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INTRODUZIONE

CENNI STORICI
L’interprete è una figura indissolubile dall’essenza della musica stessa, che si è evoluta nella
storia. Il graduale sdoppiarsi della personalità del musicista nelle figure del compositore da
una parte e dell’interprete dall’altra ebbe tuttavia il suo compimento totale non prima
dell’Ottocento avanzato, epoca che vide infatti l’affermazione di un vero e proprio
professionismo esecutivo solistico, unito a forme di virtuosismo esibizionistico analoghe a
quelle che da oltre due secoli si avevano sulla scena operistica, soprattutto italiana. Nella
stessa epoca sale sul podio un nuovo tipo di interprete, il direttore d’orchestra. Prima con
Spontini, Spohr, Weber, Mendelssohn, Wagner, Liszt in Germania; Habeneck e Berlioz in
Francia; più tardi con Mariani e Faccio in Italia; successivamente con la numerosa schiera di
direttori non più compositori (e molti ‘specializzati’ come i direttori wagneriani),
all’interpretazione, fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, sarà riservata un’importanza
preminente nella vita musicale. Questi cambiamenti sono strettamente collegati con i grandi
accadimenti spirituali e sociali che segnano la storia tra il Settecento e l’Ottocento in Europa.
Fin quasi a tutto il XVIII secolo, la musica, era stata ad appannaggio, quasi esclusivamente,
del ceto aristocratico, oltre che della chiesa e di alcune istituzioni civiche. Fu nel passaggio
dal XVIII al XIX secolo che (grazie alla spinta politica, sociale, estetica, di costume, derivata
dalla rivoluzione francese, dall’esaltazione romantica dell’individualità creatrice, dalla presa
di coscienza nei popoli degli ideali di libertà e di nazione) la musica poté definitivamente
liberarsi dal proprio stato di ‘servizio’, e dilagò entro le vaste sale da concerto aperte a tutti. E’
grazie quindi all’evoluzione della tecnica e dell’arte musicale che si svilupparono le figure
dell’esecutore di professione e di uno specialista in grado di dirigere un’orchestra.

L’ AUFFÜHRUNGSPRAXIS
L’ Aufführungspraxis, o prassi dell’esecuzione musicale, è uno dei rami più importanti della
musicologia germanica. Il suo scopo è quello di fornire gli elementi obiettivi
all’interpretazione L’esecuzione di un’opera musicale è tuttavia sottoposta a variabili, che
mutano nel tempo e nello spazio, così come nel tempo e nello spazio variano appunto i
rapporti tra autore, interprete e pubblico. Se la notazione costituisce quell’insieme di
indicazioni fornite dal compositore per l’esecuzione della propria opera da parte

Per la realizzazione di questo capitolo si è consultato: LA MUSICA ENCICLOPEDIA STORICA sotto la
direzione di Guido M. Gatti a cura di Alberto Basso Unione tipografico – editrice torinese Vol. II
“Interpretazione musicale” di Giorgio Graziosi pagg.767-778

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dell’interprete, occorre tuttavia tener presente che queste informazioni hanno presentato in
passato, e presentano tuttora, gradi diversi e difformi di univocità, completezza, prescrittività,
così come è diverso il numero dei parametri sonori che esse investono. Ciò è dovuto in parte
al trascorrere delle convenzioni, ai mutamenti sociali delle esigenze comunicative, del gusto e
delle possibilità normative della scrittura, e in parte è imputabile a prese di posizioni estetiche
o, alla personalità stessa dei singoli compositori. Le variabili relative alla prassi esecutiva
riguardano essenzialmente questioni di tempo (scelta del tempo metronomico), ritmiche,
dinamico - agogiche, di diteggiatura, melodiche (l’ornamentazione), quando non investono,
come accade quando si vada indietro nel tempo e la notazione appaia ai moderni esecutori
vaga e imprecisa, questioni contrappuntistiche o improvvisative. La prassi esecutiva finisce
con il rappresentare l’elemento caratterizzante di ciò che va sotto il nome di interpretazione
musicale senza però intervenire sulle verità musicali soggettive dell’ interprete e sul suo buon
gusto.

LA RICOSTRUZIONE DELLE PRASSI ESECUTIVE STORICHE


I riferimenti cui gli esecutori e gli studiosi possono attingere per la ricostruzione di una prassi
esecutiva il più possibile filologica e realistica sono comunque numerosi: la storia e
l’organizzazione delle istituzioni musicali pubbliche, private, la storia sociale, la storia del
pensiero musicale, l’organologia, la storia della scienza e della tecnica, l’iconografia
musicale; l’architettura dei luoghi musicali, l’acustica ambientale, la paleografia musicale,
l’analisi musicale, la significazione e la retorica della musica, le istruzioni contenute nelle
edizioni originali (comprese prefazioni e dedicatorie), la trattatistica e la manualistica, i
riferimenti più o meno professionali presenti in fonti letterarie e cronachistiche, la
sopravvivenza di pratiche musicali oggi d’interesse etnologico. Grazie a questo insieme di
fonti è possibile farsi un’idea di realtà musicali solo parzialmente identificabili in un testo
scritto, e in larga parte affidate a consuetudini di fatto e all’invenzione dell’esecutore.
Nonostante ciò, è proprio in epoche recenti che pare essersi generata la sottile, ma decisiva
questione della distinzione tra semplice esecuzione e interpretazione (accentuando
maggiormente il dato dell’espressione), che coinvolge qualità personalissime e difficilmente
sondabili e situazioni mutevoli in termini emotivi anche da parte del fruitore. Ma non è da
credere che nell’Ottocento i musicisti si astenessero dall’introdurre fioriture, o cambiamenti

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nelle melodie. Bisognerà attendere un Bulow nell’ambito direttoriale, e un Joachin  in quello
solistico e quartettistico, perché si possa considerare stabilmente entrato nella prassi esecutiva
il principio della fedeltà e del rispetto sia alla lettera che allo spirito dell’autore da
interpretare.
Negli ultimi cento anni, con tutti i grandi interpreti che ci sono stati, con tutte le diverse
teorie, le scuole, gli stili interpretativi, l’aspetto che sembra dominare è il divieto di tradire la
partitura, lo spartito, per il quale invece è richiesto il massimo ossequio. Inoltre, nella prima
metà del Novecento, la musicologia, la storiografia hanno cercato di eliminare ogni capriccio
da parte degli esecutori; ed è entrato nella coscienza di ogni interprete (o trascrittore o critico
o musicologo) che una pagina di Stravinskij, così come di Monteverdi o Palestrina, costituisce
un dato obbiettivo di valore assoluto. Nel Novecento l’interprete ha ulteriormente accentuato
le tendenze divistiche e ha mostrato maggior tendenza alla specializzazione, sia con la
rinuncia all’attività compositiva, sia con le scelte di repertorio. Eppure, nonostante ciò, in
questo periodo, la figura dell’interprete è stata messa in discussione, ad esempio, Stravinskij
ha negato l’utilità stessa dell’interprete: basta, a suo giudizio, un esecutore che segua
scrupolosamente le intenzioni dell’autore:«Non desideriamo alcuna cosiddetta interpretazione
della nostra musica; vogliamo solo le note, niente di più e niente di meno». 4 Molti
compositori credevano di poter eliminare il mediatore, l’interprete, scrivendo pezzi per
pianoforte meccanico . L’avvento della musica elettronica avvera questo desiderio. Basta poi
considerare l’arte d’avanguardia, con i suoi mezzi di comunicazione, la sua grafia, i segni
d’espressione vengono sia ridicolizzati (ad esempio Satie segnava ‘corpulento’,
‘cerimonioso’, ‘diventare pallido e via dicendo), sia limitati il più possibile, sia eliminandoli
del tutto (come fanno Poulenc o Stravinskij quando scrivono sans expression).


Hans von Bülow (Dresda 1830 – Il Cairo 1894) direttore d’orchestra e pianista tedesco. Esordì nella direzione
orchestrale nel 1850, affermandosi in seguito come maggiore interprete del suo tempo, particolarmente delle
opere di Wagner (del quale fu strenuo sostenitore) e di altri contemporanei quali Brahms, Strauss e Ciaikovskij.
Diresse le prime rappresentazioni di Tristano e Isotta e dei Maestri cantori a Monaco di Baviera. Allievo per il
pianoforte di F. Liszt.
Curò edizioni critiche delle sonate di Beethoven e degli studi di Cramer e di Chopin.

Joseph Joachim (Kittsee, Btratislava 1831 – Berlino 1907) violinista, direttore d’orchestra e compositore
tedesco. Operò a Weimar e Hannover e dal 1868 a Berlino come direttore della Hochschule für Musik; nel 1869
fondò un quartetto, che acquistò grandissima rinomanza in tutta Europa. Fu amico di Mendelssohn, che ne
riconobbe subito le precoci doti e ne seguì la formazione; di Schumann , di Brahms, e di Liszt, che lo volle come
primo violino a Weimar.
Fu uno dei protagonisti della vita musicale tedesca del XIX secolo per le eccelse qualità di interprete, il
rigoroso rispetto dei testi (tutt’altro che comune tra i virtuosi di violino del suo tempo), le meditate ricerche
culturali e l’attività di didatta. Come compositore, subì l’influenza di Mendelssohn e Schumann, e anche di Liszt;
scrisse ouvertures, musica da camera e diverse pagine per violino e orchestra, tra cui il Concerto ungherese
op.11.
4
Aaron Copland, Come ascoltare la musica, ed. Garzanti 1970, p.168

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CAPITOLO 1.

CONSIDERAZIONI GENERALI SUL CONCETTO DI INTERPRETAZIONE


MUSICALE

Secondo la definizione che ne dà il Graziosi, l’interpretazione musicale «è l’attività che dai

segni grafici convenzionali, simbolici, abbreviati in cui consiste la scrittura musicale, è in

grado di trarre la totalità espressiva in essi esplicita ed implicita, restituendola compiutamente

in suoni mediante un’azione diretta (quella dello strumentista, del cantante) oppure indiretta,

cioè con il concertare e guidare interposti esecutori (tale il direttore d’orchestra, di coro, e via

dicendo)». Sempre il Graziosi, nell’ambito nell’atto dell’interpretare, distingua tre fasi , o

momenti, fondamentali. Il primo, è quello che egli definisce il momento filologico,

l’interprete viene a contatto con il testo musicale, decifra i segni, le didascalie e ogni altra

indicazione contenuta nella pagina musicale. Il secondo momento, indissolubilmente legato al

primo, è il momento che può definirsi critico – estetico, perché l’interprete, grazie alle

proprie facoltà intuitive, e aiutato dagli opportuni accertamenti storico – biografici e critico –

stilistici, giunge all’intimo e totale possesso dei valori estetici contenuti nel brano musicale.

Questa è la fase più delicata e più importante del processo interpretativo, attraverso la quale

passano obbligatoriamente anche il critico e lo storico. In essa confluiscono ogni elemento

della personalità dell’interprete: sensibilità, carattere, formazione, età, gusto, cultura,

nazionalità e via dicendo. Da tutto ciò nascono le capacità ‘ricreative’ dell’interprete nei

confronti dell’autore o creatore della musica. Il terzo momento, individuato dal Graziosi, è

quello che conclude tutto il processo interpretativo, ed è il momento dell’ esecuzione vera e

propria, cioè la conversione del testo nella realtà dei suoni. Per ottenere la massima bellezza

in questa fase, occorrono le doti native e la tecnica (quest’ultima va intesa come la


«LA MUSICA ENCICLOPEDIA STORICA» sotto la direzione di Guido Gatti a cura di Alberto Basso vol.II
Giorgio Graziosi L’interpretazione musicale

ENCICLOPEDIA DELLA MUSICA (ed. Ricordi) L’interpretazione di Giorgio Graziosi pp. 473 - 474

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combinazione delle attitudini sia naturale che acquisite con l’esercizio, lo studio,

l’esperienza). Punto di partenza dell’interpretazione musicale è dunque il testo scritto, ma

l’esecuzione risulta poi da un atto di conoscenza complesso e personale compiuto

dall’esecutore nei confronti dell’autore e dei suoi intendimenti artistici, di cui egli si fa

mediatore (‘interprete’ appunto) dinanzi al pubblico.

L’aspetto implicito nel concetto di interpretazione è quello ermeneutico. ‘Interpretare’ vuol

dire anche far scaturire dalla partitura significati che non sono direttamente presenti, ma

nascono dal rapporto personale dell’interprete con le intenzioni poetiche dell’autore e con le

attese estetiche del pubblico a cui si rivolge. Ogni opera musicale contiene un messaggio,

perché il compositore attraverso di essa ci trasmette se stesso, le sue impressioni, perciò,

compito dell’interprete è proprio quello di scoprire il messaggio implicito nell’opera e

renderlo esplicito per poterlo trasmettere agli uditori. Questa operazione, alquanto difficile , è

da sempre fonte di discussioni tra i musicisti, gli storici, i critici, i filosofi, soprattutto perché

non è possibile stabilire criteri univoci in questo campo.

Per spiegare la questione di questa mia trattazione, citerò le parole di A. Copland,

«Ascoltando una creazione dell’artista compositore ricordiamo sempre di ascoltare un uomo, un


particolare individuo, la sua peculiare personalità […] Nessun compositore potrà mai riversare
nella sua musica un valore che non possiede come uomo.[…] Il carattere individuale del compo-
sitore nei riguardi dell’opera creatrice è costituito da due elementi diversi: l’indole nativa e le
influenze del suo tempo. Il tempo in cui vive ha pure un carattere, e l’indole creatrice dell’uo-
mo, qualunque essa sia, si esprime nell’atmosfera del suo tempo.[…] Nell’analisi dello stile di
un compositore dobbiamo prendere in considerazione la sua personalità quale riflesso del tem-
po in cui visse. Vi sono tanti stili quanti compositori, e questi hanno stili diversi corrisponden-
ti alle influenze del loro tempo ed all’evolversi della loro personalità».

L’INTERPRETAZIONE COME CREAZIONE

L’idea di un’arte dell’interpretazione musicale è relativamente recente e, anche se la musica

ha sempre avuto bisogno di interpreti (o esecutori), si può dire che la coscienza della sua

interpretabilità, pur avendo le sue radici nel secolo XIX, nasca a tutti gli effetti nel secolo XX.


Aaron Copland, Come ascoltare la musica, Garzanti, 1970 pp. 166 - 167

pagina web www.luigiattademo.it/pagine/articolo_interpretazione.html

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L’origine dell’interpretazione musicale in senso moderno è individuabile storicamente tra il

Settecento e l’Ottocento. E' con la fine della libertà esecutiva dell'epoca Barocca che il testo

musicale è pensato, dal compositore prima che dall'esecutore, come opera d'arte autonoma.

Così l'esecutore, che fino al Barocco ha partecipato attivamente alla realizzazione finale della

partitura con la sua esecuzione, nell'Ottocento si accorge che ogni segno, ogni nota, ogni

indicazione, per precise che siano, gli pongono il problema del loro valore, del significato da

attribuire loro. L'esecuzione ora è come un problema che si rinnova di volta in volta, senza

offrire mai una soluzione definitiva. Nell’Ottocento, infatti, si assiste alla realizzazione di

partiture ricche di indicazioni (ne è un esempio la scrittura di Beethoven). Questo fatto nasce

da due esigenze. La prima di tipo pratico, derivata dalla necessità da parte del compositore di

indicare con precisione le note, dunque di consegnare alle stampe edizioni corrette e

corrispondenti a quanto scritto. La seconda è che il compositore nell’Ottocento - e proprio con

Beethoven - pensa alla sua creazione come ad un evento rivelativo che mette in relazione

l’umano col divino, nasce cioè l’idea che la creazione abbia una relazione con qualcosa di

sacro che non può essere frainteso. Ma l’uso di indicazioni rispetto alle note, non chiarisce le

vere intenzioni dell’autore, aggiunge invece ulteriori elementi da interpretare all’interno della

partitura musicale. Oltre alla struttura musicale implicita nella scrittura, c’è un secondo

livello, quello del carattere, che è indicato attraverso segni e parole che sono decifrabili in

modi differenti. Dunque il compositore non limita i fraintendimenti della sua musica, perché

questa infatti è soggetta ad infinita interpretabilità e inesauribilità di significati.

Nell’Ottocento, l’intervento del compositore sulle musiche da lui scritte, con didascalie e

indicazioni extramusicali, aggiungono all’interprete problema a problema. La realtà è che nel

XIX secolo prende coscienza il fatto che testo scritto e testo interpretato non sono identici e

tale aspetto, che non rappresentava un problema per i musicisti dell’epoca antecedente,

comporta per il musicista dell’età moderna, numerose implicazioni filosofiche, prima tra tutte

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l’idea che dietro ogni composizione ci sia un messaggio e che l’interprete abbia il compito di

svelarlo; l’interpretazione diventa un momento rivelativo.

L’epoca in cui l’esecuzione è vissuta come evento di intrattenimento è finita. C’è una

differenza fra testo scritto e interpretato, e ciò comporta la compresenza di due diverse

musicalità (quella del compositore e quella dell’interprete); essa comporta il carattere di

apertura dell’interpretazione (cioè la possibilità che una musica possa essere interpretata da

più esecutori), ma anche infine la possibilità che un ascoltatore a sua volta la intenda, nel

momento stesso in cui la ascolta, in modo differente rispetto a un altro ascoltatore.

L’idea che l’interprete sia un autore è una scoperta del Novecento; ripensare il passato

anziché ripeterlo diventa la questione fondamentale su cui si dipana la storia della musica nel

Novecento. Il problema di fondo è sapere se: l’esecutore musicale è o non è un creatore.

All’inizio del XX secolo diversi critici e musicologi italiani dibatterono su due problemi

riguardanti il tema dell’interpretazione musicale: se l’opera fosse da considerare identica alle

sue esecuzioni, e se queste ultime fossero conseguentemente considerabili come opere. Sulla

linea dell’estetica crociana più o meno giustamente trasferita in ambito musicale, alcuni di

essi sostennero che non vi è alcun elemento di originalità nell’opera dell’interprete. L’opera è

compiuta in sé ed è totalmente identificata al testo scritto, mentre l’interpretazione è intesa

come una semplice riproduzione. A questa visione se ne oppose un’altra, che affermò l’aspetto

creativo dell’esecuzione. L’interprete è cioè colui che porta a compimento l’opera attraverso

la sua esecuzione: in tal modo essa diventa parte integrante del processo creativo stesso.

Ambedue le prospettive possono essere analizzate da un punto di vista ermeneutico: se,

infatti, l’opera è il luogo in cui è contenuto il significato (o i significati o, ancor meglio, il

senso), essa appare un oggetto chiuso (compiuto o incompiuto che sia), che potrà incontrare

un elemento esterno, cioè l’interpretazione, nel primo caso negativamente, nel secondo

positivamente.

7
L’opera, porta con sé un’infinità di significati e si presta a molteplici interpretazioni, pur

salvaguardando la sua identità. Secondo Luigi Pareyson,  «dire che l’opera esige esecuzione

significa affermare che essa vuol essere eseguita ma chiede conto del modo di eseguirla».

L’idea di considerare l’opera nella sua inesauribilità di significati può far pensare a una serie

di risultati paradossali, come l’esistenza di ogni possibile interpretazione. Ancora Pareyson

chiarisce la questione:

«[…] è pericolosissimo affermare, ad esempio, che non esiste la Quinta di Beethoven, ma solo di
volta in volta, la Quinta di Toscanini, di Furtwängler, e così via. Espressa così,
quest’affermazione invita al più arbitrario confusionarismo, prepara il riconoscimento
relativistico della molteplicità delle interpretazioni [...] Eppure c’è un senso, uno solo, in cui
quest’affermazione corrisponde alla realtà dei fatti, ed è che l’opera ha il suo vero e naturale
modo di vivere nelle molteplici esecuzioni».

Sostenere l’inesauribilità dell’opera non significa affermarne l’infinità di significati. L’opera è

infinita nel senso della sua inesauribilità, infatti essa è dinamica, poiché di fronte a nuove

interpretazioni svela significati nuovi, originali e prima impensabili. Ma non bisogna pensare

che l’opera porta con sé un insieme infinito di significati, preesistenti all’atto creativo

dell’interprete, ai quali egli attinge. Il senso d’infinità dei significati risiede invece nel suo

essere sempre rivelatrice di significati inaspettati che l’interprete svela non attraverso

un’analisi a priori, ma nell’opera stessa eseguendola.

L’opera è identica a se stessa ma è anche diversa dalle sue interpretazioni: queste due qualità

rimangono vive nell’azione dell’interprete, perché l’opera è sempre la Quinta di Beethoven


Luigi Pareyson (1918 – 1991) filosofo italiano. 1940 – 44 insegnò filosofia al Liceo classico di Cuneo. Sempre
a Cuneo formò alcuni futuri esponenti della resistenza italiana. Nel 1942 costituisce il nucleo cuneese del Partito
d’Azione. Nel ’44 fu sospeso dall’insegnamento e arrestato dall’ufficio politico della Federazione fascista;
rilasciato dopo alcuni giorni di prigionia e interrogatori, operò in semiclandestinità fra Torino, Cuneo, Alba e
Piasco, come responsabile dell’ufficio del comando delle formazioni Giustizia e libertà per la provincia di
Cuneo. Insegnò presso l’università di Torino dal ’45 – ’46, dopo un breve periodo a Pavia, dove tenne
l’insegnamento di storia della filosofia nel ’51 – ‘52 , a fine 1952 venne chiamato dalla facoltà torinese alla
cattedra di estetica creata per lui. Dal ’64 all’84 occupò la cattedra di filosofia teoretica. Fondò e diresse a lungo
la Rivista di Estetica e diverse collane filosofiche presso gli editori Mursia, Zanichelli, Bottega d’Erasmo,
coinvolgendo i migliori studiosi italiani e stranieri; dal 1985 pubblicò, presso Mursia, un Annuario Filosofico.Tra
i primi interpreti italiani dell’esistenzialismo (La filosofia dell’esistenza e Karl Jaspers 1940; Studi
sull’esistenzialismo 1943), si impegnò nel rinnovamento dell’interpretazione dell’idealismo tedesco (Fichte
1950; Schelling 1975), quindi nella formulazione di una teoria ermeneutica (Verità e interpretazione 1971):
considerava la rivalutazione esistenzialistica del singolo non solo come libertà, responsabilità e rischio, ma anche
originariamente ‘aperto’ alla verità e ‘situato’ in una data condizione. Di qui l’idea della verità come
‘interpretazione’, la quale, diversamente dall’oggettivismo della scienza, era vista sempre come esercizio
rischioso di libertà che coinvolge la responsabilità dell’interprete.

8
ma è anche quella di Toscanini. Anche Roman Ingarden, nel suo saggio L’opera musicale e la

questione della sua identità, affronta questa delicata questione dell’ammissione, e, tale

proposito, scrive che i giudizi ritenuti giusti se riferiti alla sola composizione, non sono gli

stessi nel rapporto con le sue diverse esecuzioni.

«Ciascuna esecuzione può aver luogo solo una volta, non può durare e non si può ripetere»,

quindi,

«ciascuna interpretazione deriva da un ‘processo individuale’ che si sviluppa nel tempo e


nel complesso delle sue particolarità e caratteristiche qualitative[…]. L’opera d’arte resta
una e unica contrariamente alla molteplicità fenomenologia delle sue eventuali
esecuzioni»7,

perciò, la creazione musicale è diversa rispetto alle sue possibili interpretazioni, non è la

stessa cosa della partitura, infatti non tutti i particolari sono stati indicati dall’autore. Ogni

interprete ha il compito di leggere la partitura, studiando a fondo il significato, perciò non in

modo meccanico.

«Vi è un certo modo di scrittura delle proprie idee, da parte del compositore,
intenzionalmente indicata dagli atti creativi e nei quali l’opera stessa risale alle origini della
sua esistenza e delle sue proprietà, che l’esecutore dovrebbe saper trovare nella lettura
dell’idea musicale»8 .

INTERPRETAZIONE MUSICALE : DICOTOMIA TRA CREAZIONE E TECNICA

Credo di non aggiungere nulla di nuovo a quanto non sia già stato detto riguardo al modo in

cui considerare l’interpretazione musicale, cioè se qualificarla come un evento creativo o

semplicemente come pura tecnica. Questo argomento è stato a lungo oggetto di numerosi

discussioni, Giorgio Graziosi nel suo libro L’interpretazione musicale affronta la questione


Roman Ingarden, L’opera musicale e la questione della sua identità, compreso nel II vol. di R. Ingarden Studi
di estetica, PWM, 1958,cit. in Kazimierz Morski, L’interpretazione pianistica come parte immanente dell’idea
creativa tra arte e didattica Studi in memoria di Alvaro Valentini, a cura di Sandro Baldovicini, Macerata 2000,
pp.375 – 411: 375
7
ibidem, p.376
8
ibidem

9
prendendo, come punto di inizio, due diversi atteggiamenti da parte di due opposti personaggi

e cioè Salvatore Pugliatti e Alfredo Parente10

Per il Pugliatti, di stampo gentiliano,

«Quel che è umano, è , in misura maggiore o minore, spirituale: la stessa vita dell’uomo è spirito.
non può quindi mettersi in dubbio la spiritualità dell’attività interpretativa.[…] Non può dunque
l’interpretazione non essere creazione, se l’attività spirituale è, per definizione, creativa».
L’interprete crea a sua volta una realtà artistica: «la quale […] è realtà dell’interprete, e non può
essere d’altri; espressione del suo mondo, realizzazione della sua personalità. Nella quale
espressione si sentirà, sì, l’eco della personalità del compositore, ma non quella soltanto». 

Anche il musicista Aaron Copland nel suo libro Come ascoltare la musica è dello stesso

parere del Pugliatti:

«L’interprete è una specie di mediatore; perché noi ascoltiamo non tanto il compositore quanto la
concezione che l’interprete ha di esso. [ed è proprio qui che sorge il problema di come un
interprete capisca e riesca a trasmettere il messaggio contenuto nell’opera di un compositore] Il
contatto fra uno scrittore e il suo lettore è diretto , l’opera del pittore esige solo di essere messa in
luce, ma la musica, e con essa il teatro, deve essere re-interpretata per vivere. Il povero
compositore, finita la composizione, deve affidarla alle cure di un interprete che, non va
dimenticato, ha natura e personalità sue proprie […] l’interprete è al servizio del compositore per
assimilare e ricreare il suo ‘messaggio’.

Di tutt’altro parere è il Parente. Egli è più vicino alle posizioni di Croce riguardo la sua

concezione dell’evento interpretativo, perciò, l’interpretazione è considerata solamente come

un fatto puramente tecnico.

Per mostrare la validità della sua tesi, il Parente espone vari argomenti, e a questo proposito

riporterò lo schema che ne da il Graziosi:


Salvatore Pugliatti (1903 – 1976) è una personalità tra le più rappresentative della cultura messinese del secolo
scorso. Giurista di grande fama, oltre che musicologo, letterato, critico d’arte e scrittore. A soli 28 anni vince la
Cattedra di diritto civile all’università di Messine a 31 anni è il preside della facoltà di Giurisprudenza e, negli
anni ’30, dà lustro alla sua facoltà facendola divenire una scuola di diritto di fama assoluta. Si propone ad
iniziative culturali di grande rilievo, tra queste merita menzione quella del Teatro Sperimentale di Messina, che
di fatto inaugura quel rinnovamento dell’arte scenica in Italia proponendo il “Teatro di Regia” Un centro di
attività letteraria fu la libreria dell’Ospe che ospitava la Galleria d’Arte “Il Fondaco” e Pugliatti insieme ad altri
esponenti ne catalizzarono qui l’attività letteraria cittadina, punto di riferimento culturale per almeno un
trentennio. Inoltre egli fu membro di molte istituzioni di prestigio.
10
Alfredo Parente (1905 – 1985) Filosofo e critico musicale. Collaborò alla “Rassegna musicale”, e dal 1950 al
1976 esercitò la critica musicale sul “Mattino” di Napoli. Con La musica e le arti: problemi di estetica (1936) e
con vari saggi (raccolti in parte in Castità della musica 1961) fu tra gli esponenti dell’idealismo crociano nel
campo della critica musicale

Salvatore Pugliatti, L’interpretazione musicale, Messina 1940, in Giorgio Graziosi, L’interpretazione
musicale, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1966, pp. 47 - 48

A. Copland, op.cit., p. 167

10
) mentre il musicista (creatore) muove dall’interno, per impulso originario, per una
«illuminazione che è propria del genio creativo», l’interprete muove innanzi tutto dall’esterno,
trovando in una realtà già data l’imprescindibile guida del suo lavoro. Egli non ricrea un’opera
musicale, ma ripristina le condizioni fisiche indispensabili alla sua comunicazione.
) Ne consegue che, mentre il musicista è libero e autonomo, l’interprete è condizionato dai limiti
inerenti alla pagina che egli eseguisce; la sua libertà è solo apparente, tanto che nessun interprete
cosciente apporta ad una musica quelle «modificazioni» (o di tono o di accentuazione o di forma)
che qualche volta il suo ideale di bellezza gli suggerisce. Pertanto al libero impulso del creatore si
sostituisce nell’interprete un «problema di paziente e scrupolosa ricostruzione»: atteggiamento,
dunque, passivo il suo, per quanto attivo invece è l’altro.
) La spirituale, artistica intelligenza dell’opera da parte dell’interprete non può mai prescindere
dal suo compito tecnico, strettamente tecnico, di valutare e considerare la materiale consistenza di
una musica (segni, didascalie, ecc…), attraverso la quale solamente egli può giungere alla
comprensione di essa.
) «L’interprete esegue le musiche più disparate, serbando o cercando di serbare a ciascuna il tono
proprio e confacente»; e, anche se la composizione è lontana o contrastante con la sua personale
sensibilità, egli cerca di attenersi «a un tranquillo senso di obiettività, che è il contrario della
creazione artistica, in cui il musicista vuol valere innanzi tutto come soggetto, e le cose intorno
non riesce in alcun modo a vedere se non come proprie e investite dalla stessa fiamma che
alimenta la sua fantasia».
) La critica d’arte, in ciò implicitamente avvalorando la tesi dell’interpretazione come tecnica ed
escludendo quindi qualsiasi valore estetico autonomo, mentre ricerca nell’opera di un musicista
originalità e bellezza, in quella dell’interprete esige e ricerca esattezza, fedeltà e intelligenza o
spirito di penetrazione.

Dunque, secondo questa ottica, l’interprete svolge solamente una funzione passiva rispetto

all’opera di un compositore, verso la quale egli deve essere totalmente obiettivo. Ma

questo personaggio ideale nella realtà non trova riscontro, perché

«non v’è interprete finito che possa eseguire una pagina di musica e persino una sola frase senza
aggiungervi alcunché della sua personalità. Se ciò non fosse sarebbe un automa. L’esecuzione
avviene inevitabilmente secondo la personalità dell’esecutore. Con ciò egli non falsifica le
intenzioni del compositore; dà loro come in una lettura, le inflessioni della sua voce. Il punto
importante per noi è che per apprezzare un’interpretazione si deve poter valutare l’azione
dell’interprete sulla composizione che egli ricrea. In altre parole si deve diventare più consapevoli
della parte dell’interprete nell’esecuzione che si ascolta. […]».

Nonostante la sua posizione, anche il Parente giunge ad una conclusione simile a quella di

Copland, infatti, anche per lui non si potrà mai avere un interprete passivo e distaccato, a

causa della «insopprimibilità del personale spirito artistico dell’interprete»;  infine egli

aggiunge:

« l’obiezione conduce […] al problema centrale dei rapporti tra il passato (l’opera d’arte) e il
presente (interprete). Comunque se è ormai accertato che il passato viva soltanto in funzione di un
soggetto che lo assume e assumendolo lo fa rivivere, ciò non significa che la storia ‘resti
trasfigurata in ogni atto conoscitivo e che la sua fisionomia muti ad ogni istante passando per la
coscienza degli infiniti soggetti’ ; che cioè una pagina di Beethoven, attraverso le infinite

Alfredo Parente, La musica e le arti, Bari 1936 in G. Graziosi, op. cit.,p. 49

A. Copland, cit., pp. 168 - 169

Alfredo Parente, op. cit., in G. Graziosi, cit., p. 50

11
interpretazioni, assuma cangiamenti tali da renderla ogni volta un’altra cosa, una creazione
diversa per quanti sono gli interpreti. Ciò significherebbe il caos e renderebbe illusoria la stessa
coincidenza di volta in volta raggiunta tra l’esecutore e il testo; ed equivarrebbe a negare la
possibilità di intendersi da uomo a uomo e di riconoscersi tra sé e sé nei diversi momenti della
vita. Dunque, l’interpretazione è duro travaglio teso alla più perfetta e limpida adeguazione tra la
spiritualità dell’interprete e quella della musica»

Nel ricreare una composizione, l’interprete deve seguire quanto voluto dall’autore

attraverso le indicazioni contenute nel testo, perciò spesso si ritiene che rispetto al

compositore, l’interprete sia in una posizione inferiore (qualora si voglia procedere ad una

scala gerarchica). Questo perché egli non ‘aggiunge’ nulla di nuovo a ciò che è già scritto,

e perciò si nega quella libertà e quell’originalità che invece si ritrovano nel compositore;

per questo la sua attività è soggetta a delle limitazioni in quanto vincolata alla partitura.

Ancora una volta credo che le parole del Graziosi siano illuminanti al riguardo:

«La negazione all’interprete di ogni creatività proviene, in fondo, da un equivoco. Si dice cioè:
siccome l’esecutore non può apportare alla pagina modificazioni concrete, […] la sua libertà non
esiste che in apparenza, essendo egli costretto negli invalicabili confini delle indicazioni del testo
da cui non deve e non può prescindere se non a costo di commettere veri e propri arbitri. In primo
luogo ci pare che lo stimolo a ‘modificare’, da cui sarebbe costantemente assillato l’interprete,
riguardi più l’eccezione che la regola.qualora l’interprete si ponga problemi riguardanti il senso
estetico, egli in quel momento non è più interprete soltanto, ma anche trascrittore o revisore, o
critico musicale, o compositore senz’altro: esorbita cioè dalle proprie funzioni assumendo
responsabilità […] che vanno esaminate appunto trattando della trascrizione, o dell’elaborazione,
o della critica e simili.
In secondo luogo, la funzione categoricamente imperativa della pagina musicale, la
immodificabilità di essa, riguarda esclusivamente la sua struttura materiale: le note, i segni e via
dicendo…Se il musicista ha scritto do, io do devo suonare e non sono certamente libero di fare do
diesis[…] e similmente per tutto quello che nel pentagramma è indicato (coloriti, tempi,
suggerimenti espressivi ecc.). Ma la necessità di suonare quelle note e non altre e di seguire quelle
didascalie e non altre non compromette affatto la libertà ‘creativa’ dell’interprete, proprio perché
questa necessità, questi obblighi valgono in un piano del tutto diverso da quello in cui si svolge la
vera funzione dell’interprete. Il quale non esaurisce né deve esaurire né potrebbe mai esaurire la
propria attività nella meccanica, esatta esecuzione delle note e delle indicazioni ; ma note e
indicazioni investe e trasforma con il proprio sentire, rendendoli veicoli della ‘creazione’ che fa
impeto all’animo e fa luce alla mente. Assoluti dunque gli obblighi ‘materiali’ – quelli, comunque,
da nessuno modificabili -, l’interprete diviene completamente e assolutamente libero di
configurare l’esecuzione meglio rispondente ai suoi principi e sensi estetici, libero di fondare, per
quegli stessi obblighi e in quegli stessi obblighi, il suo regno indipendente». 

L’originalità e la libertà dell’esecuzione stanno perciò nella capacità dell’interprete di

trasportare nella partitura la propria anima e fonderla con quella dell’interprete, e di riuscire

poi a trasmetterla all’ascoltatore.


ibidem

G. Graziosi, op. cit., pp.55 - 56

12
CENNI SULLA FILOSOFIA ERMENEUTICA IN RAPPORTO

ALL’INTERPRETAZIONE MUSICALE

Prima di iniziare ad affrontare questo argomento, vorrei sottolineare il fatto che, anche

parlando di filosofia in questo paragrafo, non è di certo mia intenzione ridurre in poche parole

un argomento talmente vasto come lo è quello dell’Ermeneutica. Credo però che fare una

breve panoramica in quest’ambito possa essere d’aiuto nell’affrontare il vero tema di una

trattazione sull’interpretazione musicale.

Da un punto di vista filosofico, l’interpretazione musicale rientra nell’ambito della dottrina

filosofica dell’Ermeneutica.. Questo termine sta ad indicare la forma di comprensione

filosofica della realtà storica e spirituale che si fonda sull’interpretazione dei significati

impliciti nei testi scritti o nel linguaggio stesso. Più semplicemente si può dire che compito

dell’ermeneutica è quello di trasferire da un contesto estraneo a uno familiare il senso del

testo da comprendere. L’umanità, nel corso della storia, si è sempre occupata del problema

dell’interpretazione, cioè della necessità di comprendere e chiarire il significato del messaggio

contenuto in ogni tipo di ambito culturale, iscrizioni, leggi, testi religiosi e poetici, nonché

della musica. Solo in epoca moderna però si forma una disciplina autonoma, che prende il

nome di Ermeneutica.

L’Ermeneutica si rivolge a questioni che riguardano l’interpretazione di testi di ogni tipo. Il

pensatore più rappresentativo di questa corrente di pensiero è Hans Georg Gadamer8, egli si

ricollega direttamente alle teorie di Heidegger. Nella filosofia di quest’ultimo, il linguaggio e

in particolare la poesia, è diretta manifestazione dell’essere: l’ ‘essere’ si svela nel linguaggio

e attraverso le parole ci dà il segno di sé. Se per Heidegger, scopo fondamentale dell’esistenza

umana è quello di comprendere, Gadamer riprende e sviluppa il punto di vista heideggeriano,

8
Hans Gerorg Gadamer nasce a Marburgo nel 1900. Consegue la libera docenza con Heidegger nel 1929.
Insena a Marburgo, Lipsia, Francoforte e dal 1949 ad Heidelberg. Le opere più importanti di Gadamer sono
Verità e metodo. Lineamenti di un ermeneutica filosofica ( 1960 ) e numerosi saggi confluiti nelle Opere
complete in 10 volumi pubblicati in Germania.

13
ponendosi alla ricerca del carattere dell’esperienza ermeneutica e lo individua nell’arte.

Gadamer critica il metodo conoscitivo della scienza moderna, ritenendola incapace di

giungere alla vera conoscenza.

L’Ermeneutica prende in considerazione il rapporto che c’è tra colui che interpreta e l’oggetto

che deve essere interpretato, e questo è possibile grazie ad una serie di ‘pre-conoscenze’, di

‘pre – giudizi’ che sono alla base della mente dell’interprete. La mente del soggetto che

interpreta è piena di idee, di schemi con cui si può comprendere ciò che è già compreso

secondo la formula del cosiddetto ‘circolo ermeneutico’ (cioè un continuo andirivieni tra

soggetto e oggetto). La pre – comprensione è una condizione positiva non solo perché non si

può eliminare, ma soprattutto perché con essa mettiamo alla prova i nostri pregiudizi, e di

conseguenza siamo disposti a modificarli. Dallo scontro che si determina tra testo da

interpretare e i pregiudizi, il soggetto diventa consapevole dell’inadeguatezza delle proprie

comprensioni e perciò è obbligato a cambiarle.

L’aspetto più importante dell’ermeneutica è la «rivalutazione del pregiudizio». Il concetto di

pregiudizio comporta la formulazione di un giudizio prima di aver fatto un esame completo di

tutti i suoi elementi, di conseguenza un pregiudizio può rivelarsi in seguito vero oppure falso.

Gadamer sostiene che la tradizione non deve essere né cancellata, né accettata passivamente,

ma valutata con un atteggiamento razionale e consapevole.

L’Ermeneutica presuppone un rapporto tra interprete e oggetto da interpretare che è insieme di

lontananza e di familiarità. La lontananza è dovuta alla estraneità dell’oggetto rispetto al

vissuto dell’interprete; la vicinanza ,al contrario, è dovuta al fatto che entrambi (soggetto e

oggetto) sono frutto dello stesso processo storico. La distanza temporale tra colui che

interpreta e l’oggetto da interpretare viene colmata dalla «storia degli effetti», cioè da tutte le

interpretazioni che si sono storicamente prodotte intorno a quell’oggetto. In altre parole, il

lavoro dell’ermeneutica si serve della storia delle interpretazioni e degli effetti che queste

interpretazioni hanno prodotto.

14
La comprensione comporta la «fusione di orizzonti», il passato non viene semplicemente

restaurato, ma interpretato a partire dal significato che il soggetto vive nel presente, e il

presente risponde alle sollecitazioni che provengono dal passato. Colui che interpreta un

documento, un testo letterario, un brano musicale e via dicendo, si colloca all’interno della

storia degli effetti, perciò ha a che fare con infiniti significati e interpretazioni.

Anche l’incontro con l’Arte ha a che fare con la verità. Una poesia, un brano musicale, un

quadro aprono un mondo di significati e una pluralità d’orizzonti (per questo motivo

possiamo avere infinite interpretazioni di uno stesso brano musicale, anche contrastanti, e

ognuna può essere quella giusta).

Da un punto di vista musicale, colui che si pone di fronte ad un’opera musicale, per

comprenderla e poi per proporla ad altri, instaura un rapporta tra sé (interprete) e l’altro da sé

(la partitura). Di conseguenza si tratterà di vedere il flusso di rapporti musicista creatore –

testo scritto – interprete – ascoltatore.

IL RAPPORTO TRA INTERPRETE E TESTO

Un altro aspetto indissolubilmente legato al concetto d’interpretazione è la fedeltà testuale.

Non bisogna dimenticare che la questione riguardante la fedeltà testuale è recente, infatti, fino

alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento, non si avvertiva l’esigenza di rispettare

alla lettera il testo scritto, e, se risaliamo ancora più indietro nel tempo, notiamo che il testo

aveva solo la funzione di canovaccio, sul quale poi gli interpreti improvvisavano.

Per molti pianisti invece è di vitale importanza, per una corretta esecuzione, rispettare il testo

e le volontà del suo autore. Nel libro Conversazioni con Arrau, il maestro ci mostra quello

che è il suo credo artistico, infatti in due interviste comparse una su «Frente popular» (un

rotocalco di Santiago) nel 1939, e una su «La Razon» (un rotocalco di Bogotá) nel 1941, egli

sostiene che il dovere di un pianista sia soprattutto quello di rispettare al massimo le volontà

del compositore contenute nella partitura. Nel primo articolo, quello del 1939, dice:

15
«sta nascendo in tutti i campi dell’arte un nuovo tipo di interprete, che è la negazione
dell’arbitrarietà, della ricerca del sensazionale, così tipiche del XIX secolo. Credo che questo
fenomeno si possa ascrivere alla ricerca che oggi è in atto di un modo più sincero e corretto di
interpretare. Un’opera d’arte – me lo lasci dire – non dovrebbe essere un pretesto per l’artista di
esternare i propri sentimenti; ma neppure si dovrebbe usare l’opera d’arte per mettersi in mostra.
L’interprete ha in realtà il sacro dovere di porgere intatto il pensiero del compositore»,

nell‘articolo del 1941 conferma quanto già dichiarato due anni prima, infatti dice

«Credo che ci sia una differenza fondamentale tra le esecuzioni di oggi e quelle delle scuole
artistiche precedenti, della generazione venuta prima della nostra. Allora gli interpreti, gli
esecutori, avevano un concetto della loro professione che li induceva a interpretare in modo
arbitrario e spesso falso, e la vanità degli esecutori assumeva un rilievo superiore a quello che si
poteva raggiungere con una interpretazione fedele…Questo mi sembra molto dannoso per
l’arte».19

Un altro grande pianista sostenitore della fedeltà testuale è stato Artur Schnabel e per questo

motivo Arrau lo stima molto, in un’altra intervista del 1952 egli dichiarava:

«Molto tempo prima della guerra Schnabel era già considerato a Berlino la massima autorità
intellettuale per Beethoven, Schumann e Brahms: quindi, era anche giudicato un arido. Il più
giovane Edwin Fischer, d’altra parte, era noto per essere un esecutore vulcanico e passionale di
Beethoven. Ma laddove Fischer nel corso di un’esecuzione diventava spesso selbstherrlich
[ autoritari, tirannico ] e non era alieno dall’introdurre cose che non c’erano in partitura, Schnabel
è stato il primo ad insistere sull’aderenza fedele alla pagina scritta. In questo campo egli è stato il
primo interprete di nome a sostenere il concetto, alquanto insolito e nuovo in quei tempi, che
l’esecutore deve servire la musica piuttosto che sfruttarla». 20

Arrau rispetta ogni minima indicazione del compositore contenuta nella partitura riguardo alla

dinamica, al fraseggio, e via dicendo. Egli ha cercato sempre di controllarsi, ma questa fedeltà

al testo non ha certo causato esecuzio0ni ‘fredde’ e meccaniche, infatti ogni sua

interpretazione è permeata di forte soggettivismo, ma sempre nel segno di forte rispetto alle

volontà del compositore.

Nell’intervista con Horowitz, alla domanda «Come descriverebbe la relazione che c’è tra

interpretazione e fedeltà testuale», il maestro risponde:

«Alcuni ritengono che chi è fedele al testo è arido. […] In realtà non c’è nessun conflitto. Bisogna
partire col rispettare alla lettera il testo, così come è scritto. Se Beethoven ha segnato ‘ piano ’ e si
suona ‘ forte ’ è decisamente sbagliato! Ma questa è solo la base per muoversi entro quelle vie che
portano sempre al rispetto del testo. L’interpretazione è una sintesi tra mondo del compositore e
mondo dell’interprete»21.

19
Joseph Horowitz, Conversazioni con Arrau, Oscar Mondatori, Milano 1990 entrambe le interviste sono state
riportate a p. 113
20
ivi. p. 114
21
ivi. p. 121

16
Ma in che cosa consiste in realtà la ‘fedeltà testuale’ ? Essa dipende dal grado di importanza

che ogni interprete attribuisce alla scrittura di un compositore.

Per quanto riguarda la grafia musicale, si sono avute opinioni diverse. 22 Alfredo Parente, ad

esempio, sostiene che il testo scritto sia solo un punto di partenza; il Gatti invece considera la

scrittura come una «imperfetta comunicazione del pensiero del compositore», e ritiene che sta

all’interprete il dovere di fare quelle «interpolazioni che varranno a farcela apparire perfetta»;

ci sono stati anche vari interpreti che hanno visto in diversa prospettiva la questione del testo

scritto, che l’hanno ritenuto come qualcosa di incompleto, considerando lecite le libertà

interpretative. Ad esempio Furtwängler scrive:

«Due tendenze hanno fortuna, la teoria della ‘rappresentazione fedele alle note ’ e quella della
‘riproduzione creativa ’. ‘ La rappresentazione fedele alle note ’, con tutti i suoi concetti relativi,
cioè la fedeltà all’opera, la posposizione della persona dell’interprete al creatore, eccetera, è ovvia.
Considerata come scopo precipuo, la ‘ rappresentazione fedele ’ risulta più meschina; come ideale,
poi, sarebbe, nel migliore dei casi, quello di un fanatico o di un pedante nato…»; 23

Pablo Casals, ad esempio, giudicava ogni interpretazione come una nuova creazione.

Toscanini, invece, seguiva la convinzione che l’interprete abbia il solo compito di riprodurre

l’opera. Il Graziosi prima di spigarci la sua tesi riguardo al testo scritto, immagina di parlare

con un interprete ideale riguardo alla sua interpretazione di un Preludio di Debussy, Voiles.

L’interprete dice che ogni aspetto della sua esecuzione (tempo metronomico, dinamica, e via

dicendo) deriva da scelte personali :

«E allora, concludendo, se sono io interprete a dare il tempo alla musica, io a imprimerle il ritmo
base, e a condurre questo ritmo attraverso tutte le sfumature agoniche che mi piacciono, io che,
nell’ambito delle sommarie e approssimative indicazioni, trovo la sonorità, e questa sonorità
alleggerisco e appesantisco strada facendo, dove (si ricordi il mio rinforzando alla settima battuta)
e nella misura che credo meglio, se son io, infine a portare a voi l’azzurro e il bianco e la salsedine
e l’ondeggiare di queste vele e del loro mare, creando a ogni passo respiri, indugi, dolcezze di
moti […] se sono io a ‘inventare’ tutto questo mondo di cui spesso la scrittura non offre nemmeno
l’accenno, chi altri crea la musica effettiva, reale, quella che si ascolta e che commuove se non io?
Io creo partendo da quella pagina schematica, sommaria, approssimativa, imperfetta, morta che mi
serve solo da avvio, da occasione al pieno svolgersi del mio genio creativo!» 24

22
Alfredo Parente,op. cit., e Guido Gatti, Dell’interpretazione musicale, relazione al I congresso internazionale
di musica (1933), Firenze in G. Graziosi, op. cit., pp. 25 - 27
23
Wilhelm Furtwängler, Interpretation, eine musikalische Schicksalsfrage, in Atlantis Buch der Musik (Zürich
1934), in G. Graziosi, op. cit., p.27
24
G. Graziosi, op. cit., pp. 33 - 34

17
Questo interprete sostiene che è lui a definire ogni elemento dell’interpretazione e che la

scrittura è solo ‘un’occasione per crearvi quello che non c’è’. Ora, se è vero che

l’interpretazione musicale è un insieme di scelte messe in atto dall’ esecutore, non è

assolutamente vero che egli ‘crea quello che non c’è’, infatti come potrebbe esserci una forma

senza contenuto?

Ecco quindi che il Graziosi risponde a questo interprete

«Non c’è !? Tutto c’è caro interprete: tutto quello che credevi portavi è implicito. La musica,
quella musica è ricca all’infinito [ ecco perché a distanza di anni e dopo infinite interpretazioni
ogni vera opera d’arte non cessa mai di stupirci ] , tanto che tu nell’ eseguirla non hai che il poco
merito di aver trovato, tra i tanti significati ritmici, dinamici, timbrici e lirici che essa contiene,
quello o quelli ( due, tre o quattro ) che la tua perspicacia ti ha permesso […]. Il piano, molto
dolce, di quell’inizio di Voiles non è, non vuole, non può, non deve essere che un colore, un
colore che ammette e contiene tante sfumature diverse, che Debussy per primo non ha definito e
non avrebbe definito nemmeno se ne avesse avuto i mezzi 25 […] Per ora puoi dunque convenire
con me che il tuo disco può anche essere una perfetta grafia di Voiles, ma non la perfetta, sol che
tu tenga presente che esistono tanti altri ottimi pianisti. C’è di più: probabilmente tra un anno o
dieci, o anche ora, il tuo disco nuovo di zecca già potresti rinnegarlo. 26 […] E’ insomma la musica
scritta, quella che porta e genera dal suo vasto mare di virtualità sonore le molteplici e varie
combinazioni di colori, di intensità, di ritmi. L’interprete non ha concepito questi colori e questi
ritmi. Tu li vedi semplicemente, e li puoi vedere perché sono scritti e inscritti nelle note, con le
note, oltre i segni delle note, e allora porti alla luce un effetto di pedale tra gli altri dieci possibili
perché quello più ti piace, e un piano lo eseguisci con una certa intensità perché sono le tue stesse
mani che ti ci portano o perché gli altri venti o cento modi di fare uscire un piano dai tasti ti
sembrano meno adatti al tuo tocco o meno confacenti alla configurazione fonica ed espressiva che
vuoi dare al pezzo; e sottolinei un disegno ascendente con un piccolo innalzamento di sonorità
perché è la musica scritta e poi suonata che ti ci porta, che te lo suggerisce…[…] Tutto il tanto
che puoi dire è già detto. Nel pentagramma. Anzi: tu lo dici in un modo, attraverso un sentimento,
con una fantasia, e secondo la tecnica delle tue possibilità esecutive; là, nella pagina, c’è posto per
mille modi, attraverso mille sentimenti, con mille fantasie e secondo la tecnica possibilità
esecutive dei mille pianisti vissuti e venturi. Il poeta è un cosmo che tu riduci ad un
microcosmo».27

Ora, se mi riferisco a quanto già detto riguardo all’interpretazione come creazione, è vero che

l’esecutore non crea nulla di nuovo rispetto all’autore dell’opera, ma ogni interpretazione è

frutto di scelte accurate da parte dell’interprete, in questo egli ‘crea’, o meglio, ricrea l’opera

d’arte.

Ecco perché, riprendendo le parole di H. Neuhaus, non è possibile stabilire un unico modo

d’esecuzione per un opera,

«Ogni grande pianista possiede una sua individuale tavolozza sonora.[…] Non esiste il suono
‘assoluto’, come non c’è interpretazione ‘assoluta’, espressività ‘assoluta’, niente ‘assoluto’. A

25
ivi., p. 35
26
ivi., p. 37
27
ivi., p. 40

18
questo proposito rimando alle bellissime pagine di Stanislavskij, in cui parla dell’espressività ‘in
assoluto’ come di una grande disgrazia».28

Riguardo l’interpretazione musicale, il Graziosi2 distingue tre momenti che compongono il

fatto interpretativo. Nel primo , definibile come il momento filologico, l’interprete prende

contatto con il testo musicale, decifrando i segni , le didascalie e ogni altra indicazione per

comprendere il ritmo, la dinamica, l’agogica e via dicendo. Il secondo momento;

inscindibilmente legato al primo, è quello che può definirsi critico – estetico perché

l’interprete (grazie al proprio intelletto, alle fonti storico – biografiche e critico – stilistiche)

giunge alla comprensione dei valori estetici contenuti nel brano musicale. E’ la fase più

delicata del processo interpretativo; attraverso la quale passano anche il critico e lo storico; in

essa entrano in gioco vari elementi della personalità dell’interprete (sensibilità, gusto, cultura,

formazione, nazionalità). Abbiamo infine il terzo momento, che conclude il processo

interpretativo: l’esecuzione vera e propria, la conversione del testo nella realtà dei suoni.

Un primo problema interpretativo sta nella notazione musicale

«Essa non può dare una trascrizione esatta del pensiero del compositore, che è così indeterminato;
trascura troppe cose che sono oggetto di gusto e di scelta individuale. L’interprete è perciò sempre
posto di fronte al problema di come comportarsi con la lettura della pagina stampata. Di più il
compositore può notare inesattamente e possono sfuggirgli omissioni importanti; può aver
cambiato opinione circa le indicazioni di movimento e di dinamiche».30

Non bisogna dimenticare, infatti, che l’opera musicale non è la stessa cosa della partitura; il

compositore potrebbe aver tralasciato dei particolari, o rispetto al testo stampato, potrebbe

aver improvvisato durante l’esecuzione, seguendo l’estro del momento. Un caso esemplare

può essere quello di Fryderyk Chopin. Sappiamo infatti che

«ugualmente i manoscritti come le prime edizioni basate su di essi, contengono sovente differenti
versioni. Talvolta esse sono solo correzioni e miglioramenti al testo, spesso sono versioni parallele
che possono essere ritenute varianti. Sappiamo anche che Chopin introdusse consapevolmente
delle modifiche, il più spesso negli esemplari degli allievi durante le lezioni». 31

28
Heinrich Neuhaus, L’arte del pianoforte, Rusconi, Milano 1992, pp. 105 - 106
2
G. Graziosi (voce) L’interpretazione, ENCICLOPEDIA DELLA MUSICA, ed. Ricordi
30
A. Copland, op. cit., pp.167 - 168
31
Kazimierz Morski, L’interpretazione pianistica come parte immanente dell’idea creativa tra arte e didattica,in
Studi in memoria di Alvaro Valentini, a cura di Sandro Balconcini, Macerata 2000, pp.376- 411: 381

19
Poiché il punto di partenza per ogni interpretazione è proprio il testo musicale, occorre che

l’esecutore (o il critico, lo storico e così via) adotti un’edizione il più fedele possibile alle vere

intenzioni del compositore, poggiando su varie fonti, come può esserlo un’edizione Urtext.

Quindi sono da escludere quelle edizioni che aggiungano qualcosa in più, rispetto a quanto

voluto dall’autore, o che riportino la composizione in modo diverso dall’edizione originale.

Sono spesso da prendere in considerazione, con prudenza, anche le revisioni, cioè quelle

edizioni, curate da altri musicisti, che introducono nella partitura elementi atti a suggerire

un’interpretazione diversa, e non rispettosa delle vere intenzioni del compositore.

Ma anche studiando su un’ottima edizione, sta poi alle capacità, all’intelligenza, alla

sensibilità, al gusto dell’interprete riuscire ad eseguire nel migliore dei modi un’opera

musicale.

20
CAPITOLO 2.

L’INTERPRETAZIONE PIANISTICA

«Noi potremmo sostenere che non v’è altra arte che, più di quella dell’interpretazione
musicale, presupponga il trattamento delicato, la comprensione raffinata di ogni specie di
emozione e di sensazioni che, attraverso la magia delle sonorità, si vogliono trasmettere allo
spirito dell’uditore. […] Il compositore che ci trasmette il riflesso delle sue impressioni,
conta sull’interprete per risvegliare, negli uditori, delle emozioni simili a quelle da lui
provate».

Dalle parole di Cortot emergono aspetti importanti dell’interpretazione. Innanzi tutto

l’esecuzione è vista come un’arte; niente di più esatto, e non a caso, il libro di H. Neuhaus ha

come titolo L’arte del pianoforte. Nel primo capitolo mi ero già soffermata sul dibattito

riguardo il fatto esecutivo, cioè se attribuirgli o negargli la qualifica di vera e propria

creazione; non c’è dubbio alcuno che questa attività sia un’arte tra le più alte e nobili. Il

compositore attraverso la sua opera ci comunica se stesso, la sua anima, l’interprete quindi

deve essere al ‘servizio’ dell’autore e riuscire a trasmettere quello che è il messaggio

contenuto nelle note, o, per dirla con le parole di quel grande pianista e didatta quale fu H.

Neuhaus, lo ‘specifico artistico’ .

«[…] questo ‘specifico artistico’ dell’opera musicale è la musica stessa, viva materia sonora,
discorso musicale con le sue regole e i suoi elementi, chiamati melodia, armonia, polifonia,
ed altro, che hanno una determinata struttura formale, un contenuto emozionale e poetico.
[…]». «Quanto più grande è il musicista, quanto più la musica è per lui un libro aperto tanto
minore diventa il problema del lavoro sullo ‘specifico’ fino a ridurlo quasi a zero. […]» 
«Insisto sulla triade dialettica: la tesi è la musica, l’antitesi è lo strumento, la sintesi è
l’esecuzione. La musica vive dentro di noi, nel nostro cervello, nella nostra coscienza,
sentimento, immaginazione, il suo ‘domicilo’ si può fissare con esattezza: è il nostro udito; lo
strumento esiste al di fuori di noi, appartiene al mondo esterno oggettivo, che occorre
conoscere e possedere, per sottometterlo al nostro mondo interiore, alla nostra volontà
creativa.[…]».

Nel far questo, l’interprete deve compiere studi approfonditi sull’opera e sul compositore che

l’ha creata, conoscere la biografia del compositore, il periodo storico in cui visse, il suo stile,

e ogni altro aspetto che occorre per capire la creazione di un grande artista.

Cortot spesso ripeteva



Alfred Cortot Corso d’interpretazione, raccolto e redatto da Jeanne Thieffry ed. Curci – Milano, 1991, p. 7

H. Neuhaus, op. cit., p. 33

ivi, p. 34

ivi, p. 36

21
«E’ bene conoscere tutti gli aneddoti che circolano in merito alla persona di un autore, alla
concezione della sua opera e alla maniera come essa venne alla luce. Alcuni di questi
aneddoti sono autentici, altri non sono che leggende nate ad opera compiuta. Non di meno se
queste rispondono al sentimento della composizione e sono di natura tale da stimolare la
nostra fantasia, avremo torto a rigettarle. […]».5

Ad esempio, in Conversazioni con Arrau, nel capitolo dedicato a Franz Liszt, 6 il maestro

spiega il modo in cui interpreta la Ballata e la Sonata, entrambe in si minore. Nel primo caso

Arrau associa quest’opera al mito di Ero e Leandro, nel secondo caso, invece, anche se non è

una novità, associa la Sonata al mito di Faust. Infatti, sia nella Sonata che nella Ballata, ad

ogni tema, ad ogni passaggio, egli associa un personaggio.

Spesso si ritiene che suonare il pianoforte sia soltanto, o comunque soprattutto un fatto

tecnico. Molti insegnanti sostengono che per eseguire un brano musicale occorre innanzi tutto

studiarlo tecnicamente, e dopo, in una seconda fase, si può pensare allo ‘specifico artistico’.

Forse da una parte questo è giusto, perché in alcune composizioni ci sono dei passaggi che

presentano particolari difficoltà tecniche, e quindi prima di poterle interpretare, è necessario

doverle studiare e ripeterle, per ottenere la pulizia dell’esecuzione. Però è anche vero che

comprendere e dare un senso a quello che si sta studiando, facilita il compito. In questo

tornano utili ancora una volta le parole di Neuhaus

«Qualche parola sulla tecnica. Quanto è più chiaro lo scopo che ci si prefigge (contenuto,
musica, perfezione dell’esecuzione) tanto più chiari appaiono i mezzi adatti a tale scopo.[…]
Il cosa determina il come; ma in ultima analisi il come determina il cosa (legge dialettica)»,

e ancora

«L’obiettivo stesso indica già i mezzi per essere raggiunto. Questa è la chiave della tecnica
nei pianisti realmente grandi: essi incarnano le parole di Michelangelo: ‘La man che
ubbidisce all’intelletto’. Ecco perché io insisto sul fatto che lo sviluppo musicale preceda
quello tecnico o, almeno, che vadano di pari passo, mano nella mano. Non è possibile dare
vita alla tecnica su un vuoto, come non può essere creata una forma, priva di qualsiasi
contenuto».8

Anche Cortot è dello stesso parere:

«Ritengo che il solo mezzo rapido e sicuro, ad un tempo, per perfezionare la tecnica
strumentale, sia l’assoggettarla strettamente al compito dell’interpretazione poetica. Così essa
impara a differenziarsi, si affina e dà all’esecuzione quelle tinte variate che, sole, rendono
5
A. Cortot, op. cit., p.11
6
J. Horowitz, op. cit., – Liszt – pag.129

H. Neuhaus, op. cit., p.26
8
ivi, p.124

22
comprensibili e vive le opere musicali, a qualsiasi genere esse appartengano. Ora ci viene
fatto di domandare se l’insegnamento attuale della musica cerchi abbastanza di penetrare
nella natura di quell’arte che pretende di spiegare, se si sforzi abbastanza di scoprire i
fluttuanti segreti dell’ispirazione del compositore, e si dedichi troppo, invece, all’abilità
strumentale, a detrimento dell’intelligenza e del sentimento.
La correttezza esteriore del suonare, la perfezione meccanica, non rappresentano nulla se
esse non servono a porre meglio in luce i principi generatori dell’opera d’arte. Pertanto,
quest’arte le cui radici giungono fino al profondo del nostro cuore, quest’arte che è la
confessione universale dei dolori, delle speranze, delle passioni, delle gioie, in ciò che hanno
di più spontaneo, di più acuto, di più amaro, ci consente appena di indurre gli allievi a
sporgersi sugli abissi dell’anima umana che essa svela». 

Vorrei chiudere questo punto con le parole di un altro grande interprete, direttore d’orchestra,

Wilhelm Furtwängler (naturalmente gli esempi da citare sono innumerevoli) . Nel suo libro

Dialoghi sulla musica, egli parla proprio della questione della tecnica fine a se stessa e scrive:

«al momento stesso in cui l’attenzione si rivolge agli elementi tecnici a sé stanti vien distrutta
l’unità spirituale dell’insieme. L’elemento tecnico non deve mai staccarsi, neanche per un
istante, dalla realizzazione ‘ spirituale ’; nemmeno in vista di un certo effetto. Un effetto così
ottenuto ( ammesso che possa essere un effetto ) sarà sempre falso, poiché estraneo
all’essenza dell’opera d’arte. Di tutto questo si rende conto chi già conosce l’opera musicale
attraverso un’interpretazione fedele e adeguata. Per questa ragione sono tanto pericolose le
esecuzioni delle grandi e vive opere del passato che si basano su elementi tecnici e di
virtuosismo; esse guastano effettivamente il gusto».

Non esistono studi tecnici specifici per ottenere una tecnica perfetta; bisogna ricordare che

ognuno di noi è un mondo a parte, con una psicologia ed una conformazione fisica diversa;

ciò significa che non esiste un metodo universale, valido per tutti. Determinati esercizi

possono risultare utili per qualcuno, ma deleteri per qualcun’ altro. Ogni pianista deve

conoscere e saper sfruttare tutte le possibilità naturali, anatomiche, motorie che possiede a

partire dal movimento del dito, della mano, dell'avambraccio, del braccio fino alla

partecipazione della spalla, della schiena e di tutto il busto. Comunque la cosa più importante

che un pianista dovrebbe sempre ricordare è che la tecnica fine a se stessa non ha alcun senso.

La MUSICA è il fine a cui far riferimento durante le nostre ore di studio. La tecnica è solo un

mezzo con cui poter raggiungere i livelli più alti dell'espressione musicale. La sicura

padronanza tecnica ci permette di esprimere e realizzare l'idea musicale, lo ‘specifico

artistico’. Di conseguenza, se è vero che al primo posto c’è la musica, è anche vero che non si

deve tralasciare lo studio della tecnica, poiché perfezionare la propria tecnica equivale a


A. Cortot, op. cit., p.9

W. Furtwängler , Dialoghi sulla musica, ed. Curci - Milano 1950, p.63

23
perfezionare la propria arte. Le due cose camminano di pari passo. Non possiamo esprimere il

contenuto artistico di un brano musicale con un'esecuzione imprecisa, approssimativa; ma non

possiamo neanche pensare di creare un'esecuzione artistica, se la nostra unica preoccupazione

sarà stata quella di eseguire i passaggi alla massima velocità e potenza avendo come unico

fine, quello di dimostrare tutta la nostra bravura. Lo studio della tecnica è uno studio attento,

razionale, ma finalizzato alla realizzazione di uno scopo artistico, creativo. Il pianista è colui

che ‘educa’ le proprie dita, la mano, il braccio e tutto l'apparato a compiere gesti precisi.

Attraverso il dominio della tecnica e l’automatismo acquisiti, il pianista si ritrova nella libertà

di concentrare tutte le attenzioni verso il raggiungimento dello scopo finale: la musica. Ci

sono diversi modi per raggiungere la sicurezza tecnica necessaria a far sì che le nostre

capacità interpretative possano esprimersi liberamente. Una modo sicuro ed efficace può

essere quello di studiare lentamente. Suonare in modo concentrato, con sicurezza, ma sempre

mantenendo la massima elasticità e libertà, ossia, sentendo tutto il braccio costantemente

libero, privo di tensioni.

Grazie a questo studio si può arrivare alla piena assimilazione di ogni movimento e alla

padronanza dei propri mezzi. Ciò che all'inizio appare razionale e scientifico, diventa poi

naturale, istintivo e quindi ‘libero’.

Ovviamente, non si può parlare di tecnica se non si considera un altro fondamentale elemento

dell’interpretazione musicale, vale a dire il suono. «La musica è l’arte dei suoni» dice

Neuhaus:

«Non ci dà immagini visibili, non si esprime con parole e concetti. Parla solamente attraverso
i suoni. Ma si esprime pur sempre chiaramente e comprensibilmente , come le parole, i
concetti e le immagini visive. La sua struttura è soggetta a regole, come la struttura di un
discorso verbale artistico, come la composizione di un quadro, di una costruzione
architettonica. La teoria della musica, lo studio dell’armonia, del contrappunto e l’analisi
delle forme si occupano di chiarire queste regole, create dai grandi compositori in accordo
con la natura, la storia e con lo sviluppo dell’umanità».11

Ecco, quindi, che il primo e principale obiettivo di un pianista è quello di ottenere un bel

suono. Quest’ultimo si può raggiungere solo grazie ad un buon possesso tecnico (tecnica non

11
H. Neuhaus, op. cit., p.89

24
significa solo agilità). Sempre secondo Neuhaus, i pianisti possono commettere due diversi

errori riguardo al suono: sottovalutarlo o sopravvalutarlo.

«Il primo errore è il più diffuso. Chi suona non si sofferma abbastanza sulla straordinaria
ricchezza dinamica e sulla varietà sonora del pianoforte. La sua attenzione è rivolta
soprattutto alla “tecnica” in senso stretto, […]: agilità, uniformità, ‘bravura’, brillantezza ed
effetto esteriore; il suo orecchio non è abbastanza sviluppato, non gli basta l’immaginazione,
non è capace di ascoltarsi, e, naturalmente, neanche di ascoltare la musica. In genere è homo
faber più che homo sapiens, mentre un artista deve essere questo e quello (con una certa
prevalenza dell’ultimo) ».12

Il secondo errore è sopravvalutare il suono,

«che appare in quelli che ammirano troppo il suono, lo gustano troppo, che nella musica
ascoltano soprattutto una bellezza sonora sostale, o piuttosto il suo ‘ essere attraente ’, e non
la afferrano in blocco: in una parola, coloro che oltre gli alberi non vedono il bosco. A
pianisti simili […] bisogna dire così: la ‘ bellezza del suono ’non è un’entità statica e
sensuale, ma dialettica; il suono migliore, di conseguenza il più ‘ bello ’, è quello che
esprime nel modo migliore un determinato contenuto. Può succedere che un suono o una
serie di suoni al di fuori di un contesto, come dire, staccati dal contenuto, possano apparire
suoni ‘ brutti ’, addirittura ‘sgradevoli ’.[…] Ma se un compositore adotta simili suoni con
uno scopo determinato, […] in quel contesto saranno quelli proprio i suoni necessari, i più
utili ed espressivi. Non a caso Rimskij – Korsakov affermava che tutti i suoni dell’orchestra
sono belli e buoni, bisogna solo saperli usare e combinare». 13 «[…] Il lavoro sul suono è il
lavoro più difficile, visto che è strettamente legato alle qualità dell’orecchio e, diciamolo
pure francamente, alle qualità spirituali dell’allievo. Quanto più rozzo è l’orecchio, tanto più
ottuso sarà il suono. Sviluppando l’orecchio (e per far questo, si sa, ci sono tanti modi),
agiremo direttamente sul suono; lavorando sul suono allo strumento, mirando
instancabilmente al suo perfezionamento, noi agiamo sull’orecchio e lo perfezioniamo.[…]
La padronanza del suono è il primo e più importante obiettivo fra tutti gli obiettivi tecnici,
cui un pianista deve mirare, poiché il suono è la materia stessa della musica; nobilitandolo e
perfezionandolo innalzeremo la musica stessa a una grande altezza.
Nelle mie lezioni, lo dico senza esagerazione, per tre quarti il lavoro è dedicato al suono. […]
Prima viene lo ‘ specifico artistico ’, cioè il senso, il contenuto, l’espressione, l’argomento ‘
di cui si parla ’ ; in secondo luogo viene il suono nel tempo, cioè la definizione, la
materializzazione di uno ‘specifico’ e, infine, in terzo luogo, viene la tecnica nel suo
complesso come totalità di mezzi necessari alla soluzione di un obiettivo artistico, il suono al
pianoforte ‘ come tale ’, cioè la padronanza del proprio apparato motorio – muscolare e del
meccanismo dello strumento».14

Non esiste il suono bello in assoluto, esiste invece il ‘suono bello’, che è quello in stile con la

composizione che si sta eseguendo. Ciò che è accettabile e ‘bello’ in Prokofiev può non

esserlo, per esempio, in Chopin. Ogni autore esige dall’interprete un determinato suono, e

quindi il lavoro su di esso, deve essere fatto tenendo in considerazione qualsiasi periodo

storico nel rispetto dello stile sia compositivo che sonoro. Avere la padronanza della materia

sonora è dunque fondamentale e deve essere finalizzata sempre e solo al contesto espressivo

del compositore, ecco cosa significa lavorare sul suono. Si può lavorare realmente sul suono
12
ivi p.90
13
ivi p. 91 - 92
14
ivi p. 93

25
solo lavorando sulla composizione, sulla musica e i suoi elementi, avendo sempre chiaro in

mente l'obiettivo finale. Questo lavoro, a sua volta, è impensabile senza il lavoro sulla tecnica

in generale.

Per concludere questa panoramica sull’interpretazione pianistica, vorrei ricorrere alle parole

di Cortot:

«Se lo desiderate, dichiareremo guerra ‘all’arte per dilettare’alla perfezione merlettata delle
esecuzioni ove l’anima è assente. Insorgeremo contro quelle sfumature tradizionali che non
hanno a loro sostegno che la deplorevole, ma inappellabile giustificazione di ‘fare effetto’.
La musica deve essere contagiosa; pericolosamente, sublimemente contagiosa. Essa
presuppone che voi l’amate tanto da consacrarle la vostra vita, non vi unirete a lei con un
matrimonio di convenienza, frutto di mediocri considerazioni, ma le porterete senza tregua e
senza riposo un’anima ardente e le risorse di tutta la vostra fantasia e del vostro amore.
Da questa comprensione, che diventa ogni giorno più intima, del mistero profondo dell’arte,
nascerà, forse, in un dato momento sacro dei vostri studi, quel brivido interiore che fa
presagire l’approssimarsi della verità artistica. Quel giorno la vostra tecnica avrà progredito
con maggiore efficacia che non dopo mesi di scale senza meta e di esercizi di sterile
virtuosismo. Allora voi affiderete alle vostre dita il compito di trasmettere i vostri pensieri.
Così diverrete un’ interprete e non un esecutore».15

IL PIANISTA E L’ATTORE: SIMILITUDINI TRA DUE TIPOLOGIE DI

INTERPRETI

Nel suo libro L’interpretazione musicale, il Graziosi sostiene che l’interprete è traduttore,

critico, ma anche attore, infatti:

«se attore è colui che riproduce e comunica un’opera d’arte, se attore è colui che parla a un
pubblico e lo vuol ‘persuadere’, se all’attore sono essenziali qualità critiche e retoriche, nel
senso che egli, delineata la fisionomia estetica e i motivi lirici e il carattere umano del
dramma e del personaggio, deve fare intendere agli altri questa propria visione, trasmetterla
con tutti i mezzi, ‘rappresentarla’, non si vede perché non sia da concedersi all’interprete

15
A. Cortot, op. cit., p.10

26
musicale, e non soltanto al cantante d’opera ma al direttore e allo strumentista, identità
estetica con l’attore».6

Naturalmente questo argomento può essere esso stesso l’argomento di un’intera trattazione, in

questa sede desidero solo confrontare e mostrare le similitudini che intercorrono tra due

diversi interpreti, che in comune hanno lo stesso obiettivo, ossia ri – creare, re – interpretare,

un testo (musicale o teatrale). Entrambi hanno bisogno di un pubblico, suonano e recitano per

un pubblico. Ovviamente mi riferisco al concertista, al musicista solista, soprattutto al pianista

solista per eccellenza, poiché rappresenta più affinità con l’attore. Essi devono far rivivere

l’opera di un grande compositore , o di un drammaturgo, di un commediografo e trasmettere il

messaggio in essa contenuto,

«il contatto fra uno scrittore e il suo lettore è diretto , l’opera del pittore esige solo di essere
messa in luce, ma la musica, e con essa il teatro, deve essere re-interpretata per vivere […]
l’interprete è al servizio del compositore [e del drammaturgo aggiungo io] per assimilare e
ricreare il suo ‘messaggio’».

Il lavoro che un pianista compie nell’affrontare lo studio di un brano musicale, dunque è per

molti aspetti simile a quello che compie un attore nello studio di un personaggio.

Nell’affrontare questo argomento, non si può non parlare di uno dei maggiori maestri del

teatro del Novecento: Kostantin Stanislavskij (1863-1938).

Stanislavskij nacque a Mosca nel 1863 da una famiglia facente parte di industriali, mecenati

delle arti. Egli ebbe una precoce educazione teatrale e musicale. Molto giovane fu fra i

fondatori di una nuova compagnia teatrale ed iniziò la sua ricerca sull’attività dell’attore e sul

personaggio. Si cimentò anche alla regia oltre che nella recitazione.

A fine secolo, dall’incontro a Mosca con lo scrittore e uomo di teatro Vladimir Nemirovič-

Dancenko nacque una nuova collaborazione fra il regista ed il suo drammaturgo. Vennero così

alla luce le basi della riforma teatrale russa del '900.

6
G. Graziosi, op. cit., p.99 - 100

A. Copland, op. cit., p.167

Stanislavskij: il sistema della verità e della finzione di Barbara Failla [consultato sul sito
http://www.girodivite.it/antenati/xx2sec/stanislavskij/_stani02.htm]

27
Insieme a Dancenko egli fonda nel 1898 il Teatro d'Arte di Mosca e durante gli anni della sua

carriera intervenne attivamente in dibattiti sul teatro e scrisse numerosi commenti ai lavori

messi in scena.

Per la formazione dell'attore, Stanislavskij applicò il suo metodo che si basava

sull'approfondimento psicologico del personaggio e sulla ricerca di affinità tra il mondo

interiore del personaggio e quello dell'attore. I risultati dei suoi studi furono raccolti in

volumi. Nel 1938 pubblicò Il lavoro dell'attore su se stesso e nel 1957 uscì postumo Il lavoro

dell'attore sul personaggio.

Il lavoro dell'attore su se stesso viene scritto sotto forma di diario di un immaginario attore,

Kostantin Nasvanov, che frequenta la scuola di teatro del regista Arkadij Nicolaevič Torcov

dove egli apprende, durante i due anni di corso, le varie fasi del metodo. Il libro si divide in

due parti; nella prima parte spiega il metodo per attuare i sentimenti e nella seconda il metodo

per creare i personaggi. Nella prima parte l’autore spiega che è fondamentale rivivere la

scena; attraverso il subconscio, la volontà, e la coscienza si deve giungere ad esprimere

esternamente quello che è interiore, con l’aiuto della voce e del corpo che devono comunicare

con precisione le sensazioni interiori. L’aspetto esteriore (trucco, costumi…) certo è molto

importante affinché avvenga tutto questo, ma non è sufficiente. Mentre si recita, l’azione per

essere vera deve avere un fondamento e rispondere ad uno scopo.

Uno dei primi concetti che Stanislavskij propone è il ‘se’ che insieme alle ‘ circostanze date ’

sono la chiave per un’azione scenica vera. L’attore deve domandarsi: ‘ se io fossi in questa

situazione...’. L’immaginazione è indispensabile per il mestiere dell’attore, così come per il

pianista, non solo per creare, ma anche per rinnovare ciò che è già stato creato. Lo scopo è

quello di diventare protagonisti di questa vita immaginaria; ‘io sono’ non vedendomi più in

me stesso ma agendo in base ad essa. Stanislavskij parla del ‘processo della riviviscenza’ e del

‘processo della personificazione’. Con l’aiuto dei tre elementi fondamentali della vita

consultato il libro di Fausto Malcovati, Stanislavskij vita, opere e metodo, ed.Universali La Terza, Bari 1984
pp.130190

28
psichica, l’intelletto, la volontà e il sentimento, si percorrono il ‘testo’ e la ‘parte’, dando così

vita al processo creativo che mano a mano che si sviluppa. La nostra parte interiore con tutte

le sue qualità, le sue facoltà e possibilità, le sue doti naturali, le sue abilità artistiche e le sue

doti acquisite, filtra gli elementi spirituali del personaggio e genera le linee di tendenza

definitive, formate dalla fusione di questi elementi interni ed esterni. Queste andranno infine a

confluire e ad annodarsi nella sensibilità scenica generale e nella ‘linea d’azione’ della parte

che tende al ‘super compito’ finale.

«Secondo Stanislavskij l’attore non è più solo colui (o colei) che su un palcoscenico
interpreta un personaggio. Egli è un professionista della recitazione, e salire sul
palcoscenico è il passo finale di un percorso di appropriazione della parte. Ciò non consiste
solo nell'imparare a memoria le battute e le azioni da compiere, ma soprattutto in un lavoro
di composizione del personaggio. L'attore non deve semplicemente riprodurre delle
‘maschere’, ma deve ‘comporre’ un personaggio in tutto il suo spessore, psicologico e
fisico.»

L'attore, prima di andare sul palcoscenico e recitare, deve ricreare in se stesso il personaggio

che deve interpretare. L'emozione ha un ruolo fondamentale in tale processo compositivo, lo

stato emotivo diventa

«uno stato da raggiungere attraverso un processo di studio delle circostanze date e di


elaborazione pratica delle azioni fisiche del personaggio».21

L'attore deve ‘vivere’ il personaggio, ricreandone il flusso interiore: lo studio delle

circostanze, l'introspezione psicologica, la memoria emotiva, le azioni fisiche sono gli

strumenti espressivi per creare un contatto autentico tra l'attore e il personaggio.

Questo è un elemento di forte affinità con il pianista, se per l’attore è indispensabile rivivere

la scena, per il musicista è fondamentale ‘rivivere’ il brano musicale, studiare le circostanza

che hanno portato il creatore a comporre l’opera, scovarne il significato recondito. Anche

l’interprete può ricorrere al ‘se’, nel momento di eseguire un’opera musicale egli dovrà

entrare in contatto con l’animo del compositore, rivivere sensazioni affini.

A conferma di questo desidero citare le parole di Heinrich Neuhaus:


B. Failla, op. cit.,
21
Gioacchino Palombo, Pionieri del teatro del Novecento : Stanislavskij, Mejerchol'd, Artaud, Grotowski:
Edizioni Mercurio, Catania 1997, p.8

29
«Il metodo delle mie lezioni, in breve, fa sì che l’esecutore abbia chiaro al più presto (dopo
una conoscenza preliminare della composizione e la sua assimilazione anche per sommi
capi) ciò che chiamiamo lo ‘specifico artistico’, cioè il contenuto, il significato, l’essenza
poetica della musica: in questo modo lo studente è in grado di farsi un’idea precisa di quello
che ha davanti (dare un nome, spiegare), partendo da posizioni musicali teoriche. Una volta
compreso con chiarezza questo obiettivo, chi suona ha la possibilità di tendere ad esso, di
raggiungerlo, di attuarlo nell’esecuzione: sono proprio questi i problemi ‘tecnici’ da
risolvere. [il contenuto è il principio gerarchico fondamentale nell’esecuzione]. 22

Stanislavskij è contro ogni cristallizzazione, ogni irrigidimento teorico, per lui sono proprio i

‘luoghi comuni’, a costituire uno dei maggiori pericoli per il teatro. Il suo metodo ebbe

enorme fortuna proprio per il superamento di ciò che si presentava come ‘tradizione’. Per

Stanislavskij il metodo, le tecniche della recitazione fanno parte di una strategia che mira alla

verità del testo teatrale:

«Le strade che portano alla verità sono tante», dice Stanislavskij, «e non sono mai definitive.

Occorre allora avere la capacità di percorrere se necessario strade diverse, mantenendo intatta

la tensione alla verità, mai adagiarsi nella maniera, nella ripetizione, nel ‘luogo comune’. E'

qui che l'attore, il regista, chi ‘fa teatro’, tradisce il teatro stesso».

Anche in questo il pianista e l’attore sono simili; anche il pianista, nella propria esecuzione

mira al ‘vero’, cercando in tutti i modi di rispettare quanto voluto dall’autore della

composizione. E’importante riportare le parole di un altro grande pianista, Alfred Cortot:

«Il compositore che ci trasmette il riflesso delle sue impressioni, conta sull’interprete per
risvegliare, negli uditori, delle emozioni simili a quelle da lui provate. […] La musica
agisce fisicamente sull’organismo, e noi assimiliamo a traverso questa sollecitazione fisica,
delle emozioni più o meno raffinate che sono in rapporto col nostro patrimonio, più o meno
grande, di idee e di sentimenti. […] esiste sempre alla base dell’ispirazione del compositore
un sentimento che l’interprete ha il dovere di scoprire per trasmetterlo all’uditore. […] la
potenza ideale della musica […] si rivela nel far rivivere le emozioni umane, le sensazioni a
noi familiari che essa contiene, magnificate nell’insieme del rivestimento artistico». 

Per Stanislavskij, il lavoro che l’attore compie su di sé comporta disciplina e capacità di saper

andare oltre le proprie abitudini espressive meccaniche. In tale lavoro, narcisismo e

egocentrismo dell'attore sono un ostacolo:

«Se durante il lavoro siete presi dal pensiero dell'ambizione personale, non approfondirete
mai uno dei segreti più profondi dell'arte creativa: vedere e capire il cuore dell'uomo che vi
è dato nella parte. Non diventerete mai l'uomo della vostra parte se il vostro cuore e i vostri

22
H. Neuhaus, op. cit., p.26

A. Cortot, op. cit., pp. 7 - 8

30
pensieri, oltre che con i compiti dell'arte, sono occupati con altre cose personali: il desiderio
di mettersi in primo piano, il diventare eccezionale ecc.». 

Si potrebbe fare questo rimprovero a tutti quei pianisti che fanno dell’esecuzione pianistica un

saggio di bravura, una mostra delle proprie abilità virtuosistiche, e nel dare questo sfoggio di

sé si dimentica dell’aspetto più impostante: la MUSICA.

Neuhaus nel suo libro scrive :

«la parola ‘tecnica’ deriva dalla parola greca techné, e techné significava arte. Qualsiasi
perfezionamento della tecnica è perfezionamento dell’arte stessa vale a dire, contribuisce
alla rivelazione del contenuto, del ‘significato recondito’, in altre parole è la materia,
l’incarnazione reale dell’arte. Il guaio è che parecchi pianisti con la parola ‘tecnica’
sottintendono soltanto agilità, velocità, uniformità, bravura, a volte soprattutto ‘fuoco e
fiamme’; ma questi sono singoli elementi della tecnica, e non la tecnica nella sua interezza,
come la intendevano i greci e come la intende un vero artista. La tecnica – techné – è
qualcosa di assai più complesso e difficile. Il possesso di qualità come l’agilità, la pulizia e,
persino, un’esecuzione musicale corretta, ecc…, di per sé non garantiscono ancora
un’esecuzione artistica; ad essa conduce esclusivamente un lavoro serio, approfondito,
ispirato. Ecco perché per le persone molto dotate è così difficile segnare un limite preciso
fra il lavoro tecnico e il lavoro musicale»,
e ancora

«Per parlare e avere il diritto di essere ascoltati, è necessario non solo saper parlare, ma
innanzi tutto avere qualcosa da dire. […] centinaia, migliaia di esecutori violano questa
regola».

Molti grandi pianisti, sia del passato che del presente, sono avversi all’esibizionismo, ad

esempio, quando Joseph Horowitz chiese ad Arrau cosa ne pensasse dell’esibizionismo

tecnico, se lo considerasse un «mezzo legittimo per tenere desto il pubblico», egli rispose

«Legittimo in un certo periodo del XIX secolo, quando il pianista si è affermato come
solista e c’è stato questo culto della personalità. Gran parte delle composizioni eseguite
valevano ben poco. Erano dei pretesti per stupire. E questo allora lo si accettava» . 26

Horowitz prosegue la sua intervista chiedendo al maestro «Per un certo tipo di musica questo

rimane un approccio valido anche oggi, per esempio il Mephisto Walzer?» ed egli risponde

«Credo che nel Mephisto ogni nota abbia un valore talmente espressivo che nessuno
dovrebbe fare niente per la sola bravura.[…] Quando avevo vent’anni la gente si lamentava
perché suonavo troppo veloce. E si è lamentata per anni. E’ probabile che in molti casi
suonassi proprio così, perché ero innamorato del pianoforte e delle mie dita. Forse andavo
alla ricerca di una manciata di applausi in più. Ma non l’ho fatto coscientemente da


Kostantin Stanislavskij, L’attore creativo, a cura di Fabrizio Cruciali e Clelia Faletti, La casa Usher, Firenze
1980, p.135

H. Neuhaus, op. cit., pp. 27- 28
26
J. Horowits, op. cit., p.124

31
moltissimo tempo. Sono diventato, in un certo senso, indifferente al fatto di piacere o meno
a una platea. Preoccuparsi del pubblico, questo sì può uccidere un’interpretazione». 

Proseguendo ancora con il teatro, Stanislavskij nel suo libro scrive:

«La fantasia creativa dell'artista ha bisogno innanzitutto, per essere efficace, di un


presupposto indispensabile a ogni lavoro creativo: la calma. La calma nella quale soltanto si
può raggiungere l'armonia di pensiero e azione. E' assolutamente impossibile formare un
cerchio creativo, cioè lo spazio in cui deve operare la fantasia, se i pensieri sussurrano
all'orecchio dell'attore: ‘Se sei Onegin, comportati come un giovanotto innamorato di sé che
desidera sfuggire alla noia’, e intanto però, nel cuore dell'artista c'è il peso di qualche
spiacevole scena familiare o la paura che la direzione del teatro possa dimenticarsi di dargli
una parte o lo paghi di meno di quanto paga il signor X. Entrambe le forze - cuore e
consapevolezza - se lavorano nella calma, attraverso la concentrazione dell'attenzione,
possono portare l'uomo così lontano nella rinuncia dell'io personale che nella sua psiche si

crea uno stato di armonia completa» .

Anche nella musica si può sperare di ottenere un’esecuzione perfetta solo attraverso la

concentrazione e la calma, solo così si può giungere allo stato più intimo di una

composizione, e trasmetterlo agli altri.

Secondo quanto scritto da Barbara Failla nel saggio Stanislavskij: il sistema della verità e

della finzione, « l'obiettivo è sempre quello di giungere alla verità dell'interpretazione, base

fondamentale per la veridicità di ciò che si rappresenta e per i processi di identificazione degli

spettatori. Nel gesto e nella serie di gesti dell'attore autenticamente vissuti c'è una verità che

genera la convinzione: tale convinzione è la premessa all'identificazione dell'attore nel

personaggio: ‘io sono’ il personaggio. La reviviscenza è messa in moto dal gesto giusto, e una

volta che la si attua ne consegue anche la linea d'azione del personaggio - non è possibile

‘agire’ all'unisono con il personaggio e ‘sentire’ in dissonanza con esso. Solo quando si

raggiunge questa sensazione di ‘essere’ nel personaggio si può affrontare lo studio più

dettagliato del testo e la ricerca del ‘supercompito’ del personaggio.»

Anche nella musica ogni gesto deve essere fortemente sentito dal pianista; infatti anche nella

musica occorre interpretare con tutto il corpo (e non solo con le dieci dita!), con l’espressione

del viso, con i respiri e con ogni altro gesto necessario per una buona interpretazione. Se

questi non fossero effettivamente sentiti come parte integrante dell’esecuzione musicale, si

ibidem

K. Stanislavskij, op. cit., p.86

32
otterrebbe solo l’effetto di qualcosa di finto, innaturale. Parafrasando quello che ha scritto

Stanislavkij «solo quando si raggiunge questa sensazione di essere nel ‘brano musicale’ (il

personaggio del musicista)» è possibile essere all’unisono con il compositore, e di

conseguenza riuscire a trasmettere l’essenza più vera del brano musicale ad un pubblico.

«Campo specifico di creazione dell'attore è quello che Stanislavskij chiama, in alcuni scritti,
il ‘sotto-testo’. Il drammaturgo è l'autore del testo, l'attore è l'autore del sottotesto, ovvero
dell'insieme di elementi espressivi e pre-espressivi, di intenti e di azioni, che formano la
presenza scenica dell'attore. L'attore diventa co-autore del personaggio.»

Anche il pianista compie un lavoro simile, infatti molto spesso, per interpretare si ricorre ad

immagini extra – testuali per rendere al meglio l’esecuzione, per ricreare un determinato

suono, per entrare meglio nel significato del brano musicale. Ad esempio, Cortot

«ricorda agli artisti il dovere che loro incombe di fare indagini su tutto ciò che li può
illuminare sulle intenzioni dell’autore, con lo scopo di ridurre al minimo possibile eventuali
errori, e che per obbligare i suoi discepoli a fare queste indagini, esige da ciascuno di essi,
sotto pena di rifiutarsi di sentirli, delle cognizioni la cui natura sia tale da impedire che il
lavoro meccanico si sostituisca a quello cosciente e fecondo di quei risultati che egli
preconizza.[…] »;

inoltre

«ciò che interessa maggiormente Cortot è il sapere se l’esecutore abbia una comprensione
poetica dell’opera che esegue.[…] Egli detesta le fredde sensazioni anatomiche che non
delucidano affatto il significato poetico. Non si conquista il suo favore presentandogli
quella che si chiama un’analisi chimica nella quale ci si è occupati di elencare: Tema A,
ponte, Tema B, sviluppo etc. Per quanto ami che il musicista si muova agevolmente fra le
architetture musicali,[…] tuttavia egli si compiace ancora più nel vedere applicare a
qualche tema un epiteto che ne determini il carattere. Egli desidera che all’indicazione di
una modulazione, alla numerazione dell’armonia, si aggiunga qualche parola che ne mostri
la tendenza espressiva, e provi che l’esecutore si è sforzato di comprenderla.[…]». 

Nel testo di Cortot, quando il maestro parla delle varie forme musicali come la sonata, il

preludio, i concerti, spesso ricorre a riferimenti extra musicali, per spiegare le diverse opere,

mi limiterò solo a citarne una. Quando Cortot commenta il Preludio n° 15 op. 28 di Chopin

dice:

«Nel 15° Preludio è indispensabile stabilire una differenza nell’espressione e nella qualità
della sonorità, fra la sonorità di re bemolle maggiore e quello di do diesis minore. La parte
in re bemolle senza rispecchiare uno stato d’animo felice, deve avere un carattere tenero e
cullante. Poi comincia la visione fantastica. Un fantasma, nel do diesis minore, apre la
porta, viene verso di voi e s’impadronisce della vostra personalità. Sulle prime non ci si


G. Palombo,op. cit., p.14

A. Cortot, op. cit., p.13

ivi, p.14

33
rende conto ma, a poco a poco l’incubo prende corpo, vi assale con le sue minacce e col suo
aspetto terrificante. Vi è una progressione in questo terrore che si accentua nel la maggiore.
Per raggiungere l’intensità in questa parte centrale, non c’è bisogno di un aumento di una
sonorità a sbalzi, ma di una continuità assoluta nel crescendo. Ciò che vien dopo sono dei
sospiri, qualche cosa che esprime il ritorno alla coscienza, la sensazione che si prova
quando si vuol cancellare dalla memoria un’impressione penosa».32

Ritornando a Stanislavskij, egli scrive:

«Ci si può sottomettere ai desideri altrui, agli ordini del regista o dell'autore, ma li si
eseguirà in modo meccanico, inerte: si possono rivivere solo i propri personali stimoli e
desideri, creati e rielaborati dall'attore stesso, dalla propria volontà e non da quella altrui». 

Il pianista, nell’eseguire un brano musicale, deve attenersi a quanto voluto dall’autore, ma non

lo fa in modo meccanico, egli filtra il tutto attraverso la propria personalità, attraverso il

proprio modo di intendere quella data composizione, affinché essa non risulti solo come una

sequenza di note. Ecco quindi che sia nel teatro sia nella musica, non si potrà mai avere un’

unica interpretazione, ma se ne avranno tante quante sono le personalità che si troveranno di

fronte uno stesso testo teatrale o musicale.

Per Stanislavskij la ritrazione dell'io dell'attore permette all'attore di ri-nascere come nuovo

io:

«Da questo momento in poi, la persona dell'attore - la sua personalità privata - si ritira sullo
sfondo. E' come se fosse dimenticato. Emergono momenti del tutto differenti, da cui nasce
un nuovo 'io'. Questo uomo nuovo è per me, in questo momento, il più caro, quello a cui la
mia esistenza ha ceduto il primo posto. In quanto a me, mi sono ritirato sullo sfondo per
servirlo con tutta la mia energia e con tutta la mia gioia, cioè: per vivere al suo posto». 

Credo che questa affermazione non si possa applicare al pianista. E’ vero che l’interprete

dovrebbe entrare nei panni di un’altra persona (il compositore), però non è possibile che

avvenga l’annullamento della personalità del pianista. Infatti una perfetta interpretazione

nasce dalla fusione della personalità dell’interprete con quella dell’autore. Mi sovvengono

allora le posizioni di Bertold Brecht.

‘Egli parla di Stanislavskij negli Scritti (vol. VII):

«Il sistema di Stanislavskij è indubbiamente un passo avanti - scrive Brecht - se non altro
perché è un sistema”, ma tuttavia alcuni elementi sono per Brecht inaccettabili. Innanzitutto
l'immedesimazione dell'attore con il personaggio: per Brecht l'attore deve essere capace di
distanziarsene e giudicarlo. L'attore deve intervenire con il suo giudizio, per rilevare tutte le
contraddizioni del personaggio (e dell'opera), per questo non è possibile l' ‘azione
32
ivi, pp. 41 - 42

Cit. da Malcovati p.178

K. Stanislavskij, op. cit., p.136

34
ininterrotta del personaggio’ così come insegnava Stanislavskij: l'azione viene interrotta
proprio dall'intervento del nostro giudizio e della nostra critica degli eventi e dei
personaggi»

Brecht riprende il metodo Stanislavskij per quanto riguarda la verità del personaggio,

l’immedesimazione, ecc. Il metodo brechtiano quindi non è in opposizione a quello di

Stanislavskij, ma lo ingloba e lo finalizza in maniera diversa. Ciò che chiede Brecht non è

solo di rappresentare il personaggio, ma esige una presa di coscienza. L'attore deve recitare

ma deve essere anche in grado di dare un giudizio di valore sul personaggio, ed essere

cosciente.’ 

LE COSTANTI VARIABILI

Molto spesso si sente dire che quel dato pianista sia il migliore esecutore di un compositore.

In base a quanto finora esposto in questa mia trattazione, non so se questa affermazione sia

sempre giusta. Ritengo che il migliore esecutore sia il pianista che riesce trasmettere il

messaggio contenuto nella composizione e l’espressione più alta contenuta nella musica.

Se è vero, dunque, che non esiste un unico modo di interpretare un determinato brano

musicale, affermare che quel pianista sia il migliore interprete di quel dato compositore

potrebbe considerarsi una contraddizione, perché ciò significherebbe ammettere che

l’esecuzione che dà di quel brano musicale sia l’unica secondo un certo canone estetico -

interpretativo. Se fine ultimo di ogni interpretazione è la ri - creazione artistica della musica,

ogni interprete che riesca a raggiungere questo scopo è da considerarsi il migliore esecutore di


Cap. intitolato Stanislavskij e Brecht, contenuto nell’ Introduzione di Gerardo Guerrieri all’edizione italiana
del 1975 de il lavoro dell’attore si Stanislavskij, edito La Terza

35
quel determinato autore. Tuttavia, ci sono pianisti che si sono specializzati in un determinato

repertorio, o si sono dedicati allo studio di quel dato compositore, e, se la specializzazione in

sé non comporta la ‘migliore’ esecuzione, si deve però ammettere che le particolari

interpretazioni di alcuni artisti sia riferita a un autore che a determinate opere, sono rimaste

leggendarie nella storia della musica.

Questo perché esiste pur sempre una corrispondenza tra una ‘costante’ espressiva insita

nell’opera e nello stile di un musicista e la capacità di intuirla e trasmetterla da parte di un

interprete, seppur nelle possibili varianti.1

Arrau, ad esempio, nonostante l’ampiezza del repertorio, è passato alla storia soprattutto per

le sue interpretazioni di Liszt, Chopin, Beethoven e Brahms; il nome di Cortot è associato

all’opera di Chopin e quello di Backhaus a Beethoven.

L’APPASSIONATA: CLAUDIO ARRAU E WILHELM BACKHAUS, DUE


INTERPRETI A CONFRONTO.
In questo paragrafo intendo mettere a confronto due diverse interpretazioni della celebre
Sonata beethoveniana, per analizzare come due grandi pianisti intendano quest’opera nel
rispetto del testo e nelle reciproche peculiarità esecutive.
La Sonata in Fa minore op. 57 è nota con l’appellativo di Appassionata, datole dall’editore
Cranz. E’ stata composta nel 1803 – 04. ma è poi stata pubblicata nel febbraio del 1807, ed è
stata dedicata al conte Franz von Brunswuick. E’ formata da tre movimenti: Allegro assai,
Andante con moto, Allegro ma non troppo.
Il primo si apre con un’atmosfera minacciosa, è cupo e tempestoso; è un movimento molto
vasto, perciò dà luogo a contrasti più forti tra il primo e il secondo tema.
Segue il secondo movimento, in tempo lento, formato da un gruppo di variazioni su un tema
solenne che rimane sempre nella stessa tonalità. Il finale irrompe improvviso nell’Andante: un
‘moto perpetuo’ in semicrome, che diventa turbinoso alla fine.

1
Kazimierz Morski,

Cfr. The Oxford history of music, ed. Garzanti, Milano: L’età di Beethoven (1790 – 1830), cap.VIII pp. 370 -
371

36
Molto importante è il fatto che in questa Sonata l’accordo di settima diminuita appare tre
volte, e ogni volta con un significato diverso. Lo troviamo alla fine dello sviluppo nel primo
movimento, ed è sentito come il punto culminante di tutta questa sezione; compare
improvviso, come un colpo secco alla fine dell’Andante che introduce il finale ed infine si
presenta alla fine dello sviluppo come unico momento di riflessione di questo terzo tempo
così irrequieto.

37
A. Cortot, nel libro Corso d’interpretazione, curato da Jean Thieffry, analizza varie forme
musicali, quali il preludio (da Bach fino a Debussy), la suite, il concerto, la variazione. Nel
capitolo dedicato alla forma sonata, tra i vari esempi, affronta anche alcune Sonate di
Beethoven. Nelle indicazioni e nei suggerimenti per l’esecuzione dell’Appassionata, egli si
riferisce alla diteggiatura, alla dinamica, nel proposito di chiarire il contenuto stesso di
quest’opera. E’importante riportare qui quanto scrive:

«Non fu Beethoven a dare alla Sonata op.57 il titolo di Appassionata, ma giacché questo le è stato
applicato vivente l’autore, che non protestò, possiamo accettarlo anche noi. E’ probabilissimo che
la dedica al fratello di Teresa von Brunswick, la quale era, a quanto si dice l’immortale amata, fu
un mezzo per votare a lei, in via indiretta, i sentimenti ardenti di cui la sonata trabocca. Ma anche
senza questa supposizione, resta il fatto che l’anima di Beethoven era colma, e senza tregua, di
sentimenti ardenti che egli esprimeva in musica anche quando non pensava ad un essere
particolare, fosse questo il più caro.
Quello che sappiamo con certezza di questa Sonata, è che essa fu composta all’inverso, cioè
cominciando dal Finale. […] Desidererei darvi di questa Sonata una visione più romantica di
quella che ordinariamente si ha. Sappiamo che Beethoven scriveva per liberarsi da una
sofferenza, e che diceva anche: ‘Se sapessero a che cosa penso, quando scrivo, ne sarebbero
spaventati’ Interrogato sul senso dell’Appassionata egli rispondeva: ‘Leggete la Tempesta’. [ nota
dell’autore: La Tempesta di Shakespeare ]
In questo caso, dunque, noi sappiamo ciò che Beethoven ha voluto dirci, ma se in altri casi
ignoriamo la sua intenzione, ciò non autorizza a dire: ‘Non ha voluto dir niente’ perché un simile
pensiero sarebbe da pigri e da indifferenti. Eleviamoci, invece, verso il Maestro e cerchiamo di
comprenderlo.
L’inizio del 1° tempo, per ritmico che sia, è anche fantomatico. Pare che un’apparizione prenda
corpo. Vi è del mistero nella grandiosa maestosità del primo tema che non è interrotto., ma invece
prolungato dagli accordi che evocano un immenso ‘fortissimo’ orchestrale. Le tre ultime crome
della 13ª misura devono essere molto sostenute e senza precipitazione. Il tempo non riprende del
tutto se non nelle semicrome che seguono. Tutto l’inizio non è che una grande preparazione. E’
dopo il passaggio di semicrome che comincia realmente la Sonata o, per lo meno, il suo sviluppo
drammatico. Il pianissimo indicato a questo punto, è un cattivo colorito e non si può attribuirlo ad
altro che alla sordità che trascinava Beethoven e degli errori di valori sonori. Esso va trasformato
in un mezzo piano che prepara il fortissimo.

38
La 2ª idea, presentata in la bemolle maggiore, non è che il rivolto della prima. Nobile, accogliente,
generosa, essa invita a pensare al Prospero della Tempesta. Per conto, vediamo Caliban, o più
generalmente l’incarnazione delle forze malvagie, nel passaggio in la bemolle minore che segue i
trilli in richiami ed il lamento discendente che lo prolunga. Cupo, ostile, questo brano in la
bemolle minore deve avere un ritmo inesorabile e una potenza estrema.
Alla 11ª misura, dopo i 4 bequadri, la sola diteggiatura che permetta di rendere l’effetto vigoroso
dei gruppi di semicrome, alla mano sinistra, consiste nel battere col pollice della destra la prima
nota di ogni gruppo. La stessa diteggiatura verrà per i gruppi seguenti, qualunque sia la posizione
sui tasti. Intanto, la mano che suona il motivo tematico deve cercare di trovare una sonorità
audace, un effetto di lampi guizzanti. Alla 9ª misura dei quattro bemolli, in seguito, le terze della
mano destra devono risonare come delle grida. Alla 16ª misura dello stesso passaggio i la bemolle
sostenuti del basso sono importantissimi. Mettere dell’eloquenza nel disegno delle terzine. Non è
la grazia che adesso è richiesta, ma una patetica nobiltà. In seguito, il piano deve succedere
immediatamente al forte. La mano sinistra, nei suoi accordi, sembra rimuovere un fondo torbido,
mentre la mano destra si fa commovente e decisa. Nel passaggio che precede la riesposizione, i re
bemolle ripetuti fortissimo dalla mano sinistra, devono scoppiare terribili. La migliore diteggiatura
consisterà nell’attaccarli col 2° e 3° dito accoppiati. Prima della riesposizione, le ripetizioni del do
grave, al basso, devono farsi in una sonorità sorda, lontana, minacciosa e ritmica. Il ‘crescendo’
dovrà essere sviluppato a poco a poco, ma irresistibilmente. I due accordi forte prima della
corona, saranno strappati, e l’accordo piano della corona risonerà in seguito in un timbro debole,
ma metallico. Dopo i quattro accordi adagio, precedenti il più allegro, bisogna attendere ma non
separare, con un respiro, l’accordo coronato da ciò che segue. Fate sommergere tutta la fine; fatela
rassomigliare a un dramma del mare in cui l’abisso si chiude su un grido disperato.
È ancora Prospero che ha la chiave del segreto dell’Adagio; ma qui tutte le passioni sono
dominate. Il sentimento è religioso, o per lo meno filosofico. Non c’è che un passaggio, verso la
fine, in cui il sentimento possa farsi personale e commovente. Fin là tutto è gravità, solennità.
Pensate ad un corteo di filosofi. Del resto, il carattere di marcia emerge evidentemente nella prima
variazione. È da essa che appare più chiaramente che mai il ‘tempo’ vero del pezzo. Prendetela
come modello per determinare l’andamento quando incomincerete. Questo andamento non è lento
perché si tratta di un andante con moto in 2 movimenti, e non in 4. È la scomposizione in crome
che induce spesso in errore. Serbate al ritmo la sua dignità. La sua placidezza. Se talvolta i
contorni melodici si fanno più espressivi, è necessario tuttavia che il ritmo essenziale li regga
sempre. Queste variazioni sono già nel carattere misterioso delle variazioni dell’ultima maniera, e
fanno pensare a quelle dell’op. 109 e dell’op. 111. la cura di mettere costantemente il tema in
rilievo, nuocerebbe all’espansione generale. Il tema emana dalla musica stessa; deve fluttuare
nell’aria. Dei sottolineamenti troppo apparenti gli toglierebbero il suo mistero. Osservate che son
tre le ragioni nelle quali esso si muove: grave, media, acuta. Queste rappresentano tre registri di
sentimenti nei quali, ogni volta, esso prende una tinta particolare. Le variazioni terminano col
passaggio di biscrome. In seguito, non vi sono più che delle armonie, e un basso che si muove.
Separate un po’ da ciò che li precede i due accordi che servono di transizione tra l’Andante e il
Finale. Bisogna avere la sensazione di non sapere ciò che dopo questi accordi sta per
sopraggiungere. Per la diteggiatura nell’ultimo accordo, ecco ciò che vi raccomando: quattro note
con la mano sinistra, quattro con la destra, e la nota superiore, con la sinistra, incrociando.
L’atmosfera del finale è elettrica. Ritenete un po’ i primi accordi, poi affrettate il movimento a
poco a poco, rendendo questi accordi sempre più sferzanti nei ritmi in diminuzione della 3ª e 4ª
misura. In seguito, le semicrome si precipitano verso il forte col rombo di un tuono, in onde
vorticose che mischiandosi ed avvolgendosi paiono scagliarsi all’assalto del cielo. Questa è
l’evocazione di una vera tempesta, in bàlia della quale dei lembi di melodia se ne vanno al vento
come delle cose lacerate dall’uragano che le porta via. Qui il carattere patetico degli elementi
scatenati che va reso con tutte le possibilità. Nel tema propriamente detto, cioè alla 20ª misura del
finale, e nelle seguenti, i pollici saranno piazzati sulla nota che segue la pausa di semicroma
(mano destra) e sulle prime note dei movimenti seguenti. Come pure si farà così in ciascuno dei
gruppi di due misure di cui il tema è formato, sia che le note suddette si trovino su tasti neri o su
tasti bianchi. Alla 64ª misura, la mano sinistra deve formare un vortice come un ciclone. Cinque
misure prima della doppia sbarra, il sol bemolle acuto sarà più brillante se si lancerà con la mano
sinistra. All’8ª misura della seconda ripresa (sviluppo), le crome della mano destra devono essere
ben pronunziate, con intenzione ed espressione. Alla 25ª misura dello sviluppo il carattere è
lamentevole, alla 29ª misura in aumento di potenza, ma con un’espressione straziante; alla 33ª
misura, di nuovo lamentevole e più dolce. Fate attenzione a non cambiar tempo nelle misure
precedenti alla riesposizione in cui i valori si rallentano. Alla 15ª misura della riesposizione, il
ritardando serve enormemente al dinamismo del passaggio. Le formule trillate che precedono il

39
presto, devono diventare sataniche. Se invece di atterrirci con l’orrore di questo riso demoniaco,
voi sonate soltanto un semplice trillo, tutto è perduto… Il Presto è una specie di vortice delle
Baccanti. Affinché questo Baccanale furioso abbia tutto il suo accento, è necessario ritenere un po’
i due primi accordi, ma naturalmente, e come se il loro terribile peso li incatenasse al suolo. Le
7
crome che seguono siano trepidanti, forsennate…».

Per procedere al confronto tra le interpretazioni di Arrau e di Backhaus, ho fatto riferimento a


tre diverse edizioni. La Urtext, l’edizione Curci curata da Artur Schnabel (un altro
grandissimo interprete di Beethoven), e quella della Peters curata dallo stesso Arrau. Questo
perché sia Schnabel che Arrau introducono alcune indicazioni di elementi tecnico –
interpretativi all’edizione originale.
Arrau curò l’edizione delle trentadue Sonate per la Peters dal 1969 al 1978, e in questo si
avvalse dell’aiuto di Philip Lorenz, che era stato uno dei suoi primi allievi (dal 1951 al 1969).
Il primo volume, che comprende le prime quindici Sonate, uscì nel 1973, il secondo nel ’78.
Nella sua edizione Arrau tenne in considerazione la Urtext, cioè il testo originale di
Beethoven; tutti i suggerimenti interpretativi sono messi tra parentesi, i pedali tra parentesi
quadre e dove inserisce le legature, esse appaiono tratteggiate; ciò per distinguere le proprie
indicazioni e quelle di Beethoven. L’edizione della Curci curata da Schnabel, invece, è del
1950 (ristampata nel 1978). Schnabel ha inserito varie indicazioni di tempo all’interno dei tre
movimenti della Sonata (cosa che invece non troviamo nelle altre due edizioni).
Si tratta di due incisioni effettuate in luoghi e tempi differenti. Quella di Backhaus è una
registrazione in studio, fatta nel 1958 (ed è impressionante sapere che il maestro qui aveva la
bellezza di 74 anni!), mentre in Arrau si tratta di una registrazione fatta dal vivo il 10
settembre 1959 (un anno dopo quella di Backhaus, quando il maestro cileno aveva 56 anni) in
occasione di un recital ad Ascona.
La prima differenza che si riscontra sta nei tempi di esecuzione, infatti quelli di Backhaus,
rispetto ad Arrau, sono leggermente più veloci. Lo si nota anche valutando la durata
dell’incisione:

Backhaus in totale: 20,16 Arrau in totale: 25,29


1° movimento 9,33 1° movimento 10,49
2° movimento 5,56 2° movimento 7,02
3° movimento 5,27 3° movimento 8,08

7
A. Cortot, op. cit., pp. 97 - 102

J. Horowitz op. cit., pp.193 - 201

40
Sono quasi sei minuti di differenza. Ma bisogna precisare che nel terzo movimento Backhaus,
a differenza di Arrau, non fa il ritornello di tutta la seconda parte (bb. 118 – 303). Ma a parte
questo particolare, le maggiori diversità esecutive si riscontrano nel primo e nel secondo
movimento. Analizziamo ora ciascun movimento, prendendo in considerazione le indicazioni
metronomiche che segna Schnabel e mettendole poi a confronto con i tempi indicati nella
Peters. In tutta la Sonata, Arrau fa un largo impiego di ‘ritenendo’ e ‘rallentando’ non indicati
da Beethoven. Egli si servì di questi mezzi per evidenziare al massimo, oltre agli aspetti
emotivi, gli aspetti strutturali dell’opera. Ma non si tratta di libertà interpretativa presa Arrau,
quanto da una prassi storica: infatti, Carl Czerny, che era stato allievo di Beethoven proprio al
tempo della composizione dell’ Appassionata, nel terzo capitolo della terza parte del Metodo
op. 500, pubblicato nel 1839, indica undici casi in cui «suol ritardarsi» senza che il ritardando
sia scritto. L’analisi dell’esecuzione di Arrau ci mostra che tutti i ‘ritardando’ introdotti
dall’interprete, rientrano nella casistica di Czerny. Non dimentichiamo che Arrau fu uno dei
più grandi sostenitori della fedeltà testuale, quindi è impensabile che egli introduca, per
semplice gusto personale, elementi che non rientrino nel carattere dell’opera. Probabilmente
Arrau ha consultato il testo di Czerny, in quanto nell’Appendice contenuta nell’edizione
Peters, oltre ad esserci le indicazioni metronomiche aggiunte da Arrau, ci sono anche quelle
indicate da Czerny.

Arrau Czerny Schanbel


I. Allegro assai . = 108  = 108 = 120 circa
II. Andante con moto = 104 = 108 = 96
III. Allegro ma non troppo = 138 = 132 = 152 circa
Presto =92= 92 = 104

Primo movimento Allegro assai

Nel corso di questo movimento, come ho già specificato sopra, Schnabel segna varie

indicazioni metronomiche (che invece non ritroviamo nel testo originale contenuto

nell’edizione Urtext). Sia Arrau che Backhaus durante la loro esecuzione cambiano spesso

tempo. In alcuni casi presentano similitudini tra di loro e con quanto ha scritto Schnabel. Le

lettere segnate in grassetto, tra parentesi indicano tutti gli esempi contenuti nell’Appendice.

41
Per tutta la prima parte [A], dalla b.1 alla b.16 (che potrebbe benissimo essere vista come

un’introduzione), Schnabel indica = 120, Backhaus segue lo stesso criterio, mentre Arrau fa

104 - 108, così come viene anche indicato nell’Appendice della Peters. Credo che questa

differenza sia dovuta al fatto che Arrau volesse sottolineare maggiormente il carattere

minaccioso di questo primo movimento, creando un’attesa per qualcosa che sta per accadere.

Ma dalla b.16 alla b.23 [B] adotta lo stesso tempo di Schnabel e Backhaus.

Alla b.24 [C] Schnabel indica un tempo pari a126, anche se sembra invece che entrambi
eseguano il tutto leggermente più veloce, iniziando poi un ampio rallentando prima del
secondo tema. [D].

Sia Arrau che Backhaus eseguono quest’ultimo allo stesso tempo in cui lo indica Schnabel,

cioè 112. Alla fine della scala discendente di terzine (b.50 [E]), Arrau fa un ampio ritardando,

in modo che l’entrata della parte conclusiva dell’esposizione appaia improvvisa. Backhaus

invece è più diretto. Entrambi, per questa coda adottano un tempo pari a 120 ed eseguono un

leggero rallentando nelle ultime quattro battute prima della fine dell’esposizione. A questo

punto [F], Arrau inizia questa sezione con lo stesso tempo iniziale, cioè 108, mentre Backhaus

esegue queste prime battute a 120, come segna anche Schnabel. Dalla b.79 alla b.92 [G], tutti

e tre i pianisti adottano lo stesso tempo, cioè 138, poi, come nell’esposizione, Backhaus e

Arrau, attaccano la parte con le note ribattute in terzina (b.93 [H]) leggermente in un tempo

più veloce rispetto a quello indicato da Schnabel, per poi fare un piccolo rallentando prima del

secondo tema (b.109 [I]); esso [L] inizia ad un tempo di 126, quindi più veloce rispetto

all’esposizione. Anche in questo punto tutti e tre i pianisti sono d’accordo Dopo le prime

quattro battute il secondo tema è ripetuto due volte, ed ogni volta sempre più veloce fino a

b.122 [M], il punto dove inizia tutta la parte basata sull’accordo di settima diminuita alla

quale ci si è riferiti. Qui Backhaus e Arrau procedono in maniera diversa. Il primo continua in

maniera diretta, mentre Arrau fa un rallentando per sottolineare il punto culminante, e


come unità di tempo viene indicata la semiminima col punto. Quindi ogni volta che parlo di tempo, bisogna
tenere in considerazione questa indicazione.

42
riprendere poi lo stesso tempo di Backhaus; entrambi sembrano seguire lo stesso tempo scritto

anche da Schnabel, cioè 144, fino alla b.129. Nelle quattro battute successive, Backhaus

sembra diminuire di pochissimo il tempo (forse per sottolineare e per marcare meglio le note

del basso). Dalla b.134 [N], fino alla fine dello sviluppo (b.150) , troviamo nuovamente

d’accordo i tre interpreti riguardo al tempo da adottare, ossia 126.

La ripresa è in forma abbreviata, infatti manca tutta la parte dell’ ‘introduzione’ (bb.1 – 16).

Fino all’apparizione del secondo tema, valgono le stesse cose già esposte per l’esposizione.

Per il secondo tema [O], troviamo invece un’altra importante differenza tra Arrau e Backhaus.

Quest’ultimo sembra rispettare lo stesso tempo indicato da Schnabel (112), e nella seconda

parte di questo tema, fa un leggero accelerando.Invece Arrau adotta un tempo inferiore, cioè

104, e c’è una ragione particolare per questo. Secondo le regole dell’armonia classica, per

quanto riguarda l’esposizione, il secondo tema deve essere alla dominante della tonalità

d’impianto se il primo tema è in maggiore, alla relativa maggiore se il primo tema è in minore

(e in questo Beethoven rispetta la ‘regola’), nella ripresa, invece, entrambi i temi devono

essere nella stessa tonalità d’impianto. Quindi, in questa Sonata, nell’esposizione il primo

tema è in Fa minore e il secondo in La bemolle maggiore; nella ripresa Beethoven presenta il

secondo tema in Fa maggiore, anziché in Fa minore. Credo dunque che, per sottolineare

questo bellissimo cambio di modo, e per creare maggiore contrasto, Arrau adotti un tempo

inferiore.

Dalla bb.180 fino alla b.202, valgono le stesse considerazioni fatte per l’esposizione. Dopo le

quattro battute in cui si presenta il primo tema al basso [P], compare nuovamente il secondo

tema. Anche qui Arrau è più lento rispetto a quanto voluto da Schnabel (138 per le prime

quattro battute, e 144 da b.214 in poi), e rispetto a quello che fa Backhaus. Tutta la parte del

‘rallentando’, segnata da Beethoven (bb.235 – 238 [Q]) Arrau la esegue decisamente molto

più lenta rispetto a Backhaus. A questo punto inizia il ‘Più allegro’ [R]. Arrau interpreta i tre

accordi iniziali più lenti rispetto a Backhaus che invece li esegue nel tempo segnato da

43
Schnabel, dopodiché adottano lo stesso tempo, 160, fino alla b.254, in cui entrambi i pianisti

fanno un rallentando fino alla fine del brano.

Secondo movimento: Andante con moto

Anche in questo movimento, come nel primo, ci sono molti cambi di tempo, e anche questo

come in quello presenta alcune difficoltà nel capire i tempi metronomici adottati da entrambi,

visto che, anche nel rispetto delle indicazioni testuali, sia l’uno che l’altro, si prendono

parecchie libertà espressive (con rallentando e ritenendo), soprattutto Arrau.

Arrau e Backhaus iniziano questo movimento in un tempo più lento, = 84(e in questo Arrau

non rispetta quello indicato nella Peters), rispetto a quello segnato da Schnabel 92. La

differenza tra i due interpreti sta nei tempi adottati nella serie delle variazioni. Infatti

Backhaus, nella prima variazione (bb.17 - 32 [A]), esegue 104, mentre Arrau 92. Nella

seconda (bb.33 – 48 [B]), Backhaus segue lo stesso tempo di Schnabel, ossia 108, mentre

Arrau è decisamente più lento, 88. Nell’ultima variazione [C] Backhaus usa ancora in tempo

più veloce rispetto ad Arrau (120 il primo e 104 il secondo), essendo sicuramente più vicino a

Schnabel. Nella ripresa del tema iniziale (b.81 [D]), Backhaus e Arrau adottano lo stesso

tempo dell’inizio, 84 la croma, quindi molto più lenti di quello che indica Schnabel, prima

parte 96, la seconda parte 92, e l’ultima parte 88.

Terzo movimento: Allegro ma non troppo

Forse proprio perché l’elemento ritmico principale è formato dalle quartine di semicrome,

quest’ultimo movimento è più facile da analizzare da un punto di vista metronomico.

Come ho già anticipato sopra, Backhaus, in questa registrazione, non rispetta il ritornello

segnato da Beethoven, per questo tutta l’ampia parte che va dalla b.118 alla b.303, non viene


come unità di tempo viene indicata la croma. Quindi ogni volta che parlo di tempo, bisogna tenere in
considerazione questa indicazione.

44
ripetuta. Per quanto riguarda le indicazioni di tempo, Backhaus segue = 144, invece Arrau

138, proprio come indicato nell’Appendice della Peters, entrambi dunque staccano un tempo

inferiore rispetto a quello stabilito da Schanbel (  = 152). Anche nel Presto ci sono delle

differenze, infatti Arrau rispetta il tempo che ha indicato nell’edizione da lui curata, ossia =

92; Backhaus da parte sua è di poco più veloce, adottando un tempo pari a 96 circa, mentre

Schnabel è molto più veloce, 104. Durante tutto il movimento, anche se mantiene una ritmica

costante, Arrau spesso fa moltissimi ‘ritenendo’, per creare una maggiore espressività.

In tutta la Sonata, Arrau si serve moltissimo dei due pedali (quello di risonanza e quello a

sinistra,a una corda); questo lo si può notare, oltre che dall’ascolto del cd, anche guardando

l’edizione da lui curata, in cui il pianista segna tra parentesi l’uso dei due pedali, dal canto

suo, Backhaus invece fa un uso più moderato del pedale. Infine, per quanto riguarda le

indicazioni dinamiche, entrambi i pianisti rispettano quanto indicato dal compositore.

Non si può dire che Backhaus renda ‘di più’ il contenuto espresso da Beethoven in questa

Sonata, così come è difficile stabilire il contrario. Ognuno dei due artisti, a suo modo, ha reso

perfettamente l’idea di ‘Appassionata’, riuscendo a trasmettere la sua forza evocatrice e lo

slancio romantico. Il pianoforte beethoveniano sviluppa al massimo le sue potenzialità:

diventa orchestra, e risponde alla stessa concezione del sinfonismo. In entrambe le

interpretazioni ci troviamo di fronte al grande Beethoven, alle sue sonorità orchestrali e a

quelle pianistiche.

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APPENDICE Primo movimento

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Secondo e terzo movimento

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Capitolo 3.

L’interpretazione musicale secondo il M° Sergio Perticaroli (intervista del 23 aprile

2007)

Arrivati a questo punto della tesi, ho ritenuto che per me sarebbe stato interessante avere delle

testimonianze di artisti attuali riguardo alla loro concezione di interpretazione musicale. Ho

pensato al maestro Sergio Perticaroli, uno dei nostri più grandi pianisti e didatta.

Il maestro è stato molto gentile a concedermi il tempo per questa conversazione riguardo

l’aspetto interpretativo, inoltre ha chiesto anche ad alcuni dei suoi allievi di partecipare e loro

hanno accettato volentieri.

La nostra discussione ha toccato vari punti dell’esecuzione musicale, dal rapporto tra

interpretazione e tecnica, al rapporto tra interpretazione e fedeltà testuale, nonché il modo di

imporsi di fronte allo studio, la registrazione, e molti alteri aspetti.

Durante questa conversazione, ho trovato riscontro di quanto già avevo discusso in questa mia

trattazione, molti aspetti da me già precedentemente toccati hanno trovato ulteriore conferma

nelle parole del maestro Perticaroli.


Il maestro Sergio Perticaroli si è diplomato nel 1952 al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma e, nello stesso
anno, ancora giovanissimo, ha vinto il primo premio alla competizione internazionale di piano Busoni, un
premio che ha segnato l’inizio di una brillante carriera che ha portato il giovane pianista nei concerti di tutto il
mondo. Uno dei momenti migliori della sua carriera è stato l’incontro, nel 1959, in Egitto con il compositore
russo Aram Khatchaturlan che, dopo averlo sentito suonare, lo nominò miglior interprete del suo Mano Concerto
e lo invitò in un tour come suo rappresentante nelle maggiori capitali europee. Un altro invito importante arrivò
da John Barbirolli che, seguendo un concerto con Perticaroli a Roma, organizzò per lui un tour in Inghilterra
come solista con l’orchestra Hallé.
Perticaroli ha suonato in tutti i continenti per le massime istituzioni musicali esibendosi nelle più
importanti Sale, dalla Scala di Milano alla Carnegie Hall di New York, dalla Sala Glinka di Leningrado alla
Symphony Hall di Melbourne, dal Teatro Colon di Buenos Aires alla Symphony Hall di Kyoto, con le più
rinomate orchestre, quali la Filarmonica di Berlino, la London Symphony, l’Orchestra di Radio Mosca e
l’Orchestra di Santa Cecilia) e con i più famosi direttori (Maazel, Celibidache, Giulini, Abbado, Barbirolli,
Khacaturjan, Sawallisch, Kondrasin, ecc.).
É oggi artista affermato in campo internazionale e riconosciuto dalla stampa italiana ed estera; le sue
tournées lo hanno portato oltre che in Europa, in URSS, USA, Australia e Giappone. Accanto alla concertistica
svolge una intensa attività didattica sia in Italia, dove è titolare della cattedra di perfezionamento di pianoforte
all'Accademia di Santa Cecilia di Roma e di cui è stato il Direttore Artistico. Inoltre, è invitato nelle Giurie dei
più importanti Concorsi come il Busoni, il Casadesus, lo Chopin e lo Schubert.

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Magalotti: Bene, visto che dobbiamo parlare di interpretazione, possiamo iniziare pren-

dendo in considerazione la relazione che c’è tra tecnica ed interpretazione.

secondo lei, quanto conta la tecnica per ottenere una buona interpretazione?

M° Perticaroli: Credo che la cosa più importante sia avere la tecnica per interpretare.

Tecnica intesa non come puro virtuosismo, ma come conoscenza, ossia

conoscere tutti i mezzi tecnici per poter interpretare. Mi riferisco alla

dinamica, all’espressività, al tocco, al fraseggio e via dicendo. Questa

è tecnica, con la quale a mano a mano si giunge ad una buona

esecuzione.

M.: Secondo lei è vero che oggi giorno si tende a sottovalutare il contenuto, o, per

usare le parole di Heinrich Neuhaus, lo «specifico artistico» rispetto alla tecni-

ca?

M° P. : Si certo, ma bisogna anche pensare che ci sono diversi autori per i quali la

tecnica è più importante dell’interpretazione, ad esempio se ci troviamo di fronte

ad uno studio trascendentale di Liszt occorre sicuramente più tecnica.

Allievo : Si potrebbe fare il paragone con gli attori. Infatti possono esserci attori molto

bravi a livello interpretativo ma magari non hanno una dizione perfetta o vice-

versa. Quindi la bravura comporta anche una buona dizione.

M° P. : Certo, è necessario avere una buona tecnica per avere una buona interpreta-

zione, ma non isolata, bensì finalizzata all’interpretazione.

M.: D’altra parte, essere molto dotati dal punto di vista dell’espressività e non avere

un buon possesso tecnico può risultare, oltre che dannoso, pericoloso in un’

esecuzione.

M° P. : Certo!

M.: Continuando a parlare di tecnica, lei nelle sue esecuzioni, o nel lavoro con i suoi

allievi, cerca di creare un suono particolare?

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M° P. : Per me la musica è fatta di suoni. Il pianista, come qualsiasi altro esecutore, si

esprime attraverso il fraseggio, attraverso un tocco specifico, attraverso la tec-

nica, quindi il suono e il lavoro su di esso sono importantissimi. Ci sono scuole

in cui si ‘pesta’, che io chiamo gli schiacciasassi, e altre invece che mirano ad

ottenere un suono più bello.

M.: Come imposta lo studio di in brano musicale? Si tratta di un lavoro che avviene a

priori? Mi spiego meglio: secondo lei un esecutore dovrebbe avere una conoscen-

za preliminare della composizione, ossia cercare e capire prima di tutto il contenu-

to, il significato, l’essenza della musica che ha di fronte e poi accingersi allo stu-

dio tecnico, oppure questo è un lavoro che avviene in un momento successivo?

Allieva : Io penso che sia più giusto capire prima quello che è il carattere di un brano,

poiché nel momento in cui già sai cosa vuoi ottenere, allora risulta più facile

capire il come ottenerlo, in questo modo si riesce anche a memorizzare meglio

no? Altrimenti si procede solo per tentativi.

Allievo : Certo, bisogna cercare di ottimizzare il lavoro e di conseguenza non perdere

tempo inutilmente, visto che poi bisogna correggere di continuo quello che

abbiamo studiato.

M° P. : Giusto. C’è poi un altro aspetto da considerare. Oggi giorno chi studia conosce

già questi pezzi, un tempo non c’era la discografia, quindi in questo senso i

pianisti sono più agevolati rispetto al passato Bisogna però stare attenti affinché

dall’ascolto non si ottenga un’imitazione. Sarebbe meglio fare gli ascolti in un

momento successivo, magari per fare dei confronti senza ovviamente copiare

nessuno.

M.: Certo, ascoltare delle buone incisioni dovrebbe servire solamente per farsi un’idea

sul brano che si sta studiando.

M° P. : Esattamente.

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Allievo :(in tono scherzoso) c’è poi anche da dire che noi studiamo ore e ore al nostro

pianoforte per ottenere quel suono particolare, poi a lezione il maestro fa dei

suoni inimitabili…E’ un dramma per chi studia…

M° P. :(sorridendo)…Bè, il suono, il tocco si formano negli anni, fa tutto parte di un

concetto di vibrazioni, di bellezza, che io ho più avanzato, per questo sono qua,

se non avessi l’esperienza né io né voi saremmo qui Il suono per me esprime

molte cose, così come la composizione. Non bastano solo le note per avere

un’opera d’arte, bisogna ‘vestire’, altrimenti si avrebbe solo ritmo.

Io stesso dico sempre ai miei allievi che l’uomo è fatto carne e ossa, il suonare

semplicemente le note in modo meccanico rappresenta solo lo scheletro, il

‘suono’ invece è il complesso corporeo (ossa, ma anche carne).

M.: Come descriverebbe la relazione che c’è tra interpretazione e fedeltà testuale?

Che pensa di quei pianisti che introducono idee nuove nell’esecuzione di un

brano musicale?

M° P. : In realtà noi non possiamo sapere con esattezza com’è veramente il modo giusto

per eseguire un brano musicale. Nel testo c’è scritto Allegro, ma di allegri non

ce n’è uno solo, così come per lo sforzato possiamo avere diversi tipi di sfor-

zato. Pensiamo poi alla musica barocca, nelle composizioni di questo periodo,

non venivano indicati il fraseggio, la dinamica, le legature e via dicendo, quindi

in questo caso, l’interpretazione lascia ampi margini di libertà. Il testo è

importante, però possiamo averne una visione del tutto personale.

Allieva: Sempre senza contraddirlo troppo però.

M° P. : No certo, bisogna comunque rispettare il testo. A volte ci sono delle edizioni

che bisogna rifiutare proprio perché contengono modifiche eccessive, rispetto

all’originale. In un brano musicale ci sono alcuni aspetti che vanno seguiti alla

lettera, altri invece che possono essere leggermente modificati.

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M.: Che rilievo ha l’indicazione metronomica nell’interpretazione? Spesso le indi-

cazioni di tempo non vengono rispettate dai pianisti, se ad esempio ascoltiamo

le sonate di Beethoven nell’esecuzione che ne da Arrau o Backhaus, ci accor-

giamo immediatamente che Backhaus adotta dei tempi molto più veloci rispetto

ad Arrau.

M° P. : Si, è vero, ma Arrau esegue sempre tutto più lento, Backhaus correva, io lo ri-

cordo, l’ho sentito in concerto. Per quanto riguarda le indicazioni metronomiche,

ci sono pianisti che eseguono i brani secondo le indicazioni di tempo volute dal-

l’autore. Ad esempio Badura-Skoda, mio collega a tutti i concorsi internazionali,

mentre ascolta un candidato, tiene il metronomo, per controllare se viene rispet-

tato il tempo voluto da Beethoven. Questo per me è l’eccesso.

Bisogna inoltre considerare che, da quando Malzel ha costruito il primo metro-

nomo ad oggi, questo oggetto si è modificato.

Allieva : Lo stesso vale per i pianoforti

M° P. : Esattamente. Perciò è chiaro che non può esserci uguaglianza, naturalmente

bisogna essere sempre attenti a che questo non diventi un eccesso. Se nel testo il

metronomo indica 80 la semiminima, il tempo può variare ed essere 76 o 92, ma

naturalmente non 120. Quindi può esserci qualche piccola libertà.

M.: Ci sono stati dei brani per i quali lei ha avuto delle intuizioni nuove dopo molti

anni che li eseguiva?

M° P. : Si, certo. C’è sempre una continua evoluzione. Spesso, quando si mette a ripo-

so un brano già eseguito per parecchio tempo, e lo si riprende dopo qualche

anno, può esserci un’illuminazione interna.

M.: L’interpretazione musicale in funzione della registrazione discografica è diversa

rispetto all’interpretazione in funzione di un concerto. Secondo lei, la registrazione

può influire sull’interpretazione? Il fatto che l’ambiente, e di conseguenza l’atmo-

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sfera, siano diverse, rispetto ad un’esecuzione pubblica, che peso hanno sull’inter-

pretazione?

M° P. : Un tempo i pianisti erano tutti pasticcioni, da quando esiste il disco, e il

pubblico si è abituato a sentire tutte le note, per noi poveri pianisti è diventato

un martirio. Abbiamo delle incisioni del passato in cui i pianisti sporcano,

questo perché la registrazione veniva fatta dal vivo, e dal vivo c’è l’umanità.

Oggi anche in televisione non si fa niente in diretta (al massimo il programma è

mandato in onda una o due ore dopo). E questo proprio per pulire, eliminare

possibili errori, perché si ha paura di questa umanità, dello sbaglio. Ecco

allora che è cambiata la vita anche per i poveri pianisti, visto che il pubblico si è

abituato a sentire una certa esecuzione, pulita da ogni minimo errore. Per ciò

penso che, sotto questo punto di vista, la tecnologia ci ha un po’ rovinato .

Lei conosce ad esempio De Pachman? De Pachman era un pianista allievo di

Chopin. Quando suonava in concerto, aveva l’abitudine di parlare con il pubbli-

co, «Oh! Questo passaggio non mi è venuto bene», oppure «Bravo!» e si

baciava la mano. Faceva delle scenette di questo genere, ridicolizzava le

imperfezioni del suo concerto, era molto divertente. C’era tutto questo. Oggi

giorno, invece, ai concerti c’è tutto un “cerimoniale” che non si rompe mai.

Tutti “impettiti”, silenzio assoluto, non c’è rilassamento. Un tempo si suonava

nelle case, si mangiava, oggi la vita è cambiata, e di conseguenza noi dobbiamo

adeguarci ad essa.

M.: Come si può controllare l’influenza dello stato d’animo sull’interpretazione

musicale?

M° P. : Oggi giorno ci sono varie tecniche o esercizi, come ad esempio lo yoga.

Però, soprattutto con il senso di responsabilità, dell’impegno che un musi-

cista ha. “Io sono venuto qui per suonare, al pubblico non deve interessare

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quello che ho.Credo poi che con la concentrazione si possa superare tutto, la

concentrazione porta all’esecuzione.

Un esecutore deve essere un professionista, deve suonare indipendentemente

da quello che gli è accaduto (naturalmente dipende dalla gravità della cosa).

Oggi ci sono pianisti che non suonano se non hanno un buon pianoforte.

Rubinstein diceva che esistono cattivi pianisti, non cattivi pianoforti. Questa

professionalità si acquisisce con l’esperienza, con la maturità.

M.: Secondo lei, quanto influisce l’ansia sull’interpretazione musicale? Come

affronta un concerto, cosa fa prima di un’ esibizione?

M° P. : Certo, la paura c’è sempre, tutti hanno quel senso di dubbio. Ci sono poi

persone che compiono atti scaramantici, c’è chi pensa che alcune persone

‘portino bene’, chi ha amuleti, ci sono gli amici e via dicendo, cioè

dobbiamo trovare un momento di fiducia in noi stessi. Ci sono inoltre dei

‘giochi’ psicologici da fare, ad esempio, il pianista che entra in scena e va

subito al pianoforte è un ‘cretino’, un musicista deve guardare la platea,

guardarla tutta, cercare di possederla, dominarla, poi va al pianoforte. Là

c’è il pubblico, io lo domino, non ho paura.Questo non vale solo per la

musica, anche se una persona va ad una festa, ad esempio, con lo sguardo,

in un certo senso deve dire ‘io vi domino’, altrimenti viene ‘mangiata’.

M.: Come si spiega il fatto che un pianista esegua un’opera in un certo modo,

mentre cambia, magari a causa di un direttore d’orchestra o in base ad altre

circostanze?

M° P. : Molto spesso, quando si è giovani e si suona con un direttore d’orchestra si

‘subisce’, ad esempio per le imposizioni di tempo, ma se il direttore è una

persona civile, si può trovare un punto di incontro.

M.: Bene maestro, siamo arrivati alla fine di questa chiacchierata. Come ultima

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domanda, vorrei sapere come si è evolutoli suo panismo nel corso degli anni.

M° P. : Io ho studiato malissimo, per cui non avevo nessuna idea, suonavo senza

consapevolezza, avevo iniziato a studiare con una suora…poi sono andato da

un insegnante molto bravo che in seguito mi ha fatto capire che potevo avere

una carriera, anche se non lo credevo possibile. Mi sono diplomato molto

giovane, ho continuato a studiare e a perfezionarmi tecnicamente , ma chi

mi ha dato l’apertura al suono non sono stati i pianisti, bensì i cantanti, i

direttori d’orchestra, altri strumentisti dai quali ho assorbito molto.

Durante le mie lezioni, faccio continuamente riferimento ai cantanti, e invito

sempre a cercare di imitare la voce per ottenere un determinato suono.

Le modifiche sono avvenute lentamente, quando mi sono diplomato suonavo

meccanicamente, poi ho arricchito il mio suono, non con accorgimenti

pianistici, ma con elementi musicali da portare al pianoforte.

Penso davvero che il pianoforte sia uno strumento così ricco da raccogliere

in sé tutti gli altri strumenti, ecco perché il pianoforte può imitare un’ intera

orchestra.

M.: Maestro la ringrazio per avermi concesso del tempo per fare questa intervista, e

ringrazio anche i suoi allievi che per essere intervenuti.

M° P. : Bene, sono contento anche io e le faccio gli auguri per la sua tesi.

Ringrazio ancora il maestro Sergio Perticaroli per il tempo da lui concessomi per questa

intervista, per me è stata un’interessante occasione di toccare con mano quanto già avevo

studiato e discusso in questa mia trattazione sull’argomento dell’interpretazione musicale.

Bibliografia

67
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Vol. VIII L’età di Beethoven – La musica per Pianoforte di Philip Radcliffe (pp. 363 – 379)
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LA MUSICA ENCICLOPEDIA STORICA,sotto la direzione di Guido M. Gatti a cura di


AlbertoBasso, Unione tipografico – editrice torinese 1966 Vol. II “Interpretazione musicale”
di Giorgio Graziosi, pp. 767 - 778

ENCICLOPEDIA DELLA MUSICA ed. Ricordi Biblioteca di Santa Cecilia G. Cons 3B2

Partiture:

BEETHOVEN Sonaten II Klavier / Piano, Herausgegeben von Claudio Arrau, ed. Peters,
Frankfurt/M. - Leipzig - London - New York 1978

Beethoven Klaviersonate f-moll Opus 57 (Appassionata), G. Henle Verlag, ed. Urtext


1953/1981

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Beethoven Sonata per pianoforte Op. 57 in Fa min. (Appassionata), edizione tecnico –
interpretativa di Artur Schnabel, ed. Curci – Milano 1978Discografia

Discografia

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