refrain e tre episodi, di cui il primo e il terzo sono simili. Il tema principale, o refrain,
annunciato dal solista è in do minore; il tono è però quello gioiosamente garbato d'una
cantilena infantile. Il pianoforte, poi l'orchestra, poi di nuovo il pianoforte lo espongono
alternativamente. Accordi dei fiati su un ritmo puntato, come in una marcia, introducono il
primo couplet in mi bemolle maggiore, costituito da una leggiadra figura a coppie di note
legate discendenti, mentre un lungo brano virtuoslstico del solista con un breve intermezzo
orchestrale conduce alla prima ripresa del refrain. Il secondo couplet, tematicamente unito al
refrain, suona come un suo espressivo svolgimento. Una lunga transizione, avviata da una
esposizione di fuga sul tema di refrain e proseguita da un accenno al tema medesimo e da una
virtuosistica collana di arpeggi del solista, conduce alla terza ripresa del refrain. Seguono
l'introduzione e la ripetizione del primo couplet, mentre l'ultima ripresa del refrain si risolve in
uno sviluppo modulante e conclusivo della testa del tema stesso. Dopo la cadenza, la stretta,
ossia la deformazione in ritmo di sei-ottavi dell'inciso principale del refrain porta il concerto
alla sua brillante conclusione.
Andrea Schenardi
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
È il primo pezzo per strumento solista e orchestra che rechi inconfondibili le tracce del genio
beethoveniano. Ancora una volta la tonalità di do minore serve a Beethoven per scolpire uno
dei suoi temi più plastici e incisivi: è la prima idea del Concerto che dà a tutto il pezzo un
respiro veramente sinfonico, opponendosi più avanti al soave tema cantabile in mi bemolle. Il
pianoforte acquista il ruolo di solista in vigorosa dialettica con la massa orchestrale, si
definisce nella sua personalità di strumento inteso già quasi in senso romantico, capace di
palpitanti voli lirici e drammatici.
Il "Largo" centrale ci porta alla tonalità lontanissima di mi maggiore: è uno stacco netto
dall'atmosfera del primo tempo, stacco che si avverte anche nell'impianto più sereno di tutta
questa parte, in cui il pianoforte si inserisce nel dialogo orchestrale con disegni sempre
rinnovati e suadenti.
Infine un "Rondò" dal clima poetico tipicamente beethoveniano: gioia spensierata e humour
cordiale caratterizzano i cangianti dialoghi tra solista e orchestra, e la tonalità minore perde
qui, ormai purificata, la cupa drammaticità del primo tempo per risolversi dopo la cadenza in
un trionfale empito di do maggiore.
Il Concerto in do minore op. 37, già sbozzato intorno al 1800, fu completato intorno al 1802
ed eseguito con Beethoven al pianoforte il 5 aprile 1803 a Vienna (direttore J. von Seyfried);
l'anno dopo veniva pubblicato, incontrando un successo che ne ha fatto per tutto l'Ottocento il
concerto pianistico beethoveniano più eseguito.
Con quest'opera Beethoven afferma per la prima volta in modo evidente la propria concezione
sinfonica del concerto solistico; proprio considerando il punto di partenza mozartiano (il
Concerto in do min. K. 491) si coglie la strada fatta da Beethoven: l'Allegro con brio si apre
con un tema rettilineo, basato sull'accordo di do minore, senza lasciare quelle possibilità
divagatorie che sono l'incanto dei concerti di Mozart. Tutto viene sfruttato nel lavoro tematico,
anche i materiali più grezzi come le due note cadenzanti (sol-do, sol-do) che concludono il
primo tema. Il secondo tema ha andamento cantabile, ma non rinuncia all'ampiezza messa in
gioco dalle prime note del Concerto: negli sviluppi, lo scontro di solista e orchestra accumula
tensione, risolta in modo mirabile alla fine del movimento con la combinazioni timbrica in
pianissimo di pianoforte e timpano. Il Largo si apre su orizzonti già schiettamente romantici:
la tonalità scelta è il lontano mi maggiore, il pianoforte procede senza apparente unità metrica
come improvvisando. Rispetto all'originalità dei primi due movimenti il Rondò finale sembra
rientrare in binari pùi consueti: tuttavia, oltre alla sfumatura umoristica, grottesca, impressa
alla tonalità di do minore, sono da notare le improvvise modulazioni, un episodio fugato
centrale e il ritmo cangiante delle ultime pagine.
Il 15 dicembre 1800, scrivendo all'editore Hoffmeister di Lipsia, che gli faceva richiesta di
alcune composizioni da pubblicare, Beethoven, accanto al Settimino op. 20, alla Sinfonia n. 1,
alla Sonata per pianoforte op. 22, al Quintetto per archi op. 29, faceva menzione dei Concerti
pianistici scritti fino allora, in termini non proprio lusinghieri: «Un Concerto per pianoforte
che però non spaccio per uno dei miei migliori, come è il caso di un altro [il Concerto in do
maggiore] che sarà pubblicato qui da Mollo (per informazione dei critici di Lipsia): infatti i
migliori [il Concerto in do minore] me li tengo ancora per me, per il prossimo viaggio che
farò, ma non dovrebbe lo stesso vergognarsi di pubblicarlo».
Un nuovo Concerto per pianoforte era dunque un traguardo estremamente ambizioso; non a
caso la gestazione fu particolarmente lunga e complessa. I primi abbozzi sono anteriori di
qualche anno al 1800; in questa data Beethoven avrebbe voluto già suonare la partitura, ma
non riuscì a terminarla; non a caso il manoscritto reca l'indicazione Concerto 1800.
Certamente anche dopo la prima esecuzione l'autore continuò a perfezionare la parte solistica,
che, secondo l'uso, non venne stesa per iscritto prima della pubblicazione, avvenuta per i tipi
del Bureau d'arts et d'industrie nell'estate 1804. Seyfried, che collaborò alla prima esecuzione,
ebbe modo di scrivere: «Per l'esecuzione del suo Concerto egli mi invitò a voltargli le pagine,
ma la cosa era più facile a dirsi che a farsi: non vedevo avanti a me quasi altro che fogli vuoti;
tutt'al più qualche spunto da servire come promemoria, incomprensibile per me come un
geroglifico egiziano; poiché egli suonava la parte principale quasi tutta a memoria non avendo
avuto, come quasi sempre accadeva, il tempo di fissarla completamente sulla carta; e mi
faceva soltanto un impercettibile cenno quando era alla fine di tali passaggi».
Simile la testimonianza di Ferdinand Ries, che eseguì il Concerto all'Augarten nel luglio 1804:
«La parte del pianoforte non e mai stata posta compiutamente in partitura; Beethoven l'aveva
soltanto scritta per me in alcuni fogli».
Nessun dubbio che la mancata stesura su carta della parte solistica debba essere interpretata
come volontà di non fissare e quindi di non rendere immediatamente accessibili a tutti i
"segreti" della scrittura pianistica; e occorre pensare anche a una forte componente
improvvisativa del pianista Beethoven, che variava verosimilmente le sue esecuzioni da una
sera all'altra, avvalendosi del suo stile aggressivo ed anticonformista. Non a caso intenzione
dell'autore era quella di stupire il suo pubblico, varcando i limiti di garbato intrattenimento
entro i quali ancora si manteneva il genere del Concerto. Di qui anche la scelta di una tonalità
minore, impiegata da Mozart in sole due occasioni (K. 466 e K. 491), e da sola emblematica di
grandi tensioni. Il Concerto in do minore non deluse le attese, e risultò certamente qualcosa di
"nuovo". Tuttavia - con la consapevolezza dei posteri - esso non arriva a proporre, come gli
ultimi due Concerti, un radicale ripensamento del genere del Concerto pianistico, tale da
investire non solo i rapporti sonori ma anche quelli formali. Piuttosto esso spinge agli estremi
limiti le potenzialità proprie del Concerto classico, così come era stato forgiato da Christian
Bach e da Mozart, sulle basi dell'eleganza, dell'equilibrio, del virtuosismo.
Queste tre caratteristiche si pongono ugualmente alla base della partitura; sempre dialettico
rimane il rapporto fra solista e orchestra, e nessuna sostanziale innovazione formale viene
introdotta. Tuttavia, fra gli elementi più apertamente "progressisti" possiamo individuare la
peculiarità della scrittura pianistica, che fa sfoggio, nei passaggi in ottava, negli arpeggi,
nell'uso del pedale, di una sonorità più possente e protagonistica.
Lo stesso ingresso del pianoforte nell'Allegro con brio iniziale, qualifica le attribuzioni dello
strumento: una tripla scala in doppia ottava, lunghe scale cromatiche, arpeggi, trilli: la qualità
del suono, insomma, diviene elemento altrettanto suggestivo delle idee melodiche. Di per sé il
movimento si ispira, nella tensione della tonalità di do minore, al Concerto K. 491 di Mozart,
e, nel ritmo di marcia, ai concerti "militari" di Viotti. Elemento tipicamente beethoveniano è la
dialettica tematica, fra il vigore del tema iniziale e il carattere malinconico del secondo; fra
tutti i "silenzi" e i contrasti timbrici che attribuiscono al tempo il suo aspetto "drammatico", il
più suggestivo è l'intervento del timpano alla fine della cadenza del solista.
Inaugurato da un a solo del pianoforte, il tempo centrale è un tenero Largo, tripartito come di
consueto; il compositore propone qui una intima solidarietà fra solista ed orchestra; il
pianoforte si abbandona a lunghe "cantilene" belcantistiche in doppie terze, e nella sezione
centrale, funge da soffice supporto agli interventi solistici di flauto e fagotto; prima della
chiusa, una cadenza solistica.
Arrigo Quattrocchi
Per la sua posizione intermedia il Concerto op. 37 non ha sempre la vitalità innovativa e la
solida coerenza di altre opere create in quel breve giro di anni (per esempio, le Sonate per
pianoforte op. 27 e 28 e soprattutto la Terza Sinfonia), ma basterebbe da solo il secondo
movimento ad assicurargli la fama che ha. Dopo diversi e laboriosi ripensamenti (quasi tutti
documentati) il Concerto fu concluso nel 1802, ed ebbe la prima esecuzione, molto accidentata
ma alla fine accolta bene, il 3 aprile 1803 al Theater an der Wien (solista Beethoven stesso,
che leggeva direttamente dal suo confuso manoscritto per la disperazione del direttore del
teatro, il cavaliere Ignaz von Seyfried, che voltava le pagine).
Il primo movimento entra subito nella vicenda con il primo tema marziale, volitivo e un po'
enfaticamente solenne nella sua asciuttezza (la somiglianza con l'inizio del Concerto K, 491 di
Mozart non gli giova). Inventato con le tre note dell'accordo perfetto di do minore, è uno dei
temi sinfonici evidenti e sintetici che l'ascoltatore ripete tra sé dopo un concerto. Ricordiamo
che nel sinfonismo un 'tema' si forma per lo più con due caratteri, uno melodico e l'altro
ritmico, che nella continuità del motivo possono essere coesistenti o distinti. L'elaborazione
sinfonica sta appunto nel lavoro di trasformazione e sviluppo dei temi prima di tutto nei loro
aspetti melodici e ritmici.
Il primo tema di questo Concerto, e soprattutto il suo rigido 'epilogo' ritmico (sol/do, sol/do),
passano con intensità diversa da un settore all'altro degli strumenti per essere poi riesposti con
un 'tutti' dell'orchestra, in un luminoso mi bemolle maggiore. Sorpresa tipicamente
beethoveniana, la natura affermativa del tema già accentuata nell'iniziale presentazione in
'minore' suona ora molto più decisa. Qui abbiamo la transizione al secondo tema sempre in mi
bemolle maggiore (violini primi e clarinetti), cantabile di grande bellezza, che si espande in un
breve dialogo di proposte e risposte tra gli archi e i fiati ed entra poi in un agitato sistema di
confronti con il primo tema, il cui 'epilogo' ritorna insistentemente anche come segmento
tematico autonomo. Il pianoforte entra con effetto di protagonista, riaffermando con una certa
foga esteriore la tonalità di do minore in tre scale ascendenti scandendo poi vigorosamente il
primo tema. Si inizia il dialogo tra il solista e l'orchestra, ben serrato nella sezione dello
'sviluppo', con modulazioni ardite nelle quali il secco disegno iniziale (anche contratto negli
intervalli, ma non nel ritmo) torna con ossessiva insistenza in funzione di guida della dialettica
tra il pianoforte e gli strumenti e tra i temi. Questa cellula tematica scandita in quattro note, e
anche condensata in due, perentoria o inquieta, esplicita o celata, caratterizza quasi ogni
momento del primo tempo. Addirittura essa compare da sola e in 'pianissimo' nei timpani,
quasi privata di natura sonora, sotto gli arpeggi del pianoforte dopo che questo ha concluso la
sua enorme cadenza. La geniale bizzarria strumentale è l'ultima e più significativa traccia
dell'agitazione che ha percorso il primo tempo e che l'eloquente 'coda' disperde.
Il Largo è, come ho detto, la pagina preziosa del Concerto. Si direbbe che Beethoven abbia
scelto la tonalità di mi maggiore, in tutto estranea al do minore del primo tempo, per isolare
sin dal primo accordo il sentimento di questo Largo. La forma generale è quella del Lied in tre
sezioni, ma l'alta libertà emotiva non consente alcuna costrizione formale, l'ispirazione è
piuttosto quella dell"improvvisazione'. Nel silenzio dell'orchestra il solista inizia la melodia
che ha la calma riflessiva di un 'notturno'. A noi, attenti e stupiti, sembra che il pianista trovi le
sue note per la prima volta. Quando l'orchestra risponde (archi con sordina), si espande nella
quiete una luce delicata. Nulla turba o confonde la disposizione poetica alla fantasticheria e al
sogno. In diversi momenti la musica rinuncia a una fisionomia melodica per espandersi
mirabilmente in echi, brividi, sospiri, coni mosse esaltazioni (gli arpeggi del pianoforte),
dunque in pura liricità astratta. Perfino la cadenza finale deve avere un suo estatico, sorridente
pudore. Mirabile la serena semplicità delle quattro battute finali: percorrendo a eco le tre note
dell'accordo di mi maggiore (si, sol diesis, mi) il pianoforte, un flauto, due corni scendono
verso il buio e il silenzio. L'ultimo accordo secco (tutti dell'orchestra senza pianoforte) è un
congedo antisentimentale, dissipa l'incanto e prepara la transizione al Rondò. Che si inizia
molto felicemente con uno scatto agile (corta ascesa di semitono e ampia discesa di settima)
del pianoforte, che continua esponendo il tema principale destinato a tornare nelle ripetizioni
tipiche del Rondò. A noi suona come la musicale trasfigurazione di un gesto di danza o di una
civetteria mondana, consueta negli 'Allegri' di Haydn e di Mozart (ma qui non c'è traccia di
intonazione popolare così frequente nei due grandi) e poco familiare al Beethoven sinfonico.
Tuttavia l'impianto tonale in 'minore' celatamente contraddice l'allegra eleganza del disegno,
come se la tensione del primo tempo e la notturna malinconia del secondo non si fossero
ancora del tutto dileguate - un esempio della complessità nei pensieri e negli affetti di
Beethoven nella sua maturità creativa. Ma da un certo momento entra nella musica un garbato
umorismo con l'oboe che intona il motivo principale e con il fagotto che lo coglie e lo
canticchia, mentre il pianoforte si distrae in arabeschi e poi fa loro da eco, quasi scherzando.
Da lì con la progressiva affermazione del modo maggiore si espande una gustosa allegria che
dopo l'ultima e breve cadenza del pianoforte quasi esplode nell'imprevedibile capogiro del 6/8
in do maggiore.
Franco Serpa
Guida all'ascolto 6 (nota 6)
Quello per pianoforte e orchestra è stato uno dei concerti solistici più frequentati dai grandi
compositori classici e romantici. Le ragioni sono varie, non ultima quella per cui molti di loro
erano pianisti, conoscevano bene lo strumento e potevano eseguire essi stessi le proprie
composizioni. Ma la ragione che interessa di più l'ascoltatore di oggi è che il concerto per
pianoforte era tra i generi musicali più stimolanti per la creatività dell'artista, poiché metteva a
confronto due organismi polifonici complessi e autonomi. Le risorse dei due ambiti davano
possibilità molto ampie di manipolazione del materiale e offrivano stimoli nuovi, soprattutto in
campo timbrico. Mozart, per fare un esempio, lavorò molto sull'affinità tra suono dello
strumento a fiato e suono pianistico, intuendone e sfruttandone il potenziale. In più, il
pianoforte divenne molto presto lo strumento con cui venivano riprodotte, studiate, adattate le
partiture orchestrali, dando origine a una relazione proficua tra i due universi.
C'è da aggiungere poi che il rapporto tra pianoforte e orchestra, soprattutto in epoca romantica,
poteva incarnare la relazione, a tratti conflittuale, tra l'interiorità del singolo, da intendersi
come l'artista creatore, e la dimensione esterna, genericamente incarnata dalla compagine
orchestrale. Tali risvolti sociologici hanno caratterizzato per molti decenni l'universo
biografico e iconografico del Beethoven pianista e compositore, rappresentato in perenne
contrasto con l'esterno e col tratto volitivo di chi accetta la sfida della creatività. In ogni modo,
il significato e il piacere dei suoi concerti per pianoforte vanno maggiormente ricercati, più
che in questi assunti comunque presenti, nelle ragioni intime e nella ricchezza delle partiture.
Composto fra il 1802 e il 1803, abbozzato forse già nel 1800, il Concerto in do minore n. 3 op.
37 venne stampato a Vienna nel 1804. In ossequio a una pratica tradizionale ormai
cristallizzata, fu Beethoven stesso, in veste di virtuoso compositore, ad eseguirlo in prima
assoluta dinanzi al pubblico viennese nell'aprile 1803. Il concerto, che fu presentato insieme ad
altri pezzi sinfonici e cameristici, fu accolto dalla critica senza particolari elogi, anzi con
qualche accenno di insoddisfazione. Si può provare a indagarne la ragione. Come è facile
dedurre dalle date, l'op. 37 è uno dei primissimi concerti per pianoforte e orchestra
dell'Ottocento. La fattura del suo stile è anomala, potremmo dire sperimentale, in quanto
caratterizzata quasi completamente da una convivenza tra elementi del passato Settecento e
affioranti novità future, nell'ambito dell'orchestrazione come in quello della tecnica pianistica.
Di tale compresenza è immediata testimonianza l'esordio dal tratto sicuro e marziale, che
affonda le proprie radici nel gusto settecentesco, ma si carica di un'energia volitiva e tragica
che prelude al tono romantico. Tale motto iniziale torna poche battute dopo in tonalità
maggiore e con ricca orchestrazione, ma Beethoven ne oscura la luminosità integrandone il
tema con un'appendice melodica discendente simile a una risata un po' sinistra. Evidentemente
i limpidi panorami sonori del secolo passato non erano più attuali. Come alcuni studiosi hanno
evidenziato, compare qui un sottile sarcasmo che appartiene anche ad altre opere dello stesso
periodo e che testimonia l'acuta volontà critica del compositore, il quale, prima di liquidare
uno stile perché a suo avviso inattuale, sembra costringerlo ad una smorfia di dolore. Poco
dopo l'atmosfera si rasserena grazie al secondo tema, un magnifico cantabile dalle movenze
più ricche rispetto al suo modello melodico, ben riconducibile allo stile settecentesco. Ancora
un compromesso riuscito è l'entrata dello strumento solista, realizzata da scale ascendenti, le
stesse con cui si chiudeva la Fantasia in do minore K. 475 di Mozart, seguite però dal motto
iniziale esposto in ottava da entrambe le mani, un tecnicismo pianistico tipicamente romantico.
Un po' come voler ricominciare da dove qualcuno aveva finito. Interessante la sezione
successiva dello sviluppo che inizia con una nuova esposizione delle scale ascensionali di cui
abbiamo appena parlato e seguita trasformando il volitivo motto iniziale in un tema implorante
arricchito da una dolente coda melodica. Beethoven ama, in questo brano, addizionare
materiale all'elemento principale; una tecnica che in futuro scomparirà dal suo modo di
comporre. Qui, addirittura, la coda acquista vita indipendente e prosegue sotto forma di nuova
idea, enunciata dal pianoforte all'unisono (cioè mano sinistra e mano destra suonano la stessa
cosa). Anche nei concerti del passato il pianoforte assumeva ruolo cantabile e veniva
accompagnato unicamente dall'orchestra. Ma in questo passo l'idea melodica compare, come
detto, raddoppiando la parte (la sinistra si aggiunge alla destra), con maggiore effetto di
amplificazione drammatica. L'unisono viene mantenuto anche quando le cose, per il solista, si
fanno difficili; anch'essa un'innovazione del già dato, visto che tradizionalmente tali passaggi
di bravura venivano svolti da una mano sola, di solito la destra.
Da questi brevi accenni ai vari momenti del primo tempo, si comprende come il concerto sia
animato da un'energia che rinnova la cifra espressiva del materiale e come il suo essere a
cavallo tra due secoli gli conferisca una natura bifronte, a tratti ambigua, forse difficile da
cogliere per il pubblico dell'epoca. Un elemento che tende chiaramente a sviluppi futuri è il
corposo arricchimento dell'orchestrazione e della scrittura pianistica, quest'ultima
particolarmente evidente nel Largo centrale. Lo strumento solista entra senza orchestra
disegnando con accordi pieni un tema che, pur mantenendo le fioriture del passato stile
melodico, ha il peso di una meditazione e dà corpo a un profondo spazio sonoro. C'è il bisogno
di andare oltre l'espressività codificata, verso una profondità che è a mezza strada fra la
trascendenza e il concetto, che vuole essere l'epifania di una sensazione morale. In ogni modo,
dopo il primo intervento orchestrale, il pianoforte si muove quasi totalmente con valori ritmici
molto brevi. Il ruolo cantabile è affidato all'orchestra. Presto ci si rende conto di come la
tendenza continua della scrittura pianistica all'arpeggio venga usata per smaterializzare il
suono e fondere in modo emozionante tutti gli strumenti.
Anche nel successivo Rondò il pianoforte entra da solo, in ossequio alla tradizione d'apertura
del finale da concerto. Il ritmo e la struttura melodica del tema che si ode all'inizio anima e
caratterizza tutto il brano grazie alla manipolazione cui Beethoven lo sottopone, allungandolo,
accorciandolo, stirandolo verso l'alto, inserendovi fioriture, utilizzandone porzioni. Si noti, ad
esempio, la brillante sezione finale in presto con cui si chiude il concerto, introdotta dalla testa
sola di quel tema. Si manifesta in questo terzo tempo, proprio grazie alla struttura "di ritorni"
tipica del rondò nella quale si prevede un evento principale in alternanza con alcuni episodi
diversi, un impeto che sembra tornare ogni volta in gioco e ricominciare con nuova forza. Per
di più, anche gli episodi cui si è accennato non sono vere e proprie divagazioni perché
mantengono uno stretto legame con quello principale. In fondo costituiscono un'illuminazione
diversa delle sue caratteristiche. Il ritorno dell'evento principale è così preparato quasi con lo
stesso materiale di quell'evento e ciò dà l'impressione esatta di quanto la natura del pezzo
sottostia a una logica stringente. La forma rondò, usata in tale maniera, conferisce al brano una
dialettica agitata. Beethoven affida a questo finale un compito arduo da sopportare,
caricandolo di un'energia estranea alle sue forme tradizionali, forme che sembrano quasi non
sostenere tale volontà di rinnovamento. Il compositore è alla ricerca di un linguaggio che
veicoli potenzialità espressive maggiori, ma è obbligato a servirsi di materiale dalla natura
inadeguata a soddisfare le mire della sua ricerca.
Simone Ciolfi
https://www.youtube.com/watch?v=rvdEjg-EDTk
https://www.youtube.com/watch?v=f8tH7lGIQa0
https://www.youtube.com/watch?v=o1ph_jLOawE
https://www.youtube.com/watch?v=pjIfzu82HU0
https://www.youtube.com/watch?v=kGtI5VdnhwM
https://www.youtube.com/watch?v=WP3OfvqpgCw
Se il Terzo concerto, nonostante le novità della scrittura pianistica, si muove ancora con tutta
la sua drammatica veemenza nel solco mozartiano tracciato segnatamente dai Concerti in re
minore K 466 e in do minore K 491, il Quarto si addentra in una regione solo in parte
esplorata dal Salisburghese con i Concerti K 450, 488 e 595. Composto nel 1805-06 (nel
periodo in cui Beethoven lavorava anche alla Quinta sinfonia, al compimento della prima
versione del Fidelio, al Concerto per violino), il Concerto in sol maggiore realizza il prodigio
di una sonorità pianistica di tipo intimistico, dolcemente luminosa e non brillante, con una
frequente valorizzazione del registro acuto dello strumento in funzione cantabile, mentre la
natura del rapporto fra solista e orchestra riesce di tono affettuosamente colloquiale, anziché di
contrapposizione dialettica. Ma è anche la variegata veste armonica del Quarto concerto,
l'abbondanza delle modulazioni, l'ampiezza della gamma espressiva all'interno di una
sostanziale unità di tono e la trasparenza dell'orchestrazione che fanno del Concerto in sol
maggiore - si legge in un articolo della Allgemeine Musikalische Zeitung del maggio 1809 -
«il più ammirevole, il più singolare, il più artistico e difficile di tutti quelli che Beethoven ha
scritto».
La breve entrata del solista, che nell'Allegro moderato iniziale precede l'esposizione
orchestrale introducendo dolcemente l'antecedente del tema principale col suo caratteristico
inciso a note ribattute, è di per se stessa sorprendente. È come il levarsi d'un sipario su un
paesaggio sonoro di impronta squisitamente pianistica che, gli archi, ripetendo e completando
il tema, prendono a imitare, avviando il discorso musicale all'insegna dell'integrazione fra solo
e orchestra. Il ponte modulante estende il tema, così esposto, agli strumenti a fiato e lo innalza
con un crescendo, fino ad approdare a un accordo generale di tutta l'orchestra, toccando così
un punto di sensibile distensione che segna la fine della zona del primo tema e l'inizio del
secondo: un soggetto dalle linee slanciate e un ritmo quasi di marcia che, passando in varie
tonalità e non toccando mai quella che si converrebbe a un secondo tema, si direbbe fare
ancora parte del ponte modulante. Dal ritorno del caratteristico inciso del tema principale (che
ancora una volta porta a un crescendo in direzione di un nuovo punto culminante), un terzo
tema ad ampi intervalli fiorisce nei violini in un luminoso modo maggiore. Un episodio
conclusivo e un rasserenante ritorno dell'inciso a note ribattute del primo tema chiudono la
prima esposizione «chiamando» l'ingresso del solista, il quale, a sipario ormai levato, prende a
elaborare virtuoslsticamente la sua stessa introduzione iniziale. Privata del primo tema nella
sua interezza, la seconda esposizione risulta più ampia della prima e, rispetto a quella, più
ricca d'ornamenti. Un virtuosistico episodio di transizione, anziché condurre diritto al secondo
tema, approda infatti a una melodia molto lirica e trasognata in si bemolle maggiore, eseguita
dal pianoforte alla mano destra nel registro acuto e accompagnata dalla sinistra nel registro
grave, mentre dopo un rapido passaggio del solista, i violini introducono, piano, nel tono della
dominante (!), un nuovo tema caratterizzato da una frase legata su un ritmo puntato, rinforzata
al centro da un duplice sforzando. Chiusa così l'imprevista parentesi, l'episodio di transizione
può quindi riprendere il suo corso e finalmente condurre al secondo tema alla cui esposizione
contribuisce ora il pianoforte. Più ampio è anche l'episodio di transizione al terzo tema, in cui
l'inciso a note ribattute suona alternativamente in violini e legni, mentre, a slanciare in avanti il
discorso musicale in direzione dello sviluppo, il terzo tema suona dapprima limitato alla sola
prima frase (enunciata dai legni, quindi prolungata e infine ripetuta dal solista), per poi
completarsi nella seconda. Codetta e inciso a note ribattute chiudono la seconda esposizione.
Lo sviluppo prende le mosse dal solito inciso che il solista solleva fino a un punto culminante
da cui ridiscendere con un disegno in terze e seste discendenti, come per attrazione
gravitazionale. Una, due volte su un pedale di fa minore; poi altre due volte, ma da un tono e
mezzo più in basso e su un pedale di re minore. E mentre il pianoforte si lancia in ampie e
generose volute d'arpeggi, violini e violoncelli ripetono il disegno discendente del solista. Una
lunga coda di questo episodio, formata da passaggi brillanti e incisivi del pianoforte nel tono
di do diesis minore, approda, dopo un trillo di dominante, a un pianissimo in cui la precedente
concitazione si placa in un disegno melodico etereo (sempre in do diesis minore) in cui il
solista ripete una semiscala discendente, prima a note semplici, poi con terze della destra,
mentre violoncelli e contrabbassi eseguono in pizzicato l'inciso del primo tema. La sezione
conclusiva dello sviluppo, intessuta sul medesimo inciso, prepara la ripresa del primo tema,
riaffermato dal solista in tono grandioso e continuato delicatamente dall'orchestra. Una cesura
lascia sospesi gli episodi collegati al tema principale dando luogo a un nuovo episodio
modulante, molto simile alla parentesi lirica già ascoltata in seno alla transizione fra primo e
secondo tema nella seconda esposizione. Segue quindi il quarto tema, mentre il resto
dell'esposizione si ripete in modo regolare, fino alla cadenza, conseguente alla ripetizione del
terzo tema e non di codetta e ritorno dell'inciso a note ribattute che avevano preparato lo
sviluppo. La coda riprende il filo del discorso «interrotto» dalla cadenza, ripartendo dal terzo
tema per approdare alla ripetizione dell'inciso a note ribattute e su questo chiudere il primo
movimento.
All'affettuoso colloquio fra solo e orchestra dell'Allegro moderato, segue il contrasto più
violento del secondo movimento, un Andante con moto, nel quale wiederstrebende Prinzip e
bittende Prinzip, principio d'opposizione e principio implorante, assumono la più tesa
evidenza. Cosi al tema in mi minore pronunciato forte e sempre staccato dall'orchestra, il
pianoforte contrappone un'idea cantabile di implorante dolcezza. I due opposti elementi
tematici si alternano dapprima con largo respiro, poi a piccoli frammenti, l'uno digradando
progressivamente fino a estinguersi, l'altro rafforzando la propria voce con uguale gradualità,
per culminare in un canto intensissimo e in una ardita cadenza tonalmente ambivalente. Nella
coda l'orchestra torna a far sentire nei bassi, in una dinamica ridottissima, il suo inciso ritmico,
mentre il pianoforte rientra con un breve accenno melodico e un delicatissimo arpeggio di
chiusa.
L'opposizione fra solo e tutti, così evidente nell'Andante, persiste nel finale dove però il tono
generale è quello d'un divertito rondò a una sola strofa. Attaccato pianissimo dagli archi
dell'orchestra, il tema di refrain viene subito ripreso dal pianoforte, mentre un violoncello si
stacca dal gruppo con una linea melodica indipendente. Identico procedimento subisce la
seconda idea cantabile, poi l'orchestra riafferma con energia il tema iniziale. Un brillante
episodio di transizione costruito sull'opposizione fra solo e tutti conduce al couplet un tema di
serena cantabilità presentato dal pianoforte e subito dopo dall'orchestra in una scrittura di
limpida trasparenza polifonica. Collegati fra loro episodi di transizione, refrain e couplet si
alternano quindi regolarmente con gli sviluppi e le varianti del caso, fino alla cadenza. La coda
con un brusco cambiamento di tempo può quindi portare il concerto a una conclusione
sfolgorante sul motivo di testa del tema principale.
Andrea Schenardi
C'è subito da notare l'innovazione formale rispetto al tradizionale concerto del '700, per cui è il
pianoforte solo a iniziare il primo tempo: è un bellissimo tema di intonazione romantica, che
viene subito ripreso dalla sola orchestra e condotto fino alla seconda idea. La quale a sua volta,
inversamente all'uso normale ha carattere incisivamente ritmico: la successione maschile-
femminile dei due temi principali viene dunque capovolta e ne esce una configurazione
inattesa, ricca di contrasti le forieradi interessanti sviluppi. Con l'attacco del pianoforte ha
inizio fra il solista e l'orchestra un dialogo vario e luminoso, n cui il primo reca un elemento
assolutamente individuale con la sua tecnica smagliante e il significativo contrasto con la
massa dell'orchestra. Qui "solo" e "tutti" sono ormai equiparati in un corpo unico eppure
continuamente differenziato: le basi del concerto moderno per pianoforte e orchestra sono
definitivamente gettate.
Per quanto riguarda l'"Andante con moto," esiste una tradizione abbastanza attendibile per cui
Beethoven sembra abbia voluto raffigurare nei due temi di questo brano, (quello iniziale
dell'orchestra e quello del pianoforte solo) il mito di Orfeo che soggioga le forze dell'Ade con
la bellezza del suo canto. È una pagina breve ma succosa e ricca di contrasti, dove lo
strumento solista si libra ad inebrianti altezze liriche.
Dedicato all'arciduca Rodolfo d'Austria, il Concerto in sol maggiore op. 58 fu composto tra il
1805 e la fine del 1806, assieme al Fidelio (prima versione) e alla Quinta Sinfonia: fu eseguito
la prima volta, con il compositore al pianoforte, nel marzo 1807 a palazzo Lobkowitz e quindi
in pubblico il 22 dicembre 1808 al teatro An der Wien. Tornando al genere concertistico dopo
un intervallo di cinque anni, Beethoven rivoluziona i tradizionali rapporti fra solista e
orchestra, in particolare muovendo con imprevedibile fantasia lo schema della doppia
esposizione (prima da parte dell'orchestra, poi da questa assieme al solista) cara al concerto
classico. Nel Quarto Concerto il pianoforte che da solo espone il primo tema, quasi
preludiando, ed è ripreso poi dall'orchestra secondo le leggi dello sviluppo tematico fissate una
volta per sempre nella Quinta Sinfonia. Ma sotto lo stimolo dello strumento prediletto, il
pianoforte, si trovano spunti divergenti che nella logica delle sinfonie non potevano trovare
posto, anticipazioni dell'intimismo di uno Schubert, estrapolazioni liriche di schietto segno
romantico, lievitazioni poetiche dell'ornamenitazione (scale e trilli): sicché questo primo
movimento (Allegro moderato), nel quale non si fa mai uso dei timpani in piena creatività
"eroica" e sinfonica, anticipa il clima meno perentorio e più disponibile all'indugio
momentaneo dei decenni posteriori. Emblematico invece del Beethoven centrale è l'Andante
con moto, un urto frontale tra due mondi incomunicabili: la violenza dell'orchestra (archi soli)
e il raccoglimento poetico del pianoforte con il suo andamento da "corale". La tensione quasi
traumatica della pagina si dissolve nel finale (Vivace), un Rondò mescolato con la forma
sonata di sovrana eleganza, che ribadisce l'originalità di tutto il concerto nel frequente,
liberatorio, impiego solistico di strumenti in dialogo con il pianoforte.
Quasi coevo al Fidelio e alla Quinta Sinfonia, il Quarto Concerto op. 58 maturò tra il 1805 e la
fine dell'anno seguente, durante un biennio in cui lo svolgimento creativo di Beethoven è
attraversato da un'ondata inventiva di inaudita e violenta fecondità. La prima esecuzione, come
era abitudine, avvenne in forma semiprivata, con Beethoven al pianoforte, in un concerto del
1807 in casa del principe Lobkowitz; l'anno successivo, il 22 dicembre, il Quarto Concerto
venne presentato in forma pubblica a tutta la Vienna musicale, riunita al Teatro an der Wien
per assistere a una gigantesca "accademia" beethoveniana: oltre al Concerto pianistico, il
programma presentava infatti la Quinta e la Sesta Sinfonia, la Fantasia op. 80 e alcuni brani
della Messa in do maggiore op. 86.
Fra i cinque Concerti per pianoforte e orchestra, il Quarto è quello certamente più lontano
dalla tradizione di questa forma: già il Terzo in do minore afferma una dimensione espressiva
nuova, ma c'è maggiore distacco fra il Terzo e il Quarto Concerto dello stesso Beethoven che
non tra il Terzo Concerto e quello in do minore di Mozart K. 491. L'"Allgemeine Musikalische
Zeitung" del 17 maggio 1809 parlava della composizione di Beethoven «più straordinaria,
personale, elaborata e difficile» fra tutte quelle che impegnavano uno strumento solista; e
l'autorevole Rochlitz, ancora un decennio più tardi, scriveva: «questa poco conosciuta
composizione, è in realtà una delle più originali e, in particolare nei due primi movimenti,
delle più eccellenti e ricche di spirito di questo Maestro»; è probabile che codesta insistenza
sull'"originalità" sia in gran parte da attribuire al celebre esordio, in cui il pianoforte, quasi
improvvisando a sipario chiuso, espone da solo quel primo tema che pervade tutto il
movimento con una serie inesaurìbile di implicazioni e variazioni. Anche nel Concerto K. 271
di Mozart il pianoforte scende subito in campo in dialogo con l'orchestra; e anche nel Quinto
Concerto Beethoven introduce il pianoforte nelle prime battute, ma in un contesto cadenzante,
non tematico; la soluzione del Quarto Concerto fa invece capo alla tradizione dello stile
improvvisatorio: la vera esposizione incominciando alla battuta 14, si può considerare quanto
avviene alla stregua di una fantasia preludiante ancorché tematica; si può anche pensare alla
Fantasia op. 80 che nel concerto del 22 dicembre 1808 Beethoven al pianoforte aveva
presentato non con l'attuale Adagio d'apertura, scritto in occasione della stampa, ma con una
libera improvvisazione.
Di una originalità inaudita si può parlare anche a proposito dell'Andante con moto per
l'essenzialità paradigmatica con cui la poetica del conflitto è rappresentata nel contrasto fra il
solista e l'orchestra: questa resa aggressiva dal terreo colore della frase ritmica degli archi,
quello raccolto in una pura frase di corale, attutita dalla sonorità "una corda" in una luce di
ansiosa ma intima preghiera; anche la soluzione del conflitto è originale rispetto ad altri luoghi
beethoveniani, perché questa volta è il "principio supplichevole" che vince, quando il sinistro
monito dell'orchestra poco per volta si affievolisce: come il coro delle furie, placate dal canto
di un nuovo Orfeo, che si chinano per lasciare il passo. L'uscita è nel Rondò finale, pagina che
corre su piedi leggeri, nella quale la visione interiore è confermata dall'uso intenso di strumenti
solisti (i legni sopra tutti) che specie negli ultimi episodi conversano con il pianoforte secondo
un rapporto che, ancora una volta, era più tipico della musica da camera che delle vaste forme
concertanti.
L'originalità che tanto aveva impressionato i contemporanei, per il pubblico moderno passa
ormai in secondo piano rispetto al miracolo perenne del tono poetico generale dell'opera; gli
stessi spunti tematici delle opere gemelle (le analogie con la Quinta Sinfonia e con l'aria di
Leonora nel Fidelio sono state più volte segnalate) si stemperano in una luce del tutto nuova:
sotto lo stimolo dello strumento prediletto, il pianoforte, si scoprono regioni che nelle Sinfonie
non potevano trovare posto, aperture all'intimismo più segreto, quasi preschubertiano,
irregolarità di scansione ritmica, preziosità armoniche che ancora non si erano sentite in questi
primi anni del secolo; anche gli elementi più tecnici, come le scale o i "passaggi" che il
pianoforte libera in misura inconsueta, si trasfigurano in elementi poetici; su tutto vapora una
nobile dolcezza che è il rovescio della medaglia del Beethoven titanico ed eroico; ma non
meno pregnante, e non meno stimolatore di un avvenire musicale che si chiamerà Schubert,
Schumann e Brahms.
Giorgio Pestelli
Il concerto per pianoforte e orchestra in sol maggiore n. 4 op. 58 fu composto tra il 1805 e il
1806, rivisto nel marzo 1807 e stampato a Vienna nel 1808. Beethoven lo eseguì il 22
dicembre 1808 e fu l'ultimo concerto in cui si esibì come solista al pianoforte; il successo che
arrise alle sue sinfonie e le ottime vendite della sua musica gli permisero di evitare per il
futuro tali esibizioni pubbliche. Egli andava infatti raccogliendo i frutti di anni di lavoro
intenso e proficuo, in cui grandi opere come le Sinfonie n. 4 e n. 5, le Sonate op. 53 ("Aurora")
e op. 57 ("Appassionata"), il Concerto per violino e orchestra, i Quartetti op. 59, si erano
sovrapposte e giungevano a conclusione. Nata nell'intensa creatività di questo periodo, in cui il
compositore lavora molto sulle forme dei generi musicali e sulla loro organizzazione interna,
la partitura del Concerto op. 58 ha caratteristiche che la differenziano molto da quella del
concerto precedente: se nel n. 3 si avvertono le tracce di una mutazione marcata del gusto
musicale, il concerto n. 4 è un'oasi stilistica assolutamente originale in cui il nuovo si acquieta
nella serenità e nell'intima logica del capolavoro. L'inizio, con gesto formale assai innovativo,
vede il pianoforte entrare solitario con un tema dalla strana melodia, caratterizzato da suoni
ribattuti, il cui impulso sembra aspirare contemporaneamente all'immobilismo e al movimento.
Subito dopo la sua comparsa, l'orchestra lo richiama gettandovi la luce più calda degli archi.
Lo si ascolti: ha qualcosa di compiuto e, allo stesso tempo, di interrogativo. Grazie a questo
esordio, il cammino del brano, più che un percorso lineare, sembra composto dalle immagini
di un caleidoscopio, in cui la figura fondamentale è sempre costituita da quel tema iniziale.
L'abbondanza tematica riscontrabile nei passi modulanti e lo stesso secondo tema non riescono
ad avere un simile potere di attrazione. La loro comparsa è ottimamente preparata, stupenda la
fattura, ma la loro presenza è breve e passeggera. Al pianoforte è riservato un virtuosismo di
grande eleganza, che disegna figure aeree, elabora il materiale melodico fiorendone il
contenuto, ma anch'esso sembra non fermarsi mai in qualche punto preciso, in una zona
tematica definita. Scale cromatiche, arpeggi, doppie note e terzine in gran quantità, trilli; c'è
poco da tenere a memoria. Quella che Beethoven riesce a creare è un'atmosfera dove la
materia musicale riproduce ciò che abbiamo detto per il primo tema: tutto sembra possedere
movimento e, allo stesso tempo, pare essere sospeso in una dimensione assoluta, speculativa.
E in effetti la grande modernità di Beethoven è proprio nell'aver saputo anticipare, non in
singoli momenti di un brano ma in brani interi, elementi caratteristici della musica che verrà
prodotta nel Novecento.
Simone Ciolfi
Op. 73 1809
Concerto per pianoforte n. 5 in mi bemolle maggiore "Imperatore"
https://www.youtube.com/watch?v=GQmm-0lZtI0
https://youtu.be/n4lBZn4GXLo
https://www.youtube.com/watch?v=g6U_GD3H20M
https://www.youtube.com/watch?
v=GxOso1xOIPs&list=PLG4nHnXPEVUe_za2gNik3rZ7bipJeYDLU&index=23
https://www.youtube.com/watch?v=FVEEWL7mIkk
https://www.youtube.com/watch?v=yTLOQGF-c1E
https://www.youtube.com/watch?v=yTLOQGF-c1E
Allegro
Adagio un poco mosso (si maggiore)
Rondò. Allegro
Organico: pianoforte, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1809
Prima esecuzione: Lipsia, Gewandhaus, 28 Novembre 1811
Edizione: Clementi, Londra 1810
Dedica: arciduca Rodolfo d'Austria
Guida all'ascolto 1 (nota 1)
L'ultimo Concerto di Beethoven per pianoforte e orchestra, in mi bemolle maggiore op. 73,
nacque piuttosto speditamente durante l'anno 1809 e fu stampato ai primi del 1811 con dedica
all'arciduca Rodolfo d'Asburgo (il patrizio musicista, che del suo maestro Beethoven poteva
già vantare la dedica del Quarto Concerto); probabilmente fu presentato la prima volta il 28
novembre 1811 a Lipsia nella settima serata della stagione al Gewandhaus, pianista Friedrich
Schneider, direttore J. Ph. Christian Schulz; nello stesso 1811, e poi ancora negli anni
successivi, il Concerto fu eseguito al pianoforte da Carl Czerny, e poi da solisti oggi meno
noti, sempre suscitando una forte impressione per la grandiosità e l'originalità della sua forma
(ancora nel 1822 la "Zeitung für Theater und Musik" parlava di un "meraviglioso quadro
sonoro... originale, frappant, anche se spesso percorso da tratti bizzarri e barocchi che solo la
profonda, eccentrica personalità del geniale Beethoven poteva produrre"). Il titolo di
Imperatore che ormai accompagna stabilmente l'op. 73 non è invece originale e sembra sia
stato lanciato in circolazione dal pianista, editore e compositore Johann Baptist Cramer:
naturalmente è un epiteto appropriato, e può essere messo in relazione con la contemporanea
occupazione di Vienna da parte dei francesi di Napoleone imperatore, oppure, più
generalmente, per alcune analogie con la Sinfonia Eroica e la propensione alla costruzione
grandiosa e solenne.
Tuttavia va subito notato che la grandiosità dell'opera non ha più l'assolutezza e la scabra
definizione di gesti della Sinfonia concepita sette anni prima durante l'infatuazione per
Bonaparte; in qualche modo il Quinto Concerto si presenta come un riassunto del "Concerto
pianistico beethoveniano", un riassunto che ne contempla la vicenda da un punto di vista
superiore, dove i soggetti e i drammi, per quanto veementi, emergono come frammenti,
ricordi, e subito vengono relativizzati da commenti e diversioni di esperienze diverse. Si veda
il tema principale del primo movimento: quando è assunto dalla grande orchestra è di
imponente muscolatura, ma il pianoforte lo espone ogni volta addolcendone i contorni,
ripensandolo da una sfera più intima e appartata. Anche considerando la sola scrittura
pianistica: abbondano i passi articolati a mani uguali, ruvidi, meccanici (quanto saranno
piaciuti a Czerny!), ma eccoli subito rivoltati in passaggi di meravigliosa lievità, spesso
ricercando nel registro acuto la magica sonorità di un glockenspiel; a volte Beethoven fa
suonare al pianista molte note, ma non per aumentare il volume, bensì per screziarne il
"pianissimo" di inediti bagliori; altre volte l'orchestra si aderge in militaresche sequenze di
accordi, alla marcia, ma ecco il pianoforte che ne riprende il quadro armonico sciogliendolo in
un vago arpeggiare; ora il "tutti" orchestrale si mobilita in un "fortissimo", ma tosto il
pianoforte ne squarcia il velo con liriche frasi cantabili appena sostenute da un gracile
accompagnamento di terzine; e senza dubbio la risaputa dinamica del conflitto avrà ancora nel
primo movimento punte di acuminata evidenza (proprio al centro dello sviluppo: quasi una
colluttazione fra "solo" e "tutti"), ma solo per cedere il passo a poetici indugi in cadenze di
parnassiana dolcezza, con il pianoforte-glockenspiel sospeso sulla dorata sonorità dei corni; si
direbbe che nel Quinto Concerto Beethoven disegni grandi prospettive e sollevi grandi masse
sonore solo per intimizzarle e familiarizzarle. È poi probabile che l'aggettivo "barocco"
circolante nelle prime recensioni si riferisse alla vistosa novità formale della cadenza, tolta alla
sua casella tradizionale alla fine del primo movimento ("non si fa nessuna cadenza, ma
s'attacca subito il seguente", scrive in italiano Beethoven) e disseminata qua e là nel corso
della composizione, a cominciare dal trionfale esordio introduttivo.
Il secondo movimento (Adagio un poco mosso) riporta in gioco l'aureo modello della
"Romanza" mozartiana, messo da parte nel Concerto precedente a favore del vivo dramma
inscenato da orchestra e solista su fronti avversi; ma quella Romanza ha la compostezza di un
Corale, come un inno sommesso e affettuoso, in cui ancora una volta le cose sono considerate
dall'alto, e a questa esperienza pacificata contribuisce anche il colore allontanante degli archi
"con sordina"; della tradizionale Romanza è poi superata la rigida stroficità, basta sentire
l'entrata del pianoforte con quelle note acute dolcemente squillanti, matrice di tanta posteriore
letteratura "notturnistica", che discendono con il cauto procedere di una improvvisazione;
oppure fare attenzione alle catene di trilli (anticipando le ultime Sonate), o ancora alla
conclusione quando le quartine del pianoforte, regolari come un palpito, si riassorbono nel
tema cantabile intonato dall'orchestra. Nel Finale il ritmo ha ruolo primario e la sua cellula di
base, prima del via libera nell'Allegro, viene come esaminata e saggiata in due battute di
collegamento rallentato con il movimento precedente; la giocosità beethoveniana si sbriglia
poi nel vortice del Rondò, dove ogni episodio, pur aggiungendo qualcosa di caratteristico, si
salda in quello slancio unitario e positivo che è il messaggio di fondo di tutta l'arte
beethoveniana. Alcune riprese variate del tema del Rondò sono lavorate con sopraffina cura
timbrica, sconfinando in quelle regioni eteree, quasi glockenspiel, che tanto incantavano
l'orecchio di Beethoven negli ultimi momenti delle sue possibilità uditive: in uno di questi
trasvolanti episodi Liszt troverà il prototipo del suo Studio La leggerezza; celebre è poi
rimasta l'ultima pagina, con l'inedito abbinamento di timpano solo e pianoforte in un calando
armonico pieno di screziature, un diminuendo accorto e un poco malizioso, prima che il solista
si spazientisca e tagli corto con la pirotecnica conclusione.
Giorgio Pestelli
Fu composto durante il 1809, forse già abbozzato verso la fine dell'anno precedente, e offerto
all'editore Breìtkopf in data 4 febbraio 1810; dedicato all'arciduca Rodolfo, venne eseguito una
prima volta privatamente a Lipsia da Friedrich Schneìder, forse il 28 novembre 1811, e quindi
in pubblico a Vienna il 15 febbraio 1812 da Cali Czerny. Il titolo di Imperatore che lo
accompagna non è originale e sembra sia stato messo in circolazione dal pianista e editore J.B.
Cramer; è possibile che l'invasione francese di Vienna, contemporanea alla composizione del
concerto, abbia contribuito alla fortuna di quel titolo, anche se a quel tempo Beethoven non
nutriva ormai nessuna simpatia per le idee di rivoluzione.
La grandiosità del Quinto e ultimo concerto per pianoforte e orchestra, collegate alla tonalità
eroica e solenne di mi bemolle maggiore, si sposa in modo sorprendente con una amabilità che
prosegue il clima del Quarto Concerto: il riscatto poetico dell'ornamentazione (scale, arpeggi,
trilli), o la ricerca di una sonorità da glockenspiel nel registro acuto del pianoforte, sono
comuni alle due opere. Il tema principale del primo movimento (Allegro), quando è assunto
dall'orchestra risulta di imponente muscolatura, ma, affidato al pianoforte, risulta ogni volta
variato e addolcito nei contorni; nello sviluppo la dinamica del conflitto fra orchestra e solo ha
momenti evidentissimi, ma non superiori agli indugi poetici proposti dal pianoforte con
imprevedibile fantasia. Dal punto di vista formale va notata l'abolizione della cadenza, tolta
dalla sua casella alla fine del movimento («non si fa nessuna cadenza, ma s'attacca subito il
seguente» scrive Beethoven) e assunta lungo tutto il brano come elemento portante e
costruttivo: funzione già evidente nelle prime battute, con le cadenze virtuosistiche che il
pianoforte estrae dagli accordi dell'orchestra. Il tema dell'Adagio un poco mosso ha la
compostezza di un corale e al tono di raccoglimento contribuisce l'uso della sordina per gli
archi; il brano è collegato direttamente all'ultimo movimento mediante due battute di
transizione che ne anticipano l'idea fondamentale: è un Rondò (Allegro) dominato da un
inesausto slancio ritmico interrotto solo da arguti episodi in "rubato", da improvvise
modulazioni lonta che, come nel primo movimento, cementano lo spirito improvvisatorio della
cadenza nella logica del disoorso sonatistico.
Il Quinto Concerto di Beethoven è il più famoso e il più popolare di tutti i Concerti per
pianoforte e orchestra della nostra letteratura sinfonica, forse perché, come vedremo, anticipa
per qualche aspetto i modi del Concerto romantico e tuttavia ci propone in termini essenziali i
caratteri noti e comunemente preferiti dell'arte beethoveniana, cioè i caratteri del cosiddetto
secondo stile, lo stile, per intenderci, della Terza Sinfonia, della Quinta o della Sonata op. 57
"Appassionata". A queste pagine, che da sempre hanno accompagnato e nutrito le nostre
emozioni musicali, ognuno di noi si avvicina con una sua familiarità personale che rende
superflua qualunque nota illustrativa. Perciò, in questo caso, la nota si limita a qualche
informazione biografica e storico-stilistica.
Beethoven compose il Quinto Concerto nel 1809, a Vienna naturalmente, tra drammatici
avvenimenti esterni. Infatti, dal 10 maggio l'esercito di Napoleone aveva assediato e
cannoneggiato la città e poi l'aveva occupata fino alla fine di luglio. Inoltre il 31 maggio era
morto Haydn. Durante i bombardamenti Beethoven s'era rifugiato in casa altrui, chi dice da
suo fratello Carl, chi presso un amico, il poeta Ignaz Franz Castelli. Per mesi Beethoven non
compose nulla dopo aver concluso, il 4 maggio, il primo tempo della Sonata op. 81a (detta
"Gli Addii", per la partenza da Vienna dell'arciduca Rodolfo): lo dice egli stesso, in una lettera
allarmata agli editori Breitkopf e Härtel scritta il 26 luglio («Intorno a me è tutto un tumulto
caotico, nulla altro che tamburi, cannoni e umane sventure di ogni tipo»). Trascorse poi agosto
e settembre a Baden e a ottobre tornò a Vienna, nell'appartamento della Walfischgasse. Nel
disordine di quei mesi abbozzò e stese il Quinto Concerto (ma non sappiamo di preciso
quando), che tuttavia risente poco o nulla di condizioni tanto sfavorevoli. O meglio, al
carattere di fanfara e al passo marziale di alcuni temi del primo movimento non saranno
estranei i suoni guerreschi di quelle pericolose settimane.
Anzi, «in questo Concerto si è voluta vedere un'imitazione dei Concerti militari allora in voga»
(P. Bekker, Beethoven, Stuttgart-Berlin 1912, p. 168). Il sottotitolo "Imperatore" dato al
Concerto - sottotitolo molto diffuso in epoca romantica, stampato addirittura sulla partitura e
divenutone quasi un epiteto descrittivo - è un assurdo abuso fatto dal pianista Johann B.
Cramer dopo la morte di Beethoven, il quale mai si sarebbe sognato di chiamare così, con
enfasi tanto presuntuosa, un lavoro «dedié a Son Altesse Imperiale Roudolphe Arciduc
d'Autriche» (come è scritto sul frontespizio della prima edizione del 1812, presso Breitkopf e
Härtel).
Come si è detto, nel suo Quinto Concerto Beethoven prefigura qualche tratto del Concerto
solistico romantico, soprattutto per la minore individuazione del pianoforte rispetto al pieno
orchestrale (che si suol chiamare con termine tecnico "Tutti"). Con ciò si intende non che lo
stile pianistico sia meno avanzato che nei Concerti precedenti, anzi lo è più, spesso in senso
sperimentale, bensì che il solista non si contrappone all'orchestra, non figura come suo
antagonista in uno svolgimento di idee o in un dramma spirituale, ma collabora con essa, o
diaIoga e ne anticipa o ne raccoglie le invenzioni: come accadrà in molti dei Concerti solistici
dei decenni successivi. Insomma, la disposizione generale del Quinto Concerto è lontana dalle
passioni e dalle tensioni tipiche dei lavori maggiori di quegli anni e il tono innegabilmente
marziale del primo movimento non vuole avere lo spirito combattivo delle altre musiche
beethoveniane che noi chiamiamo "eroiche" (di esse ha tuttavia le proporzioni solennemente
dilatate).
Indicativo in questo senso è l'uso originale e sorprendente che Beethoven fa qui della cadenza
solistica. Nella tradizione formale del Concerto toccava al momento della cadenza di porre in
giusta luce il virtuosismo tecnico del solista, e spesso anche le sue autonome capacità creative,
quando egli stesso si scriveva da solo o improvvisava la pagina di bravura. Per tutto ciò la
cadenza solistica era collocata in punti chiave dello svolgimento sinfonico, per esempio verso
la fine dei singoli movimenti o nelle transizioni da un movimento all'altro, con effetto di
sollecitazione e di attesa sull'ascolto. Invece, qui Beethoven elimina le cadenze di transizione
(addirittura nel passaggio dalla ripresa alla coda indica esplicitamente: «Qui non si fa
Cadenza») e anche le cadenze tra i movimenti.
Egli apre, però, il Concerto con una lunga cadenza solistica, tutta scritta da lui e non lasciata
all'invenzione del pianista (come, del resto, aveva già fatto l'anno prima nella Fantasia in do
minore op. 80 per pianoforte, coro e orchestra), e la ripete quasi identica nel passaggio dallo
sviluppo alla ripresa. Con una tale dislocazione egli ottiene, mi pare, due risultati. Infatti,
esibendo immediatamente il solista come tale, fornendogli, cioè, in apertura l'occasione di
sfoggio, può affidare poi soltanto all'orchestra l'esposizione dei temi principali e togliere al
pianoforte la responsabilità, che era tradizionale, di presentare il secondo tema: così, nel
fragoroso pieno dell'orchestra che espone il primo tema, e nella larga melodia dei corni che
cantano il secondo tema, si consolidano il colorito e gli accenti marziali dell'invenzione. Si
noti, anzi, il bell'effetto di prospettiva sonora, come di un corteo militare che si avanza, prima
udito da lontano e poi osservato sfilare, appunto alla prima comparsa del secondo tema,
esposto piano dagli archi, e in mi bemolle minore, e poi, come ho appena detto, dai corni in
maggiore.
Dopo che abbiamo udito in orchestra tutti i temi del primo movimento, il solista rientra con
una scala cromatica ascendente, sosta su un lungo trillo sul mi bemolle acuto, quindi suona,
invariata, la cellula iniziale del primo tema in mi bemolle maggiore. Dunque, non c'è vera
contrapposizione di personaggi sonori, proprio come nei Concerti romantici, e sin dall'inizio il
pianoforte non è una voce che vuole opporsi al Tutti, è bensì un elemento di collaborazione,
anche se il principale, nella costruzione della grandiosa immagine sonora. E proprio
all'immagine sonora generale si riferisce il secondo risultato conseguito dalla cadenza iniziale.
Questo lunghissimo primo movimento (che supera in durata gli altri due messi insieme) per le
sue proporzioni attua, oltre ai passaggi consueti al tono relativo minore o al tono della
dominante, molte escursioni ardite in tonalità lontane: per esempio, nello sviluppo il
pianoforte riespone il secondo tema, quello in minore/maggiore, ma lo riespone in si
minore/do bemolle maggiore (= si maggiore, che sarà la tonalità del secondo movimento).
Eppure l'impressione che abbiamo avuto dalla cadenza iniziale, di un solido ancoraggio nella
tonalità di impianto, il mi bemolle maggiore, l'impressione di una virile costanza e saldezza, o
di una solenne e ampia affermazione e non di un dramma interiore, rimane in noi per tutto il
primo movimento.
Il secondo movimento è una breve e intensa meditazione su due temi musicali, quello in si
maggiore, malinconico e contenuto, esposto dagli archi in sordina e quello cantabile esposto
dal pianoforte, che modula anche alla tonalità di re maggiore, con una magnifica espansione
del sentimento.
La prima esecuzione del Quinto Concerto ebbe luogo al Gewandhaus di Lipsia nel dicembre
1810 con un successo entusiastico. «Il numeroso pubblico era in uno stato di tale eccitazione
da contentarsi a stento delle consuete manifestazioni di gratitudine e di gioia (Erkenntlichkeit
and Freude)», riferisce una cronaca sulla "Allgemeine musikalische Zeitung". Nulla di simile
accadde alla prima esecuzione a Vienna, con Karl Czerny al pianoforte, il 12 febbraio 1812.
«Un nuovo Concerto per pianoforte di Beethoven ha fatto fiasco (fiel durch)», scrisse il giorno
dopo in una sua lettera il poeta Theodor Körner.
Franco Serpa
Il Concerto in mi bemolle maggiore op. 73, quinto di quelli per pianoforte e orchestra scritti da
Beethoven, e ultimo suo Concerto in assoluto, venne composto nella primavera del 1809.
Beethoven condusse a termine la partitura mentre le armate di Napoleone marciavano su
Vienna. In maggio la capitale dell'Impero veniva cinta d'assedio e bombardata: Beethoven,
rimasto nella città abbandonata dalla corte e dall'aristocrazia, si riparò dalle cannonate francesi
nella cantina dell'abitazione del fratello Karl; occupata dal nemico Vienna, organizzò e diresse
personalmente un'esecuzione dell'Eroica in onore del suo antico idolo, senza naturalmente che
Napoleone sapesse niente della vicenda della dedica della Sinfonia rabbiosamente rinnegata da
Beethoven il giorno della sua incoronazione. Ristabilita la normalità, il 4 febbraio dell'anno
successivo Beethoven spediva il Concerto agli editori Breitkopf & Härtel di Lipsia, così
indicando il titolo della composizione: Grand Concerto pour le Pianoforte avec
Accompagnement de l'Orchestra compose et dédié à son Allesse Imperiale Roudolphe Archi-
Due d'Autriche. Il concerto fu pubblicato solo nel 1811, lasciando insoddisfattissimo
Beethoven, che coprì l'editore di epistolari contumelie: «Errori... errori... è tutto un errore!»,
elencando numerose inesattezze di incisione. Il 28 novembre 1811 al Gewandhaus di Lipsia il
Concerto veniva tenuto a battesimo dal pianista Friedrich Schneider, sotto la direzione di
Johann Philipp Christian Schulz; il 1° gennaio 1812 la «Allgemeine Musikalische Zeitung»
dava conto dell'avvenimento in termini entusiastici: «Fece seguito il nuovissimo Concerto per
pianoforte di Beethoven, in mi bemolle maggiore. Senza dubbio esso è fra tutti i Concerti
esistenti quello più originale, più ricco di fantasia e pieno d'effetti, ma anche il più difficile. Il
Signor Schneider lo ha suonato con tale maestria che non potremmo immaginare alcunché di
più perfetto [...]. Poiché anche l'orchestra, con evidente deferenza e affetto per il compositore,
ha accompagnato il lavoro e il solista con attenzione e impegno, non c'è da stupirsi che i
numerosissimi ascoltatori siano stati trascinati a un entusiasmo di gran lunga maggiore alle
consuete espressioni di approvazione o di gioia». Più importante fu la presentazione del
Concerto al pubblico viennese, avvenuta il 15 febbraio 1812 al Teatro di Porta Carinzia: il
solista (il Quinto concerto è l'unico che Beethoven non abbia mai eseguito personalmente) era
il giovane ma già celeberrimo Karl Czerny, uno dei fedelissimi di Beethoven. Il titolo - o
meglio il soprannome - di Imperatore venne appiccicato al Concerto solo più tardi, e da altri
(pare che se lo sia inventato il pianista ed editore Johann Baptist Cramer): comunque, a meno
che non voglia alludere alla imponente fisionomia espressiva del Concerto, davvero maestoso,
esso non ha molto senso.
Dei sette Concerti di Beethoven (cinque per pianoforte, uno per violino e uno, il cosiddetto
Concerto triplo, per violino, violoncello e pianoforte), nessuno probabilmente supera in
popolarità l'Imperatore. Non necessariamente la valutazione critica lo pone al vertice della
produzione beethoveniana per strumento solista e orchestra: ognuno riconosce la straordinaria
originalità formale e l'irripetibile intensità espressiva del Quarto, certamente quello fra i
Concerti di Beethoven più proteso verso il futuro e dotato di intima consapevolezza; né è
facile dimenticare la eccezionale bellezza e suggestione del Concerto per violino in re
maggiore, al Quarto pressoché coevo, e intriso di un lirismo disteso e generoso non meno di
quanto l'Imperatore lo sia di augusta eloquenza. Giustamente Giovanni Carli Ballolà addita
nell'Imperatore, dopo i traguardi raggiunti sotto il profilo della novità formale e della
profondità poetica con il Quarto concerto, quasi un passo indietro verso gli stilemi del
Concerto d'impronta virtuosistico-marziale già tante volte omaggiati, per esempio, da Mozart e
comunque diffusi come veri e propri stereotipi un po' in tutta la classicità viennese; e che
Beethoven nei tre primi Concerti per pianoforte si era in fondo limitato a espandere e a
provvedere di nuova vita. Ma se sotto il profilo «evoluzionistico», e magari anche nel computo
dei valori estetici più puri, l'Imperatore resta un tantino sotto al fratello che lo precede - « più
grande sì, ma non di lui più bello», verrebbe fatto di dire -, e se in esso solo in misura ridotta
possiamo ritrovare i sintomi di quella problematicità costruttiva ed etica che dell'arte
beethoveniana siamo avvezzi a considerare come il connotato più autentico, è indubbio che
con il Quinto ci troviamo dinanzi a una pagina stupenda, in cui grandiosità e magniloquenza
non appaiono certo esteriori o gratuite, e che consegue una perfezione di scrittura e
un'apollinea sicurezza di linee che hanno ben pochi termini di riferimento, e non solo nella
letteratura per pianoforte e orchestra. Pur concedendo moltissimo spazio al virtuosismo nella
scrittura della parte del pianoforte, l'Imperatore non rischia mai di scadere in quella
dimensione di genere compositivo «minore» che l'età classica - e non solo essa - comunemente
attribuiva al Concerto con strumento solista, suscettibile di contaminazioni esibizionistiche,
rispetto alla nobilissima serietà della Sinfonia, dove si faceva musica e basta, nel senso più
elevato e scevro di compromessi. L'opulento sfoggio di tutte le risorse del pianismo del tempo,
dalle cascate di scale e di arpeggi al vertiginoso fiorire di trilli (un espediente di illimitate
possibilità anche timbriche, onde Beethoven aveva già fatto superbamente uso in purissima
funzione poetica nella Sonata op. 53, la Waldstein), non determina mai nel rapporto fra il
pianoforte e l'orchestra lo squilibrio caratteristico delle composizioni dove ci si preoccupi
anzitutto di far fare bella figura al solista relegando quindi la massa strumentale al ruolo del
dimesso accompagnatore, e tutt'al più concedendole spazio quando ci sia bisogno di far
prender fiato al protagonista; anzi la dimensione sinfonica dell'Imperatore è robusta e
sanguigna al punto che l'impervio impegno virtuosistico del pianoforte finisce comunque per
esserne assimilato, dando vita a una partitura di solida organicità.
Le stesse proporzioni dell'opera, per l'epoca inedite e comunque sterminate (forse solo il
Secondo concerto di Brahms, tanto più tardo, riesce a superarla in grandiosità e in durata),
garantiscono trattarsi di una pagina composta con ben altro impegno che non un Concerto
d'impianto meramente virtuoslstico. Se la categoria dell'eroismo - non per caso l'Imperatore è
impiantato in mi bemolle, la stessa tonalità della Terza sinfonia - qui rinuncia ai toni agonistici
e drammatici che troviamo in tante pagine di precedenti stagioni beethoveniane per tradursi in
un generale ottimismo, ciò non avviene per una concessione alla superficialità, bensì in
coerente sintonia con un orientamento espressivo presente in gran parte delle opere
beethoveniane ascrivibili al «periodo di mezzo» ma già tendenti verso il trapasso al «terzo
stile» (pur diversissimo, è chiaro, da ciò che il Quinto concerto rappresenta): più vicino,
cronologicamente, alla Quinta e alla Sesta sinfonia (terminate rispettivamente nella primavera
e nell'estate del 1808), in realtà il Quinto concerto annuncia prossima la stupenda perfezione
classica della Settima (1811-12), di cui costituisce indubbiamente il miglior precedente
nell'ambito del sinfonismo beethoveniano. L'Imperatore nasce in un momento di relativa
«felicità» creativa ed esistenziale, forse l'ultimo in tutta l'esistenza di Beethoven. Il 1809 è
l'anno che vede l'arciduca Rodolfo (dedicatario di questa come di tante altre opere di
Beethoven) associarsi con i principi Kinsky e Lobkowitz nell'impegno di corrispondere a
Beethoven un appannaggio che gli consenta di dedicarsi alla composizione in assoluta libertà
da ogni esigenza pratica, atto che non si tradusse in realtà anche per l'insorgere di circostanze
esterne, sicché quell'assedio di Vienna che tanto afflisse il musicista, facendolo parlare di «una
vita selvaggia e fastidiosa intorno a me, dove non c'è altro che tamburi, cannoni, uomini e ogni
sorta di miserie», sembra veramente segnare nella vita di Beethoven una svolta, dopo la quale
non ci sarà altro che la musica a compensare una pressoché totale mancanza di soddisfazioni
esteriori; non per nulla con l'anno immediatamente successivo, il 1810, si aprirà per Beethoven
un periodo di relativa aridità, anche dal punto di vista della creazione. Ma al tempo della
composizione del Quinto concerto Beethoven vedeva sancita quasi ufficialmente la sua
posizione di musicista unanimemente riconosciuto grande, aveva al suo attivo una mole già
imponente di straordinari capolavori, sufficienti a configurare una solare e superba maturità:
più che logico che il tragico e sofferto titanismo della gioventù ora si sublimasse in opere
improntate al sentimento nobilissimo della gioia. In futuro questo carattere sarebbe stato
trasfigurato in creazioni musicali di estrema trascendenza, certo superiori allo stesso
Imperatore; adesso poteva trovare sistemazione meravigliosamente completa e serena in
un'architettura sonora olimpicamente vasta, ricchissimamente decorata e decorativa, magari
servendosi anche della lussureggiante fioritura di locuzioni proprie a quello che era ormai il re
degli strumenti, il pianoforte, in armoniosa fusione con le sperimentatissime risorse del colore
orchestrale (mai prima dell'Imperatore si era avuta una così fascinosa integrazione fra le
possibilità timbriche del pianoforte e quelle di un'orchestra divenuta, dopo la Pastorale,
occasione di illimitate evocazioni poetiche).
Ecco dunque l'ultimo Concerto di Beethoven distendersi in strutture non problematiche ma di
gigantesco respiro, dove alla concentrazione estremizzata si sostituisce ancora una volta (il
precedente più vistoso è la Pastorale) la solenne dilatazione, dove il materiale tematico è
«bello» piuttosto che incisivo, gli sviluppi di esso ampi piuttosto che serrati, melodia e ritmo
compiacendosi di se stessi anziché porsi al servizio di un disegno globale stringato ed
economizzato al massimo. Ne è chiaro segno il colossale Allegro iniziale, che rispetta a grandi
linee gli schemi della forma-sonata distendendoli però in un'ariosa eloquenza che ha ben poco
della tacitiana, lapidaria immediatezza di un tempo: un'introduzione indimenticabile, con una
semplicissima successione di accordi cadenzati del «tutti» orchestrale allargata a contenere le
preludianti espansioni virtuosistiche del pianoforte, che ricadono sull'avvio del primo tema, un
motivo marziale ma cantabilissimo, in relazione di complementarità più che non di
opposizione con il secondo («marcia guerresca idealizzata», dice benissimo Carli Ballola); uno
sviluppo smisurato, dove pianoforte e orchestra danno vita a un continuo scaturire di episodi
gloriosamente trionfanti di un «sentire» quanto mai fortissimo; una ripresa che anziché
lasciare spazio alla tradizionale cadenza si prolunga in una Coda ampia ed elaborata. Poi
l'immenso colpo d'ala lirico dell'Adagio, aperto dall'orchestra gonfia di rattenuta commozione
nella tonalità lontanissima di si maggiore, elevato in una trasfigurata melodia del pianoforte,
proteso in una ricchissima purezza di canto che non troverà superamento se non nelle più
imprevedibili e trascendenti cantilene degli ultimi Quartetti; a poco a poco rarefatta nella lenta
ma irresistibile preparazione del Finale, che con semplicissimo e fantasticamente ardito
trapasso armonico e ritmico prende le mosse nel pianoforte, scatenandosi presto
nell'irrefrenabile tripudio del più bel tema di Rondò forse mai concepito da Beethoven. Ancora
una volta si ha una possente dilatazione della forma, che rinnova il trito schema proprio delle
conclusioni «brillanti». Come la forma-sonata è ideale conclusione di una Sinfonia di
intenzioni particolarmente alte, così il il Rondò si addice al Concerto solistico per la più
elementare concezione formale; ma qui l'alternarsi del tema e degli episodi avviene con una
ricchezza di invenzione e una solidità d'impianto forse ignote altrove: allo slancio virtuosistico
del pianoforte risponde un'orchestra possente e leggera, in un'unità e in una fecondità di idee
che segnano tutto l'inarrestabile fluire del brano fino ai vigorosi, vittoriosi gesti conclusivi.
Daniele Spini
https://youtu.be/5_lZrqeKqh4
https://www.youtube.com/watch?v=hhiKL6Xe47U
https://www.youtube.com/watch?v=fZZY4qcYC5E
Allegro
Largo (la bemolle maggiore)
Rondò alla Polacca
Organico: pianoforte, violino, violoncello, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2
trombe, timpani, archi
Composizione: 1803 - 1804
Prima esecuzione: Vienna, Großer Redoutensaal del Burgtheater, 4 Maggio 1808
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1807
Dedica: Principe Lobkowitz
Il Grande Concerto in do maggiore per pianoforte, violino e violoncello, più noto come Triplo
Concerto, viene scritto nel 1803-1804, ma viene pubblicato tre anni dopo, nel 1807, come op.
56.
Il 1803 rappresenta un anno proficuo per Beethoven: dopo l'intenso lavoro all'opera Leonora,
si dedica alla revisione della Sinfonia Eroica, completa il Triplo Concerto e compone le Sonate
per pianoforte op. 53 e op. 54, oltre ad abbozzare larghe parti dell'op. 57, l'Appassionata.
Alcuni commentatori avanzano l'ipotesi che originariamente l'opera sia stata concepita per il
solo violoncello, vista la preponderanza virtuosistica che questo strumento ha nei confronti
degli altri due solisti. Va comunque osservato che la prima esecuzione assoluta dell'opera,
avvenuta a Vienna nell'estate del 1808, vide al violoncello il famoso virtuoso Anton Kraft, al
violino il modesto Carl August Seidler e al pianoforte l'arciduca Rodolfo, poco più che un
dilettante. Il violoncellista era l'unico quindi che potesse reggere il peso di una scrittura
tecnicamente impegnativa. Anche se presenta qualche timida analogia col contemporaneo
Quarto Concerto per pianoforte e orchestra, il Triplo Concerto è una partitura povera di
elaborazione tematica, incline all'effettismo e all'enfasi; una pagina d'occasione, nella quale il
genio beethoveniano strizza l'occhio al genere brillante e salottiero.
L'esposizione orchestrale del primo movimento, Allegro, si apre con un tema annunciato in
pianissimo da violoncelli e bassi e poi ripreso da tutta l'orchestra in un graduale crescendo.
Una serie di impetuose scale ascendenti (bassi e violoncelli) conducono alla tonalità della
dominante, nella quale prima gli archi e subito dopo i legni presentano il secondo tema. Una
breve coda, basata sulla testa del secondo tema, conclude l'esposizione dell'orchestra. È ora la
volta dei solisti, che in regolare successione espongono il primo tema: prima il violoncello nel
suo registro acuto, seguito dal violino e dal pianoforte in ottava. Un nuovo tema, solenne e un
poco retorico, esposto da tutta l'orchestra in fortissimo, precede un'ulteriore ripresa del primo
tema, affidato al violoncello e subito elaborato e variato dai tre solisti in un episodio sereno e
spensierato. Il secondo tema, esposto in la maggiore, viene ancora una volta affidato al
violoncello e viene seguito da un nuovo episodio di sviluppo motivico condotto
principalmente dai tre solisti. Ancora il terzo tema, ora in fa maggiore, a tutta orchestra in
fortissimo, precede l'ultima apparizione del primo tema, ancora nella successione violoncello-
violino-pianoforte.
Il secondo movimento, Largo, è una pagina delicata, molto lirica, nella quale le straordinarie
capacità cantabili del violoncello emergono in tutta la loro potenza. Poche battute orchestrali
(Tutti), poi la parola passa al violoncello solista, che espone il tema principale utilizzando il
suo registro acuto; una breve transizione condotta dai corni e dal pianoforte conduce alla
ripresa del tema principale. La melodia è ora affidata a violoncello e violino solisti, mentre
pianoforte e corno sostengono armonicamente. Il sereno discorso musicale precedente si
spezza poi bruscamente: tonalità minore, sospensione armonica, lunghi pedali preparano
l'arrivo dell'ultimo movimento, Rondò alla Polacca, pagina leggera e spensierata, una delle
poche concessioni beethoveniane alla moda dell'epoca. La sua struttura è quella tipica del
rondò, con un refrain (tema principale) che si alterna a diversi couplet (episodi).
Il tema principale, esposto dal violoncello e subito ripreso dal violino, è un motivo semplice e
accattivante, che subito circola in orchestra con facilità e scorrevolezza, spesso variato e
abbellito. Il primo couplet, basato su scorrevoli scalette ascendenti, è affidato ai tre solisti e si
presenta come ideale continuazione del tema principale; il secondo couplet, invece, ha il tipico
piglio ritmico della Polacca e ha in comune col terzo couplet la tonalità minore. Un veloce e
frenetico Allegro, sorta di «moto perpetuo» condotto dai tre solisti sulle delicate punteggiature
degli archi, precede il finale, nel quale riappare per l'ultima volta il tema principale.
Alessandro De Bei
Anche se questo pezzo non compare sovente nei programmi dei concerti, esso merita di essere
conosciuto come il primo concerto concepito per questo complesso nell'ambito del
classicismo. Pubblicato nel 1807 col titolo Grande concerto concertante, richiede tre solisti di
livello eccezionale e si rifà in parte allo spirito della sinfonia concertante; inconfondibilmente
beethoveniano è tuttavia il secondo tempo in la bemolle maggiore ("Largo"), mentre il "Rondò
alla polacca" finale è non solo un pezzo di bravura ma anche una pagina ricca di idee squisite e
di sonorità suadenti. Il trattamento dei solisti sa essere ora brillante ora contenuto, in ordine a
una energia espressiva che non merita davvero una considerazione inferiore a quella di altre
opere del grande compositore tedesco.
Noto comunemente come Triplo Concerto, fu composto durante le estati 1803 e 1804, molto
probabilmente per l'arciduca Rodolfo d'Austria (allievo di Beethoven per il pianoforte), nella
cui residenza dovettero avvenire le prime esecuzioni in forma privata; in concerto pubblico
l'op. 56 venne presentata all'Augarten di Vienna solo nel 1808. Composizione unica nella
produzione concertistica di Beethoven, il Triplo Concerto è un po' tenuto in ombra dalla critica
come lavoro esteriore e alla moda; in realtà Beethoven, che lo chiamava "Sinfonia
concertante", volle rifarsi al sonatismo e concertismo parigino, più brillante ed estroverso di
quello viennese creato da Haydn e Mozart. È nell'Allegro che questo aspetto si fa più evidente,
per la profusione delle idee introdotte dai solisti (la parte del pianoforte, forse perché pensata
per l'arciduca, è meno impegnativa sul piano tecnico); dopo il Largo, poche misure di
straordinaria concentrazione, il Rondò alla polacca riporta il discorso sul terreno della più
brillante socievolezza.
Sotto due differenti aspetti il Triplo Concerto di Ludwig van Beethoven è una partitura volta al
passato: nell'essere una composizione d'occasione e nell'essere concepita per più solisti.
Riguardo al primo punto le stesse circostanze della nascita sono illuminanti. Beethoven attese
alla stesura del brano nel biennio 1803-1804, vale a dire nel periodo di gestazione dell' Eroica
e del Fidelio. Sebbene venisse dedicato - nella prima edizione a stampa, del !807 - al principe
Lobkowitz, mecenate del compositore, il concerto fu composto, secondo Schindler, per
l'arciduca Rodolfo d'Austria, a cui Beethoven aveva da breve tempo iniziato ad impartire
lezioni. La prima esecuzione pubblica avvenne soltanto nell'estate del 1808, all'Augarten, ma
già nel 1805 si era tenuta una esecuzione privata, con lo stesso arciduca al pianoforte e due
validi strumentisti appartenenti alla sua corte (il violinista Cari August Seidler e il
violoncellista Anton Kraft). Secondo Thayer-Riemann Beethoven riservò al suo nobile allievo
l'esclusiva dell'esecuzione per il periodo di un anno.
Il Triplo, insomma, è una tipica composizione di circostanza, scritta "su misura" per le
necessità della committenza; caratteristica che si riflette, secondo la prassi dell'epoca, in un
contenuto concettualmente disimpegnato e nelle modeste ambizioni della scrittura solistica. E
infatti la parte pianistica, piuttosto semplice ma brillante, tende a non mettere in ombra le più
limitate capacità dell'esecutore rispetto agli altri due solisti, impegnati - specie il violoncello -
in un registro piuttosto acuto. Proprio il carattere intrattenitivo del brano, ascrivibile a
un'estetica ancora settecentesca, ha lasciato delusi i cultori del Beethoven titanico e introverso,
restii ad apprezzare, del compositore, anche l'aspetto più squisitamente artigianale. D'altra
parte il Triplo, come si è detto, è opera passatista anche sotto un altro profilo: la destinazione
polistrumentale, legata alla antica prassi del Concerto grosso e poi della Sinfonia concertante,
e già in marcato declino all'inizio del nuovo secolo, per la prepotente affermazione del
Concerto con solista unico, improntato a una forte contrapposizione individuale fra solista e
orchestra.
Il contenuto musicale del Concerto op. 56, invece, è ispirato a principi diametralmente opposti.
Fin dall'Allegro iniziale manca infatti una pronunciata intenzione dialettica, sia sotto il profilo
tematico (i due temi principali non sono contrastanti, ma piuttosto affini sotto il profilo ritmico
e melodico) che sotto quello strumentale (i solisti si scambiano il materiale melodico con
raffinati e compiaciuti intrecci; mentre modesto, qui come altrove, è il contributo orchestrale);
la comparsa di numerosi temi secondari contribuisce a stemperare la dialettica della forma
sonata. Il Largo, secondo la tendenza tipica dell'autore in quegli anni, è di estrema brevità,
appena una parentesi contemplativa - con gli strumenti ad arco sostenuti dagli arpeggi del
pianoforte - fra i massicci blocchi dei tempi estremi. Senza soluzione di continuità succede il
Finale, che, nella tradizione della musica d'occasione, mostra una nota di "colore" folklorico;
si tratta infatti di un Rondò alla polacca, con un refrain incisivo e elegante che si alterna con
episodi diversificati, e che subito prima della Coda trasforma il proprio metro,
umoristicamente, da 3/4 a 2/4.
Arrigo Quattrocchi
Op. 61 1806
Concerto per violino in re maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=BbVy2886Kok
https://www.youtube.com/watch?v=W8hQSMxa7gk
https://www.youtube.com/watch?v=ZQVs4MhX3xo
https://www.youtube.com/watch?v=0Cg_0jepxow
https://www.youtube.com/watch?v=cokCgWPRZPg
Organico: violino solista, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1806
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 23 Dicembre 1806
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1808
Dedica: Stephan von Breuning
Beethoven compose il suo unico Concerto per violino e orchestra in poche settimane
nell'autunno del 1806: esso è, dunque, contemporaneo dei tre Quartetti op. 59 (i
«Razumowsky») e della Quarta Sinfonia, op. 60. Fu un anno di serena produttività (uno dei
pochi nella vita di Beethoven), che qualcuno attribuisce a una temporanea felicità della vita
privata. Con spiegazioni biografiche e psicologiche l'esegesi dell'arte non va lontano, certo è
che la buona disposizione alla vita e agli uomini di cui in quei mesi Beethoven seppe godere,
si avvertono nella musica. E sorprendenti sono anche la prudenza e la pazienza con cui il
difficile genio trattò il primo interprete del Concerto, Franz Clement, uno stravagante virtuoso
allora molto acclamato. Forse per ingraziarselo, ma anche con ironia, Beethoven gli consegnò
il manoscritto con una strana dedica in un bizzarro miscuglio linguistico: «concerto par
clemenza pour Clement primo violino e direttore del teatro di Vienna». Accertatosi che
nell'esibizione del 23 dicembre 1806 al Theater an der Wien Clement avrebbe eseguito la sua
musica, Beethoven, come ho già detto, la stese in fretta, con buona lena e con ricca felicità di
idee, non risparmiandosi neppure sul lavoro di stesura. Il primo tempo, infatti, è insolitamente
esteso e, nell'insieme, questo Concerto è uno dei suoi lavori solistici più lunghi. In occasione
della prima esecuzione Beethoven dovette tollerare uno dei tanti arbitri di Clement, il quale
decise di suonare i primi due tempi nella prima parte, continuare la serata con un'esibizione
virtuosistica e presentare infine il terzo tempo del Concerto di Beethoven. Fatta così a brani, si
capisce che questa musica non piacque. Tuttavia anche in seguito essa circolò con stento e tra
mille diffidenze, finché Vieuxtemps nel 1833 e poi Joachim, in piena età romantica, la
portarono al successo che dura tuttora.
Il Concerto per violino, infatti, è una delle opere più amate di Beethoven e più ammirate dai
pubblici di tutto il mondo. Alla generale preferenza contribuisce non poco il fascino che
esercita il lirismo del violino, le espansioni cantabili, le suggestioni dei passi virtuosistici, che
con nessuno strumento tanto impressionano quanto con il violino (non per nulla il violino è lo
strumento preferito dal demonio).
È certo che il disegno ritmico che sentiamo dai timpani subito all'inizio del primo movimento,
e che costituisce l'elemento unificante di tutto l'Allegro, sia stato la cellula generativa della
creazione in Beethoven. Tra i tanti tratti originali di questo Concerto c'è il fatto che la prima
battuta (una sola battuta) con i quattro colpi di timpano serve da introduzione a tutto il primo
movimento e serve insieme da segnale tematico. Questo segnale è tra i primi appunti sparsi del
lavoro, fissato come idea a sé, indipendentemente da funzioni armoniche e costruttive, che in
seguito saranno ben decise ed evidenti. Tutto il materiale tematico è presentato dall'orchestra
nella consueta dinamica dei contrasti di carattere (patetico, drammatico, combattivo) e poi è
ripreso ed elaborato dal violino. Particolarmente efficace è il languore con cui, nello sviluppo,
il violino trasforma il terzo tema, il più noto e il più cantabile.
Il Larghetto, sol maggiore, è in forma di Romanza su un tema unico, concepito con grazia
meditativa e con una strumentazione trasparente, sulla quale il solista disegna le sue
decorazioni.
Il Rondò è l'invenzione più vitale e robusta di tutto il Concerto. Pare che il tema principale del
Rondò, cioè il ritornello, sia stato suggerito a Beethoven da Clement. Anche se è così, il
musicista l'ha fatto suo con un estro e un umorismo che raramente si incontrano nelle altre sue
opere strumentali. Notevole soprattutto la dislocazione ritmica del disegno, che Beethoven
sfrutta fino alle ultime conseguenze, provocando alla fine, nel fortissimo antecedente le ultime
battute, una specie di vertigine.
Franco Serpa
Secondo la testimonianza di Carl Czerny (Pianoforte-Schule op. 500), allievo ed amico del
maestro, Beethoven avrebbe redatto la partitura in un lasso di tempo assai breve - come
sembra confermare lo stato piuttosto disordinato ed incompleto dell'autografo - e la avrebbe
terminata con appena due giorni di anticipo sulla prima esecuzione. Questa ebbe luogo a
Vienna, al Theater an der Wien, il 23 dicembre 1806. Franz Clement riscosse un successo
personale, al quale non fu certo estraneo un "numero" straordinario, consistente
nell'esecuzione, fra i primi due tempi del Concerto, di una sua Sonata per violino, suonato su
una sola corda e imbracciato, oltretutto, capovolto.
Il Concerto opera 61, invece, è opera aliena per sua natura da eccentriche estroversioni. La
scrittura solistica, innanzitutto, mostra un deciso orientamento verso un fraseggio levigato ed
elegante che, pur richiedendo un alto cimento tecnico, poco concede al virtuosismo puro;
tende insomma più a coinvolgere espressivamente l'ascoltatore che non a stupirlo. Anche il
"problema" fondamentale posto dal genere del concerto, ossia il rapporto che intercorre fra il
solista e la compagine orchestrale, viene risolto da Beethoven in modo piuttosto dissimile
rispetto ai Concerti per pianoforte; non si tratta infatti di un rapporto conflittuale, che vede il
solista porsi come netto antagonista verso l'orchestra. Il violino invece, pur mantenendo un
forte profilo individuale, stabilisce con l'orchestra un'intima complicità, che deriva dalle
pastose scelte timbriche dello strumentale, dall'assenza di marcate contrapposizioni dinamiche,
dal rilievo concertante degli strumenti a fiato (avvertibile soprattutto quando gli archi siano,
come all'epoca, in formazione ridotta).
L'organizzazione formale del Concerto segue le linee principali degli interessi dell'autore nei
primi anni del secolo, dividendosi (come le Sonate opera 53 e 57, il Quarto e il Quinto
Concerto per pianoforte) in due grandi blocchi, il primo stabilito da un movimento in forma
sonata, il secondo da un breve movimento contemplativo che ha una funzione introduttiva
rispetto al Finale (in genere un Rondò). Tuttavia il contenuto musicale della partitura si
allontana da quei caratteri che hanno fatto versare fiumi di inchiostro sul Beethoven «eroico» e
«titanico». Mancano all'opera 61 gli elementi essenziali di questa immagine: la pronunciata
dialettica tematica e l'elaborazione degli sviluppi.
L'Allegro ma non troppo che apre il Concerto si basa infatti su due idee tematiche principali
fra loro affini: la prima dal profilo discendente, la seconda ascendente, ma entrambe per gradi
congiunti, con valori regolari, introdotte e supportate da un ritmo insistito di quattro "colpi" (il
timpano solo per la prima idea, i violini soli per la seconda); ed entrambe presentate,
nell'introduzione orchestrale, dal gruppo dei legni. Appunto nell'introduzione compaiono tutti
o quasi gli elementi tematici che daranno vita al movimento; estremamente breve, rispetto alle
vaste dimensioni di questo, è la sezione dello sviluppo, e l'intero tempo si basa sulla elegante
ripetizione variata del materiale di base da parte del solista e dell'orchestra. La cadenza in
genere eseguita, per tradizione, è di Fritz Kreisler (come anche quella del tempo conclusivo).
Il secondo movimento consiste in un tema con variazioni, che non dà origine però a fantasiose
trasformazioni espressive, e si svolge interamente in una ambientazione coerente; il
movimento ha però una struttura eccentrica, ispirata al principio della "doppia variazione"
proprio di certi Adagi di Haydn. Esposto dagli archi, il tema viene variato tre volte e con
preziosi ornamenti dal solista, che presenta poi un secondo tema, anch'esso variato dopo una
quarta variazione del primo tema. Dopo un'ultima apparizione di questo, energici accordi degli
archi e una incisiva cadenza del violino conducono direttamente al Finale. Si tratta di un
Rondò che costituisce la pagina più apertamente brillante della partitura; la struttura è quella
consueta A-B-A-C-A-B'-A, che alterna un refrain ad episodi differenti. A moderare il carattere
brillante del movimento c'è un elemento stilistico peculiare: quello "pastorale", evidenziato dal
tempo di 6/8, dalla particolare, amabile tornitura melodica del refrain, dall'ingresso dei corni
sul secondo tema, dal rilievo dei legni. Ed anche la linea del solista, fra i trilli, le scale, gli
arpeggi, le doppie corde che impegnano il virtuoso, non tradisce la sua vocazione verso una
espressività lirica e sublimata, lontana tanto dal freddo ed elegante decorativismo del concerto
rococò quanto dai facili effetti del gusto Biedermeier.
Arrigo Quattrocchi
Il Concerto in re op. 61 fu eseguito per la prima volta, poco tempo dopo che Beethoven ne
aveva ultimato la composizione, il 23 dicembre 1806: solista era il celebre virtuoso Franz
Clement, ammiratissimo da Beethoven, che gli aveva dedicato il Concerto con un curioso
giuoco di parole («Concerto per Clemenza pour Clement»). Pare che il Clement, che pure era
musicista di riconosciuta intelligenza, non si fosse scaldato troppo per il grande capolavoro
che gli era stato affidato; tanto che non solo non vi si impegnò a fondo, ma - se dobbiamo
credere a una notizia giunta fino a noi - lo trattò come una qualunque occasione per esibirsi,
giungendo fino a interromperne l'esecuzione per suonare, fra il primo e il secondo tempo, un
pezzo di bravura che non vi aveva nulla a che fare. Arbitri del genere erano all'epoca meno
improbabili di quanto oggi non si sia portati a pensare, sicché questo episodio è da ritenere
autentico; pare invece falso che Beethoven abbia consegnato a Clement una parte del Concerto
all'ultimo momento, costringendolo a suonarla a prima vista. Sta di fatto che le accoglienze
non furono molto cordiali, e il Concerto fu presto dimenticato; e inutilmente Beethoven ne
realizzò l'anno seguente, dietro richiesta di Muzio Clementi, una trascrizione per pianoforte,
pubblicandola nel 1808 contemporaneamente alla partitura originale per violino. A
disseppellire il Concerto op. 61 sarebbe stato, tanto per cambiare, Felix Mendelssohn-
Bartholdy, che lo diresse a Londra nel 1844; solista era il giovanissimo Joseph Joachim, che
dieci anni dopo ne avrebbe dato un'altra memorabile interpretazione a Düsseldorf, insieme con
un altro direttore d'eccezione, Robert Schumann. Dopodiché il Concerto di Beethoven prese
stabile dimora fra i capolavori più celebri e amati dagli interpreti e dal pubblico.
La composizione del Concerto era caduta in un periodo di particolare fecondità creativa per
Beethoven, quello compreso fra il 1804 e il 1808. Giunto nel pieno di una straordinaria
maturità il sinfonismo beethoveniano - nel 1806 era nata, di getto, la Quarta, preceduta dalla
stesura quasi completa dei primi due movimenti della Quinta -, condotta a esiti di estrema
importanza la Sonata (specialmente quella per pianoforte, con pagine come la Waldstein o
l'Appassionata), anche un genere in qualche misura condizionato a passare per minore come il
Concerto, dove le esigenze della costruzione dovevano venire a compromessi con l'impulso
esibizionistico di uno strumento solista, aveva trovato nell'opera di Beethoven uno sviluppo
glorioso, con due lavori coevi come il Quarto concerto per pianoforte e questo in re maggiore
per violino. Con risultati certamente diversi: il pianoforte per Beethoven fu sempre un terreno
particolarmente propizio all'innovazione, anche molto ardita, e gli consentì di spingersi più
avanti che in quasi tutti gli altri campi da lui toccati, nel senso dell'elaborazione formale come
in quello dell'intensità e della concentrazione espressiva; mentre il violino, considerando nel
loro insieme tutte le pagine espressamente dedicate a esso, lo vide pendere sovente verso un
lirismo più disteso, non privo di compiacimenti esornativi, caratterizzato da una naturale
eleganza di modi. Il che aveva comportato, per esempio, che i primi approcci di Beethoven
alla composizione per violino e orchestra (non tenendo conto del frammento di un primo
tempo di Concerto degli anni di Bonn), le due deboli Romanze del 1802, avessero pagato un
salatissimo tributo a esigenze esteriori e consumistiche. Ragion per cui nel quadro della
produzione concertistica beethoveniana il Concerto per violino resta contrassegnato da una
piacevolezza e da una levigata espressività, di contro all'individualismo e alle ben maggiore
problematicità dei maggiori fra i suoi fratelli pianistici, specialmente il coetaneo Quarto. Ma
naturalmente questi caratteri si trovano a convivere con una massiccia presenza di istanze
formali ed etiche, nel senso più beethoveniano: non per nulla la maniera del «periodo di
mezzo» si era ormai precisata e irreversibilmente affermata nella pagine che precedono
immediatamente il Concerto; e restando nel campo stesso del violino, pur relativamente
defilato, come s'è detto, rispetto alle sconvolgenti avventure della forma e dell'espressione che
Beethoven affrontava altrove, c'erano state opere come le Tre Sonate dell'op. 30, le prime
grandi Sonate beethoveniane per violino e pianoforte, e la grandiosa Kreutzer, dove ogni
ricordo di settecentesche piacevolezze era stato cancellato da robuste impennate di fantasia e
da un'intima drammatizzazione del fatto compositivo.
Questo orientamento prevale soprattutto nel primo movimento del Concerto, aperto dal
vigoroso sinfonismo dell'introduzione orchestrale, avviata dalla misteriosa e suggestiva
pulsazione dei cinque colpi di timpano che torneranno a percorrere come una sorta di oscuro e
imperioso segnale tutto lo svolgimento dell'Allegro. Il dipanarsi della parte del violino solista,
intrisa di lirismo nella cantabilità trasparente del registro acuto, protesa in espansioni
virtuosistiche di stampo classicheggiante, si fonde con stupenda naturalezza con il denso
tessuto dell'orchestra, essa pure adagiata nelle volute di una generosa effusione melodica ma
sempre nutrita di straordinaria forza interna; anche se fra le due idee tematiche principali (la
prima delle quali è non meno lirica e cantabile della seconda, cui, dice Carli Ballola, «il primo
movimento deve il suo carattere inconfondibile di ambigua e voluttuosa tenerezza, non priva
di bruschi trasalimenti») non si verifica quel contrasto radicale di intenzioni espressive che
determina la ragione stessa della forma-sonata. In questo quadro v'è spazio a una cadenza
ampia e di particolare tensione virtuosistica, come quelle che per questo Concerto (Beethoven
non ne scrisse che per la versione pianistica) realizzarono i più celebri violinisti, da Joachim
stesso a David e a Kreisler. Molto intenso il movimento centrale, un Larghetto articolato in un
dialogo fra lo strumento solista e l'orchestra, che si scambiano un motivo di dolcissima
espressività, in un clima di poesia trasognata, affidato anche agli incanti di una timbrica
rarefatta e sfumata. Un'altra cadenza del solista introduce al Finale, senza soluzione di
continuità: un ritmo balzante, quasi di danza, annunciato dapprima quasi di soppiatto dal
violino, poi ripreso con scatto travolgente da tutta l'orchestra. È fin troppo facile individuare in
questo tempo - come tante altre volte in Beethoven - il punto debole del Concerto: certamente
la sua caratteristica principale è quella di essere un brano brillante, di elegante e talvolta
superficiale piacevolezza, sottolineata da uno schema compositivo un po' semplicistico come
quello del Rondò; ma la sagace scrittura della parte solistica, dialogante con un'orchestra
leggera e vivace, talora pervasa di allusioni naturalistiche (si è a proposito rammentato lo
Scherzo della Pastorale), determina l'intima continuità dei diversi episodi, legati l'uno all'altro
da un'impulso ritmico che percorre inarrestabile tutta questa breve e ben proporzionata
struttura, concludendo il Concerto in un'atmosfera di equilibrata e aerea politezza formale.
Daniele Spini
La produzione di Ludwig van Beethoven per violino e orchestra è piuttosto scarna e annovera
un lungo frammento di primo tempo di Concerto risalente agli anni 1790-1792, le due celebri
Romanze (in sol op. 40 e in fa op. 50) del 1802 e il Concerto in re maggiore op. 61 composto
nel 1806 ed eseguito per la prima volta il 23 dicembre dello stesso anno al Theater an der Wien
di Vienna da Franz Clement, grande violinista viennese direttore dal 1802 dello stesso teatro.
L'opera non ebbe grande successo (pare che Clement avesse introdotto, fra un tempo e l'altro
del Concerto, esecuzioni di sue composizioni...) e venne presto dimenticata. L'anno seguente,
su richiesta di Muzio Clementi, Beethoven ne realizzò una trascrizione per pianoforte e
orchestra e la pubblicò nel 1808 contemporaneamente alla partitura originale per violino. Nel
1844 Felix Mendelssohn-Bartholdy riesumò il Concerto in un'esecuzione londinese nella quale
il solista era il giovanissimo Joseph Joachim. Da quel momento il Concerto op. 61 si stabilì
saldamente fra i capolavori più celebri e amati dagli interpreti e dal pubblico.
La struttura formale del Concerto segue le linee principali delle composizioni del secondo
periodo beethoveniano; la pagina si può dividere (in analogia al Quarto e al Quinto Concerto
per pianoforte e orchestra) in due grandi blocchi: il primo è un ampio movimento in forma
sonata, il secondo è costituito da un breve momento contemplativo che precede il Rondò
finale. Il primo movimento, costruito saldamente sopra le cinque note iniziali del timpano, ha
una ricchezza melodica che affascina e coinvolge espressivamente l'ascoltatore: non c'è
virtuosismo puro, non c'è contrapposizione fra solista e orchestra, ma complicità, unione,
dialogo costruttivo. La breve oasi lirica del secondo movimento sembra preparare
semplicemente il Rondò finale, spensierato, saltellante e leggero (a volte criticato proprio per
questa ragione), sempre giocato dal violino solista sul filo dell'espressività e dell'intimo
dialogo con l'orchestra.
L'esposizione orchestrale del primo movimento, Allegro ma non troppo, si apre con cinque re
del timpano, cinque "rintocchi" che costituiscono la vera e propria cellula germinativa
dell'intero concerto. Su questo impulso ritmico oboi, clarinetti e fagotti fanno sorgere il primo
tema, un motivo discendente radioso e sereno che subito lascia il passo alle cinque note
ripetute (archi). Una serie di scalette ascendenti dei legni porta poi alla transizione orchestrale
che irrompe improvvisa nella tonalità di si bemolle maggiore. 11 secondo tema, in re
maggiore, ha invece un profilo ascendente e viene esposto dai legni e subito ripreso, in tonalità
minore, dagli archi. Una vena di inquietudine scorre poi nelle nervose terzine di viole e
violoncelli, ma viene subito spazzata dal terzo tema, esposto con piglio eroico da tutta
l'orchestra. 11 discorso musicale si spegne in una serie di delicate cadenze che aprono
l'esposizione del violino solista: il primo tema viene presentato nel registro acuto dello
strumento, in una sorta di dolcissimo respiro cadenzato dai soliti rintocchi ritmici del timpano.
La serie di scalette ascendenti dell'esposizione orchestrale viene ripresa ora dal solista in un
passaggio di bravura in ottave spezzate che porta al secondo tema, esposto in la maggiore da
clarinetti e fagotti sopra il trillo del violino e subito ripreso e variato dallo stesso solista, ora in
tonalità minore. Immancabile il ritorno dei cinque "rintocchi" iniziali affidati al solista e agli
archi seguiti dal terzo tema, in la maggiore, impreziosito e arricchito dalle gioiose figurazioni
del violino solista che portano a termine l'esposizione. La sezione di sviluppo motivico si
divide in due parti; la prima si apre su un lungo trillo del solista sul quale i violini riprendono i
cinque "rintocchi" iniziali, seguito dall'elaborazione del secondo tema (orchestra, prima in la
maggiore, poi in la minore) e del terzo tema (orchestra in do maggiore). La seconda parte vede
il nuovo ingresso del solista (in modo simile all'esposizione) che introduce il cuore stesso dello
sviluppo, nel quale il materiale motivico del primo tema viene trasformato in un episodio in
tonalità minore sul quale si ode nelle diverse sezioni dell'orchestra (corni, archi, timpani) il
ritomo dei cinque "rintocchi" iniziali. Il violino prende ora in mano con decisione il discorso
musicale e conduce l'intera sezione di sviluppo elaborando il primo e il secondo tema con
figurazioni ornamentali sempre delicate e cantabili.
La ripresa si apre trionfalmente con la perorazione eroica del primo tema ad opera dell'intera
orchestra in fortissimo al quale segue un episodio solistico, la transizione al secondo tema e il
secondo tema stesso, ora in re maggiore. Il terzo tema, sempre in re maggiore, conclude la
ripresa. La coda si apre nello stesso modo in cui si era aperto lo sviluppo: un lungo trillo del
solista sul quale gli archi fanno sentire i cinque "rintocchi" iniziali. Un perentorio stacco
orchestrale introduce la lunga cadenza del solista al termine della quale udiamo, dolcissimo,
l'ultimo accenno al primo tema (violino solista sopra il pizzicato degli archi in registro acuto),
prima delle conclusive strappate orchestrali.
Il Finale è la pagina più brillante ed estroversa della partitura: la struttura formale è quella del
Rondo (A-B-A-C-A-B'-A), nel quale il tema principale, il refrain, si alterna a diversi episodi
contrastanti, ma possiede anche alcune caratteristiche della forma sonata classica: la simmetria
tripartita, la struttura armonica e il fatto che il primo episodio, che ritorna variato come terzo
episodio, ha la funzione del secondo tema di sonata. Questa forma variata, nota come Rondò-
Sonata, si ritrova in diverse opere di Mozart e venne frequentemente utilizzata dallo stesso
Beethoven nei movimenti finali delle sue opere del "secondo periodo". Il refrain (A) presenta
un delizioso carattere di danza e viene esposto dal solista nel registro grave, ripreso nel
registro acuto e ripetuto infine dall'intera orchestra in un moto di pura gioia ritmica.
Curiosamente la cadenza dell'orchestra che conclude il refrain verrà ripresa qualche anno più
tardi da Beethoven in un passo analogo del suo Concerto per pianoforte e orchestra
"Imperatore" op. 73. Il primo episodio è una variazione del tema principale condotta dal solista
sopra i "richiami di caccia" dei corni (B); poi ritoma il refrain identico al primo (A). Il secondo
episodio (C), in sol minore, è più malinconico e vive del dialogo fra fagotto e violino solista
che si scambiano i frammenti del tema. Dopo la ripresa del refrain (A) troviamo nuovamente il
primo episodio (B') in forma leggermente variata ed elaborata. Un'ultima apparizione del
refrain (A) porta alla cadenza del solista e alla conclusione del movimento.
Alessandro De Bei
Op. 80 1808
Fantasia corale Schmeichelnd hold (Lusinga amichevole)
https://www.youtube.com/watch?v=kCsNlSMAq44
https://www.youtube.com/watch?v=KKy4xLA7JtA
https://www.youtube.com/watch?v=cSfMH9Y5bi8
Testo: C. Kuffner
Adagio - Allegro
Meno Allegro (do maggiore)
Allegretto ma non troppo (do maggiore)
Organico: 2 soprani, 2 contralti, 2 tenori, basso, coro misto, pianoforte, 2 flauti, 2 oboi, 2
clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1808
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 22 Dicembre 1808
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1811
Dedica: Re Massimiliano Giuseppe di Baviera
Un'opera di Beethoven che non reca i segni di una imperiosa volontà ci sorprende e ci spiazza;
è un po' il caso della Fantasia op.80, la quale pur appartenendo all'età suprema del sinfonismo
e concertismo beethovenianc non presenta quello spiegamento di idee musicali scolpite e
necessarie che ne convalida la vicenda morale più tipica. Se non scava nel profondo dell'uomo,
riflette tuttavia il musicista nel suo tempo e nella sua società. Beethoven che con le sue opere
stava modificando le abitudini di ascolto e creando il moderno concerto pubblico, con la
Fantasia op.80 sembra ancora intrattenersi con l'Accademia musicale dell'epoca passata, fatta
di composizioni diverse per impegno e organico, solistiche, vocali e strumentali, tenendo
d'occhio con la varietà della rassegna anche la vivacità dell'intrattenimento. Curiosamente
proprio questa disposizione spirituale più rilassata diventa propizia al sondaggio di qualche
esperimento, di qualche accostamento inedito, e infatti quest'opera dal tono così conciliante e
gradevole contiene pure un nucleo formale che troverà impiego e sviluppo in un'opera immane
e cioè, come la critica ha più volte indicato, addirittura nella Nona Sinfonia "con Cori".
La composizione incomincia con un Adagio per pianoforte solo nel carattere libero e rapsodico
della Fantasia praticata da Carl Philipp Emanuel Bach [e da Beethoven nella sua op.77]; il
brano fu scritto in occasione della stampa, perché al suo posto, la sera del 22 dicembre 1808,
l'autore improvvisò sul momento un'altra pagina; lo stile e il procedimento
dell'improvvisazione si sente in ogni caso anche nel testo tramandato. Segue un Allegro, aperto
da un tema di marcia nei bassi, di dialogo ravvicinato fra il pianoforte e l'orchestra e quindi
l'esposizione (Allegretto) del tema in do maggiore di "Gegenliebe" annunciato da un
caratteristico richiamo di "quinte" dei fiati; le variazioni alternano una concezione ornamentale
e brillante a più decise trasformazioni: una in do minore, di impetuose alternanze fra solo e
orchestra, e un'altra lenta (Adagio ma non troppo) dove domina l'iniziativa poetica del
pianoforte: per un momento sembra di percepire l'ombra del genio che passa come una nuvola
a grande altezza. Un episodio "alla marcia" ci desta dal sogno e dopo alcune accorte diversioni
la Fantasia imbocca l'ultimo episodio con l'entrata del Coro: non c'è nuovo materiale
inventivo, ma ripresa dei temi precedenti, arricchiti di combinazioni tìmbriche per la casta
sonorità corale e gli spumeggianti trilli del pianoforte nel registro acuto. Quel contrasto di soli
e orchestra che nei grandi Concerti era fulcro di indomite passioni, qui è spettacolo, veicolo di
socievolezza e visione serena della vita.
Giorgio Pestelli
La Fantasìa corale op. 80 per pianoforte, coro e orchestra venne composta da Ludwig van
Beethoven durante l'anno 1808 e vide la sua prima esecuzione il 22 dicembre dello stesso
anno, insieme alla Quinta e alla Sesta sinfonia, al Theater an der Wien di Vienna: al pianoforte
sedeva lo stesso Beethoven, mentre l'orchestra era affidata alla direzione di Ignaz von
Seyfried.
Sappiamo che Beethoven pensava di musicare l'ode An die Freude già nel corso degli anni
giovanili di Bonn; il progetto avrebbe trovato realizzazione solo molti anni più tardi, con il
finale corale della Nona Sinfonia. In questo senso la Fantasia corale op. 80 può essere letta
come una sorta di "prova generale" della Nona sinfonia, non solo perché il tema del coro finale
ricorda la "melodia della gioia", ma anche perché il testo della Fantasia di Christoph Kuffner
richiama ideologicamente i temi della fratellanza univer¬sale di Schiller.
La composizione prende le mosse da un Adagio per pianoforte solo dal carattere rapsodico: la
sera del 22 dicembre Beethoven infatti improvvisò al pianoforte. Il brano, così come lo
conosciamo oggi, venne scritto in occasione della pubblicazione della Fantasia.
Alessandro De Bei
Testo
https://www.youtube.com/watch?v=w8KWsZ_Tdxo
https://www.youtube.com/watch?v=fxi-YnvSolI
www.youtube.com/watch?v=SxOD45-hNr8
Andante
L'op. 40 impone una conduzione formale abbastanza insolita rispetto al repertorio più
conosciuto (quello delle «Sinfonie» e delle «Sonate») di Beethoven. La lineare procedura del
brano in questione non è, comunque, segno di impotenza artistica. Al punto che giustamente è
stato sottolineato (da Romain Rolland in particolare) che l'op. 40, e la successiva op. 50, sono
tra le pagine del compositore dove «la suggestione non è determinata dalla forza del dramma
ma piuttosto daffa dolcezza toccante dell'espansione lirica e malinconica».
Giovanni Ugolini
Agli ultimi anni del secolo sono state invece attribuite le due Romanze per violino e orchestra,
opera 40 e opera 50, che appartengono compiutamente al genere delle composizioni
d'occasione. Non conosciamo con esattezza la data di composizione dei due brani, ma
entrambi sono certamente precedenti all'autunno 1802, poiché appunto in tale periodo Karl van
Beethoven - curatore degli affari del fratello - propose alla casa editrice Breitkopf und Härtel
la vendita di due «Adagi per violino con un completo accompagnamento strumentale».
Le due Romanze possono essere accostate al Concerto opera 61 per la predilezione verso una
scrittura violinistica levigata ed elegante, e un'ambientazione espressiva intimistica; se ne
distanziano tuttavia per la mancanza di ambizioni che non siano puramente decorative, per
l'adesione piena a un'estetica di intrattenimento. Non solamente sotto questo aspetto le due
pagine appaiono gemelle; uguale è l'organico strumentale cameristico, uguale la costruzione
formale, che segue lo schema A-B-A-C-A, con un episodio in minore prima dell'ultima
ripresa. In particolare, per l'invenzione melodica di stilizzato manierismo, per l'equilibrio del
rapporto fra solo e orchestra, per la compostezza della costruzione formale, la Romanza opera
40 mostra la prevalenza della qualità della "confezione" sull'impegno nel contenuto, e rivela
così, della personalità di Beethoven, l'aspetto più squisitamente artigianale e ancien regime.
Arrigo Quattrocchi
https://youtu.be/YXG-1_EpR78
https://www.youtube.com/watch?v=6VgMmA13-fA
https://www.youtube.com/watch?v=YsSI1V713jk
Adagio cantabile
Il titolo della seconda «Romanza» per violino e orchestra di Beethoven è, sempre secondo la
classificazione del catalogo Kinsky, « Opus 50 Romanze (F-dur) für Violine mit Begleitung
des Orchesters».
Il lavoro è datato al 1802, e quindi contemporaneo sia della «Romanza» op. 40, sia della
Seconda Sinfonia (collocazione cronologica, codesta, respinta da Max Unger il quale - sulla
base di accertamenti d'archivio - assegna alla «Romanza» op. 50 la data del 1798-1799).
Come nel caso della quasi totalità delle opere beethoveniane, anche l'op. 50 è stata manipolata
in numerose versioni; tutte alquanto diverse da quella originale. La più largamente nota è
quella per pianoforte a quattro mani (« Romance favorite... arrangée en Rondeau brillant... a 4
mains par CH. Czerny): il che avveniva almeno fino ad una sessantina di anni fa, quando - in
un'epoca priva di trasmissioni radiofoniche e di incisioni discografiche - la produzione
musicale veniva «consumata», al di fuori dei rarissimi concerti pubblici, attraverso le riduzioni
«ad uso dei dilettanti»).
Non è da escludersi che nella fortunata diffusione dell'op. 50 (e anche dell'op. 40) abbia
pesato, nel secolo scorso, lo stesso titolo dei brani. Il quale, soprattutto verso la fine del secolo
scorso, veniva generalmente riferito ad un settore della produzione musicale di carattere
mondano-ricreativo. Nella «Romanza» op. 50, come nella precedente op. 40, c'è piuttosto -
abbastanza insolito per la usuale problematica beethoveniana - un'aperta cantabilità, una netta
semplicità della elaborazione strutturale, un predominio della distensione espressiva estranea
al drammatismo dialettico praticato dal compositore nei lavori strumentali di maggiore
ampiezza (nei quali, come si sa, la forma-sonata, intesa fra l'altro con i criteri «inventati» da
Beethoven, domina il campo).
Giovanni Ugolini
https://www.youtube.com/watch?v=QB38krqJnSw
https://youtu.be/kMww1nEXSoA
(Allegro)
https://www.youtube.com/watch?v=_zIfc08ZkA4
https://www.youtube.com/watch?v=J6PQvcY4yXU
Organico: ottavino, 2 flauti, 2 clarinetti, clarinetto piccolo, 2 fagotti, controfagotto, 2 corni, 2
trombe, tamburo piccolo, grancassa
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
Adottata dalla Guardia nazionale boema
https://www.youtube.com/watch?v=8gx9ayXdKRo
https://www.youtube.com/watch?v=faIAADFTOvU
Vivace assai
La Marcia «Zapfenstreich» («Ritirata») n. 2 WoO 20 appartiene a una serie di tre, composte tra
il 1809 e il 1810, gli anni, a Vienna, del patriottismo antinapoleonico. In questi come negli altri
brani per banda militare, tra cui ì'Écossaise WoO 22 e la Polonaise WoO 21, si coglie un
Beethoven meno noto, dedito a scrivere brevi pagine funzionali e di circostanza. La struttura,
molto semplice, corrisponde a quella dei brani del genere, la cui maggiore attrattiva consiste
nel clangore della sonorità e nella strumentazione militare, connotata dalla cospicua presenza
delle percussioni (tamburo grande, tamburo militare, triangolo, «cinelli» - cioè piatti - e cappel
cinese). Alla Marcia propriamente intesa, Vivace assai, in due parti replicate, seguono un Trio,
anch'esso bipartito e la ripresa della Marcia.
Cesare Fertonani
https://www.youtube.com/watch?v=1rFgm0ZwXQ8
Organico: 2 clarinetti, 2 corni, 2 fagotti
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
Esiste anche una riduzione per pianoforte
WoO 24 1816
Marsch zur großen Wachtparade (Marcia per una grande parata)
https://www.youtube.com/watch?v=eYIu1TobDIk
WoO 21 1810
Polacca per banda in re maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=uzRdYwZN3is
WoO 22 1810
Scozzese per banda in re maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=kpot4paciLw
WoO 23 1810
Scozzese per banda in sol maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=Mk5yyf_LAik
https://www.youtube.com/watch?v=Q0pLu3tl5Bw
https://www.youtube.com/watch?v=XZI2q4bm-OU
WoO 34 1822
Duetto per violini in la maggiore "Kleines Stück"
https://www.youtube.com/watch?v=hl8mPf41L8s
Organico: 2 violini
Composizione: Vienna, 29 aprile 1822
Edizione: apparso in Ludwig van Beethoven di T. Frimmel, Berlino 1901
Dedica: Alexandre Boucher
https://www.youtube.com/watch?v=RnEhTXV2500
• Allegretto
• Organico: 2 violini, 2 viole, violoncello
• Composizione: 28 novembre 1817
• Edizione: Haslinger, Vienna 1827
https://www.youtube.com/watch?v=UbDshidnVXM
https://www.youtube.com/watch?v=13ygvpIg-S0
https://www.youtube.com/watch?v=s6nqfPWxWCg
Nata come movimento finale del Quartetto op. 130, la Grande Fuga op. 133 di Beethoven è
composizione di grande impegno e di dimensioni imponenti. La complessità della scrittura
contrappuntistica e il radicalismo del linguaggio ne fanno una delle opere più emblematiche, e
al tempo stesso enigmatiche, del tardo stile beethovenìano. Fu separata dall'originario
Quartetto, scritto per il principe Galitzin nel 1825, per ragioni pratiche: per l'eccessiva
lunghezza, ma anche per la reazione fredda del pubblico dell'epoca, sconcertato dalla
complessità, dalle durezze, dalla difficoltà dell'opera. Fu solo il Ventesimo secolo a rivalutare
quello che per arditezza e libertà di scrittura e dì concezione, oltre che per ampiezza di
proporzioni, è il lavoro contrappuntistico più impegnativo e ambizioso elaborato da
Beethoven.
La Grande Fuga op. 133 è costituita da tre ampie fughe, precedute da un'introduzione (che
Beethoven chiama Overtura) e inframmezzate da episodi in stile contrappuntistico. Della fuga
il compositore accoglie, oltre ai procedimenti tecnici e formali ereditati dalla tradizione, il
principio cardine (anche laddove si allontana dalle regole scolastiche): l'unità della
composizione è assicurata da una sola cellula tematica - che nel nostro caso è identificabile in
una precisa successione di intervalli - dalla quale vengono ricavati tutti i temi fondamentali.
Questa cellula tematica viene sistematicamente sottoposta a processi dì elaborazione: la
Grande Fuga, dunque, è il punto di convergenza, e la sintesi suprema, delle due principali
tradizioni storìche nella civiltà musicale occidentale; da una parte il contrappunto, il princìpio
imitativo che si incarna nella polifonìa rinascimentale e nella fuga barocca, dall'altra il
sonatismo classico, con il principio dell'elaborazione motivico-tematica e il suo forte
potenziale drammatico.
Prende ora il via la prima fuga. Il soggetto ha un'indole energica, addirittura rude, e una natura
ritmica molto pronunciata. Il «tema fondamentale», assunto nella quarta forma dell'Ouvertura,
gli fa da controsoggetto; il contrasto tra i due, assai marcato, è il motore dell'intera prima parte.
A una regolare esposizione, con quattro entrate canoniche determinate dal soggetto e dalla
risposta, cui si aggiunge un'entrata ulteriore del soggetto, seguono esposizioni successive ai
gradi affini e stretti, intercalati da divertimenti che elaborano brevi spunti del materiale
tematico fondamentale. Ovunque domina, implacabile, l'incessante ritmo puntato del soggetto,
che con le sue inflessioni determina dissonanze e urti aspri.
Terminata la prima fuga, ha inizio un episodio in tempo Meno mosso e moderato, in stile
contrappuntistico meno rigoroso (si tratta d'un fugato). L'episodio è basato sulla terza versione
del «tema fondamentale» e sulle figure ornamentali che l'accompagnavano nell'Ouvertura.
Contrasta vivamente con la vigorosa fuga precedente: l'atteggiamento è meno severo, il colore
strumentale è più chiaro, il tono generale è improntato al lirismo e alla morbidezza. Segue un
nuovo episodio imitativo (Allegro molto e con brio), in ritmo ternario, basato sulla seconda
versione del "tema fondamentale».
La seconda fuga assume, per soggetto, il «tema fondamentale» nella sua prima versione, della
quale conserva i valori lunghi e gli energici sforzato. Gli fanno da contrappunto due distinti
controsoggettì: il primo è ricavato dall'incipit del «tema fondamentale» nella sua seconda
forma, per moto contrario; il secondo dall'incipit della terza versione del medesimo «tema
fondamentale». A partire dal termine dell'esposizione, i processi di elaborazione tematica
prendono il sopravvento sui procedimenti contrappuntistici e sugli artifìci imitativi tìpici della
fuga vera e propria.
La terza fuga, che si salda direttamente alla precedente, si basa su una versione del «tema
fondamentale» trasformata nella veste ritmica. Esaurite le quattro entrate canoniche del
soggetto e della risposta, sì alternano «divertimenti» e «stretti», nel corso dei quali riaffiorano
allusioni alle varie versioni del «tema fondamentale». Il tempo cambia dì nuovo: si fa ritorno
al Meno mosso e moderato dell'episodio che seguiva immediatamente la prima fuga. Qui,
tuttavia, la scrittura si fa più complessa: Beethoven combina i due disegni con la terza versione
del «tema fondamentale» suonata per moto contrario, realizzando così un intricato
contrappunto triplo. Dopo la ripresa della sezione imitativa, ampliata nelle dimensioni e
condotta sino a un poderoso climax, e dopo brevi e frammentarie reminiscenze tematiche,
attacca l'enfatica coda conclusiva "nella quale il «tema fondamentale» compare nella sua
prima versione. Tutta la coda è ispirata a un atteggiamento positivo ed energico: è dunque in
un clima trionfale di vittoria che si chiude la grande e complessa composizione beethoveniana.
Claudio Toscani
La Grande Fuga è una delle pagine più ambiziose e avveniristiche di Beethoven. Da una parte
si impone all'ascolto una concezione del suono aggressiva e materica, che può trovare un
convincente parallelo solamente in un altro grande affresco contrappuntistico, il finale della
Sonata per pianoforte opera 106. D'altra parte Beethoven compie uno dei suoi capolavori di
invenzione formale, proponendo una sintesi dei principi della fuga e di quelli della sonata. Una
«Overtura» di 29 battute presenta in tre diverse forme il "motto" che costituisce il soggetto
della costruzione. Segue la fuga vera e propria, che si articola però in tre distinte sezioni,
impostate come un allegro, un tempo lento e uno scherzo. La prima sezione, la più serrata e
complessa, consiste in una doppia fuga, in cui il "motto" funge da controsoggetto a un
soggetto che procede con fraseggio spezzato. La seconda sezione («Meno mosso e moderato»)
è improntata invece a un diffuso lirismo; a contrappuntare il "motto" interviene una sinuosa
linea di semicrome (già presentata d'altronde nell'Overtura). La terza sezione («Allegro molto
e con brio») vede il "motto" convertito nel ritmo di 6/8, e protagonista assoluto di una
trattazione in cui il timbro diventa elemento essenziale, con i lunghissimi trilli coloristici.
Ritornano frammenti delle sezioni precedenti, prima di una coda che riassume con densità
trascinante tutto il contenuto tematico ed elaborativo dell'intera pagina.
Arrigo Quattrocchi
La Grande Fuga in si bemolle maggiore op. 133, dedicata all'arciduca Rodolfo, venne
composta fra la estate e l'autunno del 1825. Pubblicata due anni dopo, costituiva in origine il
finale del Quartetto op. 130. Una sconfinata ricchezza di fantasia vi appare contenuta da una
ferrea e pur vibrante struttura contrappuntistica.
Beethoven è giunto al ciclo degli ultimi quartetti (1822-1826), fuori dagli schemi tradizionali,
nell'estremo maturarsi del suo pensiero creativo e nel profondo rigore di uno stile severo,
tremendamente incisivo. E' il Beethoven del «terzo stile», un musicista che ci insegna una
dolente accettazione e, secondo le parole di Massimo Mila, «una virilità forse meno brillante
che l'egoismo prometeico, ma più consapevole e matura». La Grande Fuga, uno degli esempi
più alti della polifonia strumentale d'ogni tempo, venne ridotta dallo stesso Beethoven per
pianoforte a quattro mani (opera 134).
Edoardo Guglielmi
Op. 14 n. 1a 1801
Quartetto per archi in fa maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=R1RKRaj5H_U
https://www.youtube.com/watch?v=pEsl978D5Jc
Allegro
Allegretto
Rondò: Allegro comodo
"Sarebbe ora di smetterla con questa mania imperversante di voler trapiantare persino pezzi
per pianoforte sugli strumenti ad arco, che sono tutti radicalmente diversi gli uni dagli altri.
Sostengo fermamente che soltanto Mozart era in grado di ridurre per altri strumenti la propria
musica per pianoforte, e così pure lo sarebbe Haydn. E senza volermi mettere accanto a quei
due grandi uomini, sostengo la stessa cosa per le mie sonate per pianoforte; perché non
soltanto interi brani, dovrebbero essere completamente omessi o modificati, ma altri
dovrebbero essere aggiunti, e qui sta il maggiore ostacolo, per superare il quale si dovrebbe
essere il compositore stesso o almeno possederne la medesima capacità e inventiva. Una volta
sola, unicamente in seguito a insistenti preghiere, ho trasformato una mia sonata in un
quartetto per strumenti ad arco, ma sono certo che nessun altro potrebbe facilmente imitarmi."
Così Beethoven, in una lettera datata 13 luglio 1802 all'editore Breitkopf und Härtel, motiva la
sua ritrosia a trascrivere per archi composizioni pensate per il pianoforte. Eppure in un caso, e
"dietro insistenti preghiere" cedette: la Sonata in mi maggiore op. 14 n. 1, pubblicata a Vienna
per l'editore Mollo nel dicembre 1799, venne trascritta per quartetto d'archi fra il 1801 e il
1802 e dedicata alla Baronessa von Braun, pianista e moglie del barone von Braun, già
direttore del Theater an der Wien. Non si esclude che il Quartetto sia stato presentato in una
delle serate musicali organizzate dal Barone nella sua residenza di Schönau.
Anche se spesso sono state considerate meno significative (e comunque più facili) di Sonate
coeve come la Patetica op. 13, le due Sonate dell'op. 14 dovettero apparire ai contemporanei
assai innovative e non poco problematiche, se ancora nel 1823 Schindler interrogava
insistentemente l'autore sui reali contenuti dei due spartiti. Secondo Schindler, Beethoven
avrebbe affermato che le due Sonate dell'opera 14 avevano per oggetto il contrasto tra due
principi e il dialogo di due persone. Anche la Sonata op. 14 n. 1 dunque è animata da una
dialettica interna, volta però non ad un contenuto drammatico, ma ad un fine intimistico e
discreto: il contrasto si impone fra i due temi dell'Allegro iniziale, un ampio tema ascendente
per intervalli di quarta e una nitida melodia solistica; tale contrasto non anima però la sezione
dello sviluppo che, secondo un procedimento caro poi a Schubert, è affidato a un episodio
lirico quasi del tutto nuovo e indipendente. Il movimento centrale, Allegretto, ha il carattere di
Scherzo, con un malinconico e concitato avvio in minore, un limpido Trio in maggiore e una
breve coda che riassume i caratteri salienti dell'intero movimento. Il Finale è un Rondò basato
su uno di quei temi irregolari e interlocutori tipici dell'umorismo dell'autore.
Naturalmente Beethoven apportò notevoli modifiche nella trascrizione, tenendo conto delle
caratteristiche del complesso quartettistico e utilizzando in modo diverso il materiale melodico
e armonico, anche per quanto riguarda la disposizione della tonalità. La composizione non ha
la compiutezza dei sei Quartetti op. 18 coevi, e rientra in quel tipo di musica spigliata e
scorrevole di derivazione haydniana, così cara al primo Beethoven.
Arrigo Quattrocchi
Quartetti Op. 18
https://www.youtube.com/watch?v=e4o85AVwkog
Introduzione
I Quartetti per archi di Beethoven sono complessivamente sedici, più la Grande fuga che in
origine costituiva il finale dell'op. 133. Secondo un criterio non solo cronologico, ma di
valutazione critica, accettato in linea di massima dagli studiosi della musica beethoveniana, i
Quartetti si possono classificare in tre gruppi distinti: i sei Quartetti dell'op. 18 (1798-1800),
che risentono l'influenza del modello haydniano e mozartiano; i Quartetti del secondo periodo
e della maturità, raggruppati nell'op. 59, n. 1-3, (1805-1806), nell'op. 74 (1809) e nell'op. 95
(1810); e infine gli ultimi Quartetti scritti tra il 1822 e il 1826, comprendenti le op. 127, 130,
131, 132, 133 e 135. In questi tre momenti della produzione quartettistica si riflette tutta la
parabola artistica del compositore, dalla fase iniziale dell'op. 18, quando è alla ricerca di uno
stile personale e si tormenta per raggiungere la più aderente espressione al proprio io interiore
fino alle più ardite soluzioni armoniche e formali racchiuse nelle ultime opere cameristiche
beethovernane. In più, nel Quartetto per archi, il genere che il musicista predilesse e coltivò
intensamente insieme alla Sonata per pianoforte, l'artista racchiuse i suoi pensieri più intimi e
riservati, così da toccare spesso la forma del soliloquio. Non per nulla Paul Bekker, uno dei
più documentati biografi del maestro di Bonn, così scrive nell'esaminare la struttura e la
fisionomia dei vari Quartetti, specie quelli appartenenti al cosiddetto terzo stile: «Questa
musica da camera per strumenti ad arco è veramente l'asse della psiche creativa di Beethoven,
intorno al quale tutto il resto si raggruppa a guisa di complemento e di conferma. Nei Quartetti
si rispecchia tutta la vita del musicista, non sotto l'aspetto di confessione personale, quasi di
diario, come nell'improvvisazione delle sonate, non nella grandiosa forma monumentale dello
stile sinfonico, bensì nella contemplazione serena, che rinuncia all'aiuto esteriore della
virtuosità e alla monumentalità delle masse sonore dell'orchestra e si limita alla forma,
semplice e priva di messa in scena, di colloqui tra quattro individualità che tra di loro si
equivalgono».
I sei Quartetti op. 18 furono scritti tra il 1798 e il 1800 e pubblicati a Vienna dall'editore Mollo
nel 1801 con il titolo francese di "Six quatuors pour deux violons, alto e violoncello, composés
et dédiés a S.A.M. le Prince régnant Franz Joseph Lobkowitz", uno dei più influenti amici del
musicista, che li apprezzò molto dopo averli ascoltati, tanto da assegnare al compositore 600
fiorini annui e regalargli anche quattro preziosi strumenti ad arco: un violino e un violoncello
di Guarnieri costruiti a Cremona fra il 1712 e il 1718, un secondo violino di Nicola Amati fatto
nel 1667 e una viola di Vincenzo Ruger costruita nel 1690. La cronologia dei Quartetti non
corrisponde però all'ordine di pubblicazione. Secondo quanto risulta dagli abbozzi oggi
conosciuti, il primo ad essere compiuto sarebbe stato il terzo; verrebbero poi, il primo, il
secondo, il quinto e il sesto. Alla composizione del quarto, del quale mancano gli schizzi, non
si può assegnare un periodo rigorosamente preciso. Il Quartetto in fa maggiore n. 1 è
improntato allo spirito settecentesco, sulla linea della tradizione di Haydn e di Mozart, pur
denunciando alcuni tratti della nascente personalità beethoveniana. Una robusta quadratura
caratterizza il primo tema dell'Allegro con brio, incisiva cellula di sei note indicata dal
violoncello, mentre il primo violino svolge un andamento ritmico in un contesto di controllata
pensosità. L'ampio sviluppo si basa essenzialmente sul primo tema che alterna nelle sue
divulgazioni espressive momenti di eleganza settecentesca e di brillantezza violinistica ad altri
più robusti e drammatici. Il secondo movimento Adagio affettuoso ed appassionato è ispirato,
secondo lo stesso Beethoven, alla scena della tomba del Romeo e Giulietta shakesperiano.
L'intensità della frase, dolorosamente ripiegata nell'ambito della tonalità minore, assume una
espressione carica di pathos, a cominciare dal tema iniziale svolto dal primo violino sulla
pulsazione sommessa degli altri tre strumenti. La parte centrale del secondo tema presenta
sfaccettature timbriche diverse: i temi si impennano talvolta in robusti crescendo, mentre il
dialogo a quattro tende ad evidenziare il primo violino e il violoncello, lasciando al secondo
violino e alla viola un ruolo lievemente subordinato. Segue l'Allegro molto segnato da una
vivacità di stampo haydniano. Non si tratta del minuetto tradizionale e neppure dello scherzo
beethoveniano in piena regola, anche se l'insistente gioco di staccato-legato denuncia,
specialmente nel Trio, accenti umoristici che diverranno più marcati in certe pagine dei
Quartetti futuri. L'Allegro finale presenta una notevole spigliatezza ritmica, si irrobustisce
nella decisa verticalità di passaggi all'unisono e si distende tra piacevoli armonie di
settecentesca eleganza.
Il gruppo dei sei quartetti op. 18 venne pubblicato nel 1801 a Vienna dall'editore Mollo.
L'ordine della pubblicazione non rispettava però quello in cui essi erano stati composti; dagli
studi compiuti sui quaderni di abbozzi beethoveniani si ricava che il Quartetto in fa maggiore
fu scritto per secondo. Ad esso venne destinato il primo posto su consiglio, pare, del violinista
Ignaz Schuppanzigh, che fu anche tra i primi ad eseguirlo. La scelta era giustificata dai motivi
di immediata presa che il quartetto in questione poteva avere sul pubblico sia per la
costruzione del suo primo tempo che per la drammatica atmosfera del tempo lento.
Mentre sono andati dispersi gli autografi dei sei quartetti, quello in fa maggiore ci è stato
trasmesso in una versione in "bella copia" che il musicista inviò in regalo a Karl Amenda nel
giugno del 1799. Due anni dopo Beethoven pregò quest'ultimo di non far circolare
quell'esemplare poiché vi aveva introdotto alcune modifiche; si tratta di dettagli compositivi di
un certo rilievo, anche se non modificano radicalmente l'impianto del lavoro.
La decisione di raccogliere in un gruppo di sei la sua prima opera quartettistica non era per
Beethoven immotivata: il precedente illustre e immediato era infatti costituito dalle raccolte
haydniane per lo più nel medesimo numero, alle quali già da allora si guardava a Vienna come
ad esempi supremi in questo genere compositivo. Per quanto riguarda l'itinerario biografico
beethoveniano è anche opportuno sottolineare la dedica dell'opera 18 al principe Lobkowitz,
esponente di punta di quei circoli nobiliari cui il musicista giunto da Bonn si era rivolto come
ai propri naturali referenti. Scopo evidente dei quartetti del 1801 era quello di dimostrare al
pubblico come Beethoven si fosse pienamente impadronito della tecnica costruttiva di un
genere che proprio nei lavori di Haydn e di Mozart aveva assunto un ruolo fondamentale per
lo stile classico. Essi sono dunque alquanto fedeli a quella tradizione che più tardi lo stesso
Beethoven avrebbe messo in crisi e risentono assai meno di apporti personali di quanto accada
nelle coeve sonate per pianoforte.
Elementi di novità esistono tuttavia in particolare proprio nei primi due tempi del Quartetto in
fa maggiore che apre la raccolta. L'idea principale dell'Allegro con brio iniziale sarebbe per
alcuni aspetti piaciuta ad Haydn: essa non è infatti un "gesto" melodico pregnante, ma
piuttosto una figura ornamentale (una "turn figure" la definisce Kerman) che consiste in una
sorta di gruppetto sulla tonica fa. Il primo tempo è pressocchè interamente costruito su questo
minimo materiale, sottoposto ad un incessante lavorìo armonico, melodico e ritmico, mentre
spazio assai minore ha nello sviluppo la seconda idea, alla dominante, che pure ha un carattere
melodico maggiormente definito. Nel corso dell'intero tempo, inoltre, lo svolgersi del discorso
conosce alcune evidenti pause di un'intera battuta che ne sottolineano con forza drammatica i
principali momenti.
Dopo uno Scherzo con regolare Trio (entrambi bipartiti e con da capo) che vale a risollevarci
l'animo dopo la tragedia, il quartetto si conclude con un finale, in forma di rondò-sonata che
equivale, quanto a durata, ai due primi movimenti, senza ovviamente eguagliarne le pur
diverse qualità compositive.
Renato Bossa
https://www.youtube.com/watch?v=77xBZf0XcBY
https://www.youtube.com/watch?v=de-NLJ0doao
Allegro con brio
Adagio affettuoso ed appasionato (re minore)
Scherzo. Allegro molto
Allegro
I Quartetti per archi di Beethoven sono complessivamente sedici, più la Grande fuga che in
origine costituiva il finale dell'op. 133. Secondo un criterio non solo cronologico, ma di
valutazione critica, accettato in linea di massima dagli studiosi della musica beethoveniana, i
Quartetti si possono classificare in tre gruppi distinti: i sei Quartetti dell'op. 18 (1798-1800),
che risentono l'influenza del modello haydniano e mozartiano; i Quartetti del secondo periodo
e della maturità, raggruppati nell'op. 59, n. 1-3, (1805-1806), nell'op. 74 (1809) e nell'op. 95
(1810); e infine gli ultimi Quartetti scritti tra il 1822 e il 1826, comprendenti le op. 127, 130,
131, 132, 133 e 135. In questi tre momenti della produzione quartettistica si riflette tutta la
parabola artistica del compositore, dalla fase iniziale dell'op. 18, quando è alla ricerca di uno
stile personale e si tormenta per raggiungere la più aderente espressione al proprio io interiore
fino alle più ardite soluzioni armoniche e formali racchiuse nelle ultime opere cameristiche
beethovernane. In più, nel Quartetto per archi, il genere che il musicista predilesse e coltivò
intensamente insieme alla Sonata per pianoforte, l'artista racchiuse i suoi pensieri più intimi e
riservati, così da toccare spesso la forma del soliloquio. Non per nulla Paul Bekker, uno dei
più documentati biografi del maestro di Bonn, così scrive nell'esaminare la struttura e la
fisionomia dei vari Quartetti, specie quelli appartenenti al cosiddetto terzo stile: «Questa
musica da camera per strumenti ad arco è veramente l'asse della psiche creativa di Beethoven,
intorno al quale tutto il resto si raggruppa a guisa di complemento e di conferma. Nei Quartetti
si rispecchia tutta la vita del musicista, non sotto l'aspetto di confessione personale, quasi di
diario, come nell'improvvisazione delle sonate, non nella grandiosa forma monumentale dello
stile sinfonico, bensì nella contemplazione serena, che rinuncia all'aiuto esteriore della
virtuosità e alla monumentalità delle masse sonore dell'orchestra e si limita alla forma,
semplice e priva di messa in scena, di colloqui tra quattro individualità che tra di loro si
equivalgono».
I sei Quartetti op. 18 furono scritti tra il 1798 e il 1800 e pubblicati a Vienna dall'editore Mollo
nel 1801 con il titolo francese di "Six quatuors pour deux violons, alto e violoncello, composés
et dédiés a S.A.M. le Prince régnant Franz Joseph Lobkowitz", uno dei più influenti amici del
musicista, che li apprezzò molto dopo averli ascoltati, tanto da assegnare al compositore 600
fiorini annui e regalargli anche quattro preziosi strumenti ad arco: un violino e un violoncello
di Guarnieri costruiti a Cremona fra il 1712 e il 1718, un secondo violino di Nicola Amati fatto
nel 1667 e una viola di Vincenzo Ruger costruita nel 1690. La cronologia dei Quartetti non
corrisponde però all'ordine di pubblicazione. Secondo quanto risulta dagli abbozzi oggi
conosciuti, il primo ad essere compiuto sarebbe stato il terzo; verrebbero poi, il primo, il
secondo, il quinto e il sesto. Alla composizione del quarto, del quale mancano gli schizzi, non
si può assegnare un periodo rigorosamente preciso. Il Quartetto in fa maggiore n. 1 è
improntato allo spirito settecentesco, sulla linea della tradizione di Haydn e di Mozart, pur
denunciando alcuni tratti della nascente personalità beethoveniana. Una robusta quadratura
caratterizza il primo tema dell'Allegro con brio, incisiva cellula di sei note indicata dal
violoncello, mentre il primo violino svolge un andamento ritmico in un contesto di controllata
pensosità. L'ampio sviluppo si basa essenzialmente sul primo tema che alterna nelle sue
divulgazioni espressive momenti di eleganza settecentesca e di brillantezza violinistica ad altri
più robusti e drammatici. Il secondo movimento Adagio affettuoso ed appassionato è ispirato,
secondo lo stesso Beethoven, alla scena della tomba del Romeo e Giulietta shakesperiano.
L'intensità della frase, dolorosamente ripiegata nell'ambito della tonalità minore, assume una
espressione carica di pathos, a cominciare dal tema iniziale svolto dal primo violino sulla
pulsazione sommessa degli altri tre strumenti. La parte centrale del secondo tema presenta
sfaccettature timbriche diverse: i temi si impennano talvolta in robusti crescendo, mentre il
dialogo a quattro tende ad evidenziare il primo violino e il violoncello, lasciando al secondo
violino e alla viola un ruolo lievemente subordinato. Segue l'Allegro molto segnato da una
vivacità di stampo haydniano. Non si tratta del minuetto tradizionale e neppure dello scherzo
beethoveniano in piena regola, anche se l'insistente gioco di staccato-legato denuncia,
specialmente nel Trio, accenti umoristici che diverranno più marcati in certe pagine dei
Quartetti futuri. L'Allegro finale presenta una notevole spigliatezza ritmica, si irrobustisce
nella decisa verticalità di passaggi all'unisono e si distende tra piacevoli armonie di
settecentesca eleganza.
Il gruppo dei sei quartetti op. 18 venne pubblicato nel 1801 a Vienna dall'editore Mollo.
L'ordine della pubblicazione non rispettava però quello in cui essi erano stati composti; dagli
studi compiuti sui quaderni di abbozzi beethoveniani si ricava che il Quartetto in fa maggiore
fu scritto per secondo. Ad esso venne destinato il primo posto su consiglio, pare, del violinista
Ignaz Schuppanzigh, che fu anche tra i primi ad eseguirlo. La scelta era giustificata dai motivi
di immediata presa che il quartetto in questione poteva avere sul pubblico sia per la
costruzione del suo primo tempo che per la drammatica atmosfera del tempo lento.
Mentre sono andati dispersi gli autografi dei sei quartetti, quello in fa maggiore ci è stato
trasmesso in una versione in "bella copia" che il musicista inviò in regalo a Karl Amenda nel
giugno del 1799. Due anni dopo Beethoven pregò quest'ultimo di non far circolare
quell'esemplare poiché vi aveva introdotto alcune modifiche; si tratta di dettagli compositivi di
un certo rilievo, anche se non modificano radicalmente l'impianto del lavoro.
La decisione di raccogliere in un gruppo di sei la sua prima opera quartettistica non era per
Beethoven immotivata: il precedente illustre e immediato era infatti costituito dalle raccolte
haydniane per lo più nel medesimo numero, alle quali già da allora si guardava a Vienna come
ad esempi supremi in questo genere compositivo. Per quanto riguarda l'itinerario biografico
beethoveniano è anche opportuno sottolineare la dedica dell'opera 18 al principe Lobkowitz,
esponente di punta di quei circoli nobiliari cui il musicista giunto da Bonn si era rivolto come
ai propri naturali referenti. Scopo evidente dei quartetti del 1801 era quello di dimostrare al
pubblico come Beethoven si fosse pienamente impadronito della tecnica costruttiva di un
genere che proprio nei lavori di Haydn e di Mozart aveva assunto un ruolo fondamentale per
lo stile classico. Essi sono dunque alquanto fedeli a quella tradizione che più tardi lo stesso
Beethoven avrebbe messo in crisi e risentono assai meno di apporti personali di quanto accada
nelle coeve sonate per pianoforte.
Elementi di novità esistono tuttavia in particolare proprio nei primi due tempi del Quartetto in
fa maggiore che apre la raccolta. L'idea principale dell'Allegro con brio iniziale sarebbe per
alcuni aspetti piaciuta ad Haydn: essa non è infatti un "gesto" melodico pregnante, ma
piuttosto una figura ornamentale (una "turn figure" la definisce Kerman) che consiste in una
sorta di gruppetto sulla tonica fa. Il primo tempo è pressocchè interamente costruito su questo
minimo materiale, sottoposto ad un incessante lavorìo armonico, melodico e ritmico, mentre
spazio assai minore ha nello sviluppo la seconda idea, alla dominante, che pure ha un carattere
melodico maggiormente definito. Nel corso dell'intero tempo, inoltre, lo svolgersi del discorso
conosce alcune evidenti pause di un'intera battuta che ne sottolineano con forza drammatica i
principali momenti.
Dopo uno Scherzo con regolare Trio (entrambi bipartiti e con da capo) che vale a risollevarci
l'animo dopo la tragedia, il quartetto si conclude con un finale, in forma di rondò-sonata che
equivale, quanto a durata, ai due primi movimenti, senza ovviamente eguagliarne le pur
diverse qualità compositive.
https://www.youtube.com/watch?v=zksWsL1GciI
https://www.youtube.com/watch?v=TPk0Gv3LBpA
https://www.youtube.com/watch?v=eaLLXbPxwvY
Allegro
Adagio cantabile (do maggiore)
Scherzo. Allegro
Allegro molto, quasi Presto
Nel 1798, un anno dopo la composizione dei Quartetti op. 76 di Haydn, Beethoven iniziava i
primi abbozzi di quelli che sarebbero diventati i sei Quartetti op. 18, terminati nel 1800 e
pubblicati nel 1801. Precedono i Quartetti op. 18, nel catalogo beethoveniano, i generi del trio
per pianoforte (op. 1, del 1793-94), del trio per archi (op. 9, del 1796-98), della sonata per
pianoforte (op. 2, del 1794-95), della sinfonia (del 1799-1800), del concerto (op. 15 del 1798).
Non è certamente un caso che quello del quartetto fosse l'ultimo grande genere strumentale
affrontato dal compositore che si era prepotentemente affermato nella Vienna di fine secolo
come il più autentico erede di Mozart e Haydn. Il genere del quartetto era considerato il più
complesso e nobile fra quelli strumentali. La splendida fioritura quartettistica di Haydn e
Mozart aveva già portato il genere a una perfezione formale e a una complessità strumentale
che rendevano insieme temibile e inevitabile il confronto.
La tonalità di sol maggiore, propria del Secondo Quartetto della raccolta, è spesso impiegata
da Beethoven per situazioni scherzose e di capriccioso umorismo. Anche l'Allegro iniziale del
Quartetto non fa eccezione, svolgendosi in una dialettica di garbati dialoghi che gli attribuì
l'appellativo, invero poco felice, di "quartetto dei complimenti"; così il primo tema si articola
in tutta una serie di semifrasi sospirose e il secondo non contraddice questa ambientazione.
Tutto il movimento vede il prevalere del fraseggio del primo violino, anche se non mancano
momenti di scrittura più complessa, come il mirabile sviluppo, che scivola impercettibilmente
nella ripresa. Come tempo lento troviamo un Adagio cantabile in tre sezioni A-B-A: una
contemplativa melodia del primo violino, cui si contrappone un fittissimo Allegro animato da
corse di semicrome; la riproposta della melodia violinistica è riccamente fiorita. Il modello
haydniano è particolarmente evidente negli ultimi due movimenti; uno Scherzo brillantissimo
e arguto, con un Trio ancora quasi interamente dominato dal primo violino; e un finale dal
breve tema "popolare" intonato dal violoncello cui rispondono tutti gli strumenti. Questo
refrain si alterna con episodi complessi ma non nettamente contrapposti, secondo una logica di
grande scorrevolezza.
Arrigo Quattrocchi
https://www.youtube.com/watch?v=ZR5oBlRutLQ
https://www.youtube.com/watch?v=r66TqJ8qR24
https://www.youtube.com/watch?v=4PIaK78CvgQ
Allegro
Andante con moto (si bemolle maggiore)
Allegro
Presto
I Quartetti per archi di Beethoven sono complessivamente sedici, più la Grande fuga che in
origine costituiva il finale dell'op. 133. Secondo un criterio non solo cronologico, ma di
valutazione critica, accettato in linea di massima dagli studiosi della musica beethoveniana, i
Quartetti si possono classificare in tre gruppi distinti: i sei Quartetti dell'op. 18 (1798-1800),
che risentono l'influenza del modello haydniano e mozartiano; i Quartetti del secondo periodo
e della maturità, raggruppati nell'op. 59, n. 1-3, (1805-1806), nell'op. 74 (1809) e nell'op. 95,
(1810); e infine negli ultimi Quartetti scritti tra il 1822 e il 1826, comprendenti le op. 127, 130,
131, 132, 133 e 135. In questi tre momenti della produzione quartettistica si riflette tutta la
parabola artistica del compositore, dalla fase iniziale dell'op. 18, quando è alla ricerca dì uno
stile personale e si tormenta per raggiungere la più aderente espressione del proprio io
interiore fino alle più ardite soluzioni armoniche e formali racchiuse nelle ultime opere
cameristiche beethoveniane. In più, nel Quartetto per archi, il genere che il musicista
predilesse e coltivò intensamente insieme alla Sonata per pianoforte, l'artista racchiuse i suoi
pensieri più intimi e riservati, così da toccare spesso la forma del soliloquio. Non per nulla
Paul Bekker, uno dei più documentati biografi del maestro di Bonn, così scrive nell'esaminare
la struttura e la fisionomia dei vari Quartetti, specie quelli appartenenti al cosiddetto terzo
stile: «Questa musica da camera per strumenti ad arco è veramente l'asse della psiche creativa
di Beethoven, intorno al quale tutto il resto si raggruppa a guisa di complemento e di
conferma. Nei Quartetti si rispecchia tutta la vita del musicista, non sotto l'aspetto di
confessione personale, quasi di diario, come nell'improvvisazione delle sonate, non nella
grandiosa forma monumentale dello stile sinfonico, bensì nella contemplazione serena, che
rinuncia all'aiuto esteriore della virtuosità e alla monumentalità delle masse sonore
dell'orchestra e si limita alla forma, semplice e priva di messa in scena, di colloqui tra quattro
individualità che tra di loro si equivalgono».
I sei Quartetti dell'op. 18 furono pubblicati nel 1801 e dedicati al principe Lichnowsky, che li
apprezzò molto dopo averli ascoltati, tanto da assegnare al compositore 600 fiorini annui e
regalargli anche quattro preziosi strumenti ad arco: un violino e un violoncello di Guarneri
costruiti a Cremona fra il 1712 e il 1718, un secondo violino di Nicola Amati fatto nel 1667 e
una viola di Vincenzo Ruger costruita nel 1690. Il terzo Quartetto in re maggiore è
cronologicamente il primo dell'op. 18, dato che i suoi schizzi, secondo alcuni esegeti dell'opera
beethoveniana, risalgono al 1798. Esso è improntato ancora allo spirito settecentesco, sulla
linea della tradizione di Haydn e di Mozart, come è stato già sottolineato: il tessuto sonoro è
particolarmente trasparente e l'Allegro, aperto da una sognante melodia del primo violino,
sembra voler recuperare un ideale di pura e disincantata cantabilità. In questo caso Beethoven
cerca di isolare la voce del primo violino, lasciando agli altri strumenti una semplice funzione
di rincalzo, secondo una consuetudine che risale allo stile galante. Tutto scorre con limpida
omogeneità espressiva, ancora lontana da qualsiasi impronta dialettica e a forti chiaroscuri,
così tipica delle composizioni successive del musicista. L'Andante con moto può definirsi una
tranquilla conversazione a quattro, nel pieno ossequio al modello reso perfetto e consacrato dai
suoi predecessori. Di gusto mozartiano è anche l'Allegro del terzo tempo in tre quarti che
funge da minuetto e recupera nel Trio il carattere elegante e scorrevole del primo movimento,
senza lasciare intravedere il travolgente vitalismo e la vivacità umoristica e brillante, tanto
emblematici nella costruzione degli scherzi beethoveniani. Il Presto finale è un tempo quasi di
tarantella tra i più riusciti in quel periodo creativo dell'artista, oltre che somigliante all'ultimo
movimento della violinistica "Sonata a Kreutzer". Verso la fine della prima parte una entrata
improvvisa in fortissimo fa pensare ugualmente al ritmo della Quinta Sinfonia, mentre la
ripresa viene elaborata secondo quel procedimento di dissolvimento e di richiamo tematico,
così tipico dell'inventiva di Beethoven.
Beethoven iniziò i primi abbozzi di quelli che sarebbero diventati i sei Quartetti op. 18 nel
1798, quando Mozart era scomparso da sette anni e Haydn aveva appena portato a termine i
suoi Quartetti op. 76; la raccolta dei sei Quartetti verrà terminata nel 1800 e pubblicata nel
1801. Se i sei Quartetti dedicati a Haydn erano stati per Mozart «il frutto di una lunga e
laboriosa fatica» (come recita la lettera di dedica dell'autore più giovane a quello più anziano),
anche Beethoven deve avere faticato non poco su queste sei partiture. Il manoscritto del
Quartetto in fa maggiore op. 18 n. 1 reca la data del 25 giugno 1799, ma non a caso due anni
più tardi, il 1° luglio 1801, il compositore poteva scrivere all'amico Amenda, a cui aveva
dedicato il manoscritto: «Mi raccomando di non passare ad altri il tuo Quartetto, al quale ho
apportato alcune modifiche sostanziali. Soltanto ora ho imparato come si scrivono i quartetti».
Anche il Quartetto in do minore op. 18 n. 4, ebbe una gestazione travagliata; e le varie
partiture vennero poi pubblicate in un ordine diverso rispetto a quello di effettiva stesura, che
vide nascere in successione i quartetti nn. 3, 2, 1, 5, 6, 4. L'edizione a stampa fu dedicata al
principe Joseph Max Lobkowitz, uno di quegli aristocratici che protessero Beethoven e che,
negli anni seguenti, si sarebbero impegnati a garantirgli una pensione vitalizia.
Precedono i Quartetti op. 18, nel catalogo beethoveniano, i generi del trio per pianoforte (op.
1, del 1793-94), del trio per archi (op. 9, del 1796-98), della sonata per pianoforte (op. 2, del
1794-95), della sinfonia (del 1799-1800), del concerto (op. 15 del 1798). Non è certamente un
caso che quello del quartetto fosse l'ultimo grande genere strumentale affrontato dal
compositore che si era prepotentemente affermato nella Vienna di fine secolo come il più
autentico erede di Mozart e Haydn.
Data l'ambiziosità dell'obiettivo, più che a esibire le sue capacità di innovatore il compositore
si impegnò a mostrare di saper seguire le regole del «ben comporre». Di qui anche la scelta di
Beethoven, già autore di opere rivoluzionarie di guardare al passato per le sue prime prove
quartettistiche. Non vengono meno il rispetto del principio dell'elaborazione tematica, o la
scrittura «concertante e obbligata». Tuttavia non verso la recentissima ricerca coloristica
dell'op. 76 di Haydn si volse l'autore, e nemmeno verso la perfezione formale dei «Quartetti
Haydn« di Mozart, ma piuttosto verso la solidità costruttiva dei quartetti di Haydn degli anni
Settanta del secolo, e verso la cantabilità dei Quartetti prussiani di Mozart; dunque verso una
scrittura complessivamente meno sofisticata. Con il gruppo dei sei Quartetti op. 18 insomma il
compositore segnò la sua dipendenza e la sua autonomia da questi modelli, rielaborati con
l'esuberanza propria del giovane Beethoven, che implica la generosità e l'accumulo quasi
pletorico dei materiali tematici, la tendenza al contrasto come principio formale.
Il Quartetto in re maggiore op. 18 n.3 è, come si è detto, quello che venne scritto per primo; e
forse a causa di questa primogenitura gli è stato assegnato in genere un ruolo di maggior
attaccamento alla tradizione, la qual cosa è vera solo in parte. Troviamo in questa partitura, da
una parte, una scrittura che vede il prevalere del primo violino, e che quindi non è
perfettamente equilibrata, nonché una melodiosità di stampo mozartiano, ma anche, dall'altra,
una serie di arditezze che appaiono pienamente personali. Così l'Allegro iniziale appare di
solidissima costruzione, ma ciascuno dei due temi presenta una qualche originalità. La lunga e
sinuosa melodia che funge da prima idea, e che viene intonata dal primo violino, ha un
carattere dinamico, poiché si presenta nell'armonia di dominante e non in quella di tonica
(l'effetto è insomma come se il movimento, anziché avere un inizio preciso, proseguisse un
discorso iniziato altrove; tecnica che Beethoven aveva già impiegato nell'apertura della Prima
Sinfonia). La seconda idea (intonata insieme dai quattro strumenti con spostamenti d'accento)
si presenta in una tonalità, una regione sonora, diversa da quella delle regole classiche (do
maggiore anziché la maggiore) facendo fluire il discorso su percorsi imprevedibili e ricchi di
improvvise trascolorazioni armoniche. Lo sviluppo, piuttosto breve, parte da una variante
minore del primo tema e conduce a una riesposizione più sintetica; la coda alterna il riassunto
dei due temi principali.
Ambizioni anche maggiori sono quelle del secondo movimento, Andante con moto, che bene
illustra l'ambito sofisticato e la considerazione speculativa attribuita alla musica per quartetto.
Beethoven gli ha conferito non solo un'ambientazione pensosa e intimistica (sostenuta
timbricamente dal fatto che il secondo violino intona il tema sulla quarta corda), alleggerita
dalla grazia melodica e dai pizzicati del secondo tema, ma soprattutto una ideale parità dei
quattro strumenti, impegnati in un canto polifonico estremamente compatto e ricco di interni
rimandi e corrispondenze; si segnalano anche le peregrinazioni armoniche della sezione dello
sviluppo, che approda direttamente al secondo tema. Per quanto breve, lo Scherzo è assai
prezioso, non solo nella contrapposizione fra la prima sezione - un canto gioviale ravvivato
dalle improvvise sospensioni e dalle modulazioni lontane - e quella del Trio, dove ondeggiano
le ombre del modo minore e le figurazioni fantastiche pre-mendelssohniane, ma anche una
riesposizione dello Scherzo interamente riscritta, con diversa disposizione delle parti. Il finale,
Presto, è un movimento in forma sonata, una sorta di giga, un moto perpetuo in 6/8,
magistralmente condotto, per la inesauribile ricerca di soluzioni strumentali, dalla giocosa
contrapposizione di due voci contro due, all'inseguimento, ai bruschi scarti dinamici, al
contrasto di sonorità all'inaspettato spegnimento del pianissimo conclusivo.
Arrigo Quattrocchi
https://www.youtube.com/watch?v=XqLkbg62dLg
https://www.youtube.com/watch?v=KtSxOmt5QP8
https://www.youtube.com/watch?v=7YAFt1ALOGI
I sei Quartetti op. 18 furono scritti tra il 1798 e il 1800 e pubblicati a Vienna dall'editore Mollo
nel 1801 con il titolo francese di "Six quatuors pour deux violons, alto e violoncello, composés
et dédiés a S.A.M. le Prince régnant Franz Joseph Lobkowitz", uno dei più influenti amici del
musicista, che li apprezzò molto dopo averli ascoltati, tanto da assegnare al compositore 600
fiorini annui e regalargli anche quattro preziosi strumenti ad arco: un violino e un violoncello
di Guarnieri costruiti a Cremona fra il 1712 e il 1718, un secondo violino di Nicola Amati fatto
nel 1667 e una viola di Vincenzo Ruger costruita nel 1690. La cronologia dei Quartetti non
corrisponde però all'ordine di pubblicazione. Secondo quanto risulta dagli abbozzi oggi
conosciuti, il primo ad essere compiuto sarebbe stato il terzo; verrebbero poi il primo, il
secondo, il quinto e il sesto. Alla composizione del quarto, del quale mancano gli schizzi, non
si può assegnare un periodo rigorosamente preciso.
In particolare si può dire che il Quartetto in do minore, è scritto nella tonalità preferita da
Beethoven in quel periodo di tempo. Infatti sono in do minore il primo Trio dell'op. 1, il Trio
per archi op. 9 n. 3, la Sonata per pianoforte op. 10 n. 1 e la Sonata per pianoforte op. 13,
conosciuta universalmente come "Patetica".
Il primo movimento (Allegro, ma non tanto) è costituito da due temi che si rincorrono fra di
loro, ma non in senso dialettico. Anzi, affiora un tono distensivo e consolatorio da cui emerge
una frase cantabile del primo violino su uno staccato del violoncello, quasi ad indicare una
imitazione dello stile di Haydn. L'Adagio viene sostituito da un Andante scherzoso quasi
Allegretto, che, dopo la rituale esposizione, presenta uno sviluppo in forma di fugato. Il
Minuetto ripropone la tonalità di do minore e passa al la bemolle nel Trio. Il Finale contiene
ben sette esposizioni del materiale tematico, con due episodi secondari. La sesta esposizione
ha un carattere fortemente contrappuntistico, pur tra piacevoli armonie di settecentesca
eleganza.
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
Il Quarto Quartetto è impostato nella tonalità di do minore che, secondo una interpretazione
retorica, viene riservata da Beethoven all'esposizione di conflitti drammatici. Probabilmente
proprio la patina patetica ha guadagnato al Quartetto una netta celebrità all'interno del gruppo
dell'op. 18; nonostante questo, la tecnica di scrittura, che mette in netto risalto il primo violino,
è fra le meno "progressive" di tutta la silloge. L'Allegro non tanto iniziale si svolge secondo
quella dialettica di contrasti in cui si può riflettere quel conflitto di princìpi («implorante» e
«di opposizione») teorizzato dall'autore. Così il primo tema si delinea affannoso, mentre il
secondo, in maggiore, si contrappone a quello; e forti contrasti sono anche nello sviluppo,
mentre la ripresa mantiene il secondo tema nel modo maggiore.
Con il finale torniamo al gioco delle antitesi; si tratta di un rondò guidato da un refrain di
sapore vagamente zigano che si alterna con episodi nettamente contrastanti; ma tali contrasti
non mirano qui al patetismo bensì ad acuire l'ironia del tema "esotico", secondo una prassi
haydniana poi poco frequente nell'opera quartettistica beethoveniana, che, dopo una pausa di
maturazione, si volgerà nel 1805 verso i traguardi ambiziosi e personalissimi dei tre Quartetti
op. 59.
Arrigo Quattrocchi
Guida all'ascolto 3 (nota 3)
La tensione non dà luogo, ora, a un movimento lento (il Quartetto ne è del tutto privo) che
rappresenti un'oasi lirica: in sua vece lo Scherzo (Andante scherzoso quasi Allegretto). Come
già nel quartetto mozartiano, la scrittura qui sembra svuotare il movimento del suo originario
significato: il tema principale è presentato con la tecnica del fugato, e il contrappunto pervade
del resto tutto lo Scherzo. Il movimento non tiene fede alla sua denominazione nemmeno per
altre caratteristiche: mancano, innanzitutto, la velocità e il deciso ritmo ternario accentuato, al
posto dei quali troviamo un gioco meccanico (pianissimo e staccato è scritto in partitura), il
battito costante di un orologio o di un metronomo di Mälzel, senza che il discorso venga
increspato da troppe scosse. Ancora più notevole è il fatto che al posto del consueto schema
ternario, con Trio, Beethoven opti per una regolare (e più complessa) forma sonata, con estese
sezioni elaborative.
L'ultimo movimento (Allegro) è impostato come un tradizionale rondò e segue uno schema
semplice, nel quale a un tema principale si alternano episodi divaganti. Si tratta di una pagina
leggera e veloce, nella quale risuonano accenti della musica gitana o ungherese, accattivante e
di grande incisività. Efficace, nella sua semplicità effettistica, la turbinosa conclusione con la
ripresa, in tempo velocissimo, del tema principale e una breve coda.
Claudio Toscani
https://www.youtube.com/watch?v=KPaJ4vf2uYs
https://www.youtube.com/watch?v=Jbi09i3iPoo
https://www.youtube.com/watch?v=EZoE2WA89HU
Allegro
Minuetto
Andante cantabile con variazioni (re maggiore)
Allegro
Il Quartetto in la maggiore occupa una posizione di rilievo per due ordini di motivi: primo
perché è parte di un corpus (i sei Quartetti dell'op. 18) e va letto in quanto tale, secondo per le
relazioni che intercorrono tra quest'opera e la produzione coeva. Tra la fine del Settecento ed i
primissimi anni dell'Ottocento, infatti, la composizione di quartetti a Vienna si era molto
intensificata: ricordiamo, solo a titolo di esempio, la produzione di Mozart con i sei Quartetti
dedicati ad Haydn (1785) ed i seguenti, nonché le opere 71, 74 e 76 dello stesso Haydn,
successivi al lavoro di Beethoven sui primi quartetti (l'opera 77, addirittura, fu pubblicata
l'anno dopo l'op. 18 di Beethoven). Anche se i quartetti di Haydn e Mozart avevano stabilito
uno standard verso cui solo pochi musicisti potevano spingersi, il quartetto era divenuto un
genere al quale ogni compositore doveva pagare il proprio tributo se voleva essere considerato
nel mondo di allora. Le norme stabilite dai quartetti di Haydn si possono così riassumere:
a) trattamento dei quattro strumenti come personalità individuali secondo l'indicazione di
Goethe che vedeva nel quartetto d'archi «un discorso tra persone ragionevoli».
b) Una struttura formale basata sulla successione di quattro movimenti, ognuno con delle
precise caratteristiche: formali e motiviche per il primo, emozionalmente profonde nel tempo
lento (di solito il secondo), movimento di danza stilizzato per il terzo (lo Scherzo), mentre il
finale serviva come controparte del primo nello sviluppare le tensioni e nel risolverle.
c) Singoli movimenti caratterizzati da regole cristallizzate: forma-sonata per il primo, forma-
sonata o sonata-rondò per l'ultimo, canzone o tema con variazioni per il movimento lento,
forma ternaria (ABA, combinata con elementi di sonata) per il Minuetto o Scherzo.
Una convenzione era anche quella di pubblicare un'opera comprendente sei quartetti con varie
caratteristiche: il più importante, da un punto di vista formale e di contenuti, doveva stare
all'inizio, al centro era "ben visto" un lavoro in tonalità minore, e per concludere una pagina
luminosa. Tutti questi elementi facevano sì che, all'inizio dell'Ottocento, il quartetto venisse
considerato la forma più significativa di musica strumentale, un genere di alto valore
intellettuale e spirituale ma accessibile anche a vari livelli. Erano gli anni in cui una serie di
giovani compositori (come Eybler, Fraenzil, Pleyel ed altri) esordivano nel mondo della
musica con l'opera prima, un gruppo di sei quartetti appunto; Beethoven, invece, attese un
certo lasso di tempo prima di presentarsi al pubblico con il quartetto. Aveva pianificato il suo
successo professionale con molta accortezza, facendosi conoscere prima come pianista e
compositore per pianoforte e improvvisatore, poi con musica da camera col pianoforte (i Trii
op. 1) e poi i Trii per archi op. 9 che, in quest'ottica, possono essere anche letti come una sorta
di studio preliminare ai Quartetti op. 18. Questi ultimi sembrano essere stati commissionati dal
principe Lobkowitz che compare come dedicatario, e composti in un arco di tempo che va
dall'estate del 1798 all'estate del 1800; furono pubblicati secondo un ordine diverso da quello
di composizione perché, trattandosi del suo "biglietto da visita" per la società viennese,
Beethovcn volle rispettare tutti i canoni imposti a questo genere. Così il più "moderno" (quello
in fa maggiore) divenne il primo, quello in do minore (l'unico in tonalità minore) venne posto
al centro, e così via. Quello dei sei Quartetti era un progetto molto ambizioso che il
compositore persegui con tenacia segnando i primi confini con i predecessori; Beethoven
manipolava uno spettro di possibilità molto ampio che va dal movimento iniziale del primo
Quartetto (il primo studio esaustivo sulla saturazione motivica), all'ultimo movimento del
sesto (che definiremmo "visionario" se non conoscessimo gli esiti di questo genere),
dimostrando di aver raggiunto un punto di svolta nella storia dei quattro archi e forse anche
dello stesso classicismo viennese.
Su un tessuto che privilegia la coincidenza di due strumenti alla volta, nel Minuetto la viola si
ritaglia una posizione speciale con un ampio passo cantabile nonché un'ardita modulazione
proprio al centro del movimento; si sottolinea così la pregnanza timbrica di uno strumento che
solitamente non trova spazio tra le sonorità argentine del violino e il calore del violoncello.
Nel Trio la disposizione strumentale (con violino primo e violoncello che fanno da
accompagnamento a violino secondo e viola) accentua il carattere di danza popolare austriaca
che emerge dal tema e da quegli sforzati sul tempo debole della battuta.
Il tema dell'Andante cantabile non ha delle caratteristiche che lo rendano particolare: è statico
sia in senso melodico, sia per il ritmo, sia per l'armoina, ma ciò si spiega con la necessità di
farne un tema adatto a delle variazioni (cinque in questo caso) che Beethoven alterna tra
semplici e complesse secondo il modello abituale. Allo stile contrappuntistico della prima,
seguono le fioriture ornamentali del primo violino nella seconda; la terza è caratterizzata da un
ostinato di note veloci del secondo violino (affiancato talvolta dal primo) che crea uria sorta di
fascia ritmico-timbrica sulla quale si svolge la melodia affidata a viola e violoncello. Nella
quarta variazione ricompare con chiarezza il tema, armonizzato però in modo nuovo, e nella
quinta, infine, ritorna quell'atmosfera popolareggiante che avevamo già notato nei precedente
Trio. Violino primo e violoncello operano una sorta di accompagnamento (con pesanti sforzati
sui tempi deboli della battuta) mentre violino secondo e viola presentano ancora una volta il
tema ornato. La coda della quinta variazione è di proporzioni estremamente sviluppate ed è
introdotta da una modulazione che, se da un lato è caratteristica della musica di Beethoven e
dell'epoca, non mancherà di stupire l'orecchio per la forza centrifuga e la sensazione (anch'essa
beethoveniana) che si apra una porta su un nuovo sviluppo. L'Allegro finale, in forma-sonata
come il primo movimento, è costruito interamente su un intervallo di quarta che appare
talvolta come piccolo inciso tematico (primo tema, quasi di "stile galante"), talaltra nella sua
solenne semplicità (secondo tema) e poi nascosto tra melodie cromatiche (nella transizione tra
primo e secondo tema). In questo ultimo movimento viene alla luce in modo evidente che le
relazioni tra i temi non riguardano tanto lo "sviluppo motivico" (ossia uri tema che nasce da un
altro), quanto un intreccio di relazioni che è il frutto di un vero e proprio calcolo. Scopriamo
così come il compositore lavorava sul materiale, «e senza dubbio, nonostante l'abitudine di
Beethoven di annotare nei quaderni di schizzi idee musicali singole e non di rado rudimentali,
era la raffigurazione intuitiva della totalità che poi si ripercuoteva sui dettagli modificandoli, il
fattore che faceva scattare il processo compositivo» (Dahlhaus).
Fabrizio Scipioni
https://www.youtube.com/watch?v=77-UWEluzJE
https://www.youtube.com/watch?v=wDLrtGVkFKU
https://www.youtube.com/watch?v=qbdHIKG-E7U
I Quartetti per archi di Beethoven sono complessivamente sedici, più la Grande fuga, che in
origine costituiva il finale dell'op. 133. Secondo un criterio non solo cronologico, ma di
valutazione critica, accettato in linea di massima dagli studiosi della musica beethoveniana, i
Quartetti si possono classificare in tre gruppi distinti: i sei Quartetti dell'op. 18 (1798-1800),
che risentono l'influenza del modello haydniano e mozartiano; i Quartetti del secondo periodo
e della maturità, raggruppati nell'op. 59, n. 1-3, (1805-1806), nell'op. 74 (1809) e nell'op. 95,
(1810); e infine negli ultimi Quartetti scritti tra il 1822 e il 1826, comprendenti le op. 127, 130,
131, 132, 133 e 135. In questi tre momenti della produzione quartettistica si riflette tutta la
parabola artistica del compositore, dalla fase iniziale dell'op. 18, quando è alla ricerca di uno
stile personale e si tormenta per raggiungere la più aderente espressione del proprio io
intcriore fino alle più ardite soluzioni armoniche e formali racchiuse nelle ultime opere
cameristiche beethoveniane. In più, nel Quartetto per archi, il genere che il musicista
predilesse e coltivò intensamente insieme alla Sonata per pianoforte, l'artista racchiuse i suoi
pensieri più intimi e riservati, così da toccare spesso la forma del soliloquio. Non per nulla
Paul Bekker, uno dei più documentati biografi del maestro di Bonn, così scrive nell'esaminare
la struttura e la fisionomia dei vari Quartetti, specie quelli appartenenti al cosiddetto terzo
stile: «Questa musica da camera per strumenti ad arco è veramente l'asse della psiche creativa
di Beethoven, intorno al quale tutto il resto si raggruppa a guisa di complemento e di
conferma. Nei Quartetti si rispecchia tutta la vita del musicista, non sotto l'aspetto di
confessione personale, quasi di diario, come nell'improvvisazione delle sonate, non nella
grandiosa forma monumentale dello stile sinfonico, bensì nella contemplazione serena, che
rinuncia all'aiuto esteriore della virtuosità e alla monumentalità delle masse sonore
dell'orchestra e si limita alla forma, semplice e priva di messa in scena, di colloqui tra quattro
individualità che tra di loro si equivalgono».
I sei Quartetti dell'op. 18 furono pubblicati nel 1801 e dedicati al principe Lichnowsky, che li
apprezzò molto dopo averli ascoltati, tanto da assegnare al compositore 600 fiorini annui e
regalargli anche quattro preziosi strumenti ad arco: un violino e un violoncello di Guarneri
costruiti a Cremona tra il 1712 e il 1718, un secondo violino di Nicola Amati fatto nel 1667 e
una viola di Vincenzo Ruger costruita nel 1690.
Nel sesto Quartetto in si bemolle maggiore se i primi due movimenti - un Allegro con brio e
un Adagio ma non troppo - si mantengono nell'ordine di una sobria e disincantata maniera,
comunque riconducibile a una certa convenzionalità, fin dallo Scherzo si prova la confortante
sensazione di trovarsi di fronte a un prepotente bisogno di fare da sé, di rischiare l'originalità
di un'invenzione senza precedenti. Con molta ragione Carli Ballola, nella sua pregevole
monografia beethoveniana, l'individua nello «scontro di due strutture ritmiche diverse: quella
della frase, in sei ottavi, e quella della misura, in tre quarti»; salvo aggiungere che proprio di
qui derivano quegli inquietanti bagliori espressivi che preludono le ben più mature tensioni
romantiche dello Scherzo di Beethoven.
Il genere quartetto occupa una posizione particolare nella produzione di Beethoven. Fra la
sonata pianistica e la sinfonia, il quartetto è il genere scevro da sollecitazioni esteriori. L'estro
della improvvisazione ed il virtuosismo che caratterizza la carriera del pianista compositore
resta un carattere permanente del pianoforte di Beethoven, ed anche al tempo della sordità
totale il pianoforte rimane il mezzo a cui l'artista si affida con maggiore estemporaneità.
L'orchestra è invece per Beethoven il medium retorico per eccellenza, e nel caso di Beethoven
retorica sta per ideologia: la sua orchestra sarà quindi lo strumento del suo pensiero umanitario
e politico, e la reazione d'ascolto non può restare passiva davanti ai contenuti di tale pensiero.
Ma nel quartetto prevale la ricerca della forma ideale, sviluppo della scienza concertante, in
cui i caratteri grezzi della ideologia si dissolvono, e riemergono sotto la specie di un progresso
storico delle forme musicali. Così il quartetto beethoveniano è la voce ultima della Wiener
Klassik, l'apice di una certezza culturale che, appunto per la monumentale evoluzione del
sistema linguistico, assegna a questa, più che ad ogni altra epoca della storia musicale, la
definizione di classica.
I sei Quartetti op. 18 furono composti nel 1800 ed apparvero a stampa in due fascicoli in
questo e nell'anno seguente. A quell'anno risalgono opere tanto diverse come il Settimino op.
20, l'ultimo e migliore omaggio di Beethoven alle mete dello stile galante, il Concerto in do
minore per pianoforte e orchestra (il terzo), con la sua fusione del monumentale e del
virtuosistico, e la Sonata in si bemolle op. 22, ritorno alla gioia di vivere pianistica, dopo i
patetici furori. Il Quartetto in si bemolle maggiore reca alcuni ricordi della sonata nella stessa
tonalità, e difatti per Beethoven la tonalità resta un fattore psicologico vincolante. L'Allegro
con brio di apertura conta fra i più felici di Beethoven. Il tema si distribuisce fra i quattro
strumenti su un ritmo pulsante con un gioco di domande e risposte, ed anche la seconda idea,
col suo affetto cantabile, non spezza la costruzione gioiosa del pezzo. L'Adagio non troppo in
mi bemolle maggiore addita gli sviluppi tecnici del concertante beethoveniano. La concezione
del solo accompagnato è superata dalla serrata partecipazione di tutti gli strumenti alla
variazione del motivo in biscrome di serena andatura alla marcia, in cui è ravvisabile la
ascendenza haydniana. L'arte è eminentemente contrappuntistica con grande varietà di
controcanti. Lo Scherzo è basato sull'ambiguità ritmica del binario e ternario (6/8 o 3/4) con
effetti ritmici stimolanti che travolgono gioiosamente i settecenteschi effetti di sorpresa. Il
breve Trio è un piccolo intermezzo per violino solista. L'introduzione all'ultimo tempo reca il
titolo «La malinconia». Il breve tema esposto pianissimo in distese armonie di terze e seste si
arresta sulle interrogative modulazioni proposte da un gruppetto, ripensamenti passeggeri, che
il delizioso Allegretto dissipa con tutto l'impeto della natura campestre. E se anche due volte la
malinconia torna ad insinuarsi fra lo scorrere danzante del 3/8, essa è ormai soltanto una nube
che non può turbare la natura felice.
Op. 59 n. 1 1806
Quartetto per archi n. 7 in fa maggiore "Razumowsky"
https://www.youtube.com/watch?v=aG89Fdc1jk0
https://www.youtube.com/watch?v=f7vleQm1mg4
https://www.youtube.com/watch?v=CyTbDYlWOxE
Allegro
Allegretto vivace e sempre scherzando (si bemolle maggiore)
Adagio molto e mesto (fa minore)
Allegro
I Quartetti per archi di Beethoven sono complessivamente sedici, più la Grande fuga che in
origine costituiva il finale dell'op. 133. Secondo un criterio non solo cronologico, ma di
valutazione critica, accettato in linea di massima dagli studiosi della musica beethoveniana, i
Quartetti si possono classificare in tre gruppi distinti: i sei Quartetti dell'op. 18 (1798-1800),
che risentono l'influenza del modello haydniano e mozartiano, i Quartetti del secondo periodo
e della maturità, raggnippati, nell'op. 59, n. 1-3, (1805-1806), nell'op. 74 (1809) e nell'op.95
(1810); e infine gli ultimi Quartetti scritti tra il 1822 e il 1826, comprendenti le op. 127, 130,
131, 132, 133 e 135. In questi tre momenti della produzione quartettistica si riflette tutta la
parabola artistica del compositore, dalla fase iniziale dell'op. 18, quando è alla ricerca di uno
stile personale e si tormenta per raggiungere la più aderente espressione del proprio io
intcriore fino alle più ardite soluzioni armoniche e formali racchiuse nelle ultime opere
cameristiche beethoveniane. In più, nel Quartetto per archi, il genere che il musicista
predilesse e coltivò intensamente insieme alla Sonata per pianoforte, l'artista racchiuse i suoi
pensieri più intimi e riservati, così da toccare spesso la forma del soliloquio. Non per nulla
Paul Bekker, uno dei più documentati biografi del maestro di Bonn, così scrive nell'esaminare
la struttura e la fisionomia dei vari Quartetti, specie quelli appartenenti al cosiddetto terzo
stile: «Questa musica da camera per strumenti ad arco è veramente l'asse della psiche creativa
di Beethoven, intorno al quale tutto il resto si raggruppa a guisa di complemento e di
conferma. Nei Quartetti si rispecchia tutta la vita del musicista, non sotto l'aspetto di
confessione personale, quasi di diario, come nell'improvvisazione delle Sonate, non nella
grandiosa forma monumentale dello stile sinfonico, bensì nella contemplazione serena, che
rinuncia all'aiuto esteriore della virtuosità e alla monumentalità delle masse sonore
dell'orchestra e si limita alla forma, semplice e priva di messa in scena, di colloqui tra quattro
individualità che tra di loro si equivalgono».
I tre Quartetti dell'op. 59 sono chiamati anche "Quartetti russi" perché dedicati al conte Andrea
Kyrillovic Rasumowski (1752-1836), ambasciatore russo a Vienna e buon violinista, al quale
si dice che l'autore avesse promesso di inserire in ognuna delle tre composizioni una melodia
popolare russa. Scritti tra il 1805 e il 1806, questi lavori appartengono alla seconda maniera
beethoveniana e gli storici della musica li collocano accanto al Fidelio, alla Quinta Sinfonia e
alle grandi sonate pianistiche, come l' Appassionata e l'Aurora.
La novità dello stile beethoveniano si percepisce infatti sin dall'Allegro iniziale del Quartetto
oggi in programma, con il primo tema esposto dal violoncello sull'accompagnamento vigoroso
degli altri strumenti. Ormai l'autore non si sente più vincolato agli schemi settecenteschi e la
stessa melodia cammina con passo sciolto, quasi a tempo di marcia, come chi vada incontro
all'avvenire con fiducia. Il secondo tema non ha un carattere dialettico, ma sembra evaporare
verso l'alto nei trilli dei due violini, preceduti da armonie per quinte, terze e seste, simili ad
una fanfara di corni. Non manca un rigoroso episodio contrappuntistico, che ricollegandosi ad
elementi del primo tema prepara l'entrata della ripresa.
L'Allegretto vivace e sempre scherzando è sempre originale sotto il profilo formale, perché sta
tra lo scherzo tradizionale, l'allegro di sonata e il rondò. In esso si dispiega quello che viene
definito l'umorismo beethoveniano, costruito sulla diversità degli aspetti linguistici e sulla
imprevedibilità delle loro trasformazioni. Il nucleo psicologico del brano è racchiuso nel tema
sussurato dal violoncello, cui risponde una frase del secondo violino; non mancano altre
melodie di tono più appassionato e romantico. Il culmine del Quartetto è l'Adagio molto e
mesto,vero colpo d'ala d'inventiva beethoveniana. Il ritmo di una lenta marcia funebre (il
musicista scrisse nel suo taccuino sotto lo schizzo di questo movimento: «Un salice piangente
o un'acacia sulla tomba di mio fratello») accompagna i due temi e la sezione centrale, dai quali
scaturisce un episodio molto cantabile, di assorta contemplazione celestiale. Si passa quindi,
senza soluzione di continuità, al brillantissimo finale in cui è incastonato il promesso tema
russo, che chiude l'op. 59 n. 1 in una irrefrenabile esplosione di vitalità.
Se il suonare a quattro con gli archi è da considerare la forma più alta di musica d'assieme
strumentale, i quartetti op. 59 furono a loro volta ritenuti a lungo i migliori di Beethoven,
soprattutto alla fine del secolo scorso, quando perdurava, almeno nella critica corrente,
l'opinione che le ultime opere cameristiche del compositore fossero astruse e che le soluzioni
formali ivi proposte dipendessero in parte dalla sua sordità. Tanto vale dire che nei quartetti
op. 59 è racchiusa l'immagine tradizionale di Beethoven, ma nella sua versione se vogliamo
più raffinata e «spirituale». Tutto ciò ha il suo valore anche oggi, in cui si è pur valutata a
pieno l'importanza dell'ultimo Beethoven. L'opera 59 rimane il Beethoven allo zenith:
perfettamente equilibrato nel raccogliere l'eredità del passato e nell'indicare lo sviluppo futuro
della musica. Nel 1800 egli aveva completato il primo ciclo di quartetti, quelli dell'op. 18. I tre
dell'op. 59 seguirono nel 1806, nel giro dunque di pochi mesi. Essi furono dedicati al Conte
Rasumowsky (dal quale presero anche il nome), ambasciatore dello zar presso la corte
imperiale di Vienna, personaggio mondano, ricchissimo mecenate, amante della musica e
violinista egli stesso. Questi aveva fondato un quartetto (in cui faceva il secondo) che dal
nome del primo violino fu detto Schuppanzigh, e per la sua formazione commissionò a
Beethoven sei lavori con la condizione che essi contenessero temi russi. I quartetti sì ridussero
a tre mentre i temi russi, che furono desunti da una raccolta popolare, compaiono solo nei
primi due. Ma le proporzioni dei tre lavori superano di molto quelli dei quartetti dell'epoca. Il
primo è forse quello più monumentale. Tutti i suoi quattro movimenti obbediscono alla forma
sonata. Il violoncello espone il primo tema e dà il colore a tutto il primo movimento che è
essenzialmente lirico, ma di un lirismo energico e appassionato che non viene meno neppure
quando viene introdotto un passo fugato. Il secondo tempo è forse il più audace dell'intero
quartetto. Non è un semplice scherzo, ma la dilatazione di esso mediante una scrittura che si
basa, come ha notato Carli Ballola, su un discorso «apparentemente svagato, ma in realtà
tenuto saldamente insieme da una logica rigorosa quanto dissimulata». L'adagio molto e
mesto, un continuum di variazioni tematiche, passa direttamente, attraverso una cadenza del
violino, all'ultimo movimento. Questo si apre con l'esposizione del tema russo, il cui sapore di
canto esotico si disperde subito dopo la prima impressione. Beethoven, come gli accadeva
spesso quando lavorava su materiale obbligato (si pensi alle Variazioni su un tema di Diabelli),
ne estrae l'impulso ritmico e motorio che poi esalta in assoluta libertà. Alcune battute di
sospensione (adagio non troppo) introducono alla fine una vigorosa coda (presto).
Bruno Cagli
https://www.youtube.com/watch?v=8ZRjsqZpgag
https://www.youtube.com/watch?v=JNMQEh85hSs
https://www.youtube.com/watch?v=7SvLkZr6wHQ
Allegro
Molto Adagio (mi maggiore)
Allegretto
Presto
Dopo la stesura dei sei giovanili Quartetti dell'opera 18, scritti fra il 1798 e il 1800, l'occasione
di dedicarsi nuovamente al quartetto per archi venne, per Beethoven, dalla commissione di un
personaggio di grande rilievo nella vita cultural-mondana della Vienna di inizio secolo, il
conte Andreas Rasumovskij (1752-1836). Dal 1794 questo aristocratico russo, figlio di un
ufficiale cosacco che aveva avuto una relazione con l'imperatrice Caterina (circostanza che
certo aveva facilitato la carriera della sua discendenza), ricopriva l'incarico di ambasciatore a
Vienna; appunto nella capitale austriaca svolgeva un ruolo di mecenate, promuovendo grandi
trattenimenti musicali nel suo splendido palazzo. Apparteneva alla cerchia di Rasumovskij il
violinista Schuppanzig, amico di Beethoven e primo interprete di tanta parte della sua musica
da camera, e capitava che l'aristocratico, dotato, come si conveniva all'epoca, di una adeguata
preparazione musicale, sostenesse la parte di secondo violino nelle sedute di quartetto; fondò
anzi nel 1806, con Schuppanzig, il violista Franz Weiss e il violoncellista Josef Lincke, un suo
proprio quartetto, che si riunì stabilmente fino a quando, nel 1816, il palazzo dell'ambasciatore
non venne completamente distrutto da un incendio, causandogli ingenti danni finanziari. Non
stupisce dunque che questo personaggio, ammiratore di Beethoven fin dagli esordi del
musicista, gli potesse commissionare un ciclo di Quartetti; né che queste partiture, come
diretto riferimento al destinatario, rechino al proprio interno la citazione di alcuni temi russi,
tratti da una delle tante antologie di melodie popolari, raccolte secondo quella tendenza ad
indagare le culture locali (sia pure con occhi "civilizzati" e viziati da pregiudizi) che si andava
diffondendo; per l'esattezza è verosimile che i temi citati da Beethoven siano stati tratti da una
raccolta di Ivan Pratsch, edita nel 1790. Beethoven scrisse dunque le tre partiture, ovvero i
Quartetti op. 59, nel periodo 1805-1806, per pubblicarle poi un paio d'anni più tardi, con
dedica al committente. Anche se il lasso temporale che distanzia questi nuovi Quartetti da
quelli dell'opera 18 è di appena cinque anni, in realtà molta acqua era passata sotto i ponti
musicali viennesi, e Beethoven in particolare si era lasciato alle spalle quelle partiture, tipiche
dei suoi anni giovanili, incentrate su un gusto intrattenitivo ancora settecentesco, e aveva fatto
eseguire capolavori quali il Terzo Concerto per pianoforte op. 37, la Terza Sinfonia "Eroica"
op. 55, le Sonate per pianoforte op. 53 ("Waldstein") e op. 57 ("Appassionata"), nonché la
prima versione del Fidelio. Ovvio che le premesse di sperimentazione fonica, formale e
concettuale di questa nuova fase creativa dovessero in qualche modo ripercuotersi anche nei
nuovi lavori quartettistici.
Dunque si proietta, sui Quartetti dell'opera 59, la logica dell'esperienza sinfonica, senza che
venga compromessa la specificità cameristica delle composizioni, che anzi trae nuova linfa da
un concetto di "massa" sonora per cui veramente il Quartetto non è più un insieme di quattro
strumenti ma un unico strumento esso stesso. Il Quartetto per archi non viene meno alla sua
scrittura ricercata, alla tecnica dell'elaborazione tematica, ma ingloba piuttosto una serie di
tecniche e di spunti che erano ignoti ai Quartetti dell'opera 18, quali la sobrietà e talvolta
l'indeterminatezza (nella fisionomia e nella funzione) del materiale tematico, la logica più
stringente e consequenziale, dovuta a una concezione della forma musicale e degli accadimenti
che in essa si verificano, come "processo", in cui ogni dettaglio ha una sua necessità all'interno
di un preciso percorso evolutivo. Tali caratteristiche contraddistinguono il secondo Quartetto
sotto il segno di una ambientazione espressiva, segnata dal tono dolente di mi minore. È
proprio guardando alla carica passionale ed intimistica di questo Quartetto che si comprende
come l'opera 59 costituisse una vera pietra di paragone per la generazione di Schumann, che
poteva guardare al mirabile equilibrio di forma e contenuto della partitura. Nell'Allegro
iniziale troviamo un preciso percorso che muove dalla frammentaria e sofferta idea iniziale,
allo spunto sereno della seconda idea, divisa fra violoncello e violino, all'eccitazione della
coda dell'esposizione; lo sviluppo sembra improntato soprattutto al rapido mutare delle
situazioni; e la riesposizione arricchisce ma non contraddice il percorso di lievitazione
dell'esposizione, lasciando alla coda il compito di fungere da anticlimax, e di riportare il
movimento alla situazione espressiva iniziale. Fulcro del Quartetto è comunque il tempo lento
in mi maggiore, Molto Adagio, al quale l'autore premise l'indicazione «Si tratta questo pezzo
con molto di sentimento». La caratteristica mirabile di questo movimento consiste nella
giustapposizione di diverse idee tematiche, che sfociano l'una nell'altra e non sono fra loro in
contraddizione, ma piuttosto illuminano sotto prospettive differenti (il corale, l'animazione
ritmica, lo staccato, il canto purissimo del violino) il medesimo assunto di purezza espressiva;
il ricorso alle ombreggiature armoniche e al modo minore nella sezione centrale vale appunto
a sottolineare maggiormente tale dimensione sublimata nella ripresa. Si giunge così allo
Scherzo, con un malinconico Allegretto che si riallaccia al tempo iniziale, e che si presenta con
il suo ritmo spezzato e l'accompagnamento in contrattempo, gli improvvisi contrasti dinamici e
gli sbalzi ritmici; il contrasto con il trio è nettissimo, poiché troviamo qui il tema russo di
questo Quartetto; tema peraltro reso celeberrimo da Musorgskij nel Boris Godunov e da
Cajkovskij nella Ouverture 1812; qui viene trattato polifonicamente e contrappuntato da uno
scorrevolissimo ritmo di terzine; e calibratissimo è il ripetuto avvicendamento delle situazioni
dello Scherzo e del Trio. Le tensioni di tutto il Quartetto trovano risoluzione nel Finale, un
Presto che costituisce una sorta di corsa frenetica, con un tema scattante del violino sostenuto
da un accompagnamento incalzante degli altri strumenti - e trattato nella continua
trascolorazione fra maggiore e minore - poi contrastato da un'altra idea sospirosa e da altre
idee secondarie, senza però che venga meno l'assunto di base del movimento, il rapido
precipitare nella dimensione di pathos e, di affanno della coda.
Arrigo Quattrocchi
Il gruppo dei tre Quartetti dell'op. 59, pubblicati nel 1808 e tutti dedicati al Conte Andrej
Razumovskij, rappresentano nel corpus beethoveniano un momento di espansione e di
emancipazione, più di quanto non sottintendano una vera e propria svolta. Espansione
significa in questo caso il coraggio di modificare le proporzioni correnti del quartetto d'archi
alle proprie esigenze compositive, lasciando a queste la libertà di espandersi oltre i limiti
dettati dalla tradizione. Emancipazione vuol dire invece attribuire al materiale e alle idee
musicali una forza fecondativa superiore ad ogni preoccupazione stilistica e ad ogni vincolo
d'occasione, come poteva essere la destinazione di una composizione a determinati interpreti o
a un pubblico di dilettanti. I codici formali sono qui dettati dalla forza interna dei temi, non
dipendono da leggi o strutture che prevalgano sull'invenzione. I Quartetti dell'op. 59 sono in
questo senso genuinamente romantici, ma rappresentano pur sempre in Beethoven un
momento di passaggio, una fase intermedia rispetto alla sistemazione di un linguaggio che
tenderà a una maggiore essenzialità. Confrontati con i quartetti d'archi della tradizione, o
anche con i precedenti lavori dell'op. 18, i tre Quartetti "Razumovskij" possiedono proporzioni
decisamente più sviluppate sia dal punto di vista della durata, sia da quello della
configurazione sonora, della spazialità, del virtuosismo che impegna in modo particolare il
primo violino, ma che più in generale estremizza i compiti di tutti gli strumentisti.
Del secondo Quartetto dell'op. 59 colpisce anzitutto il linguaggio armonico: nonostante sia
basato sul mi minore, infatti, Beethoven esce dal tipo di espressività che si riteneva
caratteristica di questa tonalità e gioca anzi su una serie di significativi contrasti. Anziché
adattarsi a un soggettivismo che punta sulla malinconia e sull'intimismo, in altre parole,
Beethoven cerca un'espressione più ampia e per così dire sovrapersonale, fatta di grandi gesti
oratori nei quali i caratteri tradizionali della tonalità di mi minore agiscono come un elemento
di turbativa, come un principio di ambiguità. Già l'inizio è in questo senso emblematico: il
ritmo è quello di una danza, ma il timbro oscuro genera un contrasto dal quale sorge
l'impressione di una fatalità, di un limite che incombe sulla forma in modo più profondo e
radicale di un semplice sentimento individuale. Tutto il movimento è sotto il segno di una
simile dialettica fra la concezione dei temi, la scrittura ritmica e il colore armonico, tanto da
riflettersi in un gioco di luci e ombre che conosce il suo apice nell'ampia sezione dello
sviluppo.
Il carattere della luminosità sembra più deciso nel movimento lento, basato sulla più aperta
tonalità di mi maggiore. Anche in questo caso, tuttavia, l'impressione va arricchita con una
serie di osservazioni che pongano in rilievo gli aspetti meno "eroici" dell'ispirazione
beethoveniana: così nel tema principale può riconoscersi la forma del corale e nella successiva
elaborazione contrappuntistica la memoria di una polifonia che riporta immediatamente a un
clima di edificazione religiosa la cui consistenza è come sempre, in Beethoven, fortemente
problematica e conflittuale. Tale ambiguità può forse riflettersi nella concezione formale del
movimento, che mentre si sviluppa sulla linearità arcaica di una polifonia quasi chiesastica,
pure rispetta in modo rigoroso la distribuzione dei materiali richiesta dalla forma sonata, verso
la quale Beethoven ci attira in modo sotterraneo.
Nello Scherzo si assiste a una pausa distensiva, costruita secondo tratti in fondo convenzionali,
anche se arricchiti da ritmi sincopati che danno al tema principale un carattere piuttosto
originale. Nella sezione del Trio compare una melodia popolare russa che, come già accadeva
nel primo Quartetto dell'op. 59, incarna esplicitamente la dedica del musicista al Conte
Razumosvkij. E nel complesso un movimento di passaggio, una sorta di accentuazione della
tendenza al rischiaramento che si avvertiva già nel passaggio dal primo al secondo tempo, ma
che diventa realmente affermativa solo nel finale, in forma di rondò, nel quale dominano il
senso della danza, la vivacità del ritmo e la ricchezza di un tessuto armonico che varia in
continuazione passando da un colore all'altro.
Stefano Catucci
Durante questo arco di tempo il genio di Beethoven produce alcuni dei suoi massimi
capolavori tra cui l'«Eroica», la «Quinta», il «Quinto concerto in sol maggiore per pianoforte e
orchestra» e il «Concerto in re maggiore per violino». Era naturale, pertanto, che una tanta
spinta d'elevazione nel campo creativo del genio beethoveniano si riflettesse nelle strutture dei
quartetti dell'Op. 59, imprimendo loro un'altezza d'ispirazione e una sapienza costruttiva
personalissime, con conseguente affrancatura da influssi di Haydn e di Mozart, evidenti nei
quartetti dell'Op. 18. La complessità formale (si pensi alla fuga finale del terzo quartetto), la
densità e l'altezza di meditazione (si rifletta sull'Adagio del quartetto n. 2 in mi minore)
costituiscono più che un preannuncio del messaggio eccelso che Beethoven affiderà ai suoi
ultimi quartetti. I quartetti dell'Op. 59 vengono definiti, ordinariamente sinfonici. Una tale
definizione non va interpretata — annota Carli Ballola — «nel senso di una presunta
dimensione orchestrale assunta dallo strumento-Quartetto», ma, piuttosto, «nel senso che
Beethoven trasferì nel quartetto l'imponenza formale, la densità musicale e l'epica eloquenza,
già raggiunte nel dominio sinfonico». In altri termini anche se l'urgenza e l'abbondanza del
fiotto di pensiero musicale tende a sommergere, a travolgere il limitato ambito sonoro
dell'architettura quartettistica, l'essenza e la natura particolare del quartetto non viene mai
tradita o deformata da Beethoven. André Boucourechliev, uno dei più penetranti esegeti di
Beethoven, alludendo alla fuga, «Allegro molto» del terzo quartetto Rasumowsky asserisce
che essa è sinfonica anche «per il suo tempo, concepito attraverso tappe grandiose». Il
quartetto in mi minore, secondo dei «quartetti Rasumowsky» è l'ottavo dell'intera serie dei
quartetti beethoveniani. Nei confronti della serenità idilliaca dell'«Allegro» del quartetto n. 1,
l'«Allegro» del secondo quartetto è caratterizzato da agitazione ansiosa, espressa dalla breve
frase zampillante dai due violenti accordi d'apertura che esplodono con la secchezza di
scariche elettriche. Un secondo tema, anche esso di breve respiro, è improntato, invece, a
distesa serenità. Esso s'espande in figurazioni dinamiche, tra cui emerge un crescendo in forma
sincopata, sorretto da una serie di nutriti accordi degli strumenti inferiori. Lo sviluppo si
dipana complesso e ampio, utilizzando gli elementi dell'esposizione, sempre caratterizzato da
una temperie di inquietudine e di tensione, che si risolve nella ripresa, animata dal veemente
impulso dei quattro strumenti suonati all'unisono. La coda costituisce quasi un secondo
sviluppo più rapido e teso «risolto dall'impetuoso dispiegamento finale» del tema
predominante.
Il secondo tempo, «Molto adagio» ci trasporta con un colpo d'ala in una delle zone più alte alla
quale sia pervenuta l'ispirazione di Beethoven. Enunciato completamente sin dall'inizio in
forma di corale il tema fondamentale esprime contemplazione estatica e concentrata. Esso, a
detta dell'Holz e dello Czerny, sarebbe stato ispirato a Beethoven dal fulgore di una notte
stellata, contemplata nei prati di Baden, vicino a Vienna e che avrebbe suscitato nel maestro
l'idea del movimento (circulato) delle sfere. L'atmosfera di rapimento siderale non è però
costante. Il motivo iniziale, sostenuto da una figurazione trocaica che — come annota Carli
Ballola — quasi battito d'ali ne sorregge la spinta all'elevazione, gradatamente discende dalle
sfere celesti, cedendo il passo a un motivo più disteso e più umano e ad altro più cupo, quasi lo
spirito avverta il tremito e lo smarrimento di fronte all'infinità degli spazi. Tuttavia
l'impressione di estasi prevale, accentuata da un'improvvisa spinta ascensionale dei quattro
strumenti, seguita da un loro progressivo «mancare» che dilata la mistica contemplazione a
latitudini sconfinate, in cui lo spirito individuale si disperde annegando. La chiusa in
«diminuendo» ripropone un senso di pacata calma. Il terzo tempo, «Allegretto», inizia con un
tema ritmicamente concitato e sussultante sugli staccati del primo violino cui fa da ghirlanda
sonora il ritmo d'accompagnamento, in fortissimo, su viola e violoncello.
Colpisce, subito dopo, per il tono pateticamente elegiaco, un frammento di melodia (quasi un
accenno di corale soggiacente alla costruzione sonora lo definisce Giovanni Biamonti) del
violoncello che canta «nella chiave di violino». Il caratteristico e quasi bizzarro motivo
dell'attacco, in contrasto con la serena andatura dell'«Adagio», per il suo dinamismo e la rude
accentuazione ritmica ha spinto qualche studioso di Beethoven (il De Marliave) ad avvertire in
esso un preannuncio delle mazurche Chopiniane. Nel trio (in maggiore) risuona vivace e
trascinante il «tema russo» che riecheggerà, più di mezzo secolo dopo, nel coro di giubilo del
popolo al passaggio dello zar, nel «Boris Godunov» di Mussorgsky. Il tema, conosciuto da
Beethoven in una raccolta di canti russi del Pratsch sarà adoperato da Rimsky Korsakov nella
«Fidanzata dello zar», da Arensky nel Quartetto Op. 35 (1894) e da Wassily Zolotarev nel
Quintetto Op. 19 (1905). Sviluppato in forma di fuga, esso migra dalla viola al secondo
violino, al violoncello, passando, in fine, al primo violino. Risale poi ancora con procedimento
«a canone» dal violoncello agli altri strumenti, finché, in ultimo, si spegne in un tremito
sussurrato.
Il tempo si chiude con l'integrale ripetizione della frase concitata d'apertura, seguita dal breve
canto mesto del violoncello, L'avvio al «Finale» è dato da una improvvisa impennata dei
violini che mettono in circuito una ronda travolgente, cui si affianca un secondo motivo,
anch'esso dinamico, ma quasi venato da ilare giocondità. L'attenzione dell'uditore è attratta dal
loro gioco d'interpenetrazione (i due motivi sembrano sgranare l'uno dall'altro), dalla necessità
fonica da cui scaturiscono riprese e ritornelli, nonché dal ritmo aereo, quasi danza di falene,
impresso a porzioni minime del primo tema. L'ebbro entusiasmo «motorio» che agita il
«Finale» ha spinto qualche critico — il Biamonti — a vedere in esso «una rude marcia di
pifferi e tamburi, trasposta nel complesso d'archi». Alla fine il moto precipita in un «Più
presto» conclusivo dalla stretta irrefrenabile.
Vincenzo De Rito
https://www.youtube.com/watch?v=kB4m2Qan4eM
https://www.youtube.com/watch?v=bq5c9rxkRpc
https://www.youtube.com/watch?v=OWnzalQhH1
La lenta Introduzione che precede l'Allegro vivace è la dimostrazione della maturità raggiunta
da Beethoven nel creare zone di forte sospensione prima che si inneschi la carica propulsiva
principale. Il compositore riesce ad affrancarsi dall'idea dello scorrere del tempo grazie al
dilatamento di accordi dissonanti che, seguendo una vaga progressione, mutano
impercettibilmente natura (armonica) e scopo (l'obiettivo da raggiungere). All'attacco
dell'Allegro, il clima rimane ancora sospeso grazie al tipo di scrittura che lascia il primo
violino da solo in una sorta di recitativo che espande lo spazio fino alla battuta 43 dove
"finalmente" si stabilizza la tonalità di do maggiore. Anche il secondo tema è annunciato da un
piccolo "solo" del primo violino, un gruppo di due quartine di sedicesimi che dominerà
(insieme al frammento di recitativo che apre l'Allegro) tutta la sezione centrale (sviluppo).
Il secondo movimento ha senza dubbio qualcosa di speciale che lo avvicina a certi esiti
"sconvolgenti" dei tempi lenti degli ultimi quartetti e lo allontana dai due corrispondenti degli
altri Quartetti dell'op. 59. Si è parlato di pulsazione ipnotica del ritmo (un 6/8 ossessivo e
implacabile), di indicibile melanconia che trasforma tutti i parametri (armonici e melodici) in
un tessuto uniforme più emozionale che complesso, più immaginativo che razionale. Si ha
l'impressione che tutto cambi anche se nulla si muove: le modulazioni sono frequenti ed
originali ma inserite in un contesto ritmico-melodico che le rende simili a se stesse.
L'ossessività del pizzicato del violoncello scandisce il tempo in modo contraddittorio: da una
parte ce ne da la coscienza segnando i tempi delle battute, dall'altra lo ferma rendendolo
immutabile. La viola, utilizzata sovente nel registro grave, contribuisce in modo fondamentale
alla creazione del colore strumentale dell'intero movimento, una zona nera in un quadro scuro.
Il secondo tema, in do maggiore, crea una sezione senza dubbio contrastante che non serve
però ad alleggerire il clima dell'intero movimento, semmai a rendere più netti i contrasti della
tavolozza espressiva.
Il terzo movimento si pone come una sorta di momento di respiro tra le profondità del secondo
e l'impressionante energia dell'ultimo. Diviene così di grande pertinenza l'aggettivo Grazioso
apposto al Minuetto, elegante nel tema, nel movimento polifonico e nella conduzione
armonica. Il Trio si fa invece più energico, con frequenti e veloci escursioni tra piano e forte,
sforzati sui tempi deboli e rapide scale di viola e violino secondo.
Come spesso accade nella musica che fa largo uso della tecnica contrappuntistica, molti
elementi che appaiono evidenti all'occhio sfuggono all'orecchio. È il caso dell'Allegro
conclusivo che inizia come una fuga di cui Beethoven sfrutta il perfetto e consolidato
meccanismo matematico (la successione delle entrate: viola, violino secondo, violoncello,
violino primo) per dare l'effetto di un'inesorabile e "trionfale" macchina musicale che non si
fermerà più per 429 battute. Gli studiosi hanno tentato di capire se nelle intenzioni dell'autore
c'era un movimento in forma-sonata con un trattamento di fuga o viceversa; ovviamente la
risposta non c'è perché ci troviamo di fronte ad una pagina pensata e costruita come qualcosa
di nuovo che reinterpreta e reinventa forme ormai del passato.
Fabrizio Scipioni
Non stupisce dunque che questo personaggio, ammiratore di Beethoven fin dagli esordi del
musicista, gli potesse commissionare un ciclo di quartetti; né che queste partiture, come diretto
riferimento al destinatario, rechino al proprio interno la citazione di alcuni temi russi, tratti da
una delle tante antologie di melodie popolari, raccolte secondo quella tendenza ad indagare le
culture locali (sia pure con occhi civilizzati e viziati da pregiudizi) che si andava diffondendo;
per l'esattezza è verosimile che i temi citati da Beethoven siano stati tratti da una raccolta di
Ivan Pratsch, edita nel 1790.
Beethoven scrisse dunque le tre partiture, ovvero i Quartetti opera 59, nel periodo 1805-1806,
per pubblicarle poi un paio d'anni più tardi, con dedica al committente. Anche se il lasso
temporale che distanzia questi nuovi quartetti da quelli dell'opera 18 è di appena cinque anni,
in realtà molta acqua era passata sotto i ponti musicali viennesi, e Beethoven in particolare si
era lasciato alle spalle quelle partiture, tipiche dei suoi anni giovanili, incentrate su un gusto
intrattenitivo ancora settecentesco, e aveva fatto eseguire capolavori quali il Terzo Concerto
per pianoforte op. 37, la Terza Sinfonia «Eroica» op. 55, le Sonate per pianoforte op. 53
(«Waldstein«) e op. 57 («Appassionata«), nonché la prima versione del «Fidelio». Ovvio che
le premesse di sperimentazione fonica, formale e concettuale di questa nuova fase creativa
dovessero in qualche modo ripercuotersi anche nei nuovi lavori quartettistici.
Ma, intorno al compositore, anche un'altra rivoluzione si stava compiendo, lentamente ma
ineluttabilmente; quella che, nel volgere di qualche lustro, avrebbe portato la musica dagli
ambiti dei saloni aristocratici a quelli delle sale pubbliche; in particolare un genere musicale
esclusivistico come il quartetto, la cui destinazione agli intenditori significava che i reali
fruitori delle partiture erano gli stessi esecutori, prima ancora che una ristretta cerchia di
uditori, andava spostando la propria funzione, da quella di intrattenimento esoterico a musica
per il pubblico; di qui il fiorire del genere del quatour brillant, in cui uno o più strumenti
primeggiavano sugli altri con chiari fini virtuosistici, guardando in qualche modo a certe
tecniche della musica sinfonica. Ovvio, dunque, che anche Beethoven, sensibile più di quanto
non sia stato in genere rimarcato alle esigenze del mercato, avvertisse la necessità di donare un
maggiore spessore sonoro alle sue partiture cameristiche, senza per questo far venir meno le
ambizioni concettuali e la difficoltà tecnica.
Il risultato di tutto ciò è che si proietta, sui quartetti dell'opera 59, la logica dell'esperienza
sinfonica, senza che venga compromessa la specificità cameristica delle composizioni, che
anzi trae nuova linfa da un concetto di «massa» sonora, per cui veramente il quartetto non è
più un insieme di quattro strumenti ma un unico strumento esso stesso. Il quartetto per archi
non viene meno alla sua scrittura ricercata, alla tecnica dell'elaborazione tematica, ma ingloba
piuttosto una serie di tecniche e di spunti che erano ignoti ai Quartetti dell'opera 18, quali la
sobrietà e talvolta l'indeterminatezza (nella fisionomia e nella funzione) del materiale
tematico, la logica più stringente e consequenziale, dovuta a una concezione della forma
musicale e degli accadimenti che in essa si verificano, come processo, in cui ogni dettaglio ha
una sua necessità all'interno di un preciso percorso evolutivo.
Il terzo Quartetto dell'opera 59 è l'unico dei tre a non possedere un suo «tema russo», e il
primo fra tutti i quartetti di Beethoven ad aprirsi con una introduzione lenta: poche misteriose
battute di armonie sospese, macchiate da trilli coloristici; un sipario sorprendente per il
seguente Allegro vivace, movimento che, dopo la densità concettuale dei quartetti precedenti,
sembra tornare a un oggettivismo di stampo haydniano, dove prevalgono la pulizia del gioco
strumentale, e un regolare avvicendamento dei temi; anche se in realtà è la stessa
configurazione di questi temi (incertezza-affermazione per la prima idea, che si impone poi
nello sviluppo; inseguimento che finisce nel nulla per il secondo) a mostrare il carattere di
studiato manierismo di queste scelte; laddove si intende per manierismo quella ricorrente
attitudine di Beethoven a servirsi di stilemi settecenteschi estraniandoli e dando loro una
rilettura che è in realtà una reinterpretazione.
Con l'Andante con moto quasi Allegretto abbiamo un tempo lento meno impegnativo che nei
quartetti precedenti, una sorta di pastorale malinconica, in la minore e in 6/8, dove, più che
l'avvicendarsi delle varie situazioni, risulta importante il ricorrere per tutto il movimento,
insistito e davvero sinistro, del pizzicato del violoncello. In terza posizione troviamo un
Menuetto. Grazioso, tempo che di per sé conferma le scelte manieristiche, nel senso di cui si
diceva; e non a caso questo minuetto parte con un tema garbato per prendere poi strade
eclettiche ed eterodosse, fra le quali compare lo scattante Trio, incentrato sul primo violino. La
coda del minuetto è in realtà una ombrosa introduzione al finale, che succede senza fratture:
un Allegro molto che è un movimento fugato, basato su un tema frammentario, e quasi
interamente innervato da una fittissima polifonia, solo a tratti interrotta da una scrittura più
dialettica. Un tempo anch'esso brillante ed oggettivo, che conferma le minori ambizioni
concettuali e la maggiore giocosità di questo Quartetto rispetto agli altri dell'opera 59.
Arrigo Quattrocchi
Op. 74 1809
Quartetto per archi n. 10 in mi bemolle maggiore "Delle arpe"
https://www.youtube.com/watch?v=L8daoGM0T_8
https://www.youtube.com/watch?v=n-slC-iVWCs
https://www.youtube.com/watch?v=959hT-d_s8c
I diciassette Quartetti per archi di Beethoven (inclusa anche la Grande Fuga, destinata in
origine al Finale dell'op. 133) si possono dividere in gruppi corrispondenti ai più importanti
periodi dell'evoluzione artistica del compositore. L'op. 18, comprendente sei Quartetti che
vanno dal 1797 al 1801, appartiene alla giovinezza e alla prima maturità del musicista. I tre
Quartetti dell'op. 59 e quello dell'op. 74, in programma stasera, si collocano nella fase centrale
della creazione beethoveniana, comprendente le più significative opere pianistiche e
sinfoniche, senza contare i Trii e il Fidelio. Nel Quartetto op. 95 si avverte nel compositore
una fase di transizione verso traguardi più elevati e complessi sotto il profilo stilistico e
spirituale. Si giunge così ai Quartetti op. 127, op. 130, op. 132 e op. 135, dove il pensiero
speculativo ed estetico di Beethoven tocca vertici espressivi tra i più alti ed emblematici della
storia della musica.
Il Quartetto in mi bemolle maggiore op. 74 fu scritto nel 1809 e pubblicato l'anno successivo
con dedica al principe Franz Joseph Lobkowitz. L'elemento strutturale caratteristico che ha
procurato al componimento l'appellativo di "Quartetto delle arpe", ossia le ricorrenti
figurazioni in pizzicato, appare sin dall'undicesima misura, attraversando la fascia armonica di
accordi ribattuti, per poi dominare lo sviluppo e la ripresa. Il Quartetto si apre con una
introduzione dal tono interrogativo che sfocia poi nell'Allegro, concepito come una risposta
ferma e decisa. A parte il già citato gioco del pizzicato, un particolare rilievo assume la frase
finale della cadenza nella tonalità di si bemolle maggiore. Verso la conclusione del movimento
il primo violino dispiega le ali verso un volo solistico, sul pizzicato degli altri tre strumenti,
poi trasformato in dialogo tra il secondo violino e la viola.
L'Adagio ma non troppo è contrassegnato da una melodia pura e lineare, espressione di uno
stato d'animo di pensosa riflessione realizzato dalle armonie del violoncello e del primo
violino. Il canto si snoda con varietà di accenti e di abbellimenti che passano da uno strumento
all'altro, sino a concludersi in una lenta e dolce dispersione di voci. Il Presto del terzo tempo in
do minore si richiama alla perentorietà tematica della Quinta Sinfonia, quella del destino che
batte alla porta. Successivamente il movimento diventa più vario e colorito e genera un breve
episodio lirico del primo violino. Il Trio (Più presto, quasi prestissimo) ha un piglio energico e
vivace, improntato ad una spensierata freschezza di sentimenti. Il Quartetto si conclude con sei
variazioni su un tema innocentemente liederistico, razionalmente disegnato e sviluppato da
Beethoven nei suoi aspetti melodici, timbrici e ritmici. Prima viene enunciato il tema nelle sue
due parti e decorato nella prima variazione in una serie di imitazioni per moto contrario. La
seconda variazione ha un andamento dolcemente tranquillo, pur rimanendo fedele al periodare
ritmico del tema. La terza variazione denuncia una fisionomia più tagliente e vigorosa nel
contrappunto fra i quattro strumenti. Nella quarta variazione emerge il canto del primo violino,
come un semplice e delicato Lied. La quinta variazione accentua il vigore della trama
armonica. La sesta variazione (Un poco più vivace) si divide in due parti, di cui la seconda si
presenta più libera nei suoi passaggi tonali e imprime al discorso musicale un ritmo più vivace
ed impetuoso, sfociante nell'Allegro delle ultime battute del Quartetto.
Ennio Melchiorre
L'ansia di sperimentalismo che aveva trovato esiti così equilibrati e articolati nel polittico
dell'opera 59 doveva spingere Beethoven a tornare al quartetto d'archi a breve distanza, e
senza una precisa spinta che non fosse quella di una nuova ricerca. Nascono così, fra il 1809 e
il 1810, altri due quartetti, ciascuno dei quali in posizione isolata - op. 74 e op. 95 - che per la
loro attitudine a ripercorrere le conquiste dell'opera 59 nel senso di una maggiore asciuttezza e
sobrietà, con scelte che possono apparire enigmatiche, si qualificano come tipiche opere di
transizione.
Del 1809 è il Quartetto in mi bemolle maggiore op. 74 - pubblicato l'anno seguente con dedica
al principe Lobkowitz - che si apre con una introduzione in Poco Adagio, intima ed espressiva
ma interrotta da improvvisi fortissimo; si giunge così all'Allegro in forma sonata; alla melodia
iniziale fa seguito un pizzicato diviso fra i violini, che ha fatto attribuire al lavoro il suo
nomignolo di «quartetto delle arpe»; ma ciò che colpisce in questa esposizione è soprattutto il
fatto che la sua concisione lascia spazio a un continuo avvicendamento di idee eterogenee,
plasticamente avvicendate con calcolo perfetto. Nello sviluppo, dove riappaiono i pizzicati, si
impone soprattutto il senso modernissimo di fascia sonora che cambia continuamente colore; e
non caso, dopo la riesposizione, ritornano nella coda i pizzicati e l'idea di fascia sonora,
sostenuta dagli arpeggi concertanti del primo violino.
Come tempo lento troviamo un Adagio ma non troppo in forma di rondò, affidato
prevalentemente al ruolo cantabile del primo violino, il cui refrain torna impreziosito ad ogni
nuova apparizione, grazie anche alle mutate figurazioni di accompagnamento e alla nuova
disposizione strumentale; eppure la mirabile successione delle situazioni di questo tempo
assume l'aspetto di una peregrinazione presaga degli enigmatici squarci lirici degli ultimi
Quartetti. Forte è il contrasto con lo Scherzo, un Presto, dove il ritmo di tre note contro una e
la tonalità di do minore si riallacciano alla Quinta Sinfonia; ma il vero senso del movimento
risiede in quel «leggieramente» che l'autore appone come indicazione, e che si traduce in una
sorta di danza macabra, interrotta dal trio Più presto quasi prestissimo, di trascinante
ruvidezza; le riesposizioni sono interamente scritte.
Come già nel Quartetto op. 59 n. 3, la coda dello Scherzo immette direttamente nel finale, che
è in questo caso un Allegretto con variazioni; scelta strana quella di concludere la forma nobile
del quartetto con un movimento che era in genere considerato più facile ed intrattenitivo; ma
proprio in questa apparente contraddizione vediamo la volontà di attribuire contenuti più
complessi alla variazione. La pura cantabilità e il carattere ingenuo del tema sono proprio le
premesse per un suo sfruttamento migliore; la prima variazione è in arpeggi staccati, la
seconda vede emergere l'accompagnamento della viola, la terza contrappone le scale di
violoncello e secondo violino ai contrattempi di viola e primo violino, la quarta torna a una
dolce cantabilità, la quinta gioca sul contrasto ritmico fra il violino e gli altri strumenti, la sesta
è un lento dipanarsi di linee in pianissimo e porta a una coda giocata sulla progressiva
intensificazione ritmica e su un brillante Allegro, concluso umoristicamente in pianissimo.
Come si vede, emerge una organizzazione del materiale di estrema razionalità, lontana da
qualsiasi tentazione di decorativismo.
Arrigo Quattrocchi
Op. 95 1810
Quartetto per archi n. 11 in fa minore "Serioso"
https://www.youtube.com/watch?v=7T34f2gFo58
https://www.youtube.com/watch?v=dSb86IJdrHs
https://www.youtube.com/watch?v=4WWUgtG00hY
Il Quartetto in fa minore op. 95, ultimo dei cosiddetti Quartetti "di mezzo", composto nel 1810
e pubblicato però da Steiner solo nel 1816 (da cui il numero d'opera più "avanzato" rispetto
alle altre composizioni dello stesso anno). Ciò nonostante per diverse caratteristiche il
Quartetto in fa minore precorre chiaramente i futuri orientamenti dell'autore. Il nome di
Quartetto serioso, apposto da Beethoven sull'autografo, si riferisce alla coerente severità del
contenuto espressivo, ma a caratterizzare la composizione sono soprattutto le dimensioni
contenute, l'economia del materiale, la stringatezza del trattamento, l'elisione di tutto ciò che
potrebbe essere superfluo (anche i ritornelli sono aboliti). D'altra parte una sorta di continuità
viene ricercata fra i vari tempi, chiara premonizione del "flusso continuo" proposto nelle
ultime opere.
L'Allegro con brio è aperto da un incisivo tema all'unisono, ripiegato su sé stesso (che si
ripresenta continuamente poi per frammenti sotterranei), e la logica del movimento sembra
consistere nella contrapposizione, senza transizioni, fra blocchi di aggressiva "materia"
musicale all'unisono e frasi di lirica espansività (secondo e terzo tema); il breve e tesissimo
sviluppo si basa sulle trasformazioni armoniche della testa del primo tema, così come sempre
sul primo tema si basa la coda. Segue un Allegretto ma non troppo in forma ternaria; nella
prima sezione al tema discendente del violoncello solo risponde una levigata melodia del
violino, nel registro centrale, accompagnata dagli altri archi, con armonie iridescenti; la
sezione centrale, invece, consiste in un lungo fugato, enigmaticamente interrotto dalla
riapparizione dell'iniziale tema del violoncello; l'ultima sezione riprende la melodia levigata
del violino, nel registro acuto e in dimensioni più estese.
Senza soluzione di continuità segue l'Allegro assai vivace ma serioso, con funzione di
Scherzo, dominato dall'aggressività del ritmo e della dinamica, con un Trio sommesso nel
quale gli arpeggi del primo violino accompagnano una intensa melodia di Corale. Ancora
frammenti del terzo tempo troviamo nel Larghetto espressivo che introduce il finale; questo è
un Rondò-Sonata dal tema affannoso, animato poi da scale cromatiche e accompagnamenti
insistiti; ma la coda converte improvvisamente in un aereo e brillantissimo fa maggiore il
contenuto drammatico di questo Allegro agitato. E questa sconcertante conclusione è in realtà
solamente l'ultima manifestazione di quella logica di contrasti estremizzati che guida lo
svolgimento dell'intera partitura.
Arrigo Quattrocchi
Fra il 1809 e il 1810, mentre la vena del sinfonismo eroico veniva portata avanti dal
«Kaiserkonzert» per pianoforte e orchestra e dalla ouverture per l'«Egmont» di Goethe,
Beethoven ritorna alla indagine intimista con le sonate per pianoforte in fa diesis minore op.
78 e in mi bemolle maggiore op. 81a («Das Lebewohl»). Il Quartetto in fa minore, composto
nel 1810, prosegue l'esperienza di quelle sonate. Il temperamento romantico incide ormai sulle
stesse forme classiche, le modifica e rinnova volta a volta, propone varianti alle strutture
obbligate.
L'Allegro con brio conta fra le più estrose contrapposizioni dialettiche della musica. Il tema
burrascoso dell'apertura è placato ora da arpeggi ascendenti del violoncello, ora da una idea
melodica della viola, vagante per tutte e quattro le voci, ora da un inciso amoroso del violino.
Stupenda la frammentazione di questi canti, non più propriamente temi, ma simboli di
emotività cantabile e distillati di melodia, che nella loro pregnanza scavalcano la logica
formale del primo tempo di sonata. Altri tre princìpi sono raffigurati nelle immagini sonore
dell'Allegretto ma non troppo. Un passo serioso del violoncello, un cantabile sereno del primo
violino, un tema gemente di fuga della viola, ripiegantesi cromaticamente su se stesso. Ed
ancora suprema l'indipendenza delle voci, col violoncello che ora gareggia nel canto sopracuto
col violino e ora riprende le ansie cromatiche nel suo registro più oscuro. Un accordo di
settima diminuita introduce il tema balzante dello scherzo, ed anche qui il contrasto emotivo è
sottolineato da un trio su un tema di corale.
Sette battute di introduzione segnano il trapasso dalla meditazione oscura alla supremazia del
fantastico: un tema di rondò che con i suoi ritorni, sempre variati, fra couplets drammatici o
dialettici, propone una sequenza affine a quella del finale dell'«Appassionata», conclusa nel
dispiegarsi sfrenato di ogni energia.
https://www.youtube.com/watch?v=JVVdMzv02s8
https://www.youtube.com/watch?v=0tBRQSlBkBk
https://www.youtube.com/watch?v=1SZiyqF8G-g
I due Quartetti presentati nel concerto odierno appartengono all'ultimo periodo della
produzione beethoveniana e vengono classificati come "opere tarde", un concetto non privo di
fraintendimenti. Gli studiosi, infatti, non sono concordi nell'analisi, e se alcuni parlano di
estrema soggettività (evidente nell'enfasi lirica di molti temi), altri riscontrano un ripiegamento
nell'oggettività, caratterizzato dal ricorso a sofisticate tecniche polifoniche e
contrappuntistiche. Con estrema lucidità, Dahlhaus afferma che «la modernità delle opere
tarde, correlato dell'assenza di una collocazione precisa nel tempo, è anticipatrice. Ma esse non
fondano una tradizione, di cui sarebbero i primi documenti, e non mettono in moto un
progresso nel senso comune del termine. La loro influenza [...] ha invece inizio dopo un
intervallo che separa l'epoca della loro nascita da quella della loro appropriazione. [...] E la
modernità dell'"opera tarda" non consiste nel fatto che anticipa un pezzo di futuro: la
modernità di Bach, Beethoven e Liszt è stata scoperta solo dopo che il futuro che essa
anticipava era divenuto da tempo presente». L'ambivalenza, il ricorso a strutture non più
evidenti, l'indeterminatezza dei riferimenti melodici, la «spezzettatura rapsodica della
superficie» sono dunque le caratteristiche precipue dell'ultima produzione di Beethoven. La
successione delle idee, dei temi, delle armonie, segue un filo narrativo diverso rispetto al
passato: si ha l'impressione più di un percorso psicologico che non di una "forma" così come
ce l'ha consegnata la storia. «Il compositore ci fa partecipi dell'atto creativo; ci introduce nel
laboratorio delle sue idee» (Sciarrino) e la nostra adesione, come ascoltatori, dovrà essere
dunque diversa, attenta ma soprattutto libera da schemi formali e di giudizio, così da lasciar
irrompere la musica così com'è, viva, cangiante, emozionante.
Circa dodici anni separano il Quartetto op. 95 dall'ultima produzione per archi (le opere 127,
132, 130 - da cui poi ebbe origine la Grande fuga op. 133 - 131 e 135), e lo stimolo fu esterno.
Il principe Nikolas Galitzin (un violoncellista dilettante, ammiratore di Beethoven), in una
lettera del novembre 1822 da Pietroburgo, chiedeva infatti al compositore se avesse voluto
scrivere «uno, due o tre nuovi quartetti». Questi furono composti nell'arco di tre anni secondo
un ordine diverso rispetto a quello con cui sarebbero poi stati pubblicati:
quartetto anno di composizione pubblicazione
op. 127 tra il 1822 e il 1825 marzo 1826
op. 132 tra il 1824 e il luglio 1825 settembre 1827
op. 130 agosto-novembre 1825 maggio 1827
Se dunque il rinnovato impegno nel campo della musica da camera fu apparentemente casuale,
con l'op. 127 si aprì una stagione nuova e fondamentale nella produzione di Beethoven che ha
consegnato alla storia un patrimonio artistico così nevralgico da divenire il "sole" del nostro
sistema musicale. Come notava Jorge Luis Borges, del resto, «ogni artista crea i suoi
precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il
futuro».
La serie di accordi (Maestoso) con cui si apre il Quartetto in mi bemolle maggiore op. 127 ha
qualcosa di grandioso, una sonora fanfara che sottolinea la tonalità d'impianto e assorbe
energia dalla serie di sforzando che colmano le prime sei battute. Non si tratta del "solito"
adagio che precede l'esplosione dell'allegro; è come se le parti si fossero invertite e, mentre la
zona lenta risulta incisiva e conclusa in se stessa, il tema dell'Allegro si muove in modo
estremamente lirico, come mai era accaduto prima in un quartetto beethoveniano. Tre
importanti elementi si contendono il territorio dell'Allegro: la melodia (violino primo), un
cantus firmus in modo parallelo (violoncello), il ritmo sincopato di violino secondo e viola, il
tutto in una atmosfera sempre p e dolce che accentua il contrasto con l'aggressiva solennità
dell'apertura. Il consueto percorso tematico e armonico viene spezzato da due violente
interruzioni, richiami diretti (anche se tonalmente eccentrici) del Maestoso iniziale; l'effetto
sulla struttura generale del primo movimento è quella di due "ferite", inferte al senso formale
dell'ascoltatore che rimane come spiazzato. A colpirci, anche se inconsciamente, è inoltre il
continuo mutare delle armonie che sembrano ormai svincolate da qualsiasi schema, guidate da
una serie di relazioni latenti che dobbiamo postulare, ma il cui significato ci è sconosciuto.
Nel secondo movimento stupisce l'estrema pacatezza con cui viene trattato il tema che emerge
a poco a poco dal registro grave del violoncello per poi sostanziarsi nel violino e quindi
ritornare al violoncello. Esiste una grande quantità di abbozzi per questa melodia che appare
così spontanea e pura, e ciò non deve stupirci perché spesso in Beethoven la musica più
straordinaria è quella che ha subito un lavorìo estenuante. Ci troviamo di fronte ad un tema
con variazioni che formano una sorta di A-B-A così suddiviso:
A Tema e variazioni I e II
B variazione III (si riconosce il profilo del tema ma immerso in un'atmosfera tonalmente
diversa: mi maggiore rispetto a mi bemolle maggiore)
A variazioni IV, V e VI + coda
Se lo scopo di Beethoven era quello di creare con il terzo tempo (Scherzando vivace) un forte
contrasto con i movimenti precedenti, l'obiettivo è stato pienamente raggiunto. Al centro della
tensione di questo lavoro ciclico è infatti un movimento di danza esplosivo, ricco di energia,
con un inizio fugato che attacca al violoncello al quale risponde la viola con il soggetto
all'inverso, il tutto ripetuto, in eco, dal secondo e primo violino. Energia pura si sprigiona dal
primo inciso ritmico che diventa poi ossessiva ripetizione, nonché dalla sezione centrale
(Presto), che trasforma un'elegante melodia del violino primo in un pretesto per pesanti
sforzati che marcano in modo indelebile lo scorrere del tempo.
Nel quarto movimento sembrano dimenticate le emozioni del primo, i "bagliori sovraterrestri"
del secondo, il vigore fantasioso del terzo; la "lotta psicologica" delle precedenti sezioni si
placa, e temi di ascendenza haydniana, semplici e quasi popolari, si distendono nello spazio
della nostra memoria. Certo non tutto è così ovvio; frequenti mormorii (trilli e veloci note
ribattute) ed una lunga ed elaborata coda, invitano a tener ancor desta la nostra attenzione.
Fabrizio Scipioni
Fulcro del Quartetto è però l'«Adagio, ma non troppo e molto cantabile», uno dei più sublimati
e contemplativi tempi lenti dell'ultimo Beethoven, che assume la forma del tema con sei
variazioni.
Il tema di berceuse viene esposto dal primo violino, sull'accompagnamento degli altri
strumenti, con interventi cantabili del violoncello; nella prima variazione si impone la densa
polifonia di tutti gli strumenti; nella seconda («Andante con moto») viola e violoncello
accompagnano i giochi di intrecci dei due violini; nella terza («Adagio molto espressivo») si
torna al lirismo del primo violino; nella quarta («Tempo I») le melodie di violino e violoncello
si stagliano sull'accompagnamento insistito degli altri strumenti; nella quinta diviene
protagonista il ritmo di berceuse; nella sesta le sestine del primo violino passano poi agli altri
tre strumenti e scivolano infine nella coda; il tutto seguendo un processo per cui il tema viene
progressivamente "trasceso" nelle peregrinazioni di una fantasia visionaria. Lo «Scherzando
vivace» che segue è percorso dalle figurazioni spigolose di un ritmo di base, «alla francese»,
più volte interrotto dalle sezioni di «recitativo» degli strumenti gravi; si inserisce un «trio» di
condotta rapida e aerea. Un vigoroso unisono apre il «Finale», in forma sonata; il motivo
arpeggiato e insistito del primo violino si rivela l'elemento più importante del movimento, nel
quale si afferma comunque anche un secondo tema che ha movenze di marcia; è però il
fittissimo ordito polifonico ad imporsi nelle sue continue trasformazioni; una coda («Allegro
con moto») con liquide figurazioni di terzine trasforma e stempera l'incisività del tema
iniziale, riaffermando quella ispirazione lirica che segna l'intera partitura.
Arrigo Quattrocchi
https://www.youtube.com/watch?v=cSyh0KoB-D4
https://www.youtube.com/watch?v=ppjXCXpcXs8
https://www.youtube.com/watch?v=JUd1Kc_FQxU
Beethoven compose il Quartetto op. 130 tra l'agosto e il novembre del 1825 mentre era già al
lavoro sul Quartetto op. 132. Molti sono i punti di contatto tra i due quartetti tanto da essere
chiamati "Quartetti gemelli"; in particolare è l'intervallo di seconda minore che li accomuna e
che risulta essere in entrambi la cellula tematica principale. Tutti gli ultimi quartetti hanno un
sottile filo rosso che li unisce, e si tratta sempre di brevi incisi tematici (quattro note) basati
sull'uso del semitono come elemento germinatore. Più che l'idea di una scella operata da
Beethoven allo scopo di offrire agli ultimi quartetti i connotati di un ciclo, il compositore
sembra voler scandagliare fino alle estreme conseguenze le possibilità di un'unità melodica
indivisibile (com'è il semitono) ed elevarla ad elemento motivico essenziale. Ecco perché,
nonostante negli ultimi quartetti circoli un'atmosfera familiare, essi appaiono così diversi. In
ognuno Beethoven ha sperimentato la scomposizione dei parametri (ritmo, melodia, armonia)
fin quasi al punto di rottura. Questa tendenza all'astrazione non significa però rinuncia alla
pienezza del suono né tantomeno un'abdicazione delle forme tradizionali a favore di nuove
architetture formali.
Al suo apparire in pubblico, nel marzo del 1826, il Quartetto suscitò giudizi positivi ma
perplessi; il critico della "Gazzetta Musicale" di Vienna affermava che «II primo, il terzo e il
quarto tempo sono severi, cupi, mistici e nello stesso tempo bizzarri; anzi capricciosi [...]» e
"capriccioso" è in effetti il primo movimento nel quale parti lente (Adagio, ma non troppo) si
alternano a sezioni veloci (Allegro). Quello che colpisce è il modo in cui è realizzata la
successione: l'Adagio e l'Allegro si intersecano e si sovrappongono, interrompendosi
vicendevolmente, cosicché alla polifonia degli strumenti si aggiunge quella tematica e,
implicitamente, quella delle emozioni suscitate dai diversi temi. Tutto ciò, inoltre, avviene nel
rispetto della tradizionale forma-sonata la cui rigida architettura esalta ancor di più il gioco
lento-veloce (Beethoven utilizza un secondo tema per note lunghe che, pur all'interno
dell'Allegro, provoca un effetto di rallentamento che ci rimanda all'Adagio). Il passaggio dal
primo al secondo tema (tra tonalità molto lontane) si consuma in due sole battute grazie ad una
scala cromatica nella quale pare esaltato il potere dirompente del semitono, elemento
propulsivo dell'intero quartetto. In questo caso, però, quello che sembrava un elemento
indivisibile viene invece disgiunto in una sorta di polverizzazione del senso musicale,
necessaria al compositore per una modulazione così ampia in uno spazio così breve. Nei suoi
percorsi tonali Beethoven utilizza quella che Schönberg definì "armonia vagante", ossia
un'armonia che è indirizzata ad una meta ma non si riferisce ad un centro. Con Beethoven
dunque comincia a perdersi l'idea di una lonalità centrale di riferimento a favore di una
multifunzionalità armonica molto utilizzata nella musica del Novecento.
Concepito come uno Scherzo (prima parte, trio, ripetizione della prima parte), il secondo
tempo è caratterizzato dalla scelta di una tonalità (si bemolle minore) che ha sugli strumenti ad
arco un particolare effetto di colore scuro, delicatamente in contrasto con lo stile quasi
popolare del tema. Ancora una volta le modulazioni sono rapide e, in quello che possiamo
chiamare il trio, improvvisamente ci troviamo in un'altra atmosfera: cambia il tempo, la
tonalità (da si bemolle minore a si bemolle maggiore) e con essa anche il colore strumentale. Il
ritorno al primo tema avviene in poche battute ed è affidato, come nel primo tempo, ad una
scala cromatica. Il terzo movimento, Andante con moto ma non troppo, pur se molto diverso
nel carattere rispetto al secondo, mantiene con questo un profondo legame di carattere
armonico: innanzitutto nella tonalità d'impianto (che è re bemolle maggiore, la relativa
maggiore del precedente si bemolle minore), e poi nell'ambiguità delle prime due battute in cui
Beethoven volutamente rimane incerto tra le due tonalità, quasi a voler sottolineare la
relazione profonda tra i due movimenti. Questo Andante pone alcuni problemi agli interpreti
che vogliano coglierne appieno il senso: nei suoi schizzi, infatti, Beethoven dapprima mise la
didascalia "Humoristisch", mentre nei programmi per la prima esecuzione fece scrivere
Scherzo andantino ed infine, nell'edizione a stampa, Andante con moto ma non troppo con la
didascalia "Poco scherzoso". «La composizione afferma Rattalino - offrirebbe materiale per
un'analisi estesissima, tanto geniale è la trasformazione che le cellule tematiche subiscono,
tanto nuovo è il frastagliato disegno dei ritmi, tanto è sottilmente incerta la significazione
espressiva. Scherzoso il pezzo lo è, nel complesso; ma la vibrazione sentimentale oscilla più
volte affacciandosi alle soglie della serietà».
Nel quarto tempo, Allegro assai, intitolato da Beethoven Alla danza tedesca, il compositore
cita il tema invertito del primo movimento di un suo precedente lavoro: la Sonatina op. 79 per
pianoforte che porta la didascalia Presto alla tedesca. Questo elemento ci incuriosisce non
tanto per l'autocitazione quanto per il carattere completamente diverso che hanno i due temi
pur essendo simili. A differenza della Sonata, nel Quartetto Beethoven sottopone il tema ad
una serie di sfumature dinamiche intorno al piano; queste rappresentano un arduo compito per
gli esecutori che devono mantenere intatto il carattere di danza senza però oscurare la vena
sentimentale che scaturisce dai brevissimi crescendo e diminuendo di ogni inciso melodico.
Il quinto movimento, Adagio molto espressivo, porta il titolo originale di Cavatina. Secondo la
testimonianza di uno dei componenti del Quartetto Schuppanzig (il quartetto che eseguì gran
parte dei Quartetti beethoveniani), «II pezzo preferito di Beethoven, quello che egli
considerava come la pagina più bella della sua musica da quartetto, era la Cavatina del
Quartetto in si bemolle maggiore. "L'aveva composta piangendo, nell'estate del 1825 e mi
confessò che mai, prima d'ora, la sua musica lo aveva così profondamente commosso, e che al
solo ricordare quel pezzo gli venivano le lacrime». In questo movimento sta forse la soluzione
al contrasto tra due elementi che sembrano escludersi a vicenda, e cioè la cantabilità e
l'elaborazione motivica (quest'ultima considerata da sempre caratteristica dello stile di
Beethoven). Come afferma Dahlhaus «La Cavatina [...] da un lato è espressione paradigmatica
del "principio discorsivo" che si manifesta tanto nella cantabilità quanto nell'episodio di
recitativo della parte centrale, dall'altro presenta invece una fitta rete di nessi motivici, il cui
grado di complicazione ricorda addirittura un labirinto. E si può vedere in questo movimento
la soluzione del problema di conciliare tali premesse divergenti».
L'ultimo tempo pone una serie di problemi di carattere storico ed interpretativo: in origine il
Quartetto terminava con una grande fuga la cui lunghezza spaventò l'editore il quale convinse
Beethoven a scrivere un altro finale. Forse non furono soltanto problemi di durata quelli che
costrinsero il compositore a cambiare l'ultimo tempo, ma anche la difficoltà della fuga che agli
ascoltatori coevi «parve incomprensibile, quasi cinese». Oggi, in ossequio al pensiero
originario dell'autore, la grande fuga andrebbe reintegrata al suo posto tanto più che la sua
presenza esalta il clima espressivo della Cavatina e, più in generale, la monumentale
architettura di tutto il quartetto. D'altro canto non si può dimenticare che lo stesso Beethoven
compose ed autorizzò questa sostituzione, e che l'attuale Finale (contrariamente alla Grande
Fuga divenuta l'op. 133) non avrebbe senso da solo. Dunque non c'è una soluzione preferibile,
e l'ascoltatore può operare liberamente la sua scelta mentre agli esecutori spetta un compito
più arduo: individuare il carattere adatto da attribuire al Finale per adeguarlo al resto del
quartetto. L'Allegro finale è costruito come un rondò su temi popolari in cui l'elemento
trainante è il ritmo sempre serrato ma scorrevole. La velocità crea un'affinità con il secondo e
quarto movimento mentre l'accostamento tra il Finale e la Cavatina, crea qualche perplessità
riguardo al senso unitario dell'intero quartetto. Ma forse a noi, oggi, sfugge il senso generale
delle ultime composizioni del maestro di Bonn, ed è sempre bene ricordare ciò che scriveva
E.T.A. Hoffmann contro i detrattori di Beethoven e del suo cerebralismo:
«Ma che cosa ne direste se fosse solo vostra l'incapacità di cogliere la profonda unità di
relazioni interne delle composizioni? Se fosse soltanto colpa vostra se il linguaggio del
maestro, compreso dagli iniziati, rimane incomprensibile, se la porta del santo dei santi rimane
chiusa per voi? In verità il maestro, che sta alla pari di Haydn e di Mozart in quanto ha
padronanza di sé, trae il proprio essere dal più profondo del regno dei suoni, e regna su di esso
da sovrano assoluto».
Fabrizio Scipioni
Il Quartetto in si bemolle maggiore opera 130 possiede una articolazione formale specifica,
che si richiama al vecchio Divertimento settecentesco, con sei movimenti che alternano in
modo calibrato tempi rapidi e lenti. E qualcosa dello spirito di letizia del Divertimento si
ritrova anche nell'impostazione espressiva del Quartetto, che accoglie tempi fortemente
caratterizzati da precise "tipologie". Anche qui si incontra un primo movimento in forma
sonata estremamente complesso e di analisi non univoca. Una polifonica introduzione lenta
(«Adagio ma non troppo») viene seguita da un vasto «Allegro» in cui si impongono un primo
tema "doppio" (una cascata discendente di semicrome sommata a un motivo ritmico) e un
secondo tema anch'esso "doppio" (un breve inciso discendente del violoncello solo seguito da
una frase del primo violino nel registro grave); l'esposizione viene poi ripetuta testualmente.
Sia all'inizio dello sviluppo (che salda i temi principali dell'«Allegro») sia nella coda
riappaiono poi l'introduzione e il primo tema dell'«Allegro», ma ridotti a citazioni aforistiche.
E anche questo procedimento rientra nella logica dell'intero movimento, nel quale il conflitto
tematico viene sostituito dalla continua trasmutazione espressiva e dalla giustapposizione delle
varie idee.
Segue una sorta di scherzo, un succinto «Presto» in si bemolle minore dai brevi periodi
regolari, con un Trio in maggiore e in metro diverso. Il primo tempo lento è un «Andante con
moto ma non troppo» in forma sonata senza sviluppo, in cui prevale il tono "scherzoso", con
l'alternanza di legati e pizzicati e una scrittura fitta e improntata a un gusto decorativo, dove si
palesa il ritorno di Beethoven al manierismo inteso come stilema; anche qui la successione dei
vari temi si propone di illuminare in modo via via differente un medesimo assunto di base,
senza conflitti. Segue un nuovo scherzo «Alla danza tedesca» in forma ternaria e con ripresa
variata. Con la «Cavatina» abbiamo il secondo tempo lento; il titolo rimanda espressamente
all'opera, e abbiamo infatti, affidata al primo violino, una melodia vocale di impronta italiana,
ma con una complessità di intrecci che attribuiscono uno spessore peculiare alla pagina.
Segue, infine, il nuovo finale (nuovo rispetto alla Grande Fuga che chiudeva in un primo
momento il Quartetto), un lungo «Allegro» in forma sonata ma con parvenza di rondò,
animato dal carattere brioso e "popolare" del tema principale e dall'arguzia che sembra
derivare direttamente da certi finali di Haydn, con uno sviluppo fugato e una coda basata su
reminiscenze delle idee precedenti.
Arrigo Quattrocchi
https://www.youtube.com/watch?v=pA4_FnH49tA
https://www.youtube.com/watch?v=4q8ClARZCJU
https://www.youtube.com/watch?v=BgluM9ZROL0
https://www.youtube.com/watch?v=0SHZlYClZ2k
Il Quartetto op. 131 appartiene all'ultimo periodo della produzione di Ludwìg van Beethoven
(composto tra novembre 1825 e luglio 1826) e rientra tra le "opere tarde", un concetto non
privo di fraintendimenti. Gli studiosi, infatti, non sono concordi nell'analisi, e se alcuni parlano
di estrema soggettività (evidente nell'enfasi lirica di molti temi), altri riscontrano un
ripiegamento nell'oggettivita, caratterizzato dal ricorso a sofisticate tecniche polifoniche e
contrappuntistiche. Proprio il Quartetto in do diesis minore è l'emblema di questa difficoltà di
indagine visto che si apre con una Fuga (forma simbolica della razionalità) ma si evolve in
modo poetico, aderendo al mutare repentino dei sentimenti. L'ambivalenza, il ricorso a
strutture non più evidenti, l'indeterminatezza dei riferimenti melodici, la «spezzettatura
rapsodica della superficie» sono le caratteristiche precipue della sua ultima produzione. La
successione delle idee, dei temi, delle armonie, segue un filo narrativo diverso rispetto al
passato: si ha l'impressione più di un percorso psicologico che non di una "forma" così come
ce l'ha consegnata la storia. «Il compositore ci fa partecipi dell'atto creativo; ci introduce nel
laboratorio delle sue idee» (Sciarrino) e la nostra adesione, come ascoltatori, dovrà essere
dunque diversa, attenta, ma soprattutto libera da schemi formali e di giudizio.
Tutti gli ultimi Quartetti hanno un sottile filo rosso che li unisce, e si tratta sempre di brevi
incisi tematici basati sull'uso del semitono come elemento germinatore. Più che l'idea di una
scelta operata da Beethoven allo scopo di offrire agli ultimi Quartetti i connotati di un ciclo, il
compositore sembra voler scandagliare fino alle estreme conseguenze le possibilità di un'unità
melodica indivisibile (com'è il semitono) ed elevarla ad elemento motivico essenziale. Ecco
perché, nonostante negli ultimi Quartetti circoli un'atmosfera familiare, essi appaiono così
diversi. In ognuno Beethoven ha sperimentato la scomposizione dei parametri (ritmo, melodia,
armonia) fin quasi al punto di rottura. Questa tendenza all'astrazione non significa però
rinuncia alla pienezza del suono né tantomeno un'abdicazione delle forme tradizionali a favore
di nuove architetture formali.
Nei suoi percorsi tonali Beethoven utilizza quella che Schönberg definì "armonia vagante",
ossia un'armonia che è indirizzata ad una meta ma non si riferisce ad un centro. Con
Beethoven dunque comincia a perdersi l'idea di una tonalità centrale di riferimento a favore di
una multifunzionalità armonica, molto utilizzata nella musica del Novecento. Anche il
"vecchio" concetto di melodia subisce profonde mutazioni e tutti i temi utilizzati dal
compositore si riducono a poche battute; ogni tentativo di sviluppare una linea orizzontale si
incaglia in un vuoto, un'interruzione, tanto che sono più le pause (e non le note) a caricarsi di
senso espressivo. Per quanto riguarda il ritmo e l'andamento dei movimenti non sembra più
possibile far riferimento a schemi preesistenti; proprio nell'op. 131 viene fatto un uso molto
libero dei tempi (solo nel quarto movimento vi sono sette cambiamenti) e il ritmo è sempre
piegato a fini espressivi: le battute non contengono più i valori previsti ma debordano o
sembrano restringersi. Anche l'insieme strumentale del Quartetto viene rivisitato: Beethoven
economizza le presenze e le assenze degli strumenti, calibra i registri dal grave, al centro
all'acuto.
Lo stesso autore si rese conto che quello in do diesis minore era un Quartetto particolare e
scrivendo all'editore Schott definì la composizione «Insieme di pezzi diversi presi qua e là»,
preoccupandosi di numerare i tempi affinchè non vi fossero confusioni riguardo alle intenzioni
originarie. Come già detto, il primo movimento si apre con una Fuga molto vicina a quelle
bachiane per il rigore architettonico e il carattere Apollineo certamente in contrasto con quello
Dionisiaco della Grande Fuga op. 133. Le quattro voci entrano in ordine discendente (dal
violino al violoncello) e ad ogni entrata l'orizzonte armonico sembra espandersi, tanto che
Beethoven è "costretto" a cambiare tonalità; anche il ritmo si fa più complesso, il flusso della
Fuga è rotto da figure sincopate e note brevi. Dopo un episodio in la maggiore che rasserena
gli orizzonti della tonalità d'impianto (do diesis minore), il contrappunto rigoroso riconquista
terreno e ritorna il tema sia in versione originale (alla viola), sia modificato per aumentazione
(al violoncello). Il secondo movimento sgorga naturalmente dal primo e potremmo definirlo
uno Scherzo in tempo rapido e dal tono gentile (compare il primo pianissimo). Ritornano, in
ordine diverso, i gruppi di semitoni del tema della Fuga e più in generale sembra di riascoltare
le linee addolcite dell'episodio in la maggiore del primo movimento. A poco a poco il fluire
calmo viene increspato da accenti improvvisi (sforzati sempre più frequenti) che modificano
sostanzialmente il carattere di questo Allegro molto vivace, accentuandone un aspetto
drammatico inizialmente estraneo. Il terzo movimento consta di sole undici misure in stile
recitativo e serve da collegamento al successivo Andante ma non troppo e molto cantabile che
è il nucleo centrale dell'intero Quartetto.
Sul quarto movimento, infatti, sembra concentrarsi il massimo del lavoro compositivo, sia per
quanto riguarda la macrostruttura, sia per i singoli elementi impiegati. Formalmente si tratta di
un tema con variazioni: il tema è estremamente semplice (come si conviene ad un'idea che
deve essere sottoposta a molte modifiche) e le variazioni sono di tipo "strutturale" (il
compositore, cioè, prende un singolo elemento del tema - un intervallo, un ritmo - e lo usa
come punto di partenza per una nuova idea musicale che non ha più affinità apparenti con il
tema stesso). Con il procedere delle variazioni il tessuto quartettistico si fa più elaborato,
sottile e imprevedibile; gli strumenti sono sempre più autonomi e il loro "dialogo" si trasforma
in un soliloquio estremamente ricco di idee, sfumature dinamiche (dal forte al sotto voce,
passando per il piano dolce, il pianissimo, lo sforzato piano, ecc.), addensamenti e rarefazioni.
Con il quinto movimento (Presto) torniamo a qualcosa di più familiare. Si tratta di uno
Scherzo che risponde appieno a tutte le caratteristiche di tale forma: tempo veloce, tema chiaro
e "orecchiabile" (non è altro che l'accordo fondamentale arpeggiato), architettura semplice,
trama strumentale poco elaborata (spesso gli archi suonano all'unisono o all'ottava). Come già
il terzo, anche il sesto è un movimento brevissimo (ventotto battute appena) la cui presenza
serve a interrompere, con l'andamento lento (Adagio quasi un poco andante), la successione
del Presto e dell'Allegro finale. L'ultimo movimento è una sorta di compendio della
composizione; in particolare Beethoven riprende il tema della Fuga iniziale trasformandone la
linea melodica e il carattere. È un esempio straordinario di come dalla stessa cellula possa
scaturire materiale tanto diverso. Con l'op. 131 Beethoven aveva forse trovato una via nuova
alla scrittura per Quartetto: queste pagine lasciavano un'eredità che ancora oggi stentiamo ad
accogliere e comprendere.
Fabrizio Scipioni
Con il Quartetto in do diesis minore opera 131 Beethoven lascia la sua pagina più complessa
ed enigmatica nel gruppo, già di per sé ermetico, degli ultimi quartetti. Il principio in base al
quale ogni composizione trova all'interno di sé stessa le regole per una propria specifica
articolazione si riscontra qui al più alto grado, con sette movimenti che si succedono in un
lungo "continuum", senza soluzione di continuità, e in cui le forme tradizionali vengono
trascese o riformulate in modo peculiare. Non a caso la partitura attirò gli entusiastici
apprezzamenti di Wagner. Nell'«Adagio ma non troppo e molto espressivo» che apre il
Quartetto troviamo ancora una fuga, ma di carattere meditativo, basata su un soggetto di
inconsueta levigatezza, antiscolastico, che percorre con imprevedibili peregrinazioni
armoniche tutto il movimento. Il secondo tempo, «Allegro molto vivace», non aderisce
compiutamente a nessuna forma chiaramente riconoscibile, ma a qualcosa di mezzo fra una
forma sonata e un rondò; ha peraltro carattere di scherzo, è privo di sezioni di sviluppo ed è
sostanzialmente basato sulle trasformazioni di un unico motivo guizzante e sfuggente.
Segue, come quinto movimento, uno scherzo dal tema fantastico e sussurrato, con un trio dalla
ritmicaaffine e dalla medesima ambientazione, il che crea l'impressione di una serrata e
continua compattezza del movimento. Ancora un tempo brevissimo (dopo il terzo) è il sesto,
«Adagio quasi un poco andante», un canto elegiaco introduttivo rispetto al finale. È questo
l'unico movimento propriamente in forma sonata, aperto da un vigoroso unisono seguito da un
tema affannoso, cui si contrappone un secondo tema apertamente lirico; il primo tema è alla
base di uno sviluppo fugato, come della vasta coda che chiude con perorazioni di intensa
drammaticità il tempo e l'intero Quartetto.
Arrigo Quattrocchi
https://www.youtube.com/watch?v=oNjmOnh75_g
https://www.youtube.com/watch?v=2bfOc9z8b5E
https://www.youtube.com/watch?v=SK75WCcUDkM
https://www.youtube.com/watch?v=Yxw1Wccjdc4
I due Quartetti presentati nel concerto odierno appartengono all'ultimo periodo della
produzione beethoveniana e vengono classificati come "opere tarde", un concetto non privo di
fraintendimenti. Gli studiosi, infatti, non sono concordi nell'analisi, e se alcuni parlano di
estrema soggettività (evidente nell'enfasi lirica di molti temi), altri riscontrano un ripiegamento
nell'oggettività, caratterizzato dal ricorso a sofisticate tecniche polifoniche e
contrappuntistiche. Con estrema lucidità, Dahlhaus afferma che «la modernità delle opere
tarde, correlato dell'assenza di una collocazione precisa nel tempo, è anticipatrice. Ma esse non
fondano una tradizione, di cui sarebbero i primi documenti, e non mettono in moto un
progresso nel senso comune del termine. La loro influenza [...] ha invece inizio dopo un
intervallo che separa l'epoca della loro nascita da quella della loro appropriazione. [...] E la
modernità dell'"opera tarda" non consiste nel fatto che anticipa un pezzo di futuro: la
modernità di Bach, Beethoven e Liszt è stata scoperta solo dopo che il futuro che essa
anticipava era divenuto da tempo presente». L'ambivalenza, il ricorso a strutture non più
evidenti, l'indeterminatezza dei riferimenti melodici, la «spezzettatura rapsodica della
superficie» sono dunque le caratteristiche precipue dell'ultima produzione di Beethoven. La
successione delle idee, dei temi, delle armonie, segue un filo narrativo diverso rispetto al
passato: si ha l'impressione più di un percorso psicologico che non di una "forma" così come
ce l'ha consegnata la storia. «Il compositore ci fa partecipi dell'atto creativo; ci introduce nel
laboratorio delle sue idee» (Sciarrino) e la nostra adesione, come ascoltatori, dovrà essere
dunque diversa, attenta ma soprattutto libera da schemi formali e di giudizio, così da lasciar
irrompere la musica così com'è, viva, cangiante, emozionante.
Circa dodici anni separano il Quartetto op. 95 dall'ultima produzione per archi (le opere 127,
132, 130 - da cui poi ebbe origine la Grande fuga op. 133 - 131 e 135), e lo stimolo fu esterno.
Il principe Nikolas Galitzin (un violoncellista dilettante, ammiratore di Beethoven), in una
lettera del novembre 1822 da Pietroburgo, chiedeva infatti al compositore se avesse voluto
scrivere «uno, due o tre nuovi quartetti». Questi furono composti nell'arco di tre anni secondo
un ordine diverso rispetto a quello con cui sarebbero poi stati pubblicati:
Se dunque il rinnovato impegno nel campo della musica da camera fu apparentemente casuale,
con l'op. 127 si aprì una stagione nuova e fondamentale nella produzione di Beethoven che ha
consegnato alla storia un patrimonio artistico così nevralgico da divenire il "sole" del nostro
sistema musicale. Come notava Jorge Luis Borges, del resto, «ogni artista crea i suoi
precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il
futuro».
Il Quartetto in la minore op. 132 fu composto nella primavera del 1825, dopo una lunga
malattia, e la nota autografa scritta in apertura del terzo movimento («Canzona di
ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico»), ha autorizzato ad
interpretare l'intero Quartetto come una sorta di percorso, dal dolore della malattia alla felicità
della guarigione, quasi una descrizione della condizione di sofferenza e di malinconia del
malato, della sua convalescenza, dell'espressione di gratitudine a Dio, fino alla rinascita.
Questa interpretazione nasconde però la difficoltà di analizzare un quartetto complesso, nel
quale la successione dei temi, dei movimenti, delle armonie sembra aver perduto ogni punto di
riferimento. Beethoven persegue una meta, precisa (senza la quale la musica perderebbe di
senso) ma è il centro che è andato smarrito e con esso vanificate le nostre aspettative di
ascoltatori, costretti allora ad inventarci percorsi extramusicali (la descrizione della malattia)
per dar senso a qualcosa che non possiamo comprendere fino in fondo.
Nel primo movimento sono molti gli elementi che si giustappongono senza apparente
relazione. In particolare è straordinaria la mutevolezza dei tempi: il compositore alterna
sovente Allegro e Adagio, ma spesso scrive note lunghe per rallentare le sezioni veloci creando
così delle zone cariche di tensione il cui esito è imprevedibile. Anche sul piano delle
dinamiche Beethoven preferisce le separazioni nette (dal fortissimo al pianissimo) piuttosto
che le sfumature, accentuando così il senso di «spezzettatura rapsodica della superficie» che
ricordavamo all'inizio.
Nel secondo movimento (uno Scherzo in la maggiore) sembra di ritornare ad una scrittura più
distesa, cui contribuisce in modo determinante la sezione centrale (Trio), di carattere pastorale,
dove Beethoven ricorre ad un espediente tecnico che trasforma il primo violino in una sorta di
cornamusa.
Come si è detto, il terzo movimento reca l'annotazione «Canzona di ringraziamento offerta alla
divinità da un guarito, in modo lidico», nella quale il modo lidico sta ad indicare la tonalità di
fa maggiore ma senza il si bemolle. Lo scopo era quello di lavorare con una tonalità fluttuante
tra do maggiore e fa maggiore per creare una vasta zona di indeterminatezza che conferisse
un'atmosfera di sospensione, di non-risoluzione. Nel 1823 era stata terminala la Missa
Solemnis op. 123 e Beethoven aveva approfondito lo studio dei modi liturgici attraverso la
musica del Cinquecento (soprattutto Palestrina). Se questo può spiegare in parte la scelta
armonico-tonale, sembra che il compositore abbia voluto dar voce, con l'assenza di riferimenti
certi, al repentino mutare dei sentimenti. Si intrecciano e si alternano infatti due parti: Molto
adagio (Canzona di ringraziamento...) e Andante (Sentendo nuova forza), che sono come
accenti di stupore, di commozione, veri e propri moti dell'anima alla quale Beethoven si
richiama quando, nell'ultima parte del movimento, scrive, «con intimissimo sentimento».
Segue una breve Marcia che ha lo scopo evidente di riportare il Quartetto su binari più
consueti, nel tentativo di "normalizzare" l'eccezionaiità del movimento precedente e di
preparare, attraverso un recitativo (sviluppato dal violino primo), l'ingresso dell'Allegro
appassionato conclusivo. Questo rientra nei più tradizionali canoni del Rondò, con un
ritornello che rassomiglia ad un appassionato valzer al quale si alternano motivi di canzone.
Anche nella Coda Beethoven prosegue il gioco delle trasformazioni, accelerando a dismisura
la velocità del tema (esposto in una zona acuta del violoncello) e tramutando la tonalità da la
minore a la maggiore, un passaggio carico di conseguenze se si considera che l'ultima
emozione per l'ascoltatore è, appunto, quella che lascia il congedo.
Fabrizio Scipioni
In cinque movimenti si articola il Quartetto in la minore opera 132; ma non è solo per questa
inconsueta articolazione che questa partitura si allontana dai tradizionali principi costruttivi. Il
Quartetto si apre con un tempo di grande complessità, a proposito del quale sono state
avanzate varie analisi, anche assai divergenti fra loro. Formalmente ci si trova di fronte a uno
schema interpretabile anche come una forma sonata, comprensiva di esposizione bitematica,
sezione di sviluppo, riesposizione e coda; ma la dialettica della forma sonata viene
completamente trascesa in favore di un nuovo principio costruttivo, quello della
giustapposizione di diverse idee, che scivolano l'una dentro l'altra senza una vera opposizione.
Troviamo così una introduzione lenta («Assai sostenuto») in cui appare un "motto" di quattro
note (sol diesis, la, fa, mi, destinato poi ad essere trattato contrappuntisticamente), un
«Allegro» con una sorta di lamentoso motivo di marcia e un secondo tema dalla tenera
cantabilità schubertiana; protagonista del breve sviluppo è il tema «lamentoso»; al termine
della riesposizione la coda riserva la sorpresa di essere strutturata come una nuova
riesposizione, il che contribuisce una logica circolare al patetismo proprio dell'intero
movimento. In seconda posizione, l'«Allegro ma non tanto» è una sorta di scherzo lento,
costruito tutto sul tema discendente presentato dai violini, ed elaborato in aerei intrecci; il trio
richiama pastorali melodie di cornamuse.
Segue poi il tempo principale del Quartetto, il «Molto adagio» che reca l'intestazione
«Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico» (ma la lezione
tedesca recita più sottilmente «Heiliger Dankgesang», ossia «Canto sacro di ringraziamento»);
e proprio questa intestazione - che pure non è illecito mettere in relazione con un fatto privato
del compositore, il superamento di una crisi della sua malattia - ha stimolato fuorvianti
interpretazioni biografiche dell'intero Quartetto. In termini musicali la «canzona» riflette gli
studi di Beethoven sulla musica liturgica di Palestrina (per l'impostazione "modale", ossia
l'ambientazione in fa maggiore, col si naturale invece del regolare si bemolle); e allude inoltre
a un passo della recente Missa solemnis: la transizione dall'«Et incarnatus» all'«Et homo factus
est», che si riflette nei due momenti basilari della pagina, l'iniziale «Molto adagio», una sorta
di innodia polifonica, e il seguente «Andante. Sentendo nuova forza», con i trilli coloristici e
gli intrecci serrati dei due violini. Il tutto calato in uno schema A-B-A-B-A in cui ogni ripresa
si accresce di nuovi dettagli espressivi e nuove elaborazioni, portando l'intero movimento a
qualificarsi come uno dei culmini dell'arte contemplativa beethoveniana. Più dimessi e snelli
gli ultimi due tempi. Una breve Marcia, chiusa da un recitativo strumentale di transizione,
conduce al finale. Questo «Allegro appassionato» è un rondò con un refrain dalle sembianze di
valse triste, che sfocia poi in una luminosa e serratissima coda in maggiore, in cui si riversa
con valenza liberatoria l'estrema tensione dell'intero quartetto.
Arrigo Quattrocchi
Dal 1810, data d'apparizione del quartetto «serioso», in fa minore op. 95, Beethoven non era
più tornato a questa forma quadripartita di composizione dal suo genio cosi potentemente
marcata. È stata affacciata, da alcuni critici, l'ipotesi che sui quattordici anni di astensione dal
comporre quartetti (tale è, in effetti, l'arco di tempo intercorrente tra il 1810 e il 1824 anno di
composizione del quartetto in mi bemolle op. 127) abbia potuto, materialmente, influire
l'assenza da Vienna del primo violino del «quartetto Rasumowsky» trasferitosi in Russia fin
dal 1816. Schuppanzigh, in effetti, ritornerà nella capitale austriaca solamente nel 1823,
ricomponendo il famoso complesso che il 6 marzo 1825, tenendo a battesimo l'op. 127,
sottolineerà il riaccostamento del maestro al sopraccennato genere musicale. Tale
riaccostamento darà vita, oltre al suddetto, ad altri quattro quartetti (tredicesimo in si bemolle
op. 130; quindicesimo in la minore op. 132; quattordicesimo, in do diesis minore op. 132 e
sedicesimo, in fa maggiore op. 135). Sono questi gli ultimi cinque quartetti che segnano l'apice
della forma strumentale più astratta, riaffermando la predilezione di Beethoven per una musica
dall'essenza pura e trascendentale, che si doveva rivelare il tramite più efficacemente idoneo a
fenomenizzare, quasi al crepuscolo dell'esistenza, il suo mondo interiore in cui levitavano già
intuizioni e preavvertimenti di un universo totalmente estraniato da ogni vicenda terrena. Ogni
armamentario estetico o dottrinale si rivela povero ed insufficiente di fronte a una musica che
abbia attinto tali vette. All'ascoltatore non resta altro — come è stato detto — che una
«religiosa adorazione», costituendo gli ultimi cinque quartetti quasi «l'ultima cena» del
maestro, come dice H. Bourgerel. Il quartetto in la minore op. 132 è cronologicamente il
secondo dei tre quartetti (op. 127 op. 130, op. 132), dedicati al principe Galitzin.
Nell'aprile 1825 il maestro fu afflitto da una malattia che l'inchiodò per più settimane a letto. È
evidente che l'indicazione apposta da Beethoven al terzo tempo del quartetto, «Canzona di
ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico», è indice di un appiglio
biografico con la composizione del quartetto, ma, com'è stato notato, il valore della famosa
pagina trascende il dato puramente clinico, sconfinando in zone di atmosfera più sublime e
eterea, ove balugina un raggio del remoto e arcano «mondo dei fini» kantiano. Un corto
esordio di otto battute, «Assai sostenuto», pervaso da calma concentrata, geme gravemente sul
violoncello, si dilata al primo violino in lente stratificazioni, e approda all'«Allegro» che
rompe in uno zampillo di semicrome inaspettatamente connesso a una frase pacatamente
dolorosa del violoncello, nel registro acuto, che sembra rimontare da remote profondità. Il
motivo sembra animato, all'inizio, da forza espansiva ma una prepotente propulsione
discensiva degli strumenti fratelli lo comprime brutalmente. Dopo un tessuto fitto di sonorità
di transizione sui quattro strumenti, risultante da una serie di imitazioni, emerge «dolce» e poi
«teneramente» il secondo tema sul secondo violino, che sembra animato da distensiva
pacatezza annientata, però, dall'inquieto accompagnamento sugli altri strumenti. La sezione
espositiva del tempo termina in una successione di sonorità sempre più inquiete nascenti
dall'alternanza di vigorosi «sforzati» e d'improvvise raggelazioni di calma in «piano» e di
brevi abbozzi di melodia dolorante. Il breve sviluppo è fondato sul primo tema triste e
accorato, mentre la ripresa, pur basandosi fondamentalmente sul primo tema, è assoggettata a
una serie di modificazioni sui quattro strumenti, che ne tramutano l'aspetto originario. Dopo
una terza esposizione, o riepilogo sintetico che dir si voglia, il tempo è concluso da una coda,
la cui sostanza è alimentata da briciole sonore dei due tempi fondamentali. Il secondo tempo,
«Allegro ma non troppo», è messo in moto da una figura in cui gli strumenti suonano
all'unisono con un motivo in cui si percepisce un conato di serenità o, almeno, disincanto, di
cui sarebbe un indice il mosso ritmo di danza. La continua circolarità del motivo, gli
avvicendamenti tonali a cui esso soggiace, nel corso dello sviluppo, sono la spia di una
febbrile ricerca di equilibrio che non riesce ad adagiarsi nell'imperturbabile calma della stasi
soddisfatta. Un raffiorare, invece, di energia vitale e un riflusso di linfa energetica e di brio
spensierato s'irradiano dal trio in cui l'effetto di «Musette», con le sue risonanze silvane,
ripropone l'amore quasi «viscerale» di Beethoven per la natura nel cui seno i suoi tumulti e le
sue angosce, dissolvendosi si tacitavano. L'aria di Länder e il motivo di «musette» si alternano
interrotte improvvisamente da uno spavaldo e rude risonare di tonalità basse, ma è questione di
un momento, poiché il motivo fondamentale rifluisce subito dopo e si allenta in vanienti
cadenze in pianissimo. La riproposizione integrale della prima parte chiude il tempo.
Il terzo tempo, «Molto adagio» è costituito dalla «canzona di ringraziamento offerta alla
divinità da un guarito in modo lidico». Beethoven vide nel modo lidico (che è poi ipolidico)
una tonalità dal carattere liturgico e dall'accento propiziatorio che bene si prestava all'effusione
di grazie del suo animo riconoscente a Dio per la guarigione ottenuta. Il tema si espande in un
corale che a modo di «canto fermo» gregoriano si ripercuote sui quattro strumenti distillando
nell'ascoltatore, col suo onnipresente risuonare (intatto o variato) la sensazione di un cantico
dalla voce arcana e primeva in cui passa qualcosa del fluido indefinibile ed esoterico che lega
l'orante, tramite appunto la preghiera, a Dio. Alla religiosità del corale Beethoven oppone una
seconda idea (Andante), contrassegnata dall'indicazione «sentendo nuova forza», dal ritmo più
animato e più veloce, spesso sbriciolato in fitti trilli e che, con questi stessi accorgimenti fonici
suggerisce l'impressione d'una rinascita di forza energetica e di volontà di reinserirsi del
malato nel pieno circolo vitale. Lo sviluppo è fondato sulle due idee e il tempo si conclude in
un'atmosfera di assorta concentrazione.
Il quarto tempo «Alla marcia: assai vivace», come suggerisce la stessa indicazione, è costituito
da un tempo di marcia rapido e vigorosamente ritmato. Sul sostegno delle ultime battute il
primo violino scatta improvvisamente, sostenuto dagli accordi degli altri strumenti, e poi da
solo evolve con una parabola progressiva in cui trapassano sentimenti ora improntati ad
impeto di speranza, ora a mesto indugio e ora a calmo raccoglimento. Sulla trama di cullanti
accordi il primo violino da l'abbrivio, quindi, all'ultimo tempo, «Allegro appassionato», con un
motivo di danza che, tuttavia, trasuda malinconia ed incertezza. Si ha l'impressione, a questo
momento, analoga a quella suscitata dai passi di una danzatrice che, iniziato il primo moto
senza trasporto, vada, istintivamente e gradualmente allentando il ritmo per mancanza di
entusiasmo. Il ritmo è fluido ed ondulato, ma — dice lo Chantavoine — la melodia del modo
minore resta triste fino alla morte» finché l'energia travolgente del dinamismo beethoveniano
non ha il sopravvento, spazzando malinconie ed esitazioni, esattamente come un soffio
gagliardo di vento cui nulla può resistere.
Vincenzo De Rito
https://www.youtube.com/watch?v=tSvPl0PBRvo
https://www.youtube.com/watch?v=HXrS605GwEo
https://www.youtube.com/watch?v=MVOQu481uZQ
https://www.youtube.com/watch?v=W5k4l4iYzqM
Allegretto
Vivace
Lento assai, cantante e tranquillo (re bemolle maggiore)
Grave ma non troppo tratto (fa minore), Allegro
L'op. 135, nel panorama degli ultimi cinque quartetti (op. 127, 130, 131, 132, 135, più la
Grande Fuga), è sembrata di respiro meno ampio e di minore complessità. Si dimentica però
che questo Quartetto (scritto sei mesi prima di morire) offre un clima di serenità quasi
contemplativa che è caratteristica dell'ultima produzione: la Missa Solemnis e la Nona
Sinfonia in particolare. Aleggia inoltre nel Quartetto un messaggio filosofìco ed umano che,
anche se oscuro, non possiamo ignorare; si tratta dell'epigrafe musicale (probabilmente da non
eseguire) posta all'inizio del Grave: Muss es sein? Es muss sein! (Deve essere? Deve essere!).
Possiamo far nostra (senza spiegazioni) questa epigrafe, come il protagonista del romanzo di
Kundera L'insostenibile leggerezza dell'essere, oppure considerarla una "verità", un percorso
della volontà umana che Beethoven ci vuole indicare come ultimo monito della sua esistenza.
L'analisi della partitura, se non la soluzione, ci offre però il senso di questo dover essere e cioè
la capacità di controllo della forma che diviene assoluta. L'Allegretto che apre il Quartetto, nel
suo caratteristico gioco di domanda (viola) e risposta (violino primo e poi gli altri), si presenta
con un rigore architettonico esemplare. Beethoven economizza le presenze e le assenze degli
strumenti, calibra i registri dal grave, al centro, all'acuto, proporziona le modulazioni,
ottimizza, insomma, il mondo del quartetto. Solo dopo ripetuti ascolti ci si rende conto che
non siamo di fronte alla semplicità ma alla perfezione, e non una perfezione ideale (riferita a
modelli esterni) bensì quella raggiunta da Beethoven attraverso 16 quartetti. In questo senso,
più che dar conto dei singoli materiali impiegati, vale la pena di sottolineare che in questo
primo movimento si può toccare con mano (ovvero ascoltare) il concetto di forma astratta,
ossia lo schema intellettuale su cui si basa il pensiero del compositore. Traspare dalle battute il
significato ultimo della musica per Beethoven, inteso non in senso filosofìco ma proprio come
schema di funzionamento. A ben guardare (o a ben sentire!) questo movimento appaga la
nostra sete di conoscenza del metodo di composizione di Beethoven, un metodo straordinario
specie in riferimento al problema della forma che è fondamentale per un'arte che si svolge nel
tempo.
Rigore e semplicità sono i punti cardinali del terzo movimento (Lento assai, cantante e
tranquillo) costruito sulla forma A-B-A, che contrappone il primo tema cantabile e melodioso
al secondo, reso frammentario da continue pause. Come per il primo movimento è facile
confondere la perfezione della sintassi e la severità della forma con una generica semplicità;
anche qui, allora, bisognerà ricordare che tanto più è semplice la struttura compositiva tanto
più è difficile il padroneggiarla, come fa l'autore, calibrando battuta dopo battuta tutto il
materiale musicale.
L'ultimo movimento è il più difficile da interpretare: i due Allegri sono costruiti sul tema del
Es muss sein! introdotti dai due Gravi Muss es sein?, due mondi apparentemente estranei
legati solamente da una relazione intervallare (terza discendente e quarta ascendente nel Grave
e l'inverso nell'Allegro). L'uso massiccio di pause spezza ancora di più la già frammentaria
atmosfera, e tutto sembra un lungo ripetersi dell'epigramma musicale iniziale. Come lì si
contrapponevano due mondi, così nel corso dell'ultimo movimento si alternano i temi e le
armonie; è comunque straordinario il forte senso unitario che emana dalla musica come a
ricordarci che l'epigrafe, anche se divide il mondo in due parti, riguarda lo stesso universo.
Fabrizio Scipioni
Dopo due affreschi smisurati e per certi versi "mostruosi" come la Grande Fuga e il Quartetto
in fa maggiore opera 135, un sorprendente ritorno a una composizione non solo di dimensioni
piuttosto contenute, ma anche di articolazione apparentemente consueta: quattro movimenti
(forma sonata, scherzo, tempo lento, finale) di contenuto "leggero"; insomma una sorta di
ritorno al passato, quasi in funzione rassicurante, dopo tanti impervi sperimentalismi. Eppure è
proprio nel primo tempo dell'opera 135, «Allegretto», che possiamo cogliere quella
proliferazione e perdita di funzione degli elementi tematici che costituisce, di fatto, proprio la
negazione di quel ritorno al passato. Subito all'inizio si presentano, giustapposte, molte
differenti idee; una frase interrogativa spezzata fra gli strumenti, un severo unisono, più oltre
un arpeggio ascendente contrappuntato da terzine; ma non c'è conflitto, quanto piuttosto
l'illuminazione da diverse prospettive della medesima intenzione espressiva. Lo sviluppo si
basa su entrambi i principali gruppi tematici; una breve coda chiude la pagina, che sembra
ispirarsi all'amabilità e alla concisione degli ultimi Quintetti di Mozart.
Segue uno scherzo «Vivace» aereo e trasparente, animato da spostamenti ritmici e improvvise
sospensioni, con un trio che vede le improvvise scalate solistiche del primo violino. Il
movimento lento («Lento assai, cantante e tranquillo») è, con la levigata tornitura del suo tema
e la scelta dei registri opachi, una pagina di concentrata meditazione; si articola in tre sezioni,
con una breve sezione centrale in minore, dal fraseggio spezzato, e una ripresa intensamente
fiorita.
Quanto al finale, reca in epigrafe sulla partitura il tema dell'introduzione («Grave») e il suo
rovescio, il tema dell'«Allegro», con sotto le parole «Muss es sein? Es musssein!» («Deve
essere? Deve essere!»). Si tratta del materiale tematico e delle parole di un canone inviato,
qualche mese prima della stesura dell'opera 135, a un "dilettante" di violino, per invitarlo ad
indennizzare con una cospicua somma di denaro il violinista Ignaz Schuppanzigh, detentore
dell'esclusiva per l'esecuzione del Quartetto opera 130, esclusiva che il dilettante aveva
deliberatamente violato. Dunque un aneddoto giocoso, che informa del suo contenuto l'intero
ultimo tempo. L'introduzione lenta («Grave ma non troppo tratto», la domanda) si prospetta
come meditativa e drammatica, con i suoi ritmi insistiti e le armonie dissonanti. Brusco
contrasto quello dell'«Allegro» (la risposta), dove le varie idee melodiche si saldano grazie alla
trasparenza e alla levità della scrittura. Il «Grave» riappare nello sviluppo, ma il Quartetto
scivola poi verso una conclusione brillante ed umoristica, con un sorprendente pizzicato e una
rapida chiusa; è il congedo sorridente del maestro dall'universo sfingeo degli ultimi quartetti,
come anche dalla sua intera parabola compositiva.
Arrigo Quattrocchi
https://youtu.be/jHqccP6-egE
Op. 29 1801
Quintetto per archi in do maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=8pgC6CX9oBA
https://www.youtube.com/watch?v=LWWw3ab5wuk
Allegro moderato
Adagio molto espressivo (fa maggiore)
Scherzo. Allegro
Presto
Composto nel mese di novembre 1801 e dedicato al conte Moritz von Fries, il Quintetto è
segnalato da tutti gli studiosi per la sua importanza «psicologica» e «strategica», nonostante
sia considerato da molti come opera non rilevante sotto il profilo musicale. Importante
innanzitutto perché nasce, a metà strada, tra due fondamentali cicli di Quartetti, l'Op. 18 e
l'Op. 59; in secondo luogo perché rappresenta l'unico quintetto originale nella letteratura
beethoveniana (non dimentichiamo infatti che l'Op. 4 è la trascrizione dell'Ottetto per fiati Op.
103, mentre l'Op. 104 è un arrangiamento del Trio Op. 1 n. 3). Occorre tenere presente che nel
Settecento il quintetto era considerato un genere «secondario», vale a dire meno puro e
impegnato del quartetto d'archi che rimane, in definitiva, la formula più aristocratica
nell'ambito della musica da camera. Solamente Mozart era riuscito - anche nei Quintetti - a
redimere tale genere di composizione, considerato «frivolo e concertante», e a dar vita (basti
pensare al K 515 e al K 516) a capolavori assoluti. Beethoven era rimasto sicuramente
abbagliato dai modelli mozartiani ma ciononostante non riuscì a liberarsi con facilità
dall'impalcatura settecentesca (e non solo sul piano formale); cosi anche gli accenti
drammatici o patetici, a volte presenti sotto la superficie, non riescono a movimentare le
pieghe un po' statiche di una composizione di sapore neoclassico. Come nella maggioranza dei
quintetti del Settecento, anche nel saggio beethoveniano l'aggiunta della seconda viola
(aggiunta che costituisce la differenza d'organico tra quartetto e quintetto) si risolve in un
semplice «carico» dell'ordito armonico e in un irrobustimento della massa sonora: di qui
l'abuso dei bicordi, dei raddoppi (all'unisono o all'ottava), tutti espedienti adottati per
raggiungere quegli effetti da orchestra che avrebbero dovuto «sorpassare» il rarefatto
equilibrio del quartetto. Per quanto riguarda il Quintetto in esame, la critica pone l'accento, in
particolare, sui due movimenti estremi: sull'Allegro, impostato nella classica forma-sonata, che
scorre fluido e disteso, scevro da sperimentalismi velleitari; e sul Finale, che predilige invece
una fisionomia più eccentrica e che racchiude al suo interno, con effetto-sorpresa, un Andante
ricco di chiaroscuri. Nel cuore del Quintetto trovano invece posto un Adagio, la cui levigata
eleganza malinconica ricorda, più degli altri movimenti, le ascendenze mozartiane, e uno
Scherzo, ragguardevole soprattutto per le tinte accese del suo Trio.
WoO 62 1826
Quintetto per archi in do maggiore "Letzter musikalischer Gedanke"
(Ultimo pensiero musicale)
https://www.youtube.com/watch?v=4MIctz5e1DE
Andante maestoso
https://www.youtube.com/watch?v=6J-3d8J9qXw
Op. 4 1795
Quintetto per archi in mi bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=cnAfwbWEcl4
https://youtu.be/s_ebJav--1g
https://www.youtube.com/watch?v=Vi03penv4G0
I primi appunti del Trio Op. 3 risalgono con certezza al periodo giovanile di Bonn
(presumibilmente intorno all'anno 1792) ma il lavoro venne ripreso più tardi, alla fine del
1795, quando il compositore era definitivamente stabilito a Vienna; completato infine nei
primi mesi del 1796 su invito del conte Appony. Pare che il nobiluomo viennese, in realtà,
avesse commissionato a Beethoven un quartetto d'archi ma che l'autore - vuoi per facilitarsi il
compito, vuoi per dar dignità a vecchi lavori che non avevano ottenuto il giusto successo -
avesse pensato di rielaborare un Trio d'archi composto anni prima (analogamente a quanto
avvenne per l'Ottetto Op. 103, trasformato in un secondo tempo nel Quintetto Op. 4). «Per due
volte - scrive Wegeler - Beethoven si mise al lavoro per esaudire la richiesta di un quartetto,
ma il risultato fu invece il grande Trio con violino principale Op. 3». Oltre che per il suo
valore musicale, il lavoro è storicamente importante in quanto rappresenta la prima pagina
destinata a un trio d'archi (mentre ricordiamo che, negli ultimi mesi del 1795, Beethoven
aveva composto e pubblicato i Trii con pianoforte Op. 1). All'Op. 3 seguiranno il Trio Op. 8
(una vera serenata in sei tempi, con marcia di regola che apre e chiude l'intrattenimento) e il
ciclo dei Trii Op. 9. A quel punto Beethoven sarà animato da motivazioni e sollecitazioni
spirituali più profonde e ardite tanto da affrontare i domini intimorenti del quartetto, di
conseguenza abbandonando l'ambito del trio.
Innanzitutto, nella veste formale, il Trio Op. 3 si avvicina alla tradizione del divertimento (sei
movimenti che si susseguono liberamente), scelta nella quale si intravede un riferimento al
modello mozartiano; ma anche il linguaggio musicale rimane vicino a quello del disinvolto
intrattenimento settecentesco. Lo dimostrano i tratti dei vari episodi: la Musette del Minuetto,
impostata in un Do minore libero da angosce, il taglio di danza dell'Andante, lo spirito poetico
e cantabile dell'Adagio, affine a quello delle Serenate di Haydn, il carattere leggiadro del
secondo Minuetto con le tipiche incursioni tzigane nel Trio. Soltanto nel Finale, secondo la
critica, si avvertono i segni di un Beethoven più maturo; mentre, secondo Cappelletto, anche
nei due movimenti lenti «la ricerca timbrica compiuta sui tre solisti rivela qualche autonomia
dalla tradizione».
https://www.youtube.com/watch?v=D_3Qi9gkRZA
L'amore di Beethoven per i complessi d'archi è documentato in vario modo, a prescindere dai
famosi Quartetti e dalla Serenata op. 8. Dobbiamo infatti elencare un Duetto per viola e
violoncello composto nel 1795-98, i quattro Trii opere 3 e 9 risalenti il primo al 1792 e gli altri
al triennio 1796-98, i tre Quintetti opere 4, 29 e 104, rispettivamente del 1795-6, 1801 e 1817,
i due primi tempi di Quintetto - uno del 1817 e l'altro andato perduto (ma composto l'anno
prima di morire) - il Preludio e fuga per due violini e violoncello (edito nientemeno che nel
1955 dal Nagel a Kassel), le due Fughe, una in re minore e l'altra trascritta dal «Clavicembalo
ben temperato» di Bach e finalmente le due pubblicazioni Piccoli pezzi, rispettivamente del
1822 e del 1825. Sedici lavori che vanno dal 1792 all'anno della morte, si può dire.
La Serenata è stata composta tra il 1796 e il 1797 e venne pubblicata a Vienna, in parti
staccate, dalla casa editrice Artaria, nell'ottobre di questo ultimo anno. Nel 1848, con il
consenso della stessa, l'opera venne pubblicata in partitura dall'editore Heckel nell'ottobre
1848. Il manoscritto originale è andato perduto.
L'Allegro-Marcia iniziale è tempo molto vivo e brillante nel quale gli archi sono tutti
estremamente impegnati. Il movimento è trascinante e marziale e riprende più volte.
Nell'Adagio il violino canta in volute piuttosto ampie e il violoncello, con gli altri strumenti, lo
sostiene molto bene completando, con il precedente tempo, la prima parte di «entrata» della
composizione. Accordi bruschi iniziano il Minuetto-Allegretto, ma il particolare carattere
elegante e gentile della danza si insinua ben presto; poi tornano gli accordi iniziali che
completano il Minuetto dopo un passo in «pizzicato». Cantabile e dolcissimo l'Adagio: un'idea
ampia svolta a lungo nella quale si inserisce uno Scherzo molto breve. Infatti la melodia torna
in tutta la sua ampiezza, annunciatrice del canto italiano ottocentesco. Il tempo conclude con
dei ritorni sull'uno e sull'altro movimento. Segue un Allegretto alla polacca molto originale,
brillante e danzante che si fonde benissimo con i tempi più vivi precedenti. I nomi di Mozart e
di Schubert affiorano alle labbra. Originalissima la chiusa, con due improvvise interruzioni del
tutto inaspettate. L'ultimo tempo è un ispirato tema che provoca alcune variazioni nobilissime
alle quali partecipano tutti e tre gli strumenti, soli o insieme, con studiata tecnica e con timbri
assai vari. Alla chiusa la Marcia iniziale che inquadra tutta la Serenata, ricchissima di
ispirazione e di vitalità.
Mario Rinaldi
https://www.youtube.com/watch?v=0BYB5qVHTk8
L'op. 9 comprende tre Trii composti tra il 1796 ed il 1798: si tratta delle opere più interessanti
del primo periodo del compositore e la loro scarsa notorietà va imputata più al nostro sistema
di diffusione musicale che predilige le esibizioni solistiche o quelle di generi più riconosciuti
come il quartetto. Se è vero che non ci sono precedenti particolarmente illustri, non si possono
dimenticare, da un punto di vista quantitativo, i 42 Trii di Boccherini, i 30 di Giardini, quelli
innumerevoli di Cambini fino alla non modesta produzione di Bruni e Viotti solo per rimanere
in ambito italiano. Del resto basterebbe ricordare il Divertimento K. 563 per violino, viola e
violoncello di Mozart (1788) per capire quali suggestioni questa formazione possa aver avuto
su Beethoven. Se poi il compositore scelse forme diverse nel campo della musica da camera fu
perché la storia del trio d'archi prese la direzione del divertimento o della cassazione alla quale
Beethoven era estraneo. Da un punto di vista formale però si tratta di composizioni già
pienamente in linea con le riforme messe in atto nel campo della forma-sonata.
L'introduzione lenta (Adagio) che apre il Trio n. 1 (un richiamo evidente all'inizio della Sonata
op. 5 per violoncello e pianoforte) comincia con un grande unisono dal forte carattere
affermativo, così esemplare del linguaggio del compositore da renderlo immediatamente
familiare alla "memoria beethoveniana" del pubblico. Segue l'Allegro con brio caratterizzato
da una molteplicità di temi e tonalità che già puntano verso quell'idea di dilatamento della
forma-sonata che sarà tipico della successiva produzione di Beethoven. Forse nel gioco a
sorpresa delle tonalità si può vedere l'influenza di Haydn, e così nel punto in cui ci saremmo
aspettati re maggiore troviamo re minore, sol minore al posto di sol maggiore e così via, in un
alternarsi prodigioso se si pensa che in quegli anni circolava ancora lo stile galante. Qua e là
inoltre emergono imprevisti spunti solistici in un tessuto per la maggior parte "concertante",
ossia di elegante alternanza degli strumenti nell'esposizione dei materiali melodici e ritmici.
Ed è proprio sul ritmo che Beethoven punta l'attenzione giustapponendo zone dal forte senso
propulsivo a zone più statiche corrispondenti (forse non casualmente) alle tonalità minori, un
modo in più per sottolinearne la valenza drammatica (in un contesto teatrale sarebbe una
perfetta individuazione di un personaggio). Dopo una serie di passaggi modulanti, Beethoven
riserva proprio alla coda (di solito il luogo di consolidamento della tonalità d'impianto) la più
ardita delle modulazioni; riprendendo un frammento dello sviluppo si ha l'impressione, per
molte battute, che stia per riaprirsi tutto il discorso. La conclusione arriva però inesorabile
facendo apparire questo episodio, ancora una volta, come un gioco del compositore con la
forma e le aspettative del pubblico.
Per il secondo tempo (Adagio, ma non tanto, e cantabile) il compositore ha scelto una scrittura
basata sulle terzine nel tempo 3/4 che lascia l'ascoltatore nell'incertezza di un movimento in
9/8. L'ambivalenza metrica dà un'illusione di cantabilità poi contraddetta da passi quasi in
"recitativo" del violino e dalle sestine che increspano bruscamente il tessuto ritmico. Inoltre, in
aperto contrasto con il carattere cullante del "possibile" 9/8, troviamo originali modulazioni
che creano forti tensioni e momenti inattesi.
Lo Scherzo comprendeva inizialmente due trii ma Beethoven eliminò il secondo prima della
pubblicazione, forse per il troppo spazio concesso al violoncello, in contrasto con il carattere
concertante dell'intero Trio. Anche nel trio che è rimasto il violoncello si mette in evidenza ma
in generale si nota l'attenzione del compositore più per il rispetto dello schema tradizionale del
movimento (Scherzo e trio) che per una reale scelta musicale. L'Archibudelli, nei suoi
concerti, esegue ambedue i trii.
Fabrizio Scipioni
Il Trio di Beethoven è il primo di un gruppo di tre, pubblicati nel 1798 con il numero d'opera 9
ma scritti nel 1797, anno in cui erano stati composti, tra l'altro, il primo Concerto per
pianoforte e i due Quintetti op. 4 e op. 16. Qualche anno prima Beethoven aveva già
sperimentato il Trio d'archi con l'op. 3. Questo e il gruppo suddetto costituiscono le uniche
opere del genere del catalogo beethoveniano.
L'opera 9 è dedicata al «primo mecenate della sua musa», conte Browne, e designata
dall'autore stesso, senza perifrasi, la migliore delle sue opere. Generalmente gli studiosi, tra
essi il Prod'homme, riserbano soprattutto al terzo di questi Trii la piena qualifica di
«beethoveniano», mentre a proposito del primo si parla, spesso di impronta mozartiana, salvo
per il finale che, anche per il fatto di non essere scritto nella forma di rondò, viene considerato
il primo Presto di autentico stampo beethoveniano. Senza volerci addentrare nella spinosa
questione del primo stile dell'autore della Nona e separare quindi quanto di ereditato e quanto
di originale, di proprio, contenga il Trio n. 1, è comunque istruttivo puntare l'attenzione
proprio sugli elementi che fanno, di quest'opera una composizione già di gran lunga affrancata
dalla fase delle oscillazioni o delle eredità stilistiche. Basterebbe, a confortare questa
asserzione, l'Adagio dell'Introduzione, con quella sua atmosfera sospensiva, misteriosa, che
inaugura una maniera tutta personale di trasferire le battute d'attesa di un primo Tempo entro
un clima virtualmente carico di sensi drammatici.
Nel secondo tempo (Adagio) la melodia beethoveniana canta alta e sicura nel proprio cielo,
innalzando non solo il violino ma anche gli altri due strumenti in una stretta fraternità
«sinfonica» assai raramente percepibile anche in capolavori di poco anteriori, tipo il
Divertimento mozartiano K. 563. Ed è interessante seguire la varietà di procedimenti con cui il
tema melodico in terzine, annunziato dal violino, dà luogo successivamente a un fondamento
ritmico persistente o quasi, conferendo all'Adagio, oltre che una straordinaria unità,
quell'andamento a pulsazione isocrona, ch'è lo stampo sui cui saranno forgiati alcuni dei più
superbi Adagi strumentali e sinfonici degli anni futuri.
Il badinage, come lo chiama il Prod'homme, dello Scherzo è colorito nella parte centrale da un
inusitato profilo «in discesa» di accordi di terza e sesta. Infine, nel Presto finale, c'è vigoria
ritmica, c'è pienezza sonora (a occhi chiusi non giureremmo di assistere a un trio piuttosto che
a un quartetto d'archi), ma un'uscita tutta cantabile di viola e di violino in unisono e un
successivo episodio, sfumato e meditativo, «fermano» in una luce improvvisa di pensiero la
scorrevole vicenda. E anche questo va annoverato tra i modi più tipici con cui Beethoven già
fin d'ora piega la materia sonora all'inesprimibile romantico.
Giorgio Graziosi
Op. 9 n. 2 1797
Trio per archi n. 4 in re maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=UqkRFGVLn1Y
Allegretto
Andante quasi Allegretto (re minore)
Minuetto. Allegro
Rondò. Allegro
Il Trio in re maggiore è dei tre il più raccolto e contemplativo, «meno delizioso ma più
profondo», come ha notato un critico inglese. E il Mersmann ne mette in rilievo «la tranquilla
dolcezza dei temi, il fluido scorrere delle voci, l'assenza .di abbandoni patetici» che
l'avvicinerebbero alle Sonate per pianoforte e violino op. 12, ma con maggior «limpidezza ed
autonomia» di struttura.
Il primo movimento, allegretto, è basato su due temi, il prmo enunciato pianissimo dai violini
e poi man mano definito attraverso un disegno caratteristico che viene via via ripreso da tutti
gli strumenti, il secondo, più disteso, affidato al violino e alla viola. Nell'andante quasi
allegretto, dal carattere di romanza, si vede una certa preminenza del violino. Il minuetto ha
piuttosto l'aspetto di uno scherzo, specie nella seconda parte, per la quale il Prod'homme parla
di «ritmo misterioso», di «mormorio che vibra oon monotonia quasi immateriale». L'allegro
finale, in forma di rondò, è strardinariamente vivace nel continuo e perfetto ricambio degli
strumenti, che si rimandano l'un l'altro i vari motivi tematici e di passaggio.
Carlo Marinelli
https://www.youtube.com/watch?v=feOK6VidKI4
La tonalità di do minore su cui è costruito il Trio è quasi l'unica tonalità minore usata da
Beethoven in questo periodo ed il motivo è forse la speciale aura che se ne sprigiona, tra
l'eroico e l'emozionale. Più che nei due precedenti Trii dell'op. 9, il compositore ha curato con
scrupolosa meticolosità la divisione del "lavoro" tra i tre protagonisti, alla ricerca di un
difficile equilibrio tra strumenti così vicini nelle estensioni. Il dosaggio dei materiali
(armonici, ritmici e melodici) è estremamente raffinato, segno di una raggiunta
consapevolezza riguardo alle differenze tra questa formazione e, ad esempio, il quartetto. Non
si pensi infatti al trio come ad un quartetto privo di uno strumento o al vecchio modello della
"sonata a tre" con due parti dialoganti ed una di accompagnamento. Il Trio in do minore è
forse il simbolo dell'autonomia raggiunta da questa formazione, autonomia tanto più evidente
quanto più è scorrevole e senza incertezze l'uso di violino, viola e violoncello in tutte le loro
specifiche caratteristiche tecniche e timbriche.
Nel primo movimento Allegro con spirito assistiamo al susseguirsi di vari temi melodicamente
contrastanti e sottolineati con efficacia da modulazioni spesso desuete. Lontane regioni tonali
vengono coinvolte per offuscare la tonalità d'impianto (do minore) che poi riemerge a poco a
poco, quasi inaspettatamente. Oltre a ciò, Beethoven raggiunge forti accenti drammatici
mettendo in scena elementi che saranno poi caratteristici del suo comporre futuro: ad esempio
"grappoli" di sforzati sui tempi deboli delle battute, quasi a stordire l'ascoltatore, ed ancora
ardui cromatismi che si stemperano in semplici arpeggi, oppure improvvisi vuoti nella scrittura
che lasciano lo strumento superstite in un isolamento vertiginoso (da cui esce con velocissime
scale discendenti).
Agisce per contrasto la tonalità di do maggiore del secondo movimento, Adagio con
espressione, ma anche qui l'autore gioca a tenere col fiato sospeso l'ascoltatore coinvolgendolo
in "stravaganze" armoniche. Più che altrove si fa sentire l'indipendenza degli strumenti
chiamati a sostenere linee melodiche autonome e finanche contrastanti tra loro. Il violoncello,
nel registro acuto, intreccia e confonde le sue sonorità con quelle di viola e violino creando
squilibri timbrici verso l'alto che tendono l'arco dello sviluppo verso vertici inaspettati.
Nello Scherzo, dopo tanta originalità nella struttura, nei temi e nelle armonie, prevale invece la
simmetria, l'ordine dei numeri e delle battute: prima sezione di 26 battute (13+13), seconda
sezione di 32 (16+16), trio e ripresa. Il violino, come nella vecchia tradizione, prende il
sopravvento divenendo protagonista unico di queste pagine e segnando con insolita evidenza
tutti i passaggi da una sezione all'altra.
Gli ascoltatori più attenti riconosceranno nell'inizio del Finale (Presto) quello che potremmo
definire uno dei marchi del compositore di Bonn, poiché tanti sono i luoghi nei quali ritorna
questa figurazione (scala discendente seguita da due o tre note ascendenti seguite da pause; il
rimando più immediato è allo Scherzo della Sonata in do magiare op. 2 n. 3 per pianoforte).
Effettivamente l'incipit è costruito con un equilibrio perfetto tra movimento ed arresto, moto
ascendente e discendente, vuoto e pieno, da risultare esemplare, pronto per essere riutilizzato
nei contesti più diversi, quasi modello per eccellenza. Da un punto di vista formale l'elemento
più sorprendente è la coda organizzata in modo armonicamente ingegnoso per far risultare
originalissimo l'arrivo della tonalità di do maggiore che conclude, in piano, questo finale
apertosi in modo così incisivo ed in tonalità minore.
Fabrizio Scipioni
WoO 26 1792
Duo per flauti in sol maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=7rkCspCEvZA
Allegro con brio
Minuetto quasi Allegretto
Organico: 2 flauti
Composizione: Bonn, 23 agosto 1792
Edizione: Presente nel Beethoven's Leben di A. Wh. Thayer, Berlino 1801
Dedica: J. M. Degenhardt
https://www.youtube.com/watch?v=JhW3O1ZRE6M
https://www.youtube.com/watch?v=Zk3di20NMJA
Allegro
Andante
Minuetto
Finale: Presto
Nel 1795 Beethoven ne ha fatto una trascrizione per quintetto d'archi; vedi op. 4
Come le musiche mozartiane per la stessa formazione, anche l'Ottetto in mi bemolle maggiore
di Ludwig van Beethoven è un lavoro saldamente radicato nei suoi tempi. Negli anni in cui il
musicista prestava servizio a Bonn, il principe elettore manteneva al suo servizio una
Tafelmusik di qualità eccellente, formata da una coppia di oboi, una di clarinetti, una di corni e
una di fagotti. Stando alla testimonianza di Cari Ludwig Junker, un compositore dilettante che
sentì il complesso nel 1791 e gli dedicò un'entusiastica recensione sulla Musikalische
Correspondenz, i musicisti che ne facevano parte erano tutti «maestri nell'arte loro». Non
sorprende, dunque, che in quegli anni Beethoven abbia frequentato spesso il genere della
musica da camera per strumenti a fiato.
L'Ottetto in mi bemolle maggiore, pubblicato postumo come op. 103 e intitolato da Beethoven
«Parthia» (all'uso antico), fa parte delle composizioni destinate alla Tafelmusik dell'Elettore. Si
inserisce a pieno titolo nel filone delle serenate per strumenti a fiato tardo-settecentesche, pur
adottando la scansione in quattro movimenti, tipica delle sonate e delle sinfonie. La
composizione risale probabilmente al 1782. In seguito (non sappiamo quando con esattezza,
prima comunque del febbraio 1791) Beethoven la trasformò nel Quintetto per archi op. 4.
Anche Mozart, come si ricorderà, aveva compiuto la stessa operazione trasformando la sua
Serenata K. 388 nel Quintetto per archi K. 406; ma diversamente da Mozart, l'intervento di
Beethoven non si risolse in un semplice adattamento: comportò invece una profonda
rielaborazione, che spinse il compositore ad ampliare le dimensioni di alcuni movimenti, a
rendere più elaborati gli sviluppi, ad accrescere la densità contrappuntistica della scrittura.
Nella versione originaria per ottetto di fiati, la composizione beethoveniana è esente dalle
complessità strutturali e dai grandi sviluppi tematici di una sinfonia: l'Ottetto op. 103 si
mantiene saldo nel solco della tradizione, che a una serenata richiede brillante disimpegno,
comunicativa immediata, freschezza e attraenti giochi timbrici. Eppure vi si nota, rispetto agli
analoghi lavori mozartiani, qualcosa di inedito, qualcosa che tradisce una nuova sensibilità: sin
dal primo movimento (Allegro) emerge il gusto per le sonorità piene, di natura più orchestrale
che cameristica; rispetto al fine cesello di Mozart, al suo gusto per il gioco raffinato e per le
sonorità prettamente cameristiche, si notano tratti più nerboruti, temi robusti, più brevi e meno
levigati, pensati per le possibilità dell'elaborazione più che per l'esibizione di una bellezza
melodica astratta. Non meraviglia, quindi, che sia soprattutto lo Sviluppo a raggiungere
proporzioni e complessità inusitate per simile genere di composizioni: è qui che il materiale
tematico presentato nell'Esposizione viene sottoposto a uno scavo accurato; è qui che le
divagazioni armoniche e le tensioni ritmiche e dinamiche addensano al massimo il discorso; è
qui, infine, che Beethoven lascia presagire i suoi futuri grandi sviluppi sinfonici.
Il tema del Menuetto è assai particolare: attacca infatti con un salto discendente d'ottava che ne
fa un antesignano del celebre tema dello Scherzo nella Nona Sinfonia. È un tema propulsivo,
assai poco melodico e invece molto ritmico. Il movimento, del resto, ha poco in comune con la
danza stilizzata di cui porta il nome: per la rapidità e lo scatto nervoso che lo contraddistingue
è di fatto uno Scherzo. Ha la sua controparte in un Trio che, col suo carattere disteso, ne fa
risaltare ancor meglio l'energia ritmica.
Claudio Toscani
L'Ottetto op. 103 nasce nel 1792 a Bonn, per i fiati dell'orchestra di corte di Maximilian Franz,
fratello maggiore di Giuseppe II. Le invenzioni tematiche non dovettero dispiacere all'autore,
che nel 1795, con l'aggiunta di un Trio nel Minuetto, trasfigurò il lavoro nel Quintetto in mi
bemolle maggiore, op. 4, per due violini, due viole e violoncello. Un numero d'opus così
elevato per un lavoro giovanile si spiega con l'anno della pubblicazione, il 1830. La casella
103 del catalogo si scoprì ancora disponibile e venne occupata, non senza arbitrio, dall'Ottetto.
Johann Würzer, compagno di studi di Beethoven e futuro presidente del Tribunale di Bonn,
racconta con entusiasmo della qualità di quei fiati, primi interpreti dell' Ottetto: «È assai raro
poter ascoltare simili composizioni suonate con tanta intonazione e precisione, con tanta
ricchezza e varietà di sfumature».
L'avrà lasciato ammirato il duetto concertante, quasi serenata patetico italiana, di oboe e
fagotto, talmente notturni, nell'Andante, che si schiude docile alle aggressioni, come
trasalimenti, di clarinetti e corni? Oppure lo stacco vivace come in una sinfonia d'opera
dell'Allegro, o l'aspetto virtuosistico del Presto conclusivo, staccato su tempi davvero
impegnativi per questi strumenti?
Del tutto pertinente al futuro sinfonista è il piglio netto e staccato del Menuetto, con quel salto
all'ottava inferiore appoggiato su un ritmo ternario nel quale si è voluto vedere l'embrione -
meglio: uno degli embrioni - del tema dello Scherzo della Nona Sinfonia. Chiara
l'affermazione tematica, sicuro il piacere nel ribadirla, risolto il momento del Trio, con
l'invenzione del corno lontano, quinta sicura al fraseggio, anche aspro, degli altri fiati. Più
Scherzo che Menuetto questo terzo tempo è presagio di tensioni ormai prossime. Nella sua
concisione, la pagina più risolta e originale.
https://www.youtube.com/watch?v=Cc1cIU1FlOc
https://www.youtube.com/watch?v=xgQNbbXiPC4
Le possibilità offerte dai legni e dagli ottoni attrassero molto anche Beethoven che nel 1792
compose il suo primo lavoro per soli fiati, una Parthie per otto strumenti (pubblicata postuma
col titolo di Grand Octuor op. 103), che fu molto ammirata da Haydn, all'epoca il suo
insegnante a Vienna, e che lo stesso Beethoven teneva in grande considerazione tanto che nel
1795 la trascrisse per quintetto d'archi. Come movimento alternativo per questa Parthie fu
composto anche il Rondò per fiati (anch'esso pubblicato postumo col titolo Rondino),
caratterizzato da una audace scrittura solistica del corno
Beethoven fu poi incuriosito da un singolare organico di fiati, formato da due oboi e un corno
inglese, che si stava affermando in quegli anni. Per quel trio Johann Wendt aveva composto
una Serenata che fu eseguita il 23 dicembre 1793 nel tradizionale concerto di beneficenza
natalizio della Tonkünstler-Sozietät di Vienna: fu probabilmente l'ascolto di questo pezzo che
ispirò a Beethoven, nel 1794, la composizione del suo Terzetto op. 87, che in quel particolare
repertorio rappresentò uno dei lavori più estesi ed elaborati.
A questo organico Beethoven tornò con le Variazioni sul tema del duettino Là ci darem la
mano, dal Don Giovanni di Mozart, scritte nel 1796; da notare che lo stesso anno Beethoven
compose anche il Quintetto per pianoforte e fati op. 16 con oboe, clarinetto, corno e fagotto (al
centro c'è un Andante cantabile basato sull'Aria di Zerlina «Batti, batti, bel Masetto», tratta
ancora dal Don Giovanni mozartiano) e il Sestetto per fiati op. 71 (per due clarinetti, due corni
e due fagotti).
Dopo il Tema (Andante), affidato al primo oboe, nelle otto Variazioni vengono sfruttate tutte le
possibilità dinamiche e espressive degli strumenti, anche con alcuni esiti virtuoslstici, ad
esempio nei velocissimi arpeggi del corno inglese della Variazione I (Allegretto), nei giochi
imitativi della Variazione IV (Allegro moderato), dove l'inciso iniziale è trasformato in una
cellula cromatica, nel moto perpetuo di biscrome del primo oboe che domina nella Variazione
V (Moderato), o ancora nella Variazione VIII (Allegretto giocoso) dove il tema viene
palleggiato tra il corno inglese e il primo oboe, mentre sullo sfondo si dipana un tappeto di
biscrome affidato al secondo oboe. Beethoven gioca anche su contrasti di carattere,
contrapponendo ad esempio l'introversa Variazione VI (Lento espressivo) in do minore,
dominata dalla malinconica linea del primo oboe, alla pimpante Variazione VII (Allegretto
scherzando), giocata su figure in contrattempo e su un fitto dialogo tra corno inglese e i due
oboi. Il pezzo si conclude con una Coda, in 6/8, costruita come un fugato dall'andamento
danzante simile a quello di una Giga, ma con un diverso epilogo, 13 battute di Andante, di
nuovo in 2/4.
Gianluigi Mattietti
https://www.youtube.com/watch?v=LYkhmBNT560
Allegro (frammento)
Adagio mesto
Menuetto: Allegretto (frammento)
Incompleto
Che il Quintetto in mi bemolle maggiore WoO 208 (1796 circa) per oboe, tre corni e fagotto
sia pervenuto in forma incompleta è davvero un peccato: per la particolarità dell'organico,
incentrata sull'insieme dei tre corni, come per l'interesse musicale che traspare da quanto è
rimasto della composizione (oggetto, peraltro, di un tentativo di completamento da parte di L.
A. Zeltner nel 1862). Di fatto l'unico movimento compiuto è il secondo; del primo e del terzo
restano soltanto frammenti, mentre del finale non si ha alcuna traccia.
Ciò che rimane dell'Allegro iniziale incomincia dalla parte conclusiva dello sviluppo, ma è con
la ripresa che si può apprezzare il tipo di scrittura che caratterizza il lavoro. Nel primo gruppo
tematico, seguito dalla transizione, ai tre corni risponde una sezione dove i segnali del Tutti
all'unisono avviano un ordito articolato in cui l'oboe ora delinea passaggi fioriti ora si unisce al
fagotto in dialogo con i corni. E da un suadente dialogo tra il corno I e l'oboe è costituito il
secondo gruppo tematico, suggellato dalla chiusa della ripresa e quindi dalla coda in
diminuendo che echeggia il tema principale del movimento.
D'indubbio fascino è l'Adagio mesto, dove il complesso dei corni ll-lll e del fagotto offre uno
sfondo timbrico suggestivo ed emotivamente sensibile alla tersa cantabilità dell'oboe e del
corno I; la forma è semplicissima, con una prima parte che poi viene ripresa e variata. Del
Menuetto. Allegretto non restano che poche battute: la prima parte, replicata, e l'inizio della
seconda.
Cesare Fertonani
WoO 25 1793
Rondò per fiati in mi bemolle maggiore "Rondino"
https://www.youtube.com/watch?v=HZsk8mcyMnY
https://www.youtube.com/watch?v=oDLyr0Il8qk
Andante
Non è facilissimo, per la mentalità e le abitudini musicali del nostro tempo, immaginare
all'istante quale fosse la musica d'evasione e d'intrattenimento diffusa nella società
settecentesca. Tolto il repertorio autenticamente popolare circolante nei ceti subalterni, nelle
classi dominanti del Settecento e del primo Ottocento - accanto alle manifestazioni
implicitamente alte, di musica teatrale o religiosa o strumentale e via continuando - aveva
preso piede anche un consumo disimpegnato di forme quali serenate, divertimenti, cassazioni,
notturni, "musica da tavola" per allietare banchetti d'alto rango, e insomma musica per
occasioni mondane o festose.
Musica leggera dell'epoca? Può darsi. Veicoli esecutivi di tale letteratura erano vari organici.
Archi soli. Archi e fiati. Insiemi di fiati. Questi ultimi, per lo più da sei a otto, in coppie, di
solito i cosiddetti legni: due oboi o due clarinetti (molto spesso entrambe le coppie), due
fagotti e poi, dalla famiglia degli ottoni, due corni a completare le gradazioni timbriche. Una
formazione, questa del gruppo di fiati, alla quale per tutto un primo periodo, nel panorama
della musica d'intrattenimento, sarà attribuito un ruolo subordinato. Perché in origine, fatte le
dovute eccezioni, i praticanti dell'Harmoniemusik (musica da banda, da cui l'etichetta di
"musicanti di armonia") in genere non possedevano che un sommario bagaglio di conoscenze
strumentali e musicali, provenienti com'erano da bande militari o dai ranghi della servitù di
palazzo.
Occorrerà aggiungere che, alla fine del secolo XVIII, la grande stagione di questa musica
d'intrattenimento si avvierà poco per volta al declino, in conseguenza delle epocali
trasformazioni cui volgeva allora il quadro storico-sociale d'Europa. Dopo una stagione di
decadenza, l'ottetto per fiati e le pagine analoghe dovranno attendere, verso fine Ottocento, il
revival alimentato in questo campo da un Dvoràk e poi da un Richard Strauss, con lavori di
sapore neoclassico e addirittura neobarocco, per quindi conoscere i contributi novecenteschi.
Non a caso il Rondino di Beethoven è tra le ultime fatiche da lui create a Bonn in anni
giovanili, nel 1792, per gli strumentisti a fiato alle dipendenze del principe elettore Maximilian
Franz, fratello dell'imperatore Giuseppe II. Il brano è in un solo tempo, anche se diviso in varie
sezioni (AB-AC-ADA) come un rondò di piccole proporzioni. È importante sottolineare il
rilievo che Beethoven conferisce ai corni, che espongono il tema iniziale e chiudono la
composizione con una piacevole e suggestiva coda. Il tema principale ha in sostanza un
carattere di marcia e la sua rigida simmetria fa pensare ad una frase di derivazione popolare.
Oltre ai corni, anche il clarinetto, cui è affidato un intero episodio, assume un ruolo di primo
piano, fungendo quasi da strumento guida di tutto il componimento. Il resto dell'organico (è
per due oboi, due clarinetti, due fagotti, due corni) arricchisce con nuove uscite il tema
principale, il quale assume man mano un tono sempre più galante, in considerazione del
carattere di divertimento su cui è impiantato il pezzo.
Francesco A. Saponaro
Probabilmente il Rondino WoO 25 era stato concepito in origine come finale dell'Ottetto op.
103; certo si tratta di un brano nello stile del tutto simile a questo, in cui il giovane Beethoven
dimostra una notevole inventiva e sensibilità timbrica nel trattamento dei fiati. «Rondino» è
diminutivo di rondò e la logica formale del pezzo, in tempo Andante, si fonda sui ritorni di un
tema principale (A), di volta in volta variato nella strumentazione, inframmezzato da due
episodi concertanti in minore (B, C). Nell'esposizione il tema principale (A) coinvolge
gradualmente gli strumenti dell'ottetto, dai comi agli oboi sino al pieno organico. Il primo
episodio (B) vede protagoniste le morbide linee del clarinetto I, dell'oboe I poi ancora del
clarinetto, mentre nel successivo ritorno del tema principale (A) si percepiscono le nuove
figure in staccato dell'oboe I e del fagotto I sulla melodia del clarinetto. Il secondo episodio
(C) ha un colore cupo: è condotto dai corni accompagnati dal fagotto I, laddove nella ripresa
del tema principale (A) si segnalano gli incisi taglienti degli oboi e i disegni del clarinetto I
sulla melodia del corno I. La sezione iniziale della coda, percorsa da arpeggi, sembra condurre
il pezzo a compimento, ma Beethoven introduce a questo punto un autentico tocco da maestro:
nella sezione conclusiva i corni accennano delle reminiscenze del tema, senza tempo e in un
gioco di echi ottenuto grazie all'applicazione della sordina alternata al suono naturale, sino a
che la musica si spegne con effetto di dissolvenza sonora, come in lontananza.
Cesare Fertonani
Op. 25 1801
Serenata in re maggiore per flauto, violino e viola
https://www.youtube.com/watch?v=RcAUUH1-pD8
https://www.youtube.com/watch?v=5B2z5LMRpuI
Entrata. Allegro
Tempo ordinario d'un Minuetto
Allegro molto (re minore)
Andante con variazioni (sol maggiore)
Allegro scherzando e vivace
Adagio
Allegro vivace
La Serenata in re maggiore op. 25 per flauto, violino e viola è opera della giovinezza di
Beethoven e si colloca come data di nascita tra il 1796 e il 1797, insieme alla Serenata in re
maggiore op. 8 per violino, viola e violoncello e ai Trii per violino, viola e violoncello, op. 3 in
mi bemolle maggiore e op. 9 n. 1 in sol maggiore, n. 2 in re maggiore e n. 3 in do minore.
Dopo questa esperienza, che coincide con il primo periodo di soggiorno del compositore a
Vienna, Beethoven abbandona la forma del trio e si orienterà verso il quartetto per archi, dove
raggiunse risultati di notevole livello artistico e di più alta completezza stilistica. Ciò è
documentato da una lettera del 1801 inviata dallo stesso musicista al violinista Karl Amenda,
in cui è detto con chiarezza: « Sto imparando a comporre correttamente musica per quartetto»,
senza aggiungere altro; si sa però che il musicista studiava la tecnica del quartetto con
Emanuel Forster, un compositore da lui molto stimato per serietà e preparazione. Questo non
significa che l'elaborazione di un trio sia stata per lui meno impegnativa di quella di un
quartetto, anche se quest'ultimo genere di musica da camera costituiva una scelta più
ambiziosa per un'artista come Beethoven che desiderava misurarsi con i grandi esempi forniti
da Haydn e da Mozart in questo specifico campo creativo. Quello che si può dire, però, è che il
trio, sia per la sua struttura che per la qualità stessa della musica, si avvicina di più alla forma
del divertimento e pone minori problemi di approfondimento tecnico e di equilibrio espressivo
rispetto al quartetto, considerato il momento più alto della composizione cameristica. Infatti i
Trii dell'op. 3 e dell' op. 9, oltre alle Serenate dell'op. 8 e dell'op. 25, riflettono una piacevole e
disincantata musicalità, all'insegna di quello stile di conversazione semplice e amabile, tipico
di tanta produzione settecentesca. Per rendersene conto basta ascoltare con l'animo sgombro da
problemi e da preoccupazioni spirituali la Serenata op. 25, dove tutto scorre con facilità e
freschezza melodica in un gioco di armonie e di idee strumentali appartenenti alla migliore
tradizione della musica pre-romantica. Certamente, anche in questo caso è presente e affiora
con contorni netti la personalità di Beethoven, come nello spigliato e robusto Allegro molto
del terzo movimento, nell'arioso e lucente Andante con variazioni (del resto, si sa, la
variazione è uno dei punti di forza e di più spiccata originalità dell'arte beethoveniana), nel
teso e slanciato Allegro scherzando e vivace del quinto movimento, nel pensieroso, ma non
dolente, Adagio, fino a toccare nell'Allegro conclusivo una varietà di accenti di cordiale e sano
buonumore, nell'ambito di una fanciullesca discorsività espressiva, resa pungente e leggera
dalle fioriture di colore un pò virtuosistico del flauto.
La tradizionale partizione in una mezza dozzina di movimenti che configura la Serenata come
una Suite o una Partita, si riscontra nella Serenata op. 25 in re maggiore per flauto, violino e
viola composta tra il 1796 e il 1797, pubblicata nel 1802 e riplasmata un anno più tardi come
Serenata, per piano e flauto op. 41. Insieme ad una prima Serenata per violino, viola e
violoncello che Beethoven pubblicò nel 1796 come sua opera ottava, questa Serenata viene
annoverata tra i lavori beethoveniani che maggiormente risentono degli influssi di Haydn e
Mozart mantenendosi in un clima prettamente settecentesco. Il primo dei sei movimenti della
Serenata è un Allegro intitolato Entrata. Lo comincia il flauto con un delicato, ma incisivo
motivo da fanfara che viene ripreso dagli altri strumenti e subito sottoposto ad una specie di
analisi tematica che indica già chiaramente quale sarà la tecnica dello sviluppo che Beethoven
prediligerà nelle sue opere più mature. Ad una doppia esposizione di questo tema, segue
l'esposizione, ugualmente duplice, di un secondo tema in sol maggiore. I due temi non
s'intrecciano o si contrappongono dialetticamente come in un tempo di Sonata, ma si
giustappongono come in un movimento, di Suite.
La seconda parte è designata come Tempo ordinario d'un Minuetto. Un Trio assai sviluppato
intramezza due repliche successive del Minuetto. La terza parte si svolge in un tempo
qualificato come Allegro molto. Il ritmo in tre ottavi con frequenti accentuazioni in
controtempo, conferisce al brano il carattere d'uno Scherzo. Una sezione in re minore vi si
alterna con una parte in maggiore e si conclude con una breve Coda. Il quarto tempo è un
Andante con Variazioni. Le Variazioni, in numero di tre, sono del tipo che può definirsi
"ornamentale". Più che mutare le strutture intrinseche del cantabile tema in sol maggiore, esse
ne presentano delle varianti arricchite di abbellimenti, passi e arpeggi di ogni sorta. In una
Coda il tema viene ripreso in una forma analoga a quella originaria trasposta all'ottava
superiore. Degno di nota il partito che Beethoven trae in questo Tema dalla scrittura per doppie
corde degli strumenti ad arco ottenendo delle sonorità che danno l'impressione che, in certi
momenti, l'ascoltatore si trovi davanti ad un quartetto d'archi il quale s'accompagna al flauto. Il
quinto tempo, Allegro scherzando e vivace, segna un ritorno al clima del terzo tempo. Il
carattere del Finale è chiaramente indicato dal titolo Allegro vivace e disinvolto. L'andamento
brillante di questo Rondò si trasforma nel ritornello conclusivo in un Presto la cui sfrenata
allegria non troverà più seguito nell'opera beethoveniana. Beethoven saprà certamente scrivere
ancora della musica "allegra", ma con uno sforzo di volontà e dunque senza la spontaneità e la
reale "disinvoltura" di questo Finale.
Roman Vlad
https://www.youtube.com/watch?v=ueEYpqZNzgs
II Sestetto Op. 81b risale con sicurezza agli anni 1794-95 (vale a dire ai primi anni del
soggiorno di Beethoven a Vienna) ma, essendo stato pubblicato solamente nel 1810, fu di
conseguenza contrassegnato da un alto numero di catalogo.
Il giudizio che la critica riserva alle composizioni per fiati di Beethoven - e cioè «brani di
circostanza, volti al passato e, quasi per partito preso, indifferenti a una ricerca vitale» (Weiss)
- si addice quanto mai a questo Sestetto: non si può d'altronde negare che le opere per fiati
risentano pesantemente delle vestigia del passato. Tutti i critici (per primo il vecchio
Prod'homme) denunciano le incontestabili ascendenze - «per tornitura di frasi, fattura e ritmo,
che si spingono ai limiti della reminiscenza più determinata» - dagli analoghi Divertimenti
mozartiani (K 247, K 287, K 334). Altri studiosi lo considerano addirittura come la «prova-
studio», più semplice e modesta, del celebre «Settimino» beethoveniano (definito come il
«cartone preparatorio»).
Il limite oggettivo delle opere per fiati - limite riconosciuto da Beethoven stesso - sta in effetti
in una compiaciuta amabilità, nell'esibita aderenza alla leggiadria del Settecento,
nell'accettazione di un «mozartismo» quasi provocatorio. Tenerezza, armonia, semplicità sono
pertanto le cifre che troviamo in questa pagina; qualche «velatura e venatura d'ombra», è vero,
ma senza passioni autentiche, senza abbandoni contemplativi 0 contrasti drammatici.
Sul piano tecnico dev'essere segnalata la preponderanza della parte dei corni, anche
tecnicamente più difficile delle altre.
Dopo il Sestetto Op. 81b Beethoven si occuperà solo saltuariamente di lavori destinati ai fiati e
la produzione - per lo più Marce, Polacche e Scozzesi - apparterrà esclusivamente al genere
d'occasione.
Op. 71 1796
Sestetto per fiati in mi bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=dFlitWFbyF0
Adagio
Allegro
Adagio (si bemolle maggiore)
Menuetto quasi allegretto
Rondò. Allegro
Dopo la prima esecuzione avvenuta a Vienna nel 1805 apparve sulla « Allgemeine
Musikalische Zeitung » il seguente giudizio: «...Favorevole impressione ha suscitato il
Sestetto per due corni, due clarinetti e due fagotti di Beethoven, composizione che brilla per
spontaneità della melodia e la sorprendente ricchezza delle idee nuove. La parte del clarinetto
è stata eseguita alla perfezione dal signor Joseph Beer, al servizio della casa del principe di
Lichtenstein. Questo artista, oltre ad una sicurezza di intonazione, ha un modo amabile e
gradevole di fraseggiare, specie nei momenti di maggiore delicatezza ». In queste frasi c'è il
succo delle caratteristiche e della validità del Sestetto considerato da alcuni musicologi come il
germe musicale del Settimino, esempio insuperato dell'arte illuministica pre-kantiana e senza
travagli romantici.
https://www.youtube.com/watch?v=d3q98WNGW5I
https://www.youtube.com/watch?v=Wh84ecOco5w
Secondo quanto Carl Czerny - musicista amico ed allievo di Beethoven - ebbe modo di riferire
ad Otto Jahn, il grande biografo mozartiano, sembra che Beethoven in età matura mostrasse un
insofferente distacco nei confronti del Settimino in mi bemolle maggiore op. 20, fino «a non
poterlo più sopportare e ad adirarsi del successo che esso riscuoteva universalmente».
Relativamente al successo, è indiscutibile che il Settimino acquistò una grande celebrità già
subito dopo la sua creazione. Beethoven si applicò alla composizione fra la fine del 1799 e
l'inizio del 1800; dopo una esecuzione privata in casa del principe Karl Philipp
Schwarzenberg, la prima esecuzione pubblica ebbe luogo il 2 aprile 1800 presso lo
Hofburgertheater di Vienna, nel corso di un concerto organizzato dal compositore a proprio
beneficio, e nel quale fu presentata anche la Prima Sinfonia.
Straordinaria fu la diffusione editoriale della composizione, più che nella veste originale nelle
numerose trascrizioni, autorizzate e non. L'edizione a stampa fu realizzata in parti staccate
dall'editore Hoffmeister nel 1802; e già allora Beethoven raccomandò all'editore di realizzare
una trascrizione per quintetto con flauto, destinata al mercato dei dilettanti, che «me ne fecero
già proposta e vi sciamerebbero attorno come insetti e abboccherebbero». In seguito fu lo
stesso autore a realizzare una trascrizione per pianoforte, clarinetto (o violino) e violoncello,
dedicata al suo medico personale, Johann Adam Schmidt, e pubblicata nel 1805 a Vienna dal
Bureau d'arts et d'industrie come op. 38. Per tacere delle numerose trascrizioni per gli organici
più diversi realizzate piratescamente da editori spregiudicati. Altre circostanze testimoniano
dell'immutato favore goduto dal brano nel corso del secolo. Spunti tematici della partitura
furono ripresi da compositori come Bellini e Donizetti in partiture come Norma e La Favorita.
Ancora Wagner in una sua novella giovanile ("Una visita a Beethoven") descrisse una scena di
musicanti girovaghi che eseguivano il Settimino in aperta campagna.
Non stupisce insomma che l'autore di partiture rivoluzionarie come le Sonate per violoncello
op. 5 e la Sonata per pianoforte op. 13, che avevano dischiuso nuove prospettive alla creazione
musicale e che pure venivano accolte con sgomento e scetticismo dai contemporanei,
manifestasse insofferenza verso la diffusione di un'opera così indissolubilmente legata al
passato. Il Settimino, infatti, è forse il lavoro più compiuto e perfetto del Beethoven
"settecentesco"; laddove questo aggettivo andrà inteso non tanto in senso cronologico (per
quanto la data del 1800, che vide la nascita del lavoro, possa essere intesa come un discrimine
nell'attività del maestro) bensì di canoni estetici. Si tratta infatti di un brano che risponde in
pieno a tutti i criteri della musica di "intrattenimento", quali erano stati codificati da una lunga
e illustre tradizione di Serenate, Divertimenti, Cassazioni nel corso di un mezzo secolo. Lo
stile "retrò" della partitura, è peraltro del tutto volontario, finalizzato a conquistare quel
successo di pubblico di cui l'ingrato compositore, immemore dei non disprezzabili guadagni
dovuti al brano, si lamentava.
Di qui il ricorso ai canoni dell'intrattenimento. In primo luogo l'organico che includeva non
solo gli archi (violino, viola, violoncello, contrabbasso) ma anche i fiati (clarinetto, fagotto e
corno) poneva automaticamente la composizione su un piano di musica meno "nobile", più
semplice tecnicamente e concettualmente. Ancora verso la fine del XVIII secolo, infatti,
strumenti come oboe e fagotto, ancorché diffusissimi presso tutte le istituzioni orchestrali,
avevano delle potenzialità tecniche limitate e una gamma sonora contenuta; il clarinetto era
poi ancora lontano da una vasta diffusione, il corno, ancora per un lungo periodo, del tutto
privo di pistoni. Gli strumentisti che affrontavano il repertorio per fiati erano spesso dei
servitori con precarie cognizioni tecniche, e andavano faticosamente in cerca di un autentico
"status" professionale. Di qui la mancanza, nella letteratura con fiati, di quella complessa
elaborazione che contraddistingueva invece la letteratura riservata alla "nobile" famiglia degli
archi, in favore di una pronunciata cantabilità. Ma anche nel numero di sei movimenti il
Settimino si richiama poi alla tradizione del Divertimento, che allineava una serie di tempi fra
loro contrastanti, fra i quali non mancavano i ritmi di danza (Minuetto e Scherzo) e spesso
anche il tema con variazioni, formula considerata decorativa e disimpegnata.
Il Settimino di Beethoven riprende tali stilemi con un mirabile dosaggio di tutti gli ingredienti
dell'intrattenimento puro, trattati con perfetta sapienza tecnica, squisito gusto del disimpegno,
deliberata voglia di "piacere". L'introduzione lenta che apre il primo movimento propone già
violino e clarinetto come strumenti-guida, in un Adagio di succinta ma densa costruzione. Si
passa così all'Allegro con brio, in forma sonata, aperto da un motivo ritmicamente scattante e
scorrevole, esposto dal violino e ripreso dal clarinetto; il secondo tema non si pone in conflitto,
ma in perfetta continuità con la prima idea, e la logica del movimento risiede così nel garbato
dialogare fra i vari strumenti, in un clima di spensierata melodiosità. Non a caso la breve
sezione dello sviluppo punta non già sulla tecnica di elaborazione del materiale, ma sulle
variazioni coloristiche dei due temi principali. Segue un Adagio cantabile, anch'esso in forma
sonata, dove il clarinetto presenta tornite e levigate linee melodiche, riprese da violino e
fagotto; non mancano anche qui i giochi timbrici, con la contrapposizione di archi e fiati e
l'emergere a tratti dei vari strumenti in funzione solistica; e tutto il movimento va in cerca di
quelle atmosfere soffuse che caratterizzano gli adagi delle serenate di Mozart.
Celeberrimo è il Minuetto, che riprende il secondo tempo della Sonata per pianoforte op. 49 n.
2; vi si affaccia - anche nelle fioriture di corno e clarinetto che impreziosiscono il Trio - quel
gusto del manierismo che diventerà uno stilema nel Beethoven maturo. Come quarto
movimento troviamo una serie di cinque variazioni, basate su una melodia che è
probabilmente una canzone popolare del basso Reno; le variazioni si sviluppano seguendo una
logica decorativa, che pone in risalto di volta in volta uno strumento o un gruppo di strumenti;
non manca, in penultima posizione, una variazione nel modo minore. Aperto dal corno, lo
Scherzo deve il suo carattere brillante principalmente al ritmo danzante e al fraseggio spezzato
fra diversi cori strumentali; nel Trio emerge la melodia di valzer del violoncello. Il finale si
apre nuovamente con una breve introduzione lenta, che questa volta ha il carattere severo di
una marcia funebre, per accentuare il contrasto con la sezione successiva; segue infatti un
Presto in forma sonata, percorso da una incessante propulsione ritmica, dove i due temi
principali hanno il medesimo carattere giocoso; nello sviluppo, quasi interamente in minore, si
stagliano serrati inseguimenti contrappuntistici; una elegante cadenza solistica del violino si
inserisce prima della ripresa, e una coda brillantissima conclude il movimento e il Settimino,
riaffermando lo studiato vitalismo di questo Beethoven "ancien regime".
Arrigo Quattrocchi
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
Il lavoro che stasera viene eseguito per primo appartiene ad un Beethoven che alcuni critici
indicano come "minore" e che altri, addirittura, definiscono "prebeethoveniano", essendo
opera composta alla fine del Settecento, e cioè negli anni di "noviziato" del musicista. In quel
periodo (1792-1797), a Vienna, il giovane Beethoven si è sbizzarrito sulle più diverse
combinazioni e mescolanze strumentali componendo, fra l'altro, il Duetto per due flauti, il
Quintetto per oboe tre corni e fagotto, il Trio per due oboi e corno inglese op. 87, il Quintetto
per pianoforte oboe clarinetto fagotto e corno op. 16, la Serenata per flauto violino e viola op.
25, il Sestetto per due corni e quartetto d'archi op. 81/b, il Rondino per due oboi due clarinetti
due fagotti e due corni, il Sestetto per due corni due clarinetti e due fagotti op. 71, l'Ottetto per
due oboi due clarinetti due corni e due fagotti op. 103 (e non inganni il numero d'opus di
qualche lavoro, assegnato molto più tardi rispetto all'anno di composizione).
Di poco posteriore (1799-1800) è il Settimino op. 20 (per clarinetto corno fagotto violino viola
violoncello e contrabbasso) che però mantiene atmosfera e motivazioni identiche a quelle dei
lavori citati. L'atmosfera è quella già mozartiana e tutta settecentesca di Serenate Notturni
Divertimenti; le motivazioni nascono da una Vienna che si diletta di "far musica" e
specialmente musica per fiati, considerata di ottimo intrattenimento e di piacevole passatempo
negli ambienti nobili e di censo elevato della capitale imperiale.
E Beethoven, attratto anche dalle sonorità dei "fiati", scrive di queste musiche che non hanno,
naturalmente, valore di "messaggio" ma denotano purtuttavia il piacere dello sfruttamento
delle risorse idiomatiche e decorative che ogni strumento può offrire nelle varie combinazioni.
Piacere che nasce anche dalle felici condizioni di spirito del giovane compositore dal carattere
allegro gioviale ed esuberante, pronto allo scherzo, alla battuta e lontano, ancora assai lontano,
da quell'immagine convenzionale di un Beethoven sempre ed inesorabilmente corrusco
drammatico infelice alla quale ci ha abituati tanta letteratura, e non soltanto iconografica.
Dedicato "A Sua Maestà Maria Teresa, Imperatrice Romana, Regina d'Ungheria e di Boemia"
ed eseguito in forma privata a Palazzo Schwarzenberg (lo stesso nel quale era stata eseguita
due anni prima "La Creazione" di Haydn e dove pare che Beethoven rispondesse alle lodi dei
convenuti dichiarando "Questa è la mia Creazione"), il Settimino ebbe la sua prima ufficiale,
insieme alla Prima Sinfonia, in un concerto del 2 aprile 1800, con un clamoroso successo.
Successo che si mantenne sempre tale e che collocò il lavoro fra le più amate opere di
Beethoven al punto che l'Autore, in un secondo tempo, indispettito dall'incomprensione con la
quale venivano accolte le sue nuove composizioni ritenute sempre inferiori al Settimino,
giunse a detestare il felice lavoro giovanile.
Il Settimino, almeno fino a tutto l'Ottocento, ebbe eccezionale fortuna anche in Italia, dove fu
apprezzato fra l'altro da musicisti come Bellini (che si ricordò dell'"Adagio cantabile" nel
duetto della Norma: "In mia mano alfin tu sei") e Donizetti (che ebbe presente il "Presto"
finale nel duetto "Fia vero?" della Favorita). La critica moderna considera il Settimino opera
giovanile e di transizione, ma lo stile concertante, i brevi passaggi virtuosistici concessi al
violino, le melodie spesso di sapore popolare, la grazia e la semplicità delle armonie, la
ricchezza e la freschezza delle idee musicali, rendono questo lavoro una perfetta, anche se non
eccelsa, sintesi di un mondo e di una civiltà ormai decisamente avviati al tramonto.
Il primo movimento inizia con una Introduzione (Adagio) che prepara l'irrompere di un
gioioso "Allegro con brio" nel quale il violino propone un tema saltellante accolto, svolto e
ripreso da tutti e concluso con effetti quasi caricaturali dai fiati.
L'"Adagio cantabile" è la pagina più affascinante del Settimino per l'intensa melodia iniziale,
esposta dapprima dai fiati e ripresa poi con straordinaria purezza espressiva dal violino;
l'intero movimento si snoda all'insegna di una tenera e amabile cantabilità.
Il "Tempo di Minuetto", il cui tema era già stato usato da Beethoven nel Minuetto della
Sonatina per pianoforte op. 49 n. 2 (1796), è tutto garbo e grazia settecentesca, capolavoro di
limpida eufonia.
Il quarto movimento, "Andante", si sviluppa su un Tema con cinque Variazioni nelle quali, con
inesauribile inventiva, viene attuato un geniale sfruttamento dei diversi timbri strumentali.
Lo "Scherzo", con i richiami accentuati del corno e le imitazioni degli archi, ci riporta ad una
scena di caccia, serena festosa spensierata, nella quale il delizioso Trio sembra adombrare una
pausa di riposo (quasi una conviviale sosta).
Il sesto ed ultimo movimento, dopo un breve "Andante" che si sforza di essere cupo, si
conclude con un "Presto" percorso da fresca, viva felicità ritmica e nel quale trova posto anche
una breve esibizione virtuosistica del violino.
Salvatore Caprì
È noto che la produzione per strumenti a fiato di Beethoven appartiene in generale alla «prima
maniera» della sua creatività, inauguratasi a Bonn e proseguita a Vienna nei trent'anni iniziali
circa dell'esistenza, anni non solo di studio e di preparazione, in quanto Beethoven, pure in età
matura, era solito tornare su singole frasi e su lavori interi della giovinezza per procedere a
rielaborazioni e nuove versioni, in vista della stampa della musica o di manifestazioni di
particolare solennità. Va tenuto presente inoltre l'influsso di Haydn e di Mozart, specie in
rapporto all'ambiente culturale e sociale del Settecento che prediligeva in sommo grado un
certo genere compositivo - Divertimenti, Serenate, Marce, Ländler, ecc. - caratterizzato dalla
determinante presenza degli strumenti a fiato, particolari eventi «all'aperto», nelle corti
aristocratiche o nei giardini pubblici. Elementi peculiari di tale genere musicale erano la
successione di movimenti, in media da tre a sette, variamente alternati e con ritmi contrastanti,
la scorrevolezza melodica e la luminosa semplicità delle armonie (dal momento che la prima
destinazione di tali lavori era il mero svago dell'ascoltatore), la composizione su commissione
per i luoghi più disparati (ora come «Tafelmusik» nella sala di un palazzo nobiliare o
arcivescovile, ora in un teatro, ora appunto all'aperto, con un'interscambiabilità di luogo
d'esecuzione a seconda della reperibilità o meno dei suonatori in una città anziché in un'altra).
Nell'età dell'Illuminismo, le musiche all'aperto per strumenti a fiato presupponevano che gli
esecutori, appunto perché in prevalenza dovevano «rimanere fuori, sotto le finestre o tra gli
alberi, fossero sempre più primitivi dei suonatori di strumenti ad arco; per lo meno Mozart li
considerò tali e infatti a quei tempi era assai più facile passare da servitore a suonatore di
corno che a violinista» (Einstein).
Il vertice espressivo però della musica beethoveniana per strumenti a fiato (in cui si
annoverano anche un Rondino in mi bemolle maggiore, un Duetto in sol maggiore, Tre duetti
in do maggiore, tutte del 1792, un Trio in do maggiore del 1794, un Sestetto in mi bemolle
maggiore e una Serenata in re maggiore del 1796, Otto variazioni in do maggiore del 1797,
una Marcia in si bemolle maggiore, Tre Equali e un Adagio) è fornito però dal Gran Settimino
in mi bemolle maggiore per clarinetto, corno, fagotto, violino, viola, violoncello e
contrabbasso op. 20, composto nel 1799 ed eseguito per la prima volta in forma privata nel
palazzo del principe Karl Philipp zu Schwarzenberg e in pubblico alla prima Accademia
viennese a beneficio dell'autore il 2 aprile 1800, assieme alla Prima sinfonia. Gli strumentisti
di quel concerto all'Imperiai Regio Teatro di Corte erano di primissima qualità e rispondevano
ai nomi di Schuppanzigh, Schreiber, Baer, Dietzel, Schindlecker, Nickel e Matauschek: anche
per merito loro, il successo fu subito entusiastico, come attestato da una cronaca
dell'«Allgemeine Musikalische Zeitung» che giudicò il Settimino «scritto con moltissimo
gusto e originalità». La dedica era a Maria Teresa, seconda moglie dell'imperatore Francesco
II, appassionata di musica e cantante dilettante - per la quale Haydn compose la Theresien-
Messe. A differenza di Beethoven, che dichiarò a Czerny di «non poter soffrire il suo
Settimino, risalente a giorni in cui non sapeva inventare», il lavoro piacque al pubblico
moltissimo, sì da persuadere l'autore a indirizzare all'editore Hoffmeister & Kühnel di Lipsia
la viva raccomandazione di una sollecita stampa, anche in trascrizione per diverso organico, ad
uso di quanti «ne fecero già proposta e vi sciamerebbero attorno come insetti e vi
abboccherebbero», com'è rinvenibile in una lettera dell'anno seguente. A testimonianza della
larghissima diffusione e del successo del Settimino infatti fa fede un passo di una novella
giovanile di Wagner, Una vìsita a Beethoven, ove s'immagina che il protagonista, nel compiere
un lungo viaggio a piedi attraverso la Germania, la Boemia e l'Austria per giungere a Vienna a
conoscervi Beethoven, imbattutosi nei pressi di un piccolo borgo in un gruppo di musicanti
girovaghi, s'unisca a loro per suonare il Settimino «là, sul margine di una via maestra della
Boemia, sotto il cielo aperto, con una purezza, una precisione, una profondità di sentimenti
tali, che ben raramente è dato trovarle nei più celebri virtuosi! Grande Beethoven - conclude lo
scrittore - fu veramente un rito degno del tuo genio!».
La successione dei vari movimenti di cui si compone il lavoro si apre con un Adagio
introduttivo, nel quale oltre ad adombrare lo spunto tematico del successivo Allegrio con brio,
viene preannunziato nella parte dei fiati un ritmo puntato che, ritornando in seguito sia nel
Minuetto sia nell'Andante introduttivo al Finale, costituisce una sorta di nodo focale della
composizione. Dopo una cadenza conclusa da un breve volteggio del violino s'inizia l'Allegro,
costruito come una successione di archi rampanti (slancio del primo tema) fronteggiati dal
baluardo dei ritmi esatti del secondo tema. L'Adagio cantabile è prossimo al Larghetto della
Seconda sinfonia, rispetto al quale risulta meno complesso anche se percorso da più dolci e
sottili venature di malinconia. Interessanti in particolar modo sono le distinte espressioni degli
strumenti a fiato: dolce e calorosa nel timbro del clarinetto, idilliaca nel fagotto, nostalgica e
triste nel corno. Importante è poi l'episodio centrale con l'entrata del tema in do maggiore e il
suo graduale dissolvimento, dopo la modulazione in minore, in voci più oscure, sino al ritorno
del tono d'impianto nella riesposizione. Il nucleo tematico del Minuetto ha origine dal citato
ritmo puntato dell'Introduzione all'Allegro iniziale: è quasi identico al Minuetto della Sonata
per pianoforte op. 49 n° 2 con i medesimi caratteri nel profilo ritmico, nell'espressione e nel
colorito, seppur con tratti più energici e marcati in questo tempo del Settimino. Una canzone
popolare renana avrebbe fornito lo spunto all'Adagio. Secondo la consuetudine tipica del
genere della Serenata o del Divertimento, il tema va incontro ad alcune variazioni che fanno
prevalere di volta in volta vari strumenti o gruppi strumentali: così, se nella prima variazione il
trio d'archi è impegnato in un leggero movimento contrappuntistico, nella seconda prevale il
violino con le sue fioriture, nella terza si evidenzia specialmente il canto del clarinetto e del
fagotto mentre nella successiva, in minore, si sente emergere la voce del corno; l'ultima
variazione arricchisce di preziosi abbellimenti la riproposta del tema, riflesso poi in un breve
gioco di immagini frammentate. Lo Scherzo, secondo una maniera che sarà poi tipica dei
movimenti analoghi delle prime Sinfonie beethoveniane, suddivide fra gli strumenti la frase
fondamentale. Nel Trio la melodia, modellata su un motivo di valzer, viene affidata al
violoncello. Dopo il breve Andante con moto (alla marcia), ove si profila nettamente il ritmo
puntato del Minuetto, subentra il Presto conclusivo che esula del tutto dalla forma del Rondò
per attenersi al tracciato della forma-sonata, facendo rilevare uno spirito non dissimile da
quello del movimento iniziale, quanto rinforzato e accresciuto nello slancio e nella forza
espressiva.
Luigi Bellingardi
WoO 30 1812
Tre Equali per quattro tromboni
https://www.youtube.com/watch?v=eJMazTQcGXU
https://www.youtube.com/watch?v=UIbSHXPNvlI
Organico: 4 tromboni
Prima esecuzione: Linz?, 2 novembre 1812
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
Scritti per Franz Xaver Glöggl
Op. 87 1794
Trio per fiati in do maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=gF_rJaVWgYI
https://www.youtube.com/watch?v=Cc1cIU1FlOc
Allegro
Adagio cantabile (fa maggiore)
Minuetto. Allegro Molto. Scherzo
Presto
Composto nel 1794 o nel 1795, il Trio op. 87 (il cui titolo originale è Terzetto) si collega
idealmente da un lato all'Ottetto op. 103, col quale condivide la freschezza dell'ispirazione e
l'accuratezza della fattura, mentre dall'altro riproduce l'organico delle contemporanee
Variazioni su un tema del «Don Giovanni» di Mozart WoO 28 (forse entrambi i lavori furono
composti per tre celebri esecutori, vale a dire i fratelli Johann, Franz e Philipp Teimer).
Dal punto di vista formale, l'Adagio cantabile è costituito da un'esposizione e da una ripresa
variata con coda. La prima sezione tratteggia l'espressivo tema principale, la seconda ne
rappresenta una prosecuzione connotata dalle mormoranti figure del corno inglese che, nella
ritransizione, passano anche agli oboi. Nella ripresa variata, la prima parte è oggetto di
ornamentazione, mentre la seconda conduce, attraverso un cromatismo discendente, alla coda,
dove gli strumenti entrano uno dopo l'altro per ritrovarsi, infine, insieme.
Il Menuetto. Allegro molto. Scherzo è un movimento che tradisce già nella ridondanza
dell'intestazione l'impulso di Beethoven a trasformare il Minuetto settecentesco in Scherzo.
Del resto la lievità di tocco è qui innervata da una sensibilità timbrica e una gagliardia ritmica
che ormai nulla hanno a che vedere con la danza del passato. Il Menuetto è articolato in due
parti replicate così come il Trio, tutto basato sul ritmo sincopato; alla ripresa del Menuetto
segue una Coda.
Il Finale. Presto è un brillante rondò dai tratti ingegnosi. Al tema principale (A) succede il
primo episodio (B), che oscilla tra il minore e il maggiore e comprende al centro un passo
virtuosistico di terzine per l'oboe I. Il ritorno abbreviato del tema principale (A) introduce
quindi il secondo episodio (C), fondato su una serie di imitazioni contrappuntistiche tra gli
strumenti. Una ritransizione che resta sospesa a mezz'aria prepara la ripresa abbreviata, dove si
susseguono il tema principale (A), il primo episodio (B) ridotto al passaggio virtuosistico
dell'oboe I, il secondo episodio (C) ridotto all'ultima delle imitazioni contrappuntistiche e
infine la coda conclusiva.
Cesare Fertonani
WoO 46 1801
7 Variazioni in mi bemolle maggiore per violoncello e pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=TTjUKXM0r-s
Tema. Andante
Composte nel 1801 e pubblicate a Vienna nel 1802 con dedica al conte Johann Georg von
Browne, le Variazioni Wo O 46, lavorate con estrema cura e, si sarebbe detto un tempo, con
estrema "distinzione", sembrano a noi, nel contesto dell'opera di Beethoven, un controsenso.
Lo schema architettonico non presenta le novità delle Variazioni Wo O 45, l'invenzione di
situazioni contrastanti non è così felice come nelle Variazioni op. 66, il linguaggio non è
lontano da quello dei kleine Meister, dei piccoli maestri viennesi che dall'infinito della
classicità stavano ricavando lo spazio del Biedermeier. A parer nostro comincia a delinearsi
qui il concetto di Variazione come parodia stilistica: parodia, intendiamo, nel senso di
ricreazione basata sull'analisi e sulla catalogaziene di stili ormai oggettivati, non nel senso di
deformazione ironica o grottesca. La parodia giocherà un ruolo di grande rilievo nel lavoro
culminante di Beethoven nel campo della Variazione, le Variazioni su un Valzer di Diabelli op.
120. Ma nelle Variazioni Wo O 46 Beethoven non sembra avere piena coscienza delle
potenzialità della parodia, e solo nella terza Variazione - sempre a parer nostro - riesce a
definire la ricreazione stilistica in maniera veramente compiuta.
L'ultima Variazione dell'op. 66, come abbiamo detto, era amplificata. Dopo l'ultima delle
Variazioni Wo O 46 Beethoven apre una Coda che inizia in do minore e che si sviluppa
ampiamente, con aperture stilistiche verso il mondo delle Sonate op. 30 per pianoforte e
violino che non si erano notate nel corso dell'opera. Molto mondana è la conclusione, con un
teatralissimo effetto di allontanamento contraddetto da due clamorosi accordi finali.
Piero Rattalino
Già autore di due importanti sonate per violoncello e piano - le due dell'opera 5 - Beethoven,
tra il 1796 e il 1801, scrisse per gli stessi strumenti tre serie di variazioni. Per una di esse
scelse un tema dal «Judas Makkabäus» di Händel, mentre per le altre due adottò temi del
«Flauto Magico» e precisamente l'aria di Papageno nel secondo atto e il duetto Pamina-
Papageno nel primo. Queste ultime variazioni furono probabilmente scritte nel 1801 e
comparvero presso l'editore Mollo l'anno seguente. Scopo dell'opera è mettere in luce la
bravura di qualche virtuoso, e vi si ammira, pur nei limiti di una composizione decisamente
minore, la sagacia nello sfruttamento delle risorse del violoncello. Il tema è esposto già in una
variante canonica, mentre le prime due variazioni si addentrano sempre più in brillanti
arabeschi. Per contrasto la terza variazione è spiccatamente melodica e prepara la quarta che
ha accenti drammatici. Ancora in contrasto tra loro sono la vivace quinta variazione e la sesta
dai toni pacati e contemplativi. Infine la settima variazione, allegro non troppo, viene seguita
da una coda che è di per sé il pezzo più lungo della composizione. Si può dire che soltanto in
questa coda Beethoven si appropri del tema mozartiano e ne estragga un materiale del tutto
personale e lo animi con una grande foga inventiva.
Bruno Cagli
Daniele Spini
https://www.youtube.com/watch?v=NO4KkhfcUis
sul tema "Se vuol ballare" dell'opera "Le nozze di Figaro" di Wolfgang Amadeus Mozart
Allegretto
Op. 66 1796
12 Variazioni in fa maggiore per pianoforte e violoncello
https://www.youtube.com/watch?v=Ulcl4GgBLYY
Allegro
Composte nel 1798 e pubblicate nello stesso anno a Vienna senza numero d'opera e senza
dedica. Il numero d'opera venne aggiunto in una successiva ristampa.
Prendendo lo spunto da un tema del Flauto Magico, l'aria di Papageno, Beethoven si calava nel
"popolare", perché il Singspiel di Mozart era stato eseguito in un teatro di periferia ed era noto
a tutti i viennesi. La ricerca dell'originalità si sposta qui sul modo di trattare il tema. Fin dalla
prima Variazione, affidata al solo pianoforte (anche nelle Variazioni WoO 45 la prima
Variazione è riservata al pianista), Beethoven si allontana nettamente dal tema con un disegno
ammiccante e burlesco che sembra, più che una Variazione, un ritratto psicologico di
Papageno. Altri aspetti del personaggio, più che del tema, vengono messi in luce nelle
successive Variazioni, con estrema inventiva e vivacità. Le Variazioni in modo minore sono
due, consecutive, e la seconda di esse, straordinariamente suggestiva, serve di introduzione
all'ultima, ampliata, che funziona come un finale. La dodicesima Variazione sembra dover
finire in gloria, ma un improvviso ripiegamento la fa svanire nel nulla. E queste Variazioni,
che evocano il quotidiano e la moda, si colorano invece dei toni misteriosi e sfuggenti di certi
racconti borghesi di Hoffmann.
Piero Rattalino
Anche le dodici Variazioni sull'aria, o meglio sui couplets di Papageno nel secondo atto del
Flauto magico di Mozart, composte nel 1798 e pubblicate subito dopo a Vienna da Traeg con
un numero d'opus probabilmente sbagliato, sono forse opera d'occasione, scritta per un
virtuoso. Fra i tre cicli di Variazioni per violoncello e pianoforte composti da Beethoven
questo è senz'altro il più noto; e giustamente, poiché la sua fattura è tale da renderne ingiusta
la collocazione fra le pagine da dimenticare: soprattutto sotto il profilo ritmico, Beethoven
riesce qui a conseguire una netta originalità, che garantisce a quest'opera una grazia e una
piacevolezza tutt'altro che banali. Il chiaro impianto virtuosistico della parte del violoncello
settecentesco inoltre, contribuisce a rendere più omogeneo l'equilibrio fra i due strumenti. Le
avventure formali cui viene sottoposto il popolarissimo tema mozartiano (la scelta del quale
attesta la fortuna postuma dell'ultimo capolavoro operistico del Salisburghese, giacché
composizioni di questo genere impiegavano quasi d'obbligo motivi a tutti noti e graditi)
risentono ancora una volta di un concetto settecentesco della Variazione limitato a una
funzione più che altro esornativa, di fioritura; ma è indubbio che la mano di Beethoven si
rivela anche da questo punto di vista abbastanza scaltrita, riuscendo a discostarsi dalle formule
prefabbricate, fino a proporre una creazione senza particolari ambizioni ma provvista di
notevole dignità e autonomia.
Daniele Spini
WoO 45 1797
12 Variazioni in sol maggiore per violoncello e pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=mEtn3lm1OAw
Allegro
Prendendo lo spunto da un tema del Flauto Magico, l'aria di Papageno, Beethoven si calava nel
"popolare", perché il Singspiel di Mozart era stato eseguito in un teatro di periferia ed era noto
a tutti i viennesi. La ricerca dell'originalità si sposta qui sul modo di trattare il tema. Fin dalla
prima Variazione, affidata al solo pianoforte (anche nelle Variazioni WoO 45 la prima
Variazione è riservata al pianista), Beethoven si allontana nettamente dal tema con un disegno
ammiccante e burlesco che sembra, più che una Variazione, un ritratto psicologico di
Papageno. Altri aspetti del personaggio, più che del tema, vengono messi in luce nelle
successive Variazioni, con estrema inventiva e vivacità. Le Variazioni in modo minore sono
due, consecutive, e la seconda di esse, straordinariamente suggestiva, serve di introduzione
all'ultima, ampliata, che funziona come un finale. La dodicesima Variazione sembra dover
finire in gloria, ma un improvviso ripiegamento la fa svanire nel nulla. E queste Variazioni,
che evocano il quotidiano e la moda, si colorano invece dei toni misteriosi e sfuggenti di certi
racconti borghesi di Hoffmann.
Piero Rattalino
Anche le dodici Variazioni sull'aria, o meglio sui couplets di Papageno nel secondo atto del
Flauto magico di Mozart, composte nel 1798 e pubblicate subito dopo a Vienna da Traeg con
un numero d'opus probabilmente sbagliato, sono forse opera d'occasione, scritta per un
virtuoso. Fra i tre cicli di Variazioni per violoncello e pianoforte composti da Beethoven
questo è senz'altro il più noto; e giustamente, poiché la sua fattura è tale da renderne ingiusta
la collocazione fra le pagine da dimenticare: soprattutto sotto il profilo ritmico, Beethoven
riesce qui a conseguire una netta originalità, che garantisce a quest'opera una grazia e una
piacevolezza tutt'altro che banali. Il chiaro impianto virtuosistico della parte del violoncello
settecentesco inoltre, contribuisce a rendere più omogeneo l'equilibrio fra i due strumenti. Le
avventure formali cui viene sottoposto il popolarissimo tema mozartiano (la scelta del quale
attesta la fortuna postuma dell'ultimo capolavoro operistico del Salisburghese, giacché
composizioni di questo genere impiegavano quasi d'obbligo motivi a tutti noti e graditi)
risentono ancora una volta di un concetto settecentesco della Variazione limitato a una
funzione più che altro esornativa, di fioritura; ma è indubbio che la mano di Beethoven si
rivela anche da questo punto di vista abbastanza scaltrita, riuscendo a discostarsi dalle formule
prefabbricate, fino a proporre una creazione senza particolari ambizioni ma provvista di
notevole dignità e autonomia.
Daniele Spini
https://www.youtube.com/watch?v=sO2EvaU5VwM
Andante
Struttura musicale
Tema per le variazioni. Andante. Singolare andamento a una sola voce dei tre strumenti, che
delineano dei semplici accordi arpeggiati a note staccate. Episodio conclusivo del tema
Variazione I. Andamento galoppante della mano destra del pianoforte, punteggiato dagli
accordi della mano sinistra e degli archi
Variazione II. Elaborazione del solo pianoforte, di sapore «settecentesco», con un grazioso
andamento scalare della mano destra sostenuto dal «basso albertino» (accordi spezzati) della
mano sinistra
Variazione III. Delicato profilo a terzine che il violino disegna sugli arpeggi pianistici della
mano destra, sostenuti da cadenzati bassi della sinistra e del violoncello
Variazione IV. Conduzione melodica del violoncello con fraseggi legati simili a quelli del
pianoforte nella Variazione II; il pianoforte si adatta al timbro del violoncello con un
accompagnamento di tessitura medio-bassa
Variazione V. Saliscendi a terzine, inizialmente identico a quello della Variazione III,
affidato al movimento parallelo delle due mani del pianoforte, che si intrecciano a note lunghe
degli archi
Variazione VI. Le note staccate, elemento unificante della variazione, si alternano su due
differenti piani dinamici: il forte, con i tre strumenti paralleli (all'ottava), e il piano, con la sola
mano destra punteggiata dalle altre voci. Nei due forte finali Beethoven aggiunge anche degli
incalzanti sforzati sopra ottavi in levare
Variazione VII. Largo in 6/8, nel quale si sviluppa un melanconico dialogo tra violoncello e
violino, accompagnato dai mesti ribattuti accordali del pianoforte
Variazione VIII. La mano destra del pianoforte sviluppa un'elegante melodia su saltellanti
arpeggi staccati di basso della mano sinistra e delicati ribattuti terzinati degli archi
Variazione IX. Arpeggi spezzati a note staccate che si alternano tra archi e pianoforte, con
l'aggiunta di trilli di quest'ultimo
Variazione X. Gioco a incastro delle diverse linee che si alternano rapidamente a ottavi, con
un marcato spostamento d'accenti dovuto agli sforzati in levare del pianoforte
Variazione XI. Sull'accompagnamento terzinato del pianoforte si sviluppa un brillante
dialogo tra gli archi, basato sull'ostinata reiterazione della medesima cellula ritmica
Variazione XII. Ancora un accompagnamento ad arpeggi terzinati, ma della sola mano
sinistra del pianoforte, sostiene un serrato dialogo a tre (i due archi e la mano destra del
pianoforte), basato su una cellula ritmica dal ritmo puntato
Variazione XIII. Soffuso pianissimo, con un ondulato arpeggiare in tessitura acuta della
mano destra del pianoforte, sostenuta dal lento incedere accordale della sinistra e degli archi.
In conclusione, la destra si apre con lenti movimenti obliqui delle voci sugli accordi cadenzali
che chiudono la variazione
Variazione XIV. Allegro in 6/8: graziosa reiterazione (pianoforte e poi archi) di un fraseggio
di tre note (una nota staccata e due legate), che crea una raffinata ambiguità sulla collacazione
dell'accento ritmico. Rapido fluire di sedicesimi della mano destra del pianoforte, che si arresta
improvvisamente per dar spazio all'epilogo conclusivo
Finale. Andante, che inizialmente rievoca la tessitura della Variazione XIII. Lenti rintocchi
accordali punteggiati da pizzicati degli archi, che confluiscono nel Presto della cadenza finale
Sulla scorta di appunti di Beethoven. conosciuti dallo Jahn, e il raffronto col tema delle
variazioni sul Balletto di Prometeo, Prodhomme ha finito per attribuire le VARIAZIONI op.
44 al 1799 piuttosto che al 1792 come aveva proposto Nottebohm. Quindi, in compagnia dei
tre Trii op. 1 e delle Sonate per pianoforte dall'op. 2 all'op. 13 («Patetica»), per non citare che
le più celebri di tante musiche di quegli anni. Tuttavia era bastato al giovane Beethoven per
affermarsi nella capitale, quasi immediatamente dopo il suo arrivo nel novembre del 1792, il
dono d'improvvisatore che mandava in visibilio i viennesi, destando anche certe, cupidigie che
confermerebbero, almeno all'ingrosso, la datazione del Prodhomme. I trilli, che ornano non del
tutto agevolmente la IX variazione, ricordano l'altro che egli dichiarò di avere inserito in certe
variazioni per piano e violino del 1794 per garantirsi da coloro, evidentemente non troppo abili
pianisti, i quali intendevano di sfruttare le sue invenzioni mettendole per iscritto il giorno
successivo alla sera in cui le aveva, improvvisate, per poi esibirle come proprie. Nell'uso
dell'improvvisare, le variazioni hanno a quell'epoca già soppiantato, fuori della chiesa, quello
di Fughe e fugati all'impronta del secolo precedente, d'accordo coi modi melodico-armonici
della corrente sintassi musicale. Tutte le volte, che accade di leggere dei saggi estemporanei di
Beethoven è di variazioni che si parla. E anche quelle serbate per iscritto conservano evidente
l'origine di mondana piacevolezza creatasi d'intorno a questi escrcizi di fantasia musicale
anche nei salotti più coltivati. Neppure le 14 variazioni op. 44 se ne differenziano
sostanzialmente, ma frequenti tratti d'intelligenza e di estro consapevole le rendono più
originali della maggior parte delle consorelle di quegli anni.
Da un tema d'apparenza assai modesta - quasi una scommessa d'andare insieme, proposta a
tutti e tre gli strumenti sulle note di una specie di basso d'armonia, - le 14 variazioni vengono
fuori con frequenti allusioni al tipico linguaggio beethoveniano, crescendo entro quello
scheletro maliziosamente gracile una ricchezza di contenuti soprattutto melodici e ritmici,
buoni ad aprire nel prevalente carattere brillante, confermato e amplificato dal finale, zone di
un'Arcadia romantica come le due variazioni in minore (7. e 13.) e l'8. E il tutto senza
sproporzioni, con giovanile schiettezza.
Emilia Zanetti
Nel lungo periodo che separa l'op. 1 dall'op. 70, Beethoven si dedica al trio per archi e
pianoforte solo con alcune trascrizioni di altre sue opere e con le Variazioni in mi bemolle
maggiore op. 44 del 1800, del quale peraltro non è rimasto il manoscritto originale e di cui si è
anche supposta una datazione assai anteriore.
Il tema è costituito da una semplice successione armonica di accordi che i tre strumenti
arpeggiano con note staccate a una sola voce. Le quattordici variazioni a cui esso viene
sottoposto, per la cui descrizione rimandiamo all'elenco dettagliato della struttura musicale,
sono dei piccoli bozzetti, delle miniature che a volte richiamano particolari stili o forme
musicali, apprezzabili soprattutto per la godibilità dell'ascolto e per la varietà dei contenuti
tecnici e timbrici.
WoO 39 1812
Allegretto per Trio con pianoforte in si bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=sLmiEYpJY10
Allegretto
Composto nel giugno del 1812, l'Allegretto per archi e pianoforte in si bemolle maggiore WoO
39 è invece opera di un solo movimento, scritta in una sorta di deliziosa forma-sonata in
miniatura, con sezioni formali (Temi, Sviluppo ecc.) che risultano essere infatti
particolarmente succinte ed essenziali. Il motivo di questa scelta sta nel fatto che Beethoven
volle destinare questa sua pagina a una bambina di dieci anni, ovvero la figlia dell'amico Franz
Bertano, la stessa alla quale nove anni più tardi dedicherà la Sonata per pianoforte op. 109.
Scrive lo stesso Beethoven nella dedica: «...alla mia piccola amica Maximiliana Brentano,
come incoraggiamento ai suoi studi pianistici», anche se, si è fatto notare, la densità della
scrittura richiede forse un impegno esecutivo non propriamente congruente alla destinazione
voluta dall'autore. Il primo tema è una gentile melodia in 6/8 mossa con dolcezza dal
pianoforte; quando gli archi ne riprendono l'incipit, nasce un delizioso intreccio
contrappuntistico di incisi melodici che porta alla tonalità di dominante. Qui si sviluppa il
secondo tema, con una cellula ritmica che rimbalza tra i tre strumenti, mentre una nota
ribattuta del violoncello sottende la fase cadenzale che porta a compimento l'Esposizione.
Nello Sviluppo il primo tema viene riproposto in nuovi contesti tonali arricchito di fioriture
melodiche, fino a quando l'inciso di coda del tema stesso passa alla mano sinistra pianoforte,
liberandosi in un rapido profilo ondulato che porta alla Ripresa. Qui il primo tema è riproposto
all'ottava superiore, con un accompagnamento più fitto, mentre l'episodio di collegamento
viene variato armonicamente per riportare il secondo tema nella tonalità d'impianto. Una serie
di reiterazioni all'incipit del primo tema conducono a una riproposizione fiorita del tema
stesso, che il violoncello esegue intrecciandosi ai disegni del violino e a un lungo trillo del
pianoforte. In conclusione, il pianoforte prende spunto dalla coda melodica del precedente
episodio, mentre gli archi fanno risentire l'incipit del primo tema sopra lunghe scale
cromatiche ascendenti della stessa tastiera che portano alla delicata cadenza finale.
Alessandro Mastropiero
Op. 42 1803
Notturno in re maggiore per viola e pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=LAqdgg05t24
https://www.youtube.com/watch?v=R8iNyXRByGQ
Marcia: Allegro
Adagio
Minuetto: Allegretto
Adagio (re minore)
Allegretto alla Polacca (fa maggiore)
Tema con variazioni: Andante quasi Allegretto. Marcia
Due sono le Serenate per trio di Beethoven; entrambe in re maggiore; l'op. 8 per violino, viola
e violoncello; l'op. 25 per flauto, violino e viola. Ed entrambe sono mirabili esponenti del
Beethoven «settecentesco». Ma qui interessa la Serenata op. 8, per archi. Composta nel 1896-
97, la data certa relativa ad essa è quella dell'annuncio della sua pubblicazione presso l'editore
Artaria, apparso in « Wiener Zeitung » del 7 ottobre 1797. Destinata a quella formazione di
trio che era molto comune anche nella pratica musicale dilettantistica della capitale viennese,
la deliziosa opera divenne ben presto tra le più popolari di Beethoven; rendendosi anche
disponibile a varie e diverse pratiche di esecuzione. Entro il primo decennio dell'800 se ne
sono indicate trascrizioni varie: per due violini, per violino e chitarra, per orchestra; o
l'arrangiamento vocale della melodia del suo Andante. Ma l'unico arrangiamento che compare
nei cataloghi beethoveniani, sebbene esso non sia di mano integrale di Beethoven, è quello per
viola e pianoforte con il titolo di Notturno in re maggiore op. 42. Il Thayer, appunto nel suo
Catalogo, asserisce che Beethoven autorizzò la pubblicazione di tale trascrizione - d'altra
mano, rimasta anonima - da lui stesso però riveduta in alcuni passi. Si cita anche in proposito
uno scritto di Beethoven all'editore Hoffmeister (il quale pubblicò il Notturno nel 1804) in cui,
con l'autorizzazione, Beethoven diceva che, per tali trascrizioni, egli stesso non avrebbe
trovato nè il tempo nè la pazienza. Nelle edizioni moderne, il Notturno op. 42 ha avuto la
revisione di Primrose e quella di Sidney Beck. La nuova formazione duistica articola fra viola
e pianoforte quel discorso originalmente distribuito al trio d'archi nella Serenata op. 8: in cui,
come forma derivata dalla classica «Sonata a tre», la struttura di melodia accompagnata dà un
certa preminenza al violino sugli altri archi; ma in cui pure gli altri strumenti talora si arrogano
il protagonismo melodico, via via entrando nel tessuto discorsivo e scambiandosene le
competenze conduttrici.
Il Notturno op. 42 conserva la stessa conformazione della Serenata op. 8, nei suoi otto
movimenti, praticamente sei: con la funzionale Marcia introduttiva ripresa nella Marcia finale,
e con il penultimo tempo, Allegro, che in sostanza è una ulteriore e ben collegata «Variazione»
- e questa in 6/8 - del terzultimo tempo, l'Andante quasi Allegretto con quattro «Variazioni»,
tutte in 2/4, elegantemente cangianti tra il modo maggiore e il minore. Dopo la disinvolta
Marcia di inizio, il primo Adagio è una pagina mirabile del primo Beethoven, nell'espansione
melodica ricca di fioriture, in cui l'immissione del modo minore gioca un ruolo molto patetico.
Il Minuetto, con «Trio» e «Coda», risponde ai canoni tradizionali. Quindi la più stupefacente,
e storica, qualità inventiva dell'opera appare nel quarto movimento: il bellissimo Adagio, d'una
declamatorietà miracolosamente frenata in pudore espressivo, alle cui riprese si alterna e
contrappone un pungente Allegro molto denominato Scherzo. Il tributo alle caratterizzazioni
volute dall'epoca e da questo genere di composizioni, per l'interesse sempre vivace dell'ascolto
e per il divertimento dell'esecuzione stessa, è costituito dal seguente Allegretto alla polacca,
che sprizza sane quanto anche scaltre gioie ritmiche e melodiche; con una imprevedibile
chiusa a suspence, per passare all' Andante con variazioni, di cui si diceva sopra.
WoO 36 n. 3 1785
Quartetto per pianoforte n. 3 in do maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=iw0qHeg7Ipo
Allegro vivace
Adagio con espressione (fa maggiore)
Rondò. Allegro
Non per nulla Beethoven, man mano che si distacca spiritualmente da questa società e afferma
con prepotenza la sua personalità, non tornerà più al quartetto per pianoforte, se si esclude la
rielaborazione del Quintetto per fiati op. 16 come quartetto per piano e archi, e si dedicherà
con indefessa passione allo studio del quartetto per archi, che egli predilesse e coltivò
ininterrottamente insieme alla Sonata per pianoforte. E questa occasione di valutare e
conoscere meglio le possibilità espressive del quartetto per archi gli fu offerta negli anni
giovanili trascorsi a Bonn, quando frequentò la casa del principe Lichnowskj ed ebbe modo di
ascoltare il Quartetto Schuppanzigh che suonava musiche di Haydn e di Mozart. Non a caso
nel primo dei tre quartetti per pianoforte, quello in mi bemolle maggiore, si avverte la presenza
della Sonata per violino in sol maggiore K. 379 di Mozart.
E proprio a Bonn nel 1785 furono composti i tre quartetti per pianoforte op. 36, di cui stasera
viene eseguito il terzo in do maggiore. Appunti per l'Allegro in mi bemolle minore del primo
quartetto si trovano in un libretto su cui Beethoven era solito segnare le sue idee musicali; il
compositore portò con sé il manoscritto nel trasferirsi a Vienna, dove fu acquistato dall'editore
Artaria e pubblicato nel 1828 nella successione delle tonalità così come è conosciuta oggi, e
cioè mi bemolle maggiore, re maggiore e do maggiore. Il Quartetto n. 3 è articolato in tre
tempi che denotano una freschezza di invenzione melodica e uno stato d'animo
sostanzialmente sereno e aperto, lontano da quegli atteggiamenti corrucciati e drammatici
tipici di questo artista profondamente romantico. Brioso e brillante è l'Allegro vivace del
primo tempo, in cui il pianoforte svolge un ruolo armonicamente rilevante nei confronti degli
altri strumenti. Dolce e cantabile, soffuso di un delicato sentimento di malinconia, è l'Adagio,
che serve a preparare l'atmosfera scherzosa e punteggiata da una piacevole varietà ritmica
dell'Allegro finale, che termina con un accordo festoso e pieno di giovinezza. E' un quartetto
dalla forma semplice e priva di qualsiasi messa in scena, quasi un colloquio tra persone ohe si
scambiano pensieri amichevoli e distensivi.
Ennio Melchiorre
https://www.youtube.com/watch?v=dJBGeTYzUB0
Grave
Allegro ma non troppo
Andante cantabile (si bemolle maggiore)
Rondò. Allegro ma non troppo
Il Quartetto op. 16 per pianoforte, violino, viola e violoncello è una versione elaborata dallo
stesso Beethoven del Quintetto op. 16 per pianoforte, oboe, clarinetto, corno e fagotto, che fu
composto tra il 1796 e il 1797 ed eseguito a Vienna il 6 aprile 1797 con l'autore al pianoforte,
nel corso di un concerto tenuto dal violinista Ignaz Schuppanzig. Il Quintetto, dedicato al
principe Joseph Schwarzenberg, fu pubblicato dall'editore Mollo di Vienna nel 1801 ed è più
conosciuto del Quartetto op. 16, la cui data di nascita dovrebbe essere contemporanea a quella
del Quintetto, del quale rispetta sostanzialmente la forma e la struttura, in sintonia spirituale
con il Quartetto con pianoforte K. 452 del 1784 di Mozart, particolarmente prediletto da
Beethoven per il suo ammirevole equilibrio melodico e ritmico.
Il Quartetto che viene eseguito stasera, allo stesso modo del Quintetto da cui deriva, racchiude
lo stile del primo Beethoven, sensibile alle convenzioni della società viennese del tempo, e
rivela una serenità senza nubi nella sua franca e aperta cantabilità, quale espressione di un
estroverso ottimismo giovanile. Infatti i brani con accompagnamento del pianoforte, insieme ai
sestetti, ai settimini e agli ottetti, avevano le caratteristiche della musica di intrattenimento e si
rivolgevano ad un pubblico per così dire familiare e non pagante (i primi concerti a
pagamento, i cosiddetti Dukaten-Konzerte, cominceranno a Vienna intorno al 1815). Per tale
ragione questo tipo dì musica mirava al puro divertimento e non mostrava tra le sue pieghe un
discorso troppo innovatore. Del resto, sia il Quintetto op. 16 che il Settimino op. 20, l'altro
pregevole lavoro dello stesso periodo, aprirono a Beethoven le porte della società viennese
intellettualmente brillante, che partecipava, alla vita dei salotti mondani e del teatro d'opera.
Siamo ancora lontani dalle significative esperienze della sinfonia e delle robuste sonate per
pianoforte, ma questo non vuol dire che in tali composizioni non ci sia già il segno della
personalità di un artista che avrebbe riempito del suo nome la storia della musica.
Il primo tempo, Grave, del Quartetto, avviato da accordi contrappuntati del violino e del
pianoforte, immersi in uno stato d'animo di fiduciosa attesa, sfocia in un piacevole e sorridente
ritmo (Allegro ma non troppo), in cui gli strumenti si amalgamano fra di loro con naturalezza
di espressione e in un'altalena tematica di felice inventiva. L'Andante tocca il momento lirico
più puro e fantasioso della composizione: il pianoforte espone la frase principale e su di essa si
snodano, come un albero fiorito, le variazioni degli archi, senza scadere nel facile
sentimentalismo. Il Rondò è punteggiato da una vivacità e da una freschezza melodica molto
gradevoli all'ascoltatore. Qui, più che altrove, Beethoven rievoca il paradiso perduto di una
civiltà musicale al tramonto, quando l'artista era chiamato a divertire, con suoni spumeggianti
e ariosi, una società aristocratica per censo ed educazione intellettuale, ben lontana dai
problemi della sopravvivenza di tutti i giorni.
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
Composta tra l'inizio del 1796 e la fine del 1797, l'opera 16 di Beethoven apparve nel 1801, a
Vienna, presso l'editore Mollo in duplice versione: come Quintetto per pianoforte, oboe,
clarinetto, corno e fagotto, e come Quartetto per pianoforte e archi. Alla doppia stesura non
dovettero essere estranee ragioni editoriali. Pure, l'opera 16 rimase e rimane una delle opere
favorite del perìodo giovanile di Beethoven. Il primo a riservarle una netta preferenza fu
l'autore, che amava suonarla in pubblico (ovviamente come pianista). Successivamente la
critica ha insistito nel giudicare il lavoro come il riflesso di uno dei rari momenti di beatitudine
e di serenità nella vita burrascosa di Beethoven. Più pertinente il giudizio di Carli Ballola, che
ne parla come dell'espressione «di un breve, felice periodo di irresponsabilità stilistica» prima
del momento in cui si dovevano ergere «le barriere di filo spinato della Patetica e del largo e
mesto della Sonata op. 10 n. 3». Ovviamente l'irresponsabilità stilistica consiste in una totale e
gioiosa adesione ai modelli consolidati, qual è ravvisabile nella giovinezza di tanti altri
musicisti. E difatti l'opera 16 di Beethoven costituisce una specie di esplicito omaggio a
Mozart, presente non soltanto come modello (con il Quintetto K. 452), ma anche con precisi
riferimenti tematici. Pedanti commentatori potrebbero districare reminiscenze del «Flauto
magico» o del «Don Giovanni» nei tre tempi della composizione beethoveniana e altri
potrebbero constatare, con piacere o rammarico - a seconda dei punti di vista - un influsso
italiano. Certo l'opera 16 è di quelle che sarebbero piaciute all'abate Carpani, essendo - come il
Settimino - scritte prima che Beethoven si mettesse al cimento di diventare «il Kant della
musica». Dunque un'opera tutta da gustare, soprattutto per la grazia dell'andante e per il sapore
di festa campestre che anima il rondò, la prima meglio messa in luce nella versione
quartettistica, il secondo in quella per quintetto. Certo un'opera insolita nel catalogo di
Beethoven, dove non mancano altre parentesi di gaiezza spensierata, ma raramente così
felicemente risolte.
Bruno Cagli
WoO 36 n. 1 1785
Quartetto per pianoforte n. 1 in mi bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=6COzNr0uyxE
https://www.youtube.com/watch?v=i-Et9SugHVc
Non per nulla Beethoven, man mano che si distacca spiritualmente e fisicamente da questa
società e afferma con energia e prepotenza la sua personalità, non tornerà più all'esperienza del
quartetto con pianoforte, se si esclude la rielaborazione del Quintetto per fiati op. 16 come
quartetto per pianoforte e archi, e si dedicherà con indefessa passione allo studio del quartetto
per archi, che egli predilesse e coltivò ininterrottamente insieme alla sonata per pianoforte. E
questa occasione di valutare e conoscere meglio le possibilità espressive del quartetto per archi
gli fu offerta negli anni giovanili trascorsi a Bonn, quando frequentò la casa del principe
Lichnowskj ed ebbe modo di ascoltare il Quartetto Schuppanzigh che suonava spesso musiche
di Haydn e di Mozart. Non a caso nel primo dei tre quartetti con pianoforte, in mi bemolle
maggiore, si avverte la presenza della Sonata per violino e pianoforte in sol maggiore K. 379
di Mozart.
Anche se non fu precoce in fatto di composizione come Mozart, Beethoven scrisse tra i dodici
e i quattordici anni le Variazioni su una marcia di Dressier per pianoforte, tre Sonate per
pianoforte e un Concerto in mi bemolle maggiore per pianoforte. A quindici anni compose tre
Quartetti per pianoforte, violino, viola e violoncello, che non vennero pubblicati subito e
apparvero in edizione a stampa solo nel 1828, presso l'editore Artaria di Vienna. Non essendo
stati classificati da Beethoven nel gruppo delle sue opere, i tre Quartetti furono elencati nella
sezione «Opere senza numero di opera» (Werke ohne Opuszahien) del fondamentale catalogo
beethoveniano Kinsky-Halm, con il numero d'ordine 36; per questo motivo sono conosciuti
come Quartetti WoO 36 n. 1 2 e 3.
Nel suo primo Quartetto con pianoforte Beethoven adotta lo schema formale della
composizione in due tempi, con un adagio introduttivo abbastanza ampio e rivolto ad
affermare la tonalità fondamentale di mi bemolle maggiore, con il pianoforte in evidenza,
anche se il violino svolge un ruolo importante. L'Allegro è impostato secondo la forma-sonata
(esposizione, sviluppo, riesposizione) e segue quei criteri di dialettica strumentale che avranno
poi la massima espansione nel Beethoven maturo. Nel secondo tempo il musicista sceglie la
forma del tema con variazioni. Il tema cantabile è esposto dal pianoforte e accompagnato dagli
archi in maniera schematica. Ogni strumento è protagonista delle prime quattro variazioni:
nella prima il pianoforte, nella seconda il violino, nella terza la viola, nella quarta il
violoncello. La quinta e la sesta variazione mirano ad esaltare il virtuosismo del pianista;
quindi il tema viene ripreso in una strumentazione diversa da quella iniziale, cioè con gli archi
non più in funzione di accompagnamento. Dopo una breve coda brillante, il secondo
movimento si conclude inaspettatamente in pianissimo.
WoO 36 n. 2 1785
Quartetto per pianoforte n. 2 in re maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=9LcsuGbUPMc
Allegro moderato
Andante con moto (fa diesis minore)
Rondo. Allegro
Op. 16 1796
Quintetto per pianoforte e fiati in mi bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=wFAZH3tz70M
Opera fra le meno eseguite, certo a causa dell'organico, il Quintetto in mi bemolle maggiore,
op. 16, si ascrive sicuramente fra le riuscite splendide della prima maniera beethoveniana.
Composto fra il 1796 e '98, eseguito per la prima volta in Vienna il 6 aprile 1797, in una serata
a casa Schuppanzigh, il lavoro (dedicato al principe Schwarzenberg) tenta una replica, in
chiave di ossequio, all'ammirabile Quintetto nella stessa tonalità (K.452), che segna un arrivo
vertiginoso nella parabola mozartiana.
E' opera distesa e appagata nella sua irruenza inventiva: 'la felicità' - secondo Carli Ballola -
consistendo 'proprio nella sua consapevole «convenzionalità», nel ricorso ingenuo e convinto a
quel linguaggio che Beethoven aveva ereditato bell'e fatto dai suoi predecessori e che era
comune retaggio alla civiltà musicale del suo tempo. Esiste, per ogni artista, un breve periodo
di felice irresponsabilità stilistica, nel quale gli è ancora possibile d'esprimersi validamente
mediante una sorta di koinè, prima che giunga, inesorabile, il dovere di una scelta. Il Quintetto
op. 16, nella sua serenità senza nubi, nella sua tenera cantabilità, nell'euritmia delle sue
architetture non ancora forzate dall'empito di inaudite ispirazioni, appartiene a questa beata
«zona franca»'...
Ciò che l'esatto giudizio non dice, ma probabilmente sottintende, è il diverso grado in cui può
manifestarsi quel dovere inesorabile. Chi ad esempio non lo sentisse mai, certo non diverrebbe
compositore di quella statura, ma godrebbe dei non disprezzabili vantaggi dell'epigonismo: per
fare nomi ottocenteschi, Hummel o Spohr: nel nostro secolo, Strauss.
Le zone franche possono occorrere anche in età adulta, in piena maturità stilistica: vi si
rivelano allora sotterranee, segrete alleanze (nel senso in cui si parla di alleanza fra metalli):
l'infantile e il tardo vi si riconoscono: così in certi spunti beethoveniani delle Bagatelle ultime
e supreme.
Mario Bortolotto
Per quanto pubblicato all'alba del nuovo secolo, nel 1801, dopo la svolta di affermazioni
importanti come quelle della Prima Sinfonia e del Settimino, il Quintetto in mi bemolle
maggiore op. 16, composto nel 1796-97, segna la fine più che l'inizio di un'epoca nella
parabola creativa di Beethoven.
Beethoven amava molto suonare questo Quintetto, che evidentemente rappresentava per lui un
momento di distensione e di felicità creativa. Forse proprio per prolungare il piacere
dell'esecuzione ne fece anche una riduzione per Quartetto con pianoforte e archi, mortificando
non poco il carattere timbrico dell'originale, troppo intimamente legato alla sonorità morbida e
vellutata dei fiati.
Sergio Sablich
Il Quintetto per piano, oboe, clarinetto, fagotto e corno in mi bemolle maggiore op. 16, fu
scritto da Beethoven tra il 1794 e il 1797. Il compositore lo diede alle stampe nel 1801,
dedicandolo al Principe Schwarzenberg. La prima esecuzione del Quintetto avvenne il 6 aprile
1797 nel quadro di una delle «Accademie» organizzate da Ignazio Schuppanzig (il
Schuppanzig era un eccellente violinista e, come tale, faceva parte del Quartetto del Principe
Rasumowsky che interpretava spesso i Quartetti di Beethoven sotto la guida dell'autore). Il
Quintetto op. 16 viene considerato come una delle migliori opere del primo periodo creativo
del compositore. Le assonanze con la musica di Mozart vi sono ancora assai numerose ed
evidenti, al punto che taluni studiosi asseriscono trattarsi di un vero e proprio omaggio di
Beethoven a quest'ultimo. Infatti i fondamentali motivi tematici dei tre movimenti principali
del Quintetto (il Grave si configura come una Introduzione) riportano a tre Arie di Mozart: il
tema dell'Allegro riecheggia la prima Aria del Flauto magico; il tema dell'Andante ricorda
l'Aria di Zerlina nel Don Giovanni; il tema del Rondò presenta chiare analogie con la Aria di
Papageno. Il Quintetto non possiede soltanto reminiscenze tematiche delle musiche di Mozart,
ma si muove tutt'intero in un clima di serenità, di felice abbandono e di grazia che si può ben
qualificare come «mozartiano». Il Buenzod, volendo confutare l'immagine convenzionale di
un Beethoven sempre corrusco e drammatico, cita appunto questo Quintetto: «Quando
nell'Andante ricompare il motivo iniziale che sembra evocare il riposo di una divinità, come
non pensare che, nel momento in cui concepiva tale frase, Beethoven avesse conosciuto uno
stato d'animo prossimo alla beatitudine?».
https://www.youtube.com/watch?v=KKcTb4xrLRA
Allegro
Op. 41 1803
Serenata in re maggiore per flauto e pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=l-Fyt3DldNc
Entrata. Allegro
Tempo ordinario d'un Minuetto
Allegro molto (re minore)
Andante con variazioni (sol maggiore)
Allegro scherzando e vivace
Adagio
Allegro vivace
La Serenata per flauto e pianoforte op. 41 è considerata un pezzo di musica da eseguirsi all'aria
aperta in occasione di una lieta ricorrenza o di un festeggiamento, come dimostrano la
semplicità di scrittura e l'eleganza melodica dei sette movimenti. La pagina beethoveniana, pur
rispettosa delle strutture formali caratteristiche di questo genere musicale, presenta il suo
biglietto da visita stilistico sin dall'Entrata, contrassegnata da un Allegro di fantasiosa e
spigliata varietà inventiva, con quel ritmo scandito come un cinguettìo di uccello dallo
strumento a fiato: è fra le trovate più brillanti ed estroverse del primo Beethoven. Il Minuetto
non esce dagli schemi consueti di una musicalità graziosamente galante, mentre il presto
dell'Allegro molto ha un accento sostenuto e ben timbrato. Trasparenti e leggere, come il volo
di una farfalla, in una serata d'estate, appaiono le variazioni sul tempo di Andante. L'Allegro
scherzando e vivace reca il segno espressivo tipico dei brani di queso genere e il clima sale di
tono nell'Adagio e nell'Allegro vivace finale, dove l'animo del compositore si riflette con
vivace, spensierata e giovanile prestanza ritmica, quasi a sottolineare l'addio al paradiso
perduto della felicità settecentesca, compiutamente evocata e immaginata in questa «Eine
kleine Nachtmusik» beethoveniana.
Op. 17 1800
Sonata per corno e pianoforte in fa maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=Xs7lrWtRZlc
Allegro moderato
Poco Adagio, quasi Andante (fa minore)
Rondo. Allegro moderato
Jan Vaclav Stich, più noto col nome italianizzato di Giovanni Punto, era il più grande virtuoso
di corno della sua epoca e con le sue tournée si era fatto conoscere dall'Ungheria fino
all'Inghilterra. A Parigi, nel 1778, incontrò Mozart, che scrisse per lui la parte per corno della
Sinfonia concertante in mi bemolle maggiore K. 297 b. A Vienna, nel 1800, incontrò
Beethoven, che scrisse per lui la Sonata in fa maggiore per corno e pianoforte, op. 17. Con una
rapidità che sarebbe sorprendente per qualunque musicista ma che sembra addirittura
incredibile per Beethoven, considerando la genesi solitamente lunga e tormentata delle sue
composizioni, questa Sonata fu scritta in due giorni, in modo che fosse pronta per il concerto
fissato per il 18 aprile 1800. In quell'occasione Beethoven stesso stava al pianoforte,
improvvisando quelle parti che non aveva fatto in tempo a scrivere per esteso. Il successo fu
enorme: «La Sonata è stata eseguita così perfettamente ed è piaciuta tanto che, a dispetto della
nuova ordinanza sui teatri che proibisce i bis e gli applausi fragorosi, i due virtuosi furono
costretti dagli entusiastici gridi di "Bravo!" a ricominciare da capo e ad eseguirla un'altra volta
dall'inizio alla fine» (da un articolo della "Allgemeine Musikalische Zeitung"). La Sonata
venne pubblicata l'anno seguente dall'editore viennese Mollo.
Nel corso del XVIII secolo il corno era già stato usato come solista con relativa frequenza: ma
Vivaldi, Bach, Haydn e Mozart (per citare soltanto i più illustri) gli avevano affiancato come
partner un'orchestra e non uno strumento a tastiera, che sembrava inconciliabile col corno per
timbro e tecnica. Ma l'incontro d'un compositore come Beethoven - molto attento a valorizzare
tutte le possibilità di strumenti ancora non esplorati a fondo: per quanto riguarda il corno,
basterà ricordare lo Scherzo della Terza Sinfonia e l'Adagio della Nona - e d'uno strumentista
come Punto - che eccelleva col suo celebre corno d'argento sia nella cantabilità, di grande
dolcezza e purezza, sia nei passaggi veloci e brillanti - rese possibile e felice quest'improbabile
matrimonio. La Sonata tuttavia non forza i limiti naturali dei due strumenti, non tenta
soluzioni audaci e si mantiene nei suoi limiti di piacevole pezzo da concerto destinato ad un
celebre virtuoso.
Il primo movimento, Allegro moderato, presenta una forma-sonata classica, ma meno
sperimentale e più disimpegnata rispetto a quanto Beethoven stava facendo nello stesso
periodo con le Sonate per pianoforte e nei Quartetti per archi. Il problema di mettere d'accordo
due strumenti così diversi è brillantemente risolto fin dall'inizio, con un primo tema che nasce
da un rapporto cordiale e collaborativo tra i due strumenti, ognuno dei quali conserva tuttavia
le sue prerogative, con il corno che attacca brillantemente il tema forte, mentre il pianoforte
risponde piano. Il secondo tema valorizza anche le possibilità cantabili e liriche del corno,
quindi lo sviluppo del movimento prosegue con un dialogo pieno di brio tra i due strumenti.
Ben diversa è l'atmosfera del Poco adagio quasi andante, che inizia in fa minore (le tonalità
minori presentavano notevoli problemi tecnici per il corno di allora, privo di pistoni) con un
breve motivo del corno simile a una serie di lamentosi sospiri, cui il pianoforte risponde con
accenti partecipi e calorosi: sono appena poche battute, che sfociano senza interruzione nel
finale, un sereno Allegro moderato in forma di rondò, che sollecita il virtuosismo del corno,
mettendone a dura prova l'agilità ed esponendolo a rischiose escursioni nel registro acuto.
Mauro Mariani
https://www.youtube.com/watch?v=Zv_UNpW88hs
https://www.youtube.com/watch?v=s2xMJ1t6QeE
https://www.youtube.com/watch?v=ll-L81zBEIc
Beethoven aveva studiato il violino da ragazzo, a Bonn, con un certo Franz Rovani, suo
cugino e violinista nella locale cappella. Lo studio del violino era allora di prammatica: per il
compositore del Settecento era infatti indispensabile la conoscenza pratica di uno strumento ad
arco, sia perché, essendo gli archi la base dell'orchestra, una scrittura agevolmente realizzabile
dagli archi permetteva di guadagnare tempo prezioso durante le poche prove allora disponibili,
sia perché bisognava saper scrivere, per i numerosissimi dilettanti, musiche di effetto brillante
ma senza difficoltà inconsuete e che richiedessero uno studio particolare. Beethoven divenne
un discreto suonatore di viola, e come tale prese parte ad esecuzioni presso la corte di Bonn. A
Vienna riprese ancora lo studio del violino, con Wenzel Krumpholz, senza però approfondirlo
(al contrario di Mozart, che per qualche tempo era stato persino primo violino dell'orchestra di
Salisburgo, e che era comunque in grado di eseguire la parte solistica dei suoi Concerti). La
prima composizione per pianoforte e violino di Beethoven è costituita dalle Variazioni su "Se
vuoi ballare" dalle Nozze di Figaro di Mozart, scritte verso il 1792-93. Beethoven apprezzava
questa composizione al punto di assegnarle il numero d'opera 1, quando la pubblicò nel 1793;
ma due mesi dopo il compositore ritenne che le Variazioni fossero troppo poca cosa per
iniziare il suo catalogo e pubblicò come "opera 1" i primi Trii con pianoforte. La successiva
composizione per violino e pianoforte, Rondò, fu scritta verso il 1793-94; le Sei Allemande (la
cui autenticità è messa in dubbio da parecchi musicologi), vennero scritte verso il 1795-96. Le
Sonate op. 12 furono composte tra il 1797 e il 1798, e vennero pubblicate a Vienna nel
gennaio del 1799, con dedica ad Antonio Salieri. L'op. 12 fu recensita in modo arcigno
dall'"Allgmeme Musikalische Zeitung", il più autorevole periodico tedesco; la prima Sonata
era definita «ammasso senza metodo di cose sapienti: niente di naturale, niente canto, un
bosco in cui si è fermati ad ogni passo da cespugli nemici, e da cui si esce esausti, senza
piacere; un mucchio di difficoltà da perderci la pazienza».
Le Sonate op. 12, come dice il frontespizio della prima edizione, sono "per clavicembalo o
Forte-Piano con un Violino". L'alternativa tra clavicembalo e pianoforte rispondeva ad un uso
editoriale, che fu generalmente seguito fino alle soglie dell'Ottocento, e che non esprime una
precisa intenzionalità del compositore: non c'è dubbio che per Beethoven lo strumento a
tastiera debba essere il pianoforte, e non il clavicembalo. Il fatto che le Sonate siano per
pianoforte "con un violino" richiede invece una più lunga spiegazione. Durante i primi
sessant'anni circa del Settecento la sonata "per violino" presenta di norma un
accompagnamento per clavicembalo: la parte del violino è assolutamente predominante, e la
parte del clavicembalo, quasi sempre notata col solo basso numerato, viene tenuta in
sottordine. Questo tipo di sonata diventa desueta col.tramonto del barocco, ma tuttavia se ne
trovano ancora esempi verso la fine del secolo (sonate di Viotti, di Giacomo Conti, di P. Fux,
di G. A. Capuzzi). Nella seconda metà del secolo, e cioè nel periodo rococò e pre-classico,
diventa invece comune la sonata, prima piuttosto rara, per clavicembalo o pianoforte con
accompagnamento di violino. Qui, ovviamente, i ruoli dei due strumenti vengono capovolti,
rispetto alla sonata barocca che prima abbiamo brevemente descritto. Molto spesso
l'accompagnamento del violino è addirittura ad libitum: in questo caso si può fare una
distinzione tra le sonate nelle quali la parte del violino è del tutto superflua, ed è stata aggiunta
(talvolta dall'editore, non dal compositore) soltanto per soddisfare le richieste del pubblico, e
le sonate nelle quali la presenza del violino, sebbene non indispensabile, assolve ad una sua
funzione, soprattutto in vista della maggiore varietà timbrica. Meno frequente, ma non raro, è
invece il caso in cui l'accompagnamento del violino è indispensabile o, come si dice con
termine tecnico, il violino è "obbligato". Molto raro è infine il caso della sonata nella quale il
pianoforte e il violino sono mantenuti su un piano di parità: necessari entrambi per sviluppare
un discorso musicale a due, e nel quale possono di volta in volta assumere la parte principale o
la parte di accompagnamento. Non mancano esempi di questo tipo di sonata, che si suole
chiamare "concertante", anche nella prima metà del secolo (Sonate di J. S. Bach e di altri). Ma
è con Mozart che la sonata concertante prende il sopravvento sulla sonata con
accompagnamento: basti qui ricordare, tra le più note e belle sonate concertanti di Mozart, la
K. 304 in mi minore, la K. 378 in si bemolle maggiore e la K. 481 in mi bemolle maggiore.
Tra le altre sonate concertanti dell'epoca rococò e pre-classica sono da ricordare specialmente
l'op. 5 n. 3 di Boccherini (1768) e le quattro di N. J. Hüllmandel (pubblicate tra il 1782 e il
1788), che meriterebbero di esser riproposte all'attenzione del pubblico.
Con le Sonate dell'op. 12 Beethoven si riallacciava a Mozart e quindi alle più avanzate
esperienze nel genere della sonata concertante. Beethoven sentiva però fortemente il problema
dei generi, cioè il problema della continuità storica tra sé e il passato. Iniziando a scrivere
sonate per pianoforte e violino egli prese come punto di riferimento Mozart, rinunciando a
portare contemporaneamente avanti lo sviluppo del linguaggio a cui era pervenuto in altri
generi. Si tratta di un fenomeno tipico di Beethoven: il linguaggio della Messa op. 86 (1807) è
meno avanzato di quello dei Quartetti op. 59 (1806), il linguaggio della Seconda Sinfonia
(1802) è meno avanzato di quello delle Sonate op. 30 per pianoforte e violino (1802), e il
linguaggio delle Sonate op. 12 per pianoforte e violino (1797-98) è su posizioni più
conservatrici di quello delle Sonate op. 10 per pianoforte solo (1796-98).
Il concetto di "sonata concertante" può essere capito concretamente anche dall'ascoltatore che,
pur non sapendo leggere la musica, riesca a fissare la sua attenzione sulla struttura dell'inizio
della Sonata op. 12 n. 1. Si inizia con un accordo seguito da un disegno ritmico caratteristico,
che formano il primo elemento del tema: entrambi gli strumenti suonano e l'accordo e il
disegno ritmico, restando su un piano di assoluta parità. Si continua con un periodo di senso
compiuto, in cui l'elemento principale (melodico) è affidato al violino, mentre il pianoforte
accompagna con una serie di accordi (mano sinistra) e con un movimento ritmico continuo
(mano destra). Lo stesso periodo viene ripetuto, con una diversa conclusione: questa volta al
violino è affidato il movimento ritmico continuo, alla mano sinistra del pianista ancora gli
accordi, alla mano destra l'elemento melodico che prima era stato eseguito dal violino. I due
strumenti si sono quindi scambiati i ruoli di protagonista e di comprimario. L'elemento
melodico del violino non poteva però essere trasferito sic et simpliciter al pianoforte: il suono
del violino, strumento a corde soffregate da un arco, è di intensità costante, mentre il suono del
pianoforte, strumento a corde percosse da un martelletto, diminuisce rapidamente di intensità.
Beethoven modifica quindi l'elemento melodico, quando lo affida al pianoforte, "riempiendo"
con aggiunte ritmiche i suoni lunghi che il violino teneva fermi. Questi procedimenti vengono
mantenuti per tutto il primo tempo della Sonata, e sono alla base di tutta la scrittura
beethoveniana per pianoforte e violino.
Il primo tempo è in forma tradizionale, con sviluppo assai breve. Si noti la sorpresa tonale tra
la fine dell'esposizione e l'inizio dello sviluppo: passaggio diretto da la maggiore a fa
maggiore, secondo un rapporto di tonalità (tonalità principale e tonalità del sesto grado
abbassato) tra i più tipici dello stile di Beethoven.
Il secondo tempo è un tema variato, assai gradevole melodicamente, ma non molto diverso
dallo stile classico medio, comune a molti compositori. Interessante è però la struttura del
tema, in due parti (A - B) senza ripresa, mentre sarebbe stata più tradizionale la forma con
ripresa (A - B - A). Tra le variazioni si fa notare, come la più beethoveniana, la terza,
caratterizzata da sbalzi improvvisi dal piano al fortissimo e viceversa. Nella quarta variazione
sarebbe da notare la particolare scrittura pianistica dell'inizio, che però non può essere
descritta.
Anche la forma del terzo tempo è tradizionale, ma con qualche trovata personalissima: si tratta
di un rondò a sette episodi, che verso la fine rompe lo schema ordinario, riprendendo il primo
tema in tonalità inattesa, e chiudendo col terzo tema anziché col primo. Il primo tema,
scattante e pieno di humour, ricorda le danze popolari austriache.
Piero Rattalino
https://www.youtube.com/watch?v=K8Ps63X-8ts
Allegro vivace
Andante più tosto Allegretto (la minore)
Allegro piacevole
Questo aspetto, unito ad altre considerazioni sulla personalità del musicista di Bonn, fu messo
in evidenza nella critica apparsa sull'"Allgemeine Musikalische Zeitung" il 5 giugno 1799,
dopo l'esecuzione delle prime tre Sonate per violino op. 12 (in re maggiore, in la maggiore e in
mi bemolle maggiore) di Beethoven, scritte nel 1797-1798 e dedicate al suo maestro di
composizione, l'italiano Antonio Salieri (1750-1825). «Il recensore - è scritto nella importante
e autorevole Gazzetta musicale di Lipsia - ha ascoltato con molta fatica queste stranissime
sonate cariche di insolite difficoltà e deve confessare di essersi sentito come uno che pensava
di fare una passeggiata con un geniale amico in un attraente bosco ed è trattenuto ad ogni
momento da ostacoli; alla fine stanco ed esausto se ne va È innegabile che il signor Beethoven
procede con un passo tutto suo. Cultura, cultura, sempre cultura, e mai natura, mai canto! Se lo
si prende sul serio non c'è che una quantità di cultura, senza un buon metodo, una ricerca di
modulazioni fuori dell'ordinario, un antipatia per le combinazioni abituali, un accatastare
difficoltà su difficoltà, fino a far perdere la pazienza e la gioia».
In realtà le Sonate dell'op. 12, il cui titolo originale è "Tre Sonate per il Clavicembalo o Forte-
Piano con un violino", si riallacciano alla forma delle Sonate per pianoforte con violino scritte
a Parigi e a Londra dal giovane Mozart sul modello di Johann Christian Bach. Le tre Sonate
op. 12 sono, come i loro modelli, in tre movimenti e sono aperte da un Allegro in forma-sonata
e concluse da un Rondò. L'idea del dialogo fra pianoforte e violino è costante e determinante. I
due strumenti si alternano nella linea melodica il colloquio si sviluppa in una vivace
imitazione di motivi. Accanto al contrasto fra tema principale e tema secondario, Beethoven
punta sul dualismo drammatico a cominciare dalla formazione dei temi. Contrasti dinamici a
breve distanza, spostamenti di accento mediante sincopi, brusche modulazioni e sorprendenti
scatti ritmici: questo modo di esprimersi appare oggi perfettamente normale, ma ai
contemporanei di Beethoven apparve di difficile acquisizione. I tempi iniziali e finali delle
Sonate op. 12, contrassegnati da accenti di immediata spontaneità, racchiudono movimenti
lenti molto espressivi, che nella intensità della loro qualità inventiva vanno oltre ciò che
all'epoca ci si aspettava da un genere musicale il cui scopo consisteva nell'intrattenimento di
società.
Mentre la prima delle tre Sonate dell'op. 12 può considerarsi un brillante pezzo da concerto,
caratterizzato da una piacevole euforia ritmica, la seconda in la minore si presenta sin dalle
prime battute dell'Allegro vivace in modo diverso nel rapporto fra i due strumenti, che si
rincorrono con un'arguzia un po' capricciosa e ironica. Il tema ritmicamente punteggiato dal
violino passa poi al pianoforte e si arricchisce di trovate armoniche e timbriche. L'Andante
piuttosto Allegretto in la minore ha un tono elegiaco e pensoso nel dialogo tra il pianoforte e il
violino. La frase melodica viene indicata con misurata riservatezza dal violino e quindi la
raccoglie con delicatezza e circospezione il pianoforte. Il finale è un Allegro piacevole che con
il suo carattere estroso assume i lineamenti dello Scherzo, nell'ambito di un discorso fitto di
piccole frasi vivaci, ma non di tale "difficoltà da far perdere la pazienza", come annotava la
Gazzetta musicale di Lipsia.
https://www.youtube.com/watch?v=ach15rgLZPM
https://www.youtube.com/watch?v=CX61JPXVqYM
Se dalle date di nascita di un tipo di composizione, e dalla continuità o meno con cui un
musicista vi si applica lungo la sua vita, dovessimo trarre qualche conclusione, sarebbe lecito
affermare che in Beethoven il genere della Sonata per violino e pianoforte venne assai in
ritardo a sollecitare il suo interesse creativo, certo dopo quasi tutte le altre combinazioni
cameristiche a due e più strumenti; e quell'interesse si esaurì nello spazio di circa 5 anni, tanti
quanto vanno dal 1798 - anno di composizione delle Tre Sonate dell'opera 12 - al 1803, in cui
il ciclo delle sonate violinistiche praticamente si chiude, salvo la tardiva ripresa del 1812 con
la decima e ultima sonata. Mentre, per dire, le Sonate per pianoforte, i Quartetti e le Sinfonie
s'inseriscono, dominandolo, anche nell'ultimo decennio dell'esistenza strumentale
beethoveniana. «Segno» - osserva il Biamonti - «che la materia strumentale meno duttile,
meno rispondente alle esigenze di una estrinsecazione artistica sempre più tiranneggiata
dall'assillo di una pensosa, inesausta ricerca, si è venuta gradatamente eliminando come per
selezione naturale».
Le tre Sonate per pianoforte e violino op. 12 sono dedicate ad Antonio Salieri. Omaggio del
maestro di Bonn a colui che negli anni intorno al 1789 era suo insegnante di composizione
drammatica e dal quale, se non altro, egli ebbe modo di impratichirsi della lingua italiana.
Alcuni studiosi hanno visto nella Sonata in mi bemolle un accentuato ritorno a imitazioni o
derivazioni mozartiane e una certa esteriorità di condotta che la porrebbero a un livello
inferiore delle altre due. Noi siamo con coloro i quali, all'opposto, la considerano una delle
espressioni più vigorose e sicure della fase di crescenza beethoveniana. Basti in tal senso far
caso, nell'Allegro con spirito, all'ampio spiegamento di mezzi e sonorità pianistiche e alla
naturalezza con cui la vicenda dei temi e degli incisi va a destare intime corrispondenze e
risonanze tra i due strumenti.
Inoltre, nel secondo movimento (Adagio con molta espressione), la melodia, al suo apparire
assai compassata, percorre via via alcune arcate che, nell'accrescersi e addensarsi delle figure
accompagnanti, la conducono quasi insensibilmente a dilatarsi in un inatteso volo del violino.
Quasi romanza, cui il pianoforte presta la vaghezza di tonalità ben più dolci e colorite del
primitivo do maggiore. Un pieghevole sfumato riconduce gli strumenti nell'alveo di quella
tonalità; qualche battuta di dialogo, uno scambio di incisi, una drammatica affermazione
(l'unica) in fortissimo, infine il lento declino, e la chiusa.
Il Rondò è tutto invasato da un'allegria sana e schietta, non senza, forse, qualche spunto
parodistico; come dire il villereccio e il rusticano in punta di penna di Haydn risentiti da uno
spirito che, per sua natura, non poteva non sottolineare e accentuare quanto entrava nel suo
dominio.
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
Delle dieci sonate per violino e pianoforte composte da Beethoven, le prime nove furono
scritte fra il 1798 e il 1803 - l'ultima, l'opera 96, risale al 1812 - e appartengono dunque a
pieno diritto al cosiddetto "primo periodo" beethoveniano. Si tratta di composizioni che in
massima parte - con la significativa eccezione della sonata op. 47, la cosiddetta "Sonata a
Kreutzer" - non costituiscono la punta più avanzata della ricerca dell'autore, e rientrano anzi
ancora pienamente in una estetica di intrattenimento di matrice settecentesca. Si tratta
insomma di uno dei settori più "conservatori" della produzione di Beethoven, attendendo al
quale il compositore fu ampiamente condizionato dalle "regole" imposte dal consumo
musicale del suo tempo.
Ancora alla fine del XVIII secolo, infatti, la musica da camera con pianoforte era destinata non
già - come quella per soli archi - ad esecutori professionisti, ma principalmente ad esecutori
dilettanti; e tale situazione aveva ripercussioni dirette sul disimpegno concettuale del
contenuto e sull'equilibrio della scrittura strumentale, che affidava la conduzione del discorso
musicale al solo pianoforte, riservando al violino un semplice ruolo di "accompagnamento".
Già Mozart, con le Sonate K. 454, 481 e 526, aveva "promosso" lo strumento ad arco ad un
ruolo paritario rispetto a quello a tastiera, senza però allontanarsi molto da un contenuto
espressivo ancora "disimpegnato" e d'intrattenimento. Ispirandosi ali' esempio mozartiano,
Beethoven si adeguò a quello che il mercato editoriale dei dilettanti gli richiedeva, ma non
mancò, tuttavia, di guardare anche a una destinazione "professionale", ricercando una
dialettica interna e un completo equilibrio di scrittura fra gli strumenti; proprietà che
apparivano ostiche ai contemporanei, abituati ancora a una facile cantabilità e al predominio
del pianoforte sul violino.
Nel "corpus" delle sonate per violino e pianoforte l'opera 12 n. 3 - l'ultima della prima triade
editoriale - è certamente una delle composizioni più brillanti, apertamente pensata come sonata
da concerto. Già l'incipit dell'Allegro con spirito iniziale, con il suo intreccio di arpeggi e la
serrata dialettica strumentale, dà il segno alla intera partitura, quello di un equilibrato connubio
di virtuosismo ed eleganza. Il movimento iniziale è comunque ricchissimo di idee, che si
avvicendano con una eloquenza quasi pletorica; il secondo tema, tradizionalmente più
cantabile, non rinuncia a una nervosa levigatezza; mentre la sezione dello sviluppo ricorre al
modo minore non per cercare implicazioni drammatiche, ma per conseguire una varietà
coloristica.
L'Adagio con molt'espressione che funge da secondo movimento è tutto percorso da una tersa
melodiosità di estrazione vocalistica, con un appropriato scambio di funzioni fra voce e
accompagnamento, e con diverse fermate e cadenze di carattere improvvisatorio. Il Rondò è
un movimento umoristico, con un incisivo refrain di aspirazione concertistica (prima esposto
dal solo pianoforte, poi dal violino accompagnato), che viene alternato con episodi di
impostazione affine; chiude la Sonata una brillantissima coda che avvicenda serrate imitazioni
del refrain fra i due strumenti e una lieta melodia diversiva.
Arrigo Quattrocchi
Op. 23 1800
Sonata per violino e pianoforte n. 4 in la minore
https://www.youtube.com/watch?v=hQMpxHET-gs
https://www.youtube.com/watch?v=G73_gIbKt1M
Presto
Andante scherzoso, più Allegretto (la maggiore)
Allegro molto
Le Sonate op. 23 e op. 24 furono composte insieme nel 1800 e 1801, con il numero d'opera 23
e con dedica al conte Moritz von Fries. Solo nel 1802 la seconda Sonata fu ripubblicata con il
numero d'opera 24. L'"Allgemeine Musikalische Zeitung" trovò che le due Sonate erano «le
migliori scritte da Beethoven, e ciò vuol dire che sono tra le migliori che siano state scritte».
Completo voltafaccia, del resto lodevolissimo, rispetto alla recensione dell'op. 12. Ma è
interessante la spiegazione nel suo diverso modo di giudicare, che il recensore ritiene
necessario dare: «Nelle sue prime opere Beethoven procedeva talvolta con portamento
arcigno, selvaggio, cupo e aspro. Ora comincia a sdegnare gli eccessi, si spiega con maggior
chiarezza e senza nulla perdere del suo carattere, diventa più amabile. Queste due Sonate, e
specialmente la prima, son molto meno difficili da suonare, e dunque, più accessibili a un
vasto pubblico, di molte precedenti opere di Beethoven». Si noti che il metro di giudizio è
duplice: minore difficoltà concettuale, minore difficoltà tecnica. Il recensore scrive per un
pubblico che non ama un impegno intellettuale inconsueto e preferisce capire la musica alla
prima audizione anziché doverne analizzare le novità, scioglierne gli enigmi. E scrive per un
pubblico che esegue la musica, oltre ad ascoltarla. Il concerto privato del Settecento, per molti
ascoltatori, era anche un vernissage di musiche da acquistare ed eseguire personalmente.
Beethoven tendeva invece ad impegnare l'ascoltatore con una insolita tensione intellettuale, e
ad impegnare l'esecutore con difficoltà che eccedevano il grado di preparazione del dilettante.
Da questa nuova prospettiva sorgono due fatti di costume che modificano nell'Ottocento il
tradizionale rapporto tra musicisti e pubblico: la progressiva scomparsa della musica d'uso, e il
concerto pubblico, sostenuto da professionisti per un pubblico in grandissima parte digiuno di
conoscenze tecniche.
La Sonata op. 23 non è molto nota, ed è un peccato, perché si tratta di una composizione di
insolito carattere, che trova pochi riscontri nell'opera di Beethoven. Il primo tempo è in
movimento rapidissimo, a modo di moto perpetuo, e pare un finale più che un primo tempo. Il
secondo tempo non è né un tempo lento né uno scherzo, ma pare piuttosto un brano fantastico
al modo di Schumann. Il terzo tempo comincia come un tema con variazioni e continua come
un Allegretto di Schubert. Lo scarso rilievo drammatico del primo tempo e la mancanza di un
vero e proprio tempo lento hanno probabilmente nuociuto alla diffusione della Sonata, che è
invece molto interessante, proprio in ragione delle sue caratteristiche inconsuete.
La struttura del primo tempo è notevolissima. Il tipo di costruzione sembrerebbe essere quello
con esposizione, sviluppo e riesposizione di lunghezza all'incirca pari. Dopo 71 battute di
esposizione troviamo infatti 64 battute di sviluppo, con una fermata conclusiva che
preannuncia nettamente la riesposizione. Beethoven inserisce invece a questo punto una
melodia non ancora udita, che è ricavata dal primo tema, e che si sviluppa per ben 28 battute.
La genialità del procedimento consiste nel fatto che un altro compositore avrebbe
probabilmente presentato la melodia all'inizio del pezzo, come primo tema, e l'avrebbe
spezzata nello sviluppo. Beethoven inizia invece presentando come primo tema un breve
frammento melodico, che genera un'ampia melodia in una sezione aggiunta dello sviluppo. La
melodia non viene ripresa nella riesposizione, e torna invece nella coda. Abbiamo così uno
schema strutturale di questo tipo:
Esposizione: 71 battute
Sviluppo: 92 (64+28) battute
Riesposizione: 60 battute
Coda: 29 battute
Nelle Sonate op. 12 Beethoven non aveva mai introdotto lo Scherzo o il Minuetto, già
impiegati invece nelle Sonate per pianoforte e nei Trii, e successivamente nei Quartetti e nella
prima Sinfonia. Il secondo tempo dell'op. 23 prepara l'introduzione dello Scherzo nella sonata
per pianoforte e violino: innovazione, questa, che Beethoven attuerà solo in tre delle dieci
sonate. Abbiamo già detto che il brano, con la sua grazia sorridente e un pò motteggiatrice,
potrebbe quasi essere un pezzo fantastico al modo di Schumann. Strutturalmente, il secondo
tempo è in forma-sonata, con un primo tema, un tema di collegamento in forma di esposizione
di fughetta a tre voci, un secondo tema, un tema di conclusione (che si potrebbe definire
rossiniano); seguono lo sviluppo, basato sul primo tema e sul tema di collegamento, e la
riesposizione.
Il terzo tempo viene abitualmente classificato come rondò. Il frequente ritorno del tema
iniziale spiega la classificazione; ma se questo è un rondò, di certo è un rondò assai insolito,
con quel suo tema di corale posto al centro, che apre una lunghissima parentesi nella quale il
tema iniziale non viene più udito. All'audizione, l'ascoltatore percepisce una forma ternaria
(prima parte di 113 battute, seconda parte di 90, ripresa della prima parte, di 129 battute, con
citazione della seconda parte), in un clima espressivo di una dolcezza non lontana dal
misterioso stupore di Schubert. Joseph Szigeti (Beethoven Violinwerke, Zurigo 1965) ha fatto
notare che il primo tema del finale fu poi riutilizzato da Beethoven nel Gloria della Missa
solemnis.
Piero Rattalino
Trasferitosi a Vienna stabilmente a partire dal 1792, Beethoven si fece apprezzare inizialmente
soprattutto come pianista, come improvvisatore e in via subordinata come compositore di
musica per il pianoforte. La singolarità di alcuni elementi che già si potevano cogliere nelle
sue prime opere originali - ad esempio la dilatazione delle strutture, la lunghezza inconsueta
dei brani, l'arditezza della scrittura cromatica e la violenta sottolineatura delle idee espressive -
facevano pensare allora a qualcosa di adolescenziale, a un tratto ingenuo ed istrionico il cui
scopo sembrava esclusivamente quello di sbalordire e conquistare il nuovo pubblico. Da
questo punto di vista, il giudizio dei contemporanei sulle sue composizioni del primo periodo
viennese è significativamente molto vario: vi è chi apprezza l'inventiva del giovane autore, chi
ne riconosce il talento virtuosistico, ma anche chi dubita dell'opportunità di appesantire in
modo così manifesto una musica pur sempre da intrattenimento, da salotto o da esibizione,
giudicando meno interessante il sacrificio dei criteri settecenteschi dell'eleganza piuttosto che
la loro funzionale stilizzazione, così come questa era stata formulata dai primi alfieri dello stile
classico viennese. Lo stesso Haydn, valutando nel loro complesso i tre Trii con il pianoforte
op. 1 (1794-95), finì per sollevare qualche riserva, sia pure celata diplomaticamente dietro la
cautela nei confronti del pubblico, ovvero dietro la preoccupazione che all'esordiente
compositore non avrebbero giovato le eccessive lunghezze e le non meno esasperate tinte
espressive dell'ultimo brano della raccolta, in tonalità di do minore. L'uso di questa tonalità,
con la sua cupezza e il suo forte sapore romantico, veniva di frequente sconsigliato nell'ambito
cameristico, dove gli usi e la facile pratica dei dilettanti rappresentavano ancora il primo
referente artistico e commerciale di ogni musicista.
L'esempio di Mozart, che al do minore aveva consacrato una Sonata e una Fantasia per
pianoforte di indubbia temperatura drammatica, sembrava non solo definire l'orizzonte
espressivo "moderno" di quella tonalità, ma anche precisare i termini del confronto con la
letteratura musicale storica, con lo stile del primo barocco, ad esempio, con i moduli e con
l'arcaica severità del contrappunto. In ogni caso, l'uso del do minore non si conformava al tono
medio delle opere composte per la diffusione entro l'ambiente degli amatori, dei privati
praticanti, e sembrava riservato piuttosto a una pratica ancora "aristocratica" o che comunque
richiedeva un certo impegno di ascolto, oltre che un buon livello degli esecutori. Fin dalle sue
prime opere, tuttavia, Beethoven aveva trovato particolarmente congeniale la tonalità di do
minore, attraverso la quale egli comunicava un pathos introspettivo e delineava un'atmosfera
romantica che subito emancipavano la musica dal suo legame con le concezioni estetiche del
Settecento e la proiettavano verso l'idea della musica come Arte, e non come genere di
consumo. Già nel suo primo periodo creativo, l'uso del do minore, frequente specialmente
nelle opere di maggiori dimensioni, è però solo uno dei segnali di questo mutamento. Più in
generale, si può osservare come Beethoven progressivamente sottometta ogni principio tecnico
della scrittura alla forza centripeta dell'idea musicale, come il virtuosismo, le anomalie e le
soluzioni impreviste seguano una logica del discorso musicale assai più coerente e rigorosa di
quanto non avvenisse quando quegli elementi erano trattati come semplici mezzi di
esecuzione. Le prime Sonate per violino e pianoforte, un genere che Beethoven frequentò
molto nei suoi primi anni viennesi, sono il riflesso piuttosto eloquente di questa nuova
posizione estetica.
Apparentemente, nel genere della Sonata per violino e pianoforte l'autore sembra essersi
inizialmente attenuto alle regole e alle usanze dello stile classico, non avrebbe introdotto
innovazioni, né osato sperimentazioni analoghe a quelle delle contemporanee Sonate per
pianoforte solo. Questa impressione, a lungo accreditata dall'opinione comune della critica
musicale, è stata da tempo superata, tanto che nel genere della Sonata per violino e pianoforte
si riconosce una sorta di movimento parallelo compiuto dal musicista verso una maturazione
stilistica che avrebbe più avanti dato i suoi frutti più evidenti, ma che già a questo primo
livello non è riducibile ai canoni di una produzione "ordinaria". Beethoven aveva studiato
violino a Bonn e continuò a praticare lo strumento anche a Vienna, dapprima sotto la guida di
musicisti come Schuppanzig e Krumpholz. Grazie alla conoscenza tecnica e soprattutto alla
predilezione che nutriva per questo strumento, egli tendeva ad aggiornarsi sulle novità
tecniche e stilistiche della scrittura violinistica nelle varie scuole strumentali europee. Così,
alla fine del Settecento, aggiungendo agli elementi appena menzionati anche una più generale
attenzione verso il fenomeno politico e culturale della Rivoluzione Francese, Beethoven si
accostò al nuovo uso del violino nella musica prodotta in quel periodo dagli artisti più in vista
a Parigi. Già le sue prime Sonate per violino e pianoforte risentono infatti dello stile
antisentimentale, eroico e declamatorio della musica francese di quel periodo.
L'influenza dello stile francese fu già notata dai contemporanei, i quali segnalavano la
presenza di motivi "rivoluzionari" in molte composizioni beethoveniane, soprattutto
orchestrali: tracce dello stile di Cherubini ad esempio si ritrovano nell'Ouverture Coriolano e
nella Leonore, preludio a sua volta di un'intera opera, il Fidelio, ispirata al teatro post-
rivoluzionario; moduli che si ispirano alla scrittura di Méhul sono riscontrabili nella Quinta
Sinfonia. Ma accanto ai nomi di autori come Gossec, Grétry o Berton, troviamo nel numero
dei musicisti che avrebbero esercitato un certo ascendente su Beethoven anche quelli di
Kreutzer, Baillot e Rode, i quali sarebbero stati di estrema importanza proprio per la
precisazione del suo stile violinistico. Le prime Sonate di Beethoven segnano da questo punto
di vista un deciso allontanamento dallo stile classico, un travalicamento dei suoi limiti e una
più marcata sottolineatura di un nuovo pathos eroico e drammatico, reso attraverso una
scrittura asciutta, chiara, nella quale anche il virtuosismo o la messa in evidenza delle strutture
ritmiche assume un valore espressivo ben riconoscibile. Naturalmente, anche in questo caso le
innovazioni apportate da Beethoven vengono precisandosi per gradi: la Sonata op. 23, ad
esempio, possiede ancora tratti di eleganza che le Sonate dell'op. 30 già si lasciano alle spalle
in favore di una recitazione, di una "prosa" strumentale già più chiara e matura. In entrambi i
casi, tuttavia, sono riconoscibili le strade che hanno portato il compositore ad affrancarsi
rapidamente dall'orizzonte dell'arte "di genere" per giungere invece ad un prodotto più
coerente con le categorie di quell'autonomia musicale, di quel paradigma dell'"arte per l'arte"
che andava appunto affermandosi nello stesso periodo.
La Sonata in la minore op. 23 fu composta nella seconda metà dell'anno 1800 e pubblicata
dopo pochi mesi a Vienna, da sola, mentre in origine avrebbe dovuto essere data alle stampe
insieme alla Sonata in fa maggiore op. 24, detta "La primavera". Il brano si apre, con un
movimento che non tradisce alcuna traccia di vuota giocosità, nonostante l'indicazione Presto e
il tempo di 6/8. Si tratta anzi di un movimento oscuro, denso di motivi tempestosi e di
un'inquietudine ritmica piuttosto evidente. Beethoven mostra una grande varietà di idee e una
forte originalità nella loro presentazione. La generale ripetizione che segue la fine
dell'esposizione, dunque, non è già più un modo di corrispondere alla pratica tipica dello stile
classico, ma deriva da una necessità per così dire "interna" del materiale musicale, dal bisogno
di definire meglio il ruolo e la forma dei singoli elementi tematici prima di elaborarli nello
sviluppo. Il secondo movimento non è un adagio, come ci si sarebbe potuti aspettare, ma è
indicato Andante scherzoso, più Allegretto. È caratterizzato in sostanza da un primo tema di
due sole note che si presta a continui giochi di imitazione e di variazione, da un secondo tema
capriccioso ed elaborato che sfocia in un fugato a tre voci, quindi da un terzo elemento
melodico nel quale il violino viene trattato secondo uno stile quasi belcantistico, con tutta la
serie di trilli, abbellimenti e virtuosismi che ricordano la decorazione tipica di un'aria da
Singspiel. Come il primo movimento, anche il secondo si chiude su un cupo pianissimo, e
quasi riallacciandosi a questa chiusa il Rondò finale riprende l'atmosfera inquieta del
movimento iniziale. Beethoven pone i singoli ritornelli del Rondò in un rapporto di reciproco
contrasto; un contrasto dapprima realizzato attraverso l'opposizione di una serie di accordi,
quindi sviluppato attraverso continue variazioni della melodia principale e ampie modulazioni
che portano lontano dalla tonalità d'impianto, ma che nel loro insieme confermano la continua
oscillazione fra momenti di luce e di oscurità che caratterizza l'intera Sonata.
Stefano Catucci
https://www.youtube.com/watch?v=PGFs7n6n3-8
https://www.youtube.com/watch?v=Sfm-zJLYWB8
Allegro
Adagio molto espressivo (si bemolle maggiore)
Scherzo. Allegro molto
Rondò. Allegro ma non troppo
L'interesse di Beethoven per il duo di violino e pianoforte risale ai primissimi anni di Bonn
quando, appena tredicenne, iniziò la composizione di una Sonata in la maggiore lasciata
incompiuta. Giunto poi a Vienna nel 1792, aspettò alcuni anni prima di pubblicare la sua prima
raccolta di Sonate - le tre Sonate op. 12 dedicate ad Antonio Salieri e pubblicate da Artaria nel
1799 - e nel frattempo si cimentò con lavori minori come il Rondò in sol maggiore e le
Variazioni sul tema di "Se vuol ballare" dalle mozartiane Nozze di Figaro.
Le tre Sonate dedicate a Salieri aprono l'importante serie delle dieci Sonate beethoveniane al
cui vertice sta senza dubbio la monumentale Sonata a Kreutzer (1802-03) ma che comprende
autentici capolavori come la Sonata in la minore op. 23, "La Primavera", la Sonata in do
minore op. 30 n. 2 nonché l'ultima affascinante Sonata in sol magiore op. 96. Tutti questi
lavori mettono di fronte, a volte drammaticamente, i due strumenti in una sorta di
competizione - si pensi alla Sonata a Kreutzer, ma non solo - che spesso amplifica il dualismo
motivico antagonistico che è alla base della concezione sonatistica beethoveniana. Anche
un'opera apparentemente idillica e "mozartiana" come La Primavera non sfugge a quella
tensione fra i temi e fra gli strumenti, senza beninteso arrivare al parossismo della Sonata, a
Kreutzer. Inizialmente la Sonata doveva essere pubblicata insieme con la Sonata in la minore
op. 23, anch'essa dedicata al conte Moritz von Fries, amico e mecenate di Beethoven. Il
ripensamento è da attribuire probabilmente all'intenzione di valorizzare al meglio la Sonata in
fa maggiore, ricca di novità assai rilevanti nel percorso beethoveniano, come ad esempio
l'introduzione dello Scherzo, e subito ammirata incondizionatamente da intenditori e dilettanti
(il titolo di Primavera, dovuto all'editore Mollo di Vienna che la stampò nel 1802, le si attaglia
benissimo).
Come la coeva Sonata in re maggiore "Pastorale" per pianoforte solo, con la quale ha non
poche affinità, anche La Primavera è concepita con due movimenti di ampie dimensioni,
determinanti per il suo carattere espressivo, posti alle estremità (Allegro e Rondò) che
racchiudono un movimento lento necessariamente breve e un minuscolo Scherzo, fulminea
anticipazione delle tarde Bagatelle pianistiche. La compiuta felicità melodica del primo tema
nell'Allegro - dispiegata in un sereno e idillico fa maggiore - è una modalità espressiva
abbastanza rara in Beethoven che, infatti, si dimostra più interessato a sviluppare le energiche
impennate del secondo tema (do maggiore e poi minore) in una sezione elaborativa centrale di
dimensioni classiche. Il primo tema si prende però la rivincita nella mirabile coda del
movimento, in cui l'inciso iniziale risuona nel registro grave del pianoforte e, dopo una
suggestiva modulazione a re minore, conduce alla luminosa e trionfale conclusione.
Lo Scherzo, di proporzioni ridottissime, si basa su una geniale invenzione ritmica che mischia
abilmente incisi arsici (in levare) e tetici (in battere) e racchiude un Trio di rapidi movimenti
scalari in crescendo, vigorosa pennellata luminosa tracciata con la rapidità di un "action
painter".
Un lieve e scorrevole tema «femminile» e, dopo un brusco rivolgimento tonale del pianoforte,
un secondo tema di più marcata tempra ritmica assicurano la duplice prospettiva entro cui, non
senza eleganza, si snoda il primo movimento (Allegro).
Nello Scherzo una figura ritmica di valzer viennese, di piglio weberiano, si schematizza in una
di quelle ripetizioni testarde che in un prossimo futuro assurgeranno a protagoniste dello
scenario drammatico beethoveniano. Il Finale si attiene, pur con qualche libertà, alla falsariga
del Rondò, con quattro esposizioni del ritornello separate da altrettanti intermezzi, l'ultimo
concluso da una cadenza ampia e tumultuosa.
Giorgio Graziosi
Op. 30 n. 1 1802
Sonata per violino e pianoforte n. 6 in la maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=ecQrcoANwck
https://www.youtube.com/watch?v=BaUZ2J8lHwY
Allegro
Adagio molto espressivo (re maggiore)
Allegretto con variazioni
Nel primo movimento, un Allegro, l'idea di variazione è resa subito chiara dall'iterazione della
figura ritmica "circolare" (un gruppetto) affidata in apertura al registro grave del pianoforte.
Questo disegno ritmico funge da introduzione al gruppo tematico principale e permea l'intero
movimento, svolgendo un ruolo importante anche all'inizio e alla fine dello sviluppo, in un
continuo dialogo fra i due strumenti. Inoltre esso torna con grande evidenza nella ripresa, che
si conclude pianissimo proprio con il gruppetto, suonato dal violino. Nel secondo movimento,
un Adagio molto espressivo in re maggiore, la tecnica della variazione raggiunge il culmine,
sostenuta anche dal perfetto equilibrio dei ruoli fra violino e pianoforte. In questo caso è il
violino a introdurre la splendida melodia iniziale, dal carattere intimamente lirico, che viene
subito ripresa dal pianoforte. Questo modello di alternanza viene riproposto lungo tutto il
movimento: ogni elemento melodico di una certa importanza viene esposto due volte, di solito
prima dal violino e subito dopo dal pianoforte in forma variata e ricca di abbellimenti. La
tradizione della ripetizione variata con abbellimenti che arricchiscono fino alla saturazione lo
spazio sonoro risale all'opera italiana e molto del materiale melodico di questo movimento ne
richiama lo stile, pur restando nell'ambito quasi crepuscolare della più autentica vena lirica
beethoveniana, spesso nascosta dalla più popolare immagine del Beethoven "eroico". La
Sonata si conclude senza alcun climax drammatico con un elegante Allegretto in forma di
tema e variazioni. Il tema iniziale, un motivo nello stile di danza tedesca, è seguito da sei
variazioni dal carattere contrastante, laddove la variazione finale, Allegro, ma non tanto, in 6/8
costituisce in sé una sorta di finale ampliato.
Anna Ficarella
Ancora alla fine del XVIII secolo, infatti, la musica da camera con pianoforte era destinata non
già - come quella per soli archi - ad esecutori professionisti, ma principalmente ad esecutori
dilettanti; e tale situazione aveva ripercussioni dirette sul disimpegno concettuale del
contenuto e sull'equilibrio della scrittura strumentale, che: affidava la conduzione del discorso
musicale al solo pianoforte, riservando al violino un semplice ruolo di "accompagnamento".
Già Mozart, con le Sonate K. 454, 481 e 526, aveva "promosso" lo strumento ad arco ad un
ruolo paritario rispetto a quello a tastiera, senza però allontanarsi molto da un contenuto
espressivo ancora "disimpegnato" e intrattenitivo.
Ispirandosi all'esempio mozartiano, Beethoven si adeguò a quello che il mercato editoriale dei
dilettanti gli richiedeva, non mancando, tuttavia, di ricercare una dialettica interna e un
completo equilibrio di scrittura fra gli strumenti; proprietà che apparivano ostiche ai
contemporanei, abituati ancora a una facile cantabilità e al predominio del pianoforte sul
violino.
Nel "corpus" delle sonate per violino e pianoforte, tuttavia, proprio l'opera 30 n. 1 - composta
nel 1802 e pubblicata l'anno seguente in parti staccate presso il Bureau d'arts et d'industrie -
appare una delle partiture più volte verso il passato e meno originali, per un autore che stava
parallelamente componendo - per non fare che un esempio - le rivoluzionarie sonate per
pianoforte opera 31.
Non a caso - dopo l'orientamento "passatista" dei primi due movimenti - Beethoven scartò,
quale terzo tempo, la pagina brillante e avveniristica che aveva scritto in un primo momento, e
che fu poi destinata alla Sonata "a Kreutzer". Lontana dallo sperimentalismo di quest'ultima, la
Sonata opera 30 n. 1 è articolata in tre movimenti di dimensioni contenute. L'Allegro che apre
la composizione è in una regolare forma sonata, con un garbato dialogo fra gli strumenti e un
materiale tematico di studiata eleganza, non privo di reminiscenze mozartiane. L'Adagio,
invece - una pagina di tersa cantabilità, con una sezione interna più agitata - è debitore a
Haydn per un certo manierismo espressivo. Chiude la sonata - al posto dell'avveniristico primo
finale - un movimento che, nel gusto rococò, è concettualmente disimpegnato già nella sua
forma: il tema con variazioni. Si tratta in questo caso di variazioni ornamentali - ben distanti
dai complessi esiti che Beethoven saprà dare alla tecnica della variazione - di ricercata
levigatezza, realizzate secondo stilemi consolidati, come la variazione nel modo minore in
penultima posizione.
Arrigo Quattrocchi
Op. 30 n. 2 1802
Sonata per violino e pianoforte n. 7 in do minore
https://www.youtube.com/watch?v=mAHB2jJBtrI
https://www.youtube.com/watch?v=gCObb7frnu0
L'iniziale opera beethoveniana per violino e pianoforte, pur con alcune connotazioni
spiccatamente personali, era stata influenzata da Mozart, per l'esattezza da quei capolavori che
furono le Sonate in si bemolle maggiore K. 454, in mi bemolle maggiore K. 481 e in la
maggiore K. 526 e che costituirono il primo perfetto modello di "Sonata concertante", in cui lo
strumento ad arco non si limitava, come nel passato, ad interazioni o a imitazioni occasionali
ma si alternava col pianoforte secondo un paritario principio dialogante. Rispetto a quella
produzione, la triade delle Sonate beethoveniane dell'op. 30 (cioè la n. 6 in la maggiore, la n. 7
in do minore, la n. 8 in sol maggiore) rappresenta un momento di transizione, avviando
peraltro un primo decisivo passo nella prospettiva di uno stile totalmente affrancato dai
modelli settecenteschi, anche dal punto di vista formale.
Composte nel 1802, nell'anno infausto in cui la sordità di Beethoven ebbe a manifestarsi in
tutta la sua gravità, e quasi contemporanee alla Seconda Sinfonia e alle Sonate per pianoforte
dell'op. 31 principalmente, le Sonate dell'op. 30 furono pubblicate a Vienna nel maggio-giugno
del 1803 con la dedica allo zar Alessandro I di Russia, a cui furono trasmesse per il tramite
dell'ambasciatore conte Rasumowskij: pare che lo zar non abbia dato allora alcun segno di
gradimento per tale omaggio e soltanto nel 1814-1815, quando soggiornò nella capitale
austriaca per lo storico Congresso di Vienna, su sollecitazione della zarina Elisabetta, che era
ammiratrice della musica di Beethoven, fu consegnata al compositore una ricompensa di 100
ducati assieme ad un anello.
Al pari della triade dell'op. 31 per pianoforte, il lavoro cruciale dell'op. 30 è la Sonata centrale
della raccolta cioè la Sonata n. 7 in do minore, il cui manoscritto originale è conservato nel
fondo Bodmer del Beethovenhaus mentre numerosi abbozzi si trovano nel Quaderno Kessler,
attualmente nel museo della Società degli Amici della Musica di Vienna.
La struttura del primo movimento della Sonata n. 7 e l'impianto stesso della tonalità di do
minore suggeriscono l'analogia con altre composizioni di poco precedenti nell'ordine
cronologico, come il Quartetto n. 4 dell'op. 18 e il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra.
Si ravvisano inoltre nella Sonata in do minore altri caratteri del tutto peculiari e che segnano lo
strabiliante contrasto di quest'opera rispetto alla produzione anteriore, come la cupa e
minacciosa energia e il vigore drammatico, tesi a forzare dall'interno gli abituali schemi
formali, l'articolazione quasi sinfonica in quattro movimenti, l'assoluta originalità di alcune
formule strumentali tra cui i passaggi in "staccato martellato", le irruenti scale, le
sovrapposizioni di lunghe linee melodiche e tempestose figurazioni del basso nonché certi
insoliti tratti percussivi o declamatori.
Le innovazioni più sintomatiche della Sonata in do minore sono individuabili nei suoi
movimenti esterni, cioè nell'iniziale Allegro con brio e nel conclusivo Finale-Allegro. In sede
di estremamente sommaria analisi si colgono nell'ampio respiro del primo tempo alcune novità
strutturali del tutto singolari come l'eliminazione della ripetizione integrale dell'esposizione,
l'aggancio della fine dell'esposizione all'inizio dello sviluppo per il tramite di una transizione
volta a prolungare la tensione emotiva d'avvio, la stessa brevità dello sviluppo e, per contro,
dopo la riesposizione, l'ampiezza della Coda, siglata dalla perentoria affermazione del tema
d'apertura.
Nello Scherzo si ascoltano inaspettati spostamenti di accenti che saranno tipici di analoghi
movimenti della successiva produzione beethoveniana, mentre il Trio, nella medesima tonalità
di do maggiore, si dipana a canone tra il violino e il pianoforte nel registro basso.
Marcato da una foltissima tensione espressiva è il Finale sin dall'apparire del tema introduttivo
in cui si enucleano due elementi, il primo ritmico e il secondo chiaramente melodico, nel
contesto d'un movimento che combina assieme la forma-sonata con lo schema dei Rondò. Ed
egualmente insolita e nuova, anche in questo tempo, è la Coda che corona la Sonata in do
minore con un Presto dall'incedere violento e affannoso.
Luigi Bellingardi
La Sonata per violino e pianoforte di Beethoven oggi in programma è la seconda delle tre
Sonate op. 30 composte nel 1802 e dedicate all'Imperatore di Russia Alessandro I. Se per le
altre due la data di nascita del 1802 costituisce poco più che un elemento anagrafico, per
questa in do minore è possibile intravedere più di un nesso dei due tempi estremi della Sonata
con la contemporanea seconda Sinfonia, con il testamento di Heiligenstadt, con i germi
dell'Eroica. Infatti tono lirico e andamento dinamico si diversificano notevolmente da quanto
Beethoven aveva composto fin qui nel genere strumentale cameristico, particolarmente per un
che d'accigliato, di tempestoso, di appassionato; e anche nella condotta formale intervengono
innovazioni significative che vanno dall'ampio schema, quasi sinfonico, di tutto il
componimento fino, ad esempio, all'abolizione, nel primo movimento Allegro con brio, del
consueto ritornello della prima parte.
Né manca d'interesse, anche, la scelta della tonalità di la bemolle per l'Adagio cantabile: una
tonalità che confina il violino in sonorità appannate e velate, praticamente riducendo le corde
vuote a una sola.
Riferiscono alcuni biografi, sulla scorta dello Schindler, che negli ultimi anni di sua vita
Beethoven si sarebbe dimostrato particolarmente scontento dello Scherzo della Sonata, poco in
armonia con il resto, tanto da concepirne l'abolizione, portando questa e altre composizioni
consimili a soli tre movimenti. Il che, comunque, non avvenne; superfluo aggiungere per
fortuna.
Giorgio Graziosi
Op. 30 n. 3 1802
Sonata per violino e pianoforte n. 8 in sol maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=M5ryzTkech8
https://www.youtube.com/watch?v=um6fiALO9pQ
Allegro assai
Tempo di Minuetto (mi bemolle maggiore)
Allegro vivace
Per un musicista della fine del Settecento una composizione da camera con pianoforte
costituiva un lavoro artisticamente meno impegnativo di un Quartetto o di un Quintetto per
soli archi: s'intende, nel senso che l'espressione «impegno artistico» poteva avere per un
compositore del XVIII secolo. Una Sonata per violino e pianoforte, un Trio, un Quartetto, un
Quintetto per piano e archi o strumenti a fiato erano giudicati meno «importanti» per il fatto
che si sapevano destinati alla categoria dei Liebhaber, ossia degli esecutori dilettanti, meno
colti e preparati dei Kenner, gl'intenditori, e dei musicisti professionisti, cui per tradizione era
riservato l'aristocratico Quartetto d'archi, con le sue difficoltà tecniche e la dotta complessità di
scrittura. Tale condizione d'inferiorità delle composizioni con pianoforte si manifesta anche nel
numero dei tempi e nella struttura formale: un Quartetto o un Quintetto per archi hanno
sempre quattro o più tempi; una Sonata, un Trio, un Quartetto con pianoforte ne hanno al
massimo tre, non di rado due. Inoltre questi ultimi lavori appartengono al genere «facile» e
«leggero», nel senso che dottrina musicale, profondità di sentimento, individualismo e
passione, quando sono presenti, come avviene nei due Quartetti con pianoforte e nelle Sonate
per violino e piano di Mozart, sono abilmente dissimulati dietro la solita vernice di amabiltà
mondana e di «buone maniere».
I musicisti del Settecento erano troppo sensibili all'elemento stile, alle razionalistiche
distinzioni tra i vari «generi» e ai loro limiti per non sentirsi condizionati da una simile
concezione, che ebbe modo di allungare le radici in profondità. Non solo Haydn, Mozart e il
giovane Beethoven non vi si sottrassero mai completamente, ma una traccia di essa sussiste
perfino nella musica da camera con pianoforte scritta da Beethoven negli anni della piena
maturità, non esclusi i lavori più grandi e più seri. Tale atteggiamento, che potremo definire
«confidenziale», nei confronti del complesso da camera con pianoforte, durò molto a lungo
nella musica viennese ed è chiaramente riconoscibile in un romantico-classico come Schubert,
i cui Trii e le cui Sonate per piano e strumenti ne risentono spesso in maniera tutt'altro che
benefica; o in un romantico ammalato di classicismo, come Brahms, che invece seppe trarne
meravigliosi vantaggi: nonostante le loro bellezze, i suoi Sestetti, Quintetti, Quartetti per soli
archi non superano, infatti, in freschezza e vitalità le composizioni da camera con pianoforte.
Anche per il giovane Beethoven i tre Quartetti per piano, violino, viola e violoncello del 1785,
e i tre Trii per piano, violino e violoncello op. 1 (pubblicati nel 1795), rappresentarono
sicuramente un esperimento più «confidenziale» e più «facile» dell'ambizioso Quintetto per
archi op. 4 dedicato al conte von Frics, per non parlare dei sudatissimi Quartetti op. 18: ed è
significativo il fatto che dei primi venti numeri d'opere da lui composte o pubblicate entro il
XVIII secolo, ben quattordici comprendano il pianoforte.
La seconda triade delle Sonate per violino e pianoforte di Beethoven appare nel 1803 e
riunisce, sotto lo stesso numero d'op. 30, tre opere stilisticamente ed esteticamente assai
differenti l'una dall'altra. La prima di esse, in la maggiore, è forse la più debole di tutte le
Sonate beethoveniane per violino e piano: incerta tra il molto Mozart di seconda mano del
primo movimento e le reminiscenze haydniane del secondo, essa ebbe in origine un Finale del
tutto sproporzionato, per grandiosità, novità e vigore inventivo, alla mediocrità degli altri due
tempi. Beethoven, però, se ne avvide, sostituendolo con una serie di semplici variazioni su un
tema alquanto convenzionale. Il primo Finale troverà poi degna sede nella Sonata a Kreutzer.
Se l'op. 30 n. 1 è l'ultima delle Sonate decisamente volte a un passato che lo stesso Beethoven
aveva reso irrecuperabile, la Sonata seguente, in do minore, è la prima ad esserne quasi
interamente emancipata e a costituire la prima grande affermazione del maestro in questo
genere. L'acme drammatico e patetico dell'op. 30 n. 2 trova il suo contrario nella terza Sonata
della serie, in sol maggiore, che si esegue stasera, dove tutto è amabilità, serenità e umorismo;
tuttavia, anzi, proprio per questo, l'op. 30 n. 3 non è meno «beethoveniana» della sua tragica
sorella, né meno di questa bella ed importante. A differenza della Primavera, qui ogni traccia
mozartiana è scomparsa e ovunque s'incontrano tratti strumentali profondamente personali,
come i chiassosi e bonari passaggi all'unisono di cui abbonda il primo tempo e che
caratterizzano il tema principale. Anche il Tempo di Minuetto centrale non ha più nulla di
settecentesco: al pari di quello dell'op. 31 n. 3 o dell'op. 54, si tratta piuttosto di
un'idealizzazione, o, meglio, di una «citazione» di Minuetto, mentre il Finale è un gaio «moto
perpetuo».
Beethoven gioca dolcemente con lo stile concertante, e l'alternarsi degli strumenti rammenta le
delizie settecentesche dell'eco. L'Allegro finale, in forma di rondò, strizza l'occhio alla vena
popolare del suburbio viennese, quella che Schubert immortalerà sotto il segno della
malinconia. Il giovane Beethoven non conosce ancora queste ubbie, ed in quel mondo si
aggirò felice o, più tardi, lottò per renderlo tale.
https://www.youtube.com/watch?v=COGcCBJAC6I
https://www.youtube.com/watch?v=8uPGz7NU-mk
La Sonata op. 47 fu scritta tra il 1802 e il 1803. Dapprima venne composto il finale che,
secondo Ries e Wegeler (Biografische Notizen über L. v. Beethoven, Coblenza 1838), era
destinato all'op. 30 n. 1. Pare strano che Beethoven non si fosse subito accorto come questo
finale non avrebbe potuto far parte dell'op. 30 n. 1, di carattere espressivo tanto diverso; i
lavori preparatori per il finale si trovano comunque nei Quaderni del 1802 che contengono gli
schizzi per le Sonate op. 30 e ciò conferma indirettamente l'asserzione di Ries e Wegeler. I
primi due tempi dell'op. 47 furono invece composti nel 1803; già negli schizzi si trova la frase
che figura nel frontespizio della prima edizione: "Sonata scritta in uno stilo (sic) molto
concertante quasi come d'un Concerto". Il "molto concertante" sostituisce un precedente
"brillante", poi cancellato.
È molto probabile che l'idea di scrivere una sonata "brillante" o "molto concertante" sia venuta
a Beethoven dopo aver conosciuto il violinista mulatto George Bridgetower. Il Bridgetower, di
padre negro (un lacchè del principe Esterhàzy) e di madre tedesca, aveva studiato
composizione con Haydn, e si era trasferito in Inghilterra divenendo violinista del principe di
Galles. Avendo ottenuto nel 1802 un permesso per far visita alla madre, vivente in Sassonia,
aveva suonato a Dresda ed era quindi capitato a Vienna, facendosi notare per la singolare
personalità di esecutore: «... si distingueva per un'esecuzione ardita, stravagante», scrive Carl
Czerny (Die Kunst des Votrags der älterer und neureren Klavierkompositionen, Vienna 1842),
che lo ascoltò proprio allora. Le capacità esecutive del Bridgetower dovettero colpire
Beethoven; l'autografo della Sonata op. 47 reca l'intestazione (in italiano): "Sonata mulattica
Composta per il Mulatto Brischdauer gran pazzo e compositore mulattico" (la mania di
Beethoven per i giochi parole è ben nota). La Sonata fu eseguita da Bridgetower e da
Beethoven il 24 maggio 1803, nella sala di concerti dell'Augarten (un caffè del Prater), a
mezzogiorno. Ries ci informa che il Bridgetower non aveva avuto il tempo di studiare le
variazioni, perché Beethoven le aveva finite alla vigilia del concerto, e che lesse la parte del
violino sul manoscritto; dal diario di J. C. Rosenbaum (Haydn ]ahrbuch, 1968) sappiamo che
«non c'era molta gente, ma un auditorio scelto»; e da una nota del Bridgetower su una copia
della Sonata (citata in A. W. Thayer, Ludwig van Beethoven Leben, voi. II, Lipsia 1872)
sappiamo che il violinista durante la prova, improvvisò due piccole cadenze virtuosistiche e
che Beethoven contentissimo lo abbracciò. Il Bridgetower avrebbe dunque ben meritato la
dedica della Sonata. Ma quando l'op. 47 fu pubblicata, nel 1805, figurò come dedicatario il
celebre violinista francese Rodolphe Kreutzer, che Beethoven aveva conosciuto nel 1798
all'ambasciata francese di Vienna, e che stimava perché, diceva, «la sua semplicità e
naturalezza mi sono più care di tutta l'esteriorità senza interesse della maggior parte dei
virtuosi» (lettera a N. Simrock 4 ottobre 1804). Molto più tardi il Bridgetower avrebbe
affermato che la Sonata non gli era stata dedicata perché lui e Beethoven si erano innamorati
entrambi di una donna, che aveva preferito il Bridgetower (dichiarazione riportata dal direttore
del "Musical World", J. W. Thirlwall nel suo giornale, il 4 dicembre 1888). Siccome il
Bridgetower era morto nel 1860, la dichiarazione attribuitagli potrebbe benissimo essere una
piccante trovata giornalistica; l'aneddoto, comunque, non è confermato da alcuna altra fonte.
La Sonata op. 47 fu creata nel periodo in cui Beethoven cominciava a sperimentare forme che,
pur non uscendo dall'impianto tradizionale, dilatavano di molto le dimensioni architettoniche
trasmesse dalla tradizione. Alla Sonata op. 47 sarebbero seguite la Sonata op. 53 per
pianoforte, la Sinfonia Eroica op. 55, il Quartetto op. 59 n. 1; opere che affrontano tutte, in
diversi generi, il problema delle dimensioni monumentali, titaniche. Il primo tempo dell'op. 47
conta 601 battute complessive, che diventano 776 con il ritornello dell'esposizione (il primo
tempo dell'op. 53, con ritornello, è di 387 battute, il primo tempo dell'op. 55, con ritornello, è
di 838 battute, il primo tempo dell'op. 59 n. 1, che non ha ritornello, è di 500 battute). Basta
considerare le 255 battute del primo tempo della Sonata op. 30 n. 2 o le 332 (con il ritornello)
del primo tempo dell'op. 24, per avere un'idea di quanto gigantesca dovesse apparire ai
contemporanei la Sonata op. 47. Oltre alle nuove dimensioni, Beethoven usa per la prima volta
l'introduzione in movimento lento, già apparsa nelle Sonate per pianoforte e per pianoforte e
violoncello, ma non ancora nella Sonata per pianoforte e violino. L'introduzione è assai breve,
rispetto alle proporzioni del primo lempo, che sono le seguenti (il numero di battute
dell'esposizione è calcolato senza il ritornello):
Introduzione: 18 battute
Esposizione: 175 battute
Sviluppo: 150 battute
Riesposizione: 174 battute
Coda: 82 battute
Il celeberrimo primo tempo del Presto, icastico nella sua elementarietà, è formato da tre
piccoli nuclei: le due note iniziali, che assumono il tono dell'interrogazione, la serie di ventuno
suoni staccati del violino, punteggiati ritmicamente dagli accordi del pianoforte, e i tre accordi
finali. Da questi tre elementi Beethoven sviluppa un incandescente moto perpetuo, che si
arresta solo al secondo tema, costruito a modo di corale su una melodia che si muove su soli
quattro suoni: fa diesis, sol diesis, la, si. L'economia con cui vengono utilizzati i quattro suoni
è ancora più importante del fatto che siano solo quattro: il sol diesis è ripetuto sei volte, il fa
diesis sette volte (di cui cinque consecutivamente), il la tre volte, il si due volte. E questa
estrema economia di mezzi, naturalmente, accresce enormemente la forza plastica del tema,
che si imprime indelebilmente nella mente dell'ascoltatore, non meno del primo tema. Dopo il
secondo tema viene ripreso il moto perpetuo, che sbocca subito in un terzo tema. Dal punto di
vista dell'analisi scolastica non si tratta di un terzo tema, ma di un tema che fa parte della
conclusione, e che è costruito sul primo nucleo del primo tema. La forza drammatica e plastica
di questo tema (si osservi anche quale valore di intensificazione drammatica abbiano gli
accordi pizzicati del violino) è però tale da imporlo all'ascoltatore come terzo protagonista del
dramma. Una simile evidenza plastica dei temi era stata raggiunta in alcuni momenti della
Sonata op. 30 n. 2, ma nell'op. 47 tutto il tessuto è dello stesso tipo. Abbiamo fatto notare
quanto siano semplici, brevi, essenziali i nuclei tematici con i quali Beethoven forma qui i suoi
temi: si potrebbe dire scherzando (ma non troppo) che si tratta di slogans di fortissima presa
emotiva.
Sul terzo tema è basato in gran parte lo sviluppo: Beethoven vi impiega, in maniera ancora più
larga che nell'op. 24 e nell'op. 30 n. 2, passi derivati da esercizi tecnici. L'impiego di materiale
amorfo mette in maggior evidenza, per contrasto, i temi; ma l'impiego di passi di tipo-esercizio
non è qui così felice come nelle altre due Sonate, e ci pare che si possa rilevare qualche
momento di non buon equilibrio tra i due strumenti.
Il Bridgetower, nella nota riportata dal Thayer, dice che «l'espressione di Beethoven
nell'Andante era così casta (caratteristica, questa, costante nell'esecuzione dei suoi tempi lenti)
che tutti unanimemente insistettero perché il passaggio fosse ripetuto due volte». Dopo
l'enorme tensione dinamica del primo tempo, il secondo tempo costituisce infatti il momento
della serenità trasfigurata. La forma è quella del tema con variazioni. Il tema è una canzone in
tre parti (A - B - A) con suddivisione asimmetrica in due sezioni (A e B - A) e ripetizione di
entrambe le sezioni. Le prime due variazioni seguono il principio della intensificazione della
densità ritmica: nel tema la densità prevalente era di due suoni per ogni unità di misura, nella
prima variazione la densità costante è di sei suoni per unità, nella seconda di otto suoni.
Contemporaneamente abbiamo lo spostamento del violino verso l'acuto, e alla fine della
seconda variazione viene toccato il suono più acuto di tutta la Sonata (e di tutte le Sonate per
violino). La terza variazione, in modo minore, ha una densità prevalente di quattro suoni per
unità di misura; i due strumenti suonano in registro medio e grave. Nella quarta la densità
costante è di nuovo di otto suoni, ma con sovrapposte molte ornamentazioni di tipo barocco, a
densità più elevata, che rendono mutevolissimo l'insieme ritmico. I due strumenti suonano
quasi sempre nei registri di medio e acuto, e il violino usa anche il pizzicato. Da tutti questi
elementi strutturali risulta una sonorità di una delicata lucentezza, che è unica nella produzione
sonatistica di Beethoven. Il secondo tema è concluso da una coda assai ampia.
Piero Rattalino
Arrigo Quattrocchi
Op. 96 1812
Sonata n. 10 per violino e pianoforte in sol maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=hca8kQjB6no
https://www.youtube.com/watch?v=TwoFB06eHeM
Allegro moderato
Adagio espressivo (do minore)
Scherzo. Allegro (sol minore)
Poco Allegretto
Più ampia delle precedenti, lontana dalla Stimmung drammatica della Sonata a Kreutzer, essa
s'avvicina piuttosto sotto il punto di vista formale all'ideale di unità perseguito dal pressoché
contemporaneo Quartetto Op. 95. Salvo a differenziarsi anche da questo a causa del carattere
di un'ariosa serenità senza nubi. Tanto compiutamente espresso da indurre D'Indy a collocare
l'op. 96 nel novero degli esempi di quel che potè l'amore della natura nella cosiddetta seconda
maniera di Beethoven. E quindi, ad istituire un parallelo con la Sinfonia Pastorale.
Già nell'Allegro moderato la dialettica del primo tempo di sonata non ha il rilievo consueto;
sfumandone i termini, le idee si concatenano l'una all'altra nello svolgersi di un discorso
disteso, confidente, che appena increspa l'eco di motivi marziali. A sua volta l'Adagio
espressivo in forma di Lied, intriso di melodia, traduce il tempo d'abitudine consacrato alle
gravi meditazioni nel quadro di un idillio agreste. Indi, a simiglianza appunto della VI
Sinfonia, l'Adagio si salda immediatamente allo Scherzo, Presto, mediante l'irrompere di
vividi ritmi, alquanto rudi nella prima parte del tempo, illeggiadriti e quasi cittadini lungo il
Trio. Ma nessuna tempesta interviene qui a fugarli. Il Poco Allegretto finale può quindi
prescindere dall'atto di gratitudine e invece prolungare l'assaporamento della situazione felice,
prendendo norma dal tema che l'enuclea per il carattere spigliato delle variazioni successive, e
contrastatarvi soltanto con un episodio Adagio dalla quieta dolcezza. Poi, conclusa questa
parentesi, il ritorno al tempo 1° vede il tema stimolare nuovamente il brioso incalzare delle
ultime tre variazioni.
Emilia Zanetti
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
Con Mozart, in piena età classica, il genere della sonata per violino e pianoforte cessa di
presentarsi come un gioco formale in cui la questione è il prevalere virtuosistico dell'uno o
dell'altro strumento, ma si offre invece all'esperienza del compositore come un mezzo
espressivo particolarmente incisivo: rapido, essenziale, non "secco" come la scrittura solistica,
ma neppure "ridondante" come quella orchestrale. Beethoven porta ancora più in là questo
carattere, integrando in modo nuovo i livelli dell'espressività e del virtuosismo, dunque un
aspetto "arcaico" e uno "moderno" del linguaggio che unisce in duo il violino e lo strumento a
tastiera. Nelle sue prime Sonate per violino e pianoforte, pubblicate nel 1799 (op. 12), aveva
affidato al pianoforte un ruolo preponderante, riservando al violino per lo più un compito di
ripieno. Successivamente, in piena coerenza con un'evoluzione stilistica che riguarda la sua
musica a più ampio raggio, Beethoven mostrò anche nel campo della Sonata per violino e
pianoforte la tendenza a trattare l'insieme strumentale come un organismo completo, dotato di
un suo carattere e di un suo amalgama complessivo, nel quale trovano spazio melodie lunghe,
irregolari, cantabili, spesso risultanti da un mosaico di idee minori contenute all'interno di
quelle stesse melodie, e passibili di autonomo sviluppo in un lavoro di elaborazione addirittura
miniaturistico. Gli strumenti sono tessere essenziali e non semplici accessori di questi mosaici:
se in epoche precedenti era consueta la pratica di adattare al duo o al trio lavori nati per altre
destinazioni strumentali, con Beethoven la musica tiene conto dello specifico carattere degli
strumenti e non accetta facili trasposizioni. Per lui, scrivere un brano per violino e pianoforte
significa valorizzare al massimo grado il dialogo fra i due strumenti, come pure esasperarne i
contrasti, far sì la relazione fra i due protagonisti di una composizione possano esservi
occasioni di litigio o di riconciliazione, di competizione o di dialogo.
La prima esecuzione di quest'opera ebbe luogo a Vienna il 29 dicembre del 1812 nel palazzo
Lobkowitz, con Pierre Rode violinista (pensando alle sue doti tecniche ed espressive
Beethoven aveva scritto questo brano) e con al pianoforte l'Arciduca Rodolfo, il più illustre
allievo di Beethoven. È significativo notare che se da un lato, nel corso dell'Ottocento, la
Sonata a Kreutzer ha avuto una vasta fortuna letteraria e ha conosciuto anche tentativi di
trascrizione orchestrale (da Eduard Marxsen, il maestro di Brahms, a Ciaikovksij), la Sonata
op. 96 è stata invece quella prediletta dagli interpreti di maggior prestigio, da Joseph Joachim,
che la suonava in coppia con Brahms, allo stesso Rudolph Kreutzer, che invece guardava con
un certo sospetto la Sonata a lui dedicata. È il sintomo della preferenza attribuita all'equilibrio
rispetto alla destabilizzazione, alla perfezione formale rispetto alla rottura, della forma. Ed è
un segno di come l'arte di Beethoven, per quanto universalmente amata ed apprezzata, fosse in
realtà avvertita come qualcosa di rivoluzionario anche molto al di là dell'epoca in cui era stata
scritta e dovesse attendere ancora molto tempo prima di essere definitivamente assimilata dalla
cultura musicale europea.
Stefano Catucci
Op. 5 n. 1 1795 - 1796
Sonata per violoncello e pianoforte n. 1 in fa maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=tf0FSQ0RMSc
https://www.youtube.com/watch?v=50h9-tGKRaQ
La composizione delle Sonate op. 5 fu dovuta a circostanze casuali. Nel giugno del 1796
Beethoven, che stava ancora pensando alla carriera concertistica, e che nei primi mesi
dell'anno si era fatto sentire a Praga e forse a Lipsia e Dresda, si recò a Berlino. Il re di Prussia,
Federico Guglielmo II, suonava il violoncello (per lui Mozart aveva scritto i Quartetti
"Prussiani" e Boccherini molti Quartetti), ed aveva al suo servizio uno dei più abili
violoncellisti dell'epoca, Jean-Pierre Duport, al quale si deve lo sviluppo della tecnica del
capotasto. Beethoven, che suonò a corte, offrì al re violoncellista le due Sonate, e le eseguì
insieme con Duport.
La Sonata per pianoforte e violoncello non esisteva ancora, alla fine del Settecento, come
genere specifico e affermato. Il rapporto tra il pianoforte ed uno strumento di tessitura grave
pone infatti problemi compositivi particolarissimi e di difficile soluzione, perché il suono del
violoncello viene facilmente coperto dal suono del pianoforte. La Sonata per pianoforte e
violoncello non era quindi ancora stata affrontata, ed era rimasto in vita, anacronisticamente, il
vecchio genere della Sonata per violoncello e basso continuo (Sonate di J. B. Tricklir e di J. G.
Ch. Schetky, 1785 circa, di J. P. Duport, 1788, di A. Kraft, 1790 circa). Ciò permise a
Beethoven di muoversi con maggior libertà di quella che egli non si permettesse con altri
generi. Beethoven sentiva infatti fortemente il problema dei generi, e cioè il problema della
continuità storica tra sé e il passato. Il momento in cui Beethoven operava vedeva il trapasso
della musica dalla dimensione dell'attualità alla dimensione della storia. Mentre in passato la
musica, tranne che in rare eccezioni, era stata un prodotto di consumo, destinato a cadere con
la generazione che lo aveva creato, gli ultimi decenni del Settecento vedono sorgere iniziative
per l'esecuzione di musiche desuete: a Londra viene fondato nel 1776 il Concert of Ancient
Music, che fa eseguire musiche composte da almeno vent'anni; a Vienna il barone van
Swieten, protettore di Beethoven, fa eseguire Bach, Händel, Hasse, ecc. La rivoluzionaria
conseguenza di questo nuovo indirizzo era inevitabile: il compositore avrebbe dovuto
misurarsi, più che con i contemporanei, con i compositori del passato, e la definitiva
consacrazione del valore di un artista sarebbe spettata, più che ai contemporanei, ai posteri.
Beethoven operò quasi sempre in funzione non della moda presente, ma dei risultati del
passato che egli riteneva più validi e più avanzati, cercando di recuperare da una parte certi
principi compositivi caduti in disuso, e di esplorare dall'altra, sistematicamente, le possibilità
linguistiche offerte dal sistema musicale, basato sulla scala temperata allora vigente da meno
di un secolo.
Il fatto che la Sonata per pianoforte e violoncello non avesse i suoi Haydn e i suoi Mozart
permise a Beethoven di fare delle sperimentazioni arditissime. In particolare, la Sonata in due
tempi, che per tradizione era piuttosto breve, venne da lui enormemente dilatata: i primi tempi
di entrambe le Sonate op. 5 raggiungono dimensioni (400 e 553 battute) del tutto eccezionali.
Se si considerano i due ritornelli, nella seconda Sonata si toccano una dimensione di 989
battute e una durata di circa 20 minuti, che superano i corrispettivi dati dell'Eroica (842 battute
e 18 minuti circa). Anche l'introduzione in movimento lento, allora non comune, e comunque
generalmente molto breve, viene ampliata (34 e 44 battute). Le due Sonate assumono così
proporzioni che preannunciano le ricerche rivoluzionarie del 1803-1804. Anche il linguaggio
armonico appare nettamente più avanzato di quello delle Sonate op. 2 per pianoforte.
L'integrazione di pianoforte e violoncello è perseguita con molta attenzione. I moduli più tipici
sono i seguenti: 1) violoncello in funzione melodica, in registro medio-acuto, con pianoforte in
registro medio e grave; 2) violoncello in registro grave, pianoforte in registro medio-acuto; 3)
violoncello e pianoforte nello stesso registro, con ritmi molto differenziati. La parte del
violoncello, tuttavia, non è sempre all'altezza della parte del pianoforte, e talvolta ha
semplicemente funzioni di riempitivo, tanto da far pensare che Beethoven si appoggiasse
inconsciamente ai moduli del Concerto per pianoforte e orchestra. Si può però notare come
Beethoven progredisca nettamente, in questo senso, dalla prima alla seconda Sonata.
Guida all'ascolto n. 1
Nel primo tempo Beethoven sfrutta in parte esperienze fatte con il primo tempo dell'op. 2 n. 3:
anche nell'op. 5 n. 1 viene inserita una cadenza, molto più ampia, tuttavia, di quella dell'op. 2
n. 3. L'inizio della cadenza è oltremodo interessante, perché Beethoven lo tratta a canone,
anticipando in un lampo quella che sarà, nell'op. 102 n. 2, la sua più matura concezione, la
concezione contrappuntistica, dei rapporti tra pianoforte e violoncello. Abbiamo già fatto
notare la vastità di impianto del primo tempo, che comporta, ovviamente, vaste dimensioni ed
articolazione complessa dei temi: il secondo tema è infatti formato da tre gruppi tematici, e la
conclusione da quattro gruppi. Lo sviluppo non è molto vasto, rispetto all'insieme, (60 su 376
battute, non calcolando l'introduzione), ma è molto interessante armonicamente: inizia infatti
in la maggiore, tocca re minore, sol minore, do minore, la bemolle maggiore, fa minore, e si
conclude con un lungo episodio (dalla battuta 205) in re bemolle maggiore e con armonie
vaganti. Quest'ultimo episodio, con alcune battute precedenti, è inoltre notevole per lo
sfruttamento del registro grave del violoncello.
Anche il secondo tema, con il suo carattere, insieme, di caccia e di pastorale, si rifa in parte
alle esperienze del finale dell'op. 2 n. 3. Il violoncello viene trattato in modo più virtuosistico
che nel primo tempo, e viene anche spinto verso la tessitura sovracuta. Due momenti di
fusione di suono pianistico e suono violoncellistico sono particolarmente notevoli: l'uso del
pizzicato (episodio che inizia alla battuta 85), e l'uso del bicordo tenuto (episodio che inizia
alla battuta 117). In entrambi i casi il suono violoncellistico è pensato, implicitamente, in
funzione di un carattere timbrico del suono pianistico: suono brillante la prima volta, suono
sostenuto col pedale di risonanza la seconda volta.
Le due Sonate op. 5, dunque, segnano l'apertura di un vero e proprio nuovo corso nella storia
dello strumento ad arco. Il decisivo inserimento di Beethoven negli eventi relativi allo
strumento avvenne grazie all'incontro con uno straordinario virtuoso, Jean-Louis Duport, uno
dei protagonisti della diffusione europea del violoncello; Duport aveva raggiunto a Berlino nel
1789 (in seguito ai fatti rivoluzionari) il fratello Jean-Pierre, anch'egli violoncellista e direttore
presso la cappella di Friedrich Wilhelm II. L'incontro fra compositore e strumentista avvenne
appunto nella capitale prussiana, dove Beethoven si era recato nella primavera 1796, nel corso
di una tournée, compiuta soprattutto nelle vesti di pianista. Ad informarci che le due Sonate
op. 5 furono scritte proprio in questa occasione «per Duport (primo violoncellista del re)» è
Ferdinand Ries - allievo e biografo del maestro -, secondo il quale inoltre Beethoven suonò di
fronte a Friedrich Wilhelm, ricevendo come ricompensa una tabacchiera d'oro. Alla loro
pubblicazione - avvenuta per i tipi di Artaria a Vienna nel febbraio 1797 - le Sonate furono
dedicate appunto al re prussiano, egli stesso violoncellista dilettante.
Il fatto che le due Sonate siano state scritte in stretto contatto con Jean-Louis Duport è stato
confermato, in anni recenti, dallo studio degli abbozzi (oggi conservati a Londra e Bergamo),
redatti su carta di tipo berlinese. Proprio la vicinanza di Duport ebbe peraltro una sicura
ripercussione sul contenuto delle composizioni. Già negli anni di Bonn e nei primi anni
viennesi Beethoven era entrato in relazione con diversi solisti di violoncello (fra cui il
celebrato Bernard Romberg). Tuttavia - come ha dimostrato Lewis Lockwood («Beethoven's
early works for violoncello and contemporary violoncello technique» in Beethoven-
Kolloquium 1977) - le Sonate op. 5 contengono molte peculiarità tecniche nell'uso del
violoncello che sono direttamente ascrivibili a Duport, e che dovevano essere poi infatti
codificate nell'Essai sur le doigté du Violoncelle et la conduite de l'archet, edito nel 1806 ma
maturato dallo strumentista nel corso di oltre un ventennio.
Analoga per le due composizioni è la forma scelta da Beethoven: appena due movimenti
(anche se di vaste dimensioni), un primo tempo in forma sonata, preceduto da un'introduzione
lenta, ed un secondo tempo in forma di rondò. Si tratta di una forma eccentrica, che rinuncia al
tradizionale movimento lento in posizione centrale; forse per la difficoltà incontrata nello
sfruttare le capacità cantabili dello strumento ad arco.
Le due Sonate sono comunque estremamente dissimili fra loro. La Sonata in fa maggiore vede
un maggiore impaccio nell'impiego dello strumento ad arco (timide sono ad esempio le sortite
nel registro acuto, frequenti le figurazioni di accompagnamento) e un pieno dominio di quello
a tastiera; ma già l'Adagio sostenuto introduttivo vede gli strumenti su un piano di ideale
parità. La "dialettica" interna del seguente Allegro non è tanto tematica (affini sono i due temi
principali, entrambi "dolci" e cantabili) quanto strumentale, come mostrano i serrati
"inseguimenti" della sezione dello sviluppo. Il Rondò, basato su un refrain del tipo "di caccia",
vede il proprio contenuto brillante svolto soprattutto attraverso le risorse della tecnica
pianistica.
Arrigo Quattrocchi
La coppia delle due Sonate con le quali Beethoven esordì nella composizione per violoncello e
pianoforte, pubblicata nel 1797 a Vienna dall'editore Artaria, era nata con tutta probabilità
nell'inverno del 1795, anno decisivo per la carriera e la fortuna di Beethoven. Lanciato come
pianista dalle prime importanti apparizioni dinanzi al pubblico viennese, il musicista
venticinquenne stava già conquistandosi ampia notorietà come compositore. La pubblicazione
dei Trii op. 1 per pianoforte, violino e violoncello, subito seguita da quella delle tre Sonate per
pianoforte op. 2, lo aveva imposto come l'enfant terrìble del mondo musicale viennese, venuto
a turbare l'olimpico impero del venerando Haydn. Nei tre anni successivi, fatto destinato a
ripetersi mai più in tutta la sua vita, Beethoven si sarebbe presentato con successo nei
maggiori centri dell'impero, ricavando ulteriore prestigio e notevoli guadagni come pianista e
compositore. Lo attendeva anche Berlino, dove le sorti della musica erano in mano a Jean
Pierre Duport, celeberrimo violoncellista francese, maestro personale del re di Prussia
Federico Guglielmo II, buon dilettante di violoncello. Appunto in previsione di questo viaggio
Beethoven scrisse le due Sonate per pianoforte e violoncello che avrebbe eseguito nel 1797
insieme con Duport stesso davanti al Re, cui le due opere sono dedicate, a che dette segno
tangibile della sua gratitudine donando a Beethoven, com'era d'uso, una tabacchiera d'oro
colma di monete.
Daniele Spini
Op. 5 n. 2 1796
Sonata per violoncello e pianoforte n. 2 in sol minore
https://www.youtube.com/watch?v=sI9SFXz9MY4
https://www.youtube.com/watch?v=anWKfStxLZk
Guida all'ascolto
Come abbiamo detto anche a proposito della prima Sonata, la novità e l'originalità dell'op. 5
non esclude un rapporto con esperienze compositive del passato. Nel primo tempo della prima
Sonata, Beethoven aveva sviluppato ulteriormente un impianto architettonico già
esperimentato nell'op. 2 n. 3; nel primo tempo della seconda Sonata si stabilisce
indubbiamente un rapporto con il Mozart tragico della Fantasia K. 396 e della Sonata K. 457.
Le battute 22-27 dell'Adagio introduttivo stanno in diretto rapporto con le battute 34-46 della
Fantasia K. 396. Nell'Allegro Beethoven ripensa la forma del primo tempo della Sonata K.
457, con i due ritornelli tradizionali, ma con un'ampia coda, del tutto insolita, dopo il secondo
ritornello. Anche il carattere espressivo dell'Allegro, ci sembra, risente della Sonata di Mozart:
in questo caso, del finale, che era stato uno dei primi esempi di espressione tragica in un ritmo
ternario.
Abbiamo già fatto notare le proporzioni grandiose del primo tempo. Le riassumiamo ora in
uno specchietto:
Introduzione 44 battute
Esposizione 171 battute
Sviluppo 99 battute
Riesposizione 166 battute
Coda 73 battute
È interessante osservare che Beethoven, pur derivando da Mozart una parte dello schema
compositivo, non ripete le proporzioni mozartiane, perché l'aggiunta dell'Adagio introduttivo
provoca importanti modificazioni nei rapporti dell'esposizione con lo sviluppo e con la coda:
in Mozart, infatti, lo sviluppo è lungo il 33,7% e la coda il 24,2% dell'esposizione, mentre in
Beethoven lo sviluppo è lungo il 58,5%, e la coda il 42,6%.
L'inizio dell'Allegro, confrontato con l'inizio dell'Allegro della prima Sonata, mostra il
progresso di Beethoven. Nella prima Sonata veniva adottato lo schema comune della Sonata
concertante per pianoforte e violino, con esposizione del primo tema all'uno, poi all'altro
strumento; la necessità di concludere armonicamente l'ultima battuta dell'Adagio introduttivo
faceva però sì che il violoncello accompagnasse il pianoforte nelle prime battute dell'Allegro,
e questa soluzione sapeva veramente di ripiego. All'inizio della seconda Sonata, i due
strumenti vengono invece perfettamente integrati, e gli schemi della Sonata concertante
vengono superati mediante una serie di domande e risposte che simulano una esposizione di
fuga a due voci. Si tratta veramente di un'idea di grandissima genialità, che non trova
un'attuazione perfetta - se vogliamo essere ipercritici - soltanto perché un tratto troppo lungo
(battute 59-66) è affidato al solo pianoforte; non ci pare improbabile che un Beethoven più
maturo avrebbe potuto eliminare le battute 63-66, per reintrodurle invece alla riesposizione,
dove la loro presenza vale in funzione della successiva modulazione. L'integrazione melodica
tra i due strumenti viene mantenuta per tutto il primo tempo. L'integrazione ritmica non è
invece completa, perché il ritmo di terzine di crome è riservato al solo pianoforte, in quanto
non sarebbe stato eseguibile, alla fine del Settecento, dalla tecnica d'arco del violoncello: ma il
materiale melodico viene distribuito con tale perfezione da far apparire accademico e astratto
qualsiasi appunto sulla non completa integrazione del ritmo. È da notare un particolare della
scrittura pianistica: alle battute 466-470, raddoppiando le note ribattute del violoncello,
Beethoven impiega al pianoforte le ottave alternate, molto sonore, e destinate a diventare un
luogo comune della tecnica pianistica del romanticismo; per un effetto analogo, nel primo
tempo dell'op. 2 n. 3, Beethoven aveva invece impiegato ancora (battute 85-88 e 252-255) le
settecentesche ottave spezzate.
Le due Sonate op. 5, dunque, segnano l'apertura di un vero e proprio nuovo corso nella storia
dello strumento ad arco. Il decisivo inserimento di Beethoven negli eventi relativi allo
strumento avvenne grazie all'incontro con uno straordinario virtuoso, Jean-Louis Duport, uno
dei protagonisti della diffusione europea del violoncello; Duport aveva raggiunto a Berlino nel
1789 (in seguito ai fatti rivoluzionari) il fratello Jean-Pierre, anch'egli violoncellista e direttore
presso la cappella di Friedrich Wilhelm II. L'incontro fra compositore e strumentista avvenne
appunto nella capitale prussiana, dove Beethoven si era recato nella primavera 1796, nel corso
di una tournée, compiuta soprattutto nelle vesti di pianista. Ad informarci che le due Sonate
op. 5 furono scritte proprio in questa occasione «per Duport (primo violoncellista del re)» è
Ferdinand Ries - allievo e biografo del maestro -, secondo il quale inoltre Beethoven suonò di
fronte a Friedrich Wilhelm, ricevendo come ricompensa una tabacchiera d'oro. Alla loro
pubblicazione - avvenuta per i tipi di Artaria a Vienna nel febbraio 1797 - le Sonate furono
dedicate appunto al re prussiano, egli stesso violoncellista dilettante.
Il fatto che le due Sonate siano state scritte in stretto contatto con Jean-Louis Duport è stato
confermato, in anni recenti, dallo studio degli abbozzi (oggi conservati a Londra e Bergamo),
redatti su carta di tipo berlinese. Proprio la vicinanza di Duport ebbe peraltro una sicura
ripercussione sul contenuto delle composizioni. Già negli anni di Bonn e nei primi anni
viennesi Beethoven era entrato in relazione con diversi solisti di violoncello (fra cui il
celebrato Bernard Romberg). Tuttavia - come ha dimostrato Lewis Lockwood («Beethoven's
early works for violoncello and contemporary violoncello technique» in Beethoven-
Kolloquium 1977) - le Sonate op. 5 contengono molte peculiarità tecniche nell'uso del
violoncello che sono direttamente ascrivibili a Duport, e che dovevano essere poi infatti
codificate nell'Essai sur le doigté du Violoncelle et la conduite de l'archet, edito nel 1806 ma
maturato dallo strumentista nel corso di oltre un ventennio.
Analoga per le due composizioni è la forma scelta da Beethoven: appena due movimenti
(anche se di vaste dimensioni), un primo tempo in forma sonata, preceduto da un'introduzione
lenta, ed un secondo tempo in forma di rondò. Si tratta di una forma eccentrica, che rinuncia al
tradizionale movimento lento in posizione centrale; forse per la difficoltà incontrata nello
sfruttare le capacità cantabili dello strumento ad arco.
La Sonata in sol minore, seconda delle due composte nel 1795 per Duport e Federico
Guglielmo, presenta rispetto alla sorella (probabilmente più anziana) in fa maggiore caratteri
di maggiore interesse. Anche in essa, naturalmente, permangono le ipoteche storiche della
sudditanza del violoncello, non ancora completamente emancipato dal ricordo dell'antico ruolo
di basso continuo, rispetto al pianoforte, vero dominatore della composizione perché veicolo
principe delle istanze espressive, destinatario del maggior peso virtuosistico e colonna portante
dell'intero discorso musicale. Ma è indubbio che in questo secondo confronto con il duo
violoncello-pianoforte Beethoven prova di aver compiuto più di un passo avanti: sul piano
dell'integrazione cameristica, anzitutto, giacché fra i due strumenti tende sempre di più a
instaurarsi un dialogo attivo, attribuendosi maggiore importanza sia costruttivamente che
espressivamente alle proposte del violoncello. Ma principalmente i meriti della Sonata in sol
minore paiono affermarsi sul terreno puro e semplice della creazione artistica. L'ampio Adagio
che introduce il primo tempo (anche qui Beethoven rinunzia alla suddivisione classica in
quattro o almeno tre movimenti, impiantando l'opera su un tempo di Sonata seguito da un
Rondò) è pagina di grande intensità espressiva, capace di accogliere in movenze di elegante
politezza formale le istanze di un patetismo composto e severo, scandito sul solenne incedere
dei ritmi puntati e su brevi effusioni cantabili dove il violoncello dimostra di aver forse
qualcosa in più da dire rispetto al pianoforte. L'Allegro vero e proprio non tradisce il carattere
annunciato dall'introduzione lenta, limitandosi ad alleggerirne l'intensità, e ampliandone
semmai la gamma espressiva con la grazia di certe pieghe melodiche. Sicché par d'obbligo
ripetere con Giovanni Carli Ballola come questo primo tempo sia «una delle creazioni più
affascinanti della giovinezza beethoveniana: una di quelle opere la cui irripetibile felicità è
raggiunta attraverso il ricorso ingenuo ed entusiastico a un linguaggio avuto in eredità, nel
quale l'artista attinge a piene mani, come ad un tesoro di cui ancora non si preoccupa di far
maturare gli interessi». Il Rondò finale consegue una piena coerenza con il clima del primo
movimento, pur orientandosi in diversa direzione, con i larghi spazi dedicati alle sortite
virtuosistiche del violoncello, cui si propongono, almeno qui, non lievi difficoltà tecniche, e
con l'adozione di un andamento decisamente brillante, non privo di una manierata eleganza
quasi popolaresca.
Daniele Spini
https://www.youtube.com/watch?v=2C2aPQzMH2U
https://www.youtube.com/watch?v=I-8SK5uOJ_s
Sulla copia dedicatoria della Sonata in la maggiore op. 69 Beethoven scrisse «inter lacrimas et
luctum», non certo alludendo al carattere dell'opera - che è solare e nobile come poche altre -
quanto probabilmente al suo stato d'animo di quei giorni. La Terza sonata per violoncello
aveva cominciato a vedere la luce nel 1807 (gli schizzi dei suoi motivi principali sono infatti
mescolati a quelli della Quinta Sinfonia) ma fu ultimata solo all'inizio dell'anno successivo, in
un periodo in cui Beethoven era convinto di essere ormai sul punto di abbandonare Vienna -
città dove negli ultimi due anni aveva «subito numerose sventure» - e di «diventare un
vagabondo». La precarietà materiale, vera causa della sua insicurezza, fu finalmente superata
il 1° marzo 1809 quando, messi di fronte alla prospettiva che Beethoven accettasse l'incarico
di Kapellmeister offertogli a Kassel da Jerôme Bonaparte, l'arciduca Rodolfo e i principi
Lobkowitz e Kinsky decisero di passargli un vitalizio di 4000 fiorini annui perché «le
necessità della vita non gli siano d'impedimento ne soffochino il suo possente genio» (come si
legge nel contratto), a patto però del suo impegno a non lasciare il territorio dell'impero
austriaco. A condurre la trattativa con i tre aristocratici per conto di Beethoven fu il barone
Ignaz von Gleichenstein, suo carissimo amico nonché ottimo violoncellista dilettante, al quale
- probabilmente in segno di riconoscenza - venne dedicata la Sonata op. 69 poco prima che gli
editori Breitkopf & Hàrtel la dessero alle stampe, nell'aprile dello stesso 1808.
Il considerevole spazio di tempo occorso a Ludwig van Beethoven per mettere a punto la
Sonata op. 69 è rivelatore della fatica richiestagli da un lavoro nel quale l'equilibrio tra i piani
sonori ed espressivi dei due strumenti raggiunge per la prima volta la perfezione assoluta,
caratteristica questa che non è sfuggita ad alcun commentatore dell'opera beethoveniana e che
costituisce senz'altro il pregio maggiore della Sonata. Ma ciò che più affascina in essa è
quell'atmosfera «tra la sinfonia e il concerto», quel senso di calma spaziosità, di nobile
eleganza, di retorica misurata che la Sonata op. 69 condivide con lavori del calibro del
Concerto per violino, della Sesta sinfonia, del Quarto e del Quinto concerto per pianoforte, dei
Trii op. 70 e del Trio «Arciduca» op. 97, le opere più significative al tramonto del cosiddetto
«periodo eroico» beethoveniano, caratterizzate non più dallo scatenamento di energia
concentrata in motivi e ritmi esplosivi e germinali bensì da un'evidente monumentalità
ottenuta attraverso ampie melodie e stacchi di tempo moderati.
L'attacco dell'Allegro ma non tanto ricorda quello della Sonata «a Kreutzer», della quale l'op.
69 può a ragione ritenersi il corrispettivo violoncellistico: entrambe infatti presentano un
assolo dello strumento ad arco seguito da un brillante passaggio al pianoforte poi concluso da
una cadenza. Il bellissimo tema, esposto «in collaborazione» (la prima parte al violoncello,
l'altra al piano), e ripetuto a ruoli rovesciati, è il vero motore dell'intero movimento: ne sono
contaminati il secondo tema, la coda e soprattutto la sezione di Sviluppo, mentre a esso fa
efficacemente da contrasto il vigoroso motivo dell'episodio. Il tempo più singolare, però, è
senz'altro lo Scherzo, una pagina livida ed enigmatica nella quale molti hanno visto la più
eloquente anticipazione del celeberrimo Allegretto della Settima sinfonia: costruito sulla forma
ABABA, esso presenta uno spoglio tema sincopato al quale per due volte fa eco un semplice
motivo in modo maggiore, in un clima di introversione davvero insolito per uno «scherzo»
beethoveniano. Il successivo, brevissimo Adagio cantabile funge in realtà da introduzione
lenta per l'ultimo tempo, un ampio Allegro vivace che in luogo del rondò opta per i più nobili
modi della forma-sonata senza tuttavia rinunciare alla saporita leggerezza abituale nella pagina
conclusiva di un lavoro cameristico. Entrambi i temi possiedono una luminosa intensità lirica e
l'esposizione del secondo, spezzata fra i due strumenti, ricorda quella del primo tema del
tempo iniziale, a conferma di un raffinatissimo lavoro di sottili relazioni tra elementi formali e
motivici attraverso i vari movimenti che imparenta questa Sonata alla Quinta sinfonia ben oltre
l'aspetto meramente cronologico.
Bruno Gandolfi
La terza Sonata per pianoforte e violoncello fu composta tra il 1807 e il 1808, e fu pubblicata
nel 1809, con dedica ad uno dei più intimi amici di Beethoven, il barone Ignaz von
Gleichenstein. La copia donata da Beethoven al barone von Gleichenstein reca, sotto la dedica
a stampa, il motto autografo "Inter lacrymas et luctum": probabilmente Beethoven voleva
riferirsi ai mali fisici dei quali aveva sofferto nel 1807 e 1808, ai vari, inutili progetti -
proposta di contratto al Teatro Imperiale, piano di un viaggio artistico in Italia - di
sistemazione finanziaria, e all'inimicizia che il mondo musicale viennese gli andava
dimostrando.
Dopo le Sonate e i Quartetti giganteschi e titanici degli anni precedenti, la Sonata op. 69
inaugura, nella musica da camera beethoveniana, un ritorno a proporzioni più ridotte, ad uno
stile meno virtuosistico, e ad un tono più intimo: questa fase della creatività di Beethoven
proseguirà con i Trii op. 70, il Quartetto op. 74, le Sonate per pianoforte op. 78, 79, 81, 90, il
Quartetto op. 95, e si concluderà con la Sonata op. 96 per pianoforte e violino. Il primo tema
dell'op. 69 annuncia subito il clima intimistico: è un tema lirico, in due sezioni, di cui la prima
affidata al solo violoncello in registro grave, la seconda al pianoforte in registro medio-acuto
(sul mi grave tenuto dal violoncello). Il timbro delle due corde gravi del violoncello, già
esperimentato in alcuni momenti dell'op. 5, viene qui valorizzato al massimo grado. E per
pareggiarlo, quando ripete il tema a parti invertite (battute 13-16), Beethoven fa ricorso alle
doppie ottave del pianoforte, "piano" e legato: disposizione pianistica rara, all'inizio
dell'Ottocento, di bellissima, profonda, misteriosa sonorità, e che pone all'esecuzione difficili
problemi di equilibrio dinamico tra i quattro suoni.
Il clima espressivo muta bruscamente nel ponte. Non si tratta, in realtà, di un materiale nuovo,
ma di una profonda trasformazione (cambiamento di modo, varianti melodiche e ritmiche) del
primo tema. I due caratteri espressivi diversi vengono subito ripresi e ripetuti, rispettivamente,
nel secondo tema e nella conclusione. Si stabilisce quindi una simmetria nel carattere
espressivo (che è anche simmetria nella densità ritmica e nella dinamica) tra primo-secondo
tema da una parte, ponte-conclusione dall'altra, in luogo della più tradizionale simmetria di
pri¬mo tema e conclusione, con secondo tema contrastante e ponte in funzione di semplice
collegamento. Nello sviluppo sono da notare gli ampi, "schumanniani" accompagnamenti in
arpeggi del pianoforte (battute 107 e segg.), che sviluppano una concezione della sonorità
pianistica già apparsa nel Quarto Concerto. Nella coda troviamo una tipica sorpresa
beethoveniana: la perorazione, con primo tema in "fortissimo" (battuta 253), quando la
composizione sembrava terminata.
Nello Scherzo Beethoven impiega uno schema formale di cui si serviva volentieri in quegli
anni: ripetizione del Trio e doppia ripetizione dello Scherzo (si vedano il Quartetto op. 59 n. 2,
del 1806, e la Quarta Sinfonia, pure del 1806). Lo Scherzo è certamente uno dei brani più
spiccatamente umoristici di Beethoven, e l'oscillazione del basso all'attacco del Trio (battuta
105 e segg.) potrebbe essere aggiunta al piccolo elenco che Schumann faceva di "effetti
strumentali puramente comici".
Il carattere umoristico torna nel finale, dopo la breve parentesi lirica dell'"Adagio cantabile".
Effetti chiaramente umoristici sono i ritmi protetici al basso (battute 34-37 e sim.), e i
contrattempi paralleli di pianoforte e violoncello, di assai difficile esecuzione (battuta 65 e
segg.). Ma umoristico è anche il secondo tema, con il sentimentale sospirare del violoncello.
La struttura formale è quella, solita, della forma-sonata con breve sviluppo ed ampia coda.
Piero Rattalino
Le Sonate per pianoforte e violoncello, pur essendo soltanto cinque, si estendono nell'attività
creatrice di Beethoven per un più lungo periodo di tempo che non quelle per violino. Le prime
due Sonate, infatti, che costituiscono l'opera 5, risalgono al 1796, le ultime due (op. 102) sono
del 1815. L'op. 69 fu abbozzata nel 1807 e completata nel 1808. Non senza ragione è la
preferita dai concertisti; quella ove la concezione beethoveniana rivolta a fare della sonata
violoncellistica un poema dialogato tra pianofo¬te e cello - delineatasi fin dall'op. 5 - si
realizza in termini di più compiuta bellezza e di perfetto equilibrio strumentale.
Una copia della prima edizione di questa composizione (che si trova alla Biblioteca di Stato di
Berlino), offerta da Beethoven a un amico con una dedica autografa in data aprile 1809, porta
queste significative parole di pugno dal musicista: «Inter lacrimae et luctum». Siamo negli
anni della V e VI Sinfonia e dunque non dovrebbe suscitare eccessiva meraviglia il fatto che
nel caldo stesso delle lacrime e del dolore sgorgassero note serene e vibranti di gioia come
questa della Sonata in la. Del resto sono molti gli esempi in Beethoven di catarsi di un dramma
non rivelato o appena adombrato: la stessa IX Sinfonia ha, se vogliamo, tale significato ideale.
L'Allegro d'apertura segue quelli che si considerano i paradigmi tradizionali della forma-
sonata, senza alcuna eccezione di rilievo. Lo Scherzo, tutto punteggiato da una spiritosa
acciaccatura, alterna due volte il modo minore e maggiore. Non consueta la funzione
dell'Adagio cantabile: con le sue poche battute (18), funge da fase preparatoria al bellissimo
Allegro vivace. Qui i due strumenti sembrano scorrere appaiati sul filo di una corrente sonora
limpida e fresca, che solo incurva e rallenta appena il suo corso rettilineo là dove pianoforte e
violoncello vogliono scambiarsi, con maggiore intimità, la seconda idea tematica del brano.
Giorgio Graziosi
Pubblicata nel 1809 a Lipsia da Breitkopf & Härtel con la dedica al barone Ignaz von
Gleichenstein, grande amico del musicista, la Sonata in la maggiore op. 69, terza in ordine di
tempo delle cinque per pianoforte e violoncello composte da Beethoven, venne eseguita per la
prima volta il 5 marzo dello stesso anno dal violoncellista Nikolaus Kraft. Composta nel 1808,
dieci anni giusti la separano dalle Variazioni su «Ein Mädchen oder Weibchen». Notevole
l'intervallo di tempo, ancora più sensibile il salto stilistico e qualitativo fra i due lavori (come
fra la Sonata e le stesse Variazioni su «Bei Männern», nate nel 1801): le Variazioni
impropriamente catalogate come op. 66 erano ancora il frutto di un Beethoven «prima
maniera», che pagava un considerevole tributo alle esigenze del genere brillante; con l'op. 69
siamo invece in pieno «periodo di mezzo», non è ancor asciutto l'inchiostro sulle partiture
della Quinta e della Sesta sinfonia, il Concerto per violino e il Quarto per pianoforte hanno già
due anni di vita, il grandioso Quinto, l'Imperatore, sta per vedere la luce, nel campo del
Quartetto Beethoven ha già dato i tre Razumowsky, in quello della Sonata pianistica si è
lasciato alle spalle capolavori come la Waldstein e l'Appassionata, di Fidelio è già stata
approntata una seconda versione. E per Beethoven l'epoca del più opulento fervore espressivo,
della drammatica e intensa revisione degli schemi formali: e tale è il clima che si respira in
questa Sonata per violoncello e pianoforte, senz'altro la più popolare delle cinque, grazie
probabilmente alla straordinaria ricchezza e luminosità delle tinte che ne adornano la fattura
generosa e di calda espressività.
Tali connotati si annunciano fin dall'esordio del primo movimento: il quale, oltre a offrirsi
all'ammirazione di tutti per quella pagina stupenda che è, gode di una curiosa attenzione da
parte dei musicologi per la presenza all'inizio della sezione dedicata agli sviluppi di un motivo,
esposto dal violoncello, che è citazione letterale dalla Passione secondo Giovanni di Bach: una
coincidenza, probabilmente, giacché non v'è prova che Beethoven conoscesse la Passione;
comunque un caso singolare e degno di nota. Come già nelle due Sonate op. 5, non si ha
tempo lento, limitandosi la struttura dell'opera a comprendere due Allegri incornicianti uno
Scherzo di proporzioni particolarmente ampie. Ma in questo caso l'atteggiamento di
Beethoven nei confronti del violoncello rivela una consapevolezza incomparabilmente
maggiore: non solo il rapporto fra i due strumenti si è finalmente attestato su una piena
pariteticità, ma le caratteristiche espressive del violoncello vengono omaggiate senza più
ombra d'impaccio, con l'impiego di una distesa e ricca cantabilità, spaziarne nei diversi registri
dello strumento a sondarne tutte le risonanze poetiche. Donde l'eccezionale afflato lirico dei
due tempi estremi della Sonata, dove il pianoforte, pur serbando - né sarebbe stato possibile
altrimenti in Beethoven - un'originalità e una pertinenza di scrittura più marcate di quanto non
avvenga per il violoncello, viene come coinvolto da quest'ultimo in un discorso poetico
pervaso quasi costantemente da un senso di felicità e da un'espansività che hanno rari (anche
se precisi e quanto mai illustri) termini di riferimento nella stessa storia del pianoforte
beethoveniano, non eludendo comunque frequenti escursioni in più contrastate zone
dell'espressione. Diversa la faccenda per il bellissimo Scherzo, ampliato - secondo una prassi
non rara nel Beethoven appunto della seconda maniera - nell'articolazione Scherzo - Trio -
Scherzo - Trio - Scherzo in luogo della tradizionale semplice scansione ternaria: qui
l'espressività sembra a un tempo farsi più gonfia e più inquieta, sovente affacciandosi su
prospettive misteriose e perfino drammatiche. Il passaggio da questo movimento all'ultimo
avviene nei termini di estrema e assorta concentrazione psicologica del breve Adagio che
introduce al Finale vero e proprio. Altro stilema, questo, ferace di frutti stupendi proprio nel
Beethoven di questi anni (i casi abbastanza analoghi riscontrabili in due quasi coeve Sonate
per pianoforte, la Waldstein e Les adieux, sono soltanto i primi e più vistosi esempi che
vengano alla mente): quasi un espediente di elevatissima drammaturgia formale, capace
insieme di non far rimpiangere l'assenza dell'ampio Adagio, cuore psicologico ed espressivo
della Sonata tradizionale ormai quasi definitivamente ripudiato da Beethoven, e di conferire
straordinario risalto al giubilante fluire del movimento conclusivo. Con esso si completa
coerentemente la fisionomia espressiva di questa Sonata; quasi a contraddire l'enigmatico
motto apposto da Beethoven sul manoscritto originale: «inter lacrimas et luctum».
Daniele Spini
https://www.youtube.com/watch?v=Q9kHHq_E-Hc
https://www.youtube.com/watch?v=rRoogaNKMuQ
Andante
Allegro vivace
Adagio (sol maggiore)
Allegro vivace
Nell'estate del 1815, Beethoven ritrovò nel "suo" genere, nella formazione pianoforte-
violoncello, lo stimolo per una svolta decisiva della sua evoluzione di creatore. Con le Sonate
op. 102 aveva appunto inizio quella fase che Wilhelm von Lenz chiamò "terzo stile"; concetto
esegetico-critico che fu subito contestato, ma che è rimasto tenacemente vagante nell'aria e che
non è destinato a dissolversi perché, per quanto ambiguo, ha un suo reale fondamento.
Il lettore osserverà forse che le caratteristiche formali, ed anche ideologiche delle Sonate op.
102 sono presenti nella Sonata op. 101 per pianoforte. Il numero d'opera non indica però, in
questo caso, la esatta cronologia. Le Sonate op. 102, come abbiamo detto, furono composte nel
1815, la Sonata op. 101 nel 1816. Il numero d'opera veniva nell'Ottocento assegnato dal
compositore al momento della pubblicazione, e perciò la Sonata per pianoforte, che uscì a
Vienna nel febbraio del 1817, ebbe il n. 101, mentre il 102 fu assegnato alle Sonate per
pianoforte e violoncello, che uscirono a Bonn in marzo.
L'edizione di Bonn non aveva dedica. La successiva edizione, uscita a Vienna nel gennaio del
1819, fu dedicata "A Madame la Comtesse Marie Erdödy née Comtesse Niszky". Quasi
coetanea di Beethoven (era nata ad Arald in Ungheria nel 1777) e sposatasi a Vienna nel 1796,
quando Beethoven vi si stava appena affermando come musicista di punta, la contessa Erdödy
era una di quelle grandi dame dell'aristocrazia imperiale che avevano visto con simpatia
l'ascesa del giovanotto di Bonn, pianista arruffato e originale e ancor più originale, e magari
arruffato per i gusti del tempo, compositore. L'amicizia tra Beethoven e la Erdödy, che fu
profonda da ambo le parti, è testimoniata dalla dedica delle Sonate op. 102 e, prima, dei Trii
op. 70, e fu tanto più profonda, da parte di Beethoven, perché la donna era di malferma salute
e "malmaritata". Poco più d'un anno dopo che erano uscite a Vienna le Sonate op. 102, la
contessa Erdödy, per oscure e drammatiche cabale familiari (venne accusata di aver lasciato
morire il figlio), fu infatti esiliata dagli stati imperiali e lasciò Vienna per sempre.
Le Sonate op. 102, dicevamo, inaugurano il "terzo stile" di Beethoven. Il problema che
Beethoven si pone verso il 1815, fors'anche in seguito alle circostanze politiche del momento,
perché il 1815 è l'anno del Congresso di Vienna che seppellisce le idealità rivoluzionarie, è di
introdurre nello stile classico il principio barocco della polifonia, della compresenza di parti
indipendenti. Detto così, cioè in soldoni, il problema sembra semplicistico, perché non si
vedrebbe come Beethoven avrebbe potuto prima scrivere, ad esempio, il grande finale fugato
del Quartetto op. 59 n. 3, se non avesse avuto la "mano" pronta per la polifonia imitativa. Ma
in verità si tratta dello sviluppo di un interesse per la polifonia barocca che Beethoven aveva
manifestato già da tempo, e di una utilizzazione, di una riconversione in senso creativo della
tecnica contrappuntistica che faceva parte della preparazione accademica di ogni compositore.
In questo senso la Sonata op. 102 n. 2, soprattutto, rappresenta un manifesto estetico, sia
perché termina con un fugato a quattro parti, tecnicamente ben diverso dalla fuga del Quartetto
op. 59 n. 3, sia perché estende a tutta la composizione il principio di costruzione polifonica del
discorso. Nello stesso tempo il tematismo classico si fa essenziale, asciutto, possiamo dire
radicale: il gesto sonoro, la costruzione di un discorso fatto di brevi immagini sviluppate in
molti modi, la - il lettore ci perdoni l'espressione - retorica propagandistica del primo decennio
del secolo si converte in una personale meditazione, in una riflessione rivolta verso l'io, non
verso il mondo.
Non più un problema di generi, di continuità della storia, ma di rinnovamento profetico della
realtà attraverso una sintesi storica vertiginosa. La fuga barocca viene così ricondotta
all'essenziale principio della polifonia, il tematismo classico viene ricondotto all'essenziale
principio della contrapposizione: dal loro rapporto nascono le nuove forme.
Guida all'ascolto 1
Pare che Beethoven avesse l'intenzione di intitolare Sonata libera l'op. 102 n. 1. Sarebbe stata,
in fondo, una riedizione del termine Sonata quasi una fantasia inventato per l'op. 27 per
pianoforte. Ma, per quanto audaci fossero formalmente le Sonate op. 27, specie la prima, la
Sonata op. 102 n. 1 le supera. La grande novità formale di questa composizione consiste nella
struttura del primo tempo, che a tutta prima sembra essere una riproposta dello schema
dell'allegro di sonata con ampia introduzione in movimento lento, utilizzato nelle due Sonate
op. 5, mentre invece Beethoven modifica le proporzioni e, dopo l'introduzione, crea un tempo
mosso stringatissimo; per di più, l'introduzione (Andante) è in do maggiore, il tempo è in la
minore.
La sorpresa, all'attacco del Vivace, è grandissima, proprio perché Beethoven, alla fine
dell'introduzione, ha tanto nettamente cadenzato in do maggiore, senza minimamente
predisporre il passaggio al la minore. E la sorpresa è ancora più grande quando ci si accorge
che lo schema dell'allegro di Sonata si svolge senza che esista un vero e proprio secondo tema:
Beethoven usa un solo gruppo tematico formato da due nuclei contrastanti, il secondo dei quali
può essere considerato sì secondo tema, ma che come tale non appare nella economia formale
della composizione. Insomma, se si considera il secondo nucleo come facente parte di un
gruppo tematico, si cerca poi invano il secondo tema; se lo si considera come secondo tema si
ha l'impressione di un primo tema eccessivamente... laconico.
Secondo e terzo tempo sono collegati, come introduzione e primo tempo, ma questa volta
senza più sorprese nella struttura tonale. La sorpresa è che l'Adagio, tutto costruito su fregi
ornamentali che diventano espressivi, che diventano struttura portante, sembra concludersi con
un recitativo a due, mentre invece, a questo punto, Beethoven riprende l'introduzione del
primo tempo, in modo da stabilire una progressione di velocità fino al finale vero e proprio:
Adagio-Andante-Allegro vivace.
Nella Sonata op. 102 n. 2 Beethoven terminerà con un ampio fugato. Nella Sonata n. 1 questa
soluzione non viene ancora scelta, ma viene sfiorata e come presentita. Il finale è in realtà un
allegro bitematico e tripartito in cui, haydnianamente, il primo tema gioca un ruolo prevalente
ed il secondo è episodico. Lo sviluppo è tutto basato sul primo tema, con continui
ammiccamenti allo stile imitato barocco; lunghissima la coda, con un grande pedale doppio
del violoncello (il "pedale" è un artificio tipico della fuga). Il contrappunto ed il ricorso a
formule contrappuntistiche di scuola avviene nel finale non senza una certa rigidezza, che
lascia intravvedere un'intenzione ancora parzialmente ironica. Il colore tonale, spesso
cangiante e imprevedibile (si vedano l'inizio dello sviluppo e l'inizio della coda) è però tale da
illuminare in modo inatteso i vetusti armamentari di quello stile che più tardi si sarebbe
Chiamato in Germania "da berretto da notte", e la stessa costruzione del primo tema, con gli
interventi in contrattempo del violoncello sulle scalette del pianoforte, colora in modo
irresistibilmente umoristico l'ironia. Un po' di ironia c'è ancora, in verità, un po' di quelle
intenzioni, scherzose verso il buon tempo antico che nel Minuetto del Quartetto op. 59 n. 3 si
notavano ad abundantiam; nella successiva Sonata Beethoven dimostrerà che il buon tempo
antico lo affascina nel profondo.
Piero Rattalino
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
Otto anni separano l'op. 69 dalle due Sonate op. 102, gli ultimi contributi beethoveniani alla
letteratura violoncellistica. Nessun dubbio che destinatario dei due lavori fosse Joseph Lincke,
il violoncellista che, in quanto membro del Quartetto Razumovskij prima e del Quartetto
Schuppanzigh poi, contribuì in modo determinante alla esecuzione e diffusione di larga parte
della produzione quartettistica del maestro. Lincke prestava servizio presso la contessa Anna
Marie Erdödy - confidente del compositore e dedicataria non a caso dell'op. 102 - presso la cui
residenza estiva di Jedlersee Beethoven si recò verosimilmente a far visita a più riprese
nell'estate 1815. Nacquero così le due Sonate (la prima al termine di luglio, la seconda
all'inizio di agosto), in un clima di scherzosa amicizia testimoniato dai motteggi epistolari del
compositore. E tuttavia non opere "leggere" ma di estrema densità concettuale sono quelle
dell'op. 102.
La destinazione a Lincke deve aver stimolato Beethoven, più che sotto il profilo delle
innovazioni di tecnica strumentale, sotto il profilo della complessità compositiva. Le due
Sonate op. 102, infatti, contengono una serie di caratteristiche "sperimentali" - la nudità delle
linee melodiche, l'interesse per il contrappunto, il recitativo strumentale, i trilli coloristici e
non ornamentali - che sono ancora sostanzialmente assenti dalla precedente produzione di
Beethoven, e si ripresenteranno invece con costanza negli ultimi anni; in definitiva - con
qualche schematismo - si può dire che le due ultime Sonate per violoncello inaugurino il
cosiddetto «terzo periodo» beethoveniano.
La prima Sonata si articola in due soli movimenti, con due tempi veloci preceduti ciascuno da
una introduzione lenta. Nuove prospettive sono già quelle dell'Andante che funge da
introduzione al primo tempo, con un intreccio polifonico denso, nitido e purissimo; nettamente
contrastante appare il seguente Allegro vivace in forma sonata, dove l'aggressività fonica dei
ritmi puntati e la serrata dialettica strumentale si sommano a una improvvisa mutevolezza di
atteggiamenti, quale si ritrova frequentemente nell'ultimo Beethoven. Il secondo tempo si apre
con un breve Adagio, un recitativo strumentale che sfocia, con un'arditezza "ciclica", nel
ritorno di frammenti melodici dell'introduzione al primo tempo. Segue, senza soluzione di
continuità, un altro Allegro vivace in forma sonata di carattere però brillante e giocoso. Il
breve tema iniziale diviene protagonista di inseguimenti e trasformazioni nella sezione dello
sviluppo e nella mastodontica coda che chiude la composizione.
Arrigo Quattrocchi
Composte fra il luglio e l'agosto del 1815, le due Sonate op. 102, ultimo capitolo del rapporto
di Beethoven con l'incontro di violoncello e pianoforte, vennero pubblicate a Bonn dall'editore
Simrock nel '17, e recano la dedica alla contessa Anna-Marie von Erdödy, amica e confidente
di lunga data (e per qualche tempo, pare, anche qualcosa di più) di Beethoven. Appunto nella
villa della Erdödy a Jedlesee, subito fuori Vienna, era ospite in quei mesi Joseph Linke,
violoncellista di grandi qualità e senz'altro di rara intelligenza, per essere membro del celebre
quartetto capeggiato dal violinista Ignaz Schuppanzigh che primo si cimentò con l'enigmatica
e rivoluzionaria avventura degli ultimi Quartetti beethoveniani: e proprio per Linke queste
Sonate furono scritte. Data di composizione, numero d'opus, circostanze esterne di un
sodalizio umano e artistico: tutto annuncia già sulla carta queste due Sonate come prodotto del
tardo stile, o quanto meno della sua immediata vigilia. Infatti gli anni 1814-16 segnano per
Beethoven una relativa stasi creativa: conclusa nel maggio del '14, con l'ultima revisione del
Fidelio, l'esperienza che oggi identifichiamo con la sua «seconda maniera», il maestro resta
quasi del tutto inoperoso; la sua stessa celebrità, dopo l'effimera impennata dei giorni del
Congresso di Vienna (che sul piano compositivo peraltro aveva dato soltanto frutti di
second'ordine), sembra attenuarsi; il musicista tende a rinchiudersi in se stesso - è un momento
poco felice anche dal punto di vista dell'esistenza privata - quasi la vena onde è scaturita negli
anni precedenti una cosi splendida e copiosa produzione si sia inaridita. In realtà il vulcano
non è spento, e il risveglio avverrà con un'eruzione di non lieve entità, ancora una volta sotto il
segno del pianoforte: la Sonata op. 101, subito seguita dalla ciclopica Hammerklavier,
inaugurerà nel 1816 la stagione più alta e ardua dell'arte di Beethoven, quella delle più difficili
e trascendenti avventure della forma: resa tanto più solida quanto più eterodossa rispetto agli
schemi accettati, nutrita di un'espressione sublimata fino a raggiungere l'assoluta astrazione
dalla contingenza del sentimento, appoggiandosi all'estremizzato radicalismo
contrappuntistico di un nuovo concetto della variazione e dell'elaborazione tematica.
Solo frutto rilevante di questi anni di stasi sono appunto le due Sonate dell'op. 102: senza
dubbio le più importanti delle cinque per violoncello e pianoforte, e probabilmente da contare
fra le più alte di tutta la letteratura per questa formazione. E proprio il loro eccezionale valore
artistico, accanto a considerazioni di carattere tecnico e stilistico, autorizza a scorgere in esse,
più che non la preparazione dell'avvento del tardo stile beethoveniano, il suo vero e proprio
atto di nascita; con tutto che in qualche misura qui si resti ancora indietro rispetto ai cataclismi
formali ed espressivi delle Sonate per pianoforte subito successive o alle avveniristiche
proiezioni dei Quartetti del 1825-26. Queste stesse considerazioni qualitative e storiche
comunque sembrano ancora una volta suggerire, analogamente a quanto si era verificato per le
Sonate op. 5, che l'ordine della loro composizione sia lo stesso in cui esse sono accostate
nell'edizione a stampa. E che cioè la Sonata n. 1 in do maggiore sia nata per prima, toccando
all'altra, quella in re maggiore, di spingersi più innanzi sotto questo profilo evoluzionistico, e
di raggiungere risultati addirittura maggiori; un po' come sarebbe avvenuto qualche decennio
dopo con tante esperienze compositive di Johannes Brahms, pertinace creatore di opere 'a
coppie'. A ogni buon conto, la Sonata n. 1 in do maggiore si presenta già come un'opera
lontanissima non solo dai giovanili esordi dell'op. 5, ma dallo stesso splendido meriggio
dell'op. 69. Ancora una volta articolata in due soli movimenti, due tempi veloci preceduti da
introduzioni lente, dimostra con questo schema, anomalo rispetto alla tradizione sonatistica
classica, non più la scelta di una «forma minore», come nell'op. 5, o un intento blandamente
sovversivo come nell'op. 69 (in soli tre tempi), bensì la conquista di una superiore concezione
costruttiva, tipica appunto di quasi tutte le opere dell'ultimo periodo di Beethoven. L'avvio,
con l'astratta purezza dell'Andante introduttivo, è già affermazione assoluta di valori altissimi:
lo stesso rapporto fra i due strumenti, risolti da tempo i problemi di un equilibrio cameristico
inteso in termini tradizionali, ha i caratteri di una superiore necessità estetica, che governa
senza concessioni o compromessi lo stesso orizzonte timbrico, proiettato in dimensioni di
straordinaria potenza fantastica. Cosi l'angoloso e contrastato contrappuntismo del Vivace, con
la stilizzazione estrema dei ritmi e lo scavo puntiglioso della ricerca armonica, tocca punte fra
le massime di tutta la creatività beethoveniana. Altrettanto per la preparazione del Finale,
mediante una ripresa in tempo Adagio, variata fino a farsi trasfigurazione, del primo Andante;
che trapassa nell'Allegro vivace vero e proprio per successivi mutamenti di tempo e graduali
proposte tematiche, rivelando a pieno la profonda unitarietà motivica di questa concisa e
intensissima costruzione. E per il Finale stesso, che profitta di un tema dal profilo nervoso e
incisivo per sgranare intrecci contrappuntistici di straordinario dinamismo.
Daniele Spini
https://www.youtube.com/watch?v=wfs9WXfJWM4
https://www.youtube.com/watch?v=tLToKyLnPk4
Guida all'ascolto 1
Chi legge la Sonata op. 102 n. 2 resta subito colpito da un particolare, che gli sembra
francamente bizzarro: nella prima Sonata dell'op. 102 si trovano indicazioni di metronomo,
nella seconda mancano del tutto. Il metronomo, meccanismo a molla che fa muovere
un'asticciola tarata su numeri variati di oscillazioni al minuto primo, e che fu inventato nel
1813 da Dietrich Nikolaus Winkel e modificato definitivamente nel 1816 da Johann Nepomuk
Maelzel, destò in Beethoven un vivo interesse. Beethoven si... compromise anche con
dichiarazioni pubbliche a favore del metronomo e mise indicazioni metronomiche su alcune
sue composizioni. Poi, dopo pochi esperimenti, lo abbandonò. Si possono fare, e furono fatte
varie ipotesi sui motivi che portarono Beethoven a raffreddare i suoi iniziali entusiasmi nei
confronti del metronomo. Non è qui il luogo per parlarne; ma è comunque singolare che in due
Sonate, pubblicate insieme, Beethoven non decidesse in modo uniforme per quanto riguardava
il metronomo.
Il primo tempo della Sonata in re maggiore entra subito in medias res - è un caso unico, nelle
Sonate con violoncello - con un nucleo tematico franco, deciso e protervo esposto dal
pianoforte, a cui il violoncello risponde con un altro nucleo molto contrastante nel carattere
espressivo; e un terzo nucleo, breve, icastico, cavalieresco, conclude l'esposizione del primo
tema. Beethoven, avendo presentato un tema formato da ben tre nuclei, non usa un tema di
collegamento ma per il "ponte", del resto brevissimo, si serve di elementi del primo tema. Il
secondo tema, breve ed univoco nell'espressione, è seguito da un altrettanto breve tema di
conclusione. In cinquantatré battute Beethoven ha dunque presentato un materiale molto ricco
e vario ma molto concentrato formalmente, con un completo capovolgimento di poetica
rispetto alle composizioni del decennio precedente, in cui l'economia del materiale
s'accompagna alla vastità delle concezioni architettoniche. Lo sviluppo, che si conclude con
una "falsa riesposizione" alla Haydn (il primo nucleo del primo tema viene riesposto alla
sottodominante prima di ricomparire alla tonica), è di sole trentacinque battute, e la
riesposizione di quaranta. Secondo un procedimento a lui molto caro, Beethoven "compensa"
l'abbreviazione della riesposizione con una coda di diciannove battute, che inizia con una
citazione del secondo tema ma che è in gran parte a-tematica, con misteriosi accordi isolati su
un persistente tremolo nel registro basso del pianoforte.
Il secondo tempo, che è collegato con il finale, è una canzone in tre parti: introduzione a modo
di corale popolaresco, primo tema e variazione del primo tema, secondo tema (in re maggiore)
e variazione del secondo tema, ripresa variata del primo tema, coda. Al principio dello
sviluppo viene dunque affiancato il principio della variazione; e nel finale, Allegro fugato
preceduto da quattro battute di Allegro che annunciano il soggetto della fuga, viene affiancato
il principio della polifonia contrappuntistica. Un principio connaturato alla nascita stessa della
musica strumentale (la variazione), un principio classico (lo sviluppo), un principio barocco (il
contrappunto) vengono dunque impiegati pariteticamente in questa Sonata, che apre, come
abbiamo detto, la grande sintesi storica dell'ultimo Beethoven.
Sieghard Brandenburg ha studiato le reazioni che il "nuovo stile" di Beethoven provocò presso
i contemporanei: «Specialmente chi scrive - diceva l'11 aprile 1824 un recensore della
Allgemeine Musikalische Zeitung - dà molta importanza ai giudizi su Beethoven, e perciò si
mette al lavoro con il massimo sospetto verso il proprio discernimento artistico, e anzi si
preoccupa di non essere parziale trovando tutto bello: ebbene, noi non siamo riusciti a gustare
le due Sonate op. 102».
Trentacinque anni più tardi il Marx ritornò sulla Sonata, in modo più riflessivo ma rilevando
anche con maggior chiarezza quella che a suo parere restava una contraddizione di fondo:
l'adagio «desta il ricordo di certi canti di devozione, ai quali, nei momenti tristi della vita,
abbiamo abbandonato il nostro animo ansioso che aveva bisogno di consolazione», ma il
finale, dopo una «lotta instancabile», giunge ad una «meta» che non è di «quiete» né di
«pace». Conclude il Marx: «L'intenzione della persona che scrisse ciò non era di raggiungere
la calma e la pace». Il Marx continuava dunque a non essere convinto della scelta poetica di
Beethoven perché nella Sonata non vedeva la risoluzione della lotta: in altre parole, in questa
Sonata vedeva negato il principio della "sonata drammatica" come contrasto e catarsi.
Solo con Wilhelm von Lenz, nel 1860, cadevano tutte le riserve: «Nessun duo si era mai spinto
così oltre nel comunicare un'idea musicale senza tener conto di finalità estranee. Qui la forma
si innalza al di sopra di se stessa, non si parla di arena per duettisti, ma di azione comune di
due esecutori per il trionfo del contenuto poetico».
Il termine "arena per duettisti" veniva probabilmente usato dal Lenz in relazione con i duo su
temi di melodrammi, molto frequenti durante il romanticismo e non di rado dovuti addirittura
alla collaborazione di due compositori: basti ricordare il Duo su temi del "Roberto il Diavolo"
di Meyerbeer di Fryderyk Chopin e Auguste Franchomme. Il Lenz vedeva dunque nell'op. 102
di Beethoven il modello, il culmine della classicità nel campo della musica da camera. E i
tempi erano maturi perché a quel modello ci si riallacciasse: come avvenne con Brahms, che
nel 1866 pubblicò la Sonata op. 38 per violoncello e pianoforte.
Piero Rattalino
La quinta ed ultima, e forse la più profonda e più bella, delle Sonate di Beethoven per
pianoforte e violoncello - in re maggiore, op. 102 n. 2 - richiede innanzi tutto un breve
discorso su questo intero capitolo della cameristica beethoveniana. La produzione di
Beethoven per questa formazione di duo strumentale, infatti, non molto densa di prodotti, è
però molto densa di valori e di importanza: non solo nell'arco biografico-stilistico
beethoveniano, ma nella storia stessa della musica da camera.
Trattenuto fino ad allora nel ruolo tradizionale di «basso», di sostegno accompagnante di ogni
formazione strumentale cameristica, il violoncello comincia proprio qui, con Beethoven, ad
assumere il ruolo di strumento «concertante», alla pari con l'altro, o con gli altri (si veda
anche, in tal senso, l'evoluzione del trattamento strumentale nei Trii per archi). Strumento
dialogante in un vero e proprio «Duo», nelle Sonate. Le quali però, nella destinazione esplicita
del titolo, si chiamano Sonate per pianoforte e violoncello, e non viceversa. Così come si
intitolano Sonate per pianoforte e violino, e non viceversa, le dieci dell'altra formazione di
duo. Donde sarebbe curioso osservare come Beethoven - ma non lui solo - in omaggio e in
rispetto di funzioni dialoganti e concertanti fra i due agonisti del complesso, da un lato in certo
modo ridimensionò (non si può dire declassò) le tradizionali funzioni protagonistico-
melodiche e brillanti del violino; dall'altro innalzò ed esaltò quelle del violoncello fino ad
allora mantenute a livelli dimessi e non certo protagonistici.
Anzi: Sonate con violoncello obbligato era il titolo beethoveniano delle prime due della sua
serie, l'op. 5, composte nel 1795-96 e pubblicate a Vienna nel 1797.
Nell'evoluzione, e relativa storia, dello stile e del linguaggio beethoveniano, le due Sonate op.
5 sono ascrivibili alla cosiddetta prima maniera; mentre, nella concezione «duistica», il
violoncello è provocato ancora un po' forzatamente ad esulare da quei suoi ruoli secondari, di
cui si diceva sopra, per stare alla pari o quasi con la ben più familiare e disinvolta trattazione
beethoveniana del discorso nel pianoforte. Quindi, una sorta di esercitazione discorsiva, ma
anche virtuosistica, molto abile e raffinata è condotta nei tre gruppi di Variazioni (1796-1801):
le dodici su un'Aria dal Giuda Maccabeo di Händel; le altre dodici, op. 66, su Ein Mädchen
oder Weibchen dal Flauto magico di Mozart; e le sette su Bei Männern, pure dal Flauto
magico. Dopo sette anni, la terza Sonata: in la maggiore, op. 69 (1808). Nel taglio
quadripartito, nella elaborazione della dialettica strumentale, la Sonata op. 69, oltre ad
assurgere in sé alla statura dei «capolavori» beethoveniani, si inscrive nei sensi stilistici di quel
periodo che emerge nei tre Quartetti op. 59, nel Quarto Concerto op. 58 per pianoforte e
orchestra, nel Concerto op. 61 per violino e orchestra, nella Quinta e nella Sesta Sinfonia (op.
67 e op. 68), nei due Trii op. 70 per pianoforte, violino e violoncello.
Di qui alle ultime due Sonate per pianoforte e cello, l'op. 102, intercorrono altri sette anni; e si
giunge alla sublimità dell'epoca beethoveniana, e del prodotto: dalle ultime Sonate pianistiche,
verso gli ultimi Quartetti per archi.
Composte entrambe nell'agosto del 1815, le due Sonate op. 102 sono dedicate, in copertina,
alla contessa Marie von Erdödy, «cara amica» di Beethoven (ma amicizia, e confidenza, dalle
alterne vicende: ora però, nel 1815, in periodo di rinsaldamento). In realtà esse furono
composte, come si dice, «all'intenzione» di un interprete: il violoncellista Joseph Linke (o
Lincke, come egli stesso amò firmarsi), allora ospite della contessa Erdödy; componente il
Quartetto Schuppanzigh già fondato dal principe Rasumowski, interprete ufficiale dei lavori
beethoveniani. Tra i capolavori indiscussi dell'ultimo stile beethoveniano, l'op. 102 supera ogni
strettoia formale della tradizione; approfondisce e sottilizza il discorso strumentale, anche
nell'equilibrio timbrico fra i due strumenti, mediante polifonie di rara elaborazione e risultati
armonici inediti o, per allora, rivoluzionari, o incompresi; affianca al rigore contrappuntistico e
tecnico le più alte evasioni verso una trascendenza espressiva.
L'op. 102 n. 2 è l'ultima, forse la massima, delle cinque Sonate per violoncello e pianoforte di
Beethoven. La massima, e da qualcuno, ieri come oggi, la più fraintesa: nel senso che su
questo capolavoro pesarono a suo tempo le incomprensioni dei più limitati fra i contemporanei
di Beethoven, e magari perfino di qualcuno dei suoi sodali. Né manca tuttora chi si prende la
briga di avanzare qualche riserva su quello che è viceversa proprio il momento più importante
della Sonata, il Finale; dimostrando cosi, per l'ennesima volta, come le cose più grandi siano
quelle meno adatte a tutti i palati o a tutti i cervelli. Con quest'opera siamo vicinissimi
all'estetica e ai modi del tardo stile bethoveniano: più d'un argomento, anzi, autorizza a
considerarla a tutti gli effetti come a esso appartenente a pieno diritto, e con straordinario
rilievo. L'apparenza esterna sembrerebbe dimostrare il contrario: a differenza di quanto
avviene quasi sempre nelle ultime opere di Beethoven, essa recupera un'articolazione
costruttiva più tradizionale. Infatti la Sonata si mostra suddivisa in tre movimenti, secondo lo
schema antico della composizione sonatistica 'minore', nella successione Allegro -Adagio -
Allegro (il fatto che il terzo tempo attacchi quasi senza interruzione dopo il secondo non toglie
che questo, il bellissimo Adagio con molto sentimento d'affetto, sia un movimento di piena
autonomia, e non più, un'introduzione, sia pure di grande importanza, al Finale). Ma seguendo
lo svolgimento della Sonata ci si accorge con facilità che le cose stanno in modo assai diverso:
il che avviene quasi attraverso una serie di sorprese successive, che costituiscono un titolo di
merito non secondario di questa eccezionale creazione.
A revocare in dubbio il ritorno a schemi costruttivi d'altri tempi basta l'ascolto del primo
movimento, sintetico, fin laconico nella sua rapida corsa. E condotto, è vero, secondo la
forma-sonata classica; ma, si direbbe, in fretta; non lasciando quasi percepire le differenze fra
le singole parti (esposizione, sviluppo e ripresa); sicché l'impressione che se ne riceve è che si
tratti in realtà di una sorta d'introduzione, di geniale e icastica bizzarria. Qualcosa, dunque, di
molto lontano dalla concezione della Sonata centrata sul primo movimento tipica degli anni
migliori di questa forma gloriosa. Cosi indotto a ricredersi, l'ascoltatore si appresta a seguire
l'Adagio con molto sentimento d'affetto attendendo di trovare qui il fulcro espressivo
dell'opera: e di fatto la bellezza straordinaria di questo movimento, giuocando sull'alternanza
fra una cantabilità di incredibile pregnanza psicologica e la misteriosa solennità di moti
accordali, quasi di corale, basterebbe da sé a costituire il clima emotivo di qualsiasi grande
composizione: per cui vien fatto di ipotizzare un ritorno a quella 'psicologia dell'Adagio'
presente nel Beethoven a cavallo fra prima e seconda maniera. Ma la tensione, tanto più
insostenibile quanto più sottilmente ottenuta attraverso una eccezionale economia di mezzi,
sulla quale si conclude l'Adagio, obbliga ancora una volta a mutar parere: è chiaro che il terzo
tempo ci riserba qualcosa di ben più importante che non un brillante recupero di serenità dopo
l'esplorazione di zone profonde della coscienza. Ecco dunque avviarsi poche battute in tempo
Allegro, che ricordano l'abile e scherzosa drammaturgia di un'opera ormai lontana, la Prima
sinfonia, il cui Finale prende l'avvio in modo analogo: e appunto con movenze quasi liete ed
eleganti avviene lo stacco del terzo movimento. Rapidamente, però, il discorso musicale si
complica, si piega in linee aspre e difficili, si ramifica in un tessuto contrappuntistico
frastagliato e ricco di contrasti, generando una Fuga in tutto degna delle ardue architetture
delle ultime Sonate per pianoforte: la Sonata in re maggiore svela finalmente il suo vero volto,
di opera costruita secondo un vero e proprio crescendo emotivo e formale, in una linea
ascensionale sempre più erta e disseminata di ostacoli, che trova sofferto coronamento appunto
nell'ultimo, e più alto, pilastro cui si appoggia.
Con questo Finale siamo probabilmente in presenza del primo esempio, in Beethoven e in tutta
la musica della civiltà germanica, di una composizione sonatistica coronata da un impegno
contrappuntistico totale: che supera di gran lunga, in fatto di intensità, casi come quello, in
altra maniera altrettanto e ancor più sublime, del Finale della Jupiter mozartiana. Modello ad
altre - e magari ancor più spericolate - concezioni beethoveniane, tentazione irresistibile più
tardi, per un Brahms (che infatti cercò in qualche modo di imitarlo nel Finale della Sonata per
violoncello e pianoforte op. 38), questo Allegro fugato lasciò interdetto più d'uno. A farsi
portavoce davanti alla storia di simili perplessità toccò ad Anton Schindler, il petulante e
ottuso famulus volontario e mal tollerato di Beethoven. Uno di quei «Quaderni di
conversazione» che costituivano per il compositore completamente sordo l'unico mezzo di
comunicazione con il mondo esterno, ci tramanda di mano di Schindler una confessione
addirittura esilarante: «Anch'io non riesco a comprendere il Fugato, nonostante lo abbia
suonato molte volte... Maestro, non prenda per questo un'aria cosi irritata: saprò correggere
questa mancanza giorno dopo giorno, giacché giorno dopo giorno divengo più anziano, e forse
più intelligente...».
Daniele Spini
Op. 64 1807
Sonata per violoncello e pianoforte in sol maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=R8NXmRfKV2Q
https://www.youtube.com/watch?v=kJXXS9ZawgA
Intorno al 1796, durante un soggiorno a Praga, Ludwig van Beethoven scrisse un gruppo di
composizioni per mandolino e clavicembalo, alcune delle quali sono dedicate alla contessa
Josephine von Clary-Aldringen, una giovane e avvenente aristocratica che si dilettava dello
strumento (il Piccolo concerto di Pietro Longhi, oggi all'Accademia di Brera, sembra ritrarre
questo ambiente sociale e queste usanze raffigurando un gruppo di nobili, uno dei quali suona
il mandolino, impegnati a far musica d'insieme). In questi brani - che essendo destinati all'uso
"privato" non vennero dati alle stampe - Beethoven si attenne ai dettami del genere, scrivendo
musica gradevole, di un certo impegno tecnico (i due strumenti hanno un ruolo paritario),
prediligendo forme poco problematiche come quelle del tema con variazioni o del rondò.
La Sonatina in do minore WoO 43/1 - scritta probabilmente per l'amico Wenzel Krumpholz,
violinista e mandolinista boemo - è un Adagio in semplice forma ternaria, nel quale sia la
prima sia la seconda parte si configurano come temi simmetricamente divisi in due parti
ritornellate. Il mandolino, che qui è protagonista assoluto, ha modo di abbandonarsi a un'aperta
cantabilità.
Claudio Toscani
https://www.youtube.com/watch?v=OlQi0dvTlA8
https://www.youtube.com/watch?v=B-5rcuPywfw
Intorno al 1796, durante un soggiorno a Praga, Ludwig van Beethoven scrisse un gruppo di
composizioni per mandolino e clavicembalo, alcune delle quali sono dedicate alla contessa
Josephine von Clary-Aldringen, una giovane e avvenente aristocratica che si dilettava dello
strumento (il Piccolo concerto di Pietro Longhi, oggi all'Accademia di Brera, sembra ritrarre
questo ambiente sociale e queste usanze raffigurando un gruppo di nobili, uno dei quali suona
il mandolino, impegnati a far musica d'insieme). In questi brani - che essendo destinati all'uso
"privato" non vennero dati alle stampe - Beethoven si attenne ai dettami del genere, scrivendo
musica gradevole, di un certo impegno tecnico (i due strumenti hanno un ruolo paritario),
prediligendo forme poco problematiche come quelle del tema con variazioni o del rondò.
Un ampio respiro formale mostra l'Adagio ma non troppo in mi bemolle maggiore WoO 43/2,
che segue lo schema di una forma sonata. Non è difficile, qui, intuire certi futuri, poderosi
sviluppi dell'arte beethoveniana: ad esempio nella grande sezione centrale dello sviluppo, con
il suo andamento armonicamente ondivago, le ardite modulazioni, la varietà degli
atteggiamenti espressivi; oppure nell'inserzione di un ulteriore episodio elaborativo dopo che è
iniziata la ripresa, quasi a voler prolungare ancora lo scavo condotto sull'elementare materiale
tematico. Procedimenti, questi, che il Beethoven maturo spingerà ai limiti estremi, ma che
vengono sperimentati, seppure in maniera embrionale, già a quest'altezza
Claudio Toscani
https://www.youtube.com/watch?v=X0qetFaKdjU
https://www.youtube.com/watch?v=5tn8qS04D9c
Intorno al 1796, durante un soggiorno a Praga, Ludwig van Beethoven scrisse un gruppo di
composizioni per mandolino e clavicembalo, alcune delle quali sono dedicate alla contessa
Josephine von Clary-Aldringen, una giovane e avvenente aristocratica che si dilettava dello
strumento (il Piccolo concerto di Pietro Longhi, oggi all'Accademia di Brera, sembra ritrarre
questo ambiente sociale e queste usanze raffigurando un gruppo di nobili, uno dei quali suona
il mandolino, impegnati a far musica d'insieme). In questi brani - che essendo destinati all'uso
"privato" non vennero dati alle stampe - Beethoven si attenne ai dettami del genere, scrivendo
musica gradevole, di un certo impegno tecnico (i due strumenti hanno un ruolo paritario),
prediligendo forme poco problematiche come quelle del tema con variazioni o del rondò.
Claudio Toscani
https://www.youtube.com/watch?v=BMYoZTCiks8
https://www.youtube.com/watch?v=16xmikvL-oU
Intorno al 1796, durante un soggiorno a Praga, Ludwig van Beethoven scrisse un gruppo di
composizioni per mandolino e clavicembalo, alcune delle quali sono dedicate alla contessa
Josephine von Clary-Aldringen, una giovane e avvenente aristocratica che si dilettava dello
strumento (il Piccolo concerto di Pietro Longhi, oggi all'Accademia di Brera, sembra ritrarre
questo ambiente sociale e queste usanze raffigurando un gruppo di nobili, uno dei quali suona
il mandolino, impegnati a far musica d'insieme). In questi brani - che essendo destinati all'uso
"privato" non vennero dati alle stampe - Beethoven si attenne ai dettami del genere, scrivendo
musica gradevole, di un certo impegno tecnico (i due strumenti hanno un ruolo paritario),
prediligendo forme poco problematiche come quelle del tema con variazioni o del rondò.
L'Andante in re maggiore WoO 44/2 è costituito da una serie di variazioni ornamentali su un
tema semplice e simmetrico, che presenta la struttura e le caratteristiche di un classico tema
popolare (si tratta, forse, di una melodia che tutti all'epoca conoscevano). Le successive
variazioni, poste in ordine di difficoltà crescente, vedono i due protagonisti alternarsi nei ruoli:
nella prima è il mandolino a condurre il discorso, mentre nella seconda è il fortepiano che
intesse un'elaborata variazione, punteggiata solo da qualche sporadico arpeggio del compagno
di gioco. Nella terza variazione, caratterizzata da una scrittura riccamente concertante, i due
strumenti assumono ruoli perfettamente paritetici; la quarta sfrutta figure idiomatiche
affidando al mandolino una fitta rete di arpeggi, che avvolge il tema suonato dalla mano destra
del fortepiano. Suggestiva l'atmosfera da "chiaro di luna" creata dalla quinta variazione, nella
quale il modo minore e gli arpeggi pacatamente distesi del fortepiano comportano un forte
stacco espressivo. Nel complesso, la composizione beethoveniana presenta una forma ben
articolata, dall'ampio arco espressivo, che va oltre le semplici pretese del genere brillante e
"mondano" del tema con variazioni.
Claudio Toscani
https://youtu.be/KFUduatnxiU
https://www.youtube.com/watch?v=RGi8_YJN-jw
https://www.youtube.com/watch?v=Zy7hJ8UL0Vs
Allegro moderato
Scherzo. Allegro ma non troppo
Rondo. Allegretto
https://www.youtube.com/watch?v=g_LlKrHBMhE
https://www.youtube.com/watch?v=6nubAzys5wA
Allegro
Adagio cantabile (la bemolle maggiore)
Scherzo. Allegro assai (do minore)
Finale. Presto
II catalogo beethoveniano si apre proprio con i tre Trii op. 1, pubblicati nel 1795; non si
trattava probabilmente della sua prima opera in senso cronologico, ma certo era un biglietto da
visita che il giovane musicista volle probabilmente revisionare a lungo prima di esporsi per la
prima volta pubblicamente come compositore. La presenza dei quattro movimenti, l'uso dello
Scherzo come terzo movimento e l'indipendenza del violoncello sono già importanti elementi
innovativi, che si coniugano tuttavìa con un linguaggio e uno utile legati ancora alla musica di
fine XVIII secolo, come può risultare evidente da un confronto con i capolavori dell'età più
matura (op. 70 e 97). Il «sapore mozartiano» delle sonorità, dei profili melodici, delle scelte
armoniche, così come l'ampiezza e la ridondanza dei prolungamenti cadenzali e delle code,
rivelano un Beethoven perfetto interprete della tradizione in cui è cresciuto, ma non ancora
pienamente segnato daila straordinària unicità del suo genio.
Il primo tema dell'Allegro si basa su un raffinato gioco di contrasti: alle prime quattro battute
di arpeggi staccati, Beethoven risponde con una frase legata e cantabile. Nella successiva
evoluzione del tema, la medesima «disputa» tra staccati e legati si fa più stretta, risolvendosi a
favore della cantabilità. Un breve episooio di transizione porta quindi al secondo gruppo
tematico, costituito da una pacata successione accordale e da una seconda idea, che si scioglie
in un incedere più scorrevole. Da un pedale di dominante a ottave ribattute parte infine
un'ampia coda dell'Esposizione, attraversata da scale ascendenti a terzine staccate. Lo
Sviluppo si apre con echi del primo tema, dai quali prende il via una elaborazione dello stesso
primo tema, seguita da una rivisitazione della coda dell'Esposizione. La Ripresa segue lo
schema tradizionale, con la riproposizione del primo tema e dell'episodio di transizione,
ridotto e modificato per trasportare il secondo gruppo tematico nella tonalità d'impianto. Al
termine della coda dell'Esposizione vi è una ripresa variata della prima parte del secondo tema,
che lascia quindi spazio a un'ulteriore ampia coda conclusiva.
Nell'Adagio cantabile il tema principale, è un pacato e raccolto motivo esposto dal pianoforte
che si conclude con una frammentata successione accordale. Il tema viene quindi ripreso dal
violino, per poi lasciare spazio a un secóndo episodio, dai toni lievemente più espansivi e
affettuosi, che viene cantato in alternanza da violoncello e violino. Dopo un ritornello variato
del tema principale vi è un deciso cambiamento di atmosfera, con una frase melodica triste e
appassionata che i tre strumenti riportano in tre differenti tonalità, fino a che un'improvvisa
modulazione a una tonalità maggiore rasserena l'umore melanconico con cui era iniziato
l'episodio. L'ultimo ritornello del tema è infine seguito da una delicata fantasia, nella quale
reminiscenze del tema si mescolano liberamente a nuovi frammenti tematici, portandosi
gradualmente alla cadenza conclusiva.
II tema del terzo movimento (Scherzo. Allegro assai) è tutto costruito intorno a un brillante
inciso di tre note con un'acciaccatura. Dopo l'esposizione della prima parte, lo Scherzo
prosegue con reiterazioni dell'inciso iniziale, che portano a una cadenza da cui potrebbe
ripartire il tema. Quando questa sezione cadenzale sembra conclusa, viene ulteriormente
prolungata da Beethoven con l'inserimento di rapide «sciabolate» del violino ripetute in
progressione. Una momentanea ripresa della prima parte dello Scherzo viene inframmezzata
inaspettatamente da uno sferzante pedale di quinta, che sembra evocare danze popolaresche di
campagna, subito seguito da una brillante coda cadenzale. La sezione centrale di Trio presenta
una prima parte con lunghe note tenute degli archi, su cui si sgranano delicati arpeggi del
pianoforte, e una seconda parte che ripropone il medesimo tessuto musicale della sezione
iniziale. Dopo la ripresa da capo dello Scherzo, una breve coda conclusiva chiude il
movimento.
Il Finale si apre con un divertito botta e risposta tra i salti singhiozzanti de! pianoforte e la
replica galoppante del violino. È questo il primo gruppo tematico, al quale, dopo una sezione
modulante che porta alla tonalità di dominante, succede un secondo tema, costituito da una
frase a saltellanti note staccate che ruota tra i tre strumenti. Dopo un breve stacco contrastante
dall'armonia cromatica che interrompe momentaneamente il fluire del discorso musicale,
l'andatura ritorna a essere rapida e incalzante in occasione della coda di fine Esposizione.
Nello Sviluppo viene riproposto il primo tema in modo minore, seguito da una frenetica corsa
a semicrome di violino e pianoforte che si rifà alla parte conclusiva dell'Esposizione.
Raggiunto il culmine dell'intensità espressiva, Beethoven stempera la tensione con un episodio
più pacato, nel quale note lunghe degli archi si sovrappongono a fluidi arpeggi legati del
pianoforte. Si giunge così alla Ripresa, con il secondo tema trasportato nella tonalità di
impianto, completata la quale Beethoven sembra voler «giocare» con i due temi, facendo
riecheggiare l'incipit del primo in un breve episodio interlocutorio, per poi trasportare
inaspettatamente il secondo in una tonalità molto lontana. Una breve modulazione riporta
quindi il secondo tema nella tonalità d'impianto, quasi a voler correggere in corsa una
momentanea distrazione, mentre la coda dell'Esposizione si dilata in un più ampio episodio
conclusivo, a completamento dell'intero Trio.
Beethoven ha composto dodici Trii per pianoforte, violino e violoncello, oltre a quindici
Variazioni in mi bemolle maggiore riservate agli stessi strumenti e a due Trii in un solo
movimento. Tra essi i più conosciuti e più volte eseguiti in concerto sono i due Trii dell'op. 70,
di cui il primo in re maggiore prende il titolo anche di "Trio degli spettri" (Geister-Trio) per
alcune trovate armoniche nel Largo del secondo tempo evocanti un clima spettrale alla
Macbeth, e il Trio op. 97, detto "dell'Arciduca", perché dedicato all'arciduca Rodolfo d'Austria
(1788-1831), figlio minore dell'imperatore Leopoldo II. Anche se segnato con il n. 1 di opus, il
gruppo di tre Trii di cui si esegue stasera il primo non costituisce in senso cronologico il primo
impatto di Beethoven con il pubblico: in precedenza il musicista si era fatto conoscere con le
Variazioni su una marcia di Dressler e con le tre cosiddette Sonate Palatine. Ma è evidente che
con i Trii dell'op. 1 il giovane Beethoven impose all'attenzione del mondo culturale e musicale
viennese la propria personalità creatrice. Non si conosce esattamente l'anno di nascita di
queste composizioni, ma si sa che la prima esecuzione ebbe luogo alla fine del 1793 o nelle
prime settimane del 1794 alla presenza dello stesso Haydn. Ferdinand Ries, allievo e
confidente di Beethoven riferisce esaurientemente su quella serata in casa del principe
Lichnowsky a Vienna, dedicatario di questi lavori e in quel periodo generoso protettore del
musicista. «I tre Trii di Beethoven - scrive Ries - furono presentati per la prima volta al mondo
artistico in una serata dal principe Lichnowsky. Era invitato un gruppo eletto di musicisti e
intenditori, a cominciare da Haydn, il cui giudizio era atteso ansiosamente. I Trii suscitarono
una straordinaria impressione e Haydn disse molte belle cose, ma sconsigliò Beethoven dal
pubblicare il terzo. Ciò stupì molto Beethoven che lo riteneva il migliore: anche oggi piace
moltissimo e fa un grande effetto. Perciò questa uscita di Haydn fece brutta impressione a
Beethoven, lasciandolo con l'idea che Haydn fosse invidioso, geloso e non avesse simpatia per
lui». In realtà Haydn conosceva bene i gusti del pubblico viennese e riteneva che il terzo Trio
in do minore fosse piuttosto ardito per quel tempo e non fosse adeguatamente capito,
specialmente nei due tempi iniziali, l'Allegro incalzante e affannoso e l'Andante cantabile con
variazioni, molto elaborati nel loro discorso musicale. Per interessamento di Lichnowsky e con
l'aiuto finanziario di oltre cento sottoscrittori, quasi tutti appartenenti alla nobiltà viennese, i
tre Trii furono stampati tra il luglio e l'agosto del 1795 dall'editore Artaria, il quale anticipò al
compositore duecentododici fiorini, con l'impegno a realizzare un'incisione chiara e ben
curata, preceduta da un elegante frontespizio.
Ad un attento ascolto del Trio op. 1 n. 1 si può avvertire come Beethoven riesca ad imprimere
una vivace ricchezza di dialogo al circoscritto quadro del trio settecentesco con pianoforte,
così da aprire nuovi orizzonti a questa forma di musica da camera, in preparazione di traguardi
più ambiti per dominare lo stile del quartetto d'archi, ritenuto sin d'allora la base di tutta la
musica strumentale. In questo senso è significativo il modo come si sviluppano i vari
movimenti, a cominciare dall'Allegro iniziale, vivace e brillante, ma anche elaborato nel
passaggio da un tema all'altro e da una modulazione all'altra. Nell'Adagio cantabile si dispiega
quella intensità lirica e quella interiorità espressiva che appartengono già alla sigla stilistica del
grande Beethoven. Lo Scherzo, a volte indicato in qualche partitura come "Menuetto quasi
allegro assai", e il Finale mostrano un compositore già maturo in fatto di invenzione tematica e
di piglio ritmico, pur non distaccandosi del tutto dalla lezione autorevole di Haydn e di
Mozart.
Ennio Melchiorre
https://www.youtube.com/watch?v=vaddjS0EZTM
https://www.youtube.com/watch?v=oCt5Sadbp7s
L'unica data certa riguardante i tre Trii per archi e pianoforte op. 1 di Beethoven è il 1795,
anno della loro pubblicazione da parte dell'editore Artaria; per il resto si presume che il
periodo della loro stesura sia diluito nei tre anni precedenti, ovvero nel periodo in cui il
giovane compositore veniva trapiantato (1792) dalla provinciale cittadina renana di Bonn nella
quale era nato, all'alta società della grande Vienna di fine XVIII secolo. Sostenuto in questo
passo dall'entusiasmo di quella cerchia di ammiratori che aveva intuito le potenzialità del suo
genio, il poco più che ventenne Beethoven poteva farsi conoscere e apprezzare essenzialmente
per le sue doti di grande pianista e soprattutto per il suo talento di improwisatore. Proprio
questa sua qualità suscitava nei salotti della città ammirazione, stupore, spesso sconcerto, e al
tempo stesso una grande aspettativa su ciò che egli avrebbe potuto esprimere come
compositore. Erano gli anni in cui si prendeva coscienza della gravita del vuoto lasciato dalla
recente scomparsa di Mozart (1791), mentre il sessantenne Haydn raccoglieva gli onori di tanti
anni di luminosa carriera, assumendo il ruolo di patriarca della grande musica strumentale
europea.
Il Trio in mi bemolle maggiore op. 1 n. 2 presenta, così come gli altri due, un impianto
innovativo rispetto ai canoni dell'epoca, con i quattro movimenti, lo Scherzo in sostituzione
del Minuetto e soprattutto con una maggiore indipendenza degli archi, sciolti dal rapporto di
sudditanza nei confronti del pianoforte. Dei tre Trii op. 1, il n. 2 è comunque quello che
maggiormente prende spunto da stilemi tipicamente haydniani, come l'introduzione lenta al
primo movimento, l'insolito inizio dello stesso primo movimento, così come l'effervescente
Presto conclusivo; un'influenza dovuta plausibilmente alle saltuarie lezioni che il grande
maestro aveva dispensato, senza eccessiva dedizione, al giovane astro nascente. Già in
quest'opera si intuisce tuttavia come il legame con l'equilibrio formale della grande tradizione
che lo aveva preceduto fosse per Beethoven un involucro nel quale la scalpitante irruenza del
suo genio venisse contenuta a fatica, come per altro diviene evidente nel Trio n. 3 della
medesima raccolta.
Dopo due stacchi iniziali che già contengono una breve anticipazione del tema dell'Allegro
vivace, l'Adagio introduttivo si dipana lentamente sull'intreccio tra il libero fluire della mano
destra del pianoforte e frammentari incisi melodici degli archi; giunto quindi a un punto
espressivo culminante, il discorso musicale prosegue il suo cammino scemando gradualmente
verso la sua conclusione.
Il primo tema dell'Allegro vivace fa il suo ingresso quasi in punta di piedi, iniziando infatti
con un piano sul IV grado, tanto da apparire come un'ulteriore introduzione al tema vero e
proprio; quest'ultimo, infatti, si impone subito dopo nella sua veste compiuta e definitiva, con
il violino che lo ripropone partendo dall'accordo di tonica e con un forte convinto e risoluto. Il
successivo episodio modulante, nel quale sono contenuti vaghi riferimenti a elementi del
primo tema, porta alla tonalità di dominante di un secondo gruppo tematico ammiccante e
spiritoso, composto da un soggetto principale esposto dal violino e da un'idea secondaria
delineata invece dal pianoforte, mentre una coda con citazioni del primo tema porta infine a
compimento l'Esposizione. Lo Sviluppo si apre con un motivo, derivato dall'incipit del primo
tema, che viene messo in progressione tra tonalità minori vicine. Il successivo episodio
rielabora invece un materiale melodico che al nostro orecchio appare come nuovo; gli elementi
tematici dell'Esposizione sono tuttavia presenti, anche se distribuiti in maniera frammentaria
nel tessuto musicale.
Nella Ripresa, tra il primo gruppo tematico e il secondo trasportato nella tonalità principale,
viene inserito un ampio episodio di collegamento quasi totalmente differente dal ponte
modulante originale. Quando poi una perentoria cadenza sembra aver sancito la conclusione,
la trama musicale riparte con un'ulteriore coda, che contiene rielaborazioni di frammenti del
primo tema, con la quale viene completato definitivamente il primo tempo.
Il secondo movimento, Largo con espressione è composto da una prima parte articolata
sull'esposizione di tre differenti temi inframmezzati da elementi di collegamento e da una
seconda parte nella quale i temi vengono riproposti, nello stesso ordine, ma con notevoli
varianti e con la trasposizione di una quarta sopra del secondo e del terzo tema (analogamente
alla Ripresa di una forma-sonata compiuta). Il tema principale (A) è un motivo pacato e
affettuoso che il pianoforte espone in un cullante tempo di 6/8; nella successiva riesposizione
da parte del violino il tema si prolunga verso una tonalità minore, formando così un
collegamento modulante che porta verso la tonalità di dominante. Da qui parte il secondo tema
(B), originato da un delicato intreccio di tutti e tre gli strumenti e poi concluso, analogamente
al primo tema, da un passaggio modulante che conduce al successivo episodio. Il terzo tema
(C) appartiene invece a una tonalità lontana ed è di breve durata; dopo cinque battute, infatti,
ha inizio un terzo spunto modulante, che si presenta però come episodio distinto nettamente
dal tema (C) che lo precede, tanto che vi ritroviamo l'incipit del primo tema (A) reiterato sopra
una sequenza di mesti ribattuti del pianoforte.
Quest'ultimo episodio è l'elemento di congiunzione che porta alla seconda parte del
movimento, ovvero la ripresa dei tre temi. Il primo di questi (A) viene nuovamente esposto in
due versioni, la prima condotta ancora dal pianoforte, ma all'ottava superiore e con l'aggiunta
di piccole varianti e dell'accompagnamento degli archi, la seconda con la melodia al
violoncello punteggiata da scale staccate del pianoforte, che successivamente sembra
dissolversi riducendosi a brevi spunti frammentari degli archi che lasciano spazio al solo
tessuto armonico. Ciò che segue è il secondo tema (B) e il suo conseguente episodio
modulante trasportati nella tonalità principale, il terzo tema (C) trasportato per analogia una
quarta sopra e un nuovo episodio costruito su frammenti del tema principale, a cui si aggiunge
la riproposizione variata dell'ultimo episodio modulante con l'incipit del primo tema sopra i
ribattuti del pianoforte. La conclusione è costituita da una libera fantasia nella tonalità della
principale, nella quale il filo conduttore è costituito da un inciso della seconda parte del primo
tema, mentre ulteriori frammenti del tema stesso emergono saltuariamente nel lento dissolversi
verso la conclusione del movimento.
Il tema dello Scherzo prende le mosse da un breve gioco imitativo iniziato dal violoncello,
muovendosi dolcemente nella scansione ternaria del tempo di 3/4; il tema evolve poi in una
seconda parte, nella quale trova spazio un breve accenno a un nuovo soggetto tematico.
L'incipit di questo motivo secondario è ritmicamente lo stesso che da vita al tema del Trio,
ovvero la sezione centrale del movimento che, differentemente dallo schema tradizionale, non
si differenzia molto dallo Scherzo, se non per un carattere un po' più deciso e risoluto, e un
andamento armonico che si alterna tra una tonalità minore e la sua relativa maggiore. La
ripresa da capo dello Scherzo e una breve coda conclusiva completano infine il movimento. Il
pirotecnico Finale (Presto) si apre con rapidissimi ribattuti del violino, ai quali risponde il
pianoforte con un motivo molto simile in tonalità di dominante. Dopo la ripresa del tema da
parte del violoncello, un ponte modulante porta al secondo gruppo tematico in tonalità di
dominante, nel quale violino e pianoforte si intrecciano dando vita a un primo motivo leggero
e grazioso, ma al tempo stesso deciso e risoluto, e a una idea secondaria dal carattere più
pacato, con cui si conclude l'Esposizione. Lo Sviluppo si apre invece con un rapido stacco
pianistico che porta a due riproposizioni del secondo tema, la prima in una tonalità lontana, la
seconda, dopo un episodio di collegamento che si rifa ai rapidi ribattuti del primo tema, in una
tonalità vicina. Il successivo pedale di dominante, costruito sugli elementi del primo gruppo
tematico, porta alla Ripresa, con il primo tema sostenuto da un diverso accompagnamento
pianistico, il ponte modulante più breve e variato e il secondo tema trasportato secondo
copione nella tonalità principale. Un'ampia coda conclusiva con echi del primo tema porta
infine a compimento l'intera composizione.
I tre Trii op. 1 per pianoforte, violino e violoncello furono pubblicati dal viennese Artaria nel
1795, ma sicuramente furono composti negli anni precedenti. Il primo trio sembra sia stato
scritto a Bonn e rivisto nel 1793, mentre il secondo e il terzo furono abbozzati e in seguito
composti dopo la partenza di Haydn per Londra, avvenuta nel gennaio del 1794. A ogni modo
si tratta dell'«opera uno» di Beethoven, del biglietto da visita che il giovane compositore
avrebbe esibito nei confronti dei numerosi intenditori, critici e musicofili viennesi. Il successo
fu grande e da subito intorno alla figura del compositore si focalizzò l'attenzione di tutto il
mondo musicale viennese. Cruciale per la fortuna di queste opere fu la figura del conte Carl
von Lichnowsky, protettore e amico paterno del compositore, il quale insieme ad altri
ammiratori garantì all'editore Artaria l'acquisto di 250 copie dei Trii, assicurando di fatto il
successo della pubblicazione. E proprio al conte Lichnowsky Beethoven dedicò i tre Trii op. 1.
Il Trio in sol maggiore op. 1 n. 2 è strutturato, come i due «fratelli» dell'op. 1, in quattro
movimenti di grande durata, che rivelano all'ascolto la dipendenza da stilemi compositivi
tipicamente haydniani, quali l'introduzione lenta, l'uso della «falsa ripresa» e il carattere
festoso e popolare del Presto conclusivo. Degna di nota è sicuramente la scrittura
indipendente, a tratti fiorita e con compiti solistici, del violoncello, che in Haydn si era spesso
limitato a un ruolo di basso continuo.
Il Largo introduttivo contiene in nuce gli elementi motivici che caratterizzeranno l'Allegro
vivace successivo e presenta una certa vaghezza tonale e una certa ambiguità che rendono
ancor più efficace l'entrata del primo tema, il quale inizia curiosamente sul quarto grado della
scala di sol maggiore; tale ambiguità tonale si protrae per 24 battute, prima che il primo tema
riappaia in forte nella tonalità principale. Una canonica transizione modulante, che presenta
ancora spunti motivici del primo tema, precede l'ingresso del secondo tema, spiritoso e galante
esposto dal violino e sorretto armonicamente dal pianoforte. Ancora frammenti del primo tema
caratterizzano la coda conclusiva.
Anche lo Sviluppo è nel segno del primo tema, ora trattato in imitazione fra i tre strumenti; un
ultimo episodio elaborativo precede la ripresa, nella quale si succedono regolarmente primo
tema, transizione, secondo tema nella tonalità d'impianto e coda. A conclusione del movimento
Beethoven ripropone l'attacco dello sviluppo, introducendo ulteriori elementi di elaborazione
motivica proprio nella parte finale dell'Allegro vivace.
Il secondo movimento, Largo con espressione, col suo decorso melodico placido e fluido,
ricorda le Pastorali del Messia di Händel; ben tre sono le idee melodiche che si succedono
quasi senza soluzione di continuità: una prima idea esposta dal pianoforte e subito ripresa dal
violino, una seconda idea dal carattere quasi «implorante» e un terzo spunto sereno e disteso,
tutto giocato sulle note principali della tonalità e presentato ancora una volta dal pianoforte.
Quasi subito, dopo pochi e garbati elementi di elaborazione motivica, troviamo la ripresa dei
tre temi, tutti esposti ora nella tonalità d'impianto, mi maggiore. Niente lavorio tematico,
dunque, ma solo libero e disteso fluire di idee melodiche, come conferma anche la coda, dove
dominano gli arpeggi e le delicate sonorità del pianoforte.
Molto gustoso è lo Scherzo successivo, sicuramente più legato ai Minuetti di Haydn piuttosto
che ai futuri Scherzi dello stesso Beethoven; il tema principale passa liberamente fra i tre
strumenti in una scrittura musicale leggera e scorrevole. Il Trio centrale presenta una variante
«coloristica», con l'introduzione della tonalità minore. Come da manuale la ripresa dello
Scherzo e la coda finale.
Alessandro De Bei
I tre Trii per pianoforte, violino e violoncello dell'op. 1 sono considerati la prima produzione
importante di Beethoven, tale da richiamare l'attenzione su di sé del mondo musicale e
culturale viennese. Non si conosce esattamente l'anno di nascita di queste composizioni, ma si
sa che la prima esecuzione ebbe luogo alla fine del 1793 o nelle prime settimane del 1794 alla
presenza dello stesso Haydn. Ferdinand Ries, allievo e confidente di Beethoven, riferisce
esaurientemente su quella serata in casa del principe Lichnowsky a Vienna, dedicatario di
questi lavori e in quel periodo generoso protettore del musicista. «I tre Trii di Beethoven -
scrive Ries - furono presentati per la prima volta al mondo artistico in una serata dal principe
Lichnowsky. Era invitato un gruppo eletto di musicisti e intenditori, a cominciare da Haydn, il
cui giudizio era atteso ansiosamente. I Trii suscitarono una straordinaria impressione e Haydn
disse molte belle cose, ma sconsigliò Beethoven dal pubblicare il terzo. Ciò stupì molto
Beethoven che lo riteneva il migliore: anche oggi piace moltissimo e fa un grande effetto.
Perciò questa uscita di Haydn fece brutta impressione a Beethoven, lasciandolo con l'idea che
Haydn fosse invidioso, geloso e non avesse simpatia per lui». In realtà Haydn conosceva bene
i gusti del pubblico viennese e riteneva che il terzo Trio in do minore fosse piuttosto ardito per
quel tempo e non fosse adeguatamente capito, specialmente nei due tempi iniziali, l'Allegro
incalzante e affannoso e l'Andante cantabile con variazioni, molto elaborati nel loro discorso
musicale.
Per interessamento di Lichnowsky e con l'aiuto finanziario di oltre cento sottoscrittori, quasi
tutti appartenenti alla nobiltà viennese, i tre Trii furono stampati tra il luglio e l'agosto del
1795 dall'editore Artaria, il quale anticipò al compositore duecentododici fiorini, con
l'impegno a realizzare un'incisione chiara .e ben curata, preceduta da un elegante frontespizio.
Il Trio in sol maggiore si apre con una introduzione lenta e pensosa, secondo un modo di
comporre preferito sin d'allora da Beethoven, quasi a dare maggiore espressione e risalto al
successivo Allegro, contrassegnato da una elegante spigliatezza nel dialogo tra pianoforte e
violino in un saldo contesto tematico, al quale partecipa con misurato equilibrio la voce del
violoncello. Di notevole efficacia per il suo romanticismo premonitore è il Largo del secondo
tempo, considerato per la sua linea di canto di purissima lega melodica una tra le più felici
invenzioni del primo Beethoven. Il gioco armonico si snoda con straordinaria misura di
accenti, senza mai venir meno all'essenzialità dell'espressione. L'ultimo movimento è
sostanziato di piacevoli umori mozartiani, ma nasconde tra le pieghe un preciso e determinato
razionalismo tutto beethoveniano.
https://www.youtube.com/watch?v=BTl8lDc_BMA
https://www.youtube.com/watch?v=y-eVd0CtmuU
Nel 1817 Beethoven ne ha fatto una trascrizione per Quintetto d'archi, vedi op. 104
La scelta della tonalità di do minore e il carattere intenso e drammatico che pervade quasi
l'intera composizione, così come i vigorosi impulsi dinamici che innervano i fraseggi e
l'arditezza di alcuni passaggi armonici, sono alcuni dei principali elementi che creano una
netta distinzione tra il Trio n.3, e i primi due numeri della stessa op. 1.
A tal proposito, tra i numerosi aneddoti veri o presunti sul rapporto tra Haydn e Beethoven
riportati dalle biografie, vi è quello relativo alla prima esecuzione dei tre Trii op. 1 presso la
casa del conte Carl von Lichnowsky. Si racconta che tra gli uditori vi fosse Haydn stesso, il
quale al termine ebbe parole dì elogio per i primi due trii, non a caso quelli più affini al suo
modo di scrivere, mentre nei confronti del Trio n. 3 in do minore, ovvero il più intenso e il più
geniale - in poche parole, il più bethoveniano dei tre -, espresse parecchie riserve, tanto da
sconsigliare lo stesso Beethoven dall'intraprenderne la pubblicazione. Il racconto è rivelatore
di una dinamica creativa che nel giovane genio tendeva già a scalpitare spingendosi avanti,
senza il timore dì dover oltrepassare una tradizione nei confronti della quale si sentiva
debitore, ma non certo ancorato in maniera definitiva. In realtà è probabile che Beethoven non
abbia ignorato del tutto le osservazioni del maestro, così come è ancor più plausibile che lo
stesso Haydn avesse intuito la potenza innovativa di quel giovanotto, seppur non volesse
manifestarlo esplicitamente, magari traendone tacitamente degli insegnamenti per una carriera,
la sua, che non si era certo conclusa all'età dì sessant'annì.
L'Allegro con brìo si apre con un primo soggetto tematico simile a una breve introduzione
lenta: un mesto disegno melodico dei tre strumenti all'unìsono, che si chiude cadenzando sopra
una laconica declamazione del violino. Dalla corona sospensiva dell'ultimo accordo cadenzale
parte una reiterata cellula ritmico-melodìca, caratterizzata da tre note staccate in levare, che
forma il secondo motivo del primo gruppo tematico; con esso l'Allegro acquista il dinamismo
che gli è proprio, anche se il ritmo è destinato a divenire più incalzante nel successivo ponte
modulante, che introduce il secondo tema. Quest'ultimo, in contrasto con il carattere intenso e
drammatico dell'inizio, è costituito da una dolce melodia in modo maggiore, i cui toni pacati e
rasserenanti sono interrotti dall'improvviso fortissimo dì una perentoria cadenza accordale. Da
essa parte l'ampia coda dell'Esposizione, composta da tre brevi episodi conseguenti, nei quali
ritroviamo frammenti del primo gruppo tematico rielaborati tra sforzati e mutamenti di
dinamica. Lo Sviluppo è tutto costruito sul primo gruppo tematico: inizialmente vi è infatti una
citazione della frase introduttiva, della quale viene poi elaborato un frammento con improvvisi
sbalzi d'umore e intensità espressiva, mentre in seconda battuta viene rielaborato il soggetto
con le tre note note staccate in levare.
Nella Ripresa il primo gruppo tematico cambia aspetto: il motivo introduttìvo, infatti, sì
espande prendendo nettamente il sopravvento sul secondo soggetto tematico, del quale non
restano che poche tracce nella riproposizione variata e ridotta del ponte modulante. Il secondo
gruppo tematico viene quindi riproposto nella tonalità d'impianto, passando così dal modo
maggiore al modo minore, con l'aggiunta della coda dell'Esposizione anch'essa trasportata. Un
momentaneo rallentamento di poche note delimita infine l'intensa e vigorosa coda finale, nella
quale trova spazio il secondo motivo del primo gruppo tematico.
Il successivo Andante cantabile con Variazioni, l'unico dei quattro movimenti a utilizzare il
modo maggiore nella tonalità principale, presenta come tema un semplice motivo che si adatta
docilmente alle successioni degli accordi, esposto in alternanza da pianoforte e violino.
Composto da due parti riassumibili con lo schema AB CB', il tema viene rielaborato in cinque
Variazioni anch'esse suddivise in due sezioni che vengono rispettivamente ritornellate. Nelle
prime due Variazioni vi è una netta prevalenza dello strumento che ricopre dì conduzione
melodica, ovvero del pianoforte nella prima e degli archi nella seconda; nella terza Variazione
la funzione di accompagnamento degli archi, che si sovrappone all'andamento «galoppante»
del pianoforte, si distingue con maggiore evidenza per l'uso dei pizzicati. Più cantabile è
invece la quarta Variazione, con una languida melodìa in modo minore degli archi, mentre
l'ultima presenta un flusso continuo di scale cromatiche del pianoforte a terzine staccate, che si
differenzia nettamente dal fluido tappeto armonico creato dagli archi. Una successione
cadenzale dilatata, che si conclude con frammentati echi di terzine, è invece la coda che
conclude il movimento.
Il n. 3 è l'unico trio dell'op. 1 ad avere un Minuetto e non uno Scherzo come terzo movimento.
Non si tratta tuttavia della tradizionale danza di corte dall'incedere aulico e regale, tipica del
minuetto settecentesco. Il tema è infatti in modo minore e viene esposto nella prima parte dal
pianoforte con fraseggi, frammenti imitativi e un'alternanza di accordi che rendono
volutamente ambigua la collocazione dell'accento ritmico. Nella seconda parte il tema viene
sviluppato tra rapidi arpeggi ascendenti del pianoforte, lungo un percorso armonico inverso
rispetto alla prima parte, muovendo cioè da una tonalità maggiore verso la sua relativa minore,
per poi riprendere la prima parte e stemperarsi in una coda cadenzale.
Decisamente contrastante è la sezione centrale del Trio nella quale rapide scale discendenti del
violino danno il via a frasi melodiche del violoncello dai toni sereni e affettuosi. La ripetizione
del Minuetto da capo senza ritornelli conclude infine il movimento.
Nel Finale. Prestissimo un perentorio stacco dei tre strumenti all'unisono introduce con
irruenza quasi melodrammatica il primo tema: una semplice melodia dal fraseggio legato che
si snoda, con una palpitante corsa, in un pianissimo carico dì tensione. Torna lo stacco
introduttivo che, come una sciabolata, delimita il fluire del primo tema, mentre nel successivo
ponte modulante il motivo del primo tema al violoncello viene invece messo in secondo piano
dagli sferzanti impulsi dati dagli sforzati. Il secondo tema è invece una dolce melodia esposta
nella relativa tonalità maggiore dal pianoforte e quindi dal violino, la cui cadenza conclusiva
viene prolungata come coda dell'Esposizione. Dopo un'iniziale e breve riproposizione dello
stacco introduttivo, lo Sviluppo si configura interamente sul secondo tema, che viene
riproposto in due tonalità lontane, collegate come da un filo attraverso una singola nota
sottesa; lo stesso tema si riduce poi alle sole due battute iniziali, che, con continue
trasposizioni inframmezzate da rapide scale pianistiche, portano a un pedale di dominante.
Nella Ripresa troviamo il primo tema privo dello stacco introduttivo, mentre il secondo viene
trasportato nella tonalità d'impianto, iniziando tuttavia in modo maggiore per giungere al modo
minore solo verso la conclusione. Al termine del movimento Beethoven inserisce quella
elaborazione del primo tema che era mancata completamente nello Sviluppo, optando poi per
una conclusione piuttosto singolare: invece di ribadire il carattere energico e dinamico del
movimento con un finale perentorio e deciso, porta il discorso musicale a sfumare con una
graduale dissolvenza che si chiude sull'accordo di do maggiore, a mo' di cadenza sospesa.
Come risultato d'uria convinzione, o piuttosto d'un'abitudine creatasi negli anni in seguito a
una lunga serie di piccole pigrizie, disattenzioni e incomprensioni, i trii per pianoforte, violino
e violoncello non ricevono da parte della critica, degli esecutori e del pubblico un'attenzione
paragonabile a quella riservata agli altri grandi gruppi di opere beethoveniane, quali le
sinfonie, i concerti, i quartetti, le sonate per pianoforte e anche le sonate per violino e
pianoforte e quelle per violoncello e pianoforte. Eppure i Trii op. 1 non sono meno importanti
delle coeve Sonate per pianoforte op. 2, sia per il loro intrinseco valore sia per la luce che
portano sulla maturazione del giovane Beethoven e sull'affermazione della sua prepotente
individualità artistica, così come i Trii op. 70 e op. 97 non impallidiscono a confronto delle
maggiori opere di quello stesso periodo.
Nonostante il loro numero di catalogo, i Trii op. 1 non furono in realtà le prime composizioni
pubblicate da Beethoven, perché vennero preceduti dalle Variazioni sopra una marcia di
Dressler del 1782 e dalle tre piccole Sonate del 1783, che però erano chiaramente lavori
infantili, mentre i tre Trii furono l'improvvisa rivelazione d'un compositore capace di dire
senza timori qualcosa d'audacemente nuovo e d'imporsi all'attenzione del mondo musicale
viennese con opere piene di forza e d'originalità, collocandosi subito allo stesso livello del
grande Haydn. Vennero composti in un periodo indeterminato tra il 1793 e il 1794 e pubblicati
da Artaria nell'ottobre del 1795, quando però erano già stati eseguiti durante una soirée nel
palazzo del principe Lichnowsky, protettore e mecenate di Beethoven nonché dedicatario di
questa sua prima opera. Come racconta Ferdinand Ries, erano presenti a quel concerto tutti i
musicisti e gli amanti della musica di Vienna, in particolare Haydn, di cui si aspettava con
ansia il giudizio: questi non fu avaro di lodi ma consigliò al giovane collega di non pubblicare
il terzo trio, quello in do minore. Le sue parole non furono ben accolte da Beethoven, che le
attribuì all'invidia, mentre tanto Ries che Schindler, che erano amici devoti di Beethoven ma
conoscevano anche la rettitudine di Haydn, non poterono credere a una motivazione così
meschina: Schindler inserì quest'episodio "nel lungo elenco di fraintendimenti che sono stati
purtroppo assai numerosi nella vita di Beethoven", mentre Ries chiese chiarimenti a Haydn
stesso, che gli spiegò di temere che il pubblico non avrebbe compreso facilmente questo trio e
avrebbe tardato ad apprezzarne il giusto valore. I timori di Haydn potevano effettivamente
sembrare giustificati dalle novità contenute in questo trio, che tuttavia ebbe un immediato
successo (fu uno dei primi lavori di Beethoven ad ottenere un certo favore del pubblico anche
in Italia, relativamente presto, verso il 1840).
I Trii op. 1 di Beethoven hanno un ineludibile punto di riferimento proprio in Haydn, anche se
i tratti stilistici e gli elementi della costruzione presi in prestito da Beethoven vengono
profondamente modificati e sono utilizzati in un contesto totalmente nuovo. Nuova è in
Beethoven anche la scrittura pianistica, che ormai si è completamente sganciata dagli ultimi
residui clavicembalistici per adottare una muscolosa robustezza e una sonorità ampia, in cui è
riconoscibile l'influsso di Clementi. Il Trio in do minore, op. 1 n. 3 è giudicato non soltanto il
migliore della raccolta ma anche uno dei migliori lavori giovanili di Beethoven (secondo
Giovanni Carli Ballola è paragonabile alle Sonate per pianoforte op. 10 n. 2 e op. 13
"Patetica", alle quali sarebbe anche superiore quanto a equilibrio costruttivo e a unità
d'ispirazione). Come gli altri due Trii dell'op. 1, è in quattro movimenti. Il primo, Allegro con
brio, si apre piano con un tema scorrevole e decorativo, ma già alla settima battuta vi si insinua
un motivo venato d'un sentimento dolente, che altro non è che una libera variante pianistica
del tema di testa. L'atmosfera si tinge sempre più d'ansia e di drammaticità, contenute ma
inequivocabili, punteggiate da pause espressive, senza trovare pacificazione neanche nel mi
bemolle maggiore del secondo tema. La struttura è quella tripartita e simmetrica d'una regolare
forma-sonata, con lo sviluppo che prende le mosse dalla cellula iniziale del primo tema per
raggiungere progressivamente una grande intensità lirica. Dopo che è stata ripresa senza
cambiamenti di rilievo tutta la parte iniziale, una battuta d'Adagio precede la coda, che, come
sarà anche in seguito tipico di Beethoven, è alquanto ampia e offre nuovi sviluppi dei temi,
accentuando ulteriormente il carattere agitato e tormentato del movimento.
La drammaticità del primo movimento lascia il posto a una purissima e inalterabile serenità
nell'Andante cantabile con variazione (sic): sono cinque variazioni, prive di innovazioni o
particolarità dal punto di vista della struttura, ma sono comunque tra le più affascinanti degli
anni giovanili di Beethoven, con il tema che viene ripetuto quasi ostinatamente, passando
attraverso trasformazioni molto leggere, fino all'inattesa coda, piena d'intimo sentimento e
immersa in una calma luce crepuscolare.
Mentre i precedenti due Trii di questa raccolta avevano adottato lo Scherzo, Beethoven ritorna
per l'ultimo Trio al Minuetto. In realtà sotto questa denominazione non troviamo più la vecchia
e ormai desueta danza settecentesca, ma qualcosa di molto simile a uno Scherzo, per il suo
ritmo brusco e i suoi repentini cambiamenti d'umore, con una sezione in do minore ombrata di
malinconia che incornicia una parte centrale in do maggiore dal tono capriccioso e
affascinante.
Nel Prestissimo ritorna moltiplicata la drammaticità dell'Allegro con brio iniziale: è il primo di
quei grandi movimenti beethoveniani in cui il contrasto dei temi viene portato alle dimensioni
d'un dramma di tensione quasi insostenibile. È senz'altro a questo movimento che si riferiva
Nigel Fortune quando ha scritto che questo Trio "è l'opera di Beethoven che ha più segnato la
sua epoca per il suo ampio dramma tonale, intensificato dalla natura del materiale tematico,
dal gioco dei contrasti e dalla foga". Anche per questo finale Beethoven adotta la forma-
sonata: a un primo tema agitato da un'energia cupa e da una foga inarrestabile, in un patetico
do minore, si contrappone un motivo cantabile, dolente e implorante, e l'intero movimento
vede questi due temi affrontarsi in una lotta incessante, con una tensione e una drammaticità
estreme, che si stemperano solo nelle ultime battute, quando la coda avvia il Trio a una serena
e dolce conclusione pianissimo in do maggiore.
Mauro Mariani
I tre Trii opera 1 sono, fra le composizioni di Beethoven date alle stampe, le prime alle quali
l'autore abbia attribuito un numero d'opera (prive di numero d'opera erano infatti alcune opere
minori stampate in precedenza); segno della piena considerazione che l'autore nutriva per
queste partiture; esse costituirono una sorta di "biglietto da visita" per il giovanotto che, giunto
a Vienna al termine del 1792, nel volgere di pochi mesi conquistò la capitale con il suo stile
anticonformista di pianista improvvisatore. E' probabile che molti movimenti dei brani fossero
stati composti già a Bonn, anche se furono poi soggetti a rielaborazioni di incidenza non
superficiale. Si ha notizia di una esecuzione dei Trii avvenuta - probabilmente al termine del
1793 - nel palazzo del principe Lichnowsky, alla presenza dello stesso Haydn, in procinto di
partire per il secondo viaggio a Londra. E' d'obbligo riferire l'aneddoto - riportato da Ries -
secondo il quale Haydn mostrò di apprezzare i brani, ma sconsigliò Beethoven di pubblicare il
terzo, giudicato di difficile comprensione.
In realtà il distacco dei Trii op. 1 dalle composizioni coeve per lo stesso organico è di enorme
rilievo. Considerato - come tutta la musica da camera con pianoforte - alla stregua di un genere
"minore" rispetto alla produzione per soli archi, il Trio con pianoforte era destinato agli
esecutori dilettanti, e dunque era essenzialmente una Sonata per pianoforte, con
"accompagnamento" di violino e violoncello. Beethoven invece nell'opera 1 attribuì ai tre
strumenti un ruolo del tutto paritario, portando il discorso musicale verso un equilibrio
dialogico che non poteva non apparire estremamente avveniristico ai contemporanei. A questo
si aggiunga l'ampliamento delle dimensioni delle composizioni, nonché l'individuazione di
uno stile personale, in equilibrio fra rispetto dei modelli classici, impiego di elementi
tradizionali e ricerca di nuove soluzioni formali, espressive, dialettiche.
Non stupisce che il terzo Trio - a proposito del quale si è già visto il giudizio "conservatore" di
Haydn - fosse quello preferito dall'autore; esso appare infatti come il più maturo e personale
della raccolta. Già la scelta della tonalità di do minore può essere messa in correlazione con un
contenuto drammatico, che si impone soprattutto nei tempi estremi. Nell'Allegro con brio
iniziale l'elemento principale - dopo l'interrogativa frase iniziale, esposta all'unisono - è una
cellula tematica discendente, breve ed incalzante, che permea l'intero movimento; il secondo
tema - una ampia scala discendente esposta dal pianoforte - trova il suo carattere più esatto,
coerente con l'impostazione dell'intero movimento, non nella prima serena apparizione, ma
nella sezione della ripresa. Nell'insieme il movimento presenta continui rivolgimenti
espressivi, rispondenti a una logica di studiati contrasti.
Contrasto solo apparente è quello del secondo movimento, un tema cantabile con variazioni; le
variazioni infatti si dipanano senza nulla concedere al gusto decorativo, e allontanandosi
perlopiù dal carattere sereno del tema. Segue un Minuetto che ha quasi il carattere di Scherzo e
presenta un Trio di impostazione brillante. Con il Finale torniamo all'ambientazione iniziale; i
tre strumenti si impegnano in una sorta di moto perpetuo che vede l'opposizione fra
l'aggressivo ritmo iniziale e la melodia cantabile del secondo tema; il movimento segue la
stessa logica di contrasti dell'Allegro con brio, e trova, il suo momento più sorprendente e
innovativo nella coda, una lunga sezione sussurrata, che si spegne in pianissimo e nel modo
maggiore, con "fruscianti" scale ascendenti del pianoforte.
Arrigo Quattrocchi
Op. 11 1797
Trio per pianoforte n. 4 in si bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=nui63qvNq-Y
https://www.youtube.com/watch?v=M1BcQX1e5nM
Guida all'ascolto 1
Il Trio in si bemolle maggiore op. 11, anche se composto inizialmente per pianoforte,
clarinetto e violoncello, fa parte integrante dei Trii per archi e pianoforte, in quanto il violino
divenne quasi subito l'alternativa ufficiale al clarinetto. Il noto studioso beethoveniano Riezler
pone l'accento sulla "banalità" di questo Trio poiché, a suo avviso, dimostrerebbe «soltanto la
sua bravura... la perfezione delle forme esteriori e la piacevole naturalezza melodica». Un
siffatto giudizio negativo scaturisce dal confronto con la produzione più matura del
compositore e non rende giustizia al valore intrinseco del Trio che possiede, invece, i tratti
distintivi della produzione giovanile di Beethoven. Il Trio fu composto nel 1798 ed è formato
da tre tempi.
Nell'Allegro con brio che apre la composizione il primo e il secondo tema dell'esposizione
riflettono il contrasto abituale della musica dell'epoca tra un esordio marziale e affermativo e
una risposta dal carattere più cantabile. Secondo una tradizione consolidata (Haydn) il
passaggio dalla tonica (si bemolle maggiore) alla dominante (fa maggiore) avviene attraverso
la dominante della relativa minore (re), un espediente che, nonostante l'uso frequente in questo
genere di musica, crea un disorientamento nell'ascoltatore; da un lato aumenta la sorpresa
tematica e dall'altro segnala il sopraggiungere di qualcosa di nuovo (la seconda idea, appunto).
Lo sviluppo, piuttosto breve, concede ampio spazio al pianoforte che utilizza ripetutamente gli
accordi spezzati fino alla ripresa, che si presenta perfettamente simmetrica all'esposizione.
L'Allegretto finale è formato da una serie di variazioni il cui tema (preso da una famosa opera
comica del tempo, L'Amor marinaro di Joseph Weigl, 1797) ispirò anche autori come Kummel
e Paganini. La prima e la seconda delle nove variazioni presentano gli strumenti separatamente
(prima il pianoforte e poi violoncello e violino), quasi che Beethoven volesse far ascoltare le
qualità dell'organico prima di reimmeggersi nell'equilibrato gioco a tre.
Fabrizio Scipioni
Il Trio op. 11 per pianoforte, violino e violoncello venne scritto da Beethoven fra il 1797 ed il
1798. L'indicazione strumentale sul frontespizio dell'edizione a stampa reca la dicitura «per
clarinetto o violino»; anche se è più frequente, in concerto e in disco, la versione col clarinetto,
quella che presentiamo, col violino, non è priva di fascino e interesse. Pagina serena e
scorrevole, articolato nei canonici tre movimenti, il Trio op. 11 si apre con un Allegro con brio
tematicamente molto compatto e privo di contrasti interni, prosegue con un Largo centrale
molto lirico, dove spicca il timbro caldo del violoncello, e termina con un piroettante Tema
con variazioni, omaggio beethoveniano a una melodia all'epoca molto popolare.
Il primo movimento prende le mosse con un energico "gesto" musicale: tre note lunghe che
salgono cromaticamente seguite da un arpeggio staccato discendente. Beethoven gioca
sull'ambiguità del cromatismo, a metà tra le tonalità di si bemolle maggiore e quella di sol
minore. Più cantabile appare il tema secondario, giocato in dialogo prima fra violoncello e
violino, poi fra pianoforte e violino. Alcuni accordi del pianoforte, misteriosi e tonalmente
ambigui, preparano il secondo tema, esposto dal violino e ripreso dallo stesso pianoforte; poi,
prima di giungere alla coda dell'esposizione, i tre strumenti si abbandonano a un episodio dalla
scrittura brillante e virtuoslstica, pieno di gioia di vivere. Lo sviluppo si apre coi misteriosi
accordi del pianoforte e prosegue con l'elaborazione dell'arpeggio discendente del primo tema,
che circola fra i tre strumenti in progressioni modulanti, scandite ritmicamente dal tappeto di
semicrome del pianoforte. La ripresa corre regolare fino alla coda conclusiva.
Il Largo centrale è una pagina di intensa cantabilità, nella quale i timbri caldi di violoncello e
violino si fondono magistralmente con gli avvolgenti arpeggi del pianoforte. Il tema principale
viene affidato dapprima al violoncello, sostenuto dai delicati accordi del pianoforte, poi al
violino, arricchito dalle imitazioni del pianoforte e dagli arpeggi del violoncello. La quiete
musicale viene meno soltanto nel breve episodio centrale in mi bemolle minore, ma è solo un
attimo; il ritorno del tema principale, che chiude la pagina, è timbricamente magico: il canto è
ora al violoncello, sostenuto dal controcanto del violino e dal rigoglioso accompagnamento del
pianoforte (arpeggi, ottave spezzate).
Alessandro De Bei
Il Trio op. 11 di Beethoven, dedicato alla contessa Von Thun, fu stampato nel 1798, cioè a
distanza di tre anni, dalla pubblicazione del primo gruppo di tre Trii. A quel tempo si erano già
manifestati i primi sintomi della malattia all'udito che doveva segnare d'una impronta tragica
tutta la sua vita ulteriore (nel testamento del 1802 Beethoven dice infatti che il male era già in
atto da sei anni). Ma fin dall'inizio egli aveva trovato la forza di reagire alle avversità del
destino e già nel 1796 si può leggere sul suo taccuino: «Coraggio! Malgrado tutte le debolezze
del corpo, il mio genio trionferà... Venticinque anni! Eccoli, venuti!... Bisogna che quest'anno
stesso l'uomo si riveli tutto intero».
Da tali premesse affettive risulterà la tensione dialettica che informa tante musiche della sua
prima maturità e che erompe per la prima volta nella terza Sonata per pianoforte e sopratutto
nella Patetica. In queste opere si sente che la gioia in cui si risolve la vicenda musicale non è
uno spontaneo dono della sua natura o della grazia, ma il frutto d'una dura lotta, d'una
conquista propiziata dalllntervento decisivo della volontà. Ma accanto a tali opere, per alcuni
anni ancora Beethoven comporrà delle musiche intimamente serene, che sembrarlo
appartenere ad un suo tempo interno anteriore alla presa di coscienza della *sua drammatica
condizione.
Tali sono infatti il sorridente Settetto (1800) e la limpida Prima Sinfonìa (1800), e tale è
anzitutto il presente Trio, che il Buenzod, cita appunto tra le «musiche più felici» di
Beethoven.
Composto in doppia versione (il violino può sostituirsi al clarinetto), il Trio s'apre con un
motivo che anticipa un poco il tema della Sonata per pianoforte e violoncello op. 69, ma che
nei suoi sviluppi assume degli aspetti che presagiscono il lirismo schubertiano. La scrittura
pianistica, in certi punti assai densa, acquista nella parte centrale dell'Adagio ampiezze
orchestrali e si sostanzia di accenti e inflessioni che precorrono ugualmente «il romanticismo
post-beethoveniano» (Bruers). Il tono generale di questo meraviglioso tempo lento è
improntato a quella sublime intensità espressiva, a quella solennità che ha fatto dire
giustamente al Torrefranca: «L'intonazione chiesastica.... è una caratteristica italiana che
ritornerà nel Beethoven, del quale gli Adagio sono tanto profondi di significato perchè
sostenuti da un alito di religiosità. La Sonata da chiesa s'è fusa con quella da camera in un tutto
che rivive insieme l'aspirazione al divino e la volontà di vita, trasfondendole a vicenda l'una
nell'altra». L'ultimo tempo è costituito da una serie di Variazioni sopra un tema tratto
dall'opera L'Amore Marinaro (ovvero Il Corsaro per amore) di Joseph Weigl, un compositore
nato in Ungheria nel 1766 e morto a Vienna nel 1846, che fu condiscepolo di Beethoven da
Albrechtsberger e Salieri. L'opera in questione era stata rappresentata a Vienna nell'ottobre
1797, e fu l'editore Artaria che chiese a Beethoven di scegliere il motivo dell'Aria Pria che io
l'impegno, come tema per le Variazioni con le quali si conclude questo Trio. Secondo la
testimonianza di Carlo Czerny, Beethoven si rammaricò in seguito di non aver completato il
lavoro con un finale susseguente alle Variazioni. Comunque il Trio non dà affatto l'impressione
d'essere monco o incompiuto e le nove variazioni sul tema leggiadro e spiritoso del Weigl, lo
concludono più che degnamente, costituendo un saggio estremamente interessante di quella
che sarà la formidabile arte della variazione di cui Beethoven darà ancora tante prove in
seguito. La prima variazione è scritta per pianoforte solo e più che una variazione in senso
stretto è una liberissima cadenza dove - il tema è già completamente travolto e assorbito nel
mondo proprio di Beethoven, al punto da non conservare che una sua vaga impalcatura
armonica. Nella seconda variazione il pianoforte tace e solo i due archi eseguono una breve
frase ripetuta in stile imitativo, dove lo spunto iniziale ha già acquistato una nobiltà
d'espressione di cui il temino di Weigl non sembrava di certo capace di rivestirsi. Dopo una
terza variazione attaccata dai tre strumenti «con fuoco» e con energia veramente
beethovehiana, la quarta traspone il tema in minore e lo configura come un dialogo,
sommesso, ma patetico, tra il pianoforte e i due strumenti a corda. La quinta variazione
(Maggiore) si presenta quasi come un «Corale figurato», dove il pianoforte circonda con
rapide scale gli accordi strappati del violino e del violoncello. Nella sesta variazione un
delizioso ingranaggio per controtempi tra il piano e gli altri due strumenti riporta il discorso
alla spigliatezza e allo spirito del tema, prima che nella settima Beethoven lo volga
nuovamente in minore, ritmandolo nel modo più marcato e plasmando la linea degli archi in
modo che essa assume significati di gesti e d'interiezioni. Nell'ottava variazione nuovamente
in tono maggiore, è un'ampia voluta melodica sostenuta dolcemente dagli archi, sovrasta
contrappuntisticamente il rude basso del pianoforte. La nona e ultima è una variazione doppia:
ad una prima parte che esordisce con un ampio e vigoroso, canone proposto dal pianoforte
(che circonda poi la sua prosecuzione svolta dagli archi con una luminosa cascata di trilli e
arabeschi), segue, un vivace Allegro, che conclude il Trio nel modo d'una spigliata Tarantella
di esuberante vitalità.
Roman Vlad
Op. 70 n. 1 1808
Trio per pianoforte n. 5 in re maggiore "Ghost Trio" (I fantasmi)
https://www.youtube.com/watch?v=WPbP_iIFNQU
https://www.youtube.com/watch?v=Kbcurw19cpk
Nel 1808, anno di straordinaria fertilità nel quale furono ultimate la Quinta e la Sesta sinfonia,
Beethoven torna a scrivere un'opera completa e originale per archi e pianoforte, a quasi
quindici anni di distanza dall'op. 1. Nascono così i Trii op. 70, due composizioni intensamente
romantìche che, per il loro contenuto espressivo e la genialità inventiva che travalica anche le
scelte dell'architettura formale, costituiscono, con il Trio «Arciduca», una delle punte più alte
di tutta la produzione cameristica beethoveniana. Eseguiti in «prima» nel 1809 presso la casa
della contessa Anna Maria Erdöty, una delle aristocratiche mecenati di Beethoven, i due Trii
furono a lei dedicati suscitando, a quanto pare, un certo risentimento da parte dell'arciduca
Rodolfo, a cui Beethoven dovette porre rimedio due anni dopo dedicandogli l'op. 97.
Il Trio n. 1, di soli tre movimenti, presenta un primo tempo (Allegro vivace e con brio) breve
ma assai denso di contenuti, che si apre con un gioco di contrasti tipicamente beethoveniano
tra due elementi nettamente distinti del primo gruppo tematico. Sulla scena irrompe un
vigoroso stacco introduttivo dei tre strumenti, che si interrompe improvvisamente su una nota
estranea alla tonalità (fa bequadro). Questa stessa nota viene raccolta dal violoncello, che la
prolunga per due battute come un filo teso su una tonalità lontana, per poi riportarsi in re
maggiore con una melodia cantabile e appassionata esposta dagli archi e poi sottoposta a
elaborazioni modulanti. Una citazione dello stacco introduttivo si stempera quindi in un
andamento ondulatorio degli archi che confluisce direttamente nel secondo tema, con il
pianoforte che muove delicati accordi dal ritmo puntato. Nello Sviluppo Beethoven scompone
il primo gruppo tematico in tre frammenti che, come per gemmazione, si dilatano dando forma
a tutta la sezione centrale. Ecco quindi un breve intreccio imitativo del tema introduttivo,
mentre della parte melodica del tema vengono rielaborati separatamente la prima e la seconda
battuta.
Al termine, un ulteriore episodio contrappuntistico generato dal tema introduttivo porta alla
Ripresa, nella quale l'autore sembra voler aggiungere all'ultimo momento un'ulteriore sezione
di Sviluppo. Dopo quattro battute della parte melodica del primo gruppo tematico la
riesposizione si arresta; torna nuovamente lo stacco introduttivo in modo minore, seguito da
una nuova elaborazione modulante dello stesso tema melodico. Quando riascoltiamo la
conclusione del ponte modulante e il secondo tema trasposto in tonalità di tonica, è segno che
la Ripresa è tornata nel suo alveo tradizionale, portata a compimento da un'ulteriore coda
conclusiva.
Il Largo assai ed espressivo, dal quale deriva il sottotitolo «Spettri», si apre in un'atmosfera
soffusa, quasi irreale. Tre note cantate sottovoce dagli archi, seguite da un inciso con un
abbellimento terzìnato del pianoforte, fanno da preambolo a un canto melanconico e
struggente degli archi (secondo tema). Dopo un breve interludio pianistico, riappare lo spunto
iniziale che Beethoven fa fiorire lentamente nella serenità del modo maggiore, con
appassionate reiterazioni dell'inciso tezinato da parte degli archi. Un lungo e ostinato borbottìo
del pianoforte porta a una citazione dei secondo tema, seguita da un intenso fortissimo basato
sull'inciso terzinato; il percorso compiuto viene poi rivisitato con alcune consìstenti varianti.
Nell'ultimo episodio vengono inoltre aiggiunti due nuovi elementi: un fìtto ribattuto degli archi
e una scala cromatica discendente del pianoforte, mentre nella coda conclusiva Beethoven
sorprende gli ascoltatori con una successione armonica inattesa, quasi quanto i tre accordi
pizzicati finali.
Il primo tema del brillante Presto conclusivo è dato da due energici stacchi in crescendo (A), ai
quali risponde un fraseggio più dolce ed espressivo (B). Un rapido saliscendi di arpeggi
pianistici su cui dialogano gli archi è invece il ponte modulante che porta al secondo tema: un
delizioso botta e risposta tra violino e violoncello, che si fa progressivamente più incalzante
per poi cadenzare con un rapido movimento ascendente. Un accenno al primo tema e una
seconda ascesa cadenzante lasciano spazio a un delicato filo di note della mano destra del
pianoforte, che portano a un'ulteriore enunciazione del primo tema. Una vigorosa progressione
di un frammento del primo tema, seguita da rapidi movimenti arpeggiati, conclude quindi
l'Esposizione, che viene interamente rìtornellata. Lo Sviluppo si apre con un breve
prolugamento degli arpeggi di fine Esposizione, che si stempera nel riecheggiare di un
frammento del primo tema (B). Un pedale di dominante, sul quale il primo tema viene
rielaborato a terzine, porta in crescendo a una Ripresa canonica (con il secondo tema nella
tonalità d'impianto) e a una delicata coda conclusiva con accordi pizzicati degli archi, su
ulteriori reiterazioni dì frammenti del primo tema.
Composto nel 1808, un anno produttivamente eccezionale che vide il completamento della
Quinta e della Sesta Sinfonia, il Trio in re maggiore op. 70 n. 1 venne eseguito per la prima
volta nella casa della contessa Marie Erdòdy, dedicataria dell'intera op. 70 (che comprende due
Trii, il n. 1 in re maggiore e il n. 2 in mi bemolle maggiore). Il titolo "degli spettri", che indica
questo Trio, si spiega probabilmente con la presenza di alcuni abbozzi del secondo movimento
in un quaderno, di appunti insieme ad altri - sempre in re minore - di una progettata opera sul
Macbeth di Shakespeare.
L'apertura dell'Allegro vivace e con brio è compressa in maniera inusuale: la sua compattezza
è evidente già dalle battute iniziali in cui i due temi principali sono introdotti uno di seguito
all'altro. Il contrasto abituale tra la prima idea (robusta e marziale) e la seconda (più cantabile)
assume, così, una valenza espressiva accentuata, che rende esemplare l'avvio di questo Trio.
Beethoven ha raggiunto, oramai, una perfetta uguaglianza di peso tra gli strumenti e, nello
sviluppo, il gioco contrappuntistico diviene il principale fulcro espressivo.
L'andamento estremamente lento del Largo assai ed espressivo è accentuato dall'ingresso dei
due archi all'ottava con note lunghe, a cui risponde il pianoforte con accordi ribattuti sotto
voce. La funzione del pianoforte, in questo Largo, è quella di creare una sorta di fascia sonora
attraverso una serie infinita di variazioni del tremolo su tutta l'ampiezza della tastiera.
Il Presto finale ci riporta all'aspetto solare del primo tempo, con un tema particolarmente
incisivo e originale; di grande e studiata efficacia, infatti, l'accostamento tra lo slancio ritmico
delle prime tre misure e la lunga corona sulla quarta. Il gioco dell'avvio precipitoso seguito dal
brusco arresto provoca una forte tensione ritmica che esplode travolgendo gli strumenti in un
continuo rincorrersi di scale, arpeggi e frammenti tematici.
Fabrizio Scipioni
Scritti nel 1808 e pubblicati l'anno seguente, i due trii dell'op. 70 furono dedicati da Beethoven
all'amica contessa Anne Marie Erdòdy, una delle pochissime donne che abbiano avuto
influenza sulla sua vita. Il primo dei due trii, scritto nella tonalità di re maggiore, ha finito per
essere denominato «Trio degli spinti» sia per l'atmosfera demoniaca da cui sarebbe animato,
soprattutto nel secondo movimento, sia perché il tema di questo è il medesimo appuntato da
Beethoven per un coro di streghe da inserire in un «Macbeth» su testo di Collin (lo stesso che
scrisse il «Coriolano» per il quale Beethoven realizzò la stupenda ouverture e le musiche di
scena op. 62) mai portato a termine. Un titolo del genere dette il via ad una serie illustre di
interpretazioni, più o meno fantasiose, che recano le firme di un Hoffmann e perfino di un
D'Annunzio. Il quale, ascoltando il trio «come dopo la morte», trovava che la sua musica
spingeva «fino al cuore il fondo del calice della vita, quello che non ho assaporato ancora e
che pregai che fosse tenuto lontano dalle labbra». A dar ragione a questi voli verbali
dell'Immaginifico e di molti altri sta la straordinaria concisione del linguaggio dei due tempi
estremi del trio, un allegro con brio ed un presto, ambedue di magistrale stringatezza e vigore.
Al centro della composizione sta il celebre largo, basato sulla ripetizione di due elementi
strutturali che creano effetti timbrici del tutto nuovi nella letteratura beethoveniana e non.
L'esasperazione di questo movimento assorbe in sé sia gli elementi costitutivi dei movimenti
lenti (nella frantumazione progressiva dei temi si può riconoscere la tecnica, ovviamente volta
ad altro effetto, dell'abbellimento melodico), sia quelli dello scherzo. Il che spiega come
Beethoven abbia adottato per questo trio la forma tripartita.
Bruno Cagli
Op. 70 n. 2 1808
Trio per pianoforte n. 6 in mi bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=1qR_f3oA_-w
https://www.youtube.com/watch?v=WgFMxpBOxLo
Nell'introduzione (Poco sostenuto) all'Allegro ma non troppo, un mesto inciso melodico del
violoncello, imitato dagli altri due strumenti, è seguito da un delicato profilo della mano destra
del pianoforte con trilli e terzine, sfociante in un delizioso frammento tematico di pianoforte e
violoncello che anticipa e, al tempo stesso, schiude le porte al primo tema dell'Allegro, ovvero
un grazioso motivo che danza in un tempo di 6/8, alternato tra archi e pianoforte. Un secondo
motivo del primo gruppo tematico è dato dal successivo intervento melodico del violoncello,
subito ripreso dal violino. Come elemento di cesura tra primo e secondo tema troviamo un
episodio contrastante, con un lento intreccio di linee melodiche che ricorda in parte l'inizio
dell'introduzione. Il secondo gruppo tematico viene anch'esso mosso in un un'equilibrata
alternanza tra i vari strumenti, per poi evolvere senza soluzione di continuità verso la coda
dell'Esposizione.
Nello Sviluppo, dopo un prolungamento della coda espositiva, viene elaborato il secondo
tema, fino a quando dei trilli che ricordano l'incipit del primo tema preparano la Ripresa. Qui il
primo tema viene riproposto con consistenti varianti nella sua evoluzione melodico-armonica,
mentre il secondo viene trasportato nella tonalità principale, seguito da una dilatazione della
coda espositiva. Al termine vi è una parziale riproposizione, con varianti, dell'introduzione e
una breve coda conclusiva con citazione del primo tema.
La struttura dell'Allegretto si basa su due temi chiaramente distinti, che vengono sottoposti a
variazioni. Un grazioso attacco in levare del pianoforte dà il via a un primo tema, che procede
con la pacata eleganza di una danza di corte. Il secondo tema sì apre invece con l'affermazione
di una tonalità minore, su cui si inserisce una reiterata cellula di sedicesimi ribattuti. Viene
quindi variato il primo tema, con il pianoforte che ne fiorisce la melodia, mentre gli archi,
dopo una breve successione dì frasi terzinate, ricamano una delicato ornamento fatto di
arabeschi del violino e pizzicati del violoncello. Una seconda variazione del primo tema
propone invece un dialogo tra gli archi, sopra il fìtto accompagnamento arpeggiato del
pianoforte. Beethoven varia quindi il secondo tema con i ribattuti a quartine dì sedicesimi del
tema originario, che diventano ora terzine. Una ripresa ridotta del primo tema fa da
collegamanto a una seconda variazione del secondo tema, con inserti melodici degli archi
intensi ed espressivi. Nella coda conclusiva riecheggia infine l'attacco in levare del primo
tema.
Nell'Allegretto ma non troppo, il primo episodio alterna una gentile melodia in tempo ternario,
esposta inizialmente dal violino, e un dialogo tra quest'ultimo e il pianoforte in tonalità di
dominante. Nel secondo episodio, semplici e pacate frasi accordali di quattro battute si
susseguono nel dialogo tra archi e pianoforte, mentre una sezione interlocutoria con lente
scansioni accordali fiorite da leggere figure terzinate porta alla ripresa della prima parte, senza
ritornelli e con delle pìccole varianti. Il movimento prosegue con un'ulteriore ripetizione degli
episodi, per poi chiudersi sulla coda con citazioni dei due temi.
II movimento conclusivo (Allegro) si apre con un breve stacco accordale, che introduce il
motivo principale del primo gruppo tematico, suddiviso tra pianoforte e violino. Rarefatte
lìnee terzinate, inframmezzate da bruschi stacchi accordali, portano quindi al secondo tema
(nella lontana tonalità di sol maggiore), che comprende un motivo principale energico e deciso
dal ritmo anacrusico, seguito da un elemento tematico secondario e da una codetta che
riprende i rapidi fraseggi iniziale del primo terna.
Nello Sviluppo, dopo una breve citazione del soggetto secondano del secondo gruppo
tematico, si snoda un'ampia elaborazione dello stacco introduttivo. Un leggero pedale di
dominante, basato ancora sullo stacco introduttivo del primo tema, porta senza soluzione di
continuità alla Ripresa, nella quale viene aggiunta una breve elaborazione del motivo
principale del primo terna, quasi a voler compensare la sua assenza nello Sviluppo. Il ponte
modulante, opportunamente variato, riporta il secondo gruppo tematico inizialmente In do
maggiore e poi, dopo un ulteriore passaggio modulante, in mi bemolle maggiore (tonalità
d'impianto); è questa una singolare soluzione formale che Beethoven sembra voler evidenziare
affidando il tema al violoncello, strumento che in tutto il movimento non aveva mai ricoperto
veri e propri ruoli di conduzione melodica, il Trio n. 2 viene infine chiuso da un'ulteriore
citazione del primo tema.
Beethoven ha composto dodici Trii per pianoforte, violino e violoncello, oltre a quattordici
Variazioni in mi bemolle maggiore riservate agli stessi strumenti e a due Trii in un solo
movimento. Tra essi i più conosciuti e più volte eseguiti sono i due Trii dell'op. 70, di cui il
primo in re maggiore prende il titolo anche di «Trio degli spettri» (Geister-Trio) per alcune
trovate armòniche nel Largo del secondo tempo evocanti un clima spettrale alla Macbeth, e il
Trio op. 97, detto «dell'Arciduca», perché dedicato all'arciduca Rodolfo d'Austria (1788-
1831), figlio minore dell'imperatore Leopoldo II. I due Trii dell'op. 70 furono scritti
nell'autunno 1808 e dedicati alla contessa Anna Maria Erdödy, nel cui salotto a Vienna, luogo
di convegno dell'aristocrazia e degli intellettuali del tempo, vennero eseguiti nel dicembre
dello stesso anno da Beethoven al pianoforte, da Schuppanzigh al violino e da Linke al
violoncello. Di quella serata ci resta la testimonianza di Johann Friedrich Reichardt, già
maestro di cappella di Federico II a Potsdam, che nel suo libro intitolato «Lettere confidenziali
scritte durante il viaggio a Vienna» così commenta: «Beethoven stesso ha suonato un Trio
nuovissimo per pianoforte, violino e violoncello di grande forza e originalità, e fu assai bravo
e risoluto. La contessa Erdödy e una sua amica, anche lei dama ungherese, mostrarono
visibilmente il loro piacere per questa musica e per la stupenda esecuzione di Beethoven.
Maggiore impressione suscitò il secondo Trio in mi bemolle maggiore, specialmente nel
divino tempo cantabile, il più grazioso e amabile da me ascoltato: mi riempie l'animo tutte le
volte che ci penso».
Più tardi, e precisamente il 3 marzo 1813, apparve sulla «Leipziger Allgemeine Musikalische
Zeitung» una recensione del celebre scrittore e poeta romantico Ernst Teodor Amadeus
Hoffmann (1776-1822), che sottolineava il valore di queste due composizioni con le seguenti
parole: «Questi due magnifici Trii dimostrano quanto sia profondo in Beethoven lo spirito del
Romanticismo e con quanta genialità egli si muova nella musica. Il primo Trio svolge un
discorso continuo e compatto; il secondo movimento, un largo molto espressivo, ha un
carattere dolcemente malinconico che fa bene all'animo. Il secondo Trio, invece, si richiama
spesso alla maniera musicale di Haydn... il paesaggio che evoca è chiaro e sereno ».
Probabilmente questo giudizio espresso da Hoffmann, che con i suoi scritti contribuì molto
alla conoscenza della musica di Beethoven, sottolineando le caratteristiche romantiche da lui
preferite, è dovuto al fatto che nel Trio in mi bemolle maggiore è frequente l'uso dei tempi in
sei ottavi e in tre quarti e mancano i movimenti lenti. Il primo tempo (Poco sostenuto. Allegro
ma non troppo) si distingue per la sua elegante scrittura e per la brillantezza del discorso
melodico, condotto e spronato, per così dire, dalle sonorità prevaricanti e dominanti del
pianoforte, trattato dall'autore con un certo gusto preferenziale, data la sua specializzazione in
questo strumento. Il secondo tempo (Allegretto) somiglia ad un rondò con i suoi risvolti
maliziosi e galanti; gli altri due strumenti rispondono al dialogo con delicate sortite dal
fraseggio morbido e misurato negli accenti armonici. Il terzo tempo (Allegretto ma non
troppo) è contrassegnato da una larga e affettuosa cantabilità, in cui sembra che i tre strumenti
trovino un giusto punto d'incontro, quasi su un piano di impossibile parità, riscontrabile
proprio nella struttura formale del Trio, come annotarono altri compositori che dopo
Beethoven si cimentarono in questo difficile genere musicale. L'ultimo tempo (Allegro) è
vivace e spigliato nella invenzione melodica e rientra perfettamente nelle regole della
classicità; è una musica di estroversa cordialità, concepita con razionalistico spirito sonoro,
secondo il ben noto stile beethoveniano. Il Trio op. 70 n. 2 ha una durata di 31 minuti e 36
secondi.
https://www.youtube.com/watch?v=LUwTwQTXG8E
https://www.youtube.com/watch?v=ulXGtMITC50
https://www.youtube.com/watch?v=QFJhqdnt9hE
Allegro moderato
Scherzo. Allegro
Andante cantabile me pero con moto (re maggiore)
Allegro moderato
Scritto nel mese di marzo 1811, lo stesso anino in cui furono iniziate la Settima e l'Ottava
sinfonia, il Trio per archi e pianoforte in si bemolle maggiore op. 97 è generalmente
considerato uno dei capolavori di questo genere. Dedicato da Beethoven& all'amico, allievo e
mecenate Rodolfo d'Asburgo, da cui la sua denominazione, il Trio «Arciduca» è un'opera
straordinaria per la grandezza e la varietà dell'impianto formale, per inventiva espressività e
varietà timbrica, nella quale il genio dei suo grande compositore emerge a «tutto tondo» nel
pieno della sua maturità.
II movimento iniziale (Allegro moderato) si apre sulle note del solo pianoforte, con un tema
iniziale nobile ed elegante dalla cantabilità liederistica, sostenuto da un delicato impasto
sonoro di accordi ribattuti sulla stessa nota di basso. Il violoncello fa il suo ingresso con breve
stacco solistico, un gesto teatrale a cui fa eco il violino che, nelle battute successive riprende la
melodia del tema, dando a esso un carattere meno aulico e più appassionato. Echi del primo
tema, fatti risuonare dagli archi sopra un flusso di terzine del pianoforte, portano a un secondo
gruppo tematico, costituito da un ricco insieme di idee ritmico-melodiche che si apre con un
grazioso fraseggio a note ribattute, per poi sciogliersi in un reiterato inciso melodico del
violoncello. Quando poi le terzine del pianoforte «rallentano» la velocità
dell'accompagnamento, emerge un secondo soggetto tematico dolce e affettuoso che va a
confluire nella coda conclusiva dell'Esposizione.
Nello Sviluppo, l'incipit del primo tema rimbalza tra i tre strumenti per poi ridursi a sole tre
note (manca la nota iniziale). Gli archi ripropongono quindi la seconda metà del primo tema
sopra un soffuso tappeto di ottave del pianoforte, fino a quando l'atmosfera diviene ancor più
rarefatta e prende corpo un divertente gioco di trilli e scale staccate del pianoforte, che si
intrecciano ai pizzicati degli archi. La Ripresa giunge con straordinaria leggerezza, quasi
«galleggiasse nell'aria», grazie anche all'aggiunta degli archi, mentre la seconda esposizione
del tema è affidata alla voce del violoncello. Al termine dell'intera riesposizione, nella quale il
secondo gruppo tematico viene come sempre trasportato nella tonalità principale, un intenso e
appassionato ritorno del primo tema (fortissimo) dà vita a un'ulteriore coda che conclude il
movimento.
Il tema dell'Andante cantabile, ma però con moto, che verrà ripreso in cinque variazioni, è un
piccolo tesoro di sentimenti ed emozioni appena sussurrate, e viene disegnato dalla lenta
scansione del pianoforte e quindi di tutto il Trio. Nella prima variazione, la tastiera tesse una
delicata trama di arpeggi terzinati su cui gli archi intervengono in maniera frammentaria; è
come se restasse il solo accompagnamento, mentre il tema viene suggerito implicitamente
come ricordo affidato alla nostra memoria. La seconda variazione è invece caratterizzata da un
dialogo tra violino e violoncello, nel quale si alternano leggeri fraseggi a note staccate con
brevi incisi melodici assai più cantabili. La trama della terza variazione è fatta di leggeri
accordi ribattuti dal pianoforte (con echi degli archi al termine di ogni frase), con cui
Beethoven, attraverso una precisa alternanza tra valori terzinati e valori regolari, crea un
delizioso effetto a «elastico» grazie al quale sembra che la velocità di esecuzione cambi a ogni
battuta. Se nella precedente variazione ogni riferimento di carattere melodico rimane
dissimulato nella trama degli accordi ribattuti, nella quarta variazione, con indicazione Un
poco più adagio, ritroviamo il canto di pianoforte e violino, il cui profilo non scorre in maniera
lineare, ma «pulsa» continuamente con scansioni regolari di ritmo sincopato. La quinta e
ultima variazione ha più il carattere di uno Sviluppo, con il tema che ricompare nella sua
struttura ritmica originale, variato però nell'andamento melodico-armonico; sul successivo
accompagnamento terzinato del pianoforte, gli archi sembrano sospirare con delicati incisi
melodici per poi dispiegarsi in un canto affettuoso e appassionato con cui portano a termine il
movimento.
Il movimento conclusivo (Allegro moderato - Presto) è scritto nel tempo di rondò; il temna del
ritornello, esposto dal pianoforte, procede con andatura moderata, secondo l'indicazione di
tempo, risultando al tempo stesso guizzante e nervoso grazie a una notevole varietà di
figurazioni ritmiche: staccati, acciaccature, accenti in levare, gruppi irregolari che si
succedono trovando come unico contrappeso brevi incisi melodici degli archi. Uno stacco dal
singhiozzante ritmo puntato porta quindi a rapide scale ascendenti con note staccate, mentre la
successiva reiterazione di una particolare figura ritmica fa da collegamento con il ritornello del
tema. L'episodio centrale è una elaborazione dell'incipit del tema che assume il carattere dello
Sviluppo, mentre la successiva Ripresa ripropone il tema affidato agli archi. Il finale è una
rapida corsa verso la cadenza conclusiva con la quale si chiude l'intera composizione: per
questo Beethoven opera un cambiamento di tempo, passando a un Presto in 6/8, nel quale gli.
archi si liberano in una serrata tarantella sottesa da lunghi trilli del pianoforte. I ruoli degli
strumenti si invertono, ed è quindi il pianoforte a condurre la galoppata finale che, dopo un
evidente cambiamento di scansione ritmica, rallenta e si ferma per dar spazio agli accordi della
cadenza conclusiva.
Il Trio in si bemolle maggiore op. 97 è dedicato (donde il nome) all'arciduca Rodolfo, fratello
minore dell'imperatore e nipote del principe elettore di Bonn, Massimiliano Francesco.
L'arciduca conobbe il compositore nei primi anni dell'800 e divenne suo allievo, prima di
pianoforte e poi di composizione. Ben consapevole del grande talento del suo maestro, lo aiutò
più volte, non solo assicurandogli una pensione annuale dal 1809 sino alla morte, ma anche
intervenendo in suo favore ogni qualvolta il difficile carattere del maestro entrava in conflitto
con la società circostante. In cambio di tutto questo Beethoven doveva dargli lezioni, e oltre al
Trio gli dedicò le Sonate per pianoforte op. 106 e op. 111 e la Missa Solemnis.
Il Trio fu abbozzato nel 1810, e composto in meno di un mese nel marzo del 1811, l'anno in
cui Beethoven cominciò a lavorare alla Settima e all'Ottava Sinfonia. Questa composizione
viene considerata come una delle più «felici» della sua musica da camera con pianoforte («È il
miracolo della musica d'assieme per piano - scrive il Lenz - una di quelle creazioni complete
che appaiono nell'arte di secolo in secolo») ed è legata ad un particolare momento della vita di
Beethoven in quanto, nel maggio 1814, eseguendolo, l'autore appariva per l'ultima volta al
pubblico come pianista, impedito in seguito dalla sordità.
Quanto il primo movimento dell'op. 70 n. 1 era compresso nell'esposizione dei temi, così
l'Allegro moderato che apre il Trio op. 97 è esteso e sciolto nella struttura. Sulla prima idea
esposta dal pianoforte si innestano gli archi che, introducendo un nuovo inciso tematico,
rendono ancor più arioso l'inizio. Il secondo soggetto si presenta in una tonalità inusuale (sol
maggiore) a cui Beethoven accede direttamente, senza impegnare la sua estrema abilità di
modulatore. Nella ripresa, il primo tema ritorna in una versione delicatamente variata, uno dei
tanti espedienti per superare un architettura che al compositore doveva apparire sempre più
rigida.
Come più tardi nella Nona Sinfonia, Beethoven pone al secondo posto, nell'ordine dei
movimenti, un tempo veloce anziché un tempo lento. Questo fattore e la particolare ampiezza
rendono lo Scherzo estremamente sorprendente dal punto di vista formale e contenutistico. La
varietà dei temi (dal valzer al fugato), la sonorità imperiosa del pianoforte (aggredito a piene
mani con accordi ripetuti), la girandola delle tonalità sono il segno dello spirito di
rinnovamento che caratterizzerà l'ultima produzione di Beethoven.
Il movimento lento, un Andante cantabile in re maggiore, è costituito da una serie di variazioni
su uno dei temi più semplici e allo stesso tempo grandiosi di Beethoven. Le «variazioni
rimangono a lungo in una sfera di decorazione puramente intellettualistica» (Riezler) fino alla
ripresa del tema, sottoposto questa volta a mutamenti di carattere armonico.
Beethoven non crea una netta cesura tra gli ultimi due movimenti come se l'Allegro moderato
conclusivo fosse la naturale continuazione dell'Andante, un'ulteriore variazione che presto si
spinge verso nuovi confini (l'incipit tematico, del resto, non è altro che l'inversione delle note
del tema dell'Andante). Un momento di particolare carica espressiva è nel Presto conclusivo in
cui il tema principale, trasformato in un tempo di 6/8 e armonicamente decentrato (la
maggiore), è affidato agli archi su un lunghissimo trillo del pianoforte, come se arrivasse da
molto lontano. Si prepara così un'irruente e prolungata coda, necessaria ad equilibrare il Trio
che, a livello temporale, supera i normali canoni di sviluppo.
Fabrizio Scipioni
Ultimato nel marzo 1811, il Trio in si bemolle maggiore op. 97 fu eseguito per la prima, volta,
nel 1814, con lo stesso Beethoven al pianoforte, in un tragico concerto in cui, secondo la
testimonianza di Louis Spohr, "nei passaggi in forte il povero sordo picchiava sui tasti finché
le corde emettevano suoni stridenti, mentre nei passaggi in piano suonava così delicatamente
da omettere interi gruppi di note, tanto che la musica risultava inintelleggibile".
La pubblicazione avvenne solo nel 1816, presso l'editore Steiner, con la dedica all'Arciduca
Rodolfo d'Austria; tale dedica, oltre ad aver fornito alla composizione l'epiteto di "Trio
dell'Arciduca", è significativa della considerazione in cui l'autore teneva il brano. Infatti
all'Arciduca Rodolfo, fratello cadetto dell'Imperatore Francesco I, allievo dal 1803 e poi
protettore di Beethoven, il musicista dedicò solo opere di sicuro rilievo, fra cui il 4° e il 5°
Concerto per pianoforte, la Sonata op. 106 e la Missa Solemnis.
In effetti, se fin dalle prime prove nel campo del Trio per pianoforte (pubblicate nel 1795 come
opera 1) Beethoven aveva preso le distanze dai brillanti ma limitati modelli haydniani, è con il
Trio op. 97 che egli lasciò la sua pagina più importante in questo genere (anche se a
quest'opera alcuni esegeti preferiscono i risultati meno appariscenti ma forse più equilibrati dei
due Trii op.70); il Trio "dell'Arciduca" emerge infatti nella produzione cameristica del
cosiddetto "secondo periodo" per la felicità dell'invenzione, per le dimensioni imponenti e di
respiro sinfonico, per la scrittura equilibrata e concertante dei tre solisti.
Tali caratteri di grandiosità emergono già dalla dolce spaziosità del tema iniziale, enunciato dal
pianoforte solo e poi ripreso con gli altri strumenti; più che sulla seconda idea - il cui carattere
esitante ricorda l'inizio del 4° concerto - è sul primo tema che si fonda lo sviluppo, ricco di
soluzioni timbriche e armoniche inedite e stimolanti. Un particolare rilievo assume lo Scherzo,
sia per la posizione di secondo tempo che per la vastità della concezione (che prevede l'intera
ripetizione di Scherzo e Trio); esso è basato sulla contrapposizione fra la giocosità iniziale e
l'oscuro, serpeggiante motivo del Trio, in minore, che riecheggia nella coda.
Ma la pagina chiave della composizione è l'Andante cantabile ma però con moto, un tema con
quattro variazioni che preannuncia la grandiosa ricerca sulle tecniche della variazione operata
dal maestro negli ultimi anni di vita. Il tema, di carattere innico, enunciato dal pianoforte e
ripetuto con l'aggiunta degli archi, aumenta progressivamente la propria densità ritmica,
secondo la prassi consueta; tuttavia lo scambio di ruoli fra gli strumenti conduce ad una inedita
ed esaustiva esplorazione delle risorse timbriche e dinamiche del tema, fino alla sua
conclusiva riproposta, di disarmante semplicità.
Segue, senza soluzione di continuità, il Finale, un Rondò brillante e vitale, con una stretta
trascinante; si tratta tuttavia di una pagina che è stata spesso considerata sbrigativa rispetto alle
dimensioni dell'intera composizione; essa proietta così sul Trio un'ombra di ambiguità,
eludendo, sul finire, la grandiosità dei primi tre movimenti.
Arrigo Quattrocchi
https://www.youtube.com/watch?v=qdspLA0FXLA
https://www.youtube.com/watch?v=rpBjCvb8FZw
WoO 37 1786
Trio per pianoforte, flauto e fagotto in sol maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=vySNdRkmlpQ
https://www.youtube.com/watch?v=XqHobkQbIOM
Allegro
Adagio (sol minore)
Tema. Andante con variazioni
https://www.youtube.com/watch?v=JsfjcIxhzps
Le variazioni sono composte sul lied "Ich bin der Schneider Kakadu" (Io sono il sarto Kakadu)
dall'operetta "Die Schwestern von Prag" (Le sorelle di Praga) di Wenzel Müller
Quando nel luglio del 1816 Beethoven, mosso da necessità di ordine economico, chiese
all'editore Härtel di pubblicargli una raccolta di variazioni per pianoforte violino e violoncello
da lui scritta in giovane età, egli si trovava in un particolare periodo della sua maturità artistica
nella quale alcune vicissitudini esterne, non ultima la contrastata vicenda che riguardava la
tutela del nipote Karl, avevano imposto un momentaneo rallentamento alla sua produzione
artistica. Fu probabilmente questa la circostanza che permise a quest'opera, che in realtà verrà
pubblicata solo otto anni dopo, di non restare chiusa in un cassetto con il rischio di andare
perduta.
Il tema per queste variazioni è tratto dal lied Ich bin der Schneider Kakadu (Io sono il sarto
Kakadu), contenuto in un Singspiel di un autore minore, Wenzel Müller, che nel 1794 era
tuttavia abbastanza conosciuto presso i viennesi. Scritta plausibilmente per solo pianoforte, e
successivamente trascritta in forma di Trio, l'op. 121a rivela il gusto per le fioriture
ornamentali tipico della variazione settecentesca; non di meno si tratta di una composizione
riuscitissima, non solo per l'eleganza e l'equilibrio della scrittura, ma anche per una
straordinaria capacità di smussare i profili melodici che, all'interno di uno schema armonico-
formale semplice e lineare, risultano non essere mai scontati e prevedibili. La stessa op. 121a
comprende inoltre un'ampia, corposa introduzione e un vigoroso fugato che, al termine della
Variazione X, apre uno squarcio all'interno di un'atmosfera galante e salottiera dalla quale
traspare quello che è lo spirito più autenticamente beethoveniano.
Dopo un tetro accordo iniziale subito si presenta l'inciso melodico su cui è costruita l'intera
Introduzione (Adagio assai), disegnato da un lento movimento all'unisono dei tré strumenti e
poi ripreso in un rarefatto accenno di imitazione. Il successivo passaggio al modo maggiore
giunge come uno squarcio di luce, mentre il discorso musicale inizia a scorrere in maniera
fluida tra il riecheggiare del motivo principale leggermente modificato. L'atmosfera serena che
si è venuta a creare è tuttavia di breve durata: un'inattesa cadenza d'inganno (sul VI grado
abbassato) crea infatti una frattura nel discorso musicale, che si interrompe dopo alcune
successioni accordali più intense. Quando alla successiva ripartenza il motivo principale passa
al violoncello, esso viene quasi coperto dal controcanto del violino, per poi riemergere con
maggior evidenza dopo l'ulteriore interruzione di un breve stacco cadenzale. Segue un
episodio interlocutorio con progressioni modulanti, nel quale gli archi procedono con
un'andatura lenta e scandita, intersecata da un ricamo di scale e arpeggi a note staccate del
pianoforte.
Ritorna quindi lo spunto iniziale che si abbandona mollemente a una lenta discesa, nella quale
il motivo principale viene continuamente reiterato. La trama musicale riprende
momentaneamente tono con un andamento ascendente, segnato da una serie di sforzati in
levare, per poi dissolversi lentamente verso la conclusione, che prepara l'arrivo del Tema per
variazioni con una cadenza sulla dominante di quest'ultimo.
Nei tre episodi successivi vi è invece una compartecipazione dei tre strumenti: nella
Variazione IV la mano sinistra del pianoforte si abbandona a un libero scorrere di terzine,
mentre il tema si alterna tra mano sinistra del pianoforte e archi, con un nervoso incedere fatto
di note staccate e contenuti sforzati. Più pacata è invece la Variazione V, formata da una
successione di brevi imitazioni che partono inizialmente dal violoncello, dando corpo a una
trama musicale morbida e sinuosa. Nella Variazione VI il pianoforte tesse con la mano destra
una fitta trama di ottave spezzate, mentre tra gli archi rimbalza un sequenza di ottavi in levare,
con acciaccature che li rendono simili a dei divertenti miagolii. Nella Variazione VII il
pianoforte tace, lasciando spazio al divertente gioco imitativo tra violino e violoncello, per poi
tornare nella Variazione VIII, che viene costruita sulla regolare alternanza tra il brillante gioco
«a due» degli archi, e la pronta risposta del pianoforte stesso.
Non si conosce con precisione la data di composizione di queste Variazioni: l'editore Steiner di
Vienna le pubblica con il numero d'opera 121a nel 1824, ma nessuna persona avveduta potrà
pensarle successive al Trio dell'"Arciduca" che è del 1810-11; del resto, da una lettera di
Beethoven del 1816 a Härtel si ricava che il compositore le aveva già offerte a codesto editore
otto anni prima, definendole come appartenenti alle "mie prime opere", sia pure avvertendo di
non considerarle "roba scadente" (anche l'autografo, trovato nella collezione Louis Koch a
Wildegg in Svizzera, presenta particolarità di scrittura poi abbandonate dal Beethoven degli
anni maturi).
È lecito ipotizzare aggiunte e ritocchi quando Beethoven riprese in mano la composizione per
offrirla agli editori: in effetti colpisce l'ampiezza dell'Introduzione (Adagio assai), pagina che
risente della mobilità armonica della Fantasia in do minore di Mozart K. 475, a Beethoven ben
nota nel suo tono serioso e nei suoi contrasti di sforzature e di dolcezze, insomma nel suo
quadro drammatico; certo lontano dal Tema scelto per le variazioni: il Lied di Wenzel Müller
"Io sono il sarto Kakadu" dal Singspiel Le sorelle di Praga, rappresentato per la prima volta
nel 1794 e più volte ripreso nei primi decenni dell'800. Beethoven non sembra interessato alla
variazione elaboratrice, ma a quella ornamentale; prende però le sue precauzioni per non
essere comune incominciando dagli originali raggruppamenti: dapprima pianoforte solo, poi
duo, ora con il violino ora con il violoncello; seguono tre variazioni per trio, quindi, nella
settima, tocca al pianoforte di tacere, facendo da spettatore a un mozartiano duo di archi;
l'ottava variazione contrappone il pianoforte ai due archi, la nona è un Adagio espressivo in
minore, la decima un ampio rondò in 6/8 (Presto), con episodi fugati, sviluppi e coda in 2/4. È
interessante notare la presenza di un pianismo virtuosistico di matrice ancora cembalistica, in
Beethoven spesso connesso alla tonalità di sol maggiore, e per contrasto l'affettuosità della
quinta variazione, vicina ai toni popolari dei Lieder scozzesi op. 108, e l'umorismo della sesta
con l'arguzia delle acciaccature scoccate dagli archi: a conferma di una ricca compresenza di
stili forse dovuta alle vicende della composizione, dalla sua prima ideazione alla posteriore
pubblicazione a stampa nel 1824.
Giorgio Pestelli
https://www.youtube.com/watch?v=7U726VrX-U0
https://www.youtube.com/watch?v=G7sDg8_26N8
https://www.youtube.com/watch?v=F__LuHDJko0
https://www.youtube.com/watch?v=A7h0fnC0BAs
https://www.youtube.com/watch?v=0jXNOSfFVfw
Allegro cantabile
Andante (mi bemolle maggiore)
Rondo. Vivace
Organico: pianoforte
Edizione: Bossler, Speyer 1793
Dedica: Arcivescovo Maximilian Freidrich
https://www.youtube.com/watch?v=whcOslx068U
https://www.youtube.com/watch?v=4qt0fJpcjnQ
https://www.youtube.com/watch?v=A7h0fnC0BAs
https://www.youtube.com/watch?v=KgMe_822dmY
Allegro
Menuetto. Sostenuto (la maggiore)
Scherzando. Allegro, ma non troppo
Organico: pianoforte
Edizione: Bossler, Speyer 1783
Dedica: Arcivescovo Maximilian Freidrich
https://www.youtube.com/watch?v=C7thOFBAPPE
https://www.youtube.com/watch?v=T6YTd9z8PQM
Allegro
Adagio (fa maggiore)
Minuetto. Allegretto
Prestissimo
Organico: pianoforte
Composizione: 1793 - 1795
Edizione: Artaria, Vienna, 1796
Dedica: Franz Joseph Haydn
Guida all'ascolto 1 (nota 1)
Le tre Sonate op. 2 sono le prime composizioni per pianoforte che Beethoven numerò ma non
le prime che scrisse né le prime che pubblicò. Tre Sonate di Beethoven Wo047, furono
pubblicate dall'editore Bossler di Spira nell'ottobre del 1783. Beethoven, nato il 16 dicembre
1770, non aveva ancora tredici anni quando scrisse le Sonate Wo047, ma il suo maestro Neefe
non ebbe torto di parlarne nel "Magazin fiir Musik" di Carl Friedrich Cramer come di una
"notevole composizione di un giovane genio". Il Newman ha giustamente notato che ci sono
dei "punti in comune" tra le prime Sonate di Beethoven e la raccolta di 12 Sonate pubblicate
da Neefe dieci anni prima, nel 1773. Ci sembra soprattutto interessante il fatto che le Sonate di
Neefe, come l'autore afferma nella prefazione, fossero state espressamente composte per il
clavicordo, e non per il clavicembalo o per il pianoforte; anche le Sonate Wo047, sono "für
Klavier", termine con il quale Neefe aveva voluto indicare il clavicordo: il legato sostenuto e il
cantabile che Beethoven applicò poi sul perfezionato pianoforte di fine Settecento si potevano
ottenere sul clavicordo, ed è quindi molto probabile che la concezione beethoveniana
dell'esecuzione pianistica sia stata in parte influenzata dalla predilezione del Neefe per il
clavicordo. Esiste inoltre un rapporto tra la seconda Sonata, in fa minore, e la "Patetica".
Tra il 1788 e il 1792 Beethoven scrisse tre altre Sonate, delle quali una è andata perduta e le
altre due (Wo050 e 51) vennero pubblicate postume. Nella Sonata Wo051, dedicata a Eleonora
von Breuning, il Prod'homme rileva una relazione strutturale tra due tonalità (tonalità
principale - tonalità della terza minore superiore, in sostituzione del tradizionale rapporto
tonalità principale - tonalità di dominante) «vraiment beethovénienne ».
Trasferitosi a. Vienna nel novembre del 1792, Beethoven cominciò a farsi conoscere con varie
composizioni per pianoforte (variazioni, bagatelle, rondò). Le tre Sonate op. 2 erano già note
ai dilettanti di Vienna nel 1795, ma furono pubblicate solo nel marzo del 1796. Secondo
quanto dice il Ries, le tre Sonate furono eseguite da Beethoven, alla presenza di Haydn, in casa
del principe Lichnowsky. Haydn avrebbe desiderato che, com'era di uso, Beethoven facesse
menzione nella dedica del fatto di esser stato allievo di Haydn; Beethoven non volle però
aderire al desiderio di Haydn perché «da lui non aveva imparato niente».
Secondo un uso del tempo, il frontespizio delle Sonate lascia all'esecutore la scelta tra il
clavicembalo e il pianoforte; ma poiché non si nota nessuna differenza di scrittura strumentale
tra le Sonate op. 2 e la parte pianistica dei Trii op. 1, nei quali non è concessa l'alternativa tra
pianoforte e clavicembalo, è evidente che Beethoven si conformò semplicemente ad un uso
editoriale.
Il Reinecke e poi altri commentatori ritengono che il primo tema della Sonata op. 2 n. 1 sia
stato suggerito a Beethoven dal primo tema del finale della Sinfonìa K. 550 di Mozart; ci
sembra che abbia invece ragione Edwin Fischer, il quale suggerisce un rapporto con un'altra
Sinfonia di Mozart (K. 183), anche perché in uno schizzo, pubblicato dal Nottebohm, il tema
di Beethoven manca dell'anacrusi.
Oltre alla probabile derivazione da Mozart del primo tema, nel primo tempo della Sonata è
riscontrabile qualche traccia della drammatica Sonata in do minore K. 475 di Mozart. La
costruzione architettonica del pezzo è invece diversa dal tipo che in Mozart prevale
largamente, con lo svolgimento molto più breve dell'esposizione e della ripresa. Nel primo
tempo dell'op. 2 n. 1 le tre parti sono quasi di pari lunghezza (48, 52, 52 battute), e la
costruzione si avvicina quindi al tipo che Beethoven mostrerà anche in seguito di prediligere,
con lunghezza rispettiva, prendendo il numero 10 come punto di riferimento convenzionale
per l'esposizione, di 10 - 8,8 -12,5.
Per il secondo tempo Beethoven si servì dell'Adagio con espressione del Quartetto WoO 36 n.
3 per pianoforte e archi, scritto nel 1785, nel quale il giovanissimo artista riusciva a far
rivivere in modo personale il tipo dell'Adagio ornato che si incontra spesso in Haydn e in Cari
Philipp Emanuel Bach (secondo il Rosenberg questo Adagio potrebbe essere stato ispirato
dall'Adagio del Quartetto op. 64 n. 5 di Haydn). Il nucleo principale della composizione
giovanile rimane invariato (gli ascoltatori potranno così sentire a quale altezza sapesse già
portarsi il Beethoven quindicenne), e Beethoven lo amplia semplicemente con nuovi episodi,
che denunciano appena una leggera frattura di stile: per esempio, stilisticamente è un pò
diverso il bell'episodio in re minore, pianisticamente geniale per l'abile sfruttamento
del'incrocio della mano destra sulla sinistra.
L'attacco del Minuetto avviene nello stesso registro usato per l'attacco dell'Adagio, con la
stessa dinamica (piano) e con una disposizione analoga delle parti; ma basta l'uso dello
staccato e la mancanza della didascalia dolce (che c'era invece nell'Adagio) per cambiare
completamente la sonorità pianistica: è un esempio di come Beethoven sappia sfruttare le
risorse timbriche del pianoforte.
Il finale, come ha notato il Prod'homme, può essere stato suggerito a Beethoven dal finale
della Sonata op. 6 n. 1 di Clementi. La caratteristica più sorprendente (e più beethoveniana)
del finale è l'inizio dello svolgimento: Beethoven lo inizia con una lunga melodia, che non ha
rapporto con il materiale tematico della esposizione. Il Rosenberg ha però dimostrato la
derivazione di questa melodia dal materiale tematico del primo tempo: è una prima prova dei
sottili legami tematici che Beethoven stabilisce quasi sempre tra i tempi di una Sonata.
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
Destinate ad inaugurare la gloriosa serie delle trentadue sonate per pianoforte di Beethoven, le
tre composizioni apparse a Vienna nel 1796 come opera 2, non erano in realtà i primi lavori
pianistici del giovane musicista dì Bonn. Senza contare alcune esercitazioni marginali,
volutamente lasciate inedite, già tredici anni prima erano state pubblicate tre sonate, scritte,
come recitava il frontespizio dell'edizione, «in età di anni 11». Se a questi primi esperimenti si
aggiunge l'intensa attività di pianista svolta da Beethoven in quell'intervallo, si comprenderà
meglio l'approfondimento stilistico e tecnico che egli aveva operato a contatto con uno
strumento che, in quegli anni, era appena agli albori della sua complessa storia. Non è dunque
possibile considerare le tre sonate dell'op. 2 come semplici lavori giovanili, tanto più che,
benché figurino scritte nel 1795, Beethoven vi aveva rielaborato schizzi e lavori precedenti al
punto che si può loro assegnare una gestazione di almeno dieci anni. Già nella prima delle tre,
quella in fa minore, la forma sonata appare allargata e lo schema tripartito caro ad Haydn (a
cui l'intera opera 2 è dedicata) e a Mozart (alla cui sonata in do minore il tema di apertura può
far pensare) è allargato a quattro movimenti. I due estremi sono avveniristici e incandescenti,
mentre al centro figurano due pagine di sapore più arcaico: un adagio, che è una trascrizione di
un tempo tratto dal quartetto con pianoforte scritto nel 1785, e un minuetto con trio che
costituisce un elegante e candido addio ad una forma tipicamente settecentesca. Già infatti
dalla sonata successiva il minuetto sarà sostituito da uno scherzo. Il prestissimo conclusivo,
infine, dimostra che Beethoven conosceva le migliori sonate di Clementi e che era
perfettamente al corrente di quanto di più avanzato era stato scritto per il pianoforte.
Bruno Cagli
https://www.youtube.com/watch?v=dv36MeM-FAk
https://www.youtube.com/watch?v=TWzMlIh5Xnk
Allegro vivace
Largo Appasionato (re maggiore)
Scherzo. Allegretto
Rondo
Organico: pianoforte
Composizione: 1794 - 1795
Edizione: Artaria, Vienna, 1796
Dedica: Franz Joseph Haydn
Anche in questo caso, come per altri generi musicali, ad esempio i Trii, i Quartetti, e le
Sinfonie, Beethoven ha tenuto conto dell'esempio di Haydn e di Mozart e della civiltà
musicale del suo tempo, ma questo non significa che il giovane compositore sia stato un fedele
ripetitore di stilemi altrui. Anzi, a detta del già citato Carli Ballola, c'è poco o nulla di
mozartiano nell'op. 2 «dalla massiccia scrittura pianistica che si rifa essenzialmente al
"moderno" Clementi (il quale, come ben sappiamo, non godeva affatto dell'ammirazione di
Mozart) e in cui la pletorica abbondanza delle idee, i rigorosi sviluppi, il gusto per la trovata
eccentrica e capricciosa sono al polo opposto dell'essenzialità e della "normalità" mozartiane.
Quanto ad Haydn, dedicatario dell'op. 2, egli aveva compreso benissimo che Beethoven non
teneva affatto ad essere considerato suo discepolo, come è dimostrato dall'atteggiamento di
diffidenza e di ironica sufficienza mantenuto dal vecchio maestro nei confronti del giovane
collega, al quale non rispamiò frecciate e sgarbi, come quello di restituirgli il fascicolo delle
Sonate sentenziando che "l'ingegno non mancava, ma bisognava ancora istruirsi"».
Sin dal primo movimento (Allegro vivace) la Sonata in la maggiore, ritenuta la migliore delle
tre dell'op. 2, rivela un piglio sostenuto ed energico con il secondo tema disteso su un largo
arco di modulazioni di fervida tensione lirica, secondo un procedimento compositivo preferito
da Beethoven. Il Largo appassionato è una pagina intrisa di nobile e pensosa spiritualità, dalle
sonorità così scavate e suggestive nella disposizione timbrica da far pensare ad una adagio
orchestrale. Questo è il punto più alto della Sonata che prosegue con uno Scherzo brillante e
dagli umori saporosi e si conclude in modo gaio e piacevole, con una cordiale baldanza
giovanile non priva di accenti misuratamente virtuosistici.
https://www.youtube.com/watch?v=OusKO1q1WMY
https://www.youtube.com/watch?v=ThvKrhqh3fE
https://www.youtube.com/watch?v=sA5FfCpzAhs
Organico: pianoforte
Composizione: 1794 - 1795
Edizione: Artaria, Vienna, 1796
Dedica: Franz Joseph Haydn
La terza delle Sonate op. 2 (che Beethoven portò alla stesura definitiva tra il 1794 e il 1795,
ma che risalgono addirittura agli anni di Bonn negli abbozzi di taluni movimenti) compendia,
nell'equilibrio qualitativo e nell'unitarietà stilistica dei suoi quattro tempi, i caratteri del
linguaggio pianistico maturato dal compositore nel periodo dell'apprendistato viennese: che è
dire il linguaggio in senso assoluto del primo Beethoven, dal momento che il pianoforte ne
diviene il quasi esclusivo banco di prova, nell'esercizio quotidiano della pratica concertistica
come negli esordi editoriali. L'op. 2 n. 3 è un'ambiziosa e imponente Sonata da concerto,
verosimilmente concepita come cavallo di battaglia per le "accademie" (i recitals, diremmo
oggi) del giovane virtuoso renano. Per tacere della scrittura pianistica ostentatamente brillante
che si avvale, soprattutto nei tempi estremi, di tutto il formulario già instaurato da Muzio
Clementi nel proprio repertorio sonatistico (si pensi soprattutto alle op. 32 n. 3 e 34 n. 1
entrambe in do maggiore e quasi coeve dell'op. 2 beethoveniana), elemento rivelatore della
destinazione "pubblica" del lavoro sono le due cadenze contenute nel primo e nel quarto
tempo: particolare tipico del concerto, ma infrequente nella sonata da camera.
D'inconfondibile matrice clementina sono pure, sempre nei tempi estremi, i passi in ottave e
seste spezzate, le scale di terze e seste parallele nonché la cellula caratterizzatrice del tema
fondamentale del primo Allegro, basato ancora su quelle terze parallele, le quali, al dire di
Mozart, erano una "specialità" del maestro anglo-romano. All'euforica estroversione del
concertista che padroneggia con gioia quasi proterva le difficoltà della tastiera; al gusto,
rivelatore dei nuovi tempi, per un virtuosismo che incanta ed ammalia le platee, si contrappone
l'assoluta interiorità dell'Adagio, stupenda pagina turbata, nella parte centrale, dall'oscura
inquietudine di una melodia sincopata e protesa nell'estrema zona acuta della tastiera. Dopo
uno Scherzo giocato sull'effetto dell'entrata delle varie voci in serrate imitazioni, il luminoso
Finale, con i suoi splendori timbrici e il suo slancio ritmico, è come l'epifania trionfale del do
maggiore beethoveniano, che per la prima volta appare in tutta la sua ottimistica forza
persuasiva.
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
I primi anni viennesi di Beethoven, cui appartengono le tre Sonate op. 2, sono contraddistinti
da una attività intensissima e frenetica, con un accavallarsi di concerti pubblici, accademie
private e impegni mondani a ritmo serrato. Tutta la buona società, e in genere i dilettanti di
musica della capitale asburgica, erano rimasti affascinati dalla potente originalità del musicista
di Bonn, il quale, per suo conto, si dimostrava particolarmente abile nel promuovere la sua
immagine di bel tenebroso, capace di colpi di testa a dir poco bruschi, come quando,
presentando in pubblico le tre Sonate op. 2, si rifiutò di considerarle frutto dell'insegnamento
di Haydn, dichiarando che da lui non aveva imparato un bel niente.
L'Allegro con brio iniziale ha una esposizione imponente che si avvale di tre temi invece dei
consueti due. Uno sviluppo modulante derivato da una cellula secondaria e con una piccola
sezione contrappuntistica conduce alla ripresa, culminante in una virtuosistica cadenza -
elemento assai raro in una Sonata.
Il successivo Adagio è nella lontana tonalità di mi maggiore ed ha una struttura tripartita. Alla
prima sezione, intima e serena, fa contrasto l'ampio episodio centrale in mi minore, dal colore
cupo e l'incedere agitato. Lo Scherzo è uno dei primi esempi del genere in Beethoven. Una
piccola cellula ritmica, condotta inizialmente in stile fugato, è alla base della composizione.
L'atmosfera brillante del primo movimento ritorna nel luminoso finale - Allegro assai - in un
trascinante ritmo di 6/8.
Giulio D'Amore
https://www.youtube.com/watch?v=4IxSHL8sfQw
https://www.youtube.com/watch?v=x3Vx9p4DEjQ
https://www.youtube.com/watch?v=SP12bEnzHbg
Organico: pianoforte
Composizione: 1796
Edizione: Artaria, Vienna, 1797
Dedica: Contessa Anna Luise Barbara Keglevics von Buzin
Guida all'ascolto 1 (nota 1)
Alla metà degli anni Novanta del 1700, il venticinquenne Beethoven era già un protagonista
della vita musicale viennese; le sue doti eccentriche di pianista e improvvisatore lo avevano
imposto presso le élites culturali della capitale; le lezioni di composizione prese da Haydn
erano state proficue più per il confronto con la personalità del vecchio autore che per gli esiti
strettamente compositivi, e forse il giovane allievo salutò con sollievo la partenza per Londra
del maestro nel 1794. Ad ogni modo non era certo un omaggio formale la dedica ad Haydn
delle prime Sonate per pianoforte composte da Beethoven, le tre Sonate op. 2. L'omaggio
infatti valeva a rivendicare una continuità stilistica con l'illustre predecessore; Haydn, però,
non era mai stato un pianista di professione, e le sue Sonate pianistiche erano principalmente
destinate al vasto mercato dei "dilettanti", i rampolli dei ceti alti per i quali la musica era parte
integrante del progetto formativo. Anche a questo si deve il carattere prevalentemente
decorativo ed intrattenitivo del pianismo haydniano.
Tuttavia un'enorme distanza separa le Sonate pianistiche di Haydn dalle prime composizioni di
Beethoven in questo genere. Le Sonate del giovane Beethoven infatti si contraddistinguevano
per due caratteristiche: la difficoltà tecnica, che ne precludeva a priori la diffusione presso i
dilettanti e ne indicava i veri destinatari in musicisti e intenditori, e l'impianto in quattro
movimenti, evitato sia da Haydn che da Mozart. Beethoven rendeva insomma la Sonata un
genere di grandi ambizioni, pienamente accostabile per dignità al Quartetto e alla Sinfonia, i
generi più illustri e complessi della civiltà del classicismo.
A distanza di un anno e mezzo dall'opera 2, nell'ottobre 1797, l'editore Artaria dava alle
stampe la Sonata in mi bemolle maggiore op. 7, da poco terminata. Isolata fra i due grandi
cicli dell'opera 2 e dell'opera 10, questa Sonata mira ad un potenziamento delle precedenti
esperienze, e si riallaccia in particolare, per il carattere, alla seconda Sonata del primo ciclo.
L'iniziale Allegro molto e con brio, in particolare, amplia ancora di più le prospettive della
costruzione, con una accumulazione di idee principali (gli accordi discendenti e la successione
di terzine per il primo tema, una sorta di Corale per il secondo) e secondarie, che è un tratto
peculiare degli anni giovanili del maestro, e che appare qui poco meno che pletorica. Di vaste
dimensioni sono soprattutto le sezioni di esposizione e riesposizione del materiale, in
confronto alle quali è quasi esiguo lo spazio dello sviluppo.
Il Largo, con gran espressione (in do maggiore) è una pagina solenne, con due sezioni esterne
che procedono in modo assorto e frammentario; queste incorniciano una sezione centrale (in la
bemolle) che sfrutta la stessa tecnica (accordi appoggiati sorretti dal basso staccato) dell'op. 2
n. 2.
Il Rondò finale, Poco allegretto e grazioso, è fra i più riusciti del suo genere, per il carattere
del refrain (lunga melodia discendente su pedale ribattuto di dominante) e il calibrato
impianto, che vede un solo couplet, il secondo, nettamente contrastante. C'è già, in questo
Rondò, quella perfetta costruzione che attribuisce a ogni riapparizione del refrain una sorta di
valore aggiunto, che non è dato solo dalle variazioni ornamentali, ma dalle differenti
strumentazioni del tema, protagonista di una sorta di "viaggio" espressivo ed emotivo; è questa
la tecnica che porterà, attraverso gli esiti più disparati, fino al Rondò della Sonata op. 90.
Arrigo Quattrocchi
Composta nel 1796 e pubblicata nel 1797, la Sonata in mi bemolle risale ai tempi della gaia
vita viennese. Beethoven è alloggiato dal principe Lichnowsky, ed è già l'idolo musicale
dell'aristocrazia, il primo Allegro prefigura, nel fluire gioioso delle immagini, alternato al
cantabile romantico della seconda idea. Il vigore fantastico della Waldstein-Sonate. Il Largo
cede alla retorica del cantabile, e la melodia dilaga oltre la forma strofica del Lied; riprende
fiato quando la cadenza parrebbe condurla al riposo. La espansione affettiva si concreta in una
scrittura pianistica a grandi contrasti dinamici, che si direbbe prefigurino i timbri
dell'orchestra. Il secondo Allegro è il primo modello compiuto di Scherzo beethoveniano. La
sezione principale ne presenta la caratteristica discorsività, il gioco di domande e risposte
articolato sulle cellule ritmiche elementari. Il Trio in minore, una sequenza di accordi spezzati
a terzine, funge da contrasto. Il Rondò rimanda agli incanti del giovane romantico, con un
ruggito nel couplet centrale in do minore, ed un colpo di genio nella introduzione della coda:
una ripresa oscura in si maggiore, che nel modulare al mi bemolle darà all'instaurarsi della
tonalità principale una ineffabile euforia. Secondo una tradizione che risale ai tempi di
Beethoven, la Sonata è definita «l'amorosa».
https://www.youtube.com/watch?v=jcg159OLJRQ
https://www.youtube.com/watch?v=5ChP0kMe1ig
https://www.youtube.com/watch?v=Y4NVOxTyp0M
Organico: pianoforte
Composizione: 1795 - 1798
Edizione: Eder, Vienna 1798
Dedica: Contessa Von Browne
Arrigo Quattrocchi
Op. 10 n. 2 1795
Sonata per pianoforte n. 6 in fa maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=wsgpxbBdBdg
https://www.youtube.com/watch?v=71MwShFN4H8
https://www.youtube.com/watch?v=3YPSZlOOwHI
Allegro
Allegretto (fa minore)
Presto
Organico: pianoforte
Composizione: 1795
Edizione: Eder, Vienna 1798
Dedica: Contessa Von Browne
Arrigo Quattrocchi
Virtuoso dell'aristocrazia viennese, Beethoven dedicò al pianoforte gran parte degli anni 1796-
98. Al 1797 risalgono le tre sonate op. 10. Pubblicate l'anno successivo, esse furono le prime
opere di Beethoven recensite con lode sulla «Allgemeine musikalische Zeitung», fatta salva la
riserva per la loro eccessiva originalità. Un estro dell'improvvisazione scorre nel primo
«Allegro» della Sonata in fa maggiore. Beethoven rinuncia al contrasto dialettico ed alterna
due temi romanticamente cantabili. Il posto dell'adagio è occupato da un «Allegretto» in fa
minore. La visione di danza di questo Scherzo con trio anticipa il periodo centrale della
produzione beethoveniana, e l'unisono della figurazione ascendente dell'apertura rammenta il
terzo tempo della V Sinfonia. Il «Presto» conclusivo, con la sua figurazione a note ribattute e
l'accenno fugato, applica un luogo caro al sonatismo settecentesco, qui travolto dal piglio
burbero del ribelle.
https://www.youtube.com/watch?v=SP12bEnzHbg
https://www.youtube.com/watch?v=aeF7N9nFmjQ
https://www.youtube.com/watch?v=mqKRdJMyMco
Presto
Largo e mesto (re minore)
Minuetto. Allegro
Rondò. Allegro
Organico: pianoforte
Composizione: 1795 - 1798
Edizione: Eder, Vienna 1798
Dedica: Contessa Von Browne
La contessa Browne, dedicataria delle Sonate, era moglie del conte Browne, un amico di
Beethoven al quale il Maestro, come scrisse egli stesso nella lettera dedicatoria, in francese,
dei Trii op. 9, doveva riconoscenza per la sua «munificence aussi délicate que libérale». Le
Sonate op. 10 furono pubblicate nel 1798, e vennero recensite in modo parzialmente
favorevole nell'"Allgemeine Musikalische Zeitung".
Il primo tempo della Sonata op. 10 n. 3, virtuosistico e brillantissimo, è come uno studio di
colori puri accostati, senza impasti. Basta analizzare, sotto il profilo della scrittura pianistica,
l'inizio: staccato nella prima semifrase, legato nella seconda, non legato nella prima parte della
seconda frase, staccato nella seconda, cantabile nel tema di collegamento. Beethoven,
giocando sulle contrapposizioni di colori, riscatta una serie di figurazioni virtuosistiche (scale,
arpeggi, progressioni ascendenti) tra le più sfruttate e le più viete. Il Reinecke trova una
divertente battuta di spirito per esprimere lo stupore della gente del mestiere che si trova di
fronte a frammenti usatissimi in un quadro originalissimo: «... dobbiamo ammettere che una
scala diatonica come è scritta da Beethoven è qualcosa di molto diverso dalla scala diatonica
che, tanto per dire, scriveva Czerny».
Il secondo tempo, il celebre Largo e mesto, è veramente una delle pagine in cui il doloroso
pathos beethoveniano tocca uno dei suoi culmini. Il Lenz, a sua volta, raggiunge il culmine
dell'orrore con il suo commento: «Leggere questo Largo è sollevare una pietra tombale».
Notiamo che nell'ultima parte della composizione, nell'immenso crescendo di sonorità e di
tensione emotiva, Beethoven affida un compito di ampia cantabilità a quella che ai suoi tempi
era la tessitura grave dello strumento: come se in orchestra avesse fatto cantare il contrabbasso
o il controfagotto. Tutto il Largo è un esempio di quelle qualità di suono legato sostenuto che
stupì i contemporanei di Beethoven. Czerny dice: «Nell'esecuzione di pezzi musicali di questo
genere non basta entrare nel loro vero spirito: anche le dita e le mani debbono trattare la
tastiera con diversa e maggiore pesantezza di quella che è necessaria nelle composizioni
sentimentali briose o dolci, per produrre quella espressiva qualità di suono che può
opportunatamente animare il lento movimento di un Adagio serio». La variazione della qualità
di suono può essere osservata da chiunque: sia il Largo che il Minuetto iniziano con temi
cantabili e con dinamica piano. Ma al piano del Minuetto Beethoven aggiunge un dolce che
costringe il pianista ad adottare la qualità del suono opportuna, come dice Czerny, alle
«composizioni sentimentali... dolci».
Del finale si è spesso detto che può dare un'idea delle improvvisazioni di Beethoven.
L'osservazione è dovuta, evidentemente, alle caratteristiche ritmiche del tema principale,
interrotto da silenzi e concluso da una piccola cadenza: il che può suggerire un atteggiamento
di ricerca, di raccolta delle idee. Ma non diremmo che ciò basti a conferire un carattere di
improvvisazione alla composizione. Ammesso che sia possibile farsi un'idea, dalla musica
scritta, di ciò che furono le improvvisazioni di Beethoven, ci pare che l'unico punto di
riferimento sicuro sia la Fantasia op. 77.
Le ultime pagine del finale della Sonata op. 10 n. 3 presentano una disposizione pianistica
assai geniale e ancora inconsueta al tempo di Beethoven: gli incisi tematici nel registro basso e
una ornamentazione leggerissima, una "coloratura" che spazia nei registri medio e acuto; e,
insieme, due suoni tenuti al grave, la cui intensità oscilla grazie al fenomeno fisico della
vibrazione simpatica.
Una piccola annotazione di Beethoven alla fine del Trio del Menuetto ha sollevato di recente
una questione "elegante": "Men. D.C. [Da Capo] ma senza replica". Alla fine del Trio del
Menuetto, nella Sonata op. 2 n. 1, trovavamo invece: "Menuetto D.C.". Il "ma senza replica"
compare per la prima volta nella Sonata op. 10 n. 3. Il suo significato immediato è evidente.
Ma che cosa significa, retrospettivamente? Che Beethoven innovava la tradizione, o che
ribadiva un uso corrente? La seconda ipotesi sembra a noi difficilmente dimostrabile. Se è vera
la prima, allora vuol dire che in tutte le precedenti indicazioni "D.C." la ripetizione del
Minuetto (o dello Scherzo) comporta la ripetizione anche del ritornello (la "replica").
L'equilibrio architettonico della forma risulta allora mutato, e la novità dell'op. 10 n. 3 risalta
con maggiore evidenza. Oggi si sta comunque affermando, da parte di certi direttori, l'uso di
ripetere i ritornelli nei "da capo" delle Sinfonie di Haydn e di Mozart. E sebbene la questione
sia ancora discussa ci sembra che la soluzione più radicale abbia ottime ragioni da far valere.
La Terza Sonata dell'opera 10 si differenzia dalle prime due per la sua impostazione di
"grande" Sonata da concerto; torna infatti alla struttura in quattro vasti movimenti; e, in questa
prospettiva, si tratta probabilmente del risultato più maturo conseguito da Beethoven fino
allora. Non manca tuttavia l'elemento più "leggero" e scherzoso, che si impone soprattutto nei
due movimenti estremi; le risorse più brillanti della tecnica pianistica - grandi passaggi in
ottave, arpeggi spezzati, accordi "martellati" - sono messe al servizio, nel Presto iniziale, di un
contenuto giocoso, che si avvale di una grande ricchezza e varietà interna; il tema principale -
un possente passaggio in ottave - serpeggia in frammenti per tutta l'esposizione, ed è anche
alla base dello sviluppo, che sfrutta la tecnica del salto di una mano, la sinistra, sopra l'altra,
nei diversi registri della tastiera.
Fulcro della composizione è però il tempo lento, il Largo e mesto che costituisce una delle
pagine di più intensa concentrazione espressiva in tutto il sonatismo di Beethoven; scritto nella
"tragica" tonalità di re minore, sfrutta la ricerca di timbri opachi (come quello iniziale, per la
scelta del registro medio-basso della tastiera), della semplicità di una melodia su basso
albertino, di improvvisi passaggi "singhiozzati" nel registro alto, di un fraseggio legato e di
improvvisi silenzi; il tutto tenuto insieme con la mirabile coerenza del disegno complessivo.
La tensione si stempera con il breve Menuetto (vi troviamo ancora i salti di registro nel Trio).
Il Finale è un Rondò che si riallaccia al tempo iniziale, e che "Stenta" ad avviarsi, con due
false partenze del refrain; coerentemente, è negata una conclusione ad effetto.
Arrigo Quattrocchi
Guida all'ascolto 3 (nota 3)
Roman Vlad
https://www.youtube.com/watch?v=CmLACbyXCOA
https://www.youtube.com/watch?v=5oB5OjGAa2Q
https://www.youtube.com/watch?v=a8XYrNrlBj4
https://www.youtube.com/watch?v=d9ftbVi28TU
Grave
Allegro di molto e con brio
Adagio cantabile (la bemolle maggiore)
Rondò. Allegro
Organico: pianoforte
Composizione: 1897 - 1898
Edizione: Eder, Vienna 1799
Dedica: Principe Lichnowsky
Composta negli anni 1798 e '99, quando Beethoven cominciava a temere per il suo udito, la
Sonata in do minore op. 13 «Patetica», fra le composizioni pianistiche del cosiddetto primo
periodo beethoveniano, è a un tempo il più fulgido esempio del focoso temperamento del
giovane compositore di Bonn e la più ricca di ambizioni sinfoniche. Temperamento e
ambizioni che inducono Beethoven a forzare i limiti naturali della tastiera e a piegarne la
materia sonora alle più urgenti necessità espressive.
L'indicazione dinamica prescritta per l'attacco a piene mani dell'accordo con cui si apre il
Grave introduttivo (fp, ovvero un forte che tosto si rapprende in un piano), apparentemente
ineseguibile sulla tastiera (eccezion fatta per l'ottimo Edwin Fischer), è in questo senso persino
emblematica, oltre a suggerire mirabilmente l'idea di un freno, di una repressione gravante su
uno slancio che vorrebbe erompere. L'inciso iniziale, tre volte ripetuto, su cui si basa tutta
l'introduzione, col suo ritmo doppiamente puntato e la configurazione a ventaglio,
contemporaneamente ascendente (mano destra) e discendente (mano sinistra), sembra
faticosamente anelare la chiara luce del giorno attraverso torturate appoggiature cromatiche e i
più violenti contrasti dinamici, per gettarsi alla fine nella corsa senza freni dell'Allegro di
molto e con brio, dove l'atmosfera tesa e carica di minacciosi presagi dell'introduzione si
scarica con possente veemenza. Un tremolo quasi da timpano alla mano sinistra sostiene il
primo tema dell'Esposizione, che si inerpica per tre ottave sui gradi di una scala minore
alterata, per quindi ricadere con una serie discendente di accordi contro il movimento
ascendente del basso. Al carattere vigoroso del primo tema si contrappone la cantabilità del
secondo, che suona in mi bemolle minore come una amplificazione melodica del Grave
introduttivo. Una serie di tre codette porta quindi a conclusione la sezione espositiva,
dapprima in do minore per il ritornello, quindi in sol minore per collegarsi allo Sviluppo, dove
la prima frase dell'introduzione torna a far sentire la sua voce, aprendo uno squarcio di pensosa
gravità nella mossa vivacità dell'Allegro. Luogo dell'instabilità in cui tutto viene rimesso in
gioco ricevendone una spinta in avanti, lo Sviluppo combina il primo tema con la cantabilità
implorante della seconda frase dell'introduzione. La Ripresa si svolge quindi regolarmente,
arrestandosi su un fortissimo accordo di settima diminuita. Le prime quattro battute del Grave
introduttivo irrompono allora per l'ultima volta sulla scena, se possibile con un carattere ancor
più drammatico, l'inciso risultando privo dell'accordo iniziale. Con un estremo anelito di lotta,
il primo tema chiude infine l'Allegro con un gesto energicamente perentorio.
L'Adagio cantabile succede quindi all'Allegro come le prime luci dell'aurora a un temporale
notturno, dispiegando una intensa melodia dal carattere squisitamente vocale i cui puntuali
ritorni opportunamente variati (l'Adagio è in forma di rondò) riescono ogni volta rassicuranti.
Il terzo movimento è un Rondò dal rigido contrappunto a due voci che, grazioso nelle
proporzioni settecentesche e nell'incanto della melodia, smorza tuttavia la bellicosità
dell'Allegro iniziale, risultando perciò inferiore all'altezza spirituale e alla qualità inventiva
delle altre parti della Sonata.
Andrea Schenardi
Nessun dubbio che, nel frenetico lavoro di sperimentazione sulle sonorità e sulle forme
pianistiche compiuto da Beethoven negli ultimi anni del secolo, la Sonata in do minore op.13 -
composta nel 1798-99 e pubblicata da Eder nell'autunno 1799 - costituisca una vera pietra
miliare; essa dischiude inedite e profonde prospettive alla ricerca dell'autore. Vi troviamo
innanzitutto la prima manifestazione matura di quello che è un nuovo orientamento sulla
concezione del genere della»Sonata; l'opera 13 è infatti in soli tre movimenti; ma, a differenza
di altri precedenti esempi di Sonate tripartite - ovvero le prime due Sonate dell'opera 10 - in
questo caso l'abolizione del Minuetto/Scherzo non avviene per ottenere un lavoro di
dimensioni contenute, ma per donare una maggiore coerenza e coesione a un lavoro di vaste
proporzioni. La Sonata tende dunque a qualificarsi sempre più come un tutto organico, ad
acquisire un profilo personale e inconfondibile. Nel caso dell'opera 13 a definire questo profilo
c'è anche un nomignolo, per una volta non apocrifo ma voluto dallo stesso autore: "Patetica",
termine che allude alla categoria del pathos come tensione tragica, così come era stato
descritto da Schiller in alcuni saggi del 1792-93. È appunto questa tensione tragica la
protagonista della Sonata, manifestata nel movimento iniziale secondo differenti procedimenti;
vi è innanzitutto una introduzione lenta, un Grave di undici battute caratterizzato dal timbro
scuro del registro medio-grave della tastiera, dal ritmo giambico, ripreso da appassionate
perorazioni in ottava; questa introduzione subisce una singolare vicissitudine strutturale;
riappare cioè, in forma abbreviata, nel corso del movimento. L'Allegro di molto e con brio che
succede senza soluzione di continuità rappresenta l'esplosione del conflitto già prefigurato (il
tema iniziale infatti deriva da quello delll' introduzione); la contrapposizione fra temi, già
peculiare di altre Sonate, acquista qui un preciso senso, quello del conflitto fra due opposti
principi, descritti di Schindler - il fedele amico e confidente degli ultimi anni del maestro -
come il principio che prega ("das bittende") e quello che contrasta ("das widerstre bende"); qui
esposti peraltro in ordine inverso. Ma verso la tensione tragica convergono anche tutte le
"tecniche" messe il campo dall'autore: il tremolo del basso nel primo tema, il brusco salto di
registri della mano destra nel secondo tema e le continue modulazioni di questo, la
contrapposizione serrata dei due temi nello sviluppo, la fulminea conclusioni dopo una ultima
riapparizione del Grave iniziale.
Di fronte a tanta temperie, più dimessi appaiono gli altri due movimenti. L'Adagio cantabile è
una pausa contemplativa, avviata da una tornita e serena frase melodica, con una plastica
successione dei diversi periodi e una strumentazione finissima. Il Rondò torna
all'ambientazione del primo movimento con una "corsa tragica" scandita dalle incalzanti
riapparizioni del refrain; l'idea fissa del tema principale acquista dunque un carattere
ineluttabile, secondo una prospettiva che Beethoven saprà poi magistralmente sviluppare in
molti altri lavori cameristici e sinfonici.
Arrigo Quattrocchi
Pubblicata nel 1799, e composta due anni prima a Vienna, l'op. 13 ricevette dallo stesso autore
il titolo di «patetica». E' l'opera che schiude definitivamente il pianismo al «pathos»,
abbandonando i vecchi amori galanti ed il loro «jeu perlé». La «patetica» fece addirittura
colpo sui contemporanei. Come ci addita, fra l'altro, la seguente testimonianza di Ignaz
Moscheles, riportata nei suoi Ricordi: «Appresi dai miei compagni di corso che a Vienna era
giunto un giovane compositore di nome Beethoven. Questi rendeva nella propria musica le più
singolari esperienze della vita, tanto che nessuno era in grado di comprenderle o di suonarle:
Una musica barocca, irriducibile entro le regole. Andai allora alla biblioteca pubblica per
soddisfare la curiosità destata dall'eccentrico genio, e vi trovai la sonata 'patetica'... La novità
del suo stile mi parve tanto cattivante, e fui preso da una tale ammirazione per essa, che non
potei trattenermi dal parlare della nuova conquista al mio maestro. Questi mi mise in guardia
dallo studio e dalla esecuzione di opere eccentriche prima che il mio stile si fosse rafforzato su
solide basi. Non disdegnai il suo consiglio, ma non potei fare a meno di mettere sul leggìo le
opere di Beethoven man mano che uscivano, e vi ho trovato un conforto ed una soddisfazione
quale non mi è stata concessa da nessun altro compositore».
Il «grave» introduttivo, quasi in stile recitativo, cadenza nell'«allegro molto e con brio»,
dominato dai tremoli della sinistra, sui quali si leva il tema ascendente lungo due ottave.
L'agogica serrata non si allenta neppure per il secondo tema, ed è interrotta soltanto da due
ritorni del «grave» iniziale.
L'«adagio» in forma di «Lied» si affida alla effusione di una nobile melodia baritonale. Il
«rondò» conclusivo riconduce all'irrequietezza affettiva del primo tempo.
Op. 14 n. 1 1798
Sonata per pianoforte n. 9 in mi maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=LU1xVvgdfg0
https://www.youtube.com/watch?v=-cIVrlAl9FI
https://www.youtube.com/watch?v=1oNd38qBq7Y
Allegro
Allegretto (mi minore)
Rondò. Allegro comodo
Organico: pianoforte
Composizione: 1798
Edizione: Mollo, Vienna 1799
Dedica: Contessa Von Browne
Benché trattate con sufficienza dai compilatori dei «cataloghi ragionati» delle opere
beethoveniane e trascurate, per la loro relativa facilità, dai concertisti, ad un alto livello stanno
le due «piccole» Sonate op. 14, pubblicate nel 1799. Beethoven stesso dovette tenerle in gran
conto, se in una pagina dei quaderni di conversazione del 1823 si dilunga a illustrarne la
struttura e le caratteristiche stilistiche ed espressive a Schindler, richiamando l'attenzione di
questi suoi «due principi» (ossia, il «principio d'opposizione» e il «principio implorante»)
presenti nell'op. 14, come «nella parte centrale [del primo tempo] della Patetica». Per facilitare
la comprensione di tali concetti che, a quanto pare, riuscivano ardui non soltanto a Schindler
(«Migliaia di persone non lì afferrano affatto», dice infatti, quasi per scusarsi della sua poca
perspicacia, il famulus del maestro), Beethoven era ricorso come già per il Largo dell'op. 10 n.
3, ad una immagine di efficace immediatezza, paragonando le due Sonate a «un dialogo tra un
uomo e una donna, tra un amante e la sua amica». E in realtà, nei primi movimenti delle due
Sonate op. 14, la dialettica tra i due temi fondamentali, se può sembrare meno appariscente,
proprio per questo risulta più sottile e approfondita.
Ciò è vero soprattutto per la prima di esse, in mi maggiore, nel cui Allegro le idee sbocciano
(spontaneamente l'una dall'altra in un clima di ininterrotto incanto melodico e di raccolta
intimità cameristica e il cui soave Allegretto centrale, in mi minore, con la consolante carezza
del Trio in do maggiore, sembra presagire Schubert. Altro elemento preschubertiano di
quest'opera, sotto molti aspetti unica, è l'assenza, nel primo tempo, di un vero sviluppo
sostituito da un episodio lirico a sé stante e privo di qualsiasi relazione tematica col resto del
brano.
Op. 14 n. 2 1798
Sonata per pianoforte n. 10 in sol maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=25BCBH9tNaw
https://www.youtube.com/watch?v=-QWybCUaGRY
https://www.youtube.com/watch?v=fQqNsTUvqCY
Allegro
Andante (do maggiore)
Scherzo. Allegro assai
Organico: pianoforte
Composizione: 1798
Edizione: Mollo, Vienna 1798
Dedica: Baronessa J. Von Braun
La seconda Sonata della coppia Op. 14 nasce nel 1798. Non essendo stato facile inquadrarla
con precisione, ci si è avvalsi dell'annuncio di pubblicazione della Sonata (apparso
sull'«Allgemeine Musikalische Zeitung» del 21 dicembre 1798) per avere conferma della sua
collocazione all'interno di quell'anno.
Le due Sonate Op. 14 sono assolutamente ragguardevoli nonostante il tiepido consenso critico
raccolto nei secoli. Piacevoli, intelligenti, accattivanti pur nella loro personalità «sui generis»
(contrasto sottolineato soprattutto dalla vicinanza fisica con un «mostro» come la Patetica e
dalla reciproca lontananza emotiva) costituiscono un vero momento di distensione dopo la
traboccante passione delle opere pianistiche alle spalle.
Anche questa seconda Sonata privilegia un canto ininterrotto, senza cesure, senza asperità,
uniformemente colorato, che trascende l'impegnata caratterizzazione dialettica dei due
«principi». Eppure la vecchia critica - persino in un caso inoffensivo come questo - ha insistito
sul dualismo dei «principi», giungendo a inventare la orripilante similitudine dei «due
amanti», del tutto simile alla sceneggiatura di un film rosa (Primo tempo: contrasto degli
amanti - Secondo tempo: dominio della ragione - Terzo tempo: fusione pacificatrice del
capriccio con la ragione!).
In questo lavoro, come già nell'Op. 14 n. 1,la struttura formale presenta alcune alterazioni:
assente un tempo lento, assente un Minuetto e presente uno Scherzo in posizione di chiusura.
Di questa Sonata non si dimentica il carattere del primo Allegro, cosi misterioso ed esitante
(grande il fascino, secondo Carli Ballola, degli incipit non rigidamente tematici); il curioso
andamento di danza del borbottante movimento centrale; e l'alternanza di ritmi di differente
lunghezza nel Finale, quella geniale trovata che conferisce alla pagina il suo irriproducibile
profilo serpeggiante, ai limiti del grottesco.
https://www.youtube.com/watch?v=qXnZu_yHd2g
https://www.youtube.com/watch?v=FXi7SFmLVfQ
Organico: pianoforte
Composizione: 1799 - 1800
Edizione: Hoffmeister, Lipsia 1802
Dedica: Conte von Browne-Camus
Beethoven fu soprattutto e innanzitutto un grande pianista e nel corpus delle sue 138
composizioni numerate le trentadue sonate per pianoforte occupano una posizione importante
per capire le caratteristiche dell'artista. Esaminando questa formidabile costruzione di suoni
costituita dalle sonate pianistiche, e in base anche ad alcune testimonianze dei contemporanei,
è possibile rendersi conto di alcuni aspetti fondamentali della tecnica pianistica beethoveniana
nell'ambito della forma della sonata classica, anche se sensibilmente modificata nella sua
struttura architettonica. Ciò che colpisce subito del suo pianismo è la grandiosità e robustezza
di suono, quale non si era avvertita prima in altri autori, a cominciare da Haydn e Mozart. Poi
va messa in evidenza la dialettica fra il piano e il forte in una stretta connessione di schiarite
melodiche e di impennate ritmiche, insieme alla tensione espressiva raggiunta attraverso lo
studio attento della frase nel cantabile e nel legato e infine l'uso originale del pedale di
risonanza, così da raggiungere spesso effetti di straordinaria purezza psicologica nel gioco
dinamico delle sonorità. Ad esempio, proprio sull'uso del pedale di risonanza si possono citare
alcuni esempi significativi. Il primo movimento della Sonata "Al chiaro di luna" reca questa
semplice indicazione: «Si deve suonare questo pezzo delicatissimamente e senza sordino»,
cioè con il pedale di risonanza abbassato per imprimere all'Adagio sostenuto un particolare
timbro su cui si staccano i vari accenti del tema. E ancora. Nella Sonata op. 31 n. 2, il primo
Allegro è spezzato tre volte da un episodio in tempo Largo: sull'ultimo si ascoltano due
recitativi di sei battute, per i quali l'autore indica che il pedale di risonanza deve restare
abbassato. L'effetto è quanto mai poetico, in quanto dal recitativo si sprigiona un suono
proveniente da molto lontano.
***
Composta nel 1800, all'apice della carriera concertistica di Beethoven, la Sonata op. 22 riflette
la gioia di vivere del giovane romantico. Il primo tempo rifulge di invenzione virtuosistica, in
un continuo rinnovarsi di felicità cantabile. La prima idea impostata, come sovente in
Beethoven, sull'arpeggio ascendente di tonica, stabilisce lo spirito dionisiaco del pezzo, ed
anche il secondo tema, anziché propendere al lirico, tocca diverse corde del canto a fanfara.
L'adagio in mi bemolle maggiore conta fra i tempi lenti più sereni di Beethoven. Lasciate da
canto le corde patetiche, la melodia si distende nel lirismo sinuoso, anticipando gli incanti dei
futuri notturni romantici. Un capriccioso minuetto è posto in antitesi ad un trio, scandito
robustamente sulle quartine del basso. Il Rondò si intona alla serenità campestre del primo
Beethoven: una linea cantabile delicatamente ornata, sulla più semplice struttura armonica,
inframezzata da couplets scanditi, e di piglio virtuosistico. E' la linea dell'affabilità
beethoveniana, quella che culmina nel rondò dell'op. 90.
G. Lanza Tomasi
Nell'ambito delle trentadue Sonate per pianoforte di Beethoven, l'op. 22, composta fra il 1799
e il 1800, è da considerarsi come la pagina conclusiva di un primo grande capitolo, che aveva
veduto, inaugurando una sorta di politica di equilibri destinata a ricomparire spesso nel
prosieguo dell'esperienza artistica di Beethoven, l'affermarsi di rotture laceranti con il passato
(e con lo stesso presente, considerando quel che offriva la piazza al momento), com'era stato
con la Patetica (1798-99), e al tempo stesso il recupero di dimensioni espressive più tranquille,
come nelle due Sonate dell'op. 14, scritte in quello stesso periodo. A questo secondo aspetto, in
un certo senso, sembra ricollegarsi l'op. 22, con la quale Beethoven si congedò dal Settecento,
prima di avviare, con la Sonata op. 26, la serie delle Sonate della seconda maniera,
caratterizzata dalle più sconvolgenti avventure formali e dalla sublimata perfezione costruttiva
che via via sarebbe nata sulle macerie degli schemi e dei moduli linguistici ereditati dalla
tradizione e travolti dalla violenza individualistica di un pensiero formale e di un impeto
espressivo nuovissimi, e destinata a concludersi nel 1814, con la Sonata op. 90. A questa fase
centrale della creatività beethoveniana l'op. 22 sembra guardare abbastanza poco, meno
comunque che non le tre Sonate dell'op. 10, composte fra il '96 e il '98, e della stessa op. 7
('96-97), per non parlare della Patetica, e almeno esteriormente appare lontana di molto dalla
rivoluzionaria op. 26, che pure fu creata, si può dire, di seguito (1800-1801); e anche uscendo
dal campo delle Sonate pianistiche, è indubbio che in quei medesimi anni Beethoven stava
spingendosi verso il futuro con maggior decisione di quanto non riveli questa pagina:
basterebbe pensare alla Prima sinfonia, al ciclo dei sei Quartetti op. 18, al terzo Concerto per
pianoforte, completati appunto all'alba del nuovo secolo. D'altro canto, è impossibile
ricondurla al settecentismo, del resto più epidermico che sostanziale, di un lavoro come il
Settimino op. 20, dove il prorompere vitalistico della densa e robusta musicalità del primo
Beethoven parve, nel 1799, volersi cacciare a forza in schemi e modi di dire di un haydnismo
di riporto. Se il Settimino infatti lascia una curiosa impressione, come se un bel pezzo di
giovanotto avesse voluto infilarsi un abito di due o tre taglie inferiore alla sua, con il risultato
di far saltare tutte le cuciture, e mantenendo con le buone o con le cattive la necessaria libertà
di movimenti, nella Sonata op. 22 un siffatto squilibrio fra la sostanza compositiva e le forme e
i linguaggi in cui essa era calata non sembra certo verificarsi.
Non si può non riconoscere che la Sonata op. 22 rappresenta, com'è stato detto, un passo
indietro rispetto alle sorelle più progressive di questo primo periodo. È però altrettanto vero
che questo passo non avviene in direzione «viennese», ossia ritornando alla quieta dimensione
strumentale delle «piccole» Sonate settecentesche, bensì verso quel virtuosismo (per i tempi
alquanto spinto) che anche altrove Beethoven aveva raccolto dal pianismo di Muzio Clementi,
per superarlo presto nelle accensioni della Patetica o nell'introspezione dolorosa dell'op. 10 n.
3. L'op. 22 riesce così una «Grande Sonata» da concerto, non esente da una certa politezza
neoclassica, ricca di spunti virtuosistici e deliberatamente provvista di effetti per consentire
all'esecutore di far buona figura: tutti connotati che tendono a conferirle una fisionomia certo
meno «beethoveniana» di altre opere di questo periodo. Ma da qui a farne un'opera minore ci
corre: se l'impegno formale è qui meno incisivo che altrove, se l'approfondimento espressivo è
relativamente contenuto, se non mancano, come s'è detto, concessioni vistose a una
dimensione abbastanza esteriore del concertismo, resta il fatto che la Sonata op. 22 realizza
una profonda coerenza stilistica e di contenuti, e che la tecnica compositiva di Beethoven (che
prima di questa aveva già al suo attivo altre dieci Sonate, quasi tutte di grande peso) appare in
essa in tutta la sua splendida maturità; e il suo assunto poetico è nutrito di una tale
consapevolezza che anche questa evidente escursione in terreni non esattamente consoni alla
più autentica ispirazione beethoveniana avviene sotto il segno di una dignità e di una «serietà»
tutt'altro che epidermiche.
Il primo tema dell'Allegro con brio sembra proporre la Sonata come una pagina brillante e
gradevole: il motto iniziale, ripetuto due volte, si trasforma in una scalata in crescendo
sfociando in un motivo cantabile, che scorre sopra un accompagnamento sterotipato in accordi
sciolti; il moderato virtuosismo di questo primo gruppo tematico è interrotto dall'entrata del
secondo tema, più robusto nella sua struttura accordale, ma ritorna nelle ornamentazioni della
parte conclusiva dell'esposizione, le «codette». Da queste e da elementi del primo tema è
ricavato il materiale che dà origine allo sviluppo, che sfoggia ancora una volta modi di dire
tipici del pianismo clementino, mantenendo peraltro una densità compositiva assai
approfondita: la ripresa è annunciata da una sospensione sulla dominante, e si svolge senza
riserbare sorprese. L'Adagio è anch'esso in forma di sonata: il primo tema, di un patetismo
amabile e contenuto, è presto fiorito di colorature quasi belcantistiche; il secondo è di carattere
sostanzialmente affine, e si scioglie anch'esso in eleganti arabeschi ornamentali («la mano
destra», nota Carli Ballola, «gareggia in virtuosità con l'ugola di una primadonna in una
cavatina all'italiana». Segue un breve sviluppo, basato su trasposizioni e fioriture del primo
tema, poi la ripresa, ulteriormente arricchita di colorature. Il terzo tempo è un vero e proprio
Minuetto: della forma settecentesca già abbondantemente sepolta proprio nelle prime Sonate
pianistiche di Beethoven non resta qui solo il nome, come in certe Sonate precedenti:
l'andamento ritmico del motivo principale, sostenuto dai movimenti convenzionali del basso,
ricorda senz'altro gli esempi più scontati di questa danza; a cambiare le cose interviene però il
Trio, in minore, assai più intenso, con le sue scorrevoli quartine di sedicesimi.
Dichiaratamente virtuosistica la scrittura del Rondò, dove il tema principale, di carattere
amabile e brillante, si alterna a episodi di sicuro effetto, con passaggi di ottave, svolazzi di
arpeggi, rapide fioriture in ambedue le mani: una costruzione ampia e di solida fattura, degno
coronamento di una Konzertsonate in piena regola.
Daniele Spini
https://www.youtube.com/watch?v=1JM1dw6BfPs
https://www.youtube.com/watch?v=X7umc3LgHr8
Organico: pianoforte
Composizione: 1800 - 1801
Edizione: Cappi, Vienna 1802
Dedica: Principe Lichnowski
È negli ultimi sei anni del XVIII secolo - 1794-1800 - che Ludwig van Beethoven scrive in
rapida successione le prime tredici Sonate djel suo catalogo pianistico; una produzione che
attribuisce al genere della Sonata - destinato all'epoca prevalentemente alla pubblicazione per
un'utenza di "dilettanti" - una complessità di struttura e una altezza di contenuti ideali fino
allora ignote. Il pianoforte è per Beethoven - giunto a Vienna per imporsi come pianista
militante, con uno stile fortemente eccentrico - il mezzo ideale per sperimentare il proprio
linguaggio, il proprio pensiero; la Sonata è la forma ideale per questa sperimentazione. In
questa prospettiva, la Sonata op. 26, terminata nel 1801 e pubblicata da Cappi nel marzo 1802,
inaugura una nuova fase creativa, che comprende una splendida fioritura di sette Sonate nel
ristretto volgere di appena due anni. In questi lavori l'attenzione dell'autore è rivolta soprattutto
alla forma complessiva della Sonata, che viene di volta in volta appositamente definita, in
modo da precisare ancor più l'individualità di ogni brano e di evitare un eccessivo
sbilanciamento dell'equilibrio verso il tempo iniziale (come era stato, ad esempio, nella Sonata
op.13 "Patetica"). È quanto avviene appunto per l'op. 26, che si avvale di un impianto in
quattro movimenti ma rivoluziona i rapporti fra i movimenti stessi, stabilendo come fulcro il
tempo lento, una Marcia Funebre che contrasta con il contenuto quasi disimpegnato degli altri
movimenti. Nessun tempo adotta inoltre la forma sonata e la successione (Tema con
variazioni, Scherzo, Marcia funebre, Rondò) è eccentrica rispetto agli schemi dell'eredità
classica.
La melodia che apre il Tema con variazioni viene variata cinque volte; la prima variazione
vede l'inserimento di un arpeggio, la seconda la scomposizione del tema, staccato e martellato
in contrattempo; la terza, in minore, si basa su un lungo sincopato: la quarta torna al maggiore;
ridotta all'essenziale la melodia viene esposta in ritardi armonici dalla destra, sugli staccati
della sinistra; nella quinta Variazione il tema viene npresentato testualmente ma con l'aggiunta
di una voce fiorita, superiore o interna; la conclusione è dimessa. Lo Scherzo è animato da uno
slancio entusiastico, non turbato dalla sezione del Trio. La Marcia funebre sulla morte d'un
Eroe è, come si è detto, il fulcro dell'intera Sonata; il tipico ritmo incalzante della Marcia
Funebre viene sottratto alla ufficialità celebrativa, e proiettato verso emozioni più alte, con una
solennità che è dovuta alla inconsueta tonalità di la bemolle minore, al colore corrusco del
registro medio-grave della tastiera (con le solide ottave della mano sinistra che mettono in
vibrazione tutti gli armonici), alle peregrinazioni tonali che sottraggono ovvietà al fluire del
discorso; la breve sezione centrale alterna frementi tremoli a icastici martellati. Il Finale è un
breve Rondò, segnato da un carattere leggero e toccatistico.
Arrigo Quattrocchi
La Sonata in la bemolle maggiore per pianoforte n. 12 op. 26 di Ludwig van Beethoven inizia
con una serie di variazioni, rompendo i criteri classici dell'unità della forma per privilegiare
piuttosto l'aspetto dell'espressione, della pittura di un clima interiore che percorrerà poi tutto il
brano. Dedicata al principe Carl von Lichnowsky, primo e più fedele sostenitore del
compositore a Vienna, scritta fra il 1800 e il 1801, la Sonata op. 26 viene di solito riferita al
cosiddetto "primo" periodo beethoveniano, nel quale rientrerebbe sia per la struttura in quattro
tempi, meno frequente nelle opere successive, sia per la relativa regolarità della costruzione.
Rispetto ad altri lavori che rientrano nella medesima suddivisione, tuttavia, la Sonata op. 26
possiede un centro emotivo più definito, articolato attorno al celebre terzo movimento, la
Marcia funebre sulla morte d'un Eroe. Anche in questo passaggio Beethoven adotta un
procedimento affine alla variazione su un tema, tanto da rendere questo movimento il
contrappeso del primo e, proprio per questo, l'elemento capace di trasformare l'apparente
formalismo dell'inizio in una strategia retorica che procede per tinte fortemente contrastanti,
senza ricercare ancora la possibilità di una sintesi tra i principi in conflitto. Seguendo questa
lettura, si vede come al tempo di apertura, la cui compostezza ha ancora in sé qualcosa di
monumentale, segua uno Scherzo ironico e irriverente, come se Beethoven avesse voluto
mostrare nella stessa sostanza la possibilità di un compito grandioso e l'autoconsapevolezza di
una forza iconoclasta. La rigidità della Marcia funebre si scioglie d'altra parte nel fiabesco
romanticismo del finale, cui non manca neppure il disincanto di accenti genuinamente
mozartiani.
Stefano Catucci
https://www.youtube.com/watch?v=DMvN6uLKcUs
https://www.youtube.com/watch?v=H4j7wQ8Ksw0
Andante
Allegro molto e vivace (do minore)
Adagio con espressione (la bemolle maggiore)
Allegro vivace
Organico: pianoforte
Composizione: 1800 - 1801
Edizione: Cappi, Vienna 1802
Dedica: Principessa von Liechtenstein
La Sonata op. 26 e le due Sonate op. 27, composte fra il 1800 e il 1801, appartengono al
momento in cui Beethoven esce dagli schemi consueti per sperimentare forme nuove di
organizzazione della Sonata. Lo shock che questa avventura poteva rappresentare per il
pubblico era tale da indurre Beethoven a intitolare Sonata quasi una fantasia l'op. 27 n. 1 e la
sua sorellina, l'op. 27 n. 2. Il titolo insolito si addice in verità più alla prima che alla seconda
delle due Sonate. Nell'op. 27 n. 2 manca in pratica il tradizionale primo movimento in tempo
mosso, ma i tre movimenti restanti sono normali e indipendenti.
Il secondo intermezzo, più ampio e in una tonalità inattesa, irrompe come una ventata d'aria
impetuosa, interrompendo l'andamento un po' cantilenante del tema principale. Seguono
un'altra variazione ed una brevissima coda. Il secondo movimento è uno Scherzo, misterioso,
sfuggente, con il suo bravo "Trio", la parte di mezzo, bizzarro ed umoristico.
Il terzo movimento, lento e molto ornato, serve da introduzione al finale e verrà ripreso prima
della conclusione.
Piero Rattalino
Con le due Sonate pubblicate nel 1803 come op. 27, Beethoven sente giunto il momento di
sfidare dichiaratamente il dogma della Forma-sonata, ereditato dai grandi predecessori e sino
ad allora ottemperato fedelmente, nonostante le formidabili innovazioni operate all'interno di
esso. Ora però il musicista non si perita di sconfinare dai suoi schemi formali per esplorare, al
di là di questi, altre dimensioni compositive e saggiarne le peculiarità espressive. Fa pertanto
seguire alle due Sonate eterodosse l'indicazione "quasi una fantasia", a giustificarne lo spirito
di libertà che le informa: uno spirito che sottraendosi in parte alle leggi della tradizione mira
pur sempre a costituire dei valori formali rigenerati nell'ambito di una nuova razionalità
costruttiva. Questa tensione sperimentalistica tocca l'acme nella prima delle due Sonate, quella
in mi bemolle maggiore, non accidentalmente tra le meno eseguite del repertorio
beethoveniano. Si tratta, infatti, della meno tipica tra le trentadue sorelle, nel suo eccezionale
frazionamento di tempi, che non va interpretato come soluzione anticipatrice di un
frammentismo lirico di stampo romantico. A parte precisi riferimenti a movimenti sonatistici,
quali l'"Allegro molto e vivace" in do minore, con evidenti caratteri di Scherzo, e il successivo
"Adagio con espressione", palese è lo sforzo di coordinare il fitto susseguirsi di immagini in
un ampio ed organico quadro formale, mediante richiami tematici, riprese di motivi e di ritmi,
raccordi armonici e tonali.
Op. 27 n. 2 1801
Sonata per pianoforte n. 14 in do diesis minore "Al chiaro di luna"
https://www.youtube.com/watch?v=6XUKtdMRR-M
https://www.youtube.com/watch?v=aqaHP0FcJsU
https://www.youtube.com/watch?v=jjhC80M4ScE
https://www.youtube.com/watch?v=1mH-qwWcyc4
Adagio sostenuto
Allegretto (re bemolle maggiore)
Presto agitato
Organico: pianoforte
Composizione: 1801
Edizione: Cappi, Vienna 1802
Dedica: contessa Giulietta Guicciardi
Nel 1802, a Vienna, Beethoven dà alle stampe cinque nuove Sonate per pianoforte: le opere
22, 26, 27 n. 1 e 2, 28. Mentre la prima e l'ultima si strutturano ancora secondo gli schemi
formali tradizionali, le altre Sonate se ne affrancano, manifestando una ricerca di novità che si
fa addirittura esplicita nel titolo che accomuna le due dell'op. 27: «Sonata quasi una fantasia».
Ma se ancora l'op. 27 n. 1 in mi bemolle maggiore coniuga l'eccezionale frantumazione
agogica con un geniale ripensamento del passato, recuperando nella moderna dimensione
pianistica anche certi tratti stilistici e persino tecnici che erano stati del clavicembalo e del
clavicordo, la Sonata in do diesis minore op. 27 n. 2 «Chiaro di luna», nella inconsueta
disposizione dei suoi movimenti, celebra invece il pianoforte - ha scritto nel 1802 la
Allgemeine Musikalische Zeitung - «in ciò ch'esso ha di eccellente e di suo particolare». E in
effetti non solo la Sonata inizia con un Adagio sostenuto, ma si apre con una indicazione
rivelatrice del modo nuovo di pensare il suono del pianoforte. Quando Beethoven scrive «si
deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente e senza sordino», non dice semplicemente
che il pezzo va suonato facendo uso del pedale di risonanza, ma anche che l'uso del pedale
deve combinarsi con un certo modo di attaccare il tasto. La scelta, rarissima in Beethoven,
della tonalità di do diesis minore, la posizione manuale eterodossa (pollice e mignolo sui tasti
neri), la stessa particolare disposizione delle idee musicali che favorisce il rafforzamento di
certe risonanze armoniche interne e la felicissima invenzione melodica condotta secondo
libere asimmetrie, ancora una volta assai rare in Beethoven, fanno del Chiaro di luna un'opera
di tale novità da giustificarne l'enorme fortuna presso il pubblico e da spiegarne, in ragione
della eccezionaiità della concezione, la sua deformazione postuma in chiave di estenuato
sentimentalismo. Del primo movimento della Sonata e della sua peculiare sonorità pianistica,
Hector Berlioz fa cenno in un articolo del 1837 poi raccolto in A travers chants: «La mano
sinistra dispiega dolcemente larghi accordi di un carattere solennemente triste, la cui durata
consente alle vibrazioni del pianoforte di spegnersi gradualmente su ognuno di loro; sopra, le
dita inferiori della mano destra eseguono un disegno arpeggiato di accompagnamento ostinato
la cui forma quasi non muta dalla prima all'ultima battuta, mentre le altre dita fanno sentire
una specie di lamento, efflorescenza melodica di questa oscura armonia». Il gentile ritmo
ternario dell'Adagio trova il suo naturale respiro cantabile all'interno d'una semplice forma
tripartita, A - B - A', in cui la sezione centrale, variando il movimento delle terzine di crome
dell'accompagnamento, suona come un delicato svolgimento modulante della sezione
principale. La ripresa del tema avviene all'insegna di impercettibili mutamenti di luce e di una
lieve intensificazione dell'espressione, mentre la breve coda conclusiva insiste sull'inciso
iniziale della melodia eseguito al basso a guisa di un pedale da cui si stacca e su cui ricade per
due volte il movimento delle terzine, così come si era ascoltato nell'episodio centrale.
Definito una volta da Liszt «un fiore fra due abissi», l'Allegretto in re bemolle maggiore ha le
dimensioni e il carattere espressivo rasserenato di un intermezzo che, con la grazia danzante
del suo tema e la simmetria della forma, sembra rievocare certo stile galante del Settecento.
Sulla fragilità crepuscolare dell'Allegretto sì abbatte invece con inaudita violenza l'impetuoso
dilagare del Presto agitato conclusivo, in cui quanto di represso era nei tempi precedenti, e
nell'Adagio sostenuto in ispecie, sembra erompere con un empito di rabbiosa energia.
Costruito in forma-sonata, il Presto agitato si basa su due temi di carattere fra loro
contrastante. Al primo tema in do diesis minore - un energico arpeggio che sale fino a
schiantarsi su un accordo violentemente ribattuto - segue (sempre in modo minore) un secondo
tema dal profilo ansiosamente incalzante. Tre codette portano dapprima alla ripetizione
letterale dell'Esposizione, quindi allo Sviluppo, nel quale entrambi i temi vengono ripresentati
e opportunamente trasfigurati. Nella Ripresa Beethoven, fra il prolungamento del primo tema
e la ripresa del secondo, omette la ripetizione del ponte modulante, sortendo l'effetto, invero
mirabile, di avvicinare, fino a toccarsi, i principi opposti d'opposizione e di implorazione di cui
i due temi sono espressione. Necessità retorica vuole quindi che le tre codette conducano alla
sua naturale conclusione il discorso musicale. Conclusione che Beethoven però allontana con
una coda estremamente audace in cui, all'ennesima violenta ripercussione dell'accordo del
primo tema, la stessa materia musicale sembra frantumarsi in una impressionante serie di
accordi arpeggiati di settima diminuita. La ripresa del secondo tema ha un effetto straniante e
rinvia ulteriormente la conclusione del movimento. Una nuova serie di arpeggi e una scala
cromatica aventi carattere di cadenza approdano a due battute con l'indicazione «Adagio», in
cui il precipitoso moto del finale sembra arrestarsi, per quindi finalmente dar luogo all'ultima,
impetuosa volata del tema principale, che la Sonata conclude con la perentoria violenza del
suo accordo ribattuto.
Andrea Schenardi
L'op. 27 comprende due Sonate "quasi una fantasia" rispettivamente dedicate alla principessa
Josephine von Lichtenstein e alla contessa Giulietta Guicciardi, simultaneamente pubblicate
nel marzo 1802 dall'editore Cappi di Vienna e scritte nelle tonalità di mi bemolle e do diesis
minore. Tra le due composizioni si avverte una sensibile disparità di valori, anche se entrambe
tendono a rompere i legami della tradizione sonatistica attraverso la congiunzione dei tempi e
eguendo una forma più vicina alla Fantasia che alla Sonata. Più universalmente nota e di una
popolarità immediata e senza confini è la Sonata in do diesis minore, che da principio si
chiamò Lauben Sonate, avvero Sonata del pergolato, perché si diceva composta dal musicista,
innamorato della Guicciardi, sotto il pergolato di un giardino. Più tardi fu il severo critico
berlinese Ludwig Rellstab (1799-1860) a paragonare l'assorta immobilità del primo tempo al
chiarore lunare che si diffonde nelle serate di calma sul Lago dei Quattro Cantoni.
L'immagine, per la sua felice aderenza psicologica, ebbe un successo senza precedenti e
procurò alla seconda Sonata dell'op. 27 il titolo di Mondschein-Sonate (Chiaro di luna), con
cui è entrata stabilmente nella storia dell'arte non solo musicale.
Le due sonate dell'op. 27 furono pubblicate nel 1803. La seconda, dedicata a Giulietta
Guicciardi, ebbe, come ognun sa, il destino di un sottotitolo, "Al chiaro di luna", impostole per
primo da Ludwig Rellstab che vide, o volle vedere, nel suo primo tempo il riflesso del chiarore
della luna sul lago dei Quattro Cantoni. Questi titoli immaginifici, quando non servivano alla
diffusione editoriale, avevano il non confessato e probabilmente inconscio scopo di
"distanziare" quei lavori troppo avveniristici che potevano turbare la coscienza critica dei
fruitori. Per quanto riguarda Beethoven egli aveva dato alle due sonate un sottotitolo che
diceva molto di più sul piano musicale: "sonata quasi una fantasia". Col che intendeva il
superamento dello schema, già da lui sfruttato al massimo, della forma sonata e l'adozione di
una maggiore e imprevedibile (soggetta dunque alla fantasia) libertà formale e strutturale.
Quali siano le ragioni biografiche che imposero all'arte di Beethoven sentieri così accidentati
non val la pena di ripetere sulla scia di tanti verbosi commentatori. Più interessanti saranno
forse gli antecedenti e i moventi strettamenti musicali, come, per il primo tempo - il celebre
adagio sostenuto - il richiamo ad alcune battute che evocano la morte del Commendatore nel
"Don Giovanni" di Mozart. Battute emblematiche e caricatesi per associazione all'idea di
morte, anche se qui essa viene distanziata e quasi annega nell'atmosfera trasognata prescritta
da Beethoven ripetutamente ("si deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente...",
"sempre pp", "misterioso", etc). In tal senso la definizione "Chiaro di luna", semplicistica ed
esteriore, era indubbiamente azzeccata, come dimostra la sua tenace sopravvivenza e come
dimostrano le innumerevoli imitazioni. Sostanzialmente l'op. 27 n. 2 può essere considerata
come un dittico. La prima parte comprende a sua volta due sezioni, l'adagio sostenuto e
l'allegretto, che segue senza soluzione di continuità e che contrasta volutamente con l'adagio
stesso. La seconda parte è costituita da un grandioso "presto agitato", tutto in minore e
rispettoso della forma sonata, che chiude la composizione. Ed è pagina questa ancor più
ardimentosa della prima nello scavo del linguaggio e nel tentativo, modernissimo, di
escogitare o perseguire una assoluta purezza timbrica e ritmica. E' uno di quei momenti
creativi che urtano con veemenza contro le alte mura che delimitano i confini del suono (di
quel suono di cui invece l'adagio sostenuto tanto sembra compiacersi) e che tentano,
protervamente, di gettare un uno sguardo 'al di la'.
Bruno Cagli
Op. 28 1801
Sonata per pianoforte n. 15 in re maggiore "Pastorale"
https://www.youtube.com/watch?v=Rr3sHN9GS94
https://www.youtube.com/watch?v=IblxeFAcqrc
https://www.youtube.com/watch?v=TsRJ5w1QJFA
Allegro
Andante (re minore)
Scherzo. Allegro vivace
Rondò. Allegro ma non troppo
Organico: pianoforte
Composizione: 1801
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1802
Dedica: Joseph Sonnenfels, direttore del Wiener Theater
Sotto il profilo formale, rispetto alle Sonate immediatamente precedenti, la Sonata op. 28
sembra rappresentare un passo indietro, verso il modello monumentale della Sonata da
concerto in quattro movimenti, che aveva interessato Beethoven soprattutto nelle sue prime
Sonate. Così l'op. 28 comprende una forma-sonata, un tempo lento, uno Scherzo, un Rondò.
Altrove sono invece le novità. Non a caso questa Sonata - pubblicata dal Bureau d'arts et
d'industrie nell'agosto 1802 - è nota con il soprannome di Pastorale, apocrifo ma attribuitole
già in una edizione del 1805. Superfluo osservare che nessun rapporto ha lo spartito con la
omonima Sinfonia del 1808, se non per il fatto che entrambe le pagine fanno uso di alcuni
stilemi impiegati per evocare una musica pastorale - codificati da una lunga tradizione che
affonda le proprie radici in Corelli, Scarlatti, Händel - in particolare, per la Sonata, quelli
riecheggianti il suono delle cornamuse, con un cosiddetto "pedale armonico" e le suddivisioni
ternarie del tempo. È proprio questo aspetto arcadico, contemplativo, volto a smussare i
contrasti, che attribuisce una coerenza forte a questo mirabile brano.
Manca infatti nell'op. 28 quel forte contrasto tematico che altrove si faceva espressione del
conflitto etico dell'autore; il contenuto espressivo è invece di ispirazione lirica e intimistica.
Già l'Allegro iniziale mira allo stemperamento della dialettica, con la lunga sinuosità della
frase iniziale, il soffice effetto timbrico del pedale armonico ribattuto; il discorso non procede
secondo una logica oppositiva e i vari elementi tematici scivolano dolcemente l'uno dentro
l'altro, tanto che lo stesso secondo tema non viene enunciato con chiarezza. L'unico vero
contrasto del movimento si trova nella sezione dello sviluppo, con il serrato scambio dei ruoli
di guida e accompagnamento delle due mani.
Nell'Andante - pagina di grande densità meditativa, prediletta, sembra, dall'autore anche negli
anni della maturità - Beethoven ritorna a un tipo di scrittura che già aveva sperimentato
nell'op. 2 n. 2, con il basso staccato che sorregge i fermi accordi della melodia; si tratta di una
scrittura che porta alla definizione di un timbro pianistico del tutto peculiare, poiché le note
staccate del basso mettono in azione tutti gli armonici dello strumento; da qui nascono il
particolare alone che circoscrive la melodia accordale e la concentrazione espressiva di questo
tempo; al risultato altissimo della pagina contribuiscono l'episodio "sereno" e diversivo in
maggiore, con le garbate "cascate" della mano destra, e la ripresa del tema, variata con soffusi
ricami melodici.
Segue un brillante ed epigrammatico Scherzo, attraversato da un Trio che allude agli echi di
strumenti campestri. Ed è soprattutto nel finale che si affermano gli stilemi "pastorali", con un
refrain segnato da un bordone, un accompagnamento che insiste su una nota grave; tutto il
movimento si svolge così in una medesima ambientazione idilliaca, suggellata da una coda
vorticosa ed incisiva, nella quale si distingue chiaramente il bordone. Ma c'è di più; a ben
guardare il tema di questo finale è una trasformazione di quello che aveva aperto l'intera
Sonata, che delinea così con assoluta chiarezza la sua arcata costruttiva e la sua coerenza
espressiva.
Arrigo Quattrocchi
Op. 31 n. 1 1802
Sonata per pianoforte n. 16 in sol maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=AJzMHUCsUZA
https://www.youtube.com/watch?v=q_mtt6hURos
https://www.youtube.com/watch?v=6vYDC_Xg59Y
Allegro vivace
Adagio grazioso (do maggiore)
Rondò. Allegretto
Organico: pianoforte
Composizione: 1802
Edizione: Nägeli, Zurigo 1803
Un processo così profondo di sommovimento non può trovare soddisfazione solo nelle tre
Sonate op. 31, ma secondo l'abitudine di Beethoven che lavorava a gruppi di opere, dilaga in
altri lavori vicini e ritorna indietro in un sistema di vasi comunicanti; già i quaderni di schizzi
e abbozzi documentano le interferenze, ma bastano le opere compiute a rivelare analogie e
rispecchiamenti: attorno all'op. 31, nello stesso biennio 1801-2, son le tre Sonate per
pianoforte e violino op. 30, le Bagatelle op. 33, le Variazioni op. 34 e 35, tutte segnate da
estrosità, esperimenti e da un altro lato comune, un senso arioso del gioco, del capriccio, in
una ilare, umoristica positività; cui non contrasta nemmeno la violenta espressività della
Sonata in re minore op. 31 n. 2 (che ha il suo pendant nella seconda, in do minore, dell'op. 30):
in cui la capricciosità si capovolge in drammaticità, incanalandosi tumultuosa nelle sponde del
genere patetico e debordandone per lo slancio vitale che la anima. Tanta positività affermativa
non ha mancato di sollecitare gli studiosi a rilevare il contrasto con l'angoscia che circondò
nello stesso tempo Beethoven uomo e artista: il 1802 è infatti l'anno in cui la sordità e il
connesso destino di solitudine accerchiano il compositore che ne lascia testimonianza nel
famoso "Testamento di Heiligenstadt"; Beethoven si aggrappa al suo talento creativo e ne
acuisce la potenza realizzativa foggiandosi uno strumento espressivo senza eguali.
Guida all'ascolto
La prima Sonata in sol maggiore ha subito un po' il contraccolpo della fama della seconda e in
passato non sono mancate (ad esempio da parte di Anton Rubinstein) pesanti limitazioni. È
invece una Sonata straordinaria e innovativa sotto ogni aspetto; se la seconda è divenuta
popolare all'ombra della Tempesta di Shakespeare, la prima potrebbe ardire al paragone con
lavori quali A piacer vostro o La dodicesima notte, per l'ariosità del gioco e il ritmo delle
invenzioni e degli annodamenti. Il primo movimento presenta l'umorismo beethoveniano quasi
declinato in un lessico: a partire dal ritmo sincopato, che scatta tagliente nella sfasatura fra le
due mani che qualche sortilegio impedisce loro di cadere assieme sull'accordo; a questo gioco
di pesi caracollanti s'oppone l'improvvisa serietà delle due mani aggrovigliate in formule da
esercizio tecnico (molte le innovazioni tastieristiche: come gli arpeggi rapidi senza voltata del
pollice ma con fulmineo spostamento della mano); un senso di interrogazione bizzarra è dato
dal ripetere le stesse figure cadenzali più volte in registri diversi; accompagnamenti in stile
popolare con marcature dei bassi, accostamenti repentini di maggiore e minore (Schubert ne
trarrà presto partito), delusione di simmetrie, sulle quali era intervenuto l'editore Naegeli per
quadrare inafferrabili cerchi.
Giorgio Pestelli
Op. 31 n. 2 1802
Sonata per pianoforte n. 17 in re minore "La tempesta"
https://www.youtube.com/watch?v=qeL3tAb7yV4
https://www.youtube.com/watch?v=t622xykPg0Y
https://www.youtube.com/watch?v=d9TlaDHQlTk
Allegro vivace
Adagio grazioso (do maggiore)
Rondò. Allegretto
Organico: pianoforte
Composizione: 1802
Edizione: Nägeli, Zurigo 1803
È importante ricordare il momento spirituale in cui le Sonate op. 31, fra il 1801 e il 1802,
vennero sotto la penna del loro creatore: momento di fermento, di pienezza inventiva e di
spirito critico che è usanza veder condensato in una coeva affermazione di Beethoven
tramandata dal suo scolaro Czerny: «Non sono soddisfatto dei lavori che ho scritto fino ad
oggi; d'ora in poi voglio incamminarmi per un'altra via». Era la via che in breve avrebbe
portato alla Sinfonia Eroica; ma prima, sul terreno privato, confidenziale del pianoforte,
l'impulso produce un'ondata di scoperte nelle direzioni più varie, anche in contrasto fra loro
sul piano del carattere, dell'"affetto", ma tutte comunque sia segnate da una prodigiosa
plasticità di rappresentazione. Il talento creativo di Beethoven è preso da una sorta d'ingordigia
di fissare sulla tastiera ogni flessibilità e mutevolezza del linguaggio musicale; tale spinta
all'originalità non si orienta sulla macroforma, come nelle Sonate "quasi una fantasia" di poco
prima; la forma di sonata è ripristinata in piena regola; ma resta sullo sfondo; ora a Beethoven
interessa la microforma, battuta per battuta, nota per nota, dove tutto deve assumere vivacità di
significato.
Un processo così profondo di sommovimento non può trovare soddisfazione solo nelle tre
Sonate op. 31, ma secondo l'abitudine di Beethoven che lavorava a gruppi di opere, dilaga in
altri lavori vicini e ritorna indietro in un sistema di vasi comunicanti; già i quaderni di schizzi
e abbozzi documentano le interferenze, ma bastano le opere compiute a rivelare analogie e
rispecchiamenti: attorno all'op. 31, nello stesso biennio 1801-2, son le tre Sonate per
pianoforte e violino op. 30, le Bagatelle op. 33, le Variazioni op. 34 e 35, tutte segnate da
estrosità, esperimenti e da un altro lato comune, un senso arioso del gioco, del capriccio, in
una ilare, umoristica positività; cui non contrasta nemmeno la violenta espressività della
Sonata in re minore op. 31 n. 2 (che ha il suo pendant nella seconda, in do minore, dell'op. 30):
in cui la capricciosità si capovolge in drammaticità, incanalandosi tumultuosa nelle sponde del
genere patetico e debordandone per lo slancio vitale che la anima. Tanta positività affermativa
non ha mancato di sollecitare gli studiosi a rilevare il contrasto con l'angoscia che circondò
nello stesso tempo Beethoven uomo e artista: il 1802 è infatti l'anno in cui la sordità e il
connesso destino di solitudine accerchiano il compositore che ne lascia testimonianza nel
famoso "Testamento di Heiligenstadt"; Beethoven si aggrappa al suo talento creativo e ne
acuisce la potenza realizzativa foggiandosi uno strumento espressivo senza eguali.
La seconda Sonata, op. 31 n. 2, in re minore è dalla sua apparizione una delle più eseguite,
discusse e amate in tutta la serie delle Sonate di Beethoven. Alla sua fama ha contribuito il
racconto di Anton Schindler che nel 1823, quindi vent'anni dopo la sua composizione, aveva
chiesto a Beethoven una chiave per intendere e interpretare questa Sonata e l'op. 57 in fa
minore; dalla risposta - «leggete la Tempesta di Shakespeare» - l'op. 31 n. 2 avrebbe ricevuto il
soprannome di "Tempesta" che l'accompagna tuttora (mentre l'op. 57, una volta battezzata
"Appassionata" si è svincolata dal riferimento) nonché un primo , promettente quadro di
riferimento (si può ricordare che una nuova attenzione a questa vecchia allusione si trova oggi
in un ingegnoso articolo di Theodore Albrecht che riconduce la Sonata non solo,
genericamente, a una suggestione di natura, ma a varie scene particolari e a situazioni
rispondenti con la biografia di Beethoven nel periodo in cui fu concepita).
Di certo l'opera è di quelle che più sollecitano a squarciare i veli della forma, a spiccare il salto
dal puro "musizieren" verso le soglie arroventate dei contenuti psicologici. Ma questa istanza è
in realtà provocata dalla rappresentazione di puri gesti musicali resi pregnanti da quella stessa
icasticità dell'"altra via", da quel linguaggio musicale colto sul fatto che è la grande scoperta di
tutta l'op. 31. Basta il proverbiale esordio a dare il senso d'un atto davvero creativo, di un fiat
miracoloso; poi tutto è movimento "in avanti", con idee e figure che dell'impeto sembrano
l'incarnazione musicale. Il brano è regolato dalla legge del contrasto, dell'opposizione, di
accento, dinamica e disegni; anche incidendo nel più piccolo composto di melodia e
accompagnamento, si riconosceranno elementi che "si sentono" fra di loro, attirandosi e
respingendosi.
Al centro dello sviluppo, l'introduzione del "recitativo" crea un culmine emotivo che
condiziona tutta la struttura della Sonata; quella ricerca della parola ivi registrata pone in quel
punto il cuore del pezzo; in quel centro il quadro armonico è cromatico e improvvisatorio, con
improvvisi confini spalancati da arpeggi dolcissimi in tonalità lontane; mentre esposizione e
conclusione si agitano e cozzano entro un quadro ristrettissimo di tonica e dominante, sbozzate
in rapida, quasi rozza sobrietà. Vastissima è poi la gamma affidata alla fantasia sonora,
timbrica; d'ora in poi non si potrà più parlare di uniformità sonora del pianoforte; il vibrato
degli strumenti ad arco è battuto in breccia da una serie di infinite gradazioni di attacco e
pressione, non più affidabili a segni che, a volerli annotare tutti, sarebbero continui perché
legati al respiro stesso della musica; al tocco è data via libera e il concetto stesso della
moderna interpretazione musicale sembra nascere a contatto con questa pagina.
Il secondo movimento (Adagio) è regolato come il primo dal contrasto e dal dialogo, inseriti in
una forma mista fra il Lied con variazioni e la forma sonata, e naturalmente rallentati entro un
tempo vasto e spazioso dove ogni idea, anche il misurato rullo dei bassi, quasi timpani, ha
qualcosa d'infallibilmente calcolato; l'apertura di certi squarci melodici ricorda la cantabilità
giovanile del Lied Adelaide e ancora si noterà, in tutto l'Adagio, un senso di attesa aurorale
(poi rimesso in opera nell'introduzione al finale della Sonata op. 53), nel contrasto fra
addensamenti neutri nel registro basso e luminosità di arpeggi o di singole note svettanti di
trepida chiarezza. Al principio del contrasto rinuncia per programma il Finale con il suo
andamento da "moto perpetuo"; ma Beethoven non sarebbe lui se anche questa superficie
lineare, già resa inquieta dal suo ironico guizzare, non fosse ogni tanto turbata da sforzati,
ottave massicce, capricciosi mordenti; in qualche modo drammatizzata, sia pure con la misura
necessaria a non togliere a questa conclusione della Sonata il carattere di una danza misteriosa
e leggera, quasi vaporando dai roventi solchi del primo movimento.
Giorgio Pestelli
Si dice che non esiste nulla di più diverso da una Sonata per pianoforte di Beethoven che
un'altra Sonata per pianoforte di Beethoven. La boutade è vecchia ma ancora buona, purché
non si pensi a un'esteriore ricerca di varietà, quando quella serie di trentadue capolavori è il
banco di prova scelto per le sue più ardite esplorazioni da un musicista che compì un percorso
artistico intenso e complesso come forse nessun altro, sempre alla ricerca di soluzioni nuove a
problemi nuovi, tali da investire profondamente le strutture della sonata e il modo stesso di
pensare e comporre la musica: né l'appiattimento della prospettiva dovuto ai due secoli di
distanza né il logoramento d'una familiarità indiscreta sono riusciti ad offuscare la forza di
novità della musica beethoveniana.
Il 1801 e il 1802, gli anni in cui nacquero le tre Sonate op. 31, segnarono per Beethoven una
prima grande crisi, un punto di rottura da cui il suo linguaggio uscì profondamente trasformato
e piegato a soluzioni di radicale novità e d'impressionante evidenza espressiva. Questo periodo
di crisi squisitamente musicale coincise con una non meno profonda crisi psichica e morale,
che può aver contribuito ad alcune scelte del compositore, senza per questo travasarsi
direttamente nella sua musica, perché un tale soggettivismo romanticheggiante era totalmente
estraneo alla sua estetica classicistica: è comunque impossibile dimenticare che per Beethoven
quelli furono gli anni della scoperta della sua progressiva e incurabile sordità, della disperata
confessione contenuta nel testamento di Heiligenstadt, delle passioni brucianti e umilianti per
le contessine Therese Brunswik e Giulietta Guicciardi.
Che in quegli anni Beethoven fosse consapevolmente determinato a cercare nuove vie e che
l'op. 31 sia una risposta a questa ricerca, viene testimoniato anche da un passo delle Memorie
del suo allievo Cari Czerny: «Quando aveva appena compiuto la Sonata op. 28, Beethoven
disse al suo intimo amico Krumpholz: "Sono ancora poco soddisfatto delle opere che ho scritto
finora, d'ora in poi voglio seguire una nuova strada". Poco dopo furono pubblicate le tre
Sonate [op. 31], nelle quali si può riconoscere il parziale compimento della sua decisione». Di
queste tre Sonate è indubbiamente la seconda a presentare le più radicali novità: la tradizionale
successione dei tre movimenti viene mantenuta (quanto a ciò, le Sonate op. 26 e op. 27 si
erano spinte più lontano) ma al loro interno Beethoven opera alcune formidabili innovazioni.
Secondo il generoso, servizievole e petulante allievo e amico Anton Schindler, quando gli
venne chiesto quale fosse il significato di questa Sonata, Beethoven avrebbe risposto:
«Leggete La tempesta di Shakespeare». Bisogna ammettere che questa è un'ottima risposta,
proprio perché è vaga e non è di grande aiuto per chi vuole assolutamente trovare un
"significato" extramusicale a questa Sonata.
La tonalità è il re minore, che Mozart aveva usato nel Concerto per pianoforte e orchestra K
466, una delle sue opere più oscure e demoniache, e che Beethoven impiegò molto raramente,
e solo in composizioni di particolare rilevanza, quali questa Sonata e la Nona Sinfonia.
L'eccezionaiità di questa Sonata si rivela fin dall'attacco del primo tempo: due battute di
Largo, consistenti solo in un tenebroso arpeggio che sale dal registro basso della tastiera
«come cerchi concentrici di onde che muovano dalle profondità d'uno specchio d'acqua livido
e oscuro» (Giovanni Carli Ballola). Subito gli si contrappone un Allegro di quattro battute, con
una scala discendente frammentata in affannose figurazioni, che si spegne in una battuta di
Adagio. Il Largo e l'Allegro vengono ora ripetuti una seconda volta. L'ascoltatore è spaesato e,
cercando d'orientarsi con quanto conosce di Haydn, Mozart e Beethoven, è portato a pensare
di trovarsi di fronte a un'introduzione che preceda l'esposizione dei temi d'un consueto Allegro
iniziale in forma-sonata: ma questi schemi e queste stesse denominazioni non hanno più ragion
d'essere. L'arpeggio e la scala non costituiscono né un'introduzione né una vera e propria
esposizione dei temi, eppure contengono già in nuce i temi, che appariranno solo più tardi, con
un profilo evidente e rilevato ma reso ambiguo dall'instabilità armonica: il primo deriva
dall'arpeggio del Largo e sale dal basso accompagnato da un'ostinata figurazione in terzine, il
secondo è un affannoso passaggio cromatico che deriva dalla scala discendente dell'Allegro. Il
tema derivato dal Largo predomina totalmente nell'esposizione e nello sviluppo (ma non viene
ripreso nella parte conclusiva del movimento) e il Largo stesso ritorna più volte, all'inizio del
conciso sviluppo e all'inizio della ripresa: quest'ultima volta si prolunga in due brevissimi e
accorati recitativi «con espressione semplice», in cui (come in analoghi passaggi della Sonata
op. 110 e della Nona) Beethoven sembra voler carpire alla parola le sue inflessioni e la sua
espressività e tentare di riprodurle con gli strumenti. Secondo Czerny questo recitativo «deve
risuonare lamentoso, come da una grande lontananza», mentre Beethoven stessoavrebbe detto
che subito dopo, nel crescendo e nei cinque accordi fortissimo all'inizio della ripresa «il
pianoforte deve spezzarsi». La coda, col suo intenso impatto drammatico, riesce in quello che
sembrerebbe impossibile, portando ancora oltre la curva espressiva ascendente di questo
potente movimento.
Mauro Mariani
Op. 31 n. 3 1802
Sonata per pianoforte n. 18 in mi bemolle maggiore "La caccia"
https://www.youtube.com/watch?v=bx8qYijU_X4
https://www.youtube.com/watch?v=0u4woHkl5Ww
https://www.youtube.com/watch?v=P-Q5aBAw-T4
Allegro
Scherzo. Allegretto vivace (la bemolle maggiore)
Minuetto
Presto con fuoco
Organico: pianoforte
Composizione: 1802
Edizione: Nägeli, Zurigo 1804
A ben riflettere però nella Sonata op. 31 n. 3 non spira un'aria drammatica e rivelatrice di un
animo squassato da pensieri suicidi. Addirittura la Sonata non contiene tempi lenti e adagi e si
snoda con freschezza di temi, anche se frantumati in piccole cellule, come nell'Allegro
iniziale, così carico di interrogativi e aperto ad una piacevole scorrevolezza di idee musicali.
Lo Scherzo del secondo tempo ha un tono di fanfara, leggero e spigliato, vivacemente
dinamico e persino accattivante in certi risvolti vagamente umoristici. Lo stesso Minuetto si
scioglie con delicatezza sentimentale ed esula dagli schemi di questo "genere" settecentesco,
proiettandosi verso una forma più libera e disincantata. Forse il finale si richiama meglio alla
tradizione nel suo battito vivo e di trascinante euforia pianistica, quasi un'esaltante
riconciliazione con i sentimenti di amore per la vita.
La Sonata in mi bemolle maggiore è l'ultima di un gruppo di tre Sonate che Beethoven scrisse
nel 1802. Essa fu pubblicata dapprima separatamente col numero d'opera 33, mentre le altre
due erano apparse nel 1803 come op. 29. In una successiva ristampa le tre Sonate furono
riunite sotto il numero d'opera 29 e solo in un terzo tempo ricevettero il numero definitivo 31
(il numero 29 passò al Quintetto e il 33 alle 7 Bagatelle). Comunque sia, è con queste Sonate
che ha inizio il periodo della piena maturità di Beethoven caratterizzato dal delinearsi del suo
cosidetto «secondo stile». Delle tre Sonate del gruppo, quella in mi bemolle è la più serena e
poeticamente distesa. Secondo taluni esegeti le si confarrebbe, non meno che alla Sonata op.
28, il titolo di «pastorale». In realtà, taluni dei suoi fondamentali elementi tematici si trovano
prefigurati nel Lied Der Wachtelschlag (Il Canto della quaglia) composto nel 1799 e
pubblicato ugualmente nel 1804. Così il motivo principale dell'Allegro iniziale (che apre la
vicenda sonora e la punteggia spesso con un senso di interrogazione), ricalca il modulo ritmico
del tema principale di quel Lied che allude, appunto, al verso della quaglia. Dalla mossa parte
centrale dello stesso Lied deriva invece il Presto con fuoco che conclude la Sonata. S'intende
che, in misura ancora maggiore che nel Lied, ogni allusione onomatopeica è trascesa e
assorbita nella Sonata dai significati assoluti della trama musicale. Degna di rilievo è pure
l'innovazione formale operata da Beethoven in quest'opera mediante la soppressione del
consueto movimento lento e l'introduzione di uno Scherzo accanto ad un Minuetto che
normalmente rappresentano dei brani alternativi nell'economia architettonica di una Sonata. Va
osservato però che lo Scherzo (Allegretto vivace) non ha l'abituale ritmo ternario essendo in
2/4 e che il Minuetto, lungi dall'avere l'aspetto di una danza, trasfigura lo schema metrico del
Minuetto al punto di poter essere considerato piuttosto come un «intermezzo lirico» che tiene
il posto del mancante tempo lento. E' uno degli ultimi Minuetti di Beethoven e segna in un
certo senso la fine di questa danza tipicamente settecentesca.
Roman Vlad
Op. 49 n. 1 1798
Sonata per pianoforte n. 19 in sol minore
https://www.youtube.com/watch?v=3eOofVuWP_k
https://www.youtube.com/watch?v=3wlezLVhv00
https://www.youtube.com/watch?v=yg9gfDxjBBg
Andante
Rondò. Allegro (sol maggiore)
Organico: pianoforte
Composizione: 1798
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1805
La Sonata si apre - esempio abbastanza raro - con un Andante, in realtà costruito sulla forma-
sonata propria di un Allegro d'apertura: riconosciamo infatti i due classici temi ben distinti (il
primo di nobile serenità, d'indubbia ascendenza mozartiana, il secondo di maggior incisività),
lo sviluppo di prammatica (per quanto stringato) e la tipica Coda (anch'essa contratta). Pure il
Rondò presenta la struttura tradizionale, quella tripartita, con la caratteristica alternanza di
«couplets» e ritornelli (lo stacco accenna in modo curioso all'ultimo tempo del Concerto per
violino Op. 61). Con il suo tono vivace, con l'alternanza disinvolta di maggiore e minore (che
evoca a tratti un inconfondibile sapore di turcheria), con il carattere volutamente «sans souci»,
questo Finale sembra voler neutralizzare le ombre «patetiche» che l'Andante poteva aver
proiettato sulla pagina.
Op. 49 n. 2 1796
Sonata per pianoforte n. 20 in sol maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=W7WpjF2VILE
https://www.youtube.com/watch?v=W7WpjF2VILE&list=RDW7WpjF2VILE&start_radio=1
https://www.youtube.com/watch?v=EzZ22bGLSqc
Organico: pianoforte
Composizione: 1796
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1805
A differenza delle «sonate facili» di Mozart, considerate piccole e preziose rarità (ricordiamo
tra le altre la K 545), le pagine beethoveniane denunciano immediatamente la loro docilità,
non soltanto sul piano tecnico (non vanno dimenticati gli intenti didattici di tali opere) ma
anche sotto il profilo dell'ossatura e del disegno compositivo.
I movimenti sono due (come già nell'Op. 49 n. 1), esplicito omaggio a Ph. E. Bach, il
cosiddetto «Bach milanese», e ai famosi maestri dello stile galante. L'orditura dell'Allegro,
impostato in un'ortodossa forma-sonata, è giudicata primitiva: dopo il primo tema, elegante
nella sua grande semplicità, il secondo, pur regalando un'illusione di soavità mozartiana
(l'analogia con il corrispondente tema della Sonata K 448 di Mozart è evidente), si mostra
povero di idee vincenti. Anche lo sviluppo appare esiguo, quasi denutrito, e conduce
frettolosamente alla ripresa e alla conclusione. Più seducente invece il Tempo di Minuetto, un
brano vivacemente sereno, «destinato - insieme con il Minuetto di Boccherini, la Marcia alla
turca di Mozart, il Largo di Haendel - a rappresentare Beethoven nelle antologie pianistiche
per dilettanti» (Carli Ballola). Lo spirito che lo anima, più vicino a un Ländler che non a un
vero e proprio Minuetto, gli conferisce quel tono «gemütlich» e ricco di fascino, proprio delle
canzoni popolari. Gradevolissima sorpresa, per l'ascoltatore, è ritrovare il tema - uno dei
motivi più amati e bistrattati della musica classica - che già si è conosciuto, leggermente
modificato, nell'Adagio del Trio Op. 11 ma soprattutto nel Minuetto del popolarissimo
«Settimino» Op. 20. Indimenticabile anche la seconda parte, il Trio, con le sue lucenti sonorità
di tromba e il suggestivo effetto finale di carillon.
https://www.youtube.com/watch?v=dL0JLNt_3EE
https://www.youtube.com/watch?v=XcapJXaeOGw
https://www.youtube.com/watch?v=zwdiH9MQZHs
Organico: pianoforte
Composizione: Vienna, 25 Agosto 1804
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1805
Dedica: Conte Waldstein
Scritta tra il 1803 e il 1804 e pubblicata nel 1805, la Sonata in do maggiore op. 53 «Waldstein»
rappresenta, insieme all'Appassionata, il punto culminante della cosiddetta «seconda maniera»
beethoveniana, in cui profondità dell'ispirazione e virtuosismo strumentale si fondono in un
unico, possente blocco di stupefacente modernità. E in effetti l'elemento virtuosistico alla
Clementi, non solo è presente nella Waldstein a un grado di difficoltà financo trascendentale,
ma viene anche audacemente ripensato in funzione timbrica, sortendo talora inauditi effetti
preimpressionistici, calcolati sulla tastiera di un nuovo e più moderno pianoforte costruito da
Erard a Parigi nel 1802, di cui Beethoven dovette servirsi per tutta la sua produzione dal 1803
al 1815 circa. Inoltre, come quasi tutte le opere scritte nel primo decennio dell'Ottocento,
anche la Waldstein risponde all'ambizione del suo autore di erigere un intero, gigantesco
edificio sonoro con i materiali più scarni, cui difficilmente si potrebbe attribuire dignità di veri
e propri temi.
In questo senso, l'inizio dell'Allegro con brio è certo fra i più memorabili di tutta la letteratura
pianistica, con quell'accordo insistentemente ribattuto nel registro grave, che si direbbe
appartenere «piuttosto all'ordine del rumore che a quello della musica» (Casella). È dalla
sonorità sorda, caotica e lontanissima d'una simile percussione che sorge progressivamente
un'idea, una vibrazione luminosa, un fremito vitale, piuttosto che un vero e proprio primo tema
di sonata. Il secondo tema in mi maggiore (dunque in rapporto di terza rispetto alla tonalità di
base) giunge soltanto alla trentaquattresima battuta, dopo la doppia esposizione del primo
gruppo tematico. «Dolce e molto legato», esso si configura a guisa di un corale che, al
bruitismo del primo tema, contrappone un carattere rasserenato e nobilmente contemplativo.
Lo Sviluppo, interamente basato sul materiale del primo tema e sulla prima codetta
dell'Esposizione, attraversa inquieto tutte le tonalità bemollizzate. Qualcosa di simile a un
cupo rullo di timpani, introduce quindi la Ripresa, che si svolge regolarmente, salvo un
inatteso prolungamento fra prima e seconda esposizione del tema principale. La coda,
particolarmente estesa, riprende da ultimo il materiale di entrambi i temi, esasperando i
contrasti dinamici e accentuando il carattere virtuosistico della scrittura pianistica.
Tutta la sensibilità coloristica di Beethoven trova la sua più felice espressione nel Rondò
conclusivo «interamente basato - secondo la testimonianza del Czerny - sull'uso del pedale,
che qui appare essenziale». Costruito sulla regolare alternanza di Prestissimo refrain e couplet,
il Rondò inizia presentando un tema di lineare semplicità, delicatamente ornato da un arabesco
di semicrome eseguito sottovoce, nella impalpabile consistenza d'un pianissimo. La semplice
inversione di due intervalli melodici conferisce alla ripetizione del tema, un tono più sotto,
l'effetto di una lieve increspatura espressiva. Il tema si ripete quindi nuovamente in ottave in
una luce più chiara, mentre, alla terza e ultima ripetizione, risuona festosamente nell'acuto del
pianoforte, sopra un trillo lungamente tenuto, alla mano destra, e il gioioso ventare di biscrome
e semicrome, alla sinistra. Il primo couplet imprime quindi al discorso musicale un'energia
motoria e un impulso ritmico di irrefrenabile vivacità.
Un breve passaggio di transizione collega l'episodio secondario alla ripresa del refrain, cui
segue, senza mediazione alcuna, il secondo couplet, affine al primo, ma ancor più incalzante.
A questo punto la transizione alla ripresa del refrain si amplia a dismisura acquisendo il
carattere d'un vero e proprio svolgimento in cui l'atmosfera estrovertita del Rondò si adombra
per un lungo tratto, differendo l'approdo rassicurante del refrain. Ripreso in forma abbreviata,
il refrain conduce a sua volta il discorso musicale verso destinazioni imprevedibili: uno
smisurato prolungamento della transizione al primo couplet cui si collega direttamente un
nuovo passaggio di transizione all'ultima, pirotecnica ripresa del refrain in tempo Prestissimo:
una coda lunga centoquaranta battute, in cui si trovano sparsi a piene mani gli artifici tecnici
fra più ardui di tutta la produzione pianistica di Beethoven. Ma dove soprattutto si corona nel
modo più esaltante l'emancipazione del suono a parte integrante ed essenziale dell'invenzione
musicale.
Andrea Schenardi
In una vecchia pubblicazione del Nottebohm troviamo un esercizio per pianoforte, che non fu
pubblicato. Ma è evidente che l'esercizio venne sfruttato da Beethoven nel primo tempo della
Sonata op. 53, scritta tra il 1803 e il 1804, e pubblicata nel 1805. L'op. 53 è una Sonata
virtuosistica e con alcuni passi, specie nel finale, veramente molto difficili. Diceva
pittorescamente il de Lenz: «II secondo tempo... non può essere reso che dalle dita d'acciaio di
Liszt. È un pezzo al di sopra delle forze d'un sol uomo, e si vorrebbe vedere, ad ogni fermata,
un pianista fresco che faccia il "cambio dei cavalli"».
Il primo tempo della Sonata mostra molte affinità con il primo tempo dell'op. 31 n. 1, come
rilevano il Tovey ed altri. I rapporti tonali generali sono gli stessi: nell'esposizione il secondo
tema è nella tonalità maggiore della mediante, e nella ripresa è nella tonalità maggiore della
sopradominante prima che nella tonalità principale; anche l'inizio è simile: la prima fase
modula dalla tonalità principale alla tonalità di dominante (sol maggiore), e si ripete un tono
sotto senza che la nuova tolalità principale (si bemolle maggiore) sia stata preparata in uno
qualsiasi dei modi consueti (la preparazione consiste invece, inconsuetamente, nel rapporto
diretto tra tonalità maggiore di sopradominante e tonalità principale: sol maggiore - si bemolle
maggiore).
Anche il secondo tempo sarebbe stato simile al secondo tempo dell'op. 31 n. 1 se Beethoven
avesse lasciato la Sonata quale l'aveva scritta in un primo momento, e cioè l'Andante (più tardi
pubblicato con il titolo Andante favori) come secondo tempo. Il Tovey ricerca anche le
probabili ragioni che avrebbero consigliato a Beethoven di sostituire l'Andante con la breve
Introduzione: nel primo e nell'ultimo tempo dell'op. 53 Beethoven avrebbe risolto in modo
positivo, aprendosi la via ad uno stile nuovo, ciò che nell'op. 31 n. 1 appariva ancora in senso
satirico o provocatorio; nell'Andante certi caratteri dell'armonia rimanevano, invece, ancora
paradossali, e quindi l'Andante diventava, in seno alla Sonata, contraddittorio. Spiegazione che
ci sembra da preferire a quella tradizionale, secondo la quale Beethoven avrebbe tolto
l'Andante semplicemente perché alcuni amici lo avevano trovato troppo lungo
L'Introduzione, con le sue nebulose sonorità pianistiche, è la causa più probabile del titolo
Aurora, con il quale la Sonata è nota in Italia e in Francia (in Germania e nei paesi
anglosassoni è comune il titolo "Waldstein-Sonate," dal nome del dedicatario, protettore del
giovane Beethoven e poi suo amico paterno). La sonorità nebulosa permane per lunghi tratti
del Rondò con una serie di pedali di risonanza che quasi tutte le edizioni del secolo scorso
eliminarono, e che pochi esecutori, anche oggi, cercano di rispettare. La testimonianza di
Czerny è anche questa volta decisiva:
«Questo Rondò di carattere pastorale è basato interamente sull'uso del pedale, che qui appare
essenziale». Alcuni episodi del Rondò - se il pianista sa realizzare il pedale come lo indica
Beethoven (l'esempio di Schnabel, a questo riguardo, è decisivo) - suscitano dal pianoforte una
sonorità quasi debussiana, da Cloches a travers lrs feuilles, e questa è un'altra riprova della
sensibilità coloristica di Beethoven. Infine, per concludere l'argomento, tra il secondo e il terzo
episodio dell'Allegretto e tra l'Allegretto e il Prestissimo Beethoven usa una notazione
raffìnatissima, che permette un effetto di respiro ritmico mediante il pedale (un esempio
analogo lo troviamo solo nell'Andantino con moto del Concerto op. 58).
Alla estrema morbidezza sonora ed alla impurità armonica di alcuni episodi si contrappone la
sonorità violentemente luminosa, ottenuta con il suono brillante, degli altri episodi del Rondò;
manca invece completamente il suono cantabile. Più che nell'eccesso di fatica di cui parla il de
Lenz, la difficoltà consiste dunque nella necessità che il pianista sappia raggiungere gli estremi
opposti dell'esecuzione pianistica senza poter d'altronde sfruttare il campo medio della
cantabilità, dove la grande maggioranza degli esecutori si trova a suo agio e che abbandona
malvolentieri.
Guida all'ascolto 3 (nota 3)
Pubblicata nel maggio 1805 dal Bureau d'arts e d'industrie, la Sonata opera 53 fu scritta da
Beethoven nel 1804, quasi contemporaneamente a un'altra "grande" Sonata, l'opera 57, la
celebre "Appassionata''. E anche l'opera 53 non è sfuggita ai consueti nomignoli che da sempre
affliggono i capolavori beethoveniani. In particolare sulla giustificazione del nomignolo
"Aurora", apocrifo e anonimo, si sono prodotti, con esiti dubbi, commentatori e studiosi anche
di sicura importanza. L'altro nomignolo di "Waldstein-Sonate", fortunatamente più neutro,
deve invece la sua origine al dedicatario, il conte Waldstein, protettore del compositore negli
anni giovanili di Bonn.
Entrambe le Sonate sono peraltro opere gemelle. Costituiscono infatti due diverse applicazioni
dei medesimi principi, nonché dei veri e propri punti d'arrivo - sia pure con contenuti del tutto
diversi, brillanti per l'opera 53, drammatici per l'opera 57 - in quella indagine delle risorse
timbriche e virtuosistiche dello strumento che il compositore aveva tenacemente perseguito
negli anni precedenti. Simile è l'organizzazione formale delle due composizioni, che aderisce
ad un tipo di costruzione fortemente prediletta dall'autore in quel periodo: tre movimenti, dei
quali i due estremi concepiti come grandi blocchi separati da una breve pausa meditativa.
Nuovi sono anche gli effetti coloristici delle due Sonate, il cui risultato deve essere attribuito
almeno in parte alla concreta disponibilità, da parte di Beethoven, di un nuovo pianoforte
inglese Erard, dotato di una sonorità più corposa e di una gamma assai più vasta rispetto ai
pianoforti viennesi fino allora conosciuti dal compositore. Si trattava insomma di un
pianoforte "da concerto"; circostanza che chiarisce come le composizioni nate su questo
strumento fossero pensate con il preciso problema dell'esecuzione pubblica.
Nell'opera 53 l'iniziale Allegro con brio svela immediatamente le nuove ambizioni; il primo
tema - una lunga fascia di incisivi accordi ribattuti - non ha un profilo melodico nettamente
definito, e si qualifica soprattutto come individuazione timbrica. Netto è il contrasto con il
secondo tema, un corale dolcemente melodico, riproposto subito con fioriture (il contrasto è
acuito dal rapporto tonale, inconsuetamente di terza, anziché di quinta secondo le regole). Per
il resto il movimento è percorso interamente da una brillantezza tecnica di ascendenza
clementina, ma anche i passaggi di transizione, così come tutta la sezione dello sviluppo, si
qualificano piuttosto come blocchi di materia sonora fra loro contrapposti; il periodo più
emblematico in questo senso è quello che conclude lo sviluppo, quattordici battute basate
interamente sulla medesima armonia di dominante che appartengono, secondo Alfredo
Casella, «più all'ordine del rumore che a quello della musica».
Dalla prima versione della Sonata l'autore espunse per la sua lunghezza un Andante favori
(pubblicato poi separatamente), sostituito con un brevissimo Adagio molto (ventotto battute);
anche questo è un capolavoro di scrittura strumentale, con una aforistica cellula che, dal
pianissimo iniziale, viene "gonfiata" e "sgonfiata" ripetutamente, fino a sfociare direttamente
nel Rondò conclusivo. E certo è il Rondò la pagina più innovativa dell'intera Sonata; l'impiego
per lunghissimi periodi del pedale di risonanza (che impedisce agli smorzatori di bloccare la
corda che vibra, e dunque prolunga il suono) crea un'eco dolcissima alla luminosa melodia in
do maggiore del refrain (pensata secondo un'efficacissima disposizione pianistica: la destra in
centro articola morbidi arpeggi di accompagnamento, la sinistra dona un profondo do1 di base
all'armonia e intona poi, sopra l'altra mano, la melodia). Ma questi pedali - non a caso
contestatissimi e correttissimi da zelanti censori fin quasi ai nostri giorni - sovrappongono,
contravvenendo a tutte le "regole", le distinte armonie di tonica e di dominante. Proprio questo
magico effetto di macchia sonora, accentuato dai lunghissimi trilli e dai fruscianti glissando in
ottava della coda, dischiude al pianoforte traguardi espressivi preimpressionistici.
Arrigo Quattrocchi
Op. 54 1804
Sonata per pianoforte n. 22 in fa maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=eSM_UrEPb5g
https://www.youtube.com/watch?v=8v769trNJwc
https://www.youtube.com/watch?v=xFzUHwKz9L4
In tempo di Minuetto
Allegretto
Organico: pianoforte
Composizione: 1804
Edizione: Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1806
La Sonata op. 54 è una delle più sorprendenti che Beethoven abbia scritto. Non piacque
quando fu pubblicata (1806), non piacque in genere ai commentatori del secolo scorso e non è
entrata in repertorio neppure oggi. Nel secolo scorso ci fu persino chi suppose che la Sonata
fosse stata consegnata, incompleta, ad un editore che faceva fretta; e toccò al Prod'homme di
"dimostrare", non che la supposizione fosse insensata, ma che era storicamente erronea.
Ci sembra che nella Sonata si rifletta un aspetto particolare di un ritorno al passato, o di una
malinconia del passato che in Beethoven, uomo della rivoluzione francese, non si spense mai
del tutto, e che diede luogo più tardi (ultime quattro Sonate o ultimi Quartetti) a un recupero
completo della tradizione musicale del Settecento. Per esempio, lo schema costitutivo della
sonata in due tempi - e per di più con minuetto variato - è arcaico: era molto usato verso il
1770, in pieno stile rococò. Il primo tempo rinuncia alla forma-sonata: i due temi non si
organizzano infatti in forma-sonata, ma come minuetto e trio, con due apparizioni del trio
(invece di una), e tre del minuetto (invece di due). Il clima espressivo del primo tempo dell'op.
54 è, inoltre, quello del secondo tempo della Sonata op. 31 n. 1 e dell'Andante favori:
ripensamento ironico del passato. Il tema principale, tema di minuetto cerimonioso e galante, è
ripreso più volte, gravandolo ogni volta di fiorettature ornamentali sempre più complicate e
convenzionali: sembra un piccolo trattato sulla maniera di adornare all'improvviso una linea
melodica, maniera che nel Settecento era prerogativa di ogni virtuoso. In apparenza è ancora la
semplice realizzazione scritta dell'ornamentazione che i virtuosi settecenteschi improvvisano.
In realtà, l'atteggiamento di Beethoven è di riflessione e di ironia: riflessione e ironia che,
secondo noi, risultano chiaramente da alcuni particolari: Beethoven arriva al punto di
realizzare un modo di esecuzione del trillo caduto in disuso, quello che Johann Sebastian Bach
chiamava doppelt cadence und mordent, e di riprendere, anche con il relativo segno grafico
usato in passato, il prallende Doppelschlag di Carl Philipp Emanuel Bach.
Nettamente ironico, quasi caricaturale è il secondo tema: un esercizio pianistico sulle ottave e
sulle seste, svolto in gran parte a canone. Non è possibile affermarlo con sicurezza, ma
parrebbe una caricatura dei procedimenti di quei sonatisti - compreso, talvolta, Clementi - che
costruivano la sonata alternando melodie ornate ed esercizi pianistici. Anche il secondo tempo
ha tutte le caratteristiche dell'esercizio per le dita: uniformità ritmica, passaggio degli stessi
disegni da una mano all'altra, scrittura quasi sempre a due parti sole. Le imitazioni tra le due
parti sono prevalentemente all'ottava, proprio come in certi studi o nelle più scolastiche sonate
di Clementi e di Cramer. Un segno inequivocabile della volontà di Beethoven di unificare i
tempi della Sonata è dato dalla riapparizione, nell'Allegretto, di un frammento tematico con
cui si concludeva il trio nel primo tempo.
Piero Rattalino
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
Tra le due grandi sonate beetho-veniane del 1804, la Waldstein e l'Appassionata, troviamo una
piccola opera senza titolo e in due soli movimenti. Fu pubblicata a Vienna per il Bureau des
Arts et d'Industrie nell'aprile del 1806, senza dedica e col titolo di Sonata op. 54. Per lungo
tempo fu fonte di infinite discussioni sulla sua forma e sulla sua origine. Perché, ad esempio, il
tempo di minuetto iniziale, che del minuetto non ha né il disegno né la taglia in quanto simile a
un tema con variazioni? Perché quel successivo Allegretto concepito come una sorta di rondò
toccatistico? La suddivisione in due tempi era forse da intendere come parte di un quadro più
vasto?
Un sottostante velo di ironia pervade l'intero lavoro, quasi che con essa il compositore avesse
voluto sottolineare l'atipicità delle sue scelte.
Nel primo movimento, In tempo di minuetto, un delicato primo tema si ripete a più altezze in
brevi strofe appena variate. Il secondo motivo è invece marcato e incisivo, reso più profondo
dal raddoppio dei suoni in ottava. Dopo la sua reiterazione muta sensibilmente, si alleggerisce,
perde il raddoppio di ottava, rallenta e si riduce a un inciso di poche note, sino a divenire
esitante: è questo un momento particolarissimo della Sonata, di magica attesa e incertezza. Di
lì a poco si concentra nel registro basso della tastiera e si interseca con il primo tema che,
come da esso ridestato, riacquista forma e consistenza nella sua prima variazione.
Il secondo movimento, l'Allegretto, si apre con un fitto moto perpetuo di semicrome. La trama
leggera del disegno melodico richiama limpide timbricità cembalistiche. Questo flusso sonoro
leggero e trasparente è ricavato dalla sommatoria di due sole voci: la sua scorrevolezza è
costante nel tempo e produce un effetto di movimento meccanico dal fascino irreale. Dopo una
ripetizione della sezione introduttiva, il perpetuum mobile si trasferisce verso nuove regioni
tonali e affronta una parte sviluppativa in cui si aggiungono, al basso, prima una pesante scala
cromatica discendente, poi al canto una saltellante figura ritmica sincopata. Un breve
stabilizzarsi su quartine reiterate, e un piccolo inciso si insinua a spezzare la quadratura
metrica, con curioso effetto di distorsione del decorso musicale, mentre una frase in
progressione modulante da esso stesso generata conduce al ritorno in fortissimo della nervosa
figura sincopata. Beethoven ha così predisposto l'intera struttura per una ripresa generale del
materiale, e per far ciò utilizza un segmento melodico che conduce alla dominante del tono di
fa maggiore. Tuttavia si tratta di una ripresa con caratteristiche prettamente conclusive, avviata
com'è in tono declamatorio sul pedale del basso - cosa che conferisce profondità e risalto alla
linea tematica - ora riassunta in forma sintetica nei suoi elementi più caratteristici. Dopo la
ripetizione delle due sezioni di elaborazione e di ripresa nel ritornello, si ripresenta una sorta
di duplicazione velocizzata della stessa ripresa in tempo Più Allegro, ancora sul pedale di fa,
ma con toni magniloquenti ed enfatizzati.
Marino Mora
Op. 57 1804
Sonata per pianoforte n. 23 in fa minore "Appassionata"
https://www.youtube.com/watch?v=MZ2J1eFM-Rs
https://www.youtube.com/watch?v=EAVnEWQlzyA
https://www.youtube.com/watch?v=Tdg-DT8rTUQ
Allegro assai
Andante con moto (re bemolle maggiore)
Allegro ma non troppo
Organico: pianoforte
Composizione: 1804 - 1805
Edizione: Bureau des Arts et d’Industrie, Vienna 1807
Dedica: Conte Brunsvik
Poche opere segnano come l'Appassionata quel mutamento di tendenza che si è prodotto nel
corso degli anni nei confronti dell'interpretazione di Beethoven. Considerata a lungo, e per
motivi non solo squisitamente musicali, il capolavoro più rappresentativo del periodo eroico, il
culmine tragico di un trittico aperto dalle Sonate Patetica e Al chiaro di luna, l'Appassionata è
venuta a poco a poco perdendo la sua aureola, conoscendo anche nelle sale da concerto, lei che
poteva vantarsi d'esser stata la Sonata preferita da Beethoven almeno fino all'op. 106, una
fortuna via via calante. La "più beethoveniana delle Sonate di Beethoven" apparve
condizionata dal suo stesso cliché, nel cui titolo, tanto adeguato, quanto notoriamente apocrifo,
si assommavano l'immagine stereotipata del genio solitario in lotta con il mondo, il patetismo
e la monumentalità, la fioritura romanzesca e la retorica sentimentaleggiante. L'intreccio,
sovente semplicistico se non volgare, tra vita e opera, di cui la biografia di Beethoven era stata
fatta oggetto, celebrava qui il suo trionfo, spostando l'attenzione dall'opera in sé al suo
corredo, di cui essa doveva essere espressione "emblematica" e a cui fu, di fatto, subordinata.
L'idea del titano trovava proprio nell'Appassionata la sua incarnazione ideale, sollecitando in
studiosi votati alla causa associazioni sempre più funamboliche: con Re Lear (Tovey) e con
Macbeth (Schering), con l'Inferno di Dante (Leichtentritt), addirittura con le tragedie di
Corneille (Rolland)!
In tempi a noi più vicini il progressivo spostamento dell'interesse da un lato sui frutti della
produzione del tardo stile, la più affacciata sulla modernità, dall'altro sui semi di quella degli
anni giovanili, se non delle opere apparentemente minori o di transizione, ha finito per
condizionare il primato di lavori che un tempo costituivano il fulcro stesso della visione di
Beethoven: sorte che l'Appassionata ha condiviso con un'altra opera coeva oggi meno esposta
alla retorica di un tempo, la Quinta Sinfonia o "del destino". Ciò ha avviato una revisione
anche del cosiddetto periodo di mezzo, quello nel quale la forzatura delle convenzioni dei
generi provoca un conflitto, senza tuttavia portare a una rottura. Se accettiamo per buona la
formula secondo la quale Beethoven, dopo essersi impadronito dello stile classico maturo, ha
sviluppato dall'interno nuove possibilità formali e logiche allentando il disegno classico e
consolidando uno stile interiore, esplorativo e trascendente, la tensione che si produce in questi
lavori d'urto non è un punto di arrivo né un segnale permanente, ma appunto una fase della
ricerca, al tempo stesso indice della fine di un'epoca e dell'inizio di una nuova.
Composta con lungo travaglio fra l'estate del 1804 e i primi mesi dell'anno successivo, ancora
rivista nella stesura definitiva del maggio 1806, allorché Beethoven era ospite dei Brunsvik
nella loro tenuta ungherese di Martonvàsar, la Sonata in fa minore venne pubblicata come op.
57 dal Bureau des Arts et d'Industrie di Vienna nel febbraio 1807 con la dedica al conte Franz
von Brunsvik, fratello di Therese e Josephine, con cui il musicista era impegnato in incrociate
schermaglie amorose (stando alla testimonianza di Therese, fu in quel periodo che Beethoven
si fidanzò segretamente con Josephine). Il titolo Appassionata, che non compariva nella prima
pubblicazione, apparve per la prima volta soltanto dopo la morte di Beethoven, in un'edizione
per pianoforte a quattro mani del 1838 presso Cranz di Amburgo, e da allora venne sempre
mantenuto. Non sappiamo se Beethoven avesse fatto in tempo ad avallarlo o meno, ma le
circostanze inducono a dubitare che esso si potesse riferire a una passione amorosa
contingente o a quella utopica per l"'immortale amata", e non fosse piuttosto, semmai, una
traccia per evidenziare quel violento contrasto di principi - essenza stessa della passione
metafisica - che ne contraddistingue il carattere. L'Appassionata è una vetta dell'espressione
passionale della sua epoca, ma rappresenta al tempo stesso il superamento del sentimento in
virtù della sua espansione e dello splendore della forma. Un osservatore attento come
Ferruccio Busoni giunse addirittura a mettere in secondo piano l'importanza dell'elemento
passionale e a riconoscervi invece i tratti fin troppo dimostrativi di un eloquio avvincente,
proprio dell'oratore che voglia far colpo sulle masse con veemenza inaudita: "il
temperamento" - egli scriveva - "mette al pensiero e ai bollori del sentimento la maschera di
una sfrenatezza corporea (cioè priva di pensiero e di sentimento)".
Da un punto di vista formale la Sonata in fa minore prefigura già la crisi del principio
dialettico ternario, articolandosi in due grandi blocchi ben distinti: un primo tempo dallo
sviluppo grandioso e un finale altrettanto vasto, preceduto da un breve movimento lento con
carattere di introduzione e ad esso direttamente collegato. In un certo senso il finale
rappresenta lo scioglimento delle tensioni del primo movimento, passate attraverso la
contemplazione impassibile, quasi irrigidita, del ponte centrale. Questo Andante con moto si
basa su un semplice tema di sapore popolare racchiuso in periodi regolari di otto battute, il cui
schema armonico deriva dal secondo tema del primo movimento; Beethoven lo sottopone a tre
variazioni che non sono altro che studi timbrici sulla tastiera del pianoforte e sul modo di
attacco del suono: prima nel registro grave (legato), poi in quello medio (sforzato), infine in
quello acuto (legato e sforzato combinati). La dimensione "timbro" fa qui aggio su ogni altro
elemento compositivo, aprendosi e chiudendosi a ventaglio: dopo il ritorno del tema iniziale,
una breve cadenza arpeggiata azzera il discorso senza che vi sia stato sviluppo e prepara la
strada allo scoppio del travolgente finale.
Beethoven lavorò a lungo sul tema iniziale della Sonata, trovandone la forma definitiva solo
dopo molte prove. Solenne, quasi imperioso, questo tema sembra scaricare la propria
aggressività in se stesso, ripetendosi per due volte un semitono sopra, quasi a cercare un'ascesa
dalle tenebre alla luce, e sospendendosi poi su un trillo pieno di misteriosa attesa, gravato dal
peso degli accordi di settima diminuita e di dominante. Il secondo tema in la bemolle
maggiore, che deriva strettamente dal primo, ha lo stesso ritmo, gli stessi intervalli, eppure è
profondamente diverso: ciò che là era frantumato e continuamente interrotto da ritardandi, si
espande ora con calma compattezza su un accompagnamento uniforme di terzine, libero e
disciolto, sereno e sicuro, senza angoscia. L'opposizione non è reale, ma viene trasferita su un
piano ìdeale: due principi che si confrontano e si fronteggiano. Lo sviluppo non porterà
dunque a una sintesi, ma a una sempre più piena, grandiosa affermazione della loro
complementarità. Lo stesso tono appassionato si divide in un atto di dolore e di contrizione da
un lato, di fiducia e di speranza dall'altro.
A differenza del primo movimento, che nacque faticosamente attraverso un complesso lavoro
di elaborazione del materiale tematico e ritmico, documentato dai numerosi schizzi rimastici,
il finale fu scritto rapidamente, quasi di getto, senza bisogno di abbozzi preparatori. Beethoven
abbinò in questo finale la forma del rondó con il principio del moto perpetuo, ricavandone il
tema dagli accordi di fanfara che l'introducono in fortissimo. Le note che lo costituiscono
mimando un appello di trombe e tromboni (si bemolle, sol, mi, re bemolle: ancora il vuoto di
una settima diminuita da colmare) vengono sviluppate in una rapida successione di
semicrome, praticamente senza interruzione fino alla brutale violenza accordale del Presto
finale. L'accumulazione che questo precipitare continuo di note a valore uniforme produce è
ad alta intensità espressiva, ma crea nel contempo uno svuotamento progressivo del contenuto
emotivo, ridotto a parvenza esteriore di un sentimento esasperato. E ciò conduce da ultimo alla
coincidenza del tono appassionato con un progressivo spegnersi della passione in un fenomeno
naturale inarrestabile e cieco, quasi un pezzo di virtuosistica bravura, emotivamente
travolgente ma non più sconvolgente.
Sergio Sablich
Composta tra l'estate del 1804 e i primi mesi dell'anno successivo la Sonata in fa minore op.
57 venne pubblicata soltanto nel febbraio 1807 dal viennese "Bureau des arts et d'industrie",
con dedica al conte Franz von Brunswick, fratello di Therese, ritenuta "l'immortale amata" di
Beethoven, secondo la testimonianza delle lettere scritte dallo stesso compositore. L'edizione
originale della Sonata non reca sul frontespizio il titolo di "Appassionata", con cui questa
composizione è universalmente nota. Fu l'editore Cranz di Amburgo che pubblicò dopo la
morte di Beethoven (1838) la Sonata sotto il nome di "Appassionata", cercando di evidenziare
il carattere drammatico della musica, immersa in un gioco contrastante di due stati d'animo
diversi. Non per nulla Romain Rolland, analizzando la struttura del primo tema dell'Allegro
assai iniziale, giunse alla formulazione di una chiara indicazione di perfetta antitesi, così
formulata; «Due facce opposte dell'io. L'io-forza selvaggia e l'io-debolezza tremante».
Si giunge così al mirabile Andante con moto del secondo movimento, pagina tra le più alte e
intimamente espressive elaborate dal compositore per il pianoforte. È un tema semplice, che si
ritiene derivato da un canto popolare natalizio, costruito su tre variazioni di straordinaria forza
armonica e melodica; la prima nel registro grave, la seconda in quello medio e la terza in
quello acuto. A detta di Walter Riezier, il segreto della bellezza di questo movimento consiste
«nell'incredibile maestria, con cui, dagli elementi primordiali dell'armonia, si sviluppa una
vera forma, la cui maestà si manifesta anche su tutte le sfuriate demoniache dei due tempi
estremi». Alla fine ritorna lo schema iniziale e il discorso di apre in una breve cadenza,
preludio allo scoppio improvviso del travolgente finale. Preceduto da una serie di accordi di
fanfara scatta l'Allegro ma non troppo, che alterna risolute proposte e brillanti virtuosismi,
pensosi ripiegamenti a potenti accentuazioni delle sonorità. La Sonata si conclude con un
Presto, una classica stretta finale realizzata con una serie di differenziazioni timbriche che
testimoniano quanto riesca difficile a Beethoven contenersi nell'ambito delle sole risorse
pianistiche.
Il tema del finale della Sonata venne in mente a Beethoven durante una passeggiata fatta con il
suo allievo Ferdinand Ries, il quale racconta: «Fu in una di queste passeggiate, nella quale
girammo tanto, che tornammo solo alle otto a Dobling, dove Beethoven abitava. Lui per tutta
la strada aveva borbottato fra sé e talvolta gridato, ma senza cantare note determinate. Gli
domandai che cosa avesse e rispose: "mi è venuto in testa un tema per l'ultimo allegro della
Sonata in fa minore op. 57". Quando entrammo nella stanza egli, senza levarsi il cappello,
corse al pianoforte. Io mi misi in un angolo e lui mi dimenticò presto. Imperversò almeno
un'ora sul tema del finale di questa Sonata, che era bell'e fatto. Da ultimo si alzò in piedi, si
meravigliò di vedermi ancora lì e disse: "Oggi non posso darle lezione, devo ancora
lavorare"». Al contrario, si sa che il primo movimento della Sonata ebbe una gestazione
difficile con una lunga elaborazione del materiale tematico e ritmico, così come risulta dai
numerosi schizzi riguardanti il primo e il secondo tempo dell"Appassionata", non a caso
studiata e ammirata da artisti aperti al nuovo, come Berlioz, Liszt e Wagner.
Guida all'ascolto 3 (nota 3)
Questa Sonata è famosissima, tutti l'abbiamo ascoltata molte volte, tutti ne sappiamo (o
crediamo di sapere) tutto quel che c'è da sapere, cosicché è veramente difficile avere la
presunzione di scriverne qualcosa di nuovo. Semmai può essere utile non aggiungere ma
togliere qualcosa alla sovrabbondante letteratura da cui è gravata.
Innanzitutto si dovrebbe liberarla dal titolo "Appassionata", che non le fu dato da Beethoven
ma le fu affibbiato dall'editore Cranz di Amburgo: a lui va dato il dubbio merito di questo
titolo deleterio ma astuto, nel senso che la sonata gli è stata debitrice d'una parte della sua
fortuna, perché il pubblico è stato così incoraggiato ad ascoltarla come una sorta di
confessione autobiografica di stampo romantico (un romanticismo di seconda mano, a base di
chiari di luna e di passioni amorose, meglio se tormentate e tempestose), senza affaticarsi a
seguire il ben più complesso linguaggio beethoveniano.
Secondariamente si dovrebbe far piazza pulita di tutte le parole che sono state spese per
trovare a ogni costo un collegamento tra questa musica e l'appassionato amore di Beethoven
per la misteriosa "immortale amata", senza preoccuparsi di rispettare almeno i dati
inconfutabili, tanto che può capitare di leggere che la Sonata è stata composta «nell'estate del
1806, quando fu scritta la famosa lettera d'amore all' "immortale amata"». Se ci si libera di
queste invenzioni romanzesche e si sta ai fatti, risulta chiaro che questa musica non può avere
alcun rapporto con la lettera all'"immortale amata", non datata ma risalente sicuramente al
1812: infatti la Sonata è stata cominciata nel 1804, completata all'inizio del 1805 e pubblicata
nel 1807 come opus 57. Secondo altri studiosi la composizione fu invece ultimata nel 1806,
quando Beethoven era ospite nella tenuta di Martonvasar del conte Franz von Brunsvik, cui la
Sonata in fa minore è dedicata.
Piuttosto che dare la stura a fantasie romantiche, queste date dovrebbero far riflettere per la
loro contiguità con una serie straordinaria di altre composizioni, che non solo si succedevano
ma talvolta si sovrapponevano sul tavolo da lavoro di Beethoven: la Sonata per pianoforte nota
come "Waldstein", la Terza, Quarta e Quinta Sinfonia, il Concerto n. 4 per pianoforte e
orchestra, i tre Quartetti "Rasumovsky" e il Fidelio (gli appunti per la Sonata sono contenuti
proprio in un taccuino occupato quasi per intero dagli schizzi per quest'opera). In quel periodo
relativamente breve ma intenso, tumultuoso e anche contraddittorio, Beethoven creò dunque
capolavori profondamente diversi tra loro ma tutti segnati dalla stessa netta e inconfondibile
impronta, riconoscibilissima nella grandiosità delle dimensioni, nella forza dell'espressione,
nella novità delle soluzioni formali.
La carica emotiva e drammatica della Sonata in fa minore op. 57 è talmente forte che
giustamente Massimo Mila ha scritto: «Son cose che la musica dice con evidenza solare, e
sarebbe assurdo presumere di farle capire con parole a chi non le avesse sentite nei suoni».
Seguiamo dunque il suo invito a concentrare la nostra attenzione sugli aspetti più strettamente
musicali, che sono quelli che provocano nell'ascoltatore l'impressione di una costante crescita
drammatica, che passa da un climax al successivo con un senso di assoluta e irrefrenabile
progressione, fino alla fine. Beethoven, dopo aver sperimentato in sonate precedenti una
diversa successione dei movimenti, torna nell'op. 57 ai tre movimenti classici, ma ne sovverte
dall'interno gli equilibri, perché il movimento lento centrale non è una pausa che interrompa la
drammaticità dei due movimenti estremi quanto un'introduzione al finale, cui è direttamente
collegato. Il finale - che fino ad allora costituiva un problema della sonata classica, perché non
riusciva a fornire un adeguato contrappeso al primo movimento, cosicché tutta l'architettura
appari riva sbilanciata - acquista proporzioni imponenti e intensa drammaticità, paragonabili a
quelle dell'Allegro assai, che a sua volta supera quanto si era mai scritto prima per il
pianoforte.
Contrapponendosi alle tonalità minori del primo e del terzo movimento, l'Andante con moto è
in re bemolle maggiore. In Beethoven questa rara tonalità racchiude sempre una nobiltà
interiore e una profonda emozione, mai perse di vista anche in questo movimento, che intesse
delle variazioni su un tema estremamente semplice, quasi privo di melodia e basato solo sul
quieto e lento movimento del basso: ognuna delle quattro variazioni si differenzia dalla
precedente per il registro più acuto e contemporaneamente per l'andamento più scorrevole. Il
ritorno del tema nella sua veste iniziale conduce a due accordi arpeggiati, il primo pianissimo
e leggero, il secondo secco e fortissimo, che segnano la transizione all'Allegro ma non troppo.
Subito uno stesso accordo ribattuto per tredici volte e poi un turbinoso inseguirsi di semicrome
riportano anche in questo finale l'atmosfera corrusca e tempestosa dell'Allegro assai, ma qui
«la furia cieca delle passioni, che nel primo tempo aveva accanitamente contrastato la
coscienza morale, [...] ha il sopravvento, scatenandosi con l'indomabile violenza di una forza
della natura e violentando la materia sonora fino a parossismi espressionistici toccati da
Beethoven solo in opere avveniristiche come la Grande Fuga op. 133» (G. Carli Ballola). A
differenza del primo movimento, l'Allegro ma non troppo è quasi totalmente privo di contrasti,
trasfigurando la forma del rondò in una specie di tragico e possente moto perpetuo, che si
placa soltanto per alcuni brevi istanti, giusto il tempo di riprendere lena. Alla fine le raffiche di
semicrome vengono risucchiate in un Presto quasi demoniaco, che non sembra i concludersi
ma piuttosto infrangersi contro tre accordi ribattuti con brutale violenza.
Mauro Mariani
Op. 78 1809
Sonata per pianoforte n. 24 in fa diesis maggiore "À Thérèse"
https://www.youtube.com/watch?v=FUJw24ObDiQ
https://www.youtube.com/watch?v=aNEHNAv7KS8
https://www.youtube.com/watch?v=_wHH-p3Zvmc
Organico: pianoforte
Composizione: 1809
Edizione: Clementi, Londra 1810
Dedica: Thérèse von Brunsvik
Beethoven si applicò alla ventiduesima Sonata del suo catalogo, l'op. 78, dopo una pausa di
circa tre anni dalla precedente celebre Appassionata. Mai, in precedenza, era stato inattivo per
tanto tempo sul fronte della Sonata per pianoforte, e questa inattività, confrontata con
l'incessante attenzione in precedenza rivolta allo strumento a tastiera, testimonia del deciso
orientamento verso la produzione con orchestra, nonché di una ormai acquisita confidenza
verso tutte le risorse espressive dello strumento a tastiera e del genere della Sonata. All'editore
Breitkopf und Härtel, che gli chiedeva nuove opere per pianoforte, rispose: "Non amo dedicare
molto tempo alle Sonate per pianoforte solo, però gliene prometto qualcuna" (19 settembre
1809); l'op. 78 venne poi pubblicata nel novembre 1810 a Lipsia, appunto per i tipi di
Breitkopf und Härtel. Ovvio che, dopo i vertici di alta drammaticità e spettacolarità
dell'Appassionata, le nuove applicazioni in questo campo non potessero ripercorrere le vie del
passato, ma dovessero muovere anzi in direzione inversa; dunque non grandi articolazioni e
alte ambizioni concettuali, ma la scelta di dimensioni dimesse e la tendenza verso un
pronunciato intimismo, caratteristiche che accomunano la Sonata op. 78 e quelle, diversissime,
nate negli anni seguenti (op. 79, op. 81a, op. 90).
Nelle Erinnerungen an Beethoven Carl Czerny, amico e confidente del maestro, riferisce una
frase del compositore relativa all'op. 78: "Si parla sempre della Sonata in do diesis minore [op.
27 n. 2] ma io ho in verità scritto di meglio. La Sonata in fa diesis maggiore è qualcosa di
diverso". Un giudizio che certamente non corrisponde a molti stereotipi legati al pianismo di
Beethoven; l'op.78 si affida a un impianto in soli due agili movimenti, dalle sonorità
"pianistiche" in senso tradizionale, senza che questo implichi ovvietà dei contenuti. I due
movimenti sono fra loro estremamente dissimili nel carattere, ma conservano entrambi un
gusto dell'eleganza, della rifinitura, della discrezione che assicura unità alla composizione. Il
tempo iniziale consta di una introduzione di appena quattro battute - una innodia accordale e
ascendente in Adagio cantabile - e di un Allegro ma non troppo in forma sonata, aperto da una
melodia intimistica, tersa, pura, dolcemente cantabile; nella sua varietà di atteggiamenti il
movimento non si discosta da questa impostazione, neanche nel breve sviluppo, animato dal
contrasto fra i ritmi principali. Questa tendenza al canto, che è stata considerata
preschubertiana, viene contraddetta dall'Allegro vivace, un brioso Rondò che si avvale, come
refrain, di una incisiva fanfara di "caccia", e che prosegue scorrevolmente sul veicolo di una
agilità leggiadra e frammentaria, non priva di implicazioni umoristiche.
Arrigo Quattrocchi
Nel 1809, l'anno dell'assedio di Vienna e della resa ai francesi, Beethoven riconsiderò lo
spirito e la scrittura della sonata per pianoforte. Cinque anni sono passati dalla
Waldsteinsonate e dall'Appassionata, con cui Beethoven aveva portato all'incandescenza le
possibilità orchestrali dello strumento; adesso le sonate opere 78, 79 e 81, tutte del 1809,
segnano un ritorno ad una dimensione fonica affatto pianistica, un rinnovato interesse per le
possibilità timbriche dello strumento, ancor vergini sugli albori della Romantik. Questa
affinità profetica fra un'epoca musicale ed un timbro è specialmente evidente nella Sonata in fa
diesis maggiore. Nei due tempi che la compongono il pianismo percussivo, con i suoi ritmi
inesorabili e le sue armonie schematiche, è sostituito da un gioco filigranato, condotto fra il
piano ed il mezzoforte, sostenuto da una condotta armonica modulante, concepita
appositamente per le figurazioni spezzate, con cui gli accordi sono disposti sulla tastiera. Il
mondo di Schumann, se non anche quello di Chopin, è alle porte; e il loro medium strumentale
è già individuato nelle sue essenziali componenti lessicali.
Una mossa preludiante. Adagio cantabile, conduce ad una tenera idea tematica. Essa è la sola
vocalmente caratterizzata di questo primo tempo, mentre le altre figurazioni si presentano
avvolte nelle filigrane pianistiche. Caratteristico del nuovo spirito anche l'assenza di
contrapposizioni dialettiche, quelle che avevano dato la loro impronta al Beethoven titanico.
Anche l'Allegro vivace è costruito su una sola idea tematica definita, spaziata da ondeggianti
figurazioni pianistiche. Questa idea potrebbe esser definita un esordio di Scherzo, che poi
svapora in un flusso inarrestabile di duine, una figura ricorrente nel pianoforte di Schubert. E i
due principi, quello tematico, e quello pianistico, si alternano a guisa di rondò nei ruoli del
refrain e dei suoi couplets.
Op. 79 1809
Sonata per pianoforte n. 25 in sol maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=kSZEEBzYoYo
https://www.youtube.com/watch?v=-aVvyLUjDHI
https://www.youtube.com/watch?v=69kK4fE_yI4
Organico: pianoforte
Composizione: 1809
Prima esecuzione: Vienna, Großer Redoutensaal del Burgtheater, 29 dicembre 1812
Edizione: Clementi, Londra 1810
Al gusto delle "piccole cose" si volge l'op. 79, che fu denominata dall'autore "Sonatina",
termine che definisce una poetica, e non può certo essere inteso in senso riduttivo. Questa
Sonata si articola in tre movimenti, tutti contraddistinti da un carattere popolaresco. Il
movimento iniziale, Presto alla tedesca, è interamente pervaso da un umorismo ruvido,
affidato all'incalzante propulsione ritmica, ai giochi di inversione del materiale fra le mani,
agli sforzati e ai contrasti dinamici; caratteri riassunti dalla brillantissima coda, con l'aggiunta
di capricciose acciaccature. Il breve Andante è articolato in tre sezioni, con una malinconica
cantilena appoggiata a nude ed essenziali figurazioni di accompagnamento. Il Vivace
conclusivo, in forma di Rondò, è di una concisione quasi icastica, ma con un gusto raffinato
del cesello e della miniatura; il refrain, animato da un brusco contrasto dinamico, ricorda certe
pagine di Haydn improntate allo stile popolare, e viene variamente trasformato, con rinnovati
intenti giocosi.
Arrigo Quattrocchi
https://www.youtube.com/watch?v=PlJGliWCDVc
https://www.youtube.com/watch?v=Z26dfRI9rqg
https://www.youtube.com/watch?v=9TXQSz_4AMY
L'op. 81 (divenuta poi op. 81a perché inavvertitamente venne pubblicata come op. 81 anche
un'altra composizione di Beethoven) può essere facilmente inserita in un contesto storico che
vide fiorire, tra il 1790 e il 1815, una interminabile serie di pezzi programmatici per
pianoforte, nei quali vennero passate in rassegna tutte le battaglie napoleoniche, tempeste di
mare e disastri di montagna, partenze, viaggi, lontananze e ritorni. L'op. 81 appartiene quindi
ad una tendenza a cui Beethoven si accostò per un momento e che, ben s'intende, distanziò di
mille leghe.
Non accenneremo neppure a tutte le discussioni che il titolo ha suscitato: discussioni di prò e
di contro, e, tra i prò, almeno tre grandi scuole: i pro-Arciduca, i pro-un-amico-indefinito (o
pro-una-amica), i pro-Thérèse-Brunswick, supposta fidanzata segreta di Beethoven. Tra i
contro ricordiamo solo una vecchia signora austriaca, che quasi con le lacrime agli occhi ci
confessò la sua costernazione per il fallo della Program-musik beethoveniana.
Nel primo tempo della Sonata Beethoven attua l'intimo connubio tra l'introduzione in
movimento lento ed il vero e proprio tempo. Il Lebewohl, per moto contrario, diventerà uno
dei temi di collegamento e, per moto retto, diventerà il secondo tema. Ma anche il primo tema
è una variante ritmica del Lebewohl: una variante ritmica nella quale noi non saremmo alieni
dal vedere una imitazione stilizzata del galoppo dei cavalli (il Lebewohl, che è a due voci,
sembra a sua volta imitare il suono dei corni di posta: le note del Lebewohl sono poste in un
registro in cui il corno in mi bemolle ha bellissimi suoni "aperti"). Ed infine, anche la
conclusione è basata sulla cellula tematica del Lebewohl, che circola così per tutta
l'esposizione. Non sarà diffìcile per nessuno seguire le peripezie del Lebewohl e del galoppo
dei cavalli nello svolgimento. La ripresa è tradizionale, ma viene seguita da una lunghissima
Coda, che da sola pareggia esposizione e svolgimento. Nella Coda troviamo due canoni sul
tema Lebewohl: uno limitato all'aspetto melodico, uno esteso anche all'aspetto armonico;
quest'ultimo provoca incontri durissimi, che parvero inconcepibili ai contemporanei. E
Ferdinand Ries, allievo di Beethoven, dovè pensare che il dolore per la partenza dell'Arciduca
avesse fatto dar di volta il cervello al Maestro, tanto che semplicemente soppresse il canone
incriminato.
Nel secondo tempo il tema è formato con la prima cellula del Lebewohl, variata per
interversione. Il tema principale dell'ultimo tempo è invece del tutto nuovo, anche se, con un
pò di buona volontà, si può imparentarlo con il tema del primo tempo; la cellula Lebewohl
ricompare brevemente, trasformata in un gruppetto rapido e brillante. Il tema del Ritorno è
splendidamente variato in una Coda in movimento rallentato.
La Sonata per pianoforte op. 81a è l'unica sonata pianistica e una fra le pochissime
composizioni del catalogo beethoveniano per le quali l'autore abbia previsto una precisa e
dichiarata idea programmatica. Proprio per questo la composizione è riuscita quasi del tutto a
sfuggire a quella fantasiosa e deteriore aneddotica che costantemente ha accompagnato la
maggior parte delle opere del maestro di Bonn. Ciò nonostante la critica idealistica,
costantemente in caccia dei più intimi rapporti fra l'artista e la sua produzione, ha immaginato
che protagonista della succinta traccia programmatica fosse la cosiddetta "immortale amata".
Nessun ragionevole dubbio può sussistere invece che la Sonata sia stata pensata in diretto
riferimento alla partenza e al ritorno da Vienna dell'Arciduca Rodolfo d'Austria, costretto ad
allontanarsi dalla capitale per la guerra austro-francese dell'aprile-ottobre 1809.
Allievo e mecenate di Beethoven, l'Arciduca Rodolfo aveva sottoscritto, nel marzo 1809, con i
principi Kinsky e Lobkowitz, un documento nel quale concedeva al compositore una rendita
vitalizia, per sollevarlo dalle preoccupazioni materiali, esigendo quale unico corrispettivo la
permanenza nei confini dello Stato. A prescindere dal valore del documento, che segna in
qualche misura l'affrancamento della figura del musicista dalla condizione di dipendente e
cortigiano, non può stupire che Beethoven celebrasse il suo benefattore in una apposita
composizione. Il brano fu redatto, presumibilmente, fra il maggio 1809 e il gennaio 1810. Il 4
febbraio 1810 il compositore scriveva al suo editore indicando i titoli da apporsi sopra
ciascuno dei movimenti: Abschied (partenza), Abwesenheit (assenza), Das Wiedersehen (il
ritorno), con esplicito riferimento "al venerato Arciduca Rodolfo". Ma l'editore eliminò del
tutto tale riferimento al mecenate (certo per ragioni dettate da diplomazia politica), e tradusse i
titoli in francese, suscitando, le proteste dell'autore, per il quale Lebewohl "non si dice che ad
una persona e col cuore" mentre Les adieux "si rivolge a un'assemblea, a delle città intere".
La destinazione "privata" dell'op. 81a trova un puntuale corrispettivo nel suo contenuto
musicale. La scelta di una timbrica sobria e contenuta, le dimensioni non vaste del brano e la
sua assenza di drammatiche estroversioni, caratteri comuni del resto a tutte le coeve opere
pianistiche (con l'ovvia eccezione del Quinto Concerto), corrispondono a una destinazione non
concertistica. Il primo movimento si apre con un pensoso Adagio introduttivo, con subito
all'inizio il breve inciso discendente che verrà ripreso e trasformato nel seguente Allegro, una
pagina espressivamente agitata, mirabile per la perfetta, concentrata organizzazione del
materiale musicale. Il centrale Andante espressivo riprende la sobrietà di scrittura del primo
movimento (ed anche diversi spunti ritmici e melodici), contrapponendo un motivo breve e
incisivo e una tenera frase cantabile. Senza soluzione di continuità, una breve e agitata
transizione conduce al Finale (Vivacissimamente), dove si impone una scrittura più estrosa e
brillante; non senza che il ritorno in Poco Andante, al termine, del motivo iniziale del
movimento ribadisca l'assunto intimistico dell'intera composizione.
Arrigo Quattrocchi
Op. 90 1814
Sonata per pianoforte n. 27 in mi minore
https://www.youtube.com/watch?v=zcTHZmUXYzg
https://www.youtube.com/watch?v=b3L967vbdyU
https://www.youtube.com/watch?v=WnTV9OHHbBM
Mit Lebhaftigkeit und durchaus mit Empfindung und Ausdruck (Con vivacità ma sempre
con sentimento ed espressione)
Nicht zu geschwind und seht singbar vorzutragen (Non tanto mosso e molto cantabile): mi
maggiore
Organico: pianoforte
Composizione: 1814
Edizione: Steiner, Vienna 1815
Dedica: Conte Lichnowski
Con le due Sonate op. 53 e op. 57, nate fra il 1803 e il 1805, consapevole di avervi
compendiato il respiro sinfonico e il carattere plastico della Sinfonia Eroica, Beethoven
sembrava aver esaurito, o quanto meno accantonato, il suo interesse per lo strumento più
importante del secolo; e non scrive più Sonate fino al 1809 quando l'editore Breitkopf si fa
avanti con una richiesta: «non amo dedicare molto tempo alle Sonate per pianoforte solo, però
gliene prometto qualcuna», sarà la risposta del musicista che sceglierà poi un nuovo tono
espressivo, una nuova impostazione tecnica, lasciando alle op. 53 e 57 un evidente primato.
Codeste novità si riassumono nel fatto che Beethoven intuisce i terrestri umori di quella
sensibilità romantica che stava venendo a maturazione: c'è un non so che di Schubert in queste
nuove Sonate; la pretesa tecnica diventa meno esigente, il tematismo meno tagliente, il tratto si
fa più borghese, spesso amabile, l'istinto costruttivo più minuto, pronto ad indugiare su
particolari secondari: già le tre Sonate del 1809-10, le op. 78, 79 e 81a, sono indicative in tale
senso, ma i caratteri si precisano ancora con la Sonata op. 90, scritta nel 1814 dopo una nuova
astinenza dalla produzione per pianoforte solo (circostanza rilevata dalla "Wiener Zeitung" del
9 giugno 1815).
Nel 1814 Beethoven partecipava a quella fase di patriottismo molto sentita a Vienna dopo la
caduta di Napoleone (la sinfonia La vittoria di Wellington op. 91 dell'anno prima era stato il
suo contributo più saliente) e nell'op. 90 usa per la prima volta le indicazioni dinamiche dei
rispettivi movimenti in lingua tedesca; tuttavia, oltre all'orgoglio nazionale, in un'opera la più
lontana pensabile dall'eloquenza, agiva appunto quella temperie romantica che gli faceva
ritenere i vecchi termini italiani (allegro, andante ecc.) buoni al più per l'inquadramento
dinamico generale, preferendo quindi la lingua madre per tutto ciò che attiene l'anima della
composizione (tuttavia un "dolce" e un "teneramente" si insinuano di soppiatto nel secondo
movimento, a confermare un clima espressivo già compiutamente realizzato dal puro dettato
musicale). Uno dei primi recensori dell'op. 90 (sul'"Allgemeine Musikalische Zeitung" del
1816) giudicherà la Sonata, come una delle più «semplici, ricche di melodia, piene
d'espressione, di chiarezza e di dolcezza» fra tutte quelle di Beethoven, molto opportunamente
citando quali precorritrici di tali caratteri le due Sonate op. 14; in realtà, il primo movimento
(tradotto in italiano: "Con vivacità, ma sempre con sentimento ed espressione") colpisce
soprattutto per la riduzione della drammaticità sonatistica a forme brevi e concise, oltre che
per una scrittura cangiante, talvolta economica, poco "pianistica" nella sua essenzialità; gli
attributi di dolcezza e amabilità celebrati dai primi recensori aderiscono invece perfettamente
al secondo movimento ("Non tanto mosso e molto cantabile") in mi maggiore e in forma di
rondò: finali di questa sorta, dal tempo moderato e dalla cantabilità distesa, sono presenti nella
creatività beethoveniana fin dalle Sonate op. 7 e op. 22; ma qui questo tipo si perfeziona in
affettuosità e interiorità e l'analogia tematica con il Rondò di Schubert in la maggiore per
pianoforte a quattro mani è la spia migliore della sua straordinaria novità sentimentale.
La Sonata op. 90 è dedicata al principe Moritz Lichnowsky per ringraziarlo della pena che si
era dato nell'ottenere una ricompensa a Beethoven per l'omaggio della Vittoria di Wellington al
principe reggente inglese; del principe Lichnowsky aveva fatto scalpore a Vienna il suo
secondo matrimonio con una cantante del Teatro and der Wien; secondo Schindler, ma con
poco fondamento, la Sonata op. 90 rifletterebbe questa vicenda, dai contrasti matrimoniali fino
alla sospirata gioia familiare.
Giorgio Pestelli
Le 32 Sonate per pianoforte, pubblicate fra il 1796 e il 1823, accompagnano con regolarità
Beethoven nell'intero arco della sua attività compositiva e costituiscono quindi un laboratorio
d'osservazione (o meglio d'ascolto) privilegiato per seguire gli sviluppi nel suo modo di
utilizzare le caratteristiche timbriche, dinamiche e meccaniche di uno strumento ancora in
evoluzione. Ma questa sperimentazione sonora in Beethoven si affianca a una ricerca formale
che investe la struttura, il numero e la disposizione dei movimenti di una sonata.
Fino al 1805 Beethoven non ha praticamente mai smesso di scrivere sonate e in poco più di un
decennio ne ha composte e pubblicate 23. Quasi ognuna di queste sonate dà un proprio
contributo originale alle sue ricerche: l'op. 13, le due sonate "quasi una fantasia", l'op. 28, l'op.
31 n. 2, la Waldstein, l'Appassionata sono solo alcuni esempi scelti tra quelle più note.
Terminata l'Appassionata Beethoven per la prima volta interrompe la sua produzione
sonatistica per un periodo abbastanza lungo: dopo circa quattro anni di silenzio - durante i
quali vedono la luce, fra l'altro, la Quarta, la Quinta e la Sesta Sinfonia, il Quarto e il Quinto
Concerto per pianoforte e quello per violino e i Quartetti Rasumovskij - fra il 1809 e il 1810
nascono le sonate op. 78, op. 79 e op. 81a.
Una nuova pausa, durata anch'essa quattro anni - in cui nascono la Settima e l'Ottava Sinfonia,
il Trio "Arciduca" e la Sonata per violino e pianoforte op. 96 - viene interrotta, nell'estate del
1814, dalla composizione della Sonata in mi minore op. 90.
In questa affascinante sonata Beethoven per la prima volta utilizza unicamente il tedesco per le
didascalie dei movimenti, sforzandosi di indicare all'esecutore non solo lo stacco dei tempi ma
anche l'approccio interpretativo fondamentale di ciascun movimento: "mit Empfindung und
Ausdruck" ("con sentimento ed espressione") il primo, "sehr singbar" ("molto cantabile") il
secondo; e insiste particolarmente su questa espressiva cantabilità, che potrebbe far pensare a
Schubert, soprattutto nel secondo movimento, in cui ricorrono, con una frequenza insolita per
lui, due indicazioni, questa volta in italiano: dolce e teneramente.
Non è invece la prima volta che Beethoven compone una sonata in due soli tempi: senza
considerare le due Sonate facili op. 49, lo ha già fatto nel 1804 con la Sonata op. 54 e nel 1809
con la Sonata op. 78, una delle sue preferite.
Ma nel corso dell'Ottocento gli interpreti non apprezzarono particolarmente l'intimismo - nelle
dimensioni e nei contenuti - della Sonata op. 90, non riuscendo a farlo coincidere con
l'immagine titanica e volitiva che di Beethoven si aveva in quegli anni: i primi a eseguirla in
pubblico con una certa frequenza furono soltanto Anton Rubinstein e poi Sergei Rachmaninov.
E' anche grazie a interpreti come loro se noi oggi possiamo apprezzare nella giusta luce il
tenero intimismo e la serena cantabilità («l'humus liederistico» per dirla con Giovanni Carli
Ballola) di questa sonata che prepara la strada agli ultimi cinque capolavori beethoveniani del
periodo 1816-1822.
Carlo Cavalletti
https://www.youtube.com/watch?v=slG2beCULjY
https://www.youtube.com/watch?v=SnatiQQHgdI
https://www.youtube.com/watch?v=ZsItzA34B1I
Etwas lebhaft, und mit der innigsten Empfindung. Allegretto ma non troppo
Lebhaft, marschmassig. Vivace alla marcia (fa maggiore)
Langsam und sehnsuchtsvoll. Adagio ma non troppo con affetto, tempo del primo pezzo (la
minore)
Geschwind, doch nicht zu sehr und mit Entschlossenheit. Finale. Allegro
Organico: pianoforte
Composizione: 1816
Edizione: Steiner, Vienna 1817
Dedica: Baronessa Dorothea Ertmann
Questa Sonata completata da Beethoven nel 1816, ma risalente nei primi abbozzi al 1813,
procede in buona parte dalle conquiste espressive dell'op. 90; nelle didascalie dei movimenti
accanto alla tedesca ricompare la lingua italiana, ma Beethoven insiste con l'editore perché nel
frontespizio appaia il nuovo termine "Hammer oder Hämmer-Klavier", oppure ancora
"Hämmer-Flügel" accanto al tradizionale "Piano-Forte". L'opera è dedicata alla baronessa
Dorothea von Ertmann, dal 1803 allieva di Beethoven e grande esecutrice al pianoforte delle
sue opere.
Giorgio Pestelli
Bruno Cagli
La Sonata op. 101 fu composta tra il 1815 e il 1816 e pubblicata a Vienna dall'editore Steiner
nel febbraio del 1817 durante uno dei periodi più travagliati della vita di Beethoven. Nel
novembre 1815 il fratello Karl moriva lasciandolo tutore insieme con la vedova di un bambino
di nove anni che portava lo stesso nome, del padre. Fin dall'inizio Beethoven si oppose
vivacemente a dividere con una cognata di dubbia moralità la tutela del piccolo Karl sul quale
già riversava quel desiderio di affetti familiari a lungo frustrato durante la sua vita scontrosa e
solitaria. Saranno gli anni di una lunga, esasperante vertenza giudiziaria conclusa solo nel
1820 con la definitiva assegnazione del ragazzo allo zio. E alle seccature derivate dal doversi
muovere nella burocrazia dei tribunali si aggiunse il dolore del riconoscere che quel ragazzo in
fondo mal sopportava l'affetto morboso e soffocante dello zio, le sue continue prediche, il suo
astratto rigore morale.
In questi anni di intense preoccupazioni familiari nasce la Sonata op. 101 dedicata alla
baronessa Dorotea Ertmann, allieva prediletta di Beethoven e ottima pianista. E la conferma
delle capacità eccezionali e dell'intelligenza della Ertmann è data dal carattere arduo e
sperimentale della Sonata dove le difficoltà tecniche ancor prima che da motivi strettamente
manuali sembrano nascere dai problemi formali e concettuali sconcertanti che quest'opera
solleva. Per valutare in pieno la novità improvvisa della Sonata in la maggiore basterebbe
confrontarla con la precedente opera 90 composta appena l'anno prima. Se nel carattere
liederistico e intimo dell'opera 90 Beethoven tocca il maggiore momento di contatto con i
fermenti del romanticismo musicale nascente, col clima delicato e salottiero del nuovo gusto
pianistico ottocentesco di lì a poco incarnato da Schubert, nella successiva opera 101 sembra
astrarsi dal proprio tempo per addentrarsi in un processo di ricerca e di verifica delle leggi
preposte al linguaggio dei suoni esplorandone gli elementi costitutivi e rivolgendosi per
l'articolazione formale a procedimenti contrappuntistici del passato, che nella Vienna frivola e
trionfante del Congresso dovevano assumere un tono di arcaismo sinistro e incomprensibile.
Di qui l'atteggiamento sospettoso di molti commentatori che avanzano nella Sonata op. 101
l'ipotesi di uno squilibrio evidente tra sperimentalismo e risultato poetico. Certo dalle pagine
turbolente e scontrose di questo capolavoro emana tutto il travaglio del suo assunto
innovatorio, una sorta di ansia avventurosa nella consapevolezza di tentare l'intentato.
In un breve esame schematico del percorso della Sonata è bene rilevare subito quella che sarà
una costante dell'ultimo Beethoven, il riferimento esplicito alle griglie formali della tradizione
classica e nello stesso tempo il desiderio sempre presente di violentarlo. Così l'Allegretto ma
non troppo, pur presentando lo schema armonico della forma-Sonata nel quale sono ancora
rintracciabili le categorie di esposizione, sviluppo e ripresa, si svolge come elaborazione
continua dell'incipit di avvio. Una specie di sviluppo tematico perenne in un procedere
fiuttuante e indefinito che a Wagner sembrerà la perfetta prefigurazione del suo concetto di
«melodia infinita».
Il secondo tempo Vivace alla marcia con le cesure nette dei suoi ritornelli segue la forma
consueta di uno Scherzo con Trio. Tutto il tempo è dominato da un implacabile moto
contrappuntistico che, prediligendo le zone estreme della tastiera, gli conferisce un dinamismo
aspro e tagliente. Il Trio basato su un canone rigoroso all'ottava si differenzia per la scomparsa
del ritmo puntato di marcia e costituisce un'oasi pastorale prima della ripresa del movimento
asciutto e ossessivo della prima parte. Anche l'Adagio ma non troppo, con affetto non rinuncia
a un fitto gioco di imitazioni intorno alla formula ricorrente di un breve abbellimento
melodico. Una cadenza conduce alla riapparizione sorprendente del tema melodico
dell'Allegretto iniziale, quasi Beethoven volesse indicare la coesione strutturale di questi primi
tre tempi. Un secondo blocco compatto è formato dall'Allegro conclusivo, la pagina di
maggior impegno formale ed esecutivo di tutta la Sonata. Si tratta di una perfetta
sovrapposizione di elementi fugati sulla struttura di una tradizionale forma sonata,
esperimento già tentato dall'ultimo Mozart nel finale della Sinfonia Jupiter. Così il secondo
tema si limita a interrompere per un attimo il movimento vorticoso dell'incipit ritmico dando la
sensazione di una ossessiva elaborazione monotematica.
La Sonata op. 101, nella sua volontà manifesta di spalancare soluzioni formali ardite e in certi
casi inedite come nella sua impervia scrittura così poco pianistica e brillante, è la sorella ideale
delle due Sonate per violoncello op. 102 e testimonia già il conflitto tra struttura armonico-
sonatistica e contrappunto che sarà alla base di tutti i capolavori dell'ultimo Beethoven.
Giuseppe Rossi
https://www.youtube.com/watch?v=06O5TWFMmPs
https://www.youtube.com/watch?v=VgHyxMIh1Mo
https://www.youtube.com/watch?v=z3nY_jVaWL8
Allegro
Scherzo. Assai vivace
Adagio sostenuto. Appasionato e con molto sentimento (la maggiore)
Largo (fa maggiore). Allegro risoluto
Organico: pianoforte
Composizione: 1817 - 1819
Edizione: Artaria, Vienna 1819
Dedica: Arciduca Rodolfo d'Asburgo
Beethoven stesso, che venne creando la Sonata in si bemolle attraverso una quantità
incredibile di appunti, pentimenti e ripensamenti dell'ultima ora, era ben consapevole della
scarsa adeguatezza dei contemporanei alla novità della composizione: «eccovi una sonata -
pare abbia detto all'editore Artaria - che darà del filo da torcere ai pianisti, quando la
suoneranno fra cinquant'anni»; e ancora di più sorprende la disponibilità manifestata a
proposito dell'edizione londinese in una lettera del marzo 1819 a Ferdinand Ries, lasciato
arbitro della situazione: «Se la Sonata non fosse adatta per Londra, potrei mandarne un'altra,
oppure Lei potrebbe anche omettere il Largo e cominciare direttamente dalla Fuga che
costituisce l'ultimo tempo; oppure potrebbe usare il primo tempo e poi l'Adagio e quindi lo
Scherzo - omettendo il n. 4 con il Largo e l'Allegro risoluto...» e così via, quasi sezionando un
modello anatomico. In effetti, al pianista e al suo pubblico si presentano problemi tecnici e di
equilibrio che trascendono il mestiere e l'astuzia strumentale dei primi decenni dell'Ottocento:
il piglio monumentale, l'arditezza delle combinazioni e la selva digitale della Fuga conclusiva
sono senza riscontri nel panorama contemporaneo; e talvolta la partitura sembra richiedere,
oltre al pianista, un orchestratore: che tuttavia sia consapevole di come ogni idea sinfonica o
quartettistica, una volta trasferita sulla tastiera approdi a individuazioni timbriche uniche e
irripetibili.
Una vigorosa affermazione ritmica della tonalità di si bemolle apre la Sonata, scuotendo
l'ascoltatore come una possente fanfara che lo esorti all'attività. Passata l'ondata patriottica,
Beethoven ritorna alle vecchie indicazioni in italiano e lavorando in grande, con la sola parola
"Allegro", può comprendere tutto quello che gli premeva dire: non più contrasto drammatico o
"patetico'" come nel sonatismo anni 1800, ma un flusso inventivo continuo sotto luci diverse,
un punto di vista superiore che contempla e quasi capisce dall'alto il risalto delle strutture
polifoniche e il frammettersi fra queste del lirismo più solitario e sensitivo. L'energia
comunitaria del primo movimento si suddivide nella rapidità dello Scherzo: sinistri bagliori,
incerti fantasmi vengono sottomessi a una furiosa carica dinamica, che quasi per ironia aveva
in un primitivo disegno il nome di "minuetto".
Giorgio Pestelli
La forma è quella in quattro tempi, ampliata di un tempo introduttivo al finale; una forma cui
Beethoven non ricorreva dall'op. 31 n. 3. La stessa forma quadripartita della Sonata
schubertiana. Ma dove Schubert si perde nella contemplazione della bellezza Beethoven si
strugge nella lotta, si crea dei limiti sovrumani per superarli. La lotta di Beethoven, qui più che
altrove, è la lotta del musicista contro la forma e le sue leggi, è la creazione di una complessa
architettura mediante l'essenzialità di procedimenti basilari. Una lunga storia analitica della
Grosse Sonate für das Hammerklavier (solo qui gli editori hanno ottemperato alle disposizioni
originali in fatto di titoli, volute fin dall'op. 101) ha dimostrato che due elementi base
costruiscono la forma dell'opera: il conflitto di due tonalità 'lontane' (si bemolle, la luce; si
minore, l'oscurità, la «tonalità nera»); e l'intervallo di terza, nella sua forma unificante sia del
materiale armonico, sia tematico, da esso derivati.
Un intervallo ascendente di terza (aggiunta posteriore questa «sorta di gesto arcano», come lo
defini l'allievo Ries) si apre su una delle più sublimi meditazioni beethoveniane, in cui le
accurate indicazioni dinamiche (specie tra una corda e tre corde) tradiscono una sofferta
vicenda espressiva di tensioni e distensioni. Un Largo di straordinaria originalità e novità
conduce poi alla grande Fuga conclusiva. «Musica primordiale» (Ur-Musik) secondo Busoni,
libera nella scrittura, esprime lo stupore, l'attesa per quanto sta per accadere. Il che è appunto
la Fuga; il momento della Sonata dove è più evidente, secondo la poetica immagine manniana,
l'odio di Beethoven per la forma e il suo desiderio di violentarla. Nella gestualità teatrale
dell'inizio vi sono gli elementi tematici basilari: il salto di decima che ha aperto la Sonata, il
trillo, la triplice cascata di semicrome seguita da una sorta di moto perpetuo. Questo materiale
dà vita a sei episodi, costruiti secondo svariati artifici polifonici: aumentazione,
'cancrizzazione', contrario motu, etc. Verso la fine si stacca, divenuto elemento tematico
fondamentale, il trillo, in una teatrale escalation che porta agli accordi conclusivi.
Riccardo Risaliti
Una fitta gragnuola di accordi conduce allora all'Allegro risoluto che, coi suoi trilli acuti e la
rapida figurazione discendente di sedicesimi, introduce alla Fuga a tre voci, con alcune
licenze, in tutto degna, per grandiosità, di portare a termine la più monumentale delle sonate
beethoveniane. Essa consta di tre sezioni di cui la prima è l'esposizione del soggetto, mentre la
seconda si articola in cinque parti fra loro rigorosamente concatenate, nelle quali il soggetto
viene trattato con tutti gli artifici della polifonia applicati alla fuga: per aumentazione, per
moto retrogrado, per moto contrario e contemporaneamente per moto retto e per moto
contrario. Fra uno svolgimento e l'altro del soggetto - cui corrisponde ogni volta una diversa
modulazione - si inserisce un episodio (o divertimento), uno dei quali in particolare («episodio
indipendente») si presenta una prima volta in sol bemolle maggiore e una seconda in la
bemolle maggiore. Nella prima parte della sezione centrale della fuga il soggetto,
originariamente in battere, entra come dux sul terzo (batt. 51) e come Comes sul secondo
tempo della battuta in 3/4 (batt. 65), con uno spostamento d'accento che rende percepibile il
nesso che fra il tema della fuga e la fanfara iniziale del primo movimento sussiste nel rischioso
salto iniziale e che la differenza metrica lasciava in un primo momento latente. Ma il luogo
forse più straordinario di questo gigantesco finale di sonata è quello in re maggiore {una corda
e sempre dolce e cantabile), nel quale molti commentatori ritengono esservi esposto un nuovo
soggetto di fuga e che qui, invece, sulla scorta delle considerazioni svolte da John V.
Cockshoot (The Fuge in Beethoven's Piano music) si è preferito definire alla stregua di un
quarto controsoggetto: un moto lento e piano di placide semiminime, quasi un canone a tre
voci, ovvero una pausa d'arresto nel precipitoso moto della fuga e una preparazione al ritorno
del soggetto con rinnovato vigore: dapprima in combinazione col nuovo controsoggetto,
quindi, in stretto, contemporaneamente per moto retto e per moto contrario. Un ennesimo
episodio conduce alla concisa sezione finale della fuga, quindi alla coda nella ormai
riaffermata tonalità di si bemolle maggiore.
Andrea Schenardi
https://www.youtube.com/watch?v=koqAdGcty3k
https://www.youtube.com/watch?v=989aVWlAbpM
https://www.youtube.com/watch?v=Hbn71iXKK7Y
https://www.youtube.com/watch?v=0fOiCgdwLaw
Le ultime tre Sonate per pianoforte di Beethoven nacquero quasi contemporaneamente tra il
1819 e il 1822 in un prodigioso fiotto di unitaria ispirazione, e la loro elaborazione si svolse
parallelamente a quella dei due colossi sinfonico-vocali della Nona Sinfonia e della Missa
Solemnis. La prima di esse, op. 109 in mi maggiore, la tonalità dolce e iridescente
dell'Heimlichkeit beethoveniana, apparve nel novembre 1821 e fu dedicata dal musicista con
una lettera affettuosa a Fraulein Maximiliana, figlia diciannovenne di Franz Brentano, l'amico
provvido e generoso che in quegli anni difficili era diventato per il maestro (ma con una
liberalità e una sollecitudine ben maggiori) ciò che il commerciante framassone Michael
Puchberg era stato per Mozart. La ricerca di una nuova razionalità strutturale e dialettica nella
successione dei brani che costituiscono la Sonata, sembra essere qui il principale problema
formale che assilla Beethoven e che egli risolve a favore di una geniale asimmetria di
strepitosa novità: non più tre o quattro movimenti distribuiti secondo il tradizionale principio
dell'equilibrio interno, né due Allegri monumentali collegati da un breve e succoso tempo
lento, come nell'Aurora; ma il modernissimo, apparente "squilibrio" tra il Vivace, ma non
troppo e il Prestissimo iniziali, brevi e straordinariamente concisi, e la grande espansione del
«Tema con variazioni», chiave di volta su cui è spostato il baricentro della Sonata e attorno
alla quale gravitano gli altri due movimenti. Carattere introduttivo e quasi improvvisatorio, col
suo incipit preludiante su un basso che procede per armonie volutamente "ingenue" e
"convenzionali", possiede il primo tempo: un vero movimento in forma-sonata (e non una
fantasticheria rapsodica, come è stato spesso interpretato) sia pure trasfigurato nella nuova
dimensione strutturale che è tipica dell'ultima maniera beethoveniana. Qui il secondo tema
appare infatti addirittura come un organismo a sé stante e completamente indipendente per
tempo (Adagio espressivo), ritmo e materiale tematico dal resto del brano: una vera e propria
"immagine" musicale autonoma e strutturalmente integrata, così come ne troveremo, con il
salto di un secolo e di tutta la civiltà strumentale romantica, fedele ad ogni costo al principio
della "unitarietà" sonatistica, in certa musica del Novecento: pensiamo agli altri ultimi tre
Quartetti di Bartók, alla Sonata per pianoforte e violoncello di Debussy o addirittura al
"dialogo" delle "figure" sonore nella Serenata o nel Quartetto di Petrassi. Anche il Prestissimo
in mi minore si articola nelle strutture di un movimento in forma-sonata; ma quanto il tempo
precedente appariva vario, fluttuante e dai contorni imprecisi, altrettanto questo è
meravigliosamente unitario e stringato; e se il primo era avveniristico, il secondo è
solidamente impiantato nella temperie espressiva cavalieresca e appassionata di un
Romanticismo già schumanniano.
Come si è detto, entrambi i movimenti iniziali introducono e preparano al mirabile edificio del
«Tema variato», primo esempio, e tra i più insigni, di ciò che l'arte della variazione è divenuta
per il Beethoven degli ultimi capolavori. Il tema, sorta di sarabanda angelica dall'arco
armonico e melodico della più ortodossa purezza (modulazione dalla tonica alla dominante
nella prima parte, ritorno alla tonalità fondamentale nella seconda, il tutto nella sacramentale
quadratura delle otto battute più otto) raggiunge, attraverso le sei variazioni, una progressiva
sublimazione e smaterializzazione. Lungo il suo cammino si aprono giardini dove sbocciano le
più pure melodie sul nudo stelo di radi ed elementari accordi, come nella prima variazione; o
sentieri già sperimentati, ma ripercorsi con l'entusiasmo del pioniere, come nella terza, in
buona parte della quarta e nella quinta variazione, nelle quali Beethoven riscopre e fa suo il
Bach delle Variazioni Goldberg. La sesta variazione, di gran lunga la più geniale e importante,
porta alla polverizzazione del materiale tematico attraverso una straordinaria proliferazione di
note nelle parti intermedie, che finiscono per dissolversi nel magico alone timbrico di un
doppio trillo sulla dominante. Da questo luminoso barbaglio alla fine il tema riemerge, con un
liquido scampanìo nelle zone più acute della tastiera e sopra il fluttuare delle rapide
figurazioni di biscrome della mano sinistra, per poi placarsi nella sommessa e nuda umiltà
originaria dell'epilogo. Non si tratta, però, di un ritorno puro e semplice del tema, come
avviene nelle Variazioni Goldberg: lievi ritocchi alla struttura primitiva, qualche raddoppio di
ottava nel registro grave bastano per calare un'ombra crepuscolare su questo struggente
congedo, per fare intendere attraverso quali avventure nel mondo del suono sia passata questa
melodia piena di pace.
Beethoven concepì la Sonata in mi maggiore op. 109 nel 1819, la elaborò nel 1820 per
pubblicarla poi nel novembre 1821, con dedica a Massimiliano Brentano. In questa, che è la
prima del gruppo delle ultime tre Sonate pianistiche di Beethoven, si definiscono nel modo più
evidente taluni connotati del cosiddetto terzo stile di Beethoven: assoluta libertà fantastica che
trascende i limiti della tradizionale forma di sonata; tendenza ad una rinnovata linearità del
discorso per cui l'armonia da un lato viene costituita spesso come risultante di moti
contrappuntistici, mentre dall'altro si dissolve in un disegno rabescato, per stemperarsi o
polverizzarsi altre volte in atrnosferiche fluttuazioni. Alle più audaci arditezze morfologiche e
sintattiche si contrappone in queste tarde opere beethoveniane il ricorso frequente alle formule
più schematicamente convenzionali, che appaiono qui in una singolare funzione privativa,
poiché si intuisce che esse sono adoperate per espellere dalle immagini sonore ogni residuo
gesto drammatico, indifferenziando in un certo senso la materia musicale e conferendole un
senso dì superamento, di liberazione da ogni passione contingente. In virtù di questo
procedimento i fondamentali motivi del mondo interiore di Beethoven non compaiono più in
drammatica opposizione dialettica, ma si placano e si trasfigurano liricamente sul piano
altissimo di una distaccata, seppur intensissima contemplazione. Ed è in questa sublimazione
lirica delle risultanti emotive della drammatica esperienza umana di Beethoven che si devono
ravvisare i risultati espressivi di questi suoi capolavori, senza ricorrere a nessuna di quelle
interpretazioni e metafore con le quali gli esegeti hanno cercato di definirne verbalmente le
qualità poetiche, parlando della Sonata op. 109 come di una «visione aerea, soave, degna di
accompagnare il corteo di una fata» (Wartel), o come fece il Lenz, di musica da suonarsi
«sotto le volte di qualche cattedrale gotica spagnola», o trovandovi addirittura, come fece altri,
un clima da camera mortuaria, visione che non impedì poi a Romain Rolland di scorgere nella
stessa musica «un giuoco del sogno e dell'amore» e al Bruers di sentirvi delle note «che
risaltano come perle, come gocce di una misteriosa fontana». Fatto sta che ogni tentativo di
definire mediante impossibili equivalenti il significato di questa, come di altre musiche
altissime, oltre ad essere esteticamente illegittimo, non può avere efficacia alcuna dato che il
mondo di codeste musiche si realizza, al di là del limite oltre il quale parole ed immagini
esauriscono il loro significato. Ci limiteremo dunque ad annotare che la Sonata si articola in
tre movimenti: un ondeggiante e carezzevole Vivace ma non troppo, un fantastico Prestissimo
che tiene il luogo dell'abituale Scherzo e, al posto del finale in forma di rondò che Beethoven
abbandona in tutto il gruppo delle sue ultime Sonate, un Andante molto cantabile ed espressivo
che nel corso di sei successive Variazioni, più che «variato» nel senso consueto della parola,
viene gradatamente trasceso, dissolto e sublimato, fino a risorgere apparentemente uguale a se
stesso, ma in realtà avvolto in una sublime luce trasfiguratrice.
Roman Vlad
Le ultime tre Sonate sono incorniciate da due opere che, in differenti settori, rappresentano il
non plus ultra del pianismo beethoveniano. Da un lato, la ciclopica Sonata op. 106
Hammerklavier indica una via di non ritorno nel totale esaurimento del costruttivismo
sonatistico, espanso con sovrumana determinazione in ogni sua componente formale e
contrappuntistica; dall'altro, ancora a venire, le Trentatré Variazioni su un Valzer di Diabelli
esprimono il monstrum della più capillare ed estesa indagine sulle possibilità della tecnica
della variazione, il supremo virtuosismo compositivo dimostrato su un tema di banale
irrilevanza. Strette fra queste colonne d'Ercole, le tre Sonate opp. 109-111 segnano un
momento di trapasso decisivo. Dopo la rigorosa campata architettonica della Hammerklavier,
la forma-sonata si presenta a Beethoven non più come un'esigenza di quadratura formale, già
esaurita con mezzi totali ed estremi, bensì come lo stimolo liberamente assunto per la
definizione di una dialettica che genera la forma e non è più da essa generata. La gabbia
formale si riduce qui a mero contenitore di un materiale che serva da introduzione solenne o
fantastica, e comunque liberissima, all'evoluzione espressiva della variazione o a quella più
salda e rigorosa della costruzione contrappuntistica. Ma il carattere che più d'ogni altro
informa queste Sonate è il lirismo, l'abbandono al canto più terso, nella ricerca dell'unità
espressiva al di là dei confini formali di ciascun movimento e degli schemi ereditati dal
settecentesco temperamento degli affetti.
È notevole considerare come in questi stessi anni, dal 1819 al 1822, che videro la nascita dei
tre capolavori pianistici, Beethoven stesse parimenti elaborando e costruendo i due grandiosi
edifici della Missa Solemnis e della Nona Sinfonia. Le tre Sonate potrebbero allora anche
apparirci come una sorta di esercizio spirituale, affrontato nel mondo conchiuso e meccanico
di una tastiera a martelli, prima dell'ultima vertiginosa celebrazione dell'umanità attraverso lo
spirito della musica, e con ben altri mezzi oratori.
La prima Sonata, in si maggiore, fu pubblicata nel novembre 1821 come op. 109 e con la
dedica a Maximiliane Brentano, figlia diciannovenne dell'amico Franz, che in tante occasioni
era venuto incontro alle necessità economiche dello sprovveduto maestro. Tutta la Sonata si
muove alla ricerca di un nuovo ordine formale, all'interno sempre di una totale libertà
espressiva, incapace ormai di piegarsi a forme prestabilite. Pertanto, la struttura fortemente
unitaria della Sonata è, a ben vedere, generata da un ribaltamento gerarchico degli equilibri
classici: all'inizio due movimenti veloci, piuttosto brevi, un anomalo Allegro di sonata e uno
Scherzo; quindi, ben altrimenti dilatato e importante, un Andante con sei variazioni diviene il
polo espressivo della composizione. Il tempo lento, qui continuamente cangiante attraverso la
variazione, ha insomma soppiantato la preponderanza classica degli 'allegri', dando vita a una
forma nuova, che scaturisce spontaneamente dall'esaltazione dei contenuti lirici. Il primo
movimento, a prima vista, sembrerebbe non possedere i tratti della forma-sonata; il carattere
fantastico, improvvisatorio del tema d'apertura, l'iterata risposta di un intervallo discendente di
quarta a uno ascendente di terza, lascierebbe pensare a un preludiare estraneo agli schemi
formali, tanto pili quando il tempo d'inizio, Vivace ma non troppo, cede il posto a un altro
andamento, molto più calmo, Adagio espressivo, che segna l'arrivo di un diverso materiale
tematico. In realtà questo repentino cambiamento di stati d'animo, di sapore già schumanniano,
porta con sé la presentazione dei due gruppi tematici di una forma-sonata interpretata con
estrema libertà, al punto di cambiare il tempo a seconda del carattere delle melodie.
Praticamente senza soluzione di continuità, subentra quindi il Prestissimo in mi minore,
anch'esso in forma-sonata, ma con ben altro rigore, del resto giustificato dal carattere fiero e
virile del nuovo tema. La linea del basso che accompagna il tema d'apertura servirà più avanti
come tema per un canone a due parti nella sezione di sviluppo. Il secondo tema ha invece un
aspetto più misterioso, e subisce maggiori interventi cromatici, che ne aumentano
l'inquietudine. Concluso con una brusca coda il Prestissimo, si apre la sezione maggiore della
Sonata, l'Andante molto cantabile ed espressivo, organizzato in forma di tema con sei
variazioni. Il tema è una sorta di sarabanda bipartita perfettamente simmetrica, un momento di
massima concentrazione spirituale: al fine di rendere più chiare all'esecutore le sue intenzioni,
Beethoven ha anche tradotto in tedesco («Gesangvoll, mit innigster Empfindung»)
l'indicazione di tempo e d'espressione. Di variazione in variazione, il puro incanto del tema
acquista una sempre maggiore carica emotiva. Nella prima, prende l'aspetto beato di una danza
lenta, scandita da morbidi accordi della mano sinistra in un andamento quasi di mazurca, ricca
di abbellimenti e appoggiature. Nella seconda, si rarefà in una sequenza di accordi spezzati, in
note sempre staccate e leggere, fino a un crescendo sincopato di fortissima carica emotiva, che
si scioglie solo nella terza variazione, rigorosamente contrappuntistica, in forma di invenzione
a due voci e in ritmo binario. Torna il ritmo ternario, ma composto (9/8) nella quarta
variazione, di nuovo espressiva e di nuovo indirizzata al climax risolto dall'ingresso della
quinta variazione, una marziale fuga a tre voci, di andamento mosso. L'ultima variazione, la
più lunga della serie, ritorna al tempo meditativo del tema. Questo vero e proprio congedo
rinuncia a ogni soluzione melodica o contrappuntistica per mostrare il tema avvolto da un
pulviscolo sonoro di trilli sulla dominante, quasi un gorgo armonico in cui si percepisce
appena l'eco dell'angelica sarabanda. Beethoven esplora qui, come mai prima era avvenuto,
l'universo timbrico del pianoforte, creando grappoli indistinti di sonorità in sorda ebollizione,
sopra i quali, nelle regioni sovracute della tastiera, cadono come gocce argentee le note
distillate del tema. Bisognerà aspettare Debussy per ritrovare una simile abbagliante
fascinazione timbrica.
Alberto Batisti
https://www.youtube.com/watch?v=u5O1lzZZ_0M
https://www.youtube.com/watch?v=B8d4weStyEY
https://www.youtube.com/watch?v=k7hiNR4wxUs
https://www.youtube.com/watch?v=CgmAx8y8wLk
Organico: pianoforte
Composizione: 25 Dicembre 1821
Edizione: Schlesinger, Berlino 1822
Beethoven cominciò nel 1819 a comporre tre Sonate per pianoforte; i tre lavori vennero
terminati rispettivamente nel 1820, 1822 e 1822 e furono pubblicati separatamente dall'editore
Schlesinger di Berlino. La pubblicazione separata e l'attribuzione di tre numeri d'opera non
esclude però - la critica è su ciò convinta - che si tratti di un trittico, di tre poemi che
vicendevolmente si integrano. E siccome quando compose queste Sonate Beethoven stava
lavorando alla Missa Solemnis, iniziata nel 1819 e terminata nel 1823, alcuni commentatori
sostennero che un pensiero religioso reggesse anche il trittico. Si notò inoltre che il
manoscritto della Sonata op. 110 è datato 25 dicembre 1822 (data trasformata disinvoltamente
da taluno in "Natale 1822") e che la Sonata è senza dedica, cosa del tutto inconsueta in
Beethoven. Una dedica in pectore ase stesso, o una dedica in pectore a Cristo? Sia l'una che
l'altra ipotesi ebbero i loro partigiani. Noi non ci pronunceremo in merito. Ma l'ironia che
l'argomento così trattato suscita non ci impedisce di ritenere che la seconda parte della Sonata
op. 110, con l'Arioso dolente e con la Fuga terminante con una apoteosi, faccia effettivamente
pensare alla Passione, Morte e Resurrezione di Cristo e che il primo tempo faccia pensare alla
Natività.
Il primo tempo, che reca la rara didascalia con amabilità, è in forma classica, con esposizione
di due temi principali e due secondari, sviluppo, riesposizione e coda. Il secondo tempo è in
forma di Scherzo con Trio, e il Trio è una delle più bizzarre e divertenti invenzioni pianistiche
di Beethoven, con rapidi e pericolosi incroci delle due mani che mettono a dura prova i nervi
dei pianista (Webern se ne ricorda nel secondo tempo delle Variazioni op. 27). La tonalità del
secondo tempo è fa minore con conclusione in fa maggiore. Nulla di inusuale in ciò, senonché
Beethoven considera il fa maggiore come tonalità di dominante di si bemolle minore e senza
soluzione di continuità, partendo da si bemolle minore, crea un collegamento tra il secondo
tempo e l'Arioso dolente. Nel collegamento viene ricreato pianisticamente un effetto tipico del
clavicordo, la Bebung, cioè la ribattitura affievolita di un suono. La volontà di sintesi di
barocco e classico si estende così anche agli strumenti oltre che agli stili compositivi, e la
Sonata op. 110 diventa, ancor più della Hammerklavier, un manifesto di storicismo.
Piero Rattalino
Come riferì Anton Felix Schindler, sul finire dell'autunno 1828 Beethoven, tornato dalla
villeggiatura di Mödling, avrebbe composto di getto le tre sonate op. 109, 110 e 111. Ma di
getto furono semmai redatti gli abbozzi, e la stesura definitiva richiese per ciascuna opera
quasi un anno di lavoro. Terminata infatti nel 1821, la Sonata in la bemolle sarà pubblicata
dallo Schlesinger nell'agosto 1822. Il Moderato cantabile segna nell'arco delle 32 sonate
l'eccezione di un ripensamento, qualcosa di affine alla collocazione della VIII Sinfonia.
Beethoven rammemora nel meraviglioso cantabile del terzo stile la sonata predialettica, quale
egli l'aveva trovata ai tempi di Haydn. Il Molto allegro è uno scherzo con Trio. Beethoven
procede per elisione: domanda e risposta differenziate (sommesso l'inizio in fa minore e
martellata la replica in do maggiore). Nella seconda sezione rudi sincopati dei bassi sono
contrapposti a dolci frammenti cantabili. L'idea del Trio si basa sul gioco pianistico di una
figurazione scandita sui tempi deboli che monta dal basso, contro una discesa melodica della
mano destra. Stupenda idea pianistica delle due mani che nel moto contrario si incrociano, fino
a raggiungere le estremità della tastiera. Pochi accordi di Adagio e quattro battute di recitativo
conducono all'Arioso dolente, esemplare unico di melodia astrofica, sussurrata senza repliche
attraverso lo spazio di sedici battute. Placido si leva il tema della fuga, senza rompere
l'isoritmia caratteristica di questo finale, nella elegia o nel contrappunto. E quando la polifonia
ha preso gusto nel delineare le sue architetture, la Fuga si dissolve, e dà luogo ad una ripresa
dell'Arioso. La riesposizione della Fuga è per moto contrario; e il ritorno al moto retto
conferisce al tema la propulsione di un inno, che scala l'apoteosi del la bemolle maggiore.
Dopo l'audacia della Sonata op. 109, tutta protesa alla conquista di valori musicali assoluti,
Beethoven affidò alla Sonata in la bemolle maggiore op. 110, pubblicata nell'agosto del 1822,
l'espressione più pura del suo intimismo. Tutto qui si è fatto semplicità, ottenuta con quella
parsimonia di mezzi che solo i grandi sono in grado di far fruttare appieno. La Sonata presenta
caratteristiche unitarie addirittura superiori a quelle della Sonata precedente; sembra quasi che
si tratti di un flusso continuo d'idee musicali, ugualmente tese a un superamento finale delle
incertezze e dei momenti bui. Fin dall'inizio del primo movimento, Moderato cantabile molto
espressivo, la musica denuncia una precisa volontà di canto, che è poi una voce non più
oggettiva, assoluta, ma effettivamente sorgiva dall'intimo del compositore. Accanto
all'indicazione dinamica dell'inizio, egli scrive «con amabilità» e tra parentesi, in tedesco,
sanft, per mostrare all'esecutore il clima emozionale di tenerezza, semplicità, affetto, che egli
vuole per questa personalissima fra le sue creazioni. La forma-sonata di questo primo
movimento scorre via senza alcun contrasto tematico, e lascia che i materiali melodici dei due
gruppi si succedano liberamente, nell'unica costante di una tersa cantabilità, accompagnata in
modo molto lineare da accordi o arpeggi, quasi si trattasse di un unico, grande Lied. Il
carattere quasi domestico, confidenziale, della Sonata in la bemolle è ulteriormente
confermato dal fatto che Beethoven usa per l'Allegro molto, secondo movimento, due temi
tratti da canti popolari austriaci molto noti e di carattere umoristico. In particolare, il secondo
porta il titolo «Ich bin lüderlich, du bist lüderlich» («Io sono un cialtrone, tu sei un cialtrone»),
e sottolinea il paradosso allusivo di una probabile autocaricatura. L'impiego di temi popolari fa
di questo Scherzo una geniale anticipazione di una maniera che ritroveremo nel pianoforte di
Schumann, e più precisamente nei suoi tipici quadretti domestici, conditi col sale raffinato dei
Volkslieder. Il trio prosegue sulla linea umoristica dello Scherzo, ma con maggiore
raffinatezza. E una ridda di crome veloci, priva di una solida base armonica, quasi vagolante
nel vuoto, senza meta e senza la minima cura per la dinamica degli accordi: una specie di
mosca-cieca, per tornare alle immagini schumanniane. La ripresa dello Scherzo è fatta seguire
da una breve coda sempre più smorzata e ritardata, cosi da introdurre la grande scena lirica e la
Fuga dell'ultima parte. Come spesso accade nell'ultimo Beethoven, in queste pagine sublimi
sembra che l'autore si sforzi di liberare la musica dalla sua veste puramente strumentale e
cerchi di dare alle note l'immediatezza della parola: si avverte cioè, in nuce, quel che nel
Finale della Nona Sinfonia verrà realizzato praticamente. Quel che Beethoven ricrea sulla
tastiera è in effetti una vera scena d'opera seria, alla maniera dei compositori gluckiani del
tardo Settecento e del primo Ottocento. Prima un'introduzione accordale solennemente
oratoria, a imitazione d'un'orchestra d'archi; quindi, un recitativo che culmina nella ripetizione
ossessiva d'una sola nota, il la, prima in crescendo e poi in diminuendo, fino alla cadenza.
S'apre a questo punto un Arioso dolente (Klagender Gesang) di carattere eminentemente
vocale, struggentemente espressivo. È una delle pagine più intime e personali che Beethoven
abbia scritto, quasi il lamento d'un'anima ferita. Alla desolazione di quest'aria pianistica giunge
però immediatamente il confronto d'una Fuga a tre voci luminosissima. Ancora una volta
l'ottimismo di Beethoven trionfa sull'angoscia, l'imperativo categorico dell'etica kantiana
spezza i vincoli delle miserie terrene, rappresentato dalla più spirituale fra le costruzioni
musicali. Nelle certezze della Fuga tuttavia si insinua ancora una volta la tragica melodia
dell'Arioso, ancor più affranta, secondo l'indicazione di Beethoven: «Perdendo le forze,
dolente». Ma la Fuga, ricomparendo con l'inversione del tema, spazza via, sempre più energica
e giubilante, ogni dubbio.
Alberto Batisti
https://www.youtube.com/watch?v=p-csY9iuprg
https://www.youtube.com/watch?v=1ljq4MwzAbo
https://www.youtube.com/watch?v=XW9e28bYbJA
https://www.youtube.com/watch?v=9V03NB2cVQM
Maestoso. Allegro con brio ed appassionato
Arietta. Adagio molto semplice cantabile (do maggiore)
Organico: pianoforte
Composizione: Vienna, 13 Gennaio 1822
Edizione: Schlesinger, Berlino 1823
Dedica: Arciduca Rodolfo
La Sonata op. 111 è la trentaduesima ed ultima del catalogo di Beethoven; ci porta dunque
all'estremo periodo creativo dell'autore, periodo i cui frutti furono spesso giudicati dai
contemporanei incomprensibili e ineseguibili, per l'astrusità del contenuto e le difficoltà
tecniche; d'altra parte lo stesso autore non concepiva più la Sonata per pianoforte in
prospettiva della pubblica esecuzione, ma piuttosto per la lettura, per la meditazione privata.
Non senza motivo le ultime Sonate e gli ultimi Quartetti sono stati pienamente compresi
solamente nel nostro secolo; essi rappresentano l'espressione di un progressivo isolamento del
compositore dalla sua epoca, per seguire le tracce di una fantasia e di una logica compositiva
del tutto indipendenti dai meccanismi della contemporanea produzione e fruizione musicale.
La crisi degli ideali dell'età napoleonica non si traduce per Beethoven nella propensione verso
un minìaturismo edonistico - espressione in musica del nuovo gusto Biedermeier - o verso i
primi esiti del romanticismo. Viene a mancare invece quella forte contrapposizione tematica,
quella unitarietà del contenuto che rispecchiavano, nell'opera 13 o nell'opera 57, gli ideali etici
dell'autore. I temi dunque si frammentano, il fluire del discorso segue una plastica
consequenzialità che non è più oppositiva, basata su una logica di contrasti; la forma sonata
smarrisce la netta funzione dei singoli elmenti; la stessa Sonata nel suo insieme si sfalda, non
appare più come una fortezza autonoma, accoglie al proprio interno forme prima sconosciute o
usate in modo differente: la fuga, e la variazione, quest'ultima del tutto scissa ormai
dall'originaria funzione decorativa, e passata ad assumere una funzione costruttiva.
Coerentemente con questo processo la stessa scrittura pianistica subisce una nuova
razionalizzazione, che consiste nell'inglobare tutte le precedenti esperienze e sperimentazioni,
dai recuperi del passato alla brillantezza tecnica di Clementi, alle magie timbriche e alle
possenti sonorità scoperte sul pianoforte Erard, per attingere poi a queste eterogenee
esperienze con superiore consapevolezza, selezionato discernimento e logica profonda.
L'estrema libertà creativa assume spesso le vesti di una astratta purezza, di un sentimento
intimistico. Caratteristiche, queste, che segnano al più alto grado la Sonata op.111, terminata
nella primavera 1822 e pubblicata da Schlesinger nel corso dello stesso anno. Consta di due
soli movimenti e riprende gli archetipi formali più cari al compositore, la forma-sonata e il
tema con variazioni. Aperto da un'introduzione di grave severità e densissima tensione
armonica, il movimento iniziale nega la logica dialettica (bitematica) propria della forma
sonata, donando preminenza assoluta al primo tema, un vigoroso soggetto di fuga che innerva
tutta la pagina, improntandola del suo carattere severo e impetuoso. Vero cuore della Sonata è
però l'Arietta con variazioni, rispetto alla quale l'Allegro con brio appassionato costituisce un
vasto preambolo. La tecnica della variazione, luogo ideale dell'ultimo Beethoven per la
possibilità di giocare astrattamente con il materiale musicale in sé e per sé, vi viene sviluppata
nella prospettiva più coerente e insieme visionaria. Il tema dell'Arietta è di rarefatta
essenzialità e di simmetrica articolazione; nelle prime tre variazioni, che rispettano fedelmente
lo schema, esso viene animato internamente da una progressiva suddivisione ritmica. La
tensione accumulata sfocia nella quarta variazione, che propone lo sfaldamento del tema in
contrapposizioni timbriche e nell'ampliamento dello schema originario. Nella quinta e ultima
variazione il tema torna nella limpida forma originaria, ma rivestito di trilli e atmosfere
fluttuanti che gli attribuiscono una connotazione sublimata. All'amico Schindler, che gli
chiedeva come mai non avesse aggiunto un Rondò alla Sonata, Beethoven rispose che gliene
era mancato il tempo; affermazione che è stata spesso presa per buona, ma che rivela in realtà
l'inadeguatezza dei contemporanei a comprendere il pensiero dell'autore; la Sonata op. 111
rappresenta invece il compiuto testamento di Beethoven nel genere della Sonata pianistica,
trasformata nel volgere di un trentennio da genere di pubblico consumo in astratta meditazione
personale; non è un caso che lo scenario avveniristico aperto dalle ultime variazioni sia
rimasto sostanzialmente senza seguito per molti decenni, venendo colto nella sua profondità
solamente nel corso del secolo scorso.
Arrigo Quattrocchi
La Sonata op. 111 ripresenta nel primo tempo il Beethoven titanico. Una introduzione, resa
traumatica dalle settime diminuite e dal doloroso insistere di seconde sforzate, sfocia
nell'enunciazione volitiva del tema. Subito scatta un flusso tempestoso di quartine di
semicrome, due volte arrestato dall'apparizione della seconda idea, una breve distensione
cantabile. Ma se ne è appena spenta l'eco che una cascata arpeggiata sulla settima diminuita
riconduce al tumulto. Rispetto ai due allegri delI'«Appassionata», gli esempi più caratteristici
di questo Beethoven byroniano, il primo tempo del'opera 111 si distingue per l'accostamento di
brevi episodi folgoranti, sovente trattati in libera imitazione su un'idea ritmica fissa. Un
metodo di costruzione ellittico che bada al solo significante, e dove ogni trapasso reca
l'impronta del genio: ad esempio i 15 secondi di musica, le nove battute della coda, che
conducono con originalissima mossa melodica alla chiusa in maggiore.
L'«Adagio molto, semplice e cantabile» è stato oggetto di una celebre analisi di Thomas
Mann. Un'analisi che spiega la portata storica del congedo di Beethoven dalla sonata. «Il tema
dell'Arietta, destinato a subire avventure e peripezie per le quali nella sua idillica innocenza
non sembra proprio nato, si annuncia subito e si esprime in sedici battute riducibili a un
motivo che si presenta alla fine della prima metà, simile a un richiamo breve e pieno di
sentimento - tre sole note, una croma una semicroma e una seiminima puntata che si possono
scandire come «Puro-ciel» oppure «Dolce amor» oppure «Tempo-fu» oppure «Wiesengrund»:
e questo è tutto. Il successivo svolgimento armonico contrappuntistico di questa dolce
enunciazione, di questa frase malinconicamente tranquilla, sono le benedizioni e le condanne
che il maestro le impone, le oscurità e le chiarità eccessive, le sfere cristalline nelle quali la
precipita e alle quali la innalza, mentre gelo e calore, estasi e pace sono una cosa sola (...) La
caratteristica di questo tempo è infatti il grande distacco fra il basso e il canto, fra la mano
destra e la sinistra, e c'è un momento, una situazione estrema in cui sembra che quel povero
motivo rimanga sospeso, abbandonato e solitario sopra un abisso vertiginoso, un istante di
pallida elevazione cui segue subito una paurosa umiliazione, quasi un trepido sgomento per il
fatto che una cosa simile sia potuta accadere. Ma molte cose accadono ancora prima che si
arrivi al fondo. E quando ci si arriva, dopo tanta collera e ossessione e insistenza temeraria,
avviene alcunché di inaspettato e commovente nella sua dolcezza e bontà. Il ben noto motivo
che prende commiato, ed è esso stesso un commiato e diventa una voce e un cenno di addio,
questo re-sol sol subisce una lieve modificazione, prende un piccolo ampliamento melodico.
Dopo un do iniziale accoglie, prima del re, un do diesis, di modo che non lo si scandisce più
«Puro-ciel» o «Tempo fu», bensì «Oh-tu puro ciel» o «Già un tempo fu»; e questo do diesis
aggiunto è l'atto più commovente, più consolatore, più malinconico e conciliante che si possa
dare. (...) Tutto era fatto: nel secondo tempo, in questo tempo enorme la sonata aveva
raggiunto la fine, la fine senza ritorno. (...) Quel cenno d'addio del motivo re-sol sol,
confortato melodicamente dal do diesis, era un addio anche in questo senso, un addio grande
come l'intera composizione, il commiato dalla Sonata».
Inizialmente Beethoven intese dedicare quella che doveva essere la sua ultima Sonata, l'op.
111, ad Antonia Brentano, madre di Maximiliane, la dedicataria dell'op. 109; in seguito,
ragioni di maggiore opportunità dirottarono la dedica della Sonata sull'arciduca Rudolfo,
allievo e protettore di Beethoven, cui sarebbe stata dedicata anche la grandiosa Missa
Solemnis, in quei giorni ancora in gestazione. La composizione della Sonata fu portata a
termine nel gennaio 1822, ma non venne pubblicata prima dell'aprile 1823. Molti
commentatori del secolo scorso si sono chiesti perché Beethoven abbia dato alle stampe una
sonata in due soli movimenti, privandola di un finale. La questione è ovviamente oziosa, e
basta un minimo di gusto musicale per capire che, dopo la formidabile sequenza di variazioni
del secondo movimento, non ci sarebbe spazio per una parola di più. Rispondendo a una
analoga domanda del famulus Schindler, Beethoven ironizzava dicendo di non avere avuto
abbastanza tempo, pressato dalla Nona Sinfonia; il guaio è che il povero Schindler prestò fede
alla boutade beethoveniana, e fedelmente la riportò nelle sue memorie. La Sonata si apre con
un potente salto discendente di settima diminuita, un gesto scultoreo che introduce l'elemento-
chiave della breve introduzione. Il Maestoso, infatti, si giova dell'accordo dissonante di settima
diminuita per accumulare sempre più forti tensioni armoniche, e infine scaricarle, con la
violenza cupa di un trillo in crescendo, sullo squadrato tema in do minore del primo
movimento, Allegro con brio e appassionato. In realtà, questo motivo sembra confezionato
appositamente per una fuga, tanto evidente è la sua matrice contrappuntistica; tuttavia,
Beethoven aspetta di aver portato a termine l'esposizione dei gruppi tematici, prima di aprire,
nell'ampio sviluppo, una sezione in rigoroso fugato, caratteristica dominante del massiccio
stile del brano. La soluzione formale è, ancora una volta, di tipo sperimentale: essa rappresenta
il connubio perfettamente riuscito tra la quadratura della forma-sonata e la sapiente
elaborazione contrappuntistica, che permette a Beethoven di sovrapporre e scatenare le
tensioni eroiche e 'negative' di una tonalità, il do minore, fatale nella vicenda creativa e
spirituale del compositore. Basti pensare come a questa tonalità siano legate opere decisive
quali il Trio op. 1 n. 3, le Sonate op. 10 n. 1 e op. 13 Patetica, il Terzo Concerto per pianoforte,
l'Ouverture Coriolano, la Quinta Sinfonia, e, finalmente, l'op. 111.
Alberto Batisti
WoO 63 1782
9 Variazioni in do minore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=ospXVaJHfSY
Organico: pianoforte
Edizione: Götz, Mannheim 1783
Dedica: contessa Felice von Wolf-Metternich
https://www.youtube.com/watch?v=bumICcFWZ7Y
Beethoven è presente nel programma odierno con una breve pagina, l'unico suo lavoro per
arpa, della durata di poco più di 5 minuti. L'autografo della composizione conservato al British
Museum reca il titolo seguente: Sei variazioni di un'aria svizzera per arpa o fortepiano.
Stampato nel 1798 a Vienna e a Bonn il pezzo ha avuto recentemente una larga diffusione
nelle sale concertistiche per merito di Nicanor Zabadeta, che ne ha curata una revisione. Al
tema iniziale (Andante con moto) seguono le variazioni I e II nello stesso tempo, e poi
rispettivamente la III con l'indicazione Poco sostenuto, la IV (Tempo I un poco animato) e la V
(Poco più tranquillo) e la VI (Con fuoco). Quello che conta in questa pagina poco conosciuta
del grande artista tedesco è il gioco, abilissimo delle variazioni, una forma del comporre in cui
Beethoven raggiunse altezze insuperabili.
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
Le Variazioni su un tema svizzero di Beethoven costituiscono l'unico lavoro che egli scrisse
per arpa sola. Esse furono pubblicate nel 1798 in doppia edizione: presso Witzendorf a Vienna
e presso Simrock a Bonn. Una copia di quest'ultima edizione si è trovata in un fondo di libri
del British Museum di landra. Il suo titolo esatto suona testualmente: « Six Variatìom faciles
d'un Air Suisse pour la Harpe ou le Forte-Piano».
Il tema, dal carattere popolaresco, presenta una curiosa asimmetria strutturale, essendo
composto da ùndici battute di quattro quarti. Le sei variazioni si configurano ugualmente come
frasi di undici battute. Solo nella terza otto battute vengono ripetute, mentre l'ultima viene
seguita da una Coda di tre battute. Nel suo insieme l'intero lavoro serba il carattere aforistico
del tema. Si tratta di Variazioni prettamente ornamentali che lasciano inalterato il profilo
melodico e la conformazione armonica del tema, modificandone più che altro il contesto e
contrappuntandolo con figure ritmicamente differenziate. Il Tema e le Variazioni sono scritte
in fa maggiore; salvo la Terza Variazione che sta in fa minore.
Giorgio Graziosi
https://www.youtube.com/watch?v=JcBIdCm1tLo
Tema. Allegretto
WoO 66 1792
Tredici Variazioni in la maggiore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=8Rs7iv6Vk6c
Tema. Allegretto
WoO 68 1795
12 Variazioni in do maggiore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=LFZxrkiWvMU
Tema. Allegretto
Organico: pianoforte
Composizione: 1795
Edizione: Artaria, Vienna 1796
La produzione beethoveniana degli ultimi anni del Settecento - quelli della baldanzosa
conquista dei circoli aristocratici viennesi e della committenza collegata con la grande editoria
europea - pullula di Variazioni per pianoforte solo, più raramente per pianoforte e strumenti
vari: senza contare quelle introdotte come movimenti nelle opere cameristiche coeve, vedi la
Sonata in re maggiore op. 12 n. 1 per violino e pianoforte, o il Trio in si bemolle op. 11 per
pianoforte, clarinetto e violoncello. E non è tutto. Per Beethoven, il variare temi propri o presi
a prestito costituiva esercizio quasi quotidiano, collegato con la sua attività di pianista
improvvisatore, attività non necessariamente correlata a quella del compositore da tavolino, e
non sempre finalizzata alla pubblicazione.
Ciò significa che le Variazioni pianistiche date alle stampe nel corso del decennio 1790-1800,
tutte senza numero d'opus, sono ben lungi dell'offrire un quadro esauriente di quell'arte
beethoveniana sulla quale i testimoni auricolari si diffondono con dovizia di particolari e
giudizi denotanti ammirazione e perplessità per quel «modo di suonare stupefacente, così
rimarchevole per gli arditi sviluppi della sua improvvisazione», per quello «stile vigoroso e
brillante, pieno di stranezze», come ebbe a notare il musicista boemo Johann Wenzel
Tomashek nella propria autobiografia a proposito di un'«accademia» tenuta da Beethoven a
Praga nel 1797 e nel corso della quale il concertista ebbe ad improvvisare, dietro invito di una
signora del pubblico, sopra un tema trattato lì per lì da «La clemenza di Tito» di Mozart.
Ma significa altresì che a tali Variazioni, dall'autore ritenute degne di essere date alle stampe (e
non di rado sottoposte, da un'edizione all'altra, a drastiche revisioni) si dovrà necessariamente
attribuire specialissima importanza come documenti di una prassi compositiva che di anno in
anno verrà assumendo spazio sempre maggiore nelle scelte strutturali e nella poetica creativa
del musicista, fino a diventare, nell'estrema stagione, ragione ultima ed essenza del suo stile.
Lungo e tutt'altro che rettilineo è il percorso che porta dalle Variazioni giovanili, improntate al
principio della diminuzione ritmico-melodica che la tradizione barocca aveva consegnato allo
stile galante e da questo era confluito nel tematismo haydniano e mozartiano, al macrocosmo
della revisione integrale riscontrabile nelle opere estreme, ed esemplificato in modo
paradigmatico nelle Variazioni Diabelli. Né l'abbagliante luce che promana da tale lavoro,
sorta di metafisica summa del supremo traguardo stilistico di Beethoven, ci dovrà indurre
nell'errore di sottovalutare le precedenti tappe del prodigioso cammino. Nel corso del quale
sorprende la ricchezza e la varietà degli atteggiamenti e delle soluzioni di volta in volta
adottati in uno spirito di sperimentazione, dove la componente tradizionalistica e la formula
sussistono a fianco di una caparbia volontà di superamento, spesso spinta al limite del
bizzarro, del gestuale, del cervellotico: connotazioni da non intendersi in senso riduttivo, al
contrario, come specifico mordente entro il quale è immersa l'invenzione beethoveniana di
questi anni - e non solo di questi.
Come in tante altre, anche nelle dodici Variazioni sopra un «Minuetto alla Viganò» (ossia,
danzato secondo lo stile del grande coreografo napoletano) contenuto nel balletto «Le nozze
disturbate» di Johann Haibel (1795) l'esuberanza della fantasia beethoveniana si effonde con
dovizia di colori nel puntuale rispetto delle regole del gioco di una tradizione - quella, allora
nel massimo rigoglio, del virtuoso improvvisatore - destinata a toccare proprio in queste
pagine il limite massimo della saturazione retorica.
WoO 69 1795
9 Variazioni in la maggiore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=jg1ncozreJs
sul tema "Quant'e piu bello" dall'opera "La Molinara" di Giovanni Paisiello
Tema. Allegretto
Organico: pianoforte
Edizione: Traeg, Vienna 1795
Dedica: Principe Karl von Lichnowski
WoO 70 1795
6 Variazioni in sol maggiore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=47D2dFOEHLA
sul duetto "Nel cor piu non mi sento" dall'opera "La Molinara" di Giovanni Paisiello
Organico: pianoforte
Edizione: Traeg, Vienna 1796
https://www.youtube.com/watch?v=QKRI8LOsi-c
sul tema "Mich brennt ein heifes Firber" (Una febbre bruciante) dall'opera "Riccardo Cuor di
leone" di A.E.M. Grétry
Tema. Allegretto
Organico: pianoforte
Edizione: Traeg, Vienna 1798
https://www.youtube.com/watch?v=VNJHwwGFrok
Tema. Allegretto
Organico: pianoforte
Composizione: 1796 - 1797
Edizione: Artaria, Vienna 1797
Dedica: Contessa Von Browne
Ricavate da un tema del balletto «Das Waldmädchen» del violinista austriaco di origine boema
P. Wranitzky, le Variazioni furono scritte in origine per clavicembalo o pianoforte e dedicate
dal ventiseienne autore alla contessa A. M. von Browne. E' vero che esse risentono
dell'esperienza salottiera viennese e denotano alcune caratteristiche haydniane dello stile del
primo Beethoven, ma non si può negare che da un tema semplice e dalla cadenza elegante,
risolto ora con accenti delicati e cantabili ora con ritmi brillanti e scanditi, il musicista non sia
riuscito a raggiungere momenti di personale caratterizzazione, come nella sesta variazione
dagli accordi sognanti e malinconici, come nella decima dall'andamento serio e pensoso e
nella dodicesima dal pigilo sostenuto e ricco di slancio.
Ennio Melchiorre
WoO 73 1799
Dieci variazioni per pianoforte in si bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=xRicxE5DI9E
Organico: pianoforte
Edizione: Artaria, Vienna 1799
Dedica: Contessa Babette Kegkevics
WoO 75 1799
Sette Variazioni in fa maggiore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=Pq5hmE-P2NU
WoO 76 1799
6 Variazioni in fa maggiore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=D0gWbsgU0JA
Organico: pianoforte
Composizione: 1799
Edizione: Eder, Vienna 1799
Dedica: Contessa Von Browne
Guida all'ascolto (nota 1)
Beethoven si impose subito, sin da ragazzo, all'attenzione del pubblico di Bonn e di Vienna per
il suo grande talento pianistico, in cui virtuosismo e improvvisazione giocavano un ruolo
importante e sotto molti aspetti decisivo nell'ambito della vita musicale del suo tempo. Egli
aggrediva gli ascoltatori con la sua tecnica poderosa e il suo stile ricco di arditezze e di
mutamenti improvvisi, così da diventare in pochi anni l'idolo dei nobili e della più elevata
borghesia di funzionari e commercianti viennesi, abituati finora alle regole del più illuminato
classicismo. Il primo concerto pubblico di Beethoven pianista ebbe luogo al Burgtheater di
Vienna il 29 marzo 1795 e ad esso ne seguirono molti altri, tanto da compiere come pianista
nella prima metà del 1796 una lunga tournée concertistica in diverse città della Germania,
dell'Ungheria e della Boemia, raccogliendo successi ovunque. A questo proposito c'è una
testimonianza diretta del compositore boemo Tomàsek, che assistette a due concerti pianistici
dati da Beethoven a Praga nel 1797 e annotò più tardi nel suo diario: "Il modo di suonare
stupefacente di Beethoven, così rimarchevole per gli arditi sviluppi della sua improvvisazione,
- scrive Tomàsek - mi toccò il cuore in un modo del tutto insolito. Mi sentii così
profondamente umiliato nel mio più intimo essere da non poter più toccare il pianoforte per
diversi giorni. Ascoltai di nuovo Beethoven nel suo secondo concerto e questa volta seguii la
sua esecuzione con uno stato d'animo più calmo. Certo, ammirai il suo stile vigoroso e
brillante, ma i suoi frequenti e difficili salti da un tema all'altro mi lasciarono un po'
disorientato; essi modificavano l'unità organica e lo sviluppo graduale delle idee...la stranezza
e l'ineguaglianza sembravano essere per lui lo scopo principale della composizione".
Anche l'Allgemeine Musikalische Zeitung, in una recensione apparsa nel 1799 e riguardante
un concerto di Beethoven, si sofferma soprattutto sull'abilità del compositore di Bonn sia
nell'improvvisazione che nell'arte della variazione, quest'ultima ritenuta la base fondamentale
della scrittura non solo pianistica del musicista. Non per nulla prima che uscissero le Sonate
per pianoforte op. 2, Beethoven aveva già pubblicato non meno di sei opere di variazioni per
pianoforte, tra cui le Sei variazioni sul tema "Tàndeln und scherzen" (Baloccarsi e scherzare),
tratto da un terzetto dell'opera Solimano II di Franz Xaver Süssmayr, rappresentata allo
Hoftheater di Vienna il 1° ottobre 1799. Le variazioni furono stampate a Vienna nel dicembre
dello stesso anno e dedicate alla contessa di Browne; su un tema in tempo Andante quasi
allegretto Beethoven costruisce una serie di eleganti trasformazioni melodiche, ora cantabili e
ora virtuosistiche, nell'ambito di una inventiva piena di fantasia e secondo un gusto
compositivo che avrebbe raggiunto risultati straordinari di tecnica musicale nelle colossali
Trentatré Variazioni sul tema di Diabelli op. 120.
WoO 77 1800
6 Variazioni in sol maggiore per pianoforte su un tema originale
https://www.youtube.com/watch?v=BlJKXTk9bFU
Organico: pianoforte
Edizione: Traeg, Vienna 1800
Op. 34 1802
6 Variazioni in fa maggiore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=9Rl0FcWwiCw
Organico: pianoforte
Composizione: 1802
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1803
Dedica: Principessa Erba Odescalchi
Guida all'ascolto (nota 1)
Composte nel 1802, le Variazioni Op. 34 si distaccano di gran lunga da tutte le opere fino ad
allora concepite in quell'ambito, non foss'altro perché influenzate del clima creativo delle tre
importanti Sonate Op. 31. Trattandosi di un lavoro di notevole impegno, Beethoven stesso
incluse queste Variazioni nel suo catalogo numerandole alla stregua delle «grandi»
composizioni. Precisò infatti: «Dal momento che queste Variazioni sono ben diverse dalle
precedenti, anziché numerarle come le altre (per es. n. 1, 2, 3) le ho annoverate fra le mie
opere importanti, tanto più che il tema è di mia creazione». E pretese che tale precisazione
fosse inserita anche nell'edizione stampata.
La «diversità» - quella che Beethoven segnala e che i critici sottolineano (solo alcuni avanzano
qualche perplessità nei riguardi del «debole contenuto» e del «macchinoso virtuosismo» che le
sostiene) - consiste effettivamente in un impianto di ampio respiro: le sei Variazioni si
presentano come altrettanti «mondi compiuti», ciascuno connotato da un tempo, un ritmo, un
carattere e una tonalità diversa. Da un tema composto e raccolto, la cui nobiltà lo avvicina a un
corale, addolcito per di più da un morbido impasto di legni, prendono infatti vita sei intriganti
avventure. Il panorama è davvero fantasioso: un arco creativo che va dai ritmi alla Keith
Emerson (seconda parte della III Variazione), al forte segno di Marcia funebre della V, fino
all'inconsueta consistenza dell'ultimo Adagio. Ma quel che ancor più colpisce è la suggestione
romantica di alcuni episodi, a tal punto vibranti che vari critici hanno evocato il carattere dei
futuri grandi romantici: lo spirito di Brahms nella seconda parte della V Variazione, di
Schubert nella VI e di Mendelssohn nella Coda (l'episodio che precede l'Adagio di chiusura).
Op. 35 1802
15 Variazioni e fuga per pianoforte in mi bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=ByWRDDru9qg
Organico: pianoforte
Composizione: 1802
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1803
Dedica: Principe Lichnowsky
Nella Introduzione, presentato il basso (con il contrasto clamoroso costituito dai tre colpi in
fortissimo sulla dominante), Beethoven costruisce su questo contrappunti a due, a tre e a
quattro voci (Schumann se ne ricorderà negli Improvvisi su tema di Clara Wieck). Solo a
questo punto giunge il tema. Nelle Variazioni sembra inizialmente venir meno l'interesse per il
contrappunto dotto manifestato nell'Introduzione, e le prime Variazioni si muovono su un
terreno sostanzialmente tradizionale, con brillante scrittura virtuosistica, intervenendo sul
profilo del tema (e talvolta sul basso); ma la settima ha una rigorosa struttura a canone (di
notevole indipendenza dal tema) che si può intendere in chiave di arguto umorismo. L'ottava a
sua volta sembra appartenere ad un altro mondo, con l'intensità melodica degna di un breve
Klavierstück romantico. La nona ritorna ad una dimensione brillante e sembra aprire una
nuova fase nell'articolazione complessiva del ciclo delle Variazioni. La quattordicesima, in
minore, di notevole interesse armonico, ha un sapore vagamente pre-schumanniano e si
collega direttamente alla quindicesima, in tempo lento (Largo), dove la ricchezza della fiorita
ornamentazione, per nulla convenzionale, è un altro degli aspetti dell'op. 35 che sembra voler
ripensare originalmente a dimensioni barocche. Tanto più che, come una Fantasia, precede la
Fuga che costituisce lo splendido coronamento della raccolta; ma è seguita ancora dal
conclusivo Andante con moto, ultima enunciazione del tema, ampliata e variata. Così anche in
questa conclusione si giustappongono mondi diversi, tra i quali il pensiero beethoveniano più
avanzato opererà negli ultimi anni più compiute sintesi.
Paolo Petazzi
https://www.youtube.com/watch?v=NOds7jLtXnI
Organico: pianoforte
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1804
WoO 79 1803
5 Variazioni in re maggiore per pianoforte sul tema "Rule Britannia"
https://www.youtube.com/watch?v=ocwc9PHwZWY
Organico: pianoforte
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1804
WoO 80 1806
Trentadue variazioni per pianoforte su un tema originale in do minore
https://www.youtube.com/watch?v=O3DbqTvgX9w
Tema. Allegretto
Organico: pianoforte
Composizione: 1806
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1807
Nella prima parte della sua carriera Beethoven pubblicò con numero d'opera le composizioni
che a parer suo rappresentavano meglio, per il pubblico, le sue ambizioni di artista che
intendeva succedere a Haydn e a Mozart, e senza numero d'opera le composizioni d'occasione,
che rispondevano a richieste del mercato editoriale. Perciò le Variazioni per pianoforte solo
apparirono a stampa, fino al 1800, senza numero d'opera.
Con una decisione meditata che venne spiegata agli editori, Beethoven pubblicò nel 1803 con i
numeri d'opera 34 e 35 le Variazioni in fa maggiore cosiddette "Modulari" e le Variazioni in mi
bemolle maggiore su un tema del balletto Le creature di Prometeo, nonché le Bagatelle op. 33.
Beethoven aveva dunque stabilito che tutto ciò che usciva dalla sua fucina era degno di essere
inserito «nella serie delle sue opere maggiori». E come "opere maggiori" vennero poi
pubblicate le Variazioni sulla Marcia Turca op. 76, ma non le Variazioni su "God save the
King" (1803) e le Variazioni su "Rule Britannia" (1803), né le Trentadue Variazioni in do
minore composte nel 1806, che uscirono nel 1807. Le Trentadue Variazioni in do minore non
fanno dunque parte delle "opere maggiori"? Un tempo si disse che Beethoven sentendole
suonare in un salotto, avesse chiesto di chi fossero e che, sentito che erano sue, si era stupito.
L'aneddoto non è documentabile, ma certamente Beethoven non dovette dare alle Trentadue
Variazioni in do minore la considerazione che, secondo i posteri, gli spettava. Il principale
motivo di interesse critico risiede nel fatto che il basso del tema è discendente per gradi
cromatici e che viene richiamato costantemente nelle Variazioni: variazioni di un tema, sì, ma
anche su un basso ostinato. Ora il principio del basso ostinato era un principio barocco, che era
stato applicato nella Ciaccona e nella Passacaglia. Nel 1802 l'editore di Bonn Nikolaus
Simrock, amico di Beethoven, aveva pubblicato le Sonate e le Partite per violino solo di Bach,
sconosciute fino a quel momento. Non è illecito supporre, sebbene nessun documento lo
attesti, che Beethoven venisse a conoscenza delle pubblicazioni e che leggesse la Ciaccona
della Partita in re minore. Le Trentadue Variazioni in do minore sono formalmente organizzate
come la Ciaccona: un gruppo di variazioni in modo minore forma la prima parte, un gruppo di
variazioni in modo maggiore forma la seconda e un gruppo di variazioni in modo minore la
terza. Le figurazioni ornamentali prevalgono sulla elaborazione armonica e/o contrappuntistica
sia nella Ciaccona che nelle Trentadue Variazioni: nel caso di Bach ciò si spiega con il fatto
che lo strumento impiegato è il violino senza accompagnamento di clavicembalo, ma nel caso
delle Trentadue Variazioni si spiega solo con il riferimento a Bach, perché generalmente
Beethoven introduce nelle sue variazioni perlomeno un Adagio molto ornamentato e
armonicamente complesso. Le Trentadue Variazioni, dunque, come interpretazione simbolica
della Ciaccona di Bach. E questo è un altro passo verso la riassunzione nella musica
"moderna" di principi "antichi" del comporre.
Il primo passo era stato compiuto nel Finale delle Variazioni op. 35, con una Fuga finale
preceduta da una variazione a modo d'Arioso, i passi successivi sarebbero stati compiuti con la
Fuga che conclude il Quartetto op. 59 n. 3 (1806) e poi con la Sonata op. 102 per violoncello e
pianoforte e con le ultime Sonate per pianoforte solo.
Piero Rattalino
Op. 76 1809
6 variazioni per pianoforte in re maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=pxosjzfn4dk
Allegro risoluto
Organico: pianoforte
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1810
Dedica: Franz Oliva
Riutilizzate come "Marcia Turca" in "Le rovine di Atene" op. 113
https://www.youtube.com/watch?v=RH5MP_MvCVg
Aria scozzese: The cottage maid - Andantino quasi Allegretto (sol maggiore)
Aria scozzese: Von Edlem Geschlecht - Allegretto scherzoso (do minore)
Aria austriaca: A Schüsserl und a Reindl - Andantino (do maggiore)
Aria scozzese: The last rose of summer - Andante espressivo assai (mi bemolle maggiore)
Aria scozzese: Chiling O'Guiry - Allegretto spiritoso (mi bemolle maggiore)
Aria scozzese: Paddy Whack - Allegretto piuttosto vivace (re maggiore)
https://www.youtube.com/watch?v=aleWlJkcUrA
Aria tirolese: "I bin a Tiroler Bua" - Moderato (mi bemolle maggiore)
Vedi Canti popolari WoO 158a n. 5
Aria scozzese: "Bonny Laddie, Higland Laddie" - Allegretto, quasi vivace (fa maggiore)
Vedi Lieder scozzesi WoO 108 n. 7
Aria russa: "Volkslied aus Kleinrußland" - Vivace (fa maggiore)
Aria scozzese: "St Patrick's Day" - Allegretto scherzo (fa maggiore)
Vedi canto popolare WoO 154 n. 4
Aria tirolese: "A Madel, ja a Madel" - Moderato (fa maggiore)
Vedi Canto popolare WoO 158a n. 6
Aria scozzese: "Peggy's Daugheter" - Andante commodo (mi bemolle maggiore)
Vedi Canto popolare WoO 155 n. 11
Aria russa: "Schöne Minka" - Andante (la minore)
Vedi Canto popolare WoO 158a n. 16
Aria scozzese: "O Mary, at thy Window be" - Andantino quasi Allegretto (re maggiore)
Vedi Canti scozzesi Op. 108 n. 17
Aria scozzese: "Oh, Thou art the Lad of my Heart" - Allegretto (mi bemolle maggiore)
Vedi Canti scozzesi Op. 108 n. 11
Aria scozzese: "The Highland Watch" - Spiritoso e marziale (sol minore)
Vedi Canti scozzesi Op. 108 n. 22
La forma della variazione è presente nei Tre temi dell'op. 107, che nell'edizione completa ha il
seguente svolgimento: 1) Air tirolien in mi bemolle maggiore (Moderato); 2) Air ecossais in fa
maggiore (Allegretto quasi vivace); 3) Air de la Petite Russie in sol maggiore (Vivace); 4) Air
ecossais in fa maggiore (Allegretto scherzando); 5) Air tirolien in fa maggiore (Moderato); 6)
Air ecossais in mi bemolle maggiore (Andante commodo); 7) Air russe in do maggiore
(Andante); 8) Air ecossais in re maggiore (Andantino quasi allegretto); 9) Air ecossais in mi
bemolle maggiore (Allegretto piuttosto vivace); 10) Air ecossais in sol minore (Spiritoso e
marziale). Sia le variazioni musicali dell'op. 107 che quelle dell'op. 105 furono scritte da
Beethoven su suggerimento dell'editore inglese Birchall ed ecco la ragione dell'uso di canti
popolari scozzesi. La pubblicazione delle due raccolte venne fatta però da un altro editore
inglese, George Thomson, nel luglio del 1819 per l'op. 105 e nell'estate del 1820 per l'op. 107,
con la parte obbligata del flauto, che accompagna il pianoforte con imitazioni e ornamenti di
fresca linea melodica e di facile presa sull'ascoltatore. I diversi temi delle due opere
racchiudono tre, sei e perfino otto variazioni indicanti con quale scrupolo abbia lavorato il
musicista per dare una veste sonora più ricca e movimentata alle composizioni, anche se il
musicologo Ludwig Misch ritiene che esse siano abbastanza dimenticate perché «il pianista
non può essere soddisfatto pienamente del suo ruolo, mentre la parte del flauto non è
sufficiente a stimolare l'interesse dei virtuosi». Evidentemente è un giudizio un po' restrittivo,
smentito dall'esecuzione di stasera affidata a due artisti di indubbie qualità interpretative e i cui
nomi sono legati alla diffusione del migliore repertorio musicale, antico e moderno.
https://www.youtube.com/watch?v=l3qktiSzwMI
https://www.youtube.com/watch?v=dokkniOwSlQ
https://www.youtube.com/watch?v=qRFdwZzKccg
https://www.youtube.com/watch?v=PpoJ8KutPfI
https://www.youtube.com/watch?v=BDF7soN1ObI
https://youtu.be/pAI4-9yc6kA
Organico: pianoforte
Composizione: 1819
Edizione: Cappi e Diabelli, Vienna 1823
Dedica: Antonia Brentano
Guida all'ascolto 1 (nota 1)
Le circostanze che favorirono la composizione delle Variazioni op. 120 sono assai note, tanto
che basterà qui riassumerle molto brevemente.
L'editore viennese Antonio Diabelli ebbe l'idea di mettere insieme una specie di Parnaso
nazionale chiedendo a molti compositori residenti nell'impero asburgico di scrivere ciascuno
una Variazione su un suo valzer. La raccolta, pubblicata nel 1824 sotto il pomposo titolo
Società Nazionale degli Artisti. Variazioni per pianoforte su un tema originale, composte dai
più eccellenti compositori e virtuosi di Vienna e dell'Impero Austrìaco, comprendeva
cinquanta Variazioni di cinquanta diversi compositori. Tra i cinquanta troviamo molti musicisti
oggi sconosciuti e qualche celebrità: Schubert, Moscheles, Hummel, Czerny, Kalkbrenner, il
tredicenne Liszt. Non troviamo Beethoven, perché Beethoven si era messo a lavorare sul
valzer di Diabelli fin dal 1819, e nel 1823 aveva consegnato all'editore un monumento di ben
trentatré Variazioni, che furono pubblicate nello stesso anno con dedica ad Antonia Brentano,
moglie del banchiere Franz e cognata di Bettina e Clemens Brentano. Siccome Vincent d'Indy
sostenne un tempo una sua tesi sulle convinzioni razzistiche di Beethoven, affermando tra
l'altro che il compositore non aveva dedicato ad ebrei nessuna della sue opere, non è fuor di
luogo osservare che Antonia Brentano, nata von Birbenstock, era ebrea.
Le Variazioni op. 120 sono la composizione che riassume in sé, in una sintesi storica
irripetibile, tutto il cammino a ritroso compiuto da due generazioni di musicisti che
avvertirono per primi il problema di inserire la creazione musicale nella storia anziché
nell'attualità. Partendo dalla geometria elementare - ma non banale, a parer nostro - del valzer
di Diabelli, Beethoven trascorre attraverso atteggiamenti stilistici diversi per concludere con
cinque Variazioni di sapore arcaico, che ricordano il barocco o (l'ultima) un Settecento sentito
come luogo di un'arcadia trasfigurata. La definitiva riacquisizione di stilemi del passato è un
tratto fondamentale del tardo Beethoven (si pensi alle Fughe delle ultime Sonate e degli ultimi
Quartetti, o all'uso della modalità antica nella Missa solemnis e nel Quartetto op. 132). Qui
Beethoven torna verso il barocco: le Variazioni ventinovesima e trentunesima sono due adagi
barocchi (il secondo del tipo dell'Adagio violinistico con fioriture improvvisate), la Variazione
trentesima è una Invenzione a quattro voci, non rigorosa, e la trentaduesima è una doppia
Fuga; la trentatreesima è un Tempo di Minuetto, cioè un minuetto stilizzato o trasfigurato, che
il Geiringer chiama giustamente «un epilogo in cielo».
Infine, anche il primo gruppo è suddiviso secondo la sezione aurea: questa suddivisione è
meno evidente, ma in realtà è importantissima, perché nella quinta Variazione viene cambiata
per la prima volta la struttura tonale del valzer (invece dell'andamento dalla tonica alla
dominante e viceversa, nella quinta Variazione si passa dalla tonica al relativo minore della
dominante e viceversa). Con la ulteriore suddivisione del primo gruppo Beethoven stabilisce
quindi, all'interno della suddivisione generale secondo la lezione aurea, una suddivisione
simmetrica: 5, 8, 8, 8, 5 pezzi.
La serie delle Variazioni, che non aveva trovato se non per eccezione una vera concentrazione
formale, si organizza così per gruppi e su un arco serrato, scandito secondo proporzioni precise
e funzionali che diventeranno un modello di organizzazione per i cicli romantici di forme
brevi. Accanto alle Variazioni op. 120 terminate nel 1823 si pongono infatti subito le Valses
sentimentales di Schubert, composte tra il 1823 e il 1824 e pubblicate nel 1825: un ciclo di
trentaquattro pezzi, organizzato secondo rapporti formali molto sottili, che tengono conto di
simmetrie geometriche e della sezione aurea. Il passo rivoluzionario che Schubert compie,
rispetto a Beethoven, riguarda la struttura tonale: mentre le Variazioni op. 120 mantengono
ancora l'unità tonale (la tonalità di do maggiore prevale nell'arco complessivo della
composizione), le Valses di Schubert la spezzano, creando un inedito rapporto tra una prima ed
una seconda area tonale, distanziate di una terza maggiore discendente.
Piero Rattalino
Nato nel 1781 nei pressi di Salisburgo e allievo di Michael Haydn, Anton Diabelli fu molto
apprezzato a Vienna come insegnante di pianoforte e chitarra; e in effetti mentre la sua
produzione musicale, non andando oltre un onesto mestiere, è stata presto dimenticata, alcune
delle sue moltissime opere didattiche trovano posto ancora oggi sui leggii di pianisti e
chitarristi alle prime armi. Oltre all'attività di compositore e di insegnante, a partire dal 1818,
per quasi trentacinque anni Diabelli si dedicò anche all'editoria musicale, prima in società con
Pietro Cappi e poi in proprio, pubblicando soprattutto opere teoriche e didattiche e musiche di
carattere prevalentemente leggero: Strauss, Lanner, ma anche molti dei Lieder e delle danze
pianistiche di Franz Schubert, di cui nel 1851 realizzò il catalogo tematico delle opere.
Intorno al 1819, all'inizio della sua attività editoriale in proprio, Diabelli ebbe un'idea
singolare dagli indiscutibili vantaggi pubblicitari: compose un semplice valzer di sedici battute
e lo inviò «agli eccellenti compositori e virtuosi di Vienna e degli imperialregi Stati austriaci»
pregando ciascuno di loro di scrivere una variazione. L'operazione presentava indubbiamente
vantaggi sia per l'editore che per il suo pubblico: Diabelli riusciva d'un colpo a stabilire un
contatto con praticamente tutti i compositori di area tedesca dell'epoca, mentre gli appassionati
di musica trovavano una raccolta di piccoli brani che compendiava gli stili di tutti quei
compositori e nello stesso tempo - come annunciava l'editore con una punta di orgoglio - un
vero e proprio «dizionario alfabetico di tutti i nomi dei musicisti, in parte già da lungo tempo
affermati, in parte ancora molto promettenti, della nostra magnifica epoca».
L'iniziativa ebbe senz'altro successo visto che nel giro di due o tre anni vi aderirono numerosi
compositori: Diabelli ne scelse cinquantuno, e il suo «dizionario alfabetico», pubblicato poi
nel 1824, va da Ignaz Assmayer a Johann Hugo Worzischek, passando per musicisti allora
molto popolari come Carl Czerny, Johann Nepomuk Kummel, Friedrich Kalkbrenner,
Conradin Kreutzer, Ignaz Moscheles; la raccolta comprende anche i contributi di alcuni
aristocratici dilettanti di musica, primo fra tutti l'Arciduca Rodolfo - allievo e amico di
Beethoven - autore della Variazione n. 40 (una fuga!) e anche quelli di molti musicisti che oggi
rappresentano per noi solamente dei nomi senza importanza o tuttalpiù delle curiosità, come
quel Wolfgang Amadeus Mozart, figlio omonimo del grande Amadé. Ma accanto a questi
troviamo nomi di ben altra importanza, come quelli di Franz Schubert e di Franz Liszt,
sicuramente uno dei musicisti «molto promettenti» di cui parlava Diabelli, visto che scrisse la
sua Variazione all'età di soli undici anni; ma, soprattutto, Diabelli riuscì a coinvolgere nella
sua iniziativa quello che era universalmente riconosciuto come il più grande compositore
vivente, Ludwig van Beethoven.
Beethoven si era dedicato molte volte al genere del tema con variazioni fin dal 1782, quando,
appena dodicenne, aveva composto e pubblicato le Nove Variazioni in do minore su una
marcia di Dressler; delle diciannove serie di variazioni composte fra il 1782 e il 1809 bisogna
ricordare almeno le 15 Variazioni e fuga su un tema del balletto Le Creature di Prometeo op.
35, del 1802, e le 32 Variazioni in do minore su un tema originale, del 1806. Oltre ad alcune
altre serie di variazioni composte per vari organici cameristici, Beethoven aveva naturalmente
fatto ricorso al genere del tema con variazioni anche in molti movimenti di sonate e sinfonie;
ma negli ultimi anni della sua vita l'interesse per la tecnica della variazione era divenuto
talmente preponderante da costituire, insieme alla scrittura di tipo contrappuntistico, il tratto
più immediatamente caratterizzante della sua estrema stagione creativa.
Tuttavia sembra che inizialmente Beethoven non fosse affatto intenzionato ad aderire all'invito
di Diabelli e che trovasse troppo ripetitivo e meccanico il tema, da lui definito ironicamente
«toppa del ciabattino»; molto presto però il compositore cambiò completamente parere. Già in
una lettera a Simrock del febbraio del 1820, infatti, parla delle «grandi variazioni su un valzer
tedesco», visto che ormai aveva deciso di inviare a Diabelli non una sola variazione ma
un'intera serie. Secondo un recente studio di William Kinderman, Beethoven, partito con
l'intenzione di comporre sei o sette variazioni, ne aveva già abbozzate ventitre nel corso del
1819; a questo punto, le accantonò per alcuni anni per dedicarsi alle ultime tre sonate per
pianoforte, alla Missa Solemnis e ad altri lavori, e le riprese solo nell'inverno 1822-23
completandole, ampliando il finale e aggiungendone addirittura dieci completamente nuove (le
numero 1, 2, 15, 23-26, 28-29 e 31), realizzando così il suo lavoro pianistico più ampio e
complesso.
Ma cosa aveva trovato Beethoven di tanto interesse nell'innocuo Valzer di Diabelli? Molti
critici si sono meravigliati della straordinaria capacità beethoveniana di trarre un capolavoro di
così grande ricchezza e varietà da un motivo così banale; ma come ha acutamente osservato
Giovanni Carli Ballola, «non fu nonostante, ma attraverso la schematicità del tema proposto,
che a Beethoven riuscì di creare quella che possiamo francamente definire come la sua summa
theologica dell'arte della variazione. Egli lesse il valzer come in una radioscopia, mettendone a
nudo l'impalcatura consistente in uno schema metrico di 16 più 16 battute, preceduto da
anacrusi, e in un giro armonico fondato sull'alternanza di tonica (do) e dominante (sol), con
elementari progressioni modulanti». Dopo aver esaminato ai raggi X l'innocuo Valzer di
Diabelli, Beethoven non ne sottopone a variazioni semplicemente il "motivo", il tema, ma le
stesse strutture portanti, «l'impalcatura», i tratti caratteristici a livello filmico, armonico,
intervallare. Di volta in volta questi vari elementi - il ritmo ternario, l'anacrusi dell'inizio, gli
accordi ribattuti, gli intervalli e i semplici giri armonici - vengono enfatizzati o ricondotti al
grado zero con una gradazione e un'intenzione sempre diverse, in modo che ciascuna
variazione viene ad assumere un suo aspetto particolare; ma proprio perché investono la
struttura del tema e non semplicemente la sua melodia, per il fatto insomma di essere delle
«variazioni strutturali» - come le ha definite Riezler - le Variazioni beethoveniane conservano
sempre, pur nel loro continuo ed eterogeneo divenire, una straordinaria coesione interna.
Anche quando sembra perdersi completamente ogni legame con il Valzer di partenza - come
nel caso emblematico della Variazione n. 22 («alla "Notte e giorno faticar" di Mozart») che
citando letteralmente l'incipit della celebre sortita di Leporello nel Don Giovanni mozartiano
sembra essere costruita su un tema del tutto diverso - è ancora una volta la struttura,
«l'impalcatura» ad essere parafrasata e a garantire il legame con il tema di partenza: al dì là del
divertente aneddoto riferito da Czerny secondo cui Beethoven avrebbe utilizzato questo tema
per protestare scherzosamente contro le pressioni di Diabelli affinchè completasse al più presto
il lavoro, i due motivi sono accomunati dal fatto di presentare all'inizio un intervallo di quarta
discendente seguito subito dopo da uno di quinta discendente.
Carlo Cavalletti
L'occasione esterna che dette origine alle monumentali «Trentatré Variazioni, op. 120» fu un
concorso che l'editore Anton Diabelli bandi nel 1821 fra «i più distinti musicisti e virtuosi di
Vienna e dei regi imperiali Stati austriaci» per la composizione di una serie di variazioni su un
proprio valzer. L'album risultante da questa proposta, alla quale avevano aderito ben
cinquantuno compositori, fu pubblicato nel 1824 e, fra i nomi celebri, oltre Beethoven, vi si
trovano quelli di Schubert, Liszt, Czerny. Le «Variazioni» beethoveniane erano già state
pubblicate però nel 1823 con il numero d'opera 120.
Il lavoro conclude cosi, con uno splendido monumento, l'intera opera pianistica del
compositore e la sua valutazione critica può essere affrontata, come sempre accade con i
capolavori, da diversi punti di vista. Anzitutto, per il significato ideologico che assume,
insieme con gli altri contemporanei lavori di Beethoven (la «Nona Sinfonia», le ultime Sonate
per pianoforte, gli ultimi Quartetti), nel senso di testimonianza artistica della maturazione
rivoluzionaria dell'illuminismo settecentesco e della conseguente esigenza di libertà in tutti i
campi. Dalla nascita di questo nuovo individualismo deriva anche una rivoluzione dei mezzi
espressivi che, in un artista della sensibilità e del genio di Beethoven, si manifesta nel distacco
da ogni precedente formalismo strutturale e dialettico. In altri termini, nella creazione di un
nuovo stile.
Da questo punto di vista, infatti, è la struttura formale e ritmica del modesto tema di Diabelli
che Beethoven ha posto a base delle sue «Variazioni», tanto che si è potuto parlare di
variazioni di struttura e quindi, in definitiva, di variazione di tutti i parametri del suono, un
fatto che precorre direttamente le esperienze più avanzate della musica d'oggi.
Infine, per quanto riguarda più specificamente la forma della variazione, non va dimenticato
che le «Variazioni, op. 120» concludono al più alto livello un'esperienza sempre più frequente
nelle opere dell'ultimo Beethoven non tanto come lavoro a sé (le ultime significative variazioni
su un tema da «Le rovine di Atene» risalgono infatti al 1809), quanto perché divenuta ormai
organica, come sopra si accennava, al linguaggio del musicista; basta ricordare a questo
riguardo l'Adagio della «Sonata in si bemolle maggiore, op. 106» per pianoforte, la celebre
«Hammerklavier».
Non c'è dubbio che, se dal punto di vista formale e della tecnica dello strumento, l'op. 120
esaurisce tutte le possibilità dell'arte della variazione, essa rappresenta soprattutto una sorta di
universo che riassume in sé i fondamentali atteggiamenti spirituali della vita, per cui al di là
del pur altissimo magistero tecnico e della grande costruzione intellettuale, il lavoro ci appare
una fondamentale manifestazione dell'umanesimo beethoveniano.
È ovvio che in una tale tensione espressiva, il mediocre valzer di Diabelli, con il suo schema
metrico di 16 più 16 battute, finisca per diventare poco più che un pretesto per un'opera che si
svolge in piena autonomia linguistica. Fin dalla prima variazione, infatti, il tema del valzer
viene come distanziato da una dimensione ritmica ed espressiva che ne mette completamente a
nudo il semplicistico schema strutturale. L'essenzialità della scrittura polifonica unita ad una
suprema libertà di invenzione consente cosi al maestro di eludere con soluzioni ogni volta
diverse e geniali i riferimenti obbligati allo schema iniziale, tanto che nella ventiduesima
variazione, Beethoven può prendere addirittura come tema d'inizio quello del «Notte e giorno
faticar» di Leporello nel «Don Giovanni» di Mozart. Momenti di grande dolcezza melodica,
come nella terza e quarta variazione, diafane trasparenze (come nell'ottava), si alternano a
momenti di più spiccato costruttivismo (sesta, ventunesima e soprattutto ventesima
variazione), per concludere poi il lavoro in un crescendo patetico ed espressivo (29, 30 e 31)
che sbocca nella fuga a due soggetti della penultima variazione e nell'umanissimo e dolce
«Tempo di Minuetto» finale.
Mario Sperenzi
Pianoforte solo
WoO 54 1802
2 brani per pianoforte "Lustig-traurig" (Allegro-triste)
https://www.youtube.com/watch?v=ap_j6prdlDU
Organico: pianoforte
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
https://www.youtube.com/watch?v=75i53JScg14
https://www.youtube.com/watch?v=5vRFsCAEZ2A
https://www.youtube.com/watch?v=QukCtDRVUxo
Organico: pianoforte
Composizione: 1823 - 1824
Edizione: Schott, Magonza 1825
Chi scorre anche solo distrattamente l'elenco delle composizioni pubblicate da Beethoven nota
immediatamente l'alternarsi di lavori con numero d'opera e di lavori senza numero d'opera, un
alternarsi assai frequente nell'ultimo scorcio del Settecento e che si va poi facendo raro, fino a
scomparire del tutto negli ultimi anni. Ora, a che serviva ai tempi di Beethoven il numero
d'opera? Serviva all'acquirente che, trovando in un negozio di Londra o di Parigi o di San
Pietroburgo una composizione di autore per lui sconosciuto, la scorreva con l'occhio, la
comprava, se la suonava o se la faceva suonare a casa da qualcuno sul pianoforte che per gli
amanti della musica era un indispensabile mobile domestico parcheggiato in salotto. Se la
suonava, il nostro ipotetico acquirente, e se gli piaceva desiderava di saperne di più su quel
compositore fino ad allora sconosciuto. Quindi, se la composizione che aveva appena scoperto
portava putacaso un "opus 6" l'acquirente sapeva che poteva far cercare dal suo negoziante di
fiducia l'"opus 1, 2, 3, 4, 5". E se si era procurato tutto il blocco dall'1 al 6 e poi trovava in un
altro negozio l'opus 9" sapeva che esistevano l'"opus 7" e l'"opus 8". Il numero d'opera,
insomma, era il cartellino di produttività dell'autore e fungeva da elementare canale di
informazione.
Prima di quel momento Beethoven aveva pubblicato con numero d'opera le sonate, i trii, i
quartetti, il Settimino, la Sinfonia n. 1, e senza numero d'opera le variazioni. È dunque
evidente che per lui le variazioni rispondevano a bisogni della società viennese ed erano perciò
opere minori. Con l'op. 34 e con l'op. 35 la variazione, il genere della variazione, entrava
invece nell'olimpo. Ma un po' prima era entrata nell'olimpo addirittura una raccolta di brevi
pagine pianistiche, le Bagatelle op. 33: Beethoven, per così dire, decideva di prendere e di far
prendere sul serio tutto quel che componeva, anche se poi avrebbe pubblicato senza numero
d'opera parecchie cose, come ad esempio le celeberrime Variazioni in do minore.
Il carattere di ciclo è assicurato prima di tutto dalla scelta delle tonalità, e in secondo luogo dai
contrasti di movimento:
Andante con moto sol maggiore
Allegro sol minore
Andante mi bemolle maggiore
Presto si minore
Quasi allegretto sol maggiore
Presto-andante amabile e con moto-Tempo I mi bemolle maggiore
L'alternarsi di movimenti moderati e movimenti rapidi è evidente di per sé. La rete tonale è
meno immediatamente percepibile perché la tonalità di si minore sembra del tutto estranea. In
realtà, però, sulla tastiera temperata del pianoforte il si è identico al do bemolle. Quindi, per
l'orecchio, noi abbiamo un intervallo di terza maggiore discendente dal sol al mi bemolle, un
intervallo di terza maggiore discendente dal mi bemolle al do bemolle, un intervallo di terza
maggiore discendente dal si al sol e un intervallo di terza maggiore discendente dal sol al mi
bemolle.
I rapporti di terza, alternativi ai classici rapporti di quarta e di quinta, erano stati esplorati da
Beethoven nella Sonata per pianoforte op. 31 n. 1 (1801), nella Sonata op. 53 (1804), nel ciclo
liederistico An die ferne Geliebte op. 98 (1816), ed erano stati integrati con i rapporti di quarta
e quinta nella Sonata op. 106 (1817-18). Nell'op. 126 essi costituiscono la struttura portante e
simmetrica. Costituivano la struttura portante e simmetrica anche nella Fantasia op. 15 di
Schubert, composta nel 1822 e pubblicata nel 1823; solo che in Schubert la "direzione" era
ascendente invece che discendente: do, mi, la bemolle, do. In Schubert la tonalità finale è
identica a quella iniziale, mentre in Beethoven è diversa. Ma faccio osservare che le Valses
sentimentales op. 50 di Schubert, pubblicate nel 1825, iniziano in do maggiore e finiscono in
la bemolle maggiore, il che configura il rapporto di terza maggiore discendente. Insomma,
sembra proprio che Beethoven e Schubert facessero a gara nell'inseguire i rapporti di terza.
Piero Rattalino
Dopo aver completato, nel gennaio del 1822, l'ultima delle sue 32 Sonate per pianoforte,
Beethoven pubblicò ancora alcuni lavori pianistici di vario genere, fra i quali le 11 Bagatelle
op. 119, le 33 Variazioni su un valzer di Diabelli op. 120 e le 6 Bagatelle op. 126. Schiacciate
dal confronto ravvicinato con la monumentale grandezza delle ultime Sonate e delle Variazioni
Diabelli, però, le due raccolte di Bagatelle sono state talvolta considerate pagine minori
delll'estrema stagione creativa beethoveniana e oggi il loro ascolto in sala da concerto non è
particolarmente frequente.
Ma se l'opera 119, pubblicata nel 1823, contiene con molta probabilità anche brani composti
diversi anni prima, le Bagatelle op. 126, pubblicate da Schott a Magonza nel 1825, sono state
tutte composte pochi mesi prima della loro pubblicazione, presumibilmente tra la fine del 1823
e l'inizio del 1824: vera e propria appendice alle Sonate e alle Variazioni, questi «piccoli fiori
sbocciati all'ombra dell'immenso tronco ma nutriti dello stesso humus vitale» - secondo la
felice immagine di Giovanni Carli Ballola - rappresentano quindi «le parole estreme uscite dal
pianoforte beethoveniano»; e il fatto che Beethoven si decidesse a pubblicare questi piccoli
brani - destinati a incontrare il favore del grande pubblico molto più facilmente dei giganteschi
e tanto più problematici capolavori coevi - sotto la spinta delle necessità economiche, non
toglie assolutamente nulla al loro reale valore musicale. Del resto i numerosi schizzi
preparatori presenti nei taccuini di appunti dimostrano chiaramente che non si tratta di pagine
scritte frettolosamente per contentare un editore impaziente, o abbozzate di getto sulla scia di
un'ispirazione improvvisa, ma che al contrario nascono dal lavoro travagliato e pieno di
ripensamenti tipico di Beethoven.
Pur ritenendo eccessiva l'affermazione di Hans von Bülow secondo cui la seconda (Allegro)
era stata «ovviamente concepita per un quartetto d'archi», è indiscutibile che ascoltando queste
Bagatelle si ritrova naturalmente lo stile singolarissimo dell'ultimo Beethoven, capace di
alternare a distanza ravvicinata momenti di idillio, scarti rabbiosi, passaggi graffianti e ironici,
melodie semplici e dolcissime.
Carlo Cavalletti
La grande libertà di mezzi espressivi usata dall'ultimo Beethoven, tanto nelle Sonate per
pianoforte, come nei Quartetti, che nella stessa «Nona Sinfonia», se va vista come la
conseguenza di un processo ideologico che ha alla base la maturazione rivoluzionaria
dell'illuminismo settecentesco e quindi la nascita di un nuovo individualismo, è anche il frutto
di un lunghissimo processo di elaborazione del linguaggio musicale e, in particolare, della
rottura operata da Beethoven nel meccanismo di accorti equilibri dialettici su cui si reggeva la
forma-sonata, vero e proprio monumento del razionalismo illuministico.
Per i primi romantici, fra i quali appunto Schubert, questa rottura è già operata, è in un certo
senso un dato scontato, per cui anche il loro riferirsi talvolta alle forme classiche avviene in
uno spirito completamente diverso da quello di Beethoven, quasi come ad una reminiscenza
del passato, ad un dato accademico comunque dal quale occorre il più possibile emanciparsi.
Le «Sei bagatelle», op. 126 furono composte da Beethoven fra la fine del 1823 e l'inizio del
1824; seguono dunque da vicino l'epoca delle ultime grandi Sonate per pianoforte, alle quali
appartiene anche la «Sonata in mi maggiore, op. 109», e quello sconcertante capolavoro che
sono le «Trentatré variazioni sopra un valzer di Diabelli, op. 120». Proprio a quest'ultimo
lavoro occorre fare riferimento per intendere l'op. 126 in cui appunto il principio della
variazione è divenuto il carattere peculiare del linguaggio beethoveniano, così come lo sarà nei
successivi Quartetti per archi.
D'altra parte, sarebbe un errore considerare le «Bagatelle» a causa delle loro dimensioni ridotte
come una sorta di schizzi legati agli umori del momento del loro autore; anche se la loro
composizione non ha richiesto certo l'impegno profuso nelle opere di più ampia concezione
strutturale che abbiamo ricordato, rimane tuttavia il fatto che le «Bagatelle» costituiscono,
come è stato osservato, dei «veri microcosmi delle peculiarità stilistiche dell'ultimo
Beethoven» e quindi «i capolavori degli ultimi anni visti attraverso un cannocchiale
rovesciato» (Carli Ballota).
Altra cosa, naturalmente, è rilevare invece il diverso clima che pervade i vari brani; così il
primo, un «Andante con moto» in sol maggiore, è caratterizzato da un tema sereno che viene
variato nello svolgimento fino ad una seconda parte in cui appare un brusco cambiamento di
tempo e determina cosi una struttura totalmente asimmetrica del pezzo. Il secondo brano è un
«Allegro» in sol minore che si apre con una raffica impetuosa che cede poi ad un tema più
melodico e cantabile, mentre il successivo «Andante» in mi bemolle maggiore, cambiando
nuovamente di clima svolge un tema unico di otto battute, di grande dolcezza, variato e poi
ripreso in una coda che termina in pianissimo. La quarta bagatella, un «Presto», alterna due
sezioni in sol minore e in sol maggiore e un clima che passa da un inizio tempestoso ad uno
svolgimento più tranquillo spesso rudemente interrotto. Il quinto brano, «Quasi allegretto» in
sol maggiore è il più semplice e lineare dei sei, mentre il sesto, un «Presto» cui segue
immediatamente un «Andante amabile e con moto», si rivela ricco di contrasti variando un
tema dal quale sembra emergere un supremo distacco dalle passioni fino alla brusca e
inaspettata conclusione con il ritorno delle frenetiche battute di apertura.
Mario Sperenzi
https://www.youtube.com/watch?v=EHTl9k2VGm0
https://www.youtube.com/watch?v=rlg8dK77bcQ
Organico: pianoforte
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1803
https://www.youtube.com/watch?v=CdEYaAZtklc
https://www.youtube.com/watch?v=JH9BmL1WI_Y
Organico: pianoforte
Edizione: F. Starke, Vienna 1821
https://www.youtube.com/watch?v=hcHaAbwFEHs
https://www.youtube.com/watch?v=oAoIpGsz-gw
Organico: pianoforte
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
Forse destinato alla sonata per pianoforte op.10/1 e non utilizzato
WoO 55 1803
Allegretto per pianoforte in fa minore "Praeludium"
https://www.youtube.com/watch?v=TBmCbMW0XIg
https://www.youtube.com/watch?v=Cq3m7DIvHOc
Organico: pianoforte
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1805
WoO 61 1821
Allegretto in si minore
https://www.youtube.com/watch?v=d7gJa9zU48A
https://www.youtube.com/watch?v=2XOUmKGJxuk
Organico: pianoforte
Edizione: Schlesinger, Berlino 1860
Dedica: Ferdinand Piringer
https://www.youtube.com/watch?v=FeRZokkMNy4
Organico: pianoforte
Edizione: Schlesinger, Berlino 1860
Dedica: Sarah Burney Payne
https://www.youtube.com/watch?v=2zfy0HePHus
Organico: pianoforte
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
WoO 57 1803
Andante per pianoforte in fa maggiore "Favori"
https://www.youtube.com/watch?v=iEmaEgWPphc
https://www.youtube.com/watch?v=a7F-3lkTlyc
https://www.youtube.com/watch?v=BF84k8KguNY
WoO 56 1803
Bagatella per pianoforte in do maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=pAW5mFEgaBg
Allegretto
Organico: pianoforte
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
WoO 52 1797
Bagatella per pianoforte in do minore
https://www.youtube.com/watch?v=-YdGifM6R68
https://www.youtube.com/watch?v=bSQVrnMf6QA
Presto
Organico: pianoforte
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
Forse destinata alla sonata per pianoforte op.10/1 e non utilizzata
WoO 59 1810
Bagatella per pianoforte in la minore "Fur Elise" (Per Elisa)
https://www.youtube.com/watch?v=PtwFOOOoGlo
https://www.youtube.com/watch?v=5G_TCkUA8yo
https://www.youtube.com/watch?v=K_RDvDGjbDI
Poco moto
Organico: pianoforte
Composizione: Vienna, 27 aprile 1810
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1867
Dedica: Therese Malfatti
WoO 60 1818
Bagatella in si bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=TKI30L8MZCQ
Organico: pianoforte
Edizione: Schlesinger, Berlino 1860
Dedica: Marie Szymanowska
Op. 39 1789
Due preludi per pianoforte su tutte le tonalità
https://www.youtube.com/watch?v=7v3W4usHcsE
https://www.youtube.com/watch?v=dEMUeyrXfvc
Op. 77 1809
Fantasia per pianoforte in sol minore
https://www.youtube.com/watch?v=PWUhhjC5xeA
https://www.youtube.com/watch?v=De0n-Qmoa50
https://www.youtube.com/watch?v=N8em6uvtfS0
Organico: pianoforte
Composizione: 1809
Edizione: Clementi, Londra 1810
Dedica: Conte Brunsvik
La Fantasia op. 77 in sol minore/si maggiore venne composta da Beethoven nel 1809 e
pubblicata l'anno successivo presso l'editore Breitkopf & Härtel di Lipsia con la dedica al
conte von Brunswick. Si pone, all'interno dell'opera beethoveniana del periodo, come un corpo
estraneo, quasi un reperto arcaico, tale è la differenza con le maggiori composizioni coeve. Un
reperto arcaico anche perché la sua costituzione sembra ricollegarsi a quell'Empfindsamer Stil
che venne coltivato nella seconda metà del Settecento nella Germania settentrionale, in
particolar modo da due dei figli di Bach, Wilhelm Friedemann e Carl Philipp Emanuel.
Beethoven conosceva molto bene le loro opere poiché il suo maestro a Bonn, Christian
Gottlob Neefe, era un grande ammiratore di Philipp Emanuel di cui Beethoven copiò e portò
con sé a Vienna almeno due delle sue Sonate Württemberghesi. L'Empfindsamer Stil ricercava
una totale rispondenza della musica alle mutevoli passioni e disposizioni dell'animo e si
tradusse in composizioni estremamente irregolari, caratterizzate da continui e improvvisi scarti
espressivi senza una grande attenzione per i contorni formali.
Secondo uno degli allievi di Beethoven - Carl Czerny - la Fantasia op. 77 rispecchia in modo
autentico l'arte dell'improvvisazione del grande compositore. E l'improvvisazione all'epoca era
uno dei passaggi d'obbligo per un virtuoso della tastiera, veste nella quale Beethoven si
presentò a Vienna quando conquistò i mecenati aristocratici della capitale asburgica, un viatico
essenziale per la carriera del musicista di allora. E Vienna alla fine del XVIII secolo era una
città di pianisti, se ne contavano più di trecento in continua lotta tra di loro. Beethoven, di
carattere sospettoso di natura, era molto geloso del suo stile di improvvisazione temendo che
altri pianisti potessero imitarlo. La pubblicazione di quest'opera è quindi anche un segno di
come ormai nel primo decennio del XIX secolo, la sua posizione sugli altri musicisti della città
fosse di netta supremazia.
La composizione è veramente singolare con i suoi continui e bruschi scarti iniziali, alla ricerca
di una stabilità che stenta a trovare. Anche l'assetto armonico-tonale non sempre chiaramente
definito contribuisce all'instabilità complessiva del brano costituito da un unico movimento
che si può dividere in due parti. La prima, più rapsodica, alterna elementi contrastanti, veloci
scale a brevi temi cantabili, per poi essere sviluppata all'insegna del pianismo brillante tardo-
settecentesco con una serie di tempi veloci. La composizione trova un maggiore equilibrio
nella seconda parte in cui viene più ampiamente sviluppato un medesimo episodio, attraverso
sempre più elaborate e brillanti ornamentazioni del tema principale che, non senza un breve
ritorno degli elementi iniziali, portano il brano alla sua conclusione.
https://www.youtube.com/watch?v=pkdp9Dyv4lI
Moderato
Organico: pianoforte
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1805
Op. 89 1814
Polonaise per pianoforte in do maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=wI3eQTMnGag
https://www.youtube.com/watch?v=73qWaZscfyE
Organico: pianoforte
Edizione: Mechetti, Vienna 1815
Dedica: imperatrice Elisabetta di Russia
https://www.youtube.com/watch?v=G3Vn4rV6f7A
https://www.youtube.com/watch?v=Q91qEI7UDTc
Moderato e grazioso
Organico: pianoforte
Edizione: Artaria, Vienna 1797
Dedica: Contessa Henrietta Lichnowski
WoO 48 1783
Rondò per pianoforte in do maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=nD1qKPMZczI
Allegretto
Organico: pianoforte
Edizione: Bossler, Speyer 1784
WoO 49 1783
Rondò per pianoforte in la maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=fGWsp725Kvo
Allegretto
Organico: pianoforte
Edizione: Bossler, Speyer 1784
Op. 51 n. 2 1800
Rondò in sol maggiore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=rzWPZ-fCG5c
https://www.youtube.com/watch?v=WIEq4Y6vXYE
Organico: pianoforte
Edizione: Artaria, Vienna 1802
Dedica: Contessa Henrietta Lichnowski
WoO 86 1825
Scozzese in mi bemolle maggiore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=lgQ8vLchtpY
https://www.youtube.com/watch?v=Y1ne-ds40-k
Organico: pianoforte
Edizione: Müller, Vienna 1825
Dedica: Duchessa Sofia d'Austria (dedica dell'editore)
WoO 84 1824
Valzer in mi bemolle maggiore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=PhAZWz6RBD8
Organico: pianoforte
Edizione: Müller, Vienna 1824
Dedica: Friedrich Demmer (dedica dell'editore)
WoO 85 1825
Valzer in re maggiore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=2PDXxzcNtGs
WoO 74 1803
6 variazioni sul lied "Ich denke dein" (Penso a te)
https://www.youtube.com/watch?v=uTggcrvqIyE
Andantino cantabile
Organico: pianoforte
Composizione: Vienna, 23 Maggio 1799 (i numeri 1 - 2 - 5 - 6)
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1805
Dedica: Therese von Brunsvik e Josephine Deym
https://www.youtube.com/watch?v=zSjL_fDh61c
https://www.youtube.com/watch?v=IuXsNXPS11Y
Organico: pianoforte
Composizione: 1791 - 1792
Edizione: Simrock, Bonn 1794
Dedica: conte Ferdinand Waldstein
Le Variazioni sopra un tema del Conte di Waldstein, per piano a quattro mani, in do maggiore,
furono composte da Beethoven verso il 1792-93 e pubblicate nel 1794. Come indica lo stesso
titolo del lavoro, esso si basa su di un tema di quel Conte Ferdinando di Waldstein che fu
intimo amico e mecenate di Beethoven sin dai tempi in cui questi viveva a Bonn. Il Waldstein
era un eccellente dilettante, di musica e il temino che egli fornì a Beethoven, pur nella
modestia delle sue apparenze tutt'altro che pretenziose non è privo di una certa raffinatezza
testimoniata da quella modulazione transitoria in do minore che ne ravviva il breve giro
armonico e ne riscatta la convenzionalità melodica. Ed è quest'alternanza modale, questo
chiaroscuro espressivo che ha eccitato maggiormente la fantasia di Beethoven e su cui la sua
immaginazione creatrice ha fatto leva, impossessandosene e sviluppandone i motivi di
contrasto dialettico. Già nella prima variazione, mentre la parte superiore discioglie i contorni
del tema in un disegno rabescato di staccate terzine, il basso conferisce risalto ed importanza
alla frase in do minore, mediante un caratteristico disegno ritmico, sostenuto da plastici
accordi.
Nella seconda variazione le figurazioni in semicrome e il tratto in minore (che diventa oggetto
di una sempre più spiccata differenziazione ritmica e melodica) vengono suddivisi tra i due
suonatori. La terza variazione è affidata soprattutto al «secondo» suonatore il quale svolge il
tema intercalandovi dei cromatici arabeschi, mentre la parte del «primo» è limitata a qualche
breve punteggiatura ritmica.
Roman Vlad
https://www.youtube.com/watch?v=Tp1DH9--vGo
https://www.youtube.com/watch?v=pAw1JBhD-B0
Organico: pianoforte
Edizione: Artaria, Vienna 1827
https://www.youtube.com/watch?v=uzOqAM2tHkg
Allegro molto
Rondo. Moderato
Organico: pianoforte
Edizione: Artaria, Vienna 1797
Op. 45 1803
3 marce per pianoforte a quattro mani
https://www.youtube.com/watch?v=DmRjUfqB_pQ
Organico: pianoforte
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1804
Dedica: Principessa Maria von Lichtenstein Esterházy
https://www.youtube.com/watch?v=1RsDsenoDFM
Do maggiore
La maggiore
Re maggiore
Si bemolle maggiore
Mi bemolle maggiore
Do maggiore
Mi bemolle maggiore
Do maggiore
La maggiore
Do maggiore
Sol maggiore
Mi bemolle maggiore
Organico: pianoforte
Edizione: Artaria, Vienna 1802
https://www.youtube.com/watch?v=OlQi0dvTlA8
https://www.youtube.com/watch?v=N0nU0NPS-7c
Allemande in re maggiore
Allemande in si bemolle maggiore
Allemande in sol maggiore
Allemande in re maggiore
Allemande in fa maggiore
Allemande in si bemolle maggiore
Allemande in re maggiore
Allemande in sol maggiore
Allemande in mi bemolle maggiore
Allemande in do maggiore
Allemande in la maggiore
Allemande in re maggiore
Organico: pianoforte
Edizione: Artaria, Vienna 1802
https://www.youtube.com/watch?v=lZXo8m3mLfk
Ländler in re maggiore
Ländler in re maggiore
Ländler in re maggiore
Ländler in re minore
Ländler in re maggiore
Ländler in re maggiore
Organico: pianoforte
Edizione: Artaria, Vienna 1802
Canto
Lieder
Op. 83 1810
3 Lieder per voce e pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=QsLWi3gl2D8
Il Lied goethiano, "Wonne der Wehmut" (Piacere della malinconia), è stato composto nel
1810; nell'intento di valorizzare al massimo il testo poetico, Beethoven attribuisce al brano un
andamento quasi di recitativo, a frasi tronche e ansiose che ricalcano il sofferto contenuto
emotivo.
Arrigo Quattrocchi
Testo (nota 2)
WONNE DER WEHMUT
https://www.youtube.com/watch?v=1bV1TFiuP7E
Hoffnung (Dimmi, ben mio, che m'ami) - Allegro moderato (la maggiore)
Testo: autore ignoto
Liebsklage (T'intendo, sì, mio cor) - Adagio ma non troppo (re maggiore)
Testo: Pietro Metastasio
Stille Frage (L'amante impaziente) - Arietta buffa - Allegro (mi bemolle maggiore)
Testo: Pietro Metastasio
Liebesungeduld (L'amante impaziente) - Arietta assai seriosa - Andante con espressione (si
bemolle maggiore)
Testo: Pietro Metastasio
Lebensgenuß (Odi l'aura che dolce sospira) - Duetto - Andante vivace (mi maggiore)
Testo: Pietro Metastasio
Il gruppo di Ariette Op. 82, decisamente insolite nella produzione beethoveniana, nasce tra il
1795 e il 1796 (ancora una volta notevole la discrepanza tra data di composizione e numero di
catalogo, evidentemente dovuta alla tarda pubblicazione dell'opera). Le Ariette vanno dunque
collocate - questo è importante sotto il profilo della connessione musicale - accanto al Lied
«Adelaide» Op. 46, ai sei Lieder Op. 48 e a un ricco gruppo di pagine vocali minori, non
rientrate nel catalogo ufficiale e collocate nel catalogo WoO (dal WoO 121 al WoO 124). I testi
appartengono a Pietro Metastasio, ad esclusione del primo non rintracciato nelle opere del
poeta (probabilmente frutto di un rimaneggiamento di qualche «orecchiante d'italiano», se non
addirittura di Beethoven stesso). Il quarto - base letteraria per due differenti versioni musicali -
fu infatti desunto dall'«Adriano in Siria»; l'ultimo da «La pace fra Virtù e Bellezza», un'opera
rappresentata a Vienna nel 1738 con musica di L.A. Predieri, per festeggiare l'onomastico di
Maria Teresa (a quei tempi arciduchessa, poi Imperatrice).
Una parte della critica, capitanata da Bortolotto, pur riscattandone la brillante e spiritosa
scrittura pianistica, accusa le pagine di essere contagiate dalla scleroltizzata vocalità
settecentesca; altri critici (Liuzzi prima, poi Carli Ballola)) insistono, con ben altra
sottigliezza, sull'«italianismo immaginario» che connota le composizioni beethoveniane di tal
genere. Contrariamemte a quanto era avvenuto con Hasse, Gluck e Mozart, il ricorso a
Metastasio e agli stilemi della poesia italiana denuncia infatti un atteggiamento di «esotismo
stilistico e spirituale» che non può essere sottovalutato. L'esasperato italianismo che
caratterizza le canzonette, cosi vistosamiente esibito, aveva intrigato l'acuta intelligenza di
Beethoven: a un esame più attento, ci rendiamo conto che egli l'aveva scoperto, e l'aveva
rappresenuato con una delicata irrisione, propria di chi se ne distacca ma, prima, ne carica le
formule, i ritmi, gli accenti per mettere a nudo i meccanissmi nascosti.
Testo
L'amante impaziente
Venere:
Odi l'aura che dolce sospira;
Mentre fugge scutendo le fronde,
Se l'intendi, ti parla d'amor.
Pallade:
Senti l'onda che rauca s'aggira;
Mentre geme radendo le sponde,
Se l'intendi, si lagna d'amor.
(a due):
Quell'affetto chi sente nel petto,
Sa per prova se nuoce, se giova,
Se diletto produce o dolor!
https://www.youtube.com/watch?v=JbVzn9xz9Pg
Di questa mancanza di "direzione unitaria" l'antologia proposta questa sera offre un esempio
circoscritto ma senz'altro esauriente. Il Mailied (Canto di maggio) è il primo incontro di
Beethoven con Goethe, un incontro certamente in tono minore fra i due maestri del
classicismo; la breve composizione è stata pubblicata nel 1805, in un gruppo di otto Lieder,
ma risale in realtà agli ultimi anni del musicista a Bonn (1790/92). Si tratta di una canzone
strofica segnata da una scorrevolezza melodica e una spontaneità espressiva di fresca naiveté,
disimpegnata e cordiale, non esente da un certo manierismo.
Arrigo Quattrocchi
Testo (nota 2)
MAIGESANG
https://www.youtube.com/watch?v=X-M2grPl-W0
Testo: H. Goeble
Ziemlich anhaltend
Testo
ABENDLIED UNTERM GESTIRNTEN HIMMEL
Un sommesso presagio
mi viene da quei mondi:
il mio pellegrinaggio terreno
non durerà più a lungo.
https://www.youtube.com/watch?v=sljmKS69xBw
https://www.youtube.com/watch?v=o9M01ER_3aA
Larghetto
Adelaide (che fu sempre carissima al suo autore, il quale, inchiodato al proprio letto di morte,
la udì o meglio la vide cantare per l'ultima volta dall'amico tenore Luigi Cramolini) appartiene
al novero dei capolavori giovanili che non si ripetono: la sua primaverile fragranza lirica, non
immemore di echi italianeggianti mediati dall'esperienza mozartiana (anche la forma, del resto,
è assai affine a quella della Cavatina d'opera), la sinuosa sensualità con la quale la parte
pianistica si immedesima col canto in un intimo dialogo, la sciolta leggerezza del fraseggiare
melodico sono altrettanti valori che può invidiarle persino il celebrato Liederkreis «An die
jerne Geliebte» op. 98 (1816); il più consapevole e ambizioso contributo beethoveniano alla
letteratura liederistica.
Testo
ADELAIDE
ADELAIDE
https://www.youtube.com/watch?v=tbUBnDBYM6Y
Sehr bewegt
https://www.youtube.com/watch?v=aZOq50TWd7g
Auf dem Hügel sitz' ich spähend (Siedo sul colle, scrutando) - Ziemlich langsam und mit
Ausdruck (mi bemolle maggiore)
Wo die Berge so blau (Dove i monti così azzurri) - Ein wenig geschwinder (sol maggiore)
Leichte Segler in den Höhen (Voi che veleggiate leggere nell'alto) - Allegro assai (la
bemolle maggiore)
Diese Wolken in den Höhen (Queste nubi nell'alto) - Nicht zu geschwinde (la bemolle
maggiore)
Es kehret der Maien (Torna Maggio) - Vivace (do maggiore)
Nimm sie hin denn, diese Lieder (Accetta dunque questa canzone) - Andante con moto,
cantabile (mi bemolle maggiore)
Il celebrato Liederkreis «An die ferne Geliebte» op. 98 (1816) è il più consapevole e
ambizioso contributo beethoveniano alla letteratura liederistica. Come è noto, esso consta di
sei canti su liriche di Alois Isidor Jeitteles, uno studente di medicina e poeta a tempo perso, i
cui versi, pubblicati su vari almanacchi e riviste, eran piaciuti a Beethoven. I sei Lieder che
esprimono altrettanti momenti di anelito, di rimpianto nostalgico, di vagheggiamento amoroso
per una donna amata, la cui immagine è contemplata attraverso lo schermo della natura, sono
concatenati tra loro in una vera e propria continuità del discorso musicale. In questo dato
formale, oltre che in una maggiore complessità e partecipazione espressiva dell'apparato
pianistico, si esaurisce tuttavia ogni novità del ciclo. Ciascuno dei sei episodi vocali consta
della ripetizione, appena lievemente ritoccata ove lo richieda la diversità della scansione
metrica dei versi, di una singola frase compresa per lo più nel sacramentale schema delle otto
battute, l'unico elemento di varietà consistendo nel mutare delle formule d'accompagnamento
pianistico e in alcune contrazioni ritmiche.
Non mancano momenti di grande fascino melodico, come la prima parte del sesto Lied
«Nimm sic hin denn, diese Lieder», che precede l'eloquente chiusa col ritorno dell'idea
iniziale, posta a ideale coronamento del Kreis; nel complesso, tuttavia, è difficile sottrarsi al
senso di impacciata rigidezza, di compassata idealizzazione di una Sehnsucht amorosa ben
altrimenti sofferta dal Beethoven epistolografo. Ardente amatore, almeno a parole, era l'uomo,
non certo il compositore: ecco un argomento sul quale avrebbero di che sbizzarrirsi le
ricognizioni psicanalitiche applicate alla musica, oggi tanto di moda.
Giovanni Carli Ballola
Testo
I
Auf dem Hügel sitz ich spähend
In das blaue Nebelland,
Nach den fernen Triften sehend,
Wo ich dich, Geliebte, fand.
II
Wo die Berge so blau
Aus dem nebligen Grau
Schauen herein,
III
Leichte Segler in den Höhen
Und du, Bächlein, klein und schmal,
Könnt mein Liebchen ihr ersplähen,
Grüsst sie mir viel tausendmal.
IV
Diese Wolken in den Höhen,
Dieser Vöglein muntrer Zug
Werden dich, o Huldin, sehen,
Nehmt mich mit im leichten Flug!
V
Es kehret der Maien, es blühet die Au.
Die Lüfte, sie wehen so milde, so lau.
Geschwätzig die Bäche nun rinnen.
VI
Nimm sie hin denn, diese Lieder,
Die ich dir, Geliebte, sang.
Singe sie dann abends wieder
Zu der Laute süssem Klang.
https://www.youtube.com/watch?v=20da2rLvrKI
https://www.youtube.com/watch?v=L3wkNL5uVOo
Op. 32 1805
An die Hoffnung (Alla speranza)
https://www.youtube.com/watch?v=-TkwJy_jP6I
Prima versione
Poco adagio
https://www.youtube.com/watch?v=CzWh7syCu5E
Testo
AN DIE HOFFNUNG
https://www.youtube.com/watch?v=yKxa7sEVSu0
Arioso
https://www.youtube.com/watch?v=CrmsJEFG2EQ
Allegretto
https://www.youtube.com/watch?v=KgvZToxkGFE
https://www.youtube.com/watch?v=TSSpkRdJMm8
Op. 88 1803
Das Gluck der Freundschaft (La gioia dell'amicizia)
https://www.youtube.com/watch?v=rSFm3GJUrZQ
Testo: ignoto
https://www.youtube.com/watch?v=o0SoqCKOTZA
https://www.youtube.com/watch?v=ERcsnYjVBJM
Etwas langsam
https://www.youtube.com/watch?v=pq7SFe5caSE
https://www.youtube.com/watch?v=53PS2HkSUYw
https://www.youtube.com/watch?v=JYePjEGVmtA
https://www.youtube.com/watch?v=No7VH2AWHTI
DER KUSS
Ich war bei Chloen ganz allein,
Und küssen wollt ich sie:
Jedoch sie sprach,
Sie würde schrein,
Es sei vergebne Müh.
IL BACIO
https://www.youtube.com/watch?v=9MyHvp7kazA
In leidenschaflicher Bewegung
Op. 99 1816
Der Mann von Wort (L'uomo di parola)
https://www.youtube.com/watch?v=1U1S1EqhKKI
Testo
L'uomo di parola
https://www.youtube.com/watch?v=468zoyIsSlk
Larghetto
Testo
DER WACHTELSCHLAG
https://www.youtube.com/watch?v=ahaXNRyJz_o
https://www.youtube.com/watch?v=SCes5xR0U2g
https://www.youtube.com/watch?v=VbhIrOr2DOk
Andante sostenuto
https://www.youtube.com/watch?v=BSsn2JxB2mM
Mesto
https://www.youtube.com/watch?v=gETFyhqnrhM
Lied in do minore per voce e pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=RhqVWPXapHg
Recitativo. Moderato
Andantino
Allegretto
https://www.youtube.com/watch?v=_W23cxdZZtc
https://www.youtube.com/watch?v=iXNPwBtOWks
https://www.youtube.com/watch?v=yiV3ex3igjM
Testo: G. Carpani
Lento
Dopo il periodo di studio con Salieri (1793-1802) Beethoven tornò ancora una volta su un
testo italiano, di Giuseppe Carpani, librettista ed autore delle Haydine ovvero Lettere sulla vita
e le opere del celebre maestro G. Haydn. L'arietta In questa tomba oscura fu musicata da
alcune decine di compositori; la versione di Beethoven fu pubblicata nel 1808. «Tra due
periodi uguali, che costituiscono le parti estreme del pezzo e coincidono con la prima e la terza
strofa, Beethoven ha inserito una parte mediana, che si svolge in forma di declamato
drammatico, su un lungo tremolo del pianoforte. Questo episodio ha un singolare risalto
nell'economia del brano, in quanto vi cogliamo l'impeto di un risentimento segreto, come per
l'infiammato esacerbarsi di una ferita. Ancora una volta, e sul metro di un'arietta settecentesca,
sul piano di una esemplare sobrietà di lineature, Beethoven portava il linguaggio verso esiti
nuovi, facendo coincidere il momento classico con quello romantico nel segno di una
compatta originalità espressiva» (Vincenzo Terenzio).
Johannes Streicher
Testo
https://www.youtube.com/watch?v=W0NeVKg5FiU
Lied in do maggiore per voce e pianoforte
Testo: K. von Friedelberg
Mutig
https://www.youtube.com/watch?v=nkRILx-gJzc
Affettuoso
https://www.youtube.com/watch?v=1EmwbsK_iMQ
https://www.youtube.com/watch?v=VCyaAxJ1cNk
Andante vivace
Andante
https://www.youtube.com/watch?v=NNPTdeEKTU4
https://www.youtube.com/watch?v=vQJAiAPdHVY
Seconda versione
https://www.youtube.com/watch?v=Gb4cGau_ubk
Agitato
https://www.youtube.com/watch?v=8_vMgNq4IbU
Allegretto
https://www.youtube.com/watch?v=b2PFCjZ-Mug
https://www.youtube.com/watch?v=GMyxjQKM9l8
https://www.youtube.com/watch?v=vhF2Nckf9lQ
Feurig
https://www.youtube.com/watch?v=SzVRn3ty_JY
Testo (nota 1)
RESIGNATION
RASSEGNAZIONE
https://www.youtube.com/watch?v=A9OdW_x0K3A
Etwas lebhaft
https://www.youtube.com/watch?v=TKUl79EZmLs
Tempo giusto
https://www.youtube.com/watch?v=FE20wTz3WyI
https://www.youtube.com/watch?v=oRcoakq6SjU
https://www.youtube.com/watch?v=6CZuE4glxlY
Neue Liebe, neues Leben - Lebhaft, doch nicht zu sehr (do maggiore)
Testo (nota 1)
Op. 48 1803
6 Lieder da poesie di Gellert
https://www.youtube.com/watch?v=xzEgt6xv6i8
Testo: Testo: C.F. Gellert
Tanto più autentico appare il Beethoven dei Sechs Lieder von Gellert op. 48 (1803). Più che
preghiere nel senso corrente del termine, le sei brevi liriche di Gellert si potrebbero chiamare
meditazioni poetiche ispirate a un umanitarismo religioso estraneo ad ogni confessionalismo
dogmatico, e non è difficile immaginare quanta eco potesse destare nella coscienza, del
compositore la loro problematica esistenziale permeata di una pietas e di un mistico
naturalismo illuministici. Il Maestro creò sei brevi e intensi canti dalle linee vocali e
pianistiche tese e scavate.
Un certo aspro goticismo bachiano è avvertibile nel ricorso frequente alle rigide figurazioni di
una scrittura polifonica (Bitten) che sembra invadere i domini dell'organo. Il brillìo squillante
del «positivo» barocco vibra pure nel jeu di accordi e ottave del quarto canto Die Ehre Gottes
aus der Natur, dove la contaminatio degli spiriti massonici è avvertibile anche nella linea
vocale, riecheggiante i canti di Sarastro nel suo magniloquente intervallare per quinte e quarte.
Ma il culmine è raggiunto da Vom Tode, una tra le più alte espressioni della problematica
vocalità beethoveniana. Qui ogni battuta è un prodigio d'intensità ottenuta con i mezzi più
semplici; dalla cruda dissonanza di seconda minore che sottolinea il fatale memento homo:
«Meine Lebenszeit verstreicht - stündlich eil'ich zu dem Grabe»; al giro armonico
«schubertiano» avanti lettera che sostiene il grido «Zu dem Grabe»; alla chiusa strumentale
livida e greve, con quel profondo fa diesis ribattuto inesorabilmente. In questa pagina
Beethoven scrisse forse la sua parola più alta nel genere del Lied, precorrendo le tetre
meditazioni ad limina mortis dell'ultimo Brahms, ma con un protervo furore, una bruciante
angoscia che cercheremmo invano nella laica rassegnazione dell'Amburghese.
Testi
Bitten
Preghiera
Vom Tode
Meine Lebenszeit verstreicht
Stündlich eil ich zu dem Grabe,
Und was ist's, das ich vielleicht,
Das ich noch zu leben habe?
Denk, o Mensch, an deinen Tod!
Säume nicht, denn Eins ist Not!
Della morte
Il tempo della mia vita trascorre,
ogni ora mi avvicina alla tomba.
Quant'è ciò che, forse,
mi resta da vivere ancora?
Pensa, o uomo, alla tua morie!
Non indugiare, perchè la cosa più importante è il pericolo!
Busslied
An dir allein, an dir hab ich gesündigt,
Und übel oft vor dir getan.
Du siehst die Schuld, die mir den Fluch verkündigt;
Sieh, Gott, auch meinen Jammer an.
Dir ist mein Flehn, mein Seufzen nicht verborgen,
Und meine Tränen sind vor dir.
Ach Gott, mein Gott, wie lange soll ich sorgen?
Wie lang entfernst du dich von mir?
Herr, handle nicht mit mir nach meinen Sünden,
Vergilt mir nicht nach meiner Schuld.
Ich suche dich, lass mich dein Antlitz finden,
Du Gott der Langmut und Geduld.
Früh wölkst du mich mit deiner Gnade füllen,
Gott, Vater der Barmherzigkeit.
Erfreue dich um deines Namens willen,
Du bist ein Gott, der gern erfreut.
Lass deinen Weg mich wieder freudig wallen,
Und lehre mich dein heilig Recht
Mich täglich tun nach deinem Wohlgefallen;
Du bist mein Gott, ich bin dein Knecht.
Herr, eile du, mein Schutz, mir beizustehen.
Und leite mich auf ebner Bahn.
Er hört mein Schrei'n, der Herr erhört mein Flehen
Und nimmt sich meiner Seele an.
Canto di penitenza
https://www.youtube.com/watch?v=rjqtuNkiN1w
https://www.youtube.com/watch?v=OD4-dpO_8kc
https://www.youtube.com/watch?v=dHf9mke1e8s
https://www.youtube.com/watch?v=ouD4uDhQ87Y
Allegretto
Organico: voce, coro, pianoforte
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
https://www.youtube.com/watch?v=aHX3M1LYplM
Allegro
https://www.youtube.com/watch?v=qJLjg1sd7KY
Testo
Zartliche Liebe
Amore tenero
Ti amo, come tu ami me
A sera e al levar del giorno,
Non ci fu giorno in cui io e te
Non dividessimo ogni affanno.
Op. 65 1796
Ah, perfido!
https://www.youtube.com/watch?v=sSueMx_ihjo
I rapporti di Beethoven con l'opera e la vocalità italiana furono piuttosto esigui, e risalgono,
comunque, agli anni di formazione del compositore. Dopo il trasferimento a Vienna del 1792 il
giovane pianista si affermò rapidamente presso gli ambienti dell'alta società, per il suo stile
esuberante e anticonformista. Nel frattempo Beethoven perfezionava il proprio bagaglio
tecnico, sia sotto la guida di Haydn - con cui tuttavia i rapporti furono non sempre sereni - sia
sotto quella di Antonio Salieri. Uomo centrale della cultura musicale viennese, il maestro
italiano insegnò a Beethoven tutti i segreti della vocalità, che conosceva come pochi altri;
ovvero come scrivere musica rispettando i canoni formali dell'aria melodrammatica e
soprattutto le esigenze dello strumento vocale del cantante cui l'aria era destinata. In sostanza
Salieri mise Beethoven a parte delle sue preziosissime tecniche artigianali; tecniche di cui il
giovane autore, interessato assai più alla musica strumentale e comunque sostanzialmente
disinteressato all'opera italiana, avrebbe saputo far scarso profitto.
L'aria da concerto «Ah perfido» costituisce di fatto l'unico vero contributo beethoveniano al
mondo dell'opera postmetastasiana. Le circostanze della genesi del brano non sono note, anche
se è estremamente improbabile che Salieri vi abbia avuto una qualsivoglia parte. Stando a una
copia manoscritta con correzioni autografe della partitura (copia ora smarrita), dove si leggeva
per mano dell'autore: «Recitativo e aria composta e dedicata alla Signora Di Clari» - come
anche alla descrizione di alcuni abbozzi, l'aria sarebbe stata scritta per una distinta "dilettante"
di canto, la diciannovenne contessa Josephine Clary, residente a Praga. Dunque possiamo
immaginare una esecuzione in qualche salotto dell'aristocrazia praghese, con un ridotto
organico strumentale ad accompagnare la voce fresca della giovane aristocratica, che, come si
conveniva a una esponente dei ceti alti, aveva compiuto solidi studi musicali, ma, a causa del
suo rango, non poteva "praticare" il canto al di fuori del suo ambiente di nascita.
Beethoven comunque non tardò a dare più ampia risonanza alla sua aria; e così la "Leipziger
Zeitung" del 19 novembre 1796 poteva annunciare, fra i brani eseguiti in un concerto il 21
novembre, «Una scena italiana composta per la Signora Dusek da Beethoven»; ovvero la
medesima aria che l'autore aveva "dirottato" in questo caso su un'altra e ben più significativa
cantante. La signora Dusek altri non era se non Josepha Dusek, ossia una delle più rinomate
cantanti da camera dell'epoca, legata fra l'altro da rapporti di amicizia - forse anche di tenera
amicizia come i soliti biografi pettegoli hanno ipotizzato - con Mozart; proprio nella villa
praghese dei coniugi Dusek Mozart aveva ultimato il , e, segregato in una stanza dalla padrona
di casa, aveva confezionato su misura per i suoi mezzi vocali l'aria «» K. 528.
Se questa aria mirabile era costata a Mozart poche ore di lavoro, possiamo invece immaginare
una lunga fatica da parte di Beethoven nel mettere a punto «», se non altro per rifinire i
dettagli di una corretta prosodia italiana. Il risultato, comunque, è quello di uno dei più perfetti
tributi di Beethoven all', un piccolo ma prezioso ponte gettato sul baratro che distanziava
Beethoven dal mondo, ormai volto verso il tramonto, dell'opera seria metastasiana. Non a caso
protagonista della scena è appunto un'eroina di stampo metastasiano, che, con lusinghe e
minacce, implora il suo eroe di non abbandonarla; e lo stesso testo del recitativo deriva dall'
(atto III scena 3) del poeta cesareo, mentre il testo dell'aria è attribuibile a qualche modesto
imitatore.
L'articolazione del brano è quella tipica dell'aria da concerto, con un recitativo, un cantabile e
un allegro conclusivo. Una cura finmissima del dettaglio è quella del recitativo, che è
attentissimo alle sfumature semantiche del testo, anche per il ruolo espressivo dello
strumentale. Segue il cantabile «Per pietà non dirmi addio», dove troviamo l'espressione
sublimata di un levigato neoclassicismo: manca ovviamente quel trasporto espressivo che
caratterizzerà la grande scena di Leonore, «Komm Hoffnung» nei , e tuttavia è in questa
pagina italiana che possiamo trovare una prefigurazione di quella dell'unica opera di
Beethoven. Chiude l'intera aria un , basato sulle innumerevoli iterazioni del medesimo testo
poetico, dove la voce della solista si piega verso una prova di "bravura", con scale e arpeggi
che esprimono il versante più aggressivo e le lacerazioni interiori dell'eroina.
Arrigo Quattrocchi
https://www.youtube.com/watch?v=4KnXVgHs7Vw
Testo: I. F. Castelli
Gli abbozzi di questo Elegischer Gesang si trovano nei quaderni in cui Beethoven accudiva nel
1814 alla nuova versione del Fidelio; il brano deve essere stato completato e inviato al barone
Johann Pasqualati prima del 5 agosto; quando questo amante della musica, proprietario del
palazzo in cui Beethoven abitò a Vienna tra il 1804 e il '15, ricordava la scomparsa della
moglie adorata, rapita alla vita in età di ventiquattro anni.
L'autore del testo è ignoto, ma si è fatto il nome di Ignazio Franz Castelli; l'"elegia" è tutta
intimità e raccoglimento, scritta, si direbbe, per una persona già per suo conto esperta del
patire, e alla quale pertanto basta proporre la situazione senza calcare la mano, in
compartecipazione fraterna, in dialogo a tu per tu. La tenera introduzione strumentale è vicina,
nella tonalità di mi maggiore, all'affettuosità esplicitata nel finale della contemporanea Sonata
op. 90; il coro esordisce sommesso e religioso e appena la sortita dei tenori, in "forte", sulle
parole "für den Schmerz!", s'incide con evidenza; dai bassi viene quindi la proposta di un
episodio fugato ("Kein Auge wein'"), raccolta dalle altre voci con dissonanze sfumate nella
delicatezza dei contorni; con la ripetizione delle prime parole, la pagina si chiude riprendendo
il calmo tema d'apertura.
Arrigo Quattrocchi
Testo
Elegischer Gesang
Canto elegiaco
WoO 97 1815
Es ist vollbracht (Tutto è compiuto)
https://www.youtube.com/watch?v=915fpJGlkIo
Risoluto
Organico: basso, coro misto, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, 2
tromboni, timpani, archi
Composizione: 1815
Prima esecuzione: Vienna, Teatro di Porta Carinzia, 15 luglio 1815
Edizione: Steiner, Vienna 1815
Utilizzata come finale della Cantata Die Ehrenpforten (Le porte della gloria) musicata da vari
autori su testo di Friedrich Treischke
Deluso dalla fuga di Napoleone dall'Elba e dalla ripresa delle ostilità, con figlio e fidanzati
delle due figlie nuovamente sotto le armi, il proprietario terriero Germanico (Teutschmann) si
è ritirato nella sua dimora di campagna e non vuole più vedere nessuno nè leggere i giornali. È
il giorno del suo cinquantesimo compleanno, una data che, quando Napoleone si trovava
ancora sotto vigilanza sull'isola, pensava di celebrare con la dovuta solennità, congiuntamente
al triplice matrimonio della sua prole. Per l'occasione aveva previsto il fantasioso allestimento
di tre porte d'onore, una per ciascuna coppia.
Ma adesso tutto ciò gli sembra vano. Egli non sa naturalmente che il tempo si è rimesso al
bello grazie alle prodezze di Wellington e Blücher a Waterloo e che figlio e futuri generi sono
già tornati sani e salvi a casa. Dopo laboriose trattative, l'amministratore Allegrone (Fröhlich),
d'intesa con le figlie e la figlioccia del padrone, cioè con le promesse spose, riesce a
persuaderlo ad accettare che la festa abbia luogo anche senza cerimonie nuziali, ma con le
porte d'onore.
Queste vengono così erette, secondo il piano originario, e al momento opportuno si aprono
l'una dopo l'altra per lasciar passare le tre coppie riunite. Da ognuna Germanico apprende, con
crescente meraviglia e gioia, notizie sempre più rosee: la presa di Napoli da parte delle truppe
austriache, l'attacco alla Belle Alliance, infine l'annientamento definitivo del nemico. Non gli
resta che unirsi al coro generale di lode al Creatore e ai principi alleati, che hanno precipitato,
per la seconda volta, Napoleone nell'inferno.
Eseguito il 15 luglio 1815 nel Teatro di Porta Carinzia, con il solito Weinmiiller nella parte di
Germanico, l'atto unico ebbe ancora più successo del Singspiel del 1814. Fu replicato il 16 e il
23 dello stesso mese e ancora il 3 e il 4 ottobre successivi, in occasione dell'onomastico
dell'imperatore Francesco. Per queste due ultime rappresentazioni il testo fu sensibilmente
modificato per tenere conto dei necessari aggiornamenti storici e, nello stesso tempo, della
solennità cui era associata la ripresa. Fra l'altro, il coro finale di Beethoven È compiuto venne
sostituito con la pagina parallela Germania, a sua volta rimaneggiata e rimpolpata al fine di
dirottare una cospicua parte delle lodi sull'imperatore d'Austria. Il resto della musica di
entrambe le versioni era cosi ripartita: ouverture (Hummel), coro d'entrata (Bernhard Weber),
aria di Germanico (ignoto), marcia e duetto (ignoto), coro (Seyfried), coro (Hummel).
Come in Germania, la pagina beethoveniana prevede un basso, la cui parte però soverchia
quella del coro. Questo infatti si limita a ripetere, come in un responsorio, le ultime parole
delle quattro strofe del solista, ossia sempre l'identica esclamazione È compiuto. Anche la
musica è ripetitiva, variando, da una strofa all'altra, nella sola orchestrazione. Prima di
concludere, Beethoven introduce, in corrispondenza delle parole finali «Grazie a Dio e al
nostro imperatore», la melodia di Haydn divenuta inno nazionale Gott'erhalte Franz den
Kaiser. Anticipata dal flauto essa è successivamente sviluppata dal basso che la salda alla frase
ritornello «È compiuto». Questa viene enfaticamente sillabata dal coro, quindi l'orchestra, con
archi in tremolo e tromboni scatenati, porta il brano ad una trionfalistica chiusa.
Testo
Es ist vollbracht
Es ist vollbracht!
Zum Herrn hinauf drang unser Bethen.
Er hörte, was die Volker flehten,
Und hat gehüthet und gewacht.
Est ist vollbracht!
Es ist vollbracht!
Was frevelvoll der Holl' entkommen,
Zum zweitenmahl ist's weggenommen,
Geschleudert in die alte Nacht.
Es ist vollbracht!
Es ist vollbracht!
Im Raum von wenig bangen Tagen,
Das Werk, das keine Worte sagen.
Geschehen schon, eh' wir's gedacht.
Es ist vollbracht!
Es ist vollbracht!
Der Fürsten treu Zusammenhalten,
Ihr ernstes, rechts, frommes Walten,
Gab uns den Sieg, nächst Gottes Macht!
Es ist vollbracht!
È compiuto
E compiuto!
Il crimine evaso dall'inferno,
per la seconda volta è vinto,
precipitato nell'antica notte.
E compiuto!
E compiuto!
La fedele concordia dei principi,
il loro serio, giusto, pio governo
ci ha dato la vittoria, dopo la potenza di Dio!
E compiuto!
(Traduzione di Antonio Bruers)
https://www.youtube.com/watch?v=hwe7Nqwo-E8
Organico: voci recitanti maschili e femminili, coro misto, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti,
2 fagotti, corno di bassetto, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, archi
Composizione: Teplitz, 15 Settembre 1811
Prima esecuzione: Pest, teatro Imperiale, 9 febbraio 1812
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1811
Tra le musiche di Beethoven destinate alla scena solo quelle, scritte nel 1810, per l'Egmont di
Goethe stanno accanto al Fidelio per l'altezza della concezione, l'originalità dell'insieme, la
coerenza con il testo letterario e quindi per l'autentica energia drammatica. Gli altri, pochi
lavori appartengono alla produzione minore e per questa ragione sono, quasi tutti, usciti di
repertorio, come molta della musica celebrativa e occasionale che Beethoven si adattò a
scrivere secondo consuetudini settecentesche che proprio lui, per primo e con forza maggiore,
stava eliminando per sempre dalla vita artistica. Questi suoi lavori su commissione, teatrali o
sinfonici, egli li giudicava spesso con severità addirittura maggiore di quel che meritassero, ma
non tollerava, poi, le censure altrui: e di questa sua suscettibilità, talvolta esagerata, fu vittima
una volta l'autorevole J. F. Rochlitz, il musicologo stimato da Goethe (ma probabilmente
l'interessato non lo seppe mai; del resto egli rimase in rapporti amichevoli con Beethoven e nel
1823 fu lui che gli propose, senza successo, di musicare nientemeno che il Faust). Nella
"Allgemeine Musikalische Zeitung", di cui era direttore, Rochlitz espresse equilibrate riserve
sul carattere generale delle musiche di Beethoven per la scena, e il musicista, furibondo,
sconciò con offese e improperi la pagina del settimanale che aveva sottomano. Rochlitz
affermava, in sostanza, che nel genere patriottico ed encomiastico (principalmente l'enorme e
fragoroso Wellingtons Sieg, la cantata Der glorreiche Augenblick, scritta per il Congresso di
Vienna, e, appunto, König Stephan con le Ruinen von Athen) Beethoven aveva trattato lo stile
eroico con originalità e inventiva molto più incerte che nelle opere sinfoniche maggiori. Una
verità già allora innegabile, che i posteri hanno confermato.
I due spettacoli con musiche di scena, König Stephan, che serviva da prologo, e Die Ruinen
von Athen, erano stati appena scritti dal poeta August von Kotzebue per l'inaugurazione del
nuovo Teatro Tedesco a Pest. Beethoven ricevette i testi drammatici i primi giorni dell'agosto
1811, proprio nel momento in cui stava partendo da Vienna per la villeggiatura a Teplitz in
Boemia (si dice che glieli abbiano dati di corsa mentre la carrozza era già avviata). Beethoven
era di buon umore, sperava di conoscere Goethe (ma il celebre incontro tra i due geni avvenne
l'anno dopo, sempre a Teplitz, e, come sappiamo, non fu un incontro felice) e pregustava il
riposo tra le belle signore viennesi, gli intellettuali, gli artisti romantici. Di Beethoven in
quell'estate 1811 scrisse da Teplitz l'amico Karl A. Varnhagen von Ense (dal quale Beethoven
sperava di avere un libretto d'opera) a Uhland: «Come ci è apparso bello, commovente, pio e
severo il grand'uomo, come se l'avesse baciato un dio, quando ci ha suonato sul fortepiano
variazioni celestiali, che erano un così puro prodotto di una potenza divina che l'artista poteva
solo lasciarle riecheggiare». Di là dal fervore un po' ridicolo della descrizione di Varnhagen
riusciamo a capire che Beethoven a Teplitz nel 1811 era attorniato dall'ammirazione e
dall'affetto dei più (le cose andarono peggio l'anno dopo, quello dell'incontro con Goethe, e per
colpa delle fantasie e delle maldicenze di Bettina Brentano il musicista ruppe molti rapporti e
anche quello con Varnhagen). Come che sia, a Teplitz Beethoven portò a termine le musiche
per i due lavori di Kotzebue rapidamente, in soli venti giorni (nove brani per lo Stephan e dieci
per le Ruinen): tanta fretta potrebbe suggerirci un fastidio da parte sua, ma non fu così. Infatti
pochi mesi dopo, nel gennaio 1812, scrisse a Kotzebue una lettera complimentosa e addirittura
umile per domandargli un libretto d'opera.
Dalla succinta esposizione dei contenuti è chiaro l'intendimento encomiastico. Gli eventi
storico-leggendari del Prologo e le immagini mitico-classiche dell'Epilogo convergono in un
centro ideale, nell'epoca allora presente, raffigurata come l'età aurea dell'augusto sovrano.
Bisogna, però, dire poi che non tutta la produzione teatrale di August von Kotzebue (1761-
1819), produzione del resto immensa, è così lontana da noi come sono i due testi musicati da
Beethoven. Kotzebue era quello che oggi chiameremmo un professionista del teatro e scrisse
di tutto, drammi eroici, storici, borghesi, commedie, alcune delle quali intelligenti e brillanti, e
anche romanzi, novelle, saggi e fu un autore in voga nella prima metà dell'Ottocento, anche
fuori dall'Austria e dalla Germania (addirittura il nome Krähwinkel, immaginario luogo
d'azione della bella commedia Die deutschen Kleinstädter, 1802, è rimasto proverbiale nella
lingua tedesca). Aveva carattere difficile e grande considerazione di sé e certo Beethoven non
si sentì affatto diminuito per l'incarico di musicarne i testi, per quanto inferiori al suo genio
essi oggi ci sembrino.
Ma, infine, come assolse Beethoven quell'incarico? Abbiamo detto, all'inizio, che questa
musica non deve essere messa a confronto con i lavori maggiori (già solo in quel 1811 egli
compose la Settima Sinfonia e il Trio "Arciduca," op. 97!), ma non è neppure soltanto
convenzionale musica scenica. Certo, essa non ha la vitalità drammatica né il fervore etico
dell'Egmont, perché l'una e l'altro qui sono assenti. Sul carattere e sullo scopo della musica di
scena molto si era discusso in Germania da Lessing in poi: nello Stephan e nelle Ruinen essa è
musica per la scena, per lo spettacolo cioè quasi soltanto accompagnamento e sostegno dei
gesti, delle parole, degli effetti scenici e mai interpretazione spirituale dei contenuti.
L'ouverture, che è la pagina più energica, è introdotta da quattro squilli asciutti, solenni,
arcaizzanti ed è poi concepita su due idee musicali che si alternano l'una all'altra e si ripetono
con mutamenti di strumentale e quindi di colorito, la prima prevalentemente lirica ed esotica
("all'Ongarese" scrive Beethoven quando riprende questo tema nel brano n. 4, l'elegante Coro
delle donne che accompagnano la sposa) e la seconda impetuosa e bellica. Lo stile e il
carattere degli altri brani sono adeguati con maestria, ma anche in forma per lo più
impersonalmente solenne, alle esigenze sceniche.
https://www.youtube.com/watch?v=P7kkShX5LA8
WoO 93 1802
Nei giorni tuoi felici
https://www.youtube.com/watch?v=CN5P7ahaY8U
Adagio tenuto
https://www.youtube.com/watch?v=YCdLlhZB97Q
Scena: Non, non turbati, o Nice - Allegro ma non tanto (do maggiore)
Aria: Ma tu tremi, o mio tesoro! - Andante agitato (do maggiore)
https://www.youtube.com/watch?v=TYHH5qJMnVA
Scena: Primo amore piacer del ciel - Andantino cantabile (la maggiore)
Aria: Tal amor, piacer del ciel - Allegro con brio (la maggiore)
https://www.youtube.com/watch?v=LWNam0ru4z0
https://www.youtube.com/watch?v=zbc90n9BD3M
Allegro
Organico: soprano, tenore, basso, 2 flauti, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani,
archi
Prima esecuzione: Vienna, Großer Redoutensaal del Burgtheater, 27 febbraio 1814
Edizione: Steiner, Vienna 1826
Introduzione
Ma una musica nata per una determinata società e per un determinato tipo di
fruizione può trovare nuova vita in un ambiente diverso, tanto più se il nome
dell'autore suscita una doverosa attenzione.
Come ogni altro musicista viennese di nascita o d'adozione - dai minori fino a
Haydn, Schubert, Brahms, Wolf e Mahler, con l'unica eccezione di Mozart -
Beethoven non disdegnò affatto la musica popolare e vi attinse sia per musiche
d'intrattenimento dal tono leggero che per composizioni di grande impegno,
come due dei tre Quartetti dedicati al conte Andrej Rasumovskij: ma i suoi
adattamenti di quasi centocinquanta melodie popolari scozzesi, irlandesi e gallesi
non sarebbero nati senza le ripetute sollecitazioni di George Thomson, segretario
del "Board of Trustees of the Encouragement of Art and Manufacture in
Scotland". Costui, dopo aver ascoltato in concerto ad Edimburgo alcune canzoni
scozzesi (eseguite da cantanti d'opera italiani!), si era consacrato al compito di
raccogliere le "migliori canzoni e melodie" della sua tena: nel 1793 ne pubblicò
una prima raccolta, affidata alle cure di Pleyel, Kozeluch e Haydn, incontrando
un'ottima accoglienza in tutto il Regno Unito. Tali pubblicazioni di Thomson
andarono avanti fino al 1838, estendendosi anche alla musica popolare irlandese
e gallese.
Era convinzione di Thomson che si dovesse dare a queste melodie popolari una
veste più decorosa, che fosse cioè conforme ai gusti del ceto borghese allora in
piena ascesa. Per questo si rivolse ad alcuni tra i compositori più importanti
dell'epoca, senza preoccuparsi se avessero una qualche dimestichezza con la
musica popolare delle isole britanniche, e chiese loro di rielaborare e
armonizzare le melodie che gli inviava, realizzandone una versione per voce
solista, pianoforte, violino e violoncello, ed eventualmente un piccolo coro ad
libitum. Il testo originale veniva il più delle volte scartato in ragione della lingua
e del contenuto, ritenuti volgari, e sostituito con versi dallo stile più letterario,
dovuti a scrittori di grido come Walter Scott, Robert Burns e perfino George
Byron.
Thomson contattò per la prima volta Beethoven con una lettera del 1803,
sollecitandolo a comporre delle sonate in cui avrebbero dovuto figurare temi
scozzesi. La risposta non fu affatto negativa ma, forse per il compenso troppo
elevato richiesto, la trattativa non andò avanti. Nel 1806 Thomson si rifece vivo
con la richiesta di qualcosa di meno impegnativo e Beethoven rispose: «Renderò
le composizioni facili e piacevoli fino al punto che mi sarà possibile, per quanto
ciò sarà compatibile con lo stile elevato e originale, che, secondo la Sua
espressione, caratterizza vantaggiosamente le mie opere, e da cui non mi
discosterò mai». E concludeva dicendosi disposto ad armonizzare delle piccole
canzoni scozzesi.
Il pieno accordo tra editore e compositore fu raggiunto nel 1809 e da allora fino
al 1818 Beethoven rielaborò per Thomson melodie scozzesi, gallesi e soprattutto
irlandesi, pubblicate in sette raccolte da Thomson tra il 1814 e il 1822.
Venticinque Schottische Lieder (già pubblicati da Thomson nel 1818) furono
ristampati come opus 108 in Germania nel 1822, mentre le altre sei raccolte
rimasero senza numero d'opus e vengono ora indicate con i numeri 152, 153,
154, 155, 156 e 158 del catalogo redatto da Kinsky e Halm dedicato, appunto, ai
Werke ohne Opuszahlen (WoO, cioè lavori senza numero d'opus). Inoltre alcune
di queste rielaborazioni rimasero inedite fino al 1971, quando vennero inserite
nel quattordicesimo volume di supplemento dell'edizione degli opera omnia di
Beethoven.
Negli stessi anni in cui attendeva alle sue rielaborazioni, Beethoven utilizzò
motivi scozzesi anche nelle due serie di temi variati per flauto e pianoforte, opp.
105 e 107: ciò fa supporre che questa musica semplice e popolare avesse
suscitato in lui un interesse che andava al di là dell'ottimo compenso pagatogli
dall'editore. Infatti, mentre in un primo tempo aveva scritto a Thomson che
«questo lavoro è un impegno che non offre all'artista molto piacere», una
posteriore annotazione nel suo diario rivela che il suo interesse a questo lavoro
cominciava a crescere: «I Lieder scozzesi dimostrano con quanta libertà si possa
trattare, per quanto riguarda l'armonia, la melodia poco strutturata delle
canzoni».
Tutti questi Lieder, sebbene non rivelino l'orma gigantesca del genio, denunciano
la mano del grande musicista, contengono momenti originali
(inconfondibilmente beethoveniane sono molte delle brevi introduzioni e
conclusioni strumentali, che costituiscono un'aggiunta dovuta interamente al
compositore) e sono di piacevolissimo ascolto.
Mauro Mariani
https://www.youtube.com/watch?v=wsgYUYB-jqM
https://www.youtube.com/watch?v=xSjsYP9DKGg
https://www.youtube.com/watch?v=CK-jkpe08Gc
https://www.youtube.com/watch?v=9qQHWQ8zmTU
https://www.youtube.com/watch?v=o4_fSKbXWfI
https://www.youtube.com/watch?v=MUPbtySnxmg
The sweetest lad was Jamie - Andantino un poco Allegretto (sol minore)
Testo
https://www.youtube.com/watch?v=s37yrVwzY24
Testo
Piangetelo, o belle,
Piangetelo, o prodi,
Pur senza sudario
E sepolto nel mare;
Che onesti e cortesi,
Festevoli e arditi,
Lamentano William
Per sempre partito.
https://www.youtube.com/watch?v=pQ3reeN_hZM
Oh! Thou art the lad of my heart, Willy! - Allegretto piuttosto vivace (mi bemolle maggiore)
Testo
https://www.youtube.com/watch?v=V1x2muVFDNI
https://www.youtube.com/watch?v=3USUVwmz_xA
https://www.youtube.com/watch?v=XHAXwQLdyWA
https://www.youtube.com/watch?v=DsPBNt5f4YU
https://www.youtube.com/watch?v=157klp3dgK0
https://www.youtube.com/watch?v=QytTN-YoGjk
Testo
https://www.youtube.com/watch?v=PdnlNLZEGpo
Testo
https://www.youtube.com/watch?v=R1NV1YKoeOo
https://www.youtube.com/watch?v=MUc8lFelPcg
Testo
La malga
https://www.youtube.com/watch?v=bgGK9JoLbOE
Testo
https://www.youtube.com/watch?v=enaBTBm2174
Testo
All'arpa eolia
https://www.youtube.com/watch?v=RH_5JZzQQx4
Testo
https://www.youtube.com/watch?v=I44-cG3cJNc
https://www.youtube.com/watch?v=F4msHu_OLOM
God save the King (inglese): per voce e coro - Maestoso con molto spirito (si bemolle
maggiore)
The soldier (irlandese): per voce - Maestoso risoluto ed eroico (fa maggiore)
O Charlie is my Darling (scozzese) - Allegretto con anima (fa maggiore)
O sanctissima, o piissima (siciliano): per trio vocale - Andante con moto, ma con pietà (fa
maggiore)
The miller of Dee (inglese): per trio vocale - Allegretto con brio (do minore)
A Health to the Brave (irlandese) : per due voci - Alla marcia (fa maggiore)
Robin Adair (irlandese): per trio vocale - Andante amoroso (do maggiore)
By the Side of the Shannon (irlandese): per voce - Allegretto piuttosto scherzando (sol
maggiore)
Highlander's Lament (irlandese): per voce e coro - Espressivo (mi minore)
Sir Johnie Cope (scozzese): per voce - Marcia. Allegretto spiritoso e semplice (sol minore)
The Wandering Minstrel (irlandese) - Andantino quasi Allegretto (si bemolle maggiore)
La gondoletta (veneziano): per voce - Allegretto scherzando (sol maggiore)
https://www.youtube.com/watch?v=YaKiR155BI8&t=208s
Organico: soprano (tranne i n. 12, 18 e 20 che sono per soprano e contralto), pianoforte,
violino, violoncello
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1941
WoO 158b 1810 - 1817
7 Canzoni popolari inglesi
https://www.youtube.com/watch?v=jYnA1uAwUQk
https://www.youtube.com/watch?v=K_KQYeeHDTQ
https://www.youtube.com/watch?v=W6MilBJffS0
https://www.youtube.com/watch?v=POw3tkK1uh4
https://www.youtube.com/watch?v=wAI-2KXws6o
https://www.youtube.com/watch?v=dJopFEWJsD8
https://www.youtube.com/watch?v=OyHpgN3BggM
https://www.youtube.com/watch?v=E8Ofganc4vE
https://www.youtube.com/watch?v=DHruXJoWpOo
https://www.youtube.com/watch?v=o1aUvEL3KrE
When my Hero in Court Appears - Andante amoroso espressivo assai (mi minore)
Testo: R. Gay
Non, non Colette - (si bemolle maggiore)
Testo: J.J. Rosseau
Mark Yonder Pomp - Andante con moto e con espressione (si bemolle maggiore)
Testo: R. Burns
Bonnie Wee Thing - Andantino amoroso quasi Allegretto (la maggiore)
Testo: R. Burns
From thee, Eliza I must go - Allegretto (si bemolle maggiore)
Testo: R. Burns
Senza titolo - Andante espressivo (mi minore)
Coro
Coro ed orchestra
https://www.youtube.com/watch?v=iJGn17SN-_I
WoO 88 1790
Cantata per l'ascesa al trono dell'Imperatore Leopoldo II
https://www.youtube.com/watch?v=ENDIv9kJ01M
Organico: soprano, contralto, tenore, basso, coro misto, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2
corni, 2 trombe, timpani, archi
Prima esecuzione: Großer Redoutensaal del Burgtheater, 9 ottobre 1790
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
WoO 87 1790
Cantata per la morte dell'Imperatore Giuseppe II
https://www.youtube.com/watch?v=YOSEj_7jzlE
Organico: soprano, contralto, tenore, basso, coro misto, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2
corni, archi
Composizione: 1790
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
La partitura venne composta dal febbraio al giugno 1790 e venne pubblicata per la prima volta
nel supplemento della «Ludwig van Beethovens, Werke, vollstandige kritish durchgesehene
ueberall berechtigte Ausgabe (Gesamtausgabe)» di Lipsia (Breitkopf und Haertel) nel 1888.
Nota Giovanni Biamonti: «La notizia della morte dell'imperatore Giuseppe II (il sovrano
illuminista), avvenuta a Vienna il 20 febbraio 1790, giunse a Bonn il 24 e la società di lettura
«Lesegesellschaft» stabilì di commemorarla in una sua tornata con discorsi e musica adatti alla
cerimonia. Nacque così l'idea di questa Cantata, di cui Severin Anton Averdonk - canonico del
capitolo di Ehrenstein, candidato alla «Hohe Schule» di Bonn e fratello di una cantante allieva
già del padre di Beethoven - scrisse il testo (alquanto retorico) e il ventenne Ludwig, che
aveva molti amici ed estimatori fra i membri della società, fu incaricato di comporre la
musica».
La commemorazione era stata fissata per il 19 marzo, ma la Cantata non venne eseguita sia
perché non era ancora a punto, sia perché si incontrarono serie difficoltà nella ricerca degli
esecutori. Il manoscritto andò perduto e per molti anni il lavoro non venne presentato al
pubblico. Fortunatamente una copia venne poi rintracciata nella biblioteca privata del signor
Beine de Malchamp, copia che venne venduta all'asta nel 1813, a Vienna, e acquistata dal
pianista Kummel. Dopo vari altri passaggi il manoscritto andò a far parte della
Fideicommissbibliothek, più tardi incorporata dalla Nationalbibliothek. La prima esecuzione
pubblica avvenne così cinquantasette anni dopo la morte del compositore, a Vienna, per essere
ripresa l'anno dopo a Bonn.
I solisti sono, per la parte vocale, soprano, contralto, tenore e basso, mentre in orchestra sono
presenti due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, due corni e archi. Gli accordi iniziali
della prima parte fanno pensare al preludio dell'atto secondo del «Fidelio». La seconda parte si
svolge tra basso e orchestra: prima un recitativo, poi un'aria («Allora venne Giuseppe»). La
terza parte è per soprano solo («Allora gli uomini salirono alla luce») a cui si aggiunge il
quartetto dei solisti e l'orchestra lievemente assottigliata rispetto alle altre parti. La melodia
soddisfece talmente il compositore che la inserì, poi, con la stessa tonalità, nella scena
conclusiva del «Fidelio».
La quarta parte comprende un recitativo in Largo e un'aria per soprano («Qui riposa», Adagio
con affetto in 3/4) non lontana dallo spirito mozartiano. Nella parte finale, la quinta, si torna al
testo e alla musica iniziali, per ottenere il necessario inquadramento della partitura, con una
suggestiva conclusione in «do minore».
Come abbiamo fatto rilevare, varie sono le analogie con il «Fidelio», opera che, nella sua
prima redazione, aparve soltanto nel 1804, cioè quattordici anni dopo la «Cantata»; ma ciò sta
a dimostrare come certe idee, ben vive in Beethoven, andassero maturando con gli anni -
qualche cosa di simile accadde con il tempo finale della «Nona» - per poi trovare la giusta
collocazione nella produzione del compositore.
Mario Rinaldi
https://www.youtube.com/watch?v=a_QqmKV0S4g
Organico: 2 soprani, tenore, basso, coro misto, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti,
4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, percussioni, archi
Composizione: 1814
Prima esecuzione: Vienna, Redoutensaal, 29 Novembre 1814
Edizione: Haslinger, Vienna 1837
Tra il settembre del 1814 e il giugno del 1815 Vienna fu la capitale d'Europa. Come tutti
sappiamo, due imperatori, quattro monarchi, prìncipi da ogni nazione, ministri plenipotenziari,
tra i quali primeggiava l'intramontabile Talleyrand, ambasciatori, e finanzieri, spie, poliziotti,
si incontrarono in un Congresso che avrebbe dovuto ristabilire per i secoli, secondo le norme
della legittimità e dell'autorità, l'ordine politico generale, che Napoleone nel decennio della sua
supremazia aveva sconvolto. Allora egli sembrava esiliato e vinto (ma poco dopo rientrò in
scena). La corte imperiale d'Austria, il suo governo e gli alti funzionali non si risparmiarono e
nulla risparmiarono affinchè l'evento del Congresso fosse davvero grandioso e storico. Dieci
mesi memorabili, per le manovre, certo, della diplomazia internazionale e dell'alta politica, ma
anche per le cerimonie, le feste, i balli, gli spettacoli, i concerti, i cortei, i tornei. Era un modo,
assai dispendioso, di organizzare il consenso, come si dice oggi. L'Europa legittimista per
essere sicura della sua guarigione dal contagio rivoluzionario ostentava un eccesso di energie
vitali, al fervore delle quali partecipò Beethoven da protagonista. E quello, tra il 1814 e il'15,
fu un anno in cui la sua popolarità arrivò al culmine soprattutto, ma non solo, per le musiche
che oggi ci interessano meno o per nulla. Può, dunque, meravigliarci che al clima della
restaurazione antiliberale, contro la quale Byron, per esempio, scagliò ogni genere di
improperi, abbia contribuito anche Beethoven. Può meravigliarci, dicevo, per l'immagine che
di lui il romanticismo ci ha trasmesso, dell'artista libertario e indomito, dell'eroico innovatore
che irride e sfida autorità e tradizioni. L'immagine, anche se non è del tutto ingiustificata, è
però astratta, idealizzata, santificatrice, perché Beethoven aveva un suo modo, ingenuo forse,
imprevedibile, perfino opportunistico, di regolare i propri interessi e di adattare i propri ideali
antitirannici e patriottici: del suo patriottismo erano parte la fedeltà alla tradizione spirituale
tedesca e il sentimento antifrancese, che nell'occasione del Congresso erano sentiti come ideali
primari. Quindi a noi sembrano contraddizioni etiche le sue scelte di allora, le quali, essendo
suggerite da un intuito superiore, finì che furono produttive nell'arte e quindi umanamente
positive. Per esempio nella spinta dei successi ottenuti con le sue musiche celebrative, il 23
maggio 1814 Beethoven fece rappresentare il Fidelio nella versione definitiva e il successo fu
quello che il capolavoro meritava. Poi, due mesi dopo, proprio una replica del Fidelio fu parte
dei festeggiamenti in onore di Metternich che da Parigi portava a Vienna la notizia del
prossimo Congresso. Già in passato Beethoven aveva accettato incarichi ufficiali per
composizioni d'omaggio, come, nel 1790, quelli delle cantate in morte di Giuseppe II, fratello
dell'Elettore di Colonia e Bonn, e per l'incoronazione di Leopoldo II. Era un uso dei tempi e
così facevano i maggiori e i minori, Mozart, Haydn, Salieri, Spohr, Hummel, Süssmayr ecc.
Ma negli anni delle guerre antinapoleoniche la produzione di Beethoven a carattere patriottico
ed encomiastico si fa fitta più che in ogni altro periodo della sua vita.
Il più noto tra i lavori di questo genere, ancora oggi famoso e malfamato per i suoi effetti
fragorosamente onomatopeici, è la sinfonia, o meglio il poema sinfonico (anche se il termine
non era stato ancora inventato), La vittoria, di Wellington o La battaglia di Vitoria, del 1813,
per due grandi orchestre e cannoni, che descrive lo scontro tra i francesi e gli inglesi a Vitoria
in Spagna, eseguita tra deliranti applausi della folla (in orchestra suonavano o collaboravano
agli effetti sonori, Salieri, Spohr, Moscheles, Hummel e il ventiduenne Meyerbeer). E ancora.
Per il Singspiel su un insulso libretto di Georg Friedrich Treitschke, Die gute Nachricht (La
buona notizia), mezzo sentimentale e mezzo patriottico, Beethoven compose la musica
conclusiva per coro e basso solista "Germania, Germania": con il Singspiel si festeggiava la
notizia della caduta di Parigi il 31 marzo 1814. Forse era destinato a qualche cerimonia
inaugurale del Congresso il breve coro "Ihr weisen Gründer glücklicher Staaten" ("Voi saggi
fondatori di Stati felici") su versi di Bernard (ma non sappiamo se e quando il brano fu
eseguito). Infine, Der glorreiche Augenblick, Il momento glorioso: il momento è quello del
Congresso di Vienna, della cui gloria tutti erano certi. L'incarico prevedeva un lavoro di grandi
proporzioni, come poi fu, destinato a una serata musicale in onore dei sovrani ospiti. Già
fissati, quindi, in anticipo i caratteri dei versi e della musica. La poesia la scrisse un medico-
poeta che abitava a Salisburgo, Aloys Weissenbach, del quale Beethoven ebbe, almeno per un
certo tempo, una buona opinione. Pensava, infatti, di avere da lui un libretto per la sua seconda
opera lirica; ma i versi presuntuosi e scombinati della cantata gli avranno fatto mutare parere.
Anzi quella poesia gli parve così prolissa, piatta, colma fino alla noia di esecrazioni di
Napoleone («il mostro», «la bestia», «il Minotauro» e avanti così) che chiese all'amico Joseph
Carl Bernard di risistemarla da cima a fondo. Non migliorò dall'intervento la qualità letteraria,
come vedremo, ma almeno il testo ne ebbe un po' di movimento drammatico e alcune
occasioni di pathos per la musica (ricalcando un errore antico qualche monografia ripete
ancora oggi che Beethoven abbia adoperato la versione originale di Weissenbach).
Dicevo che lo stile era già determinato in anticipo dall'incarico. E infatti la musica della
cantata (e lasciamo da parte i versi che proprio non contano) partecipa dell'allegrezza,
dell'ottimismo, della devozione che dovevano essere i sentimenti artificialmente dominanti a
Vienna in quei mesi e che tutti ostentavano. Come già nel Konig Stephan, la musica del
Glorreiche Augenblick è beethoveniana in senso generico, è, cioè, vigorosa, solida, solenne
all'occorrenza, ma priva di un suo carattere specifico e di un'intrinseca necessità espressiva.
Riecheggia e anticipa molte pagine eccelse (la Terza sinfonia, la Nona, la Missa solemnis)
quasi sempre da lontano, per un avvio, per un colorito, per un disegno tematico, per un
insieme sonoro, ma di quelle pagine non ha mai la profondità del pensiero e dei mezzi. E
musica dettata dalla poetica del sublime, che Beethoven per carattere e per mestiere, e non
solo per il suo genio unico, sapeva attuare come nessun altro artista dell'epoca, senza che essa
sia mossa dalla sublimità delle idee.
Nei sei numeri, o sezioni, della Cantata il coro, che è la voce dei popoli europei, e i solisti, che
sono prosopopee (Vienna) e tipi allegorici (il Genio, il Condottiero delle genti, la Veggente),
esprimono l'entusiasmo generale per la splendida assemblea di sovrani e per «l'Aquila
bicipite / che tra fulmini e vento / ha alzato la sua gente a tanta gloria». Da immagini oracolari,
spesso oscure, si levano inni ai monarchi presenti e alla loro giustizia (n. 4, essi sono «il
tribunale del mondo») e canti di speranza e di pace (n. 5, con versi fiaccamente pindareggianti,
«Chi fra i venti ha trattenuto il nodo, / darà sostegno a un mondo / e a un tempo nuovi, / sì che
per lui cadrà la forza empia», «Verde sarà l'ulivo / con cui questo coro, che ora / fonda il nuovo
edificio, / legherà le colonne d'Europa»).
Una volta che il musicista aveva accettato tanto enfatico manierismo, restavano alla musica
pochi diritti, come ho detto prima. Anche i temi ben scolpiti e felici, che non sono assenti del
tutto, hanno respiro corto e mancano di energia evolutiva; come accade alla melodia del
violoncello, che apre la seconda sezione, o, nella terza, agli interventi del violino solista, che
sono graziosi ma puramente ornamentali. Tuttavia nella quarta sezione sono ammirevoli la
mobilità armonica, ritmica, sentimentale nelle 28 battute di recitativo-arioso che introducono
la cavatina del soprano, una bella melodia, e la risposta intensa del coro. L'ultimo numero, il
sesto, che descrive la festa della pace, le pie cerimonie, i cortei dei fanciulli, è tipico dello stile
grandioso-eroico del Beethoven accademico.
Alla prima del Glorreiche Augeblick, eseguito il 28 novembre 1814 nel Redoutensaal, insieme
alle repliche della Settima sinfonia e della Vittoria di Wellington (quasi due ore di musica),
davanti a sovrani, principi e a una folla immensa, il successo fu strepitoso. Ma fu un successo
della musica? È difficile dirlo. Nella replica del 2 dicembre la sala era vuota per metà, sì che si
dovette annullare una prevista terza replica.
Franco Serpa
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
Quando Metternich ritornò da Parigi il 18 luglio 1814 con l'annuncio della convocazione del
congresso che avrebbe richiamato a Vienna i rappresentanti di tutte le nazioni d'Europa, senza
discriminazione fra vincitori e vinti, fu accolto come un trionfatore, al suono della musica di
Beethoven. Schierata davanti alla cancelleria, l'orchestra di corte eseguì l'ouverture di
Prometeo e la sera, al Teatro di Porta Carinzia, ebbe luogo una rappresentazione del Fidelio
nella nuova e definitiva versione andata per la prima volta in scena il 23 maggio precedente e
rivelatasi il successo dell'anno.
In questo clima di europeismo euforico, con Vienna invasa per mesi da teste coronate (due
imperatori e quattro re) e da un via vai di ambasciatori, ministri, principi con relativi seguiti
(qualcosa come diecimila ospiti permanenti), con fastosi ricevimenti ogni sera per fare da
contrappeso ai numerosi incontri diplomatici diurni (il congresso non si riunì mai in seduta
plenaria), non è strano che un compositore politicamente impegnato come Beethoven abbia
accettato di scrivere in onore degli ilustri ospiti e della città, divenuta di colpo il centro del
mondo, una cantata che celebrasse quel «momento glorioso».
In un primo tempo prese in esame il testo sottopostogli dal tirolese Alois Weissenbach,
chirurgo e letterato, giunto da Salisburgo, sua città di residenza, a Vienna in occasione del
congresso, nella convinzione di potersi rendere utile nelle sue due qualità. Come poeta,
Beethoven, che pur nutriva simpatia per quest'uomo, affetto come lui da sordità, trovò
Weissenbach scalcinato. E si rivolse ad un amico giornalista, Joseph Carl Bernard - che l'anno
seguente doveva diventare una delle colonne della «Wiener Zeitung» - affinchè rimaneggiasse
il testo in questione, rendendolo più malleabile e atto ad essere musicato.
Weissenbach si era concentrato sulla figura del drago Napoleone finalmente schiacciato dagli
eserciti alleati sotto la guida del pio imperatore Francesco, evocando il minotauro e Prometeo,
in dieci strofe di quattordici versi ognuna, a rime alterne. Bernard non si limitò soltanto a
rielaborare il soggetto a fondo, come afferma Schindler, ma scrisse un testo completamente
nuovo, all'incirca della stessa lunghezza. Senza utilizzare neanche un'immagine di
Weissenbach, eliminò drago, minotauro e Prometeo e fissò l'attenzione soprattutto su una
ipotetica Europa sorta sui bastioni infranti della vittoriosa città di Vienna. La quale è elevata al
rango di personaggio insieme con tre altre figure allegoriche, atte ad aprire la possibilità di
recitativi, arie e pezzi d'insieme.
Il rifacimento integrale del testo provocò un ritardo nella composizione e ripetuti rinvìi della
data prevista per la presentazione ufficiale della cantata ai suoi impliciti destinatari, ossia
l'imperatore d'Austria, lo zar di Russia e i re di Danimarca, Prussia, Württemberg e Baviera,
che vi sono citati mediante allusioni geografiche o allegorie. Infine, il 29 novembre 1814, un
martedì (la data del 27 era stata esclusa dalla censura con il curioso motivo che i puritani
inglesi non si sarebbero recati a concerto di domenica), l'opera fu eseguita insieme con altri
due recentissimi successi beethoveniani per grande orchestra, La battaglia di Victoria e la
settima sinfonia.
In tempi più recenti il direttore d'orchestra Hermann Scherchen propose una quarta versione
del Momento glorioso, adattando alla musica di Beethoven parole e concetti senza alcun
rapporto con quelli originali, ma neppure in questo caso l'iniziativa ha potuto rialzare le sorti
di un'opera comunemente ritenuta fallita. Il solo fatto di essere stata oggetto, in varie epoche,
come nessun'altra creazione beethoveniana, di tentativi così complessi e faticosi di
salvataggio, denota tuttavia che la musica non è priva di meriti.
Questi, a loro volta, attraverso il coro inneggiano alla sua fortuna con un canto pausato. Le
successive, alquanto forzate allusioni politiche all'orgoglio di Roma e alla magnanimità del
Kaiser, che riunisce intorno a sè in girotondo i popoli europei, si mescolano a proclamazioni di
fratellanza universale, appartenenti invece alla sfera ideologica beethoveniana. Sono le stesse
istanze morali che saranno alla base della Missa Solemnis e della Nona Sinfonia e che qui
Beethoven, vincolato da un testo così esplicitamente celebrativo, non trasforma in compiuta
materia musicale.
n. 4. Recitativo, cavatina e coro. Andante - Presto - Adagio. Con l'apparizione della veggente,
la quale, per metafore successive, proclama i partecipanti al congresso salvatori dell'Europa e
li invita ad innalzare una preghiera di ringraziamento al Padre celeste, la musica si accende di
una autentica emozione e l'orchestra perviene ad un discorso penetrante e liberatorio, come
negli Adagi delle sinfonie.
n. 6. Coro. Poco allegro - Adagio - Presto. È il pezzo più fittamente orchestrato di tutto
Beethoven. Neppure nella Nona Sinfonia egli impiega un organico così numeroso,
comprendente fra l'altro quattro corni, tre tromboni e l'intero apparato di strumenti alla turca,
ottavino, grancassa, piatti e triangolo. Anche il coro è oceanico, essendo costituito da gruppi
separati di voci femminili, voci maschili e voci bianche, queste ultime a loro volta suddivise in
due sezioni. Violini, flauti e fagotti anticipano il tema, dolce e svagato, del coro di mamme
venute a benedire i principi a congresso. Quasi avvertendo il grottesco della situazione,
Beethoven introduce poi, negli oboi, clarinetti e fagotti, il motivo umoristico del metronomo,
come all'inizio dell'«Allegretto scherzando» dell'Ottava Sinfonia. È del resto una pertinente
presentazione dei fanciulli che, mediante ghirlande floreali, dovrebbero ora unire entità
eterogenee come il cuore, il cielo e lo scettro. Le pause da cui è trafitta la melodia di questo
duplice coro di innocenti sembrano rifletterne le perplessità.
Non meno pittoresco è il tema scandito dagli uomini con il sostegno consistente di ottoni e
fagotti, mentre gli altri legni e gli archi imitano, con marziali frange di notine ornamentali,
l'atmosfera della guerra. I tre cori, con i rispettivi temi, si alternano e infine confluiscono in un
denso insieme di voci parallele, dal quale gli strumenti riescono ad enucleare, per brevi attimi
un motivo energico, evocatore di tempi eroici.
Un incedere più accademico caratterizza il coro, che ritorna alla formazione classica a quattro
voci, con esclusione di quelle bianche, per la parte conclusiva del brano e della cantata. Il
nome «Vindobona», che si richiama alle origini di Vienna, alludendo forse ad una, quanto mai
problematica, riconciliazione fra latinità e germanesimo, dà luogo ad un fugato con la
partecipazione vistosa degli strumenti: fra questi, nelle parti interne, emergono i tromboni con
un tema in valori lunghi, simile ad un corale.
Tutte le forze esecutive, compresi grancassa, piatti e triangolo, sono chiamate quindi a raccolta
per inneggiare al mondo e al suo grande momento di gloria e questa universalità di pensiero e
di suono anticipa l'esuberanza militaresca e la volontà disperata di accumulare il massimo
dell'energia musicale, così evidenti nel finale della Nona Sinfonia.
WoO 95 1814
Die verbündeten Fursten (Per i Principi alleati)
https://www.youtube.com/watch?v=wubdpAYILw4
Ziemlich lebhaft
Organico: coro misto, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1814
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
Press'a poco contemporaneo alla cantata Il momento glorioso, questo coro, pure su testo di
Bernard, avrebbe dovuto essere cantato nel corso di una imprecisata cerimonia per l'apertura
del congresso di Vienna, in onore dei monarchi e principi ivi convenuti. I relativi abbozzi
s'intercalano con quelli del rifacimento del Fidelio e l'autografo reca la data 3 settembre 1814.
Probabilmente Bernard e Beethoven lavorarono sotto l'assillo di una scadenza molto
ravvicinata. Non si spiegherebbero altrimenti le dimensioni ridotte di un poema musicale che
avrebbe dovuto dare lustro ad un avvenimento di quella importanza. Bernard, che nel
Momento glorioso appare un versificatore non certo a corto di metafore, scrive qui due strofe
striminzite, sviluppando in ciascuna lo stesso concetto quasi con le medesime parole;
altrettanto lapidaria, ma sensibilmente più elaborata è la musica di Beethoven.
Dopo quattro battute di preludio con archi e fiati contrapposti su un sobbalzante motivo
ritmico, il coro scandisce insieme con i violini una frase ondulata, di una cantabilità un poco
ovvia. Nella seconda strofa, in parte costruita su un tema diverso, si ha un accenno di entrata
scalare delle voci gravi, come per un principio di contrappunto imitativo, ma i gruppi si
riuniscono immediatamente proclamando un'ultima volta la gloria dei principi benefattori.
Anche la conclusione è puramente orchestrale. Per la durata di dodici misure gli archi e i fiati
riaffermano trionfalmente, in una beethoveniana combinazione di crescendo non simultanei a
vari registri, il secondo tema, una melodia ascendente costruita sui gradi della privilegiata
tonalità di la maggiore.
Testo
Ai principi alleati
https://www.youtube.com/watch?v=2RkJOgoviAk
Organico: coro misto, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1814 - 1815
Prima esecuzione: Vienna, Großer Redoutensaal del Burgtheater, 25 Dicembre 1815
Edizione: Steiner, Vienna 1822
Dedica: Johann Wolfgang von Goethe
Questo dittico sinfonico con coro misto fu composto fra il 1814 e il 1815 ed eseguito la prima
volta il 25 dicembre del 1815 nella grande Sala del Ridotto, assieme all'ouverture op. 115, nel
corso di una accademia a favore dell'Ospedale comunale di Vienna. Le due poesie di Goethe
prese a soggetto hanno l'aspetto di due perfette esercitazioni sul metro del trocheo (Meeres
Stille) e del giambo (Glückliche Fahrt) e la loro contrapposizione ha suggerito a Beethoven il
contrasto di due affreschi: nel primo, con facoltà divinatoria in un uomo che non aveva mai
visto il mare, è racchiusa la stessa massa di calma, la terribile immensità del mare; nel secondo
appare l'uomo, il faticatore del mare nella gioia sportiva del viaggio a buon fine. La partitura,
stampata nel 1822, fu dedicata e inviata nel mese di maggio da Beethoven a Goethe, seguita da
una lettera del febbraio 1823 con la preghiera di interessare il duca di Weimar alla
sottoscrizione della Missa solemnis composta nel frattempo; Goethe, in quel tempo seriamente
ammalato, non rispose mai all'omaggio del musicista.
Arrigo Quattrocchi
Testo
Meeresstille
Calma di mare
Glückliche Fahrt
Viaggio felice
Le nubi si squarciano,
il cielo è sereno
ed Eolo discioglie
la temibile catena.
Sussurrano i venti,
si scuote il nocchiero.
Presto! Presto!
Si separa l'onda,
s'approssima la mèta lontana;
già vedo la sponda!
https://www.youtube.com/watch?v=riwef0qD8UI
https://www.youtube.com/watch?v=pV_0C-Lf_eU
https://www.youtube.com/watch?
v=qq2QDfhH_Cs&list=OLAK5uy_kDod0rGmBmzmMJNHapwtqGCYMv-4ISgJg
Testo: Pietro Metastasio
I canti furono composti tra il 1792 e il 1801. Non sono esenti dall'influenza di Salieri, di cui
Beethoven era allievo e del quale, come attestano i segni in lapis del maestro italiano
ravvisabili negli autografi, accettò più d'una correzione riguardante l'andamento delle voci.
Sebbene Beethoven lo prescriva in un solo caso, è da presumere che i 24 pezzi furono pensati
per coro. «La scrittura» osserva il Bonaccorsi, «è puramente armonistica: vi si scorge la
quadratura del vecchio Lied strofico, si sentono anche echi popolari e talora di Mozart, tal'altra
del corale». Vi spira dentro un fare semplice, un'aria fresca, una grazia di atteggiamenti non
del tutto prevedibili nell'autore dell'Eroica. Ciò particolarmente in Bei labbri che Amore, in
Ma tu tremi o in Già la notte s'avvicina (che, come altri testi, Beethoven, o insoddisfatto della
prima stesura o animato da molteplice ispirazione, ha musicato più di una volta). Nella scelta
degli otto canti preparata per il programma odierno non mancano nemmeno esempi, come Nei
campi e nelle selve, di un arco corale più elaborato e diramato e di un pensiero lirico più
intenso.
Giorgio Graziosi
Testo
Pastorelli, cacciatori,
Che passate - ov' egli giace,
Gli augurate - quella pace
Che la perfida sua Clori
Gli promise, e gli mancò.
https://www.youtube.com/watch?v=hblxFJMOpHo
Ziemlich langsam
Op. 85 1803
Christus am Oelberge (Cristo sul Monte degli ulivi)
https://www.youtube.com/watch?v=oYdxxw3RZsg
Introduzione
Recitativo e aria (Gesù): «Meine Seele»
Recitativo e aria (Serafino): «Preist des Erlösers»
Recitativo e duetto (Gesù e Serafino): «So ruhe denn»
Recitativo (Gesù): «Wilkommen, Tod»
Coro dei soldati
Recitativo (Gesù): «Die mich zu fangen»
Coro dei soldati
Recitativo (Pietro.e Gesù): «Nicht ungestraft»
Terzetto (Serafino, Gesù, Pietro): «In meinen Adern»
Coro: «Welten singen»
Coro degli angeli: «Preiset hin»
Organico: soprano, tenore, basso, coro misto, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2
trombe, 3 tromboni, timpani, archi
Composizione: 1814
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 5 Aprile 1803
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1811
Argomento:
Cristo, oppresso dall'angoscia per l'imminente passione, invoca il Padre chiedendone pietà.
Scende un Serafino, a ricordare a Gesù che senza sacrificio, l'umanità non potrà conoscere
redenzione. Quando sopraggiungono i «guerrieri» per arrestare Gesù, i discepoli si disperdono
e resta, solo, Pietro; è lui a quel punto a dichiararsi pronto a difendere, perfino con la spada, il
Maestro. Gesù eroicamente va incontro al Calvario, mentre il coro degli angeli osanna la sua
gloria e la sua redenzione.
Come quaranta anni dopo sarebbe stato per Schumann il sinfonismo classico, lo stesso fu per
Beethoven, nel 1801 o 1802, l'Oratorio, un genere musicale, cioè, in cui l'artista non trovava
l'espressione naturale e diretta del suo genio.
Del Christus non sappiamo precisamente quando e per quale occasione o sollecitazione
Beethoven l'abbia composto. Fu eseguito la prima volta al Theater an der Wien il 5 aprile 1803
in un concerto di proporzioni enormi nel quale si dettero le prime esecuzioni anche della
Seconda Sinfonia e del Terzo Concerto per pianoforte e orchestra insieme alla già nota Prima
Sinfonia. L'Oratorio ebbe successo, fu ripetuto almeno quattro volte nel corso dell'anno e fu
ripreso spesso negli anni successivi. Ancora nel 1825 Karl Holz annota in uno dei "Taccuini di
conversazione" che fino a quel momento il Christus ha sempre riempito i teatri. Poi quando nel
corso dell'Ottocento, con la progressiva determinazione di un rapporto spirituale privilegiato
tra l'idealità romantica e le innovazioni creative beethoveniane, furono scartate le poche pagine
di Beethoven in stile tradizionale o eclettico, anche il suo unico Oratorio, questo Christus am
Ölberge, cadde in una specie di oblio (è significativo, per esempio, il fatto che alcuni dei
massimi interpreti di Beethoven e del sinfonismo romantico tra Otto e Novecento non
l'abbiano mai diretto). Ed effettivamente si può affermare che il Christus non regge il
confronto non diciamo con la Nona Sinfonia o con la Missa solemnis ma neppure con la Missa
op. 86 in do maggiore.
Nonostante ciò il Christus non merita di essere dimenticato. È vero che Beethoven stesso
dimostrò di non averlo in grande considerazione, in una lettera scritta nel 1811 alla ditta
Breitkopf e Härtel (il Christus fu, infatti, stampato per la prima volta in quell'anno, il che
spiega perché abbia avuto un numero alto nel catalogo delle opere): «A proposito dell'Oratorio
c'è da tener conto che è stato il mio primo lavoro giovanile del genere, scritto in quattordici
giorni in un'agitazione terribile e tra altre angosciose contrarietà della vita (mio fratello aveva
una malattia mortale) [...]. Oggi un Oratorio lo scriverei in maniera tutta diversa da allora,
questo è certo». E anche il testo, mediocre davvero, egli lo accettò così come era, collaborando
un po' con l'autore, che era un librettista a quei tempi noto (questo Huber aveva scritto, tra
l'altro, alcuni libretti per opere e Singspiele di Süssmayr, ma la sua notorietà la doveva
soprattutto a Das unterbrochene Opferfest, un'opera eroicomica con musica di Peter Winter,
che dal 1794 aveva successo a Vienna).
Tuttavia pare certo che l'accenno autobiografico di Beethoven nella lettera del 1811 non sia del
tutto preciso e che il ricordo della fretta e delle due settimane di lavoro si riferisca forse a un
rifacimento della musica in occasione del concerto del 1803: ma è probabile che l'Oratorio
fosse stato scritto, tutto o in gran parte, uno o due anni prima.
Questa questione delle date e della maniera in cui Beethoven può aver creato il suo Oratorio,
non è del tutto superflua. Il Christus, infatti, era il primo lavoro di musica vocale drammatica
che Beethoven componeva ed era, inoltre, la prova che egli voleva presentare delle sue
capacità in questo campo alla direzione e al pubblico del Theater an der Wien. È vero che nel
1801 egli aveva scritto la musica per un balletto allo Hoftheater (Die Geschöpfe des
Prometheus, Le creature di Prometeo), ma un progetto con solisti e coro presentava altre
esigenze e suscitava attese superiori.
L'opera, il dramma in musica, era al centro dei pensieri di Beethoven ed era anche uno degli
argomenti principali nelle sue relazioni pratiche in quegli anni tra il 1801 e il 1803. Ed è certo
che al proposito, perseguito con tanta decisione, di una creazione teatrale-drammatica non era
estranea la rinnovata, prodigiosa energia mentale ed etica da cui egli era animato dopo la crisi
spirituale e psicologica del 1802. Proprio nel 1802 o 1803 si fa iniziare il decennio del
cosiddetto "secondo stile" (anche se la tripartizione delle epoche creative di Beethoven, già
sostanzialmente fissata da Schlosser nel 1828, e poi ripetuta e approfondita nelle celebri
monografìe di Schindler, 1840, e di W. von Lenz, 1825-53, oggi è contestata) e in quel
decennio per Beethoven tutto è conquista, audacia morale, potenza costruttiva. Pare giusto
pensare, quindi, che il Christus, posto all'inizio di un così forte slancio di decisioni e di
pensieri positivi, sia, sì, un lavoro incerto nel carattere e nell'architettura (come sarebbe stata
due anni dopo la Leonore) e impacciato da molte convenzioni e imitazioni, ma non che sia
stato concepito in modo approssimativo e distratto, come dice un giudizio diffuso e come in
fondo Beethoven stesso, insoddisfatto anni dopo di quel suo lavoro, fece credere.
Dunque, il Christus fu per l'autore un esercizio nello stile grandioso e tradizionale dell'opera
seria, dell'Oratorio religioso e fu anche una preparazione al dramma in musica. Insoimma,
considerandolo con l'attenzione e il rispetto che non ha avuto ma che esso merita (che un genio
come Beethoven non sperpera mai le sue forze), oggi noi vediamo che per Beethoven questo
suo unico Oratorio segnò il passaggio dalla meditazione di modelli ideali (Il flauto magico di
Mozart e La creazione di Haydn) alla creazione personale (Fidelio). Non si sa quanto religioso
fosse Beethoven, ma la sua fede personale, quale che fosse, qui non ha importanza, anche se
l'argomento dell'Oratorio è cristiano e evangelico. Il tema spirituale della sua musica è sempre
la dignità umana e la sua conquista, drammatica per ognuno di noi. E questo è il contenuto
anche dei momenti alti del Chrìstus: la formidabile fede umanistica che nello stesso anno fu
gloriosamente illuminata dalla musica della Terza Sinfonia.
I personaggi - che sono Gesù, uno degli angeli serafini, l'apostolo Pietro, le guardie, i discepoli
- recitano in settenari e ottonari arcadici e artificiali, fiacchi pensieri di teatro edificante. Da
versi simili era difficile che Beethoven ricevesse una spinta verso lo stile drammatico cui
aspirava e che potesse attuare un efficace sistema di contrasti. Ci mise, perciò, di suo ciò che
poteva e conosceva, una tecnica strumentale-sinfonica ormai matura e robusta (già splendida
nell'Introduzione, che è una grande pagina, intensa e dolorosa; ma anche evidente nei brevi
incisi orchestrali, entro gli episodi o tra un episodio e l'altro) e la capacità di reagire
emotivamente alle parole e ai pensieri che, in qualunque modo, celebrano un'immagine del
dolore umano e della forza morale di vincerlo.
Ma gli rimase, è sicuro, il rammarico dell'occasione mancata. Ancora nel 1824, qualche giorno
prima di presentare a Vienna e al mondo la Nona Sinfonia egli, in una lettera alla Geseìlschaft
der Musikfreunde, parlò ancora del suo Oratorio giovanile; e aggiunse: «Ma per quel che mi
riguarda, preferirei mettere in musica addirittura Omero, Klopstock, Schiller; almeno, anche se
ci sono difficoltà da superare, quei poeti immortali lo meritano».
Franco Serpa
Op. 86 1807
Messa in do maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=Vjp4Cs_QImU
https://www.youtube.com/watch?v=KsW5bY5RZRQ
Organico: soprano, contralto, tenore, basso, coro misto, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2
corni, 2 trombe, timpani, organo, archi
Composizione: Vienna, 26 Luglio 1807
Prima esecuzione: Eisenstadt, Cappella di Esteraza, 13 Settembre 1807
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1812
Dedica: Principe Ferdinand Kinsky
Guida all'ascolto 1 (nota 1)
Il principe Nikolaus Esterhàzy, celebre mecenate di Franz Joseph Haydn e committente delle
sue ultime composizioni sacre, era solito far eseguire, ogni anno nella cappella del castello di
Eisenstadt, una messa quale dono per l'onomastico della consorte. Per l'occasione celebrativa
del 1807 Esterhàzy commissionò la composizione a Beethoven, che tra la primavera e l'estate
completò la Messa in do maggiore op. 86. Eseguita per la prima volta il 13 settembre 1807
sotto la direzione dello stesso Beethoven, l'opera non ebbe il gradimento del Principe e degli
altri invitati, i quali la ritennero troppo innovativa e poco conforme allo stile dell'epoca,
lontana dalle loro aspettative.
Rispetto alle precedenti creazioni nello stesso genere lasciateci da Haydn e da Hummel, la
prima Messa di Beethoven presenta in effetti caratteri di marcata novità linguistica. Sebbene le
dimensioni temporali la rendano liturgicamente eseguibile (contrariamente alla più nota Missa
Solemnis op. 123 che, considerata la sua complessità e la sua durata, pur essendo musica sacra
è di fatto difficilmente proponibile nella sua veste liturgica), la Messa presenta fin dall'inizio
un carattere espressivo insolito.
La dolcezza dell'incipit del Kyrie possiede un calore così umano, un tratto così comprensivo
che la sua morbida arcata ascendente e discendente ci avvolge subito in un abbraccio sonoro.
Non c'è dunque il piglio solenne e fastoso che di solito le Messe precedenti adottavano come
atmosfera d'esordio. L'entrata dei solisti accentua il clima implorante creando un fruttuoso
contrasto tra la massa corale, simbolo dell'umanità tutta e i soli, immagine del singolo. Si nota
sin da subito che l'orchestra non crea uno sfondo alle voci ma è un vero e proprio protagonista:
tra l'umanità e il singolo la musica sembra qui porsi come interlocutore con il divino: ne deriva
un rapporto tra voci e orchestra totalmente nuovo. L'intervento degli strumenti crea infatti un
piano altro che eleva al quadrato la resa dell'insieme, ma non è mai preponderante: l'orchestra
mantiene costantemente quel carattere intimistico, talvolta implorante; che è il tono
fondamentale di tutta la composizione.
La festosità arriva col Gloria: il trionfo iniziale è subito venato da sfumature di dubbio, fugato
da accenni di un andamento imitativo ma confermato poi da un chiaroscuro generale di
potente impatto espressivo. Il Gratias agimus tibi entra con fare rilassato, intonato dal tenore
cui segue il coro su affascinanti increspature dell'orchestra. Già da queste poche parole si
comprende come Beethoven avesse inteso creare un'opera unica nel suo genere, mobilissima e
nuova, ricca di variegati atteggiamenti espressivi e rifuggente il già detto. Questo è
sicuramente uno dei motivi della difficoltà con cui l'uditorio dell'epoca seguì la composizione.
Nuova è anche l'orchestrazione del Qui tollis peccata, momento per il quale Beethoven inventa
un andamento ansimante, simbolo della preoccupazione, di toccante fattura. Altra novità
dell'opera è nel trattamento delle voci, la cui matrice non è reperibile nello stile lirico e
teatrale, ma in quello cameristico, o meglio liederistico. La scrittura polifonica adottata da
Beethoven è infatti un affascinante ibrido tra stile del Lied da camera e polifonia classica.
Questa la ragione di un intimismo così diffuso, di una immediatezza espressiva così
funzionale. Ed ecco la ragione per cui funzionano momenti vicini e pur così differenti come il
vivace Quoniam tu solus sanctus che sfocia nel coinvolgente fugato del Cum sancto spiritu.
Per aggiungere mobilità all'insieme Beethoven fa uso di un altro elemento straniante per
l'epoca: una serie di sorprese armoniche di notevole efficacia.
Luogo privilegiato di questa sperimentazione è il Credo nel quale (come nel Gloria)
Beethoven continua a privilegiare per le voci la scrittura polifonica, affiancandola però a
strutture indubbiamente sinfoniche (non si dimentichi che la Messa in do maggiore è quasi
contemporanea alla Sinfonia n. 6 "Pastorale"), dando modo all'orchestrazione di manifestare
una maggiore libertà tematica e armonica. L'efficacia iniziale del Credo, verbo che ascende dal
piano alla squillante conferma corale, è dovuta anche all'espediente sinfonico del "crescendo"
che, legato qui a una parola chiave della fede cristiana, funziona come amplificatore di senso.
Particolarmente nel Credo la Messa si dimostra sempre più una "Messa-Sinfonia", soprattutto
lì dove Beethoven riesce a mantenere intatta per tutto il brano, grazie alla sua esperienza di
orchestratore, quella struggente dolcezza che il Kyrie aveva posto a suggello della
composizione. Non mancano poi "immagini sonore", un espediente creativo che appartiene da
sempre alla creazione d'ambito sacro: i ribattuti degli archi durante il Crucifxus vogliono forse
mimare l'entrata del chiodo nel momento in cui viene evocata dal testo la crocifissione. Anche
qui i chiaroscuri armonici rimangono uno strumento di potente suggestione.
Particolarmente efficace il momento dell'Et resurrexit, dove ascendendo dal basso verso
l'acuto (altra immagine sonora tipica) le figurazioni orchestrali mimano la Resurrezione e
l'assunzione in cielo del Salvatore. Il percorso espressivo termina con un gioioso fugato che
proietta nei secoli venturi (Et vitam venturi saeculi) la nuova vita dell'uomo nel regno divino.
Anche l'inizio del Sanctus è momento di grande suggestione: la calibrata e pacata intonazione,
con atteggiamento contrario alle scelte tradizionali, ha il valore di una meditazione.
L'orchestra vi traccia pensosi fili fino all'esplosione del Pieni sunt coeli et terra sfociante nel
nuovo fugato sul testo dell'Hosanna in excelsis. I passi contrappuntistici hanno qui una
funzione mimica ed evocano la presenza del divino sulla terra: le voci si muovono come
strumenti di una volontà superiore, del suo perfetto meccanismo.
Con il Benedictus si torna alle sfumature liederistiche che caratterizzano la Messa. Stupenda
l'esclamazione cromatica del coro che reitera «benedictus» con calibrata dolcezza mentre i
solisti proseguono l'enunciazione del testo.
Simone Ciolfi
L'opera nacque fra la primavera e l'estate del 1807 su richiesta del principe Nicola Esterhàzy
(il committente delle tarde messe di Haydn) che ogni anno faceva eseguire una messa come
regalo d'onomastico alla moglie nel suo castello di Eisenstadt: qui la Messa op. 86 fu eseguita
la prima volta il 13 settembre 1807 sotto la dilezione dell'autore, senza incontrare molto favore
da parte del committente per la novità e il non conformismo di alcune soluzioni. In effetti
Beethoven, alle prese con lo storico modello della messa, tiene un duplice atteggiamento: da
una parte aderisce (specie in Gloria e Credo) ai canoni della scrittura polifonica, dall'altra si
apre al sinfonismo più generoso (la Messa op. 86 è quasi contemporanea alla Sinfonia
Pastorale), accordando agli strumenti grande indipendenza tematica e libertà di combinazioni;
con lo stile alla Palestrina di larghe sezioni dell'opera contrasta così il carattere intimo, da
canto spirituale liederistico del Kyrie e in particolare del Benedictus e dell'Agnus Dei. Proprio
questo clima di intima tenerezza rappresenta, peraltro, il nucleo più interessante dell'opera,
ripreso in qualche misura dalle messe di Schubert. In forma pubblica alcune sezioni della
Messa (Gloria, Sanctus e Benedictus) furono eseguite la prima volta al teatro An der Wien di
Vienna il 22 dicembre 1808 nel corso di un grande concerto tutto di musiche beethoveniane.
La partitura venne pubblicata a Lipsia nell'ottobre 1812.
Testo
GLORIA (coro)
Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis.
Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te.
(Tenore e coro)
Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam.
Domine Deus, Rex coelestis, Deus Pater omnipotens, Domine, Fili Unigenite, Jesu Christe,
Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris.
(Soli e coro)
Qui tollis peccata mundi, miserere nobis, suscipe deprecationem nostram.
(Coro)
Qui sedes ad dexteram Patris, miserere nobis.
Quoniam Tu solus sanctus. Tu solus Dominus.
Tu solus altissimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spirito, in gloria Dei Patris.
(Soli e coro)
Amen.
CREDO (Coro)
Credo in unum Deum Patrem omnipotentem, factorem coeli et terrae, visibilium omnium et
invisibilium: et in unum Dominum Jesum Christum, Fi-lium Dei Unigenitum, et ex Patre
natum ante omnia saecula. Deum de Deo, lumen de lumine, Deum veruni de Deo vero,
genitura, non factum, consubstantialem Patri, per quem omnia facta sunt; qui propter nos
homines et propter nostram salutem descendit de coelis.
(Soli)
Et incarnatus est de Spiritu Sancto, ex Maria Virgine, et homo factus est.
(Soli e coro)
Crucifixus etiam prò nobis sub Pontio Filato passus et sepultus est.
(Basso)
Et resurrexit tertia die, secundum scripturas
(Coro)
et ascendit in coelum, sedet ad dexteram Patris; et iterum venturus est cum gloria, judicare
vivos et mortuos, cujus regni non erit finis.
(Soli)
Et in Spiritum Sactum Dominum et vivificantem, qui ex Patre filioque procedit, qui cum Patre
et Filio simul adoratur et conglorificatur.
(Coro)
Qui locutus est per Prophetas. Et in urtarti sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam.
Confiteor unum baptisma, in remissionem peccatorum. Et expecto resurrectionem mortuorum,
(Soli e coro)
et vitam venturi saeculi. Amen.
SANCTUS (Coro)
Sanctus, Sanctus, Sanctus.
Dominus Deus Sabaoth.
Pieni sunt coeli et terra gloria tua.
Hosanna in excelsis.
https://www.youtube.com/watch?v=r01elSujWfY
https://www.youtube.com/watch?v=vKiSTL6UrFk
https://www.youtube.com/watch?v=5bI9-DTloKU
Riconosciuto che essa non si attiene alle norme liturgiche, si è poi molto discusso circa il suo
significato religioso, volendosi da alcuni, come il D'Indy, che essa interpreti con precisione
sentimenti della più rigida ortodossia cattolica; da altri, che sia invece espressione d'una fede
laica e immanente nell'umanità. Opinioni estreme e insostenibili entrambe, ché mentre la
Messa è la voce di un puro cuore realmente credente nella potenza e nella bontà d'un essere
divino superiore all'uomo, non si racchiude poi nelle strette di alcuna confessione costituita. Se
l'uomo Beethoven allevato nella fede cattolica, s'era poi ristretto, come scrive Chantavoine a
«quella specie di deismo umanitario e provvidenziale, familiare al secolo dell'Illuminismo, e
inclinava verso quel panteismo estetico di cui Goethe aveva trovato indirettamente la fonte in
Spinoza», non v'è alcun dubbio che l'artista, nell'atto di misurarsi per la seconda volta col testo
sacro della Messa, ne valutò attentamente il significato e la sottopose ad una diligentissima
lettura musicale, adottando soluzioni talvolta analoghe, talvolta diverse, talvolta opposte a
quelle della Messa in do maggiore del 1807.
Nella Messa solenne, come nel finale della Nona Sinfonia, trova la sua naturale ed espressa
applicazione uno dei caratteri interni del terzo stile beethoveniano, quello per cui ogni nuova
opera, Quartetto o Sonata o Sinfonia che sia, tende a celebrare un rito sacro, a dire parole di
portata universale; se è lecito esprimersi così, l'arte passa dall'umanità comunemente intesa a
quella forma di umanità più alta che è la religióne. D'altra parte, l'attenta lettura musicale del
testo liturgico si riflette in un puntiglioso ordinamento formale della materia sonora, governato
da una specie d'ossessione del principio ternario; sicché, se si ritiene che uno dei caratteri del
terzo stile sia, se non l'abbandono e la dissoluzione, per lo meno la trasformazione radicale
delle vecchie forme sonatistiche a favore della continuità discorsiva in seno alla variazione
libera, allora per questo aspetto la Messa solenne non partecipa pienamente dei caratteri
comunemente attribuiti al terzo stile, pur condividendone la non comune difficoltà di ascolto.
La Messa si compone delle solite cinque parti: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei.
Kyrie e Sanctus sono relativamente i più facili da comprendere e di effetto più immediato, in
quest'ultimo specialmente la celeste devozione del Benedictus. Invece il Gloria e il Credo sono
creazioni musicali difficili, per la grande quantità d'immagini rese attraverso idee ora brevi ed
incisive ora straordinariamente sottili, e ancora con procedimenti di sviluppo d'entusiasmante
complessità. Ne risulta un'architettura così vasta - scrive Luigi Ronga - «che certo da sola può
imporsi nello svolgersi della sua forza sonora, ma tale da soverchiare chiunque, interprete ed
ascoltatore, non impegni a fondo ogni sua capacità penetrativa dei mezzi musicali che
coordinano l'acuto rilievo dei particolari nell'organica unità del tutto».
Una calma e serena grandezza è nel movimento piano e regolare del Kyrie, in cui D'Indy
illustra la significazione teologica delle relazioni tonali nelle tre successive invocazioni,
simboleggianti nei suoni il mistero della Trinità.
Il Gloria è, si suol dire, la parte più oggettiva dell'intera composizione, quella dove Beethoven
sembra aver meno impegnato della propria personalità, applicandosi essenzialmente a variare
l'illustrazione diligente del testo con la ricchezza dei colori, la forza delle linee, l'efficacia dei
contrasti: un grido di giubilo apre il pezzo e lo percorre per intero sollevandosi sempre più in
alto, sino alla fuga finale In gloria patris, che D'Indy giudica il punto debole dell'opera, mentre
per altri (Bekker) va annoverata tra i quattro punti salienti della Messa. Di rilevante interesse è
la complessiva architettura che investe ed organizza il testo entro un organismo
sostanzialmente sonatistico composto di "Allegro vivace" in re maggiore e "meno allegro" in
si bemolle - "Larghetto" - "Allegro maestoso". La prima parte si avvicina a una forma di
rondò, dove i ritorni dell'idea principale, sul Gloria in excelsis Deo, sul Laudamus te, sul
Domine rex coelestis, e sul Domine Deus, Agnus Dei, sono intercalati dagli intermezzi sempre
diversi dell'Et in terra pax, dell'Adoramus e del Glorificamus te, del Gratias agimus, e del
Domine fili unigenite. All'entusiastica lode del divino succede nel "Larghetto" il ripiegamento
sull'invocazione di misericordia, così pronunciata e sottolineata che Beethoven non esitò a
interpolare davanti alla parola "miserere" un "oh", che naturalmente non è contemplato nel
testo liturgico. La terza parte del Gloria ritorna ad un carattere quasi orgiastico di esaltazione
della grandezza divina ed è costruita in tre sezioni progressivamente più intense: una solenne
introduzione (Quoniam: "allegro maestoso"); una fuga (in gloria Dei Patris), anch'essa
tripartita secondo un criterio d'intensificazione, fino a un punto culminante ("poco più
allegro"), dove il tempo viene accelerato e, come scrive Ruclolf Gerber, «tutte le voci si
riuniscono in una esecuzione all'unisono del tema, che rumoreggia via come un uragano, e la
fuga come principio compositivo diventa illusoria»; infine la ripresa del tema iniziale in un
"Presto".
Una partecipazione totale, una compenetrazione assoluta con le più intime fibre dell'anima fa
del gigantesco Credo una delle più personali creazioni beethoveniane. Nel trapasso
dall'oggettiva adorazione e celebrazione, da Vecchio Testamento, delle due prime parti al
dramma umano-divino del Vangelo, l'intero sistema delle convinzioni e delle passioni
dell'artista si mette in moto. Il Cristo di questo Credo è ancora una volta l'eroe, cioè il
benefattore dell'umanità, cardine d'ogni grande concezione beethoveniana. Si apre il pezzo con
uno di quei caratteristici temi di quattro note, che prendono possesso della tonalità
occupandone le funzioni principali (in questo caso si tratta di si bemolle), e che ispirano un
senso di solidità incrollabile, di sicurezza virile e di ferma fede. Le sei sezioni del Credo si
raggruppano anch'esse, musicalmente, in architettura tripartita. La prima parte (Credo in unum
Deum) è l'affermazione della fede nelle due prime figure dell'unico Dio, padre e figlio: si apre
e conchiude nella tonalità principale, con inflessione alla sottodominante. La seconda parte è il
dramma evangelico di Gesù disceso sulla terra, e comprende l'incarnazione, la passione e la
resurrezione: nel primo pezzo la tonalità base della Messa, re maggiore, è piegata verso
alterazioni modali di reminiscenza gregoriana; il secondo, ove culmina più pateticamente il
dramma, è in re minore; il terzo nella luminosa tonalità di fa maggiore. La terza parte del
Credo si addentra nei misteri della fede (Credo in Spiritum Sanctum et vitam venturi saeculi) e
comprende anche le parti più aridamente concettuali del testo (Credo in unam sanctam
catholicam et apostolicam Ecclesiam). Trascendendo l'illustrazione spicciola delle parole
nell'autonomia musicale di una fuga, in cui si assomma tutta la metafisica perfezione di questa
forma suprema di costruzione sonora, Beethoven ha evitato magistralmente ogni rischio.
Nel Sanctus, iniziato con sommessa devozione e poi irrompente nell'animato giubilo
dell'Osanna, un preludio strumentale circonda di devoto raccoglimento gli atti del celebrante
che consacra il pane e il vino; indi segue la celeberrima melodia del Benedictus, di trasparenza
e delicatezza quasi femminee nel gioco ricorrente delle voci e del violino solista.
Anche l'Agnus Dei si eleva alle massime altezze nella seconda parte, il Dona nobis pacem, sul
quale Beethoven iscrisse di suo pugno l'intitolazione: "preghiera per la pace esteriore e
interiore". Come sarà per la gioia nella Nona Sinfonia, il concetto di pace si eleva qui a un
significato superiore di somma perfezione spirituale della condizione umana. Perfino D'Indy,
zelantissimo assertore dei valori cattolici nella Missa solemnis, riconosce il carattere
eminentemente pastorale del Dona nobis pacem, che lo fa accostare alla Sesta Sinfonia. «La
pace non è nella città; è ai ruscelli della valle, agli alberi del bosco che l'inquieto abitatore
della città va a domandarla». Sicché in questo caso D'Indy s'accorda eccezionalmente con
Chantavoine, altrettanto tenace assertore del carattere laico di questa Messa, per il quale ciò
che Beethoven ha cantato nel Dona nobis pacem «non è tanto la messa quanto il suo libro
favorito, le Considerazioni su Dio e la natura, di Sturm».
Fiumi d'inchiostro ha fatto scrivere il breve episodio bellicoso ("allegro assai") che è inserito
nella preghiera, per dipingere - secondo un esempio di Haydn - i vani assalti del male alla
coscienza del giusto invocante pace. Trombe e tamburi imitano realisticamente rumori della
guerra, presentata come simbolo d'ogni male. Ciò che fu sentito come un'indebita intrusione
profana nel tessuto musicale d'una Messa. Ma il musicista s'è preoccupato di variare, con uno
di quei pronunciati contrasti che erano essenziali al suo primo e secondo stile, la persistente
atmosfera di religiosa elevazione. Nelle somme altezze dello spirito l'aria rarefatta si fa alla
lunga irrespirabile: l'episodio guerresco è una boccata d'umanità, che permette di riprendere in
seguilo l'ascesa verso il divino con lena rinnovata.
Massimo Mila
Come la Messa op. 86, anche la Missa solemnis fu opera d'occasione, in questo caso l'elezione
dell'arciduca Rodolfo d'Austria, grande amico di Beethoven, ad arcivescovo di Olmutz.
Beethoven iniziò il lavoro nell'autunno 1818 con il proposito di farla eseguire il 9 marzo 1820,
giorno del solenne insediamento dell'arcivescovo, ma la composizione richiese un tempo
molto più lungo per gli interessi via via cresciuti nella coscienza del compositore; l'opera fu
terminata verso la metà del 1823 e pubblicata a Mainz dall'editore Schott nella primavera
1825. Tre parti di essa, Kyrie, Credo e Agnus Dei furono eseguite la prima volta nel famoso
concerto del 7 maggio 1824 al Teatro viennese di Porta Carinzia in cui venne battezzata la
Nona Sinfonia; la prima esecuzione integrale si tenne il 18 aprile 1824 presso la Società
Filarmonca di Pietroburgo per opera del principe Galitzin. Alle prese con il più illustre dei testi
confessionali, secondo l'interpretazione di Th.W. Adorno, lo spirito laico di Beethoven si
"estraniò" dal contenuto della messa per concentrarsi sulla forma compositiva, forma carica di
tradizione e di storia e per ciò stesso ricca di sollecitazioni. Certo, nell'opera gigantesca, così
come nella più piccola Messa op. 86 (e come nelle messe di Cherubini), si avverte un dissidio
fra la dimensione storica della polifonia alla Palestrìna e la dimensione moderna di una
religiosità intima, espressa in un linguaggio nutrito di Lied e di corale, su base essenzialmente
armonica; attorno alla Missa solemnis stanno le origini del movimento storico e culturale di
riscoperta della musica antica (gli «antichi modi della musica ecclesiastica» aveva annotato
Beethoven in un appunto), assieme alla nuova sensibilità che vedeva nel semplice canto,
vicino alle fonti popolari, il veicolo più adatto per una religiosità veramente sentita.
Nessuna sceglie per la voce di soprano, nel Kyrie, un'entrata talmente carica di interrogativi.
Nessuna è figlia inconfondibile e insieme sorprendente del suo autore. Che Beethoven è mai
questo?
Solemnis: così si definisce una Messa che, nella presenza di coro, orchestra e voci soliste, si
distingua o per le dimensioni non ordinarie o per la particolarità dell'occasione per la quale
viene concepita ed eseguita. La Missa solemnis che inaugura la nuova stagione di Santa
Cecilia risponde a ambedue queste caratteristiche: la vastità della concezione e le circostanze,
complesse, per cui viene concepita.
La composizione occupa Beethoven, in momenti diversi, tra 1819 e 1823; un lungo periodo
durante il quale nascono altri capolavori, dalle Variazioni Diabelli, alla Nona Sinfonia,
dall'avvio con l'opera 127 della serie degli ultimi Quartetti, alle ultime Sonate per pianoforte.
L'affaticata vicenda invita, anche, a ripercorrere il sempre inquieto rapporto del Titano con i
mecenati, in particolare se verso di loro poteva esibire rapporti di vera conoscenza, perfino di
amicizia.
Il Principe Rodolfo d'Asburgo (Firenze, 1788 - Baden, 1831), figlio di Leopoldo II, fratello
dell'Imperatore Francesco I, buon musicista, allievo dall'età di quindici anni di Beethoven a
Vienna, già munifico dedicatario di alcune opere, già cardinale, sarà consacrato arcivescovo di
Olmùtz, una località della Moravia, dunque nei confini dell'Impero, il 20 marzo 1820.
L'annuncio viene dato con grande anticipo e subito Beethoven si mette al lavoro per scrivere,
appunto, la Missa solemnis destinata a quella celebrazione: «Se una mia Messa solenne sarà
eseguita durante le cerimonie di consacrazione di Vostra Altezza Imperiale, quel giorno verrà
annoverato tra i più gloriosi della mia vita e Dio mi assisterà perché i miei poveri talenti
possano contribuire alla gloria di quel giorno».
Ma non tutti i geni sanno anche promuoversi, e non tutti coloro che si promuovono bene sono
geni. E c'è, come probabilmente nel caso in questione, chi di promuoversi non è proprio
capace perché i tempi della promotion non coincidono con quelli della creazione. Fatto sta che
l'arciduca diventa anche arcivescovo, ma la Messa di Beethoven non è ancora pronta. Lo sarà
soltanto molto tempo dopo: la prima esecuzione avviene infatti alla Società Filarmonica di San
Pietroburgo il 18 aprile 1824.
La serata rimarrà storica soprattutto perché è in quella occasione che debutta la Nona Sinfonia.
Tre sezioni - Kyrie, Credo, Agnus Dei - e annunciate come Inni: era stato questo il punto di
mediazione tra le aspettative dell'autore e i limiti imposti dalla Chiesa cattolica di Vienna
all'esecuzione di musica liturgica in luoghi teatrali.
Beethoven, vestito con un frac verde, è in sala; assiste al concerto dalla fossa dell'orchestra,
non ode la musica, non sente gli applausi, si accorge del successo quando il pubblico inizia a
sventolare dei fazzoletti bianchi. Sale in proscenio, si inchina commosso.
Dopo aver sperato di trovare un editore, chiesto e restituito anticipi, stretto e stracciato accordi,
il compositore cerca ora di pubblicare la propria Messa grazie al ricavato di una sottoscrizione
tra le principali case regnanti e istituzioni musicali d'Europa. Scrive, scrive, scrive a tutti
(anche a Goethe e a Cherubini), ma alla fine di questa frenetica attività promozionale i
sottoscrittori sono soltanto dieci: lo Zar, i re di Prussia, Francia, Danimarca, l'elettore di
Sassonia, i granduchi di Darmstadt e di Toscana, i principi Galitzin e Radziwill, l'Associazione
Cecilia di Francoforte. Troppo pochi. Finalmente, nel 1825, sarà l'editore Schott a stampare
quella che l'autore considera "la mia opera più riuscita".
Fra i tanti possibili (la storia di un'opera d'arte è anche, e in gran parte, la storia della sua
ricezione critica, del suo gradimento, o della sua sfortuna), proponiamo due giudizi che, nella
loro distanza di riferimenti culturali e di punto di vista, condividono la radicalità e invitano
con forza a un confronto.
Scrive Theodor Adorno: «La rinuncia coerente all'elaborazione tematica, elimina nettamente
nella Missa ogni legame immediato con la rimanente produzione di Beethoven. La struttura
interiore, la fibra di questa musica è radicalmente diversa da tutto ciò che s'intende per stile
beethoveniano. È arcaicizzante, non ricavata formalmente dalla variazione e dallo svolgimento
dei nuclei tematici, ma si compone di una somma di sezioni per lo più imitative, paragonabile
alla tecnica dei Fiamminghi della metà del XV secolo».
Ora invece, anche qui scegliendo alcuni tra i molti appunti autografi, ascoltiamo alcune
riflessioni dell'autore contenute nei Quaderni di conversazione: «Per scrivere della vera musica
religiosa bisogna esaminare tutti i corali ecclesiastici dei monaci, farne degli estratti, anche
delle strofe, nelle traduzioni migliori, con la più esatta prosodia di tutti i salmi e gli inni
cattolici».
«Noi diciamo che la comune musica sacra è degenerata in una musica quasi operistica».
Ancora, ma da una lettera all'arciduca Rodolfo del 1819: «Gli antichi ci servono moltissimo,
perché hanno per lo più un autentico valore d'arte. Ma la libertà, il progresso nel mondo
dell'arte, come in tutta la grande creazione, sono lo scopo, e sebbene noi moderni non siamo
tanto avanti nella saldezza quanto i nostri antichi precursori, tuttavia la raffinatezza della
nostra civiltà ha aggiunto qualche cosa».
Sono passati quindici anni dall'Oratorio Cristo sul Monte degli ulivi e dodici dalla Messa in do
maggiore, due opere di cui l'autore stesso avvertiva i limiti.
Ora che si accinge ad affrontare la sua seconda Messa e il terzo e ultimo lavoro di carattere
liturgico, Beethoven ribadisce dunque tre esigenze.
Dal conflitto e dalla sintesi fra queste diverse esigenze nasce la Missa solemnis, che appare
divisa in due blocchi di pensiero musicale. Quando lo sguardo tende al Domine Deus,
all'Omnipotens, al Rex coelestis, all'Altissimus, dunque in particolare nelle tre scansioni
iniziali del Kyrie, del Gloria e della prima parte del Credo, Beethoven ci ricorda di essere
l'autore dell' Egmont, del Fidelio, lo studente di filosofia che legge Kant e condivide
l'immensità dei suoi orizzonti: "Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me".
Beethoven, che ritiene l'uomo degno di governare la propria esistenza nel nome di una libera
dignità, quando contempla l'Assoluto ha il suo sguardo teso, non placato. Faustiano?
Ma quando il testo canonico della Messa si rivolge al Figlio, alla sua nascita, morte e
resurrezione - a colui che Homo factus est, al Filius Patris, al Benedictus, all'lncarnatus, al
Crucifixus, all'Agnus Dei, a colui che perdona - allora prevale la compassione beethoveniana,
la sua partecipazione, da uomo a uomo, "da cuore a cuore", a questo dramma e al mistero
dell'orizzonte di salvezza che svela. Fermando il tempo, dilatando lo spazio dell'ascolto nella
perorazione strumentale posta a conclusione del Benedictus, quando il violino solo conclude la
propria meditativa ascensione sul sol sovracuto, mentre l'ultimo accordo orchestrale, dilatando
un pizzicato, condivide quel desiderio di tendere verso l'altrove.
L'autore sta accanto al Figlio e da lì osserva il mondo del Padre: la voce sola del basso che
ricorda i peccata e chiede miserere; la "Preghiera per la pace interiore ed esteriore", indicata
all'inizio dell'Allegretto vivace dell'Agnus Dei, mentre dapprima i soprani, poi i contralti, i
tenori, i bassi del Coro a lungo accarezzano, la "a" di pacem. Le stesse parole vengono riprese
in un recitativo inquieto, riesplodono in un brusco tono di fanfara, quasi una citazione dalla
Missa in tempore belli di Haydn, con una tensione che rimanda al periodo in cui l'autore
considerava il contrasto, l'opposizione fra due diversi princìpi, il nucleo generatore della sua
creatività. La consolazione e il furore, la passione e la tensione verso la spiritualità: il fertile
magma che sappiamo appartenergli.
Beethoven prescrive ängstlich (con timore) per il recitativo del contralto nell'Agnus Dei, a cui
coro e solisti fanno ala accompagnando "colla voce", senza pronunciare parole, il suo incedere
nel dubbio, nell'attesa. E come è repentina la conclusione dell'opera: noi lo chiameremmo un
"finale aperto".
Manca l'elaborazione tematica, dice Adorno: come manca nella Marcia funebre della Terza
Sinfonia, quando Beethoven individua alcune cellule tematiche, le ripete senza sviluppo, le
gela nella loro evidenza. Berlioz chiamerà questa tecnica idèe fixe, in Wagner diventerà il
Leitmotiv, sottoposto però a delle metamorfosi quando, nel proprio percorso, incontra altri
motivi, altre situazioni. L'idea di una cellula da cui si genera, o che già comprende, un
universo linguistico ed espressivo sarà determinante anche per la messa a punto del sistema di
composizione dodecafonico e in particolare per la poetica di Anton Webern.
In questa Messa Beethoven non racconta, isola delle idee e le ripete, nell'orchestra e nelle voci,
a volte con iterazione ossessiva, stordente, rabbiosa. Con una sapienza compositiva che crea
un percorso attraverso le più caratterizzanti forme della musica sacra dei secoli precedenti: la
polifonia, il ricorrente intervallo di terza discendente tipico delle Messe fiamminghe, la
presenza di episodi a voce sola: «Lo stile a cappella deve essere preferibilmente definito come
il vero unico stile da chiesa», scrive in una lettera del 1825 nella quale fa riferimento alla
Missa solemnis, sostenendo che "quasi potrebbe essere eseguita solo a cappella"!
Queste istantanee dal passato si fondono con una potenza orchestrale e corale del tutto
contemporanea, certamente sua, e diventano torsi marmorei, frammenti scolpiti e uniti per
sovrapposizione, non per sviluppo. Quadri da una Messa.
Ha ragione Henry Lang, Beethoven aveva qualche problema ad ubbidire, se non a se stesso. E
a placare i propri dubbi.
Sandro Cappelletto
Testo
KYRIE
Kyrie eleison Christe eleison. Kyrie eleison.
GLORIA
Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis. Laudamus te, benedicimus
te, adoramus te, glorificamus te. Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam, Domine
Deus, Rex coelestis, Deus Pater omnipotens, Domine, Fili Unigenite, Jesu Christe, Domine
Deus, Agnus Dei, Filius Patris. Qui tollis peccata mundi, miserere nobis, suscipe
deprecationem nostram. Qui sedes ad dexteram Patris, miserere nobis. Quoniam Tu solus
sanctus. Tu solus Dominus, Tu solus altissimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spirito, in gloria
Dei Patris. Amen.
CREDO
Credo in unum Deum Patrem omnipotentem, factorem coeli et terrae, visibilium omnium et
invisibilium: et in unum Dominum Jesum Christum, Fi-lium Dei Unigenitum, et ex Patre
natum ante omnia saecula. Deum de Deo, lumen de lumine, Deum veruni de Deo vero,
genitura, non factum, con-substantialem Patri, per quem omnia facta sunt; qui propter nos
homines et propter nostram salutem descendit de coelis. Et incarnatus est de Spiritu Sancto, ex
Maria Virgine, et homo factus est; crucifixus etiam prò nobis sub Pontio Filato passus et
sepultus est; et resurrexit tertia die, secundum scripturas et ascendit in coelum, sedet ad
dexteram Patris; et iterum venturus est cum gloria, judicare vivos et mortuos, cujus regni non
erit finis. Credo in Spiritum Sactum Dominum et vivificantem, qui ex Patre filioque procedit,
qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur, qui locutus est per Prophetas. Et in
urtarti sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam. Confiteor unum baptisma, in
remissionem peccatorum. Et expecto re-surrectionem mortuorum, et vitam venturi saeculi.
Amen.
SANCTUS
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pieni sunt coeli et terra gloria tua. Hosanna
in excelsis.
BENEDICTUS
Benedictus Qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis.
AGNUS DEI
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi,
miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem.
Balletti
https://www.youtube.com/watch?v=MbMTsMBwG5I
Ouverture: Adagio – Allegro molto con brio "La Tempesta" (do maggiore)
Poco adagio (do maggiore)
Adagio (fa maggiore)
Allegro vivace (fa maggiore)
Maestoso - Andante (re maggiore)
Adagio (si bemolle maggiore)
Un poco Adagio - Allegro (sol maggiore)
Grave (sol maggiore)
Marcia. Allegro con brio (re maggiore)
Adagio (mi bemolle maggiore)
Pastorale. Allegro (do maggiore)
Andante (do maggiorre)
Maestoso (do maggiore)
Allegro (re maggiore)
Andante (fa maggiore)
Andantino (si bemolle maggiore)
Allegretto (mi bemolle maggiore)
Argomento
Come indica il titolo, l'argomento del Balletto riprende la favola classica di Prometeo. Questo
eroe greco - creatura sublime che aveva trovato l'umanità nello stato di ignoranza primigenia -
ebbe il merito, secondo la mitologia, di aver affinato gli esseri umani attraverso le scienze e le
arti e di aver offerto loro leggi universali. Muovendo da questi presupposti il Balletto porta in
scena due simboliche statue animate che, grazie alla potenza dell'Armonia, a poco a poco
divengono partecipi di tutte le espressioni della vita (di qui l'origine dei vari «quadri» del
Balletto). Prometeo conduce le statue sul Parnaso e da incarico ad Apollo di avvicinarle ai
mondi delle varie Arti; Apollo, a sua volta, invita Anfione, Arione e Orfeo a far conoscere alle
statue i segreti della musica, mentre invita Melpomene e Talia a dischiudere i misteri della
tragedia e della commedia. In ultimo Prometeo affida le creature a Tersicore e a Pan, affinchè
apprendano le tecniche della danza pastorale; a Bacco perché esse entrino nel mondo delle
danze a carattere orgiastico.
Guida all'ascolto (nota 1)
Non è impresa di troppo sbrigliata fantascienza critico-estetica immaginare che cosa avrebbe
potuto trarre da un tal soggetto Luigi Cherubini, autore di una Médée e di un Anacréon dove il
mondo del mito è scandagliato con la temeraria determinazione del solitario scopritore di
tragici orrori e di apollinee atarassìe sotto la crosta sedimentata di un plurisecolare
accademismo. Beethoven non vide, nell'intreccio propostogli, che il pretesto per allineare i
sedici "numeri" di una tra le sue partiture più levigate ed eleganti, che si plasma con la
morbidezza della cera di un calco canoviano, sulle figure da bassorilievo di Viganò,
assecondandone discretamente il nobile rituale coreografico e spettacolare. Ecco dunque il
compositore giocare tutte le sue carte di artista "neo-classico" adornando le proprie idee con i
drappeggi di una strumentazione piena di sensuale raffinatezza nella presenza dell'elemento
concertante (gli splendidi "a solo" del violoncello nel n. 5, seconda parte, Andante quasi
Allegretto) e di rari tocchi coloristici, come (ancora nel n. 5) il liquido fluire dell'arpa sotto il
concerto dei legni. Il tutto è introdotto dall'alacre e scattante Ouverture che si apre
pomposamente in un clima di festa teatrale ed è concluso dal festoso epilogo (n. 16, Danza
generale) in cui appare la fatidica idea melodica in seguito utilizzata per una serie di Variazioni
pianistiche (op. 35) e per il Finale dell'Eroica.
https://www.youtube.com/watch?v=zzAUVWksk68
Il conte boemo Ferdinand Ernst Waldstein, intelligente dilettante di musica, tra i primi amici e
protettori di Beethoven, era venuto a Bonn (nel 1787 al più tardi) per compiere il noviziato
nell'ordine dei Cavalieri Tuetonici, nel quale fu poi ammesso con solenne investitura il 17
giugno 1788.
La musica fu per qualche tempo attribuita allo stesso Waldstein, e con il suo nome figurava
nella prima rappresentazione; ma è di Beethoven, il quale forse, secondo l'opinione di qualche
studioso, si sarebbe dovuto a bella posta «tener basso» perché l'attribuzione al suo nobile
collaboratore avesse più verosimiglianza. Potrebbe anche darsi però che qualche tema sia stato
del Waldstein.
L'opera consta di otto piccoli pezzi tutti in re maggiore, meno il quarto che è in si minore:
Giovanni Biamonti
Opere liriche
https://www.youtube.com/watch?v=9uapL7hImOY
https://www.youtube.com/watch?v=E5Gr79nt3FY
https://www.youtube.com/watch?v=GQvrzlrZHtc
https://www.youtube.com/watch?v=W6cez3HEOVM
Prima versione:
Titolo: Fidelio, oder die ebeliche Liebe (Fidelio, o l'amore coniugale)
Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827) (1770-1827)
Libretto: Joseph Sonnleithner, da Léonore di Jean-Nicolas Bouilly
Prima rappresentazione: Vienna, Theater an der Wien, 20 Novembre 1805
Seconda versione:
Titolo: Leonore
Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827) (1770-1827)
Libretto: Revisionato da Stephan von Breuning
Prima rappresentazione: Vienna, Theater an der Wien, 29 Marzo 1806
Terza versione:
Titolo: Fidelio
Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827) (1770-1827)
Libretto: Riscritto da Georg Friedrich Treitschke
Prima rappresentazione: Vienna, Teatro di Porta Carinzia, 23 Maggio 1814
Personaggi:
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 2 tromboni, timpani, archi
Composizione: 1803 - 1814
Ouvertures:
Beethoven ha scritto per le versioni di questa opera quattro ouvertures:
Necessario un cenno sulle varie versioni delle Ouvertures «Leonora», spesso fonte di
confusione. Le Ouvertures, definite da Beethoven «ouvertures caractéristiques» sono quattro, e
corrispondono all'incirca alle diverse elaborazioni del «Fidelio».
La «Leonora» n. 1 fu composta in un secondo tempo, nel 1807, ma non venne eseguita in
quanto scartata in un'audizione privata. Pubblicata solo dopo la morte di Beethoven, essa
presenta - unica tra tutte - un numero di catalogazione ufficiale, vale a dire Op. 138.
La «Leonora» n. 2 fu invece composta per le prime rappresentazioni del 1805 (il «Fidelio»
nella sua versione originale); anch'essa non fu amata dal pubblico ed edita soltanto dopo la
morte dell'autore.
La «Leonora» n. 3 venne composta un anno dopo, nel 1806, per la ripresa del «Fidelio». Si
tratta dell'Ouverture più celebre, quella che ancor oggi vive come brano isolato nei concerti
sinfonici.
La «Leonora» n. 4 fu invece concepita in occasione della ripresa definitiva del «Fidelio» del
1814: è la meno importante sotto il profilo musicale, ma è quella rimasta come Ouverture
ufficiale dell'Opera.
Introduzione
L'unica opera di Beethoven ebbe come fonte un dramma di Jean-Nicolas Boully rappresentato
nel 1798 con musica di Pierre Gaveaux, un testo cui negli stessi anni attinsero Ferdinando Paër
(? Leonore) e Giovanni Simone Mayr (L'amor coniugale, Padova 1805). Apparteneva a un
genere assai diffuso nella Francia degli anni della rivoluzione e nel decennio seguente, la pièce
à sauvetage in cui gli eroi positivi, i rappresentanti delle forze del bene, trionfano dopo aver
subito ingiuste persecuzioni e dopo romanzesche peripezie, trovando alla fine salvezza in una
situazione di grave pericolo grazie a un provvidenziale colpo di scena, da intendersi non come
semplice effetto teatrale, ma come affermazione ottimistica di una fiducia nei valori della
giustizia e della ragione. Inoltre la vittoria delle forze del bene vede uniti personaggi di classi
sociale diverse, di estrazione nobile e plebea. Fra i musicisti che scrissero opere legate a questa
drammaturgia Luigi Cherubini (di cui fra l'altro a Vienna nel 1802 furono rappresentate
Lodoïska e Les deux journées ) fu uno dei più stimati da Beethoven. Dopo un tentativo di
collaborazione con Schikaneder, lasciato cadere, Beethoven trovò significativamente
nell'ambito di questo gusto teatrale francese le premesse per la propria unica opera. La prima
versione, su un libretto di Joseph Sonnleithner che si attenne abbastanze fedelmente a Bouilly,
fu composta nel 1804-5 in tre atti e andò in scena il 20 novembre 1805 nella Vienna occupata
dalle truppe francesi, in assenza dei maggiori sostenitori di Beethoven: fu rappresentata solo
tre volte. Con difficoltà Beethoven si lasciò persuadere a compiere alcuni tagli e a ripresentare
l'opera in due atti, il 29 marzo 1806; questa volta fu un dissenso con il direttore del teatro che
indusse Beethoven a ritirare quasi subito la partitura. Quando nel 1814 tre cantanti (fra i quali
J.M. Vogl, che sarebbe divenuto amico e interprete di Schubert, e che cantò la parte di Pizarro)
proposero a Beethoven una ripresa, egli sentì la necessità di una rielaborazione, per il cui
libretto ebbe l'aiuto di Georg Friedrich Treitschke. Nacque così la versione definitiva, la cui
ouverture fu la quarta composta da Beethoven per il Fidelio . Nel 1805 era stata eseguita
l'ouverture nota con il nome di Leonore n. 2, nel 1806 la Leonore n. 3: l'una e l'altra sono una
sintesi del percorso dell'opera dall'oppressione del carcere di Florestano ai provvidenziali
squilli di tromba all'impeto liberatorio conclusivo, ed ebbero grande fortuna come pagine
orchestrali a sé stanti (furono fra quelle di Beethoven in cui si vide una anticipazione del
poema sinfonico); ma proprio per la loro grandezza furono forse giudicate da Beethoven
inadatte a iniziare un'opera le cui prime scene presentano un carattere di commedia borghese e
fungono da premessa e quasi piedistallo al nucleo drammaturgico centrale.
Sinossi
Luogo dell'azione: in una prigione a qualche miglio fuori da Siviglia, nel XVII secolo
Atto primo. In una prigione Marcellina, la figlia del carceriere Rocco, è corteggiata da
Jaquino, che non vuol capacitarsi dell'improvviso mutamento dei sentimenti della fanciulla.
Marcellina infatti non lo prende più in considerazione da quando ha cominciato a lavorare nel
carcere Fidelio. Questi è in realtà Leonore, moglie di Florestano, che per ritrovare il marito
misteriosamente scomparso va a cercarlo nel carcere governato dal suo peggior nemico,
Pizarro, e per penetrarvi ha dovuto travestirsi e conquistarsi la fiducia del carceriere Rocco.
Rimasta sola, Marcellina canta in un'aria il suo amore per Fidelio e il desiderio di rapide nozze
con lui ("O wär ich schon mit dir vereint"). Entrano Rocco e Leonore/Fidelio, il cui zelo viene
inteso dal padre di Marcellina come un segno d'amore per la figlia. In un mirabile quartetto a
canone ("Mir ist so wunderbar") Marcellina, Leonore, Jaquino e Rocco esprimono i loro
diversi sentimenti, accomunati dalla musica in un clima di sospesa stupefazione. Rocco
raccomanda a Marcellina e Fidelio, che considera promessi sposi, di badare anche al denaro,
sempre necessario, e accoglie con fiducia e favore la proposta di Fidelio di aiutarlo nei lavori
più pesanti del carcere, anche nei sotterranei (dove Leonore ha il sospetto che possa trovarsi il
marito Florestano). Al suono di una marcia entra Pizarro, che riceve una lettera in cui viene
avvertito dell'imminenza di una ispezione. Pizarro decide di uccidere il prigioniero nascosto
nei sotterranei e pregusta la vendetta e l'assassinio nella sua aria con coro ("Ha, welch ein
Augenblick"). Chiede a Rocco di fargli da sicario e, allo sdegnato rifiuto del vecchio
carceriere, gli ordina di preparare la tomba per il misterioso prigioniero del sotterraneo, che
egli stesso ucciderà. Leonore, che ha ascoltato di nascosto il loro dialogo, inorridisce per i
propositi di Pizarro; ma si sente rasserenata dalla speranza (recitativo accompagnato e aria
"Abscheulicher, wo eilst du hin?... Komm, Hoffnung"). Convince poi Rocco a concedere ai
prigionieri di uscire dal carcere: il finale del primo atto ("O welche Lust, in freier Luft")
comincia con il coro dei prigionieri, felici di respirare finalmente l'aria libera. Pizarro è furioso
per l'iniziativa di Rocco, e fa di nuovo chiudere i prigionieri, che si congedano mestamente
dalla luce del sole.
Atto secondo. Florestano, poiché osò «dire audacemente la verità», è incatenato in un oscuro
carcere sotterraneo dai «giorni della primavera della vita» (introduzione e aria "Gott, welch
Dunkel hier/ In des Lebens Frühlingstagen"); ma è serenamente consapevole di aver fatto il
proprio dovere. Nella seconda sezione dell'aria (completamente rifatta nel 1814) descrive una
visione: Leonore come un angelo lo conduce alla libertà. Esausto, sviene. Sopraggiungono
Rocco e Leonore/Fidelio per preparare la tomba come ha ordinato Pizarro (melologo e duetto).
Florestano si riprende, interroga Rocco, e viene riconosciuto da Fidelio, che ancora non può
rivelarsi; ma ottiene di dargli il conforto di un po' di pane e di vino. Florestano può solo
promettere una ricompensa in un mondo migliore, in una pagina di intensità quasi religiosa
(terzetto "Euch werde Lohn"). Giunge Pizarro per compiere l'assassinio, e nel quartetto ("Er
sterbe") si rivela a Florestano prima di colpirlo. Ma Leonore si interpone e a sua volta si fa
riconoscere. Superata la sorpresa, Pizarro vorrebbe uccidere lei insieme con Florestano; ma è
fermato da Leonore che lo minaccia con una pistola. Si odono intanto gli squilli di tromba che
annunciano l'arrivo del ministro. Pizarro, seguito da Rocco, deve andare a riceverlo; erompe la
gioia di Leonore e Florestano (duetto "O namenlose Freude"). Nel finale, nel cortile del
carcere, Don Fernando, il ministro, annuncia un messaggio di libertà e fratellanza. Rocco
richiama la sua attenzione sulla sorte di Florestano, che Fernando riconosce con stupore.
Pizarro è arrestato, e a Leonore stessa tocca il compito di togliere le catene al marito. Coro e
solisti partecipano alla gioiosa celebrazione finale.
Atto I
Duetto (Marzelline, Jaquino): Jetzt, Schätzchen, jetzt sind wir allein - Allegro (la maggiore)
Aria (Marcellina): O wär ich schon mit dir vereint - Andante con moto (do minore)
Quartetto (Marzelline, Leonore, Jaquino, Rocco): Mir ist so wunderbar - Andante sostenuto
(sol maggiore)
Aria (Rocco): Hat man nicht auch Gold beineben - Allegro moderato (si bemolle maggiore)
Terzetto (Marzelline, Leonore, Rocco): Gut, Söhnchen, gut - Allegro, ma non troppo (re
minore)
Marcia (orchestrale) - Vivace (si bemolle maggiore)
Aria e Coro Pizarro): Ha! Ha! Ha! Welch'ein Augenblick - Allegro agitato (re minore)
Duetto (Pizarro, Rocco): Jetzt, Alter, jetzt hat es Eile - Allegro con brio (la maggiore)
Recitativo (Leonore): Abscheulicher! Wo eilst du hin? - Allegro agitato; Adagio (mi
maggiore)
Aria finale: Komm, Hoffnung, lass' den letzten Stern
Coro: O welche Lust - Allegro ma non troppo (si bemolle maggiore)
Terzetto: Ach! Vater. Vater, eilt - Allegretto vivace
Coro: Leb'wohl, du warmes Sonnenlicht
Atto II
Cambio di scena
Commento 1 (nota 1)
La tormentata genesi del Fidelio rivela il percorso con cui nella sua unica esperienza operistica
Beethoven giunse a impadronirsi del genere, piegandolo alle esigenze della propria concezione
sotto il segno di una incandescente tensione etica e inventiva. La versione del 1805 era più
vicina al testo di Bouilly e presentava un respiro formale più dilatato (come si conveniva al
musicista che nello stesso periodo aveva composto l' Eroica), mentre è più evidente, nella
versione 1814, un'aspra tensione drammatica che non tollera indugi. Tra i mutamenti più
rilevanti vi sono quelli che riguardano il rapporto tra il nucleo ideale, alto e tragico, dellla
vicenda, il conflitto tra la coppia Leonore-Florestano e Pizarro, e la dimensione patetica,
commovente di commedia borghese che con esso si intreccia (con gli equivoci sentimentali di
Marcellina, Jaquino e Fidelio). Nella versione definitiva Marcellina e Jaquino scompaiono
quasi del tutto dopo le prime scene, e l'entrata di Pizarro segna una svolta netta, come se la
commedia borghese delle prime scene servisse da premessa alla tragedia (che conserva
comunque, attraverso il personaggio di Rocco, il collegamento con l'altra sfera e l'unione di
classi sociali diverse). Per la prima volta nell'aria di Pizarro, dal carattere non convenzionale,
l'orchestra si scatena con selvaggia violenza, mentre la declamazione vocale rivela una incisiva
intensità. Seguono il cupo duetto in cui Pizarro cerca di coinvolgere Rocco nell'assassinio di
Florestano e subito dopo l'aria di Leonore, preceduta da un efficacissimo recitativo
accompagnato che fu aggiunto nel 1814 e che comincia con parole di orrore rivolte idealmente
a Pizarro. Questo recitativo non sarebbe stato pensabile nel 1805, perché nella prima versione
fra i propositi omicidi che Pizarro confida a Rocco e l'aria di Leonore si inseriva (come in
Bouilly/Gaveaux) un amoroso duetto tra Marcellina e il falso Fidelio, in cui si parla di gioie
coniugali coronate da tanti bambini. Nel 1806 Beethoven non ne aveva ancora deciso la
soppressione; ma lo aveva spostato in modo da accostare il duetto Pizarro-Rocco e l'aria di
Leonore. Nel 1814 tagliò il duetto Marcellina-Fidelio, valorizzando l'aria di Leonore con
l'inserimento del nuovo recitativo accompagnato. Carl Dahlhaus ebbe a osservare che si
conciliano nel Fidelio generi teatrali diversi, e che la felicità privata e l'idillio borghese
sognato da Marcellino non creano contraddizione con la tensione etico-utopica della vicenda
di Leonore e Florestano. Tuttavia giovano alla definizione del personaggio di Leonore la
maggior linearità ottenuta cancellando il bamboleggiamento e il gioco dell'ambiguità sessuale
nel duetto con Marcellina, e inoltre la contrapposizione diretta tra i feroci disegni di Pizarro e
l'invocazione alla speranza, con l'energia, aliena da ogni tenero abbandono sensuale, della
seconda parte dell'aria ("Ich folg' dem innern Triebe"): Berlioz aveva affermato che nuoceva
alla fortuna del Fidelio in Francia «la castità della sua melodia».
Fra gli interventi di maggior rilievo nella revisione del 1814 occorre citare ancora, almeno, la
trasformazione della parte conclusiva del finale primo (con l'eliminazione di un'aria di Pizarro
e l'inserimento del secondo coro dei prigionieri, il mesto congedo dalla luce del sole),
l'aggiunta della visionaria, febbrile sezione conclusiva all'aria di Florestano, la radicale
rielaborazione del finale secondo, i tagli e i mutamenti della situazione drammatica nel duetto
che lo precede. Solo nel 1814 la gioia del duetto Leonore-Florestano (robustamente scorciato e
privato del recitativo precedente, così da esplodere con intensità folgorante) si accompagnava
alla certezza della salvezza; nella versione 1805 (come in Bouilly) la soluzione della vicenda
restava poco chiara e sospesa, e si definiva compiutamente solo nel finale (senza alcun
cambiamento di scena); mentre nella versione 1814 il finale, non più necessario allo
scioglimento della vicenda, ne celebra il significato in un grandioso rito che ha luogo
all'aperto. Le parole di Don Fernando sulla libertà e sulla fratellanza si leggono solo nella terza
versione, in cui i materiali del finale secondo sono rielaborati.
Formalmente il Fidelio ha l'andamento del Singspiel , alterna cioè numeri chiusi a parti
recitate, come accadeva nella Léonore di Bouilly e Gaveaux e nel Flauto magico di Mozart,
antecedente fondamentale (e a Beethoven carissimo) nella storia dell'opera tedesca. Accanto
alle voci, l'orchestra è fra i protagonisti della partitura del Fidelio: a partire dall'aria di Pizarro
ci si lascia alle spalle la dimensione stilistica sostanzialmente tardo-settecentesca delle cordiali
pagine ‘leggere' dell'inizio, per dare spazio a un respiro sinfonico inaudito (anche se ha un
precedente nell'intenso impegno sinfonico che Beethoven ammirava nel teatro di Cherubini),
mentre l'ardua scrittura vocale pone spesso a dura prova gli interpreti, in situazioni al limite
per l'urgenza della tensione espressiva e per il severo rifiuto di ogni edonismo. Rimproverare a
Beethoven questi caratteri della scrittura vocale è assurdo, quanto sottolineare come un limite
l'univocità della psicologia dei personaggi: anche in questi aspetti si rivelano la singolarità del
rapporto del compositore con il teatro musicale e i caratteri che fanno della tensione etico-
utopica del Fidelio un fatto unico nella storia dell'opera, sebbene appartenga a un contesto
storico ben definito, di cui si sono ricordate come componenti essenziali il teatro di Mozart e
quello francese della fine del Settecento. È anche significativo che in esso siano potute
confluire musiche da Beethoven composte in precedenza: il duetto di Leonore e Florestano
proviene da un terzetto scritto per il progetto del Vestas Feuer (Il fuoco di Vesta, 1803) su testo
di Schikaneder, e il momento culminante del finale secondo, quello sublime in cui Leonore
toglie le catene a Florestano ("O Gott, welch ein Augenblick!") riprende un'aria della Cantata
per la morte di Giuseppe II (1790), il cui testo cominciava con le parole: «Salirono gli uomini
alla luce». Beethoven riprese a distanza di quindici anni questa idea musicale in un momento
chiave della conclusione del percorso dall'oscurità alla luce, dalla più cupa oppressione alla
libertà, che si compie nel secondo atto. L'intensità sinfonica e il respiro grandioso di ognuno
dei pezzi che definiscono le stazioni di questo percorso determinano una coerenza interna e
una continuità ideale che non ammettono chiaroscuri né attenuazioni di tensione.
Paolo Petazzi
Commento 2 (nota 2)
Beethoven scrisse un'unica opera teatrale, Fidelio oder Die eheliche Liebe (Fidelio o L'amore
coniugale), la cui nascita è collegata ad una serie di circostanze sfavorevoli al compositore e
ad una vivace rivalità esistente tra i due teatri viennesi aperti agli spettacoli d'opera nei primi
anni dell'Ottocento: lo "Hoftheater" diretto dal barone Peter von Braun, che sovrintendeva
anche al Teatro di Porta Carinzia, e il "Theater an der Wien", guidato da una delle più singolari
personalità della vita teatrale del tempo, Emanuel Schikaneder (1751-1812), attore, cantante,
autore drammatico, librettista e impresario, ma conosciuto soprattutto come estensore del
Flauto magico di Mozart, di cui, tra l'altro, fu primo interprete nella parte di Papageno. Il
barone von Brgun prese accordi con un musicista importante come Luigi Cherubini, che nel
1802 aveva suscitato larghi consensi a Vienna con la sua Lodoiska e allestì nell'"Hoftheater" le
altre opere del compositore italiano, precisamente Les deux journées (Le due giornate o Il
Portatore d'acqua) e Médée, di forte caratterizzazione drammatica e centrata sul ruolo di un
soprano di spiccate qualità liriche. Schikaneder dal canto suo pensò di commissionare per il
"Theater an der Wien" delle opere a Beethoven e all'abate Georg Joseph Vogler. Questi si
affrettò a scrivere un testo musicale intitolato Samori, che dopo la rappresentazione avvenuta
nel 1804 scomparve definitivamente scene. Beethoven fu consigliato a mettere in musica per
quel teatro un libretto dello stesso Schikaneder, Vestas Feuer, ossia "Fuoco di Vesta", ma si
mostrò piuttosto cauto e reticente, tanto da comporre soltanto quattro pezzi. Nel frattempo la
gestione del "Theater an der Wien" passò nelle mani del barone von Braun, il quale propose a
Beethoven un altro testo, Léonore, su libretto di Joseph Ferdinand Sonnleithner, segretario
dell'Opera di corte. Tale libretto era una versione tradotta e rimaneggiata di un testo già
musicato, chiamato Léonore ou l'amor coniugal, fait historique en 2 acts, di Jean-Nicolas
Bouilly, messo in scena con la musica di Pierre Gaveaux il 19 febbraio 1798 al "Théàtre
Feydeau" di Parigi. È lo stesso testo adattato in italiano da Giovanni Schmidt e musicato da
Ferdinando Paer per l'Opera italiana di Dresda e poi di nuovo utilizzato da Gaetano Rossi per
la musica di Simon Mayr, con il titolo L'amour coniugale, rappresentato il 26 luglio 1805 a
Padova. Bouilly (1763-1842), che ricopriva il posto di magistrato ed era stato pubblico
accusatore a Tours all'epoca del Terrore in Francia, si era ispirato per il suo libretto ad un fatto
realmente accaduto nel periodo più sanguinoso della Rivoluzione giacobina e riguardante un
gesto nobile ed eroico di una donna a favore del proprio amato. Sonnleithner modificò la
vicenda e la trasferì nella Spagna del XVII secolo, trasformandola in tre atti, rispetto ai due
originali, così da arricchire con più elementi teatrali questa "pièce a sauvetage", tradotta in
tedesco "Rettunsstück", cioè in un dramma in cui, dopo una situazione di estremo pericolo per
il protagonista e la protagonista, tutto si risolve felicemente con un colpo di scena, provocando
un senso di sollievo e di favorevole adesione nel pubblico.
Nacque in tal modo l'opera beethoveniana, chiamata Fidelio per distinguerla dalla Leonora del
parmense Paer, il cui tema dell'amore coniugale inteso nel suo profilo etico era perfettamente
congeniale al temperamento idealistico e di educazione kantiana del compositore. Superato
fortunosamente lo scoglio della censura, il primo Fidelio andò in scena al "Theater an der
Wien" il 20 novembre 1805 sotto la direzione dell'autore e una compagnia di interpreti formata
da Anna Milder (Leonora), il tenore Demmer, alla fine della sua carriera (Florestano),
Sebastian Mayer - secondo marito di Josepha Weber, cognata di Mozart e cugina di Carl Maria
von Weber - nel ruolo di Pizarro, Cache (Jacquino), Müller (Marcellina), Rothe (Rocco),
Weinkopf (Don Fernando). L'opera non ebbe alcun successo e fu replicata soltanto per due
sere consecutive, il 21 e il 22 novembre, il che per quei tempi significava una prova deludente
per il nuovo testo teatrale. Le ragioni di questo insuccesso della prima versione del Fidelio
sono molteplici. Anzitutto la difficile circostanza politica in cui venne allestita a Vienna, dove
da soli cinque giorni si era insediato Napoleone dopo aver sconfitto gli austriaci a Ulm (20
ottobre) e poche settimane prima della disfatta dell'esercito della grande coalizione
(Inghilterra, Austria, Russia, Svezia, Napoli) ad Austerlitz. Il pubblico che partecipò alla recita
dell'opera beethoveniana era formato prevalentemente da ufficiali francesi, ignari della lingua
tedesca e abituati ad ascoltare ben altre musiche. Un altro motivo dell'insuccesso va attribuito,
molto probabilmente, alla disuguale esecuzione non propriamente all'altezza dell'avvenimento,
specie per la diversità stilistica della compagnia di canto. Ma la ragione più profonda è quasi
certamente un'altra ed è quella di cui si avvide subito lo stesso Beethoven: il rapporto troppo
sbilanciato tra gli elementi descrittivi e di ambientazione, con spunti comici e diversivi che
occupavano un intero atto, e la seconda parte dell'opera di tono drammatico e rispondente
meglio al carattere del testo. Con il ritorno della nobiltà austriaca a Vienna ormai evacuata
dalle truppe francesi gli amici-estimatori di Beethoven persuasero il musicista a rivedere il suo
lavoro per ripresentarlo nella stessa stagione teatrale. Fu Stephan von Breuning, amico di
giovinezza del compositore, ad organizzare una riunione in casa del principe Carl Lichnowsky
presente lo stesso compositore, per rileggere da capo a fondo la partitura del Fidelio. Per ben
sette ore, fino a notte inoltrata (così raccontano le cronache) l'opera fu letta e discussa: al
pianoforte c'era la principessa Lichnovsky con la collaborazione nelle parti melodiche del
violinista Franz Clement, dedicatario del Concerto per violino e orchestra di Beethoven; le
voci erano quelle del tenore August Roeckel che avrebbe poi interpretato la parte di Florestano
nelle riprese del Fidelio, e del già citato Mayer. Anzitutto si pensò, d'accordo con Beethoven,
di unire i primi tre atti in uno solo, ambientato nel cortile della prigione, sopprimendo tre pezzi
per ragioni di sintesi drammatica: un terzetto fra Rocco, Marcellina e Jacquino, un duetto tra
Leonora e Marcellina e l'aria del denaro, la cosiddetta "Goldarie", di Rocco. Nel secondo atto
furono tolti per motivi di struttura teatrale un quintetto e un'aria con coro di Pizarro, oltre a
sfrondare certi passaggi troppo virtuosistici nella parte di Leonora e a rifare l'ouverture. A
proposito di quest'ultimo argomento è bene ricordare che le ouvertures che vanno sotto il
nome di Leonora sono quattro: la prima scritta nel 1805 venne eseguita solo privatamente e
pubblicata postuma da Haslinger nel 1832 con il numero di opus 138 e con il titolo di
"Ouverture caratteristica"; la numero 2 è quella fatta conoscere pubblicamente nello stesso
1805: la numero 3, del 1806, è una rielaborazione più sintetica e compatta della numero 2 e
viene eseguita in sede scenica come un intermezzo strumentale fra il primo e il secondo
quadro del secondo atto, secondo una scelta felicemente imposta nel rispetto della dinamica
teatrale da due illustri direttori d'orchestra, Felix Motti e Gustav Mahler; la numero 4 è
l'ouverture destinata al Fidelio del 1814 e tuttora anteposta all'opera nelle esecuzioni moderne.
Ora, per tornare alla seconda versione del Fidelio si sa che essa andò in scena il 29 marzo 1806
al "Theater an der Wien" sotto la direzione d'orchestra di Ignaz von Seyfried e con la stessa
compagnia della prima edizione, tranne il nominato Roeckel nel ruolo di Florestano. L'opera
ebbe un successo di stima e non superò la terza rappresentazione (10 aprile). Stavolta non
c'erano ufficiali francesi in platea e allora perché il Fidelio stentò ad ottenere quel successo che
sarebbe venuto successivamente? Evidentemente le prove erano state insufficienti e i tagli non
avevano dato quella omogeneità drammatica al testo musicale. Fatto sta che Beethoven rimase
molto deluso e ritirò l'opera dal teatro, anche se alcune parti staccate per canto e pianoforte
vennero stampate ed eseguite in sede concertistica. La riscossa del Fidelio avvenne con la
terza versione del 1814, promossa dal regista della Hofoper, Georg Friedrich Treitschke e da
tre cantanti dell'Opera di corte di Vienna, Saal, Vogl e Weinmüller, che credevano nei valori
musicali di questo tormentato dramma beethoveniano.
Il musicista aveva stima di Treischke, anche perché aveva collaborato con lui ad un Singspiel
intitolato Die gute Nachricht (La buona novella) a celebrazione nell'aprile del 1814 della
vittoria delle monarchie europee contro Napoleone. Ne fa fede una lettera scritta al poeta dopo
le modifiche apportate al vecchio libretto del Fidelio, in cui si esprimono le ansie e le
preoccupazioni sofferte dal compositore per riuscire a realizzare un'opera di piena
soddisfazione per sé e per il pubblico. «Ho letto con grande piacere le sue correzioni all'opera -
scrisse Beethoven - e mi decido sempre più a fabbricare sulle deserte rovine di un antico
castello. Quest'opera mi acquisterà la corona del martirio; se ella non se ne fosse data tanta
premura e non vi avesse rimaneggiato tutto così felicemente, per cui la ringrazierò in eterno, io
non mi sarei potuto mettere al lavoro. Ella ha salvato ancora alcuni buoni resti di una nave
arenata». Treischke sfrondò ancora il libretto e gli chiede una forma più organica ai fini della
vicenda drammatica. Ad esempio, i primi due pezzi vocali furono invertiti, collocando prima il
duetto fra Marcellina e Jacquino e poi l'aria di Marcellina; il celebre coro dei prigionieri "O
welche Lust" (Ah! che piacer!) acquista nella nuova versione una fisionomia più rilevante con
il dolente addio alla luce; più stringente e incalzante risulta il dialogo tra Rocco e Fidelio
intenti a scavare la fossa che dovrebbe servire per rinchiudervi Florestano; il grido di Leonora
davanti al pugnale di Pizarro "Töt erst sein Weib" (Prima uccidi la sua donna) è affidato alla
sola voce e assume un risalto particolare, come pure il duetto di gioia tra Florestano e Leonora
"O namenlose Prende" (Felicità ineffabile) esplode in modo perentorio e travolgente, senza il
coro e il recitativo inseriti nella precedente edizione; a parte il recupero della "Goldarie" di
Rocco, soppressa fin dalla terza recita della prima versione, del tutto nuova è la scena con il
preludio, il coro e l'entrata di Fernando sulle parole "Es sucht der Bruder seine Brüder" (II
fratello cerca i fratelli), molto significativa per capire lo spirito umanitario dell'intera opera.
Così nella edizione definitiva il Fidelio venne rappresentato il 23 maggio 1814 al Teatro di
Porta Carinzia diretto da Beethoven assistito, perché già fortemente colpito dalla sordità, da
Michael Umlauf. Gli interpreti principali furono Anna Milder (Leonora), l'italiano Giulio
Radichi (Florestano), Saal (Fernando), Vogl (Pizarro) e Weinmüller (Rocco). Questa volta il
successo fu pieno e senza riserve, anche se la nuova ouverture non era pronta la prima sera e
venne sostituita da un'altra dello stesso Beethoven: c'è chi sostiene l'ouverture delle Rovine
d'Atene e chi parla di quella del Prometeo. La prima replica ebbe luogo il 26 maggio (per la
prima volta con la nuova ouverture) e poi ne seguirono altre il 2, il 4 e il 7 giugno, alle quali se
ne aggiunsero altre il 18 luglio e il 26 settembre: a quest'ultima recita assistettero re e ministri
convenuti a Vienna per il congresso della Restaurazione. Il 22 novembre il Fidelio fu eseguito
a Praga diretto da Weber; a Berlino giunse l'11 ottobre 1815; ad Amburgo il 22 maggio 1816 e
poi a Wiesbaden. Il lancio europeo dell'opera avvenne grazie alla superba interpretazione di
Wilhelmine Schroeder-Devrient, che la impose trionfalmente da Vienna (novembre 1822) a
Parigi e a Londra. In Italia il Fidelio approdò molto tardi, il 4 febbraio 1886 al Teatro Apollo di
Roma, sotto la direzione d'orchestra di Edoardo Mascheroni. Non mancarono articoli, saggi
critici e analisi sul valore "storico" di questa partitura. Per tutti basti citare quanto scrisse il
musicologo francese Jean Chantavoine (1877-1952) nel suo libro su Beethoven: «Per la forza
dell'accento drammatico, per l'esattezza della declamazione, per la libertà del dialogo musicale
nelle sue scene d'assieme, Fidelio è, come lo hanno proclamato Liszt, Wagner, Rubinstein, il
padre del dramma lirico moderno; la sua importanza nella storia della musica drammatica non
è inferiore a quella dell'Eroica nella storia della sinfonia».
Ecco il soggetto dell'opera, che si richiama al modello del Singspiel in quanto le parti cantate
si alternano a quelle recitate, così come nel Flauto magico mozartiano. Per salvare lo sposo
Florestano, incarcerato sotto l'accusa di un non ben precisato delitto politico da Pizarro,
governatore della prigione di Stato, Leonora si traveste da uomo con il nome di Fidelio e si fa
assumere come aiutante del vecchio custode del carcere, Rocco, destando involontariamente
l'amore di sua figlia Marcellina, della quale è invece innamorato il giovane Jacquino. Pizarro,
che si proponeva di lasciar morire il prigioniero di fame, avvertito di una imminente ispezione
del ministro Don Fernando, decide di uccidere egli stesso Florestano e ordina a Rocco di
scavare una fossa all'interno del carcere. Quando sta per compiere il suo misfatto Fidelio gli
punta contro la pistola. La tensione drammatica si trasforma in lieto fine: squilli di tromba
l'arrivo di Don Fernando; Pizarro è smascherato e Florestano si riunisce alla sposa,
inneggiando all'amore coniugale e al trionfo del bene e della fraternità fra gli uomini, un
concetto al quale il compositore ritornerà più tardi nella Nona Sinfonia.
Dopo l'ouverture vigorosa e tagliente nel ritmo, il primo atto inizia con il duetto tra Mancellina
e Jacquino e con l'aria di Marcellina "Ach wär ich schon mit dir vereint" (Ah, se io fossi unito
a te), in cui con eleganti passaggi melodici e armonici viene tratteggiato il clima piccolo-
borghese (la "Kleinwelt" viennese) della famiglia del carceriere Rocco. Il clima espressivo si
innalza con il quartetto a canone puntato sulle voci di Marcellina, Fidelio, Jacquino e Rocco
"Mir istso wunderbar" (È così meraviglioso), dove si ascolta già il battito cardiaco
beethoveniano. La canzone di Rocco sul potere del denaro, la cosiddetta "Goldarie", non si
discosta dai modelli conosciuti di musica settecentesca, né il trio successivo tra Marcellina,
Fidelio e Rocco, che nella versione primitiva annuncia l'arrivo di Pizarro, il duro e spieiato
governatore della prigione di Stato: l'orchestra sottolinea efficacemente il personaggio con
guizzanti accordi di settima diminuita e bruschi contrasti dinamici. Altrettanto espressivo è il
duetto tra Pizarro e Rocco, che raggiunge una notevole tensione psicologica nel passaggio dal
pianissimo in do maggiore sulle parole "Der kaum mehr lebt" (Egli è ancora vivo) di Rocco
all'esplosione in fortissimo che sottolinea la determinazione di Pizarro di eliminare Florestano
"Ein Stoss!" (Un sol colpo). Ed eccoci al momento culminante dell'atto con il grande recitativo
e l'aria di Leonora in cui si staglia in tutta la sua nobiltà questa figura di eroina senza paura.
L'atto si conclude con il magnifico coro dei prigionieri, anelanti all'aria libera e alla luce del
sole.
Il secondo atto è un blocco omogeneo e il fuoco drammatico divampa e brucia ogni scoria,
dalla commovente introduzione orchestrale fino ai luminosi accordi finali. È un susseguirsi di
quattro scene che costituiscono la struttura emblematica dell'opera e gli conferiscono una
straordinaria individualità teatrale: l'aria di Florestano languente nell'oscurità del carcere e
invocante il nome di Leonora "In des Lebens Frühlingstagen" (Nei giorni di primavera della
mia vita), che è la più bella in senso assoluto dell'intera opera; il melologo e duetto di Leonora
e Rocco, scesi nella prigione per scavare la fossa a Florestano; il terzetto in la maggiore in cui
Florestano chiede soccorso ed è riconosciuto e aiutato da Leonora; il magnifico quartetto,
contrassegnato dall'arrivo di Pizarro e culminante nel gesto aggressivo di Leonora che insorge
come una tigre a difesa del suo amato "Töt erstsein Weib": è la scena famosa in cui si distinse
l'arte interpretativa della Schroeder-Devrient, che fece impazzire d'entusiasmo la gioventù
romantica tedesca. Seguono un impetuoso e travolgente duetto di gioia di Leonora e
Florestano e il coro finale con tutti i personaggi inneggianti alla libertà e alla giustizia. Per
ritrovare però lo stupendo sinfonismo beethoveniano basti ascoltare l'ouverture Leonora n. 3,
che si interpola nel secondo atto come una lucente spada d'acciaio: essa è costruita sul
contrasto fra l'Adagio introduttivo, così carico di misteriosa attesa, e l'Allegro vigorosamente
possente che sboccia dal tema di Florestano e si espande in una luminosa progressione
armonica, la quale, dopo i radiosi e libertari squilli di tromba (un'idea di sicuro effetto
emotivo), irrompe come un magma vulcanico di impetuosa forza orchestrale, senza precedenti
nella storia del sinfonismo.
Ennio Melchiorre
Allegro; Adagio
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 2 tromboni, timpani, archi
Composizione: 1814
Edizione: Farrenc, Parigi 1826
Per il suo travagliato capolavoro teatrale Fidelio / Leonore Beethoven scrisse quattro
Ouverture: le cosiddette Leonore I, II, III, e l'Ouverture del Fidelio. Di queste quattro pagine
sinfoniche, differenti tra loro poco o sostanzialmente, la Leonore II aprì la rappresentazione
del 1805; la celeberrima Leonore III la ripresa, rivista e abbreviata, del 1806; e l'ultima, infine,
aprì la nuova versione del 1814 (la Leonore I, mai eseguita vivo Beethoven, pare sia stata
composta nel 1807 per una progettata esecuzione dell'opera a Praga, che poi non ci fu; anche il
titolo dell'opera è cambiato tre volte, da una versione all'altra).
Chi qui scrive è persuaso che, pur essendo il Fidelio / Leonore del 1805 già una grande opera,
l'ultima versione del 1814 sia la 'definitiva', sia cioè la più equilibrata e matura nel libretto e
nella musica, e che dunque la vera introduzione sinfonica al Fidelio sia l'ultima versione
dell'Ouverture, molto diversa dalla altre, più concisa e decisa, e legata al dramma solo
spiritualmente e non per anticipazioni tematiche: il che fa un effetto incomparabilmente
maggiore. La pratica, che si va diffondendo, di premettere al Fidelio la Leonore II e l'altra, più
nota e generalmente gradita (attribuita a Mahler a torto, perché era già in uso nell'Ottocento,
come sappiamo da Berlioz), di inserire la meravigliosa Leonore III come interludio prima del
quadro finale dell'opera, mi sembra facciano un sopruso all'integrità drammatica. Se per la
versione del 1814 Beethoven rinunciò alla Leonore III, cioè al capolavoro sinfonico che
sapeva di aver creato, fu perché comprese che quella musica grandiosa era troppo prepotente
(acutamente Donald F. Tovey disse che la Leonore III rendeva inutile il primo atto del Fidelio,
anticipandolo tutto e annientandolo).
Lo spirito di riscossa e di vigorosa speranza che anima l'opera è già intero nell'Ouverture in mi
maggiore. Essa si inizia con 22 battute che sono quasi una sigla dell'idea di forza morale che
nasce dal dolore, nell'immediato accostamento di Allegro (4 battute) / Adagio (8 battute),
quindi di nuovo Allegro (4 battute) / Adagio (ora, irregolarmente, 4 più 2 battute), in cui, tra
l'Allegro e l'Adagio, si contrappongono due disegni musicali, due modi espressivi, due colori
(orchestra intera / corni e legni). Un'estesa sezione modulante di 24 battute conduce, attraverso
si maggiore, alla riaffermazione della tonalità di mi maggiore (la tonalità della Hoffnung, della
speranza, nella grande aria di Leonore), conduce cioè al corpo dell'Ouverture, allo svolgimento
sinfonico vero e proprio, notevolmente conciso nei suoi elementi (esposizione dei due temi,
sviluppo, riesposizione, transizione alla coda). In esso la cellula ascoltata all'inizio diventa il
primo tema dell'organismo, ma non smarrisce la sua teatrale espressività perché conserva,
nella ritmica asciuttezza, il carattere di sfida ardimentosa. La transizione alla coda ripete
l'Adagio iniziale (corni e legni), meditativo e solenne, contrappuntato da un estatico disegno
all'acuto (clarinetto e flauto), quindi al basso (violoncelli), finché il tutto si effonde e dilata in
quattro luminosi accordi di cadenza come in un commosso sospiro di liberazione e di felicità.
Quindi un Presto esprime l'esultanza della vittoria.
L'Ouverture, o meglio la vicenda che essa simbolicamente esprime, celebra solo l'impulso alla
lotta e la felicità dell'azione, e dunque essa prepara la nostra disposizione morale all'sscolto,
ma non prefigura il dramma musicsle nei suoi contrasti (come facevano invece le altre
Ouverture Leonore). Infatti non ci si presentano in essa le due negazioni del principio di
fedeltà e di giustizia, che nel Fidelio sono la distruttiva ferocia dell'ambizione (Pizarro) e la
vile prudenza della vita modesta con le sue illusioni (Rocco e Marzelline) - le due negazioni
che la nobile Leonore affronta e vince nel dramma.
Franco Serpa
Musica di scena
WoO 2 1813
Brani orchestrali per la tragedia "Tarpeja" di Christoph Kuffner
https://www.youtube.com/watch?v=u9BfewEv5-g
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2/4 corni, 2 trombe, timpani, archi
Prima esecuzione: 26 marzo 1813
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1845
https://www.youtube.com/watch?v=-zNuTbsf3_4
Il progetto si era avviato dopò l'invito fatto nel 1799 a Beethoven dal coreografo italiano
(napoletano) Salvatore Viganò, allora capo del balletto di corte a Vienna. Viganò era una
celebrità internazionale, buon musicista (sua madre era sorella di Boccherini), originale
inventore e guida di balletti a Madrid, a Parigi, a Londra, Venezia, Vienna (qui in due periodi,
nel 1793-95 e dal 1799). Beethoven, che a Vienna nel 1799 era già un musicista di fama,
dovette sentirsi lusingato dall'invito, che era un riconoscimento sociale, e accettò: anche
perché una delle idee innovatrici di Viganò era quella di ottenere nella danza il massimo di
efficacia col sottomettere la gestualità scenica all'espressività dell'orchestra. Per Beethoven era
questa una buona premessa di collaborazione (quindi nello spettacolo da creare non ci
sarebbero state né stravaganze, né futilità, né lungaggini), come un accettabile presupposto era
il soggetto scelto, serio, morale, appassionante. E Prometeo, l'eroe impavido, il liberatore,
doveva essere per Beethoven figura ammirevole. Ma nel soggetto del nuovo balletto le
imprese più audaci dell'eroe sono già compiute ed egli appare come un idealista umanitario.
Qui, dunque, Prometeo con il fuoco sottratto agli dei riesce a dare vita a due statue di creta da
lui plasmate, un ragazzo e una fanciulla, ma non può dar loro ragione e sentimento. Deluso, il
Titano vorrebbe distruggere le statue, ma una voce interiore lo trattiene (atto I). Prometeo
conduce le sue fredde creature sul Parnaso dove Apollo, Bacco, Pan, le Muse, Orfeo, Arione,
con magie, musiche, danze, accendono nei due giovani affetti, emozioni e desiderio di gloria, e
ne fanno due nobili creature veramente umane. Dopo una peripezia la favola si conclude con
una festa generale (atto II). Tutto il balletto in due atti e in sedici scene dura circa un'ora.
Come ho detto, Beethoven si era messo al lavoro per diverse ragioni: oltre che per il tema in
sé, per il successo e la notorietà che potevano venirgliene e poi perché Viganò e il direttore
amministrativo dei Teatri di Corte, il barone Peter von Braun, presentavano il balletto come
omaggio all'imperatrice Maria Teresa. Il soggetto mitologico, con cui si intendeva esaltare «la
forza della musica e della danza», come è detto nel sottotitolo, era un tema degno, e dunque la
vicenda era nobile e tale da potersi confrontare, anche se da grande distanza, con il contenuto
sacro della Creazione di Haydn, ascoltata dai viennesi due anni prima, nel 1798, e sempre
universalmente ammirata. Anzi, uno scambio di idee tra i due geni sul nuovo balletto si ebbe
davvero, dopo una delle repliche del Prometeo nel 1802. «Ho sentito il Suo balletto e mi è
piaciuto molto» disse Haydn, e Beethoven: «Ella è molto generoso, buon papà, ma non si
tratta certo di una creazione». Haydn, allora, sorpreso e quasi risentito «Certo che non è una
Creazione e credo difficile che Ella ci possa arrivare». Dopo di che i due grandi, il settantenne
e il trentenne, si salutarono turbati.
Il balletto ottenne buon successo al Burgtheater, con quindici repliche nel 1801 (la prima
rappresentazione fu il 28 marzo 1801) e tredici nel 1802, poi non ebbe altre riprese finché
Beethoven fu in vita. Né egli deve essersene curato troppo dopo aver scosso e trasformato il
mondo della musica con la Terza Sinfonia "Eroica" (1803-4, prima esecuzione pubblica 7
aprile 1805). Non se ne curò, dicevo, anche perché un tema assai evidente nel Finale del
Prometeo era passato nel capolavoro.
Più di dieci anni dopo, per la prima rappresentazione del terzo Fidelio (23 maggio 1814),
Beethoven, che non aveva ancora concluso l'Ouverture dell'opera, vi premise l'Ouverture del
Prometeo, dichiarandosi poi insoddisfatto della scelta. La tradizionale classicità della sua
antica musica deve essergli suonata scarsa accanto alla sublimità del capolavoro drammatico.
Franco Serpa
https://www.youtube.com/watch?v=JZMl67XOoxE
Ouverture. Andante con moto (sol minore) - Allegro, ma non troppo (sol maggiore)
Organico: soprano, basso, coro misto, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, corno di
bassetto, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, percussioni, archi
Composizione: Teplitz, 15 settembre 1811
Prima esecuzione: Pest, teatro Imperiale, 9 febbraio 1812
Edizione: Artaria, Vienna 1846
Dedica: re Federico Guglielmo IV di Prussia
https://www.youtube.com/watch?v=LkhGG1ZiVDI
https://www.youtube.com/watch?v=h_QNk9VyKgw
https://www.youtube.com/watch?v=acW4kixhQj0
https://www.youtube.com/watch?v=G7J0SvmhScM
https://www.youtube.com/watch?v=mSQVWsQL-yE
Organico: soprano, voce recitante maschile, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4
corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1809 - 1810
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1810
La collocazione scenica degli altri pezzi musicali fu indicata dallo stesso Goethe: si tratta di
quattro Intermezzi orchestrali, del brano che descrive la morte di Chiaretta, del
«melodramma» per il sogno di Egmont e della Sinfonia di vittoria, che interviene dopo che il
sipario è calato sulla tragedia. Ci sono inoltre due Lieder di Chiaretta, che costituiscono due tra
le più belle liriche vocali scritte da Beethoven. In tutti questi pezzi è da notare, peraltro, la
stupenda orchestrazione: che, giovandosi dell'esperienza delle sei Sinfonie scritte fino allora
da Beethoven, ha il magico potere di evocare le figure dei protagonisti, l'ambiente dell'azione e
il clima psicologico della tragedia.
LIED DI CHIARETTA
Chiaretta intona una sua preferita canzoncina militare, le cui parole riportano il suo pensiero
all'amato Egmont.
INTERMEZZO I
Un brano che, nell'animazione dell'Allegro a note ripercosse e sincopi, sembra dipingere la
rivolta dei fiamminghi contro gli spagnoli e il rabbioso sgomento degli oppressori.
INTERMEZZO II
Commenta lo stato d'animo di Egmont dopo il colloquio con Guglielmo d'Orange, che
sembrava aver comunicato la sua ansia al protagonista.
LIED DI CHIARETTA
All'invito fattole dalla madre di accondiscendere all'amore di Brackenburg, Chiaretta risponde
con una canzone che esprime un candido e giovanile amore. Ancora una volta, il suo pensiero
è volto ad Egmont.
INTERMEZZO III
Un brano che segue al dialogo d'amore fra Egmont e Chiaretta: ma non c'è più l'atmosfera di
quel tenero momento: vi si preannuncia, invece, la prossima lotta del popolo fiammingo e la
sanguinosa repressione ordinata dal Duca d'Alba.
INTERMEZZO IV
Questo pezzo, in cui si alternano accenti dolorosi e guerreschi, sembra esprimere il presagio di
una tragedia imminente.
MORTE DI CHIARETTA
Condannato a morte, Egmont è in prigione. Chiaretta si uccide col veleno. La musica esprime
con intensa efficacia il doloroso episodio.
«MELODRAMMA»
Com'è noto, col termine di «melodramma» si designa qui un melologo; accoslamento di un
testo declamalo ad un accompagnamento strumentale. Egmont rinchiuso in carcere ha nel
sonno la visione della Libertà (nelle sembianze di Chiaretta). La musica ha carattere piuttosto
dolce e contemplativo. Ma quando Egmont si sveglia e riprende conoscenza della realtà il
commento orchestrale si fa eroico, con scoperto uso di trombe e segnali di guerra: rulli di
tamburi lontani gradalamente si avvicinano. La musica raggiunge il massimo della forza con le
ultime parole di Egmont: «E per salvare quello che vi è più caro, cadete con gioia, coma io ve
ne do l'esempio!».
SINFONIA DI VITTORIA
Dopo le ultime parole del monologo di Egmont, l'orchestra riprende l'inno trionfale costituito
dall'Allegro dell'ouverture, che qui, però, alla luce della musica già udita, acquista un
significato nuovo e di «effetto incomparabile».
Nicola Costarelli
Freudvoll und leidvoll e Die Trommel gerühret sono le due canzoni cantate da Klärchen,
l'amante di Egmont nell'omonima tragedia di Goethe, rispettivamente nel III e nel I atto.
Pubblicata nel 1788, Egmont è una delle opere goethiane che più hanno colpito Beethoven, di
origini nederlandesi, forse anche perché ne è protagonista un nobile fiammingo del
Cinquecento, capo degli oppositori del dominio degli spagnoli, arrestato e ucciso dal duca
d'Alba. Quando nel 1809 si accinse a musicarne alcune parti, i francesi avevano occupato
Vienna, e l'idea della liberazione dal dominio straniero era assai sentita, evidentemente anche
presso la direzione del Teatro di Corte di Vienna che gli offrì quale alternativa il Guglielmo
Tell di Schiller, notoriamente un'altra opera incentrata sul problema della libertà e
dell'autodeterminazione dei popoli. Ma Maynard Solomon rileva che sia in Fidelio sia in
Leonore Prohaska come poi nell'Egmont troviamo il tema - scottante ma ben dissimulato - del
travestimento di una donna da uomo: infatti Klärchen in Die Trommel gerühret desidera
mettersi una divisa e raggiungere l'amato nella battaglia. Questo Lied "militare" nell'originale
è a lungo accompagnato dai timpani in fa (e do), e nella strumentazione tra tutti i fiati, come
nell'ouverture dell'Egmont, spicca l'ottavino, sottolineandone il carattere marziale. Beethoven
teneva molto alla strumentazione come alla giusta resa musicale delle due canzoni; prima di
comporle si era accertato che l'attrice prevista per il ruolo di Klärchen nella prima viennese del
1810, Antonie Adamberger, sapesse veramente cantare. Se la predilezione beethoveniana per
certe atmosfere guerresche nella canzone Tamburi rullarono evita all'interprete preoccupazioni
per il dosaggio di sfumature, il discorso è diverso per Gioire e gemere, «una lirica d'amore che
si vorrebbe pur dire religiosa, tanta è la forza della volontà decisa nell'affermare una gioia
cosmica, una Weltfreude, come risoluzione del Dasein dissonante» (Mario Bortolotto), in cui
un pensoso "Andante con moto" è seguito da un conciso "Allegro assai vivace", un la
maggiore non lontano dagli entusiasmi della Settima.
Johannes Streicher
Testo
Tamburi rullarono
Tamburi rullarono
sonarono i pifferi.
Armato il mio amore
capeggia la schiera,
in alto la lancia,
su gli uomini impera.
Ho il cuore che batte,
ho il sangue al cervello!
Oh avessi un giubbetto,
calzoni e cappello!
Freudvoll
Und leidvoll,
Gedankenvoll sein,
Langen
Und bangen
In schwebender Pein,
Himmelhoch jauchzend,
Zum Tode betrübt,
Glücklich allein
Ist die Seele, die liebt.
Gioire e gemere
Gioire
e gemere
ravvolti in pensieri.
Bramare
e in trepido
tormento oscillare,
trilli alti al cielo,
nubi di morte.
Felice sola
è quell'anima che ama.
(Johann Wolfgang von Goethe) (traduzione di S. Benco)
Sostenuto ma non troppo. Allegro (fa minore)
Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1809 - 1810
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1810
Celebre uomo di guerra olandese, il conte di Egmont (1522-1568) servì negli eserciti di Carlo
V, per i suoi meriti fu nominato governatore e comandante generale delle Fiandre e dell'Arlois,
cercò un accordo tra cattolici e protestanti, e col suo atteggiamento fermo e dignitoso divenne
un punto di riferimento della resistenza fiamminga contro il governo spagnolo, invasore
personificato dal Duca d'Alba. Goethe ne fece il protagonista di una sua tragedia in cinque atti
del 1787, caratterizzandolo come un personaggio solido e sereno («l'essere di buon umore, il
pigliar le cose alla leggera e il vivere alla svelta, sono la felicità mia; e non la cambio con la
sicurezza di una volta sepolcrale»), che non rinnega il suo passato di militare («Per noi che
siamo anfibi neerlandesi, era un piacere sentirci nell'acqua, come per le ranocchie, e via
dunque a massacrare i nemici a mucchi nel fiume, a spazzarli a schioppettate come anitre»),
che accetta il ruolo di mediatore perché da un lato è fedele servitore della monarchia dall'altro
condivide le sofferenze del suo popolo. Eroe che rifiuta di fuggire davanti alla minaccia, che
non rinuncia al suo ideale di libertà, che viene giustiziato nonostante i tentativi della amata
Klärchen di mobilitare il popolo che lo aveva osannato e che alla fine lo abbandona. Eroe che
interpreta la sua morte come una vittoria sull'oppressione, lanciando un ultimo appello alla
lotta per l'indipendenza: «Proteggete i vostri beni! E per salvare quello che vi è più caro,
cadete con gioia, come ve ne dò io l'esempio!».
Quando Joseph Marti von Luchsenstein, direttore dell'Hofburgtheater di Vienna nel 1809
chiese a Beethoven, grande ammiratore di Goethe, di scrivere le musiche di scena per una
ripresa del dramma, il compositore accettò con entusiasmo (Beethoven scrisse una sola opera,
Fidelio, ma fu sempre attratto dal mondo del teatro come testimoniano l'Ouverture per il
Coriolan di Henrich Joseph von Collin, e le musiche di scena scritte per due lavori di August
von Kotzebue, Die Ruinen von Athen op. 113 e König Stephan op. 117). La stesura della
partitura, che comprende un'Ouverture e nove pezzi (quatto intermezzi, due Lieder per soprano
e orchestra, due "melodrammi", cioè scene recitate con accompagnamento strumentale, e una
Sinfonia di vittoria, che richiama i temi dell'Ouverture) iniziò nell'ottobre del 1809 e fu portata
a termine nel giugno del 1810, e il 15 dello stesso mese ci fu la prima esecuzione all'Hofburg-
theater. Il 12 aprile 1911 Beethoven scrisse a Goethe: «[...] riceverà presto da Lipsia, tramite
Breitkopf & Härtel, la musica per Egmont, questo magnifico Egmont che ho meditato, sentito
e tradotto in musica con lo stesso entusiasmo di quando l'ho letto. Desidero molto conoscere il
suo giudizio sulla mia musica. Anche se fosse di biasimo sarà proficuo per me e per la mia
arte, e sarebbe bene accetto come il più grande elogio». A Goethe la musica piacque, e rispose
a Beethoven sottolineando la perfetta coincidenza della musica con le sue idee poetiche. Il
compositore in effetti vedeva descritti nel dramma di Goethe quegli ideali morali di
derivazione kantiana, che gli erano sommamente cari, libertà, eroismo, sacrificio, volti a un
fine superiore e al bene comune, oltre al tema della morte di un eroe che lo aveva ispirato a
partire dalla giovanile Cantata per la morte dell'Imperatore Giuseppe II del 1790, e poi nella
Marcia funebre della Sonata op. 26, nell'Oratorio Christus am Ölberg op. 85, nella Sinfonia
"Eroica" (composta per «celebrare la memoria di un Grande»). «La vicenda individuale del
personaggio storico viene superata in un'omerica celebrazione di ogni oppresso che lotta per la
libertà. Per questa ragione si tratta di una delle composizioni in cui si manifesta più
compiutamente il nobile idealismo eroico dell'animo di Beethoven, alimentato dalla lettura dei
classici e dalla partecipazione appassionata agli eventi storici della sua età» (Mila).
Nell'Ouverture, in fa minore, costruita sullo stesso modello Lento-Allegro dell'Ouverture del
Coriolan, Beethoven rispetta i principi della forma-sonata, ma trasfomando la musica in un
condensato dell'azione sia sul piano drammatico che su quello psicologico, imprimendovi un
carattere eloquente e commovente, evitando però la magniloquenza per mettere in evidenza la
fierezza e la dignità del suo protagonista. L'introduzione lenta (Sostenuto ma non troppo) si
apre con un accordo all'unisono di tutta l'orchestra, poi si muove alternando gli accordi gravi
degli archi e gli accenti imploranti degli strumenti a fiato, poi lascia emergere una breve frase
lirica, sostenuta dal ritmo insistente degli archi e dei timpani. L'Allegro, che corrisponde al
momento della lotta, è percorso da un'energia selvaggia ed è abilmente costruito da una serie
di motivi, ciascuno ricavato da una cellula già ascoltata precedentemente. Gli archi sono
trascinati in un grande crescendo, fino a che una transizione modulante dal maggiore al minore
affievolisce la tensione e introduce un tema che è una variante del primo tema
dell'introduzione e che ripropone la contrapposizione tra archi e fiati. Dopo lo sviluppo, che
genera lo stesso clima di tensione e attesa dell'introduzione, la ripresa è prolungata da una
coda, ancora giocata sulla opposizione timbrica e dinamica tra il fortissimo di quattro corni e
una frase dolente degli archi. Tutto improvvisamente si arresta su un accordo in pianissimo, un
momento di calma prima del crescendo e dell'accelerazione ritmica che sfociano su una
fanfara gioiosa dei fiati che coincide con il trionfo degli ideali dell'eroe.
Gianluigi Mattietti
«L'Ouverture», — come asserisce G. Weber — è uno specchio magico che riflette i punti
salienti della tragedia di Goethe; l'impeto che distingue il complesso dell'azione, la nobile
grandezza dell'eroe, la tenerezza del suo amore, i lamenti di Chiarina (la fanciulla amata
dall'eroe), la g loria e l'apoteosi dell'eroe che cade senza essere piegato.
«Se devo cadere — egli asserisce nella tragedia — che sia un colpo di tuono, un turbine a
precipitarmi nell'abisso».
La morte fisica dell'eroe, assertore gigante degli ideali di libertà non può, tuttavia, essere
considerata sconfitta ed ecco risuonare, a conclusione della dinamica Ouverture, le fanfare di
una trionfale apoteosi, rigate dalla striature fulminee degli ottavini.
Vincenzo De Rito
WoO 94 1814
Germania
https://www.youtube.com/watch?v=Hfomdw04Ldg
Organico: basso, coro misto, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1814
Prima esecuzione: Vienna, Teatro di Porta Carinzia, 11 aprile 1814
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1864
Utilizzata come coro finale dell'opera Die gute Nachricht (La buona notizia) di Friedrich
Treitschke
Il 31 marzo 1814 il generale prussiano Leberecht von Blücher penetrava in Parigi alla testa
delle truppe alleate. Era (o meglio sembrava) l'ultimo atto della guerra e Vienna, la città che
aveva dovuto subire due volte l'ignominia dell'occupazione francese fu sommersa dall'euforia.
Ne fu coinvolto pure Beethoven, al quale venne chiesto di partecipare all'allestimento di uno
spettacolo drammatico musicale per festeggiare adeguatamente e tempestivamente il lieto
avvenimento. Data l'urgenza, si assegnò il compito di scrivere il testo ad un drammaturgo di
pronto soccorso come Friedrich Treitschke e quello di rivestirlo di note a tutto un gruppo di
compositori locali.
In pochi giorni, superando ogni altro precedente primato di velocità, Treitschke imbastì un atto
unico intitolato La buona notizia e ambientato alla stessa epoca, addirittura quasi nello stesso
momento in cui doveva venire rappresentato. Senza grande sforzo di fantasia, il poeta inventò
una trama stereotipata di Singspiel non priva di somiglianze con le prime scene di quel Fidelio
che stava giusto rimaneggiando sotto il controllo di Beethoven. L'azione si svolge in una
località di provincia della Renania. Annina figlia di Bruno, titolare dell'osteria Al ramo
d'alloro, è innamorata di Roberto, mugnaio e sergente di truppa, ma il padre preferirebbe che
sposasse Dolciastro, negoziante di spezie, apparentemente facoltoso e di maniere raffinate (usa
come intercalari parole francesi). Roberto è però spalleggiato dal capitano Attaccante, mutilato
di guerra, per il quale Bruno, buon patriota e attento osservatore di vicende belliche, nutre
grande stima. Per togliersi dagli impicci, l'oste decide di assegnare la mano della figlia a quello
dei due pretendenti che gli porterà per primo la notizia della vittoria degli alleati. Grazie
all'impiego, non troppo corretto, di un colombo viaggiatore, la lettera di Roberto con l'atteso
annuncio precede quella del rivale. Per giunta si scopre che Dolciastro è ricco solo di debiti.
Ha vinto l'amore insieme con gli alleati e gli avventori del Ramo d'alloro intonano a mo' di
conclusione un coro di lode alla Germania e ai tre monarchi fautori della sua rinascita.
Divisa in due parti, la prima delle quali ritornellata, la breve pagina vede il solista (Bruno)
intonare le strofe e il coro ripeterle sulla stessa melodia. Questa è basata sui ritmi puntati, di
prammatica nella musica celebrativa, e scorre nell'ambito della tonalità di si bemolle maggiore
e relativa dominante. Qualche guizzo orchestrale, in particolare una frase più lirica
alternativamente enunciata dagli archi e dai legni, annega in un contesto un po' ovvio, con
momenti di scoperta retorica nazionale, come la nota con corona sull'enfatica invocazione
all'imperatore Francesco.
Eseguita l'11 aprile 1814, quindi a soli dieci giorni dall'evento storico, nel teatro di Porta
Carinzia, La buona notizia trovò nel rasserenato pubblico viennese un favore certo superiore ai
suoi meriti e venne replicata cinque volte fino al 7 maggio. In tutte le rappresentazioni il ruolo
di Bruno fu sostenuto da Weinmüller, il basso che poche settimane dopo avrebbe interpretato
nello stesso teatro la parte, più onorevole, di Rocco nella versione definitiva di Fidelio.
Testo
Germanias Wiedergeburt
Germania! Germania!
Wie stehst du jetzt im Glänze da!
Zwar zogen Nebel um dein Haupt,
Die alte Sonne schien geraubt,
Doch Gott der Herr ward helfend nah.
Preis ihm! Heil dir, Germania!
Germania! Germania!
Wie stehst du neu in Jugend da!
Zum zweyten Leben, frisch und schön,
Liess Alexander dich erstehn,
Als ihn die Newa scheiden sah.
Preis ihm! Heil dir, Germania!
Germania! Germania!
Wie stehst du jetzt gewaltig da!
Nennt deutscher Mund sich deutsch und frey,
klingt Friedrich Wilhelm Dank dabey,
Ein Wall von Eisen stand er da,
Preis ihm! Heil dir, Germania!
Germania! Germania!
Wie stehn der Fürsten Schaaren da!
Von alter Zwietracht keine Spur,
Getreu den Banden der Natur,
So kommen sie von fern und nah.
Preis ihnen! Heil, Germania!
Germania! Germania!
Wie stehst du ewig dauernd da!
Was Sehnsucht einzeln still gedacht,
Wer hat's zu Einem Ziel gebracht?
Franz, - Kaiser Franz - Victoria!
Preis ihm! Heil dir, Germania!
Germania! Germania!
Come splendida ora tu sei!
Nuvole passavan intorno al tuo capo,
rapito ci sembrò il vecchio sole,
ma il Signore Iddio ci ha assistito.
Sia lode a lui! Salute a te, Germania!
Germania! Germania!
Come nuova tu sei nella tua gioventù!
A una seconda vita, fresca e bella,
ti ha fatto risorgere Alessandro,
quando la Neva lo vide partire.
Sia lode a lui! Salute a te, Germania!
Germania! Germania!
Come potente ora tu sei!
Ogni bocca tedesca si dice tedesca e libera,
e vi aggiunge il suo grazie a Federico Guglielmo,
egli era come un baluardo d'acciaio.
Sia lode a lui! Salute a te, Germania!
Germania! Germania!
Come stanno le schiere dei principi!
Della vecchia discordia nessuna traccia,
fedeli ai vincoli della natura,
essi accorrono da presso e da lontano.
Sia lode a loro! Salute a te, Germania!
Germania! Germania!
Come eterna tu duri!
Ciò che pochi in silenzio avevan pensato,
chi l'ha portato alla meta?
Francesco, - l'imperatore Francesco - Vittoria!
Sia lode a lui! Salute a te, Germania!».
(Traduzione di Antonio Bruers)
https://www.youtube.com/watch?v=HhzOmL8EX0E
Organico: coro, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, 3 tromboni,
timpani, archi
Prima esecuzione: Vienna, Josephstadttheater, 3 ottobre 1822
Questa composizione insieme all'ouverture op. 124, al coro WoO98 e ad altri brani tratti da
"Le rovine di Atene" costituiscono la cosidetta "Die Weihe des Hauses" (La consacrazione
della casa) rimasta senza numero di opus
WoO 96 1815
Musica per il dramma "Leonore Prohaska" di Friedrich Duncker
https://www.youtube.com/watch?v=Ku1RKFbXq70
Coro dei guerrieri: Krigerchor: Wir bauen und sterben (si bemolle maggiore)
Romanza: Es blüht eine Blume (sol maggiore)
Melodramma: Du, dem sie gewunden (re maggiore)
Marcia funebre (si minore)
Organico: soprano, voce recitante, coro maschile, 2 flauti, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni,
timpani, arpa, armonica, archi
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
La Marcia funebre è una orchestrazione della sonata per pianoforte n. 12 Op. 26
Op. 124 1822
Ouverture "Die Weihe des Hauses" (La consacrazione della Casa) in do maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=P3Hehy1y9Jg
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, archi
Composizione: 1822
Edizione: Schott, Magonza 1825
Dedica: Principe Galitzin
L'Ouverture, infatti, si staglia nettamente rispetto agli altri pezzi di circostanza, imponendosi
come uno dei brani più importanti e significativi di un autore che, nello stesso momento
creativo, andava elaborando la Nona Sinfonia e la Missa Solemnis. A questa Ouverture,
pubblicata come op. 124, è apposto il titolo dell'intera pièce, Die Weihe des Hauses, tradotto
solitamente come "La consacrazione della casa", laddove una traduzione più aderente sarebbe
quella di "L'inaugurazione del teatro"; e infatti non di rado, ai nostri giorni, in ricordo della
destinazione originaria, questa pagina viene usata nell'inaugurazione di nuovi teatri e sale da
concerto. Per comprendere nella giusta luce il contenuto musicale della partitura occorre rifarsi
alla testimonianza di Schindler, amico e confidente del maestro, secondo il quale Beethoven
gli avrebbe parlato di due temi, uno da svolgere liberamente (e poi scartato), l'altro (poi
prescelto) da trattare in stile fugato alla maniera di Händel. Più in generale, secondo Schindler,
"il maestro aveva lungamente accarezzato il progetto di comporre una Ouverture in stretto stile
contrappuntistico e, in modo particolare, in stile händeliano".
A differenza della musica di Bach, la cui circolazione era legata a stretti circoli di intenditori, e
rimaneva comunque assai parziale, la musica di Händel aveva conosciuto, a cavallo del secolo,
una certa diffusione, non solo in Inghilterra, dove erano invalse le esecuzioni oceaniche del
Messiah e di altri lavori, ma anche nei paesi tedeschi, dove fra l'altro ebbe ampia circolazione
una edizione a stampa dell'integrale di Händel varata da Samuel Arnold, di cui uscirono 180
volumi fra il 1787 e il 1797, edizione largamente incompleta ma comunque indicativa di una
tendenza. Lo stesso Mozart, che negli ultimi anni di vita aveva trascritto ben quattro Oratori di
Händel, aveva subito, nella Zauberflöte e nella Clemenza di Tito, la netta influenza dello stile
cerimoniale dei cori händeliani. Logico che anche Beethoven rimanesse coinvolto
nell'ammirazione per il genio di Händel, e che, chiamato ad onorare una circostanza solenne, si
richiamasse allo stile celebrativo per eccellenza. Ecco dunque che l'Ouverture di Die Weihe
des Hauses possiede come elemento centrale proprio quello contrappuntistico, con
l'inseguimento delle voci in una scrittura fugata; ma c'è anche la ricerca di sonorità grandiose e
solenni, tipiche di un certo modo di intendere la musica di Händeldel. Tuttavia sarebbe un
errore considerare questo come un pezzo à la manière de; al contrario, vi è una completa
assimilazione e rielaborazione dello stile di Händel, che si qualifica come operazione di
grande consapevolezza intellettuale, un gioco di specchi fra passato e presente.
Arrigo Quattrocchi
WoO 98 1822
Wo sich die Pulse
https://www.youtube.com/watch?v=mc-6GChK7I8
Coro in si bemolle maggiore per "Die Weihe des Hauses" (La consacrazione della casa)
Organico: soprano, coro misto, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, tromba, timpani,
archi
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
Varie
Danze
WoO 14 1802
12 Contraddanze
https://www.youtube.com/watch?v=AdyLCJGTC_I
per orchestra
Do maggiore
La maggiore
Re maggiore
Si bemolle maggiore
Mi bemolle maggiore
Do maggiore
Mi bemolle maggiore
Do maggiore
La maggiore
Do maggiore
Sol maggiore
Mi bemolle maggiore
WoO 8 1795
Danze tedesche
https://www.youtube.com/watch?v=pKMbudFohKs
Allemanda in do maggiore
Allemanda in la maggiore
Allemanda in fa maggiore
Allemanda in si bemolle maggiore
Allemanda in mi bemolle maggiore
Allemanda in sol maggiore
Allemanda in do maggiore
Allemanda in la maggiore
Allemanda in fa maggiore
Allemanda in re maggiore
Allemanda in sol maggiore
Allemanda in do maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=N0nU0NPS-7c
Allemande in re maggiore
Allemande in si bemolle maggiore
Allemande in sol maggiore
Allemande in re maggiore
Allemande in fa maggiore
Allemande in si bemolle maggiore
Allemande in re maggiore
Allemande in sol maggiore
Allemande in mi bemolle maggiore
Allemande in do maggiore
Allemande in la maggiore
Allemande in re maggiore
Organico: orchestra
Edizione: Strache, Vienna 1929
La partitura per orchestra è perduta, resta solo la riduzione per pianoforte
WoO 42 1796
Sei danze tedesche
https://www.youtube.com/watch?v=zPa33WulSno
per violino e pianoforte
Allemande in fa maggiore
Allemande in re maggiore
Allemande in fa maggiore
Allemande in la maggiore
Allemande in re maggiore
Allemande in sol maggiore
WoO 11 1798
7 Ländler in re maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=3GiPmGbvwwA
Organico: pianoforte
Edizione: Artaria, Vienna 1798
La versione originale per 2 violini e violoncello è andata perduta
https://www.youtube.com/watch?v=9x4cSOvGctI
Ländler in re maggiore
Ländler in re maggiore
Ländler in re maggiore
Ländler in re minore
Ländler in re maggiore
Ländler in re maggiore
WoO 7 1795
12 Minuetti
https://www.youtube.com/watch?v=VCcPA1ctLFk
Minuetto in re maggiore
Minuetto in si bemolle maggiore
Minuetto in sol maggiore
Minuetto in mi bemolle maggiore
Minuetto in do maggiore
Minuetto in la maggiore
Minuetto in re maggiore
Minuetto in si bemolle maggiore
Minuetto in sol maggiore
Minuetto in mi bemolle maggiore
Minuetto in do maggiore
Minuetto in fa maggiore
Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Prima esecuzione: Vienna, Redoutensaal, 22 novembre 1795
Edizione: Artaria, Vienna 1795
Commissionati dalla Gesellschaft der bildenden Künstler (Società degli artisti delle arti
figurative)
WoO 10 1795
6 Minuetti
https://www.youtube.com/watch?v=lm_OzGBZ4WI
4. Minuetto in do maggiore
5. Minuetto in sol maggiore
6. Minuetto in mi bemolle maggiore
7. Minuetto in si bemolle maggiore
8. Minuetto in re maggiore
9. Minuetto in do maggiore
10. Organico: orchestra o pianoforte solo
1. Edizione: Artaria, Vienna 1795
1. La versione orchestrale è perduta, resta solo la versione per pianoforte
WoO 83 1806
6 Scozzesi in mi bemolle maggiore per pianoforte
https://www.youtube.com/watch?v=QKpENMmrkOE
Organico: pianoforte
Edizione: Traeg, Vienna 1807
https://www.youtube.com/watch?v=299IRzhW7tY
sol maggiore
do maggiore
Organico: 3 voci
Edizione: Apparsi in Beethoven's Studien, Vienna 1832
https://www.youtube.com/watch?v=tXmkfWw7nQY
Massig
Organico: 4 voci
Composizione: 1 Gennaio 1820
Edizione: apparso in Briefe B's, Stuttgart 1865
Dedica. Arciduca Rodolfo
https://www.youtube.com/watch?v=fIfoKVAB9eE
https://www.youtube.com/watch?v=3CM69Q-HDu4
https://www.youtube.com/watch?v=aBTqw5MyVAc
Canone enigmatico a cinque voci in do maggiore
Terza versione
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1962
Dedica: Sir George Smart, direttore della Filarmonica di Londra
Vedi al n. WoO 170 la prima versione ed al n. WoO 192 la seconda
https://www.youtube.com/watch?v=ffKIKM5lytY
https://www.youtube.com/watch?v=huazyr2xXVU
https://www.youtube.com/watch?v=OgwxVOIEQfc
https://www.youtube.com/watch?v=FYEkP3F_PYM
https://www.youtube.com/watch?v=73Iupgtuqc0
https://www.youtube.com/watch?v=OZaAKlCcGfA
https://www.youtube.com/watch?v=iXs58g_60ww
https://www.youtube.com/watch?v=0lSBGMw0E4Y
WoO 35 1825
Duetto per violini in la maggiore "Kleines Stück"
https://www.youtube.com/watch?v=IVxwblZcDRA
Organico: 2 violini
Edizione: apparso in Neue Briefe Beethoven's di L. Nohl, Stuttgart 1867
Dedica: Otto de Boer
https://www.youtube.com/watch?v=nwGDmuKCths
Organico: 6 voci
Edizione: Strauss, Vienna 1823
Dedica: Louis Schlosser
https://www.youtube.com/watch?v=q1Lokp-Gahs
Schnell, im Eifer
Organico: 4 tenori
Edizione: apparso in Briefe B.'s, Stuttgart 1865
Dedica: Ignaz "Hofkriegsagent" Dembscher
https://www.youtube.com/watch?v=RJFiwTAxcl4
https://www.youtube.com/watch?v=gNLmKRUP63o
Presto
https://www.youtube.com/watch?v=BNrrkL-KJ4A
Massig schnell
Organico: 2 voci
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
Dedica: Theodor Molt
https://www.youtube.com/watch?v=V-xYmpvOGG8
https://www.youtube.com/watch?v=E4lHHm5rEzw
https://www.youtube.com/watch?v=OJA_O84YgWM
https://www.youtube.com/watch?v=cBqirqvSq6M
Canone a quattro voci in si bemolle maggiore
Organico: 4 voci
Edizione: apparso in Briefe B.'s, Stuttgart 1865
Dedica: Maurice Schlesinger
https://www.youtube.com/watch?v=cP8JERTNo9I
https://www.youtube.com/watch?v=98NP_BM3ApM
https://www.youtube.com/watch?v=BITssZRS5KQ
https://www.youtube.com/watch?v=NUC--CV9ddo
Moderato
Edizione: Katalog der 36 Autografenversteigerung, Berlino 1906
Dedica: Oberst von Düsterlobe
https://www.youtube.com/watch?v=-UTv7lFpaO8
https://www.youtube.com/watch?v=1aZSo8SDTPg
https://www.youtube.com/watch?v=JaXa2INicyg
https://www.youtube.com/watch?v=kWmix3p4D5k
https://www.youtube.com/watch?v=j4uiVvIev-c
Canone a tre voci in mi bemolle maggiore
Organico: 3 voci
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1863
Dedica: Vincenz Hauschka
https://www.youtube.com/watch?v=1LmMkTzRfoU
https://www.youtube.com/watch?v=Zo3WLHrvknk
https://www.youtube.com/watch?v=mbAMhVnVJbw
https://www.youtube.com/watch?v=hLTqVhJ93oA
https://www.youtube.com/watch?v=UCGh9UnaTCY
https://www.youtube.com/watch?v=JWex5Y0UFUc
https://www.youtube.com/watch?v=e9J0XeC8mcM
https://www.youtube.com/watch?v=vkcdixZMw90
https://www.youtube.com/watch?v=gU-j--JWZdc
https://www.youtube.com/watch?v=lNV5qb6pWcU
Testo
https://www.youtube.com/watch?v=wcLD_LN2N_o
https://www.youtube.com/watch?v=eCAVEo2r0oQ
Organico: 2 voci
Composizione: 2 giugno 1824
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
Dedica: Carlos Evasio Soliva
https://www.youtube.com/watch?v=41KETXPo8WA
https://www.youtube.com/watch?v=jU9x0xczrv4
Composizioni varie
https://www.youtube.com/watch?v=Rmxpls_uAOc
https://www.youtube.com/watch?v=ODa1eOVTMxM
WoO 33 1799
5 Brani per orologio meccanico
https://www.youtube.com/watch?v=v0V5GwMNH58
https://www.youtube.com/watch?v=TS4B7JUjOpw
Scherzo in fa maggiore
Compare al 27 settembre 1823 nell'album di Marie Pachler-Koschak
WoO 31 1783
Fuga a due voci per organo
https://www.youtube.com/watch?v=xbQJxU0TxQU
In geschwinder Bewegung
Organico: organo
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1888
https://www.youtube.com/watch?v=JtmxapLHBJk
Composizioni incompiute
https://www.youtube.com/watch?v=ewYIN0suTbI
https://youtu.be/ZE2e34MqPeA
https://www.youtube.com/watch?v=hCCsVQHgNec
...
Allegretto
Organico: pianoforte
Edizione: Apparsi in "Beethoven's Briefe", Berlino 1909
Dedica: Franz Wegeler
Incompiuti
WoO 131 1796
Erlkönig (Il re degli elfi)
https://www.youtube.com/watch?v=jSXZ1GhS6w0
https://www.youtube.com/watch?v=eDIVjNQtmy0
https://www.youtube.com/watch?v=kkncHMrRSTA
https://www.youtube.com/watch?v=ZFuTwUM0qKs
https://www.youtube.com/watch?v=dqu58ohRQfA
Allegro vivace
Organico: pianoforte
Edizione: Diabelli, Vienna 1828
Rimasto incompiuto, è stato teminato da Diabelli al momento dell'edizione
https://www.youtube.com/watch?v=rjDf5lXiPkk
Allegro
Adagio (fa maggiore)
Organico: pianoforte
Edizione: Dunst, Francoforte 1830
Dedica: Eleonora von Breuning
Incompiuta
WoO 9 1795
6 Minuetti
https://www.youtube.com/watch?v=nbUobmf6rI8
WoO 12 1799
12 Minuetti per orchestra
https://www.youtube.com/watch?v=VCcPA1ctLFk
Minuetto in do maggiore
Minuetto in la maggiore
inuetto in re maggiore
Minuetto in fa maggiore
Minuetto in si bemolle maggiore
Minuetto in mi bemolle maggiore
Minuetto in do maggiore
Minuetto in fa maggiore
Minuetto in re maggiore
Minuetto in si bemolle maggiore
Minuetto in mi bemolle maggiore
Minuetto in do maggiore
Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, tamburo
turco, grancassa, archi
Edizione: Heugel, Parigi 1906
Sembra che vada attribuito a Carl van Beethoven
WoO 16 1806
Dodici Scozzesi per orchestra
https://www.youtube.com/watch?v=hvzIC2TtKkw
WoO 17 1819
Undici danze "Mödling"
https://www.youtube.com/watch?v=eVQ7cStvToU
https://www.youtube.com/watch?v=zzpQAtOmMhQ
Allegro commodo
Larghetto sostenuto (do minore)
Rondò. Allegretto
https://www.youtube.com/watch?v=XSvf1SAvKCc
Allegro affettuoso
Aria. Larghetto (re minore)
Rondò. Allegretto moderato
https://www.youtube.com/watch?v=Rtn24c8u9aU
Allegro sostenuto
Aria con variazioni. Andantino con moto
https://www.youtube.com/watch?v=1sVF_TYzEJg
Op. 63 1806
Trio per pianoforte in mi bemolle maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=19Zm9I8Dnew
https://www.youtube.com/watch?v=xtzr-__7I6E
https://www.youtube.com/watch?v=D3eTKJtt97Y
https://www.youtube.com/watch?v=6ttshcRYPos