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La visione misogina di Euripide è evidente anche nel personaggio di Ifgenia, la quale dopo tata
resistenza si rassegna e si lascia plagiare dall’ideologia maschile, affermando che la vita di un uomo
vale quella di mille donne.
Per Aristotele il modello perfetto di tragedia è l’Edipo re, della quale scrive nel XIII capitolo come
della storia di un uomo famoso e non particolarmente virtuoso che non cade nell’infelicità per
cattiveria ma per errore.
Dal punto di vista sociale i personaggi sono appartenenti a famiglie aristocratiche, mentre
sociologicamente sono re, principi, condottieri, e non popolani: nel capitolo II, infatti, Aristotele
sostiene che la commedia è per gli “inferiori”, mentre la tragedia per i “superiori”.
Nel VI capitolo Aristotele definisce la tragedia come imitazione elevata e completa di un’azione,
che presenta una certa estensione e un linguaggio di ornamenti distribuiti nelle varie parti; si svolge
attraverso persone che agiscono e non attraverso una narrazione e produce, attraverso pietà e
terrore, la catarsi di questi sentimenti. Per catarsi si intende, solitamente, purificazione, ma
Aristotele non la intende da tutte le passioni, bensì solo dalle due citate, pietà e terrore; la catarsi
risulta, per questo, da una parte motore della crisi e, dall’altra, elemento risolutivo.
La tragedia induce pietà e terrore dinanzi alle sventure che colpiscono il protagonista ne quale ci si
immedesima, anche se viene percepito come appartenente ad una razza superiore che può
permettersi di trasgredire. Le vicende delle tragedie pervenuteci sono estreme; nell’Orestea di
Eschilo, Agamennone sacrifica sua figlia Ifgenia per poter guidar la spedizione contro Troia;
Clitemestra, per vendicare sua figlia, si prende un amante e uccide Agamennone, ma infine Oreste la
ucciderà proprio per vendicare suo padre. Nell’Edipo re di Sofocle il protagonista uccide suo padre
e sposa la madre dalla quale avrà quattro figli. Nella Medea di Euripide una madre uccide i propri
figli per essere stata abbandonata dal marito. Nell’Ippolito, sempre di Euripide, Fedra si invaghisce
del figliastro, ed altri incesti erano presenti nelle altre tragedie di Euripide (delle quali sono giunti
solo frammenti).
Queste storie di eccessi erano, forse, proprio ciò che segretamente interessava la società ateniese
così civile e democratica. La tragedia è un prodotto ateniese più che greco. La distanza che sussiste
tra i personaggi della tragedia e i membri della società greca è quella necessaria a consentire il
transfer (proiezione, idee e sentimenti propri sono attribuiti ad altri).
I personaggi democratici della tragedia sono la proiezione dei desideri trasgressivi sognati da una
società che non può permetterseli.
Per molto tempo si è creduto che per Aristotele a contare fosse il testo teatrale e non lo spettacolo
teatrale: bisogna, però, tener conto che la Poetica fu scritta tra il 334 e il 330 a. C., anni nei quali lo
statista Licurgo fa preparare un’edizione canonica (da cataologo, dove si raccoglie il meglio) dei
tragici per ridurre la libertà degli attori nelle repliche; quando, però, Aristotele usa la parola òpsis
(vista) rimanda sicuramente al guardare e quindi alla dimensione spettacolare del teatro, quella che
coinvolge i sensi del pubblico, anche se all’epoca la supremazia dello rituale sul materiale
imperava. Aristotele considera, quindi, il teatro nella sua interezza, fatta di testo ma anche attori,
danzatori, musicanti e scenografi.
Nel IV capitolo viene detto che Sofocle fu colui che introdusse la scenografia: il poeta diventa uomo
di scena; il capitolo VI ospita la descrizione dei sei elementi che, intrecciandosi, compongono la
tragedia (favola, caratteri, elocuzione, pensiero, musica e òpsis), aprendo con òpsis, la quale
contiene gli altri cinque caratteri; Aristotele però sceglie di parlare non esattamente di òpsis ma si
òpseos kòsmos (ordine della rappresentazione scenica), concependo lo spettacolo come una
macchina ordinata.
La commedia, invece, si afferma pienamente nella seconda metà del quinto secolo. Le Lenee,
collocabili a fine gennaio, erano feste minori riservate alla commedia. Le origini corrispondono
nuovamente alla fertilità, il cui nesso con la sessualità era facilmente percepito dalla società
primitiva. Il termine “commedia” discenderebbe da kòmos, corteo festivo.
La commedia veniva distinta tra quella “antica” di Aristofane (450-385 a. C.) e quella “di mezzo” e
“nuova” di Menandro (342-293 a. C.). Le trame delle commedie di Aristofane sono vaghe, fili
pretesto per trattare in modo pesantemente satirico temi d’attualità. Gli attori incarnano più figure
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buffonesche che personaggi veri e propri. L’unica commedia completa di Menandro pervenutaci è
Dyscolos (Il misantropo), ma egli fu fondamentale per Plauto e Terenzio i quali, a loro volta,
divennero modello per la commedia italiana rinascimentale che arriva fino al settecentesco Barbiere
di Siviglia di Beaumarchais. In questo modello domina la dimensione domestica e urbana: al centro
c’è la storia d’amore del giovane protagonista e contestata dalla famiglia, ma alla fine scatta il
meccanismo dell’agnizione, cioè la scoperta dell’appartenenza ad una famiglia ricca o nobile del
personaggio contestato.
Nonostante i romani riprendano i modi e i contenuti del teatro greco, essi non concepivano il teatro
come legato profondamente alla vita della società ma solo ad un élite raffinata, ecco perché la
tragedia, di matrice religiosa, fu trascurata.
Abbiamo già visto che i due autori più significativi per la commedia sono Plauto (255-184 a. C.) e
Terenzio (190-159 a. C.), rispettivamente il più esplicito e il più raffinato, ma resta difficile
individuare dei modelli in quanto quelli greci sono andati quasi tutti perduti.
Seneca, invece, fu un filosofo e autore di tragedie letterarie; i temi sono quelli della tragedia greca
ma esasperata verso il macabro in quanto risente delle drammatiche fasi dell’Impero. Soprattutto gli
autori elisabettiani e Shakespeare furono colpiti da questa cupezza che, infatti, assimilarono.
Seneca realizzò Fedra una sua versione ma molto diversa dell’Ippolito coronato di Euripide: Teseo è
una figura sinistra e un assassino, e il suo matrimonio con Fedra è solo una mossa politica che segna
quindi la distanza tra i due personaggi. Seneca descriverà la psicologia di Fedra, che in Ippolito
rivede il Teseo di vent’anni prima che sedusse e salvò Arianna, sorella di Fedra, dal minotauro. Si
ha quindi la contrapposizione tra le due coppie di padre e figlio e di due sorelle, maggiore e minore,
in quanto è con Arianna ed il Teseo che lei ha avuto che Fedra ha un problema, e si invaghisce di
Ippolito proprio perché le ricorda quel sogno infantile.
Il teatro greco fissa, quindi, delle caratteristiche che permarranno nel teatro occidentale, soprattutto
in quello francese e italiano: il privilegio del racconto, la semplicità della trama, il numero limitato
dei personaggi, la separazione degli stili (tragico e comico), le unità di tempo e di luogo.
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Capitolo II
La scena medievale
Per comprendere il teatro medioevale è necessario immaginare un teatro che prescinde il primato di
testo, autore, regia e autonomia della messa in scena, la separazione delle professioni e la presenza
di edifici appositi per il teatro, quindi un teatro privo di ciò che caratterizza quello contemporaneo.
Il teatro medievale è espressione simbolica della società del tempo e i processi che la
caratterizzavano, parte integrante dei tempi, degli spazi e delle consuetudini della vita collettiva.
Bisogna, quindi, guardare al teatro medioevale attraverso la dimensione sociale ecco perché il
legame tra la scena medioevale e ritualità è fondamentale: il fine di entrambe era il rafforzamento
dell’identità sociale attraverso performances in quanto lo spettacolo era più un atto comunicativo
che estetico.
Con l’affermazione del cristianesimo si diffonde il teatro religioso: non veniva semplicemente
rappresentata la battaglia tra sacro e profano ma la visione complessiva della vita umana in un corpo
sociale e in chiave salvifica grazie all’incarnazione di Dio in Cristo e alla redenzione. Con Cristo
l’invisibile per eccellenza divento visibile, rappresentabile, e scopo delle rappresentazioni religiose
diventò quello di rievocare quegli event fondamentali in vista del futuro, nel vero senso della parola
rappresentare, ri-presentare. In queste messe in scena attori e pubblico saranno entrambi coinvolti e
la scissione tra vita e teatro risulterà difficile da cogliere.
Il tipo di teatro che i Padri della Chiesa attaccavano era quello rappresentato dal modello socio-
culturale pagano, quello romano: cioè che i Padri attaccavano era l’alterazione della verità da parte
di quegli spettacoli, ai quali gli spettatori assistevano in modo passivo e venivano indotti ad
idolatrare quelle passioni esasperate sia attraverso un iperrealismo recitativo, sia attraverso una
violenza travestita da finzione (esecuzioni pubbliche e gladiatori), tutto volto alla divinizzazione
dell’Imperatore.
Il teatro medievale era scandito secondo i ritmi del calendario religioso, quindi della relativa
liturgia. Nel X secolo erano frequenti, nei monasteri, i drammi liturgici, ad esempio il Quem
quaeritis, un tropo, cioè un ampliamento dialogico e melodico del canto che, il giorno di Pasqua,
racconta la scoperta della resurrezione di Cristo a partire dalla scoperta del sepolcro vuoto.
Tale rappresentazione viene descritta nel Regularis Concordia (regole per i benedettini inglesi): per
analogia ludico-simbolica, l’altare diventava il sepolcro, un manco interpretava l’angelo e altri tre le
donne con pochi oggetti di riconoscimento e un leggero accento recitativo.
Questa rappresentazione conobbe molte varianti, ma altri drammi liturgici fiorirono per quanto
riguarda il periodo natalizio (l’Officium Pastoris racconta della nascita di Gesù Bambino; l’Ordo
Rachelis la strage degli innocenti). Successivamente gli spazi scenici (sedes, mansione o luoghi
deputati) vennero moltiplicati e organizzati secondo uno schema di paratassi, cioè la visione
simultanea di quei luoghi i quali ospitano momenti diversi della narrazione.
Se consideriamo la rappresentazione della strage degli innocenti da parte di Erode, bisogna prima
immaginarla in contrasto col candore del presepe, in quanto la libertà narrativa rende i personaggi
ancor più negativi attraverso toni parodici e grotteschi, in contrasto anche con la liturgia canonica,
infatti, gli episodi biblici vengono contaminata in senso profano.
Nonostante la Chiesa avesse cercato di estirpare totalmente il paganesimo dovette scendere patti
con esso, coniugando le sue esigenze alla cultura pagana, partendo dal calendario, il quale trasformò
le ricorrenze pagane in religiose (quindi le feste), ma quando non si riusciva totalmente ad eliminare
la componente pagana essa riaffiorava attraverso le forme del parodico o del grottesco, come
espressione di un sentimento collettivo di trasgressione: esempio lampante ne sono le feste dedur
folli e il carnevale. Le feste dei folli erano legate al Capodanno e coniugavano l’angoscia della fine
con i buoni auspici per il futuro; queste feste erano caratterizzate dalla contaminazione,
trasgressione, abolizione di differenze e simbologia dell’infanzia.
Ad esempio, le ricorrenze dei santi Innocenti permettevano ai giovani chierici di festeggiare la loro
esuberanza giovanile attraverso anche l’irriverenza verso le alte gerarchie ecclesiastiche, infatti,
veniva eletto un vescovo bambino o pazzo che presiedeva l’avvenimento, mentre la liturgia veniva
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parodiata, si facciano banchetti e venivano esaltate figure umili del vangelo proprio in nome di
questo rovesciamento.
Con l’Epifania si teatralizzava, invece, l’avvento dei Magi come stranieri che, quindi, evocano
l’altro mondo. Un esempio di trasposizione di questo episodio sta nei mummings, scene mimate e
danzate con figure mascherate da stranieri i quali offrono dei doni.
Il carnevale si colloca, invece, a fine inverno, ed è anche lui la tipica festa di inversione dell’ordine
in favore del trionfo di comico e grottesco attraverso il mascheramento e la farsa. Grazie al
mascheramento l’individuo riesce a diventare altro da sé rovesciando le gerarchie sociali.
Le farse si diffusero soprattutto in Francia e Germania: esse sono brevi azioni teatrali costruite sul
modello della commedia e incentrate su tipi di personaggi fissi appartenenti alla sfera cittadina; tali
rappresentazioni venivano realizzate da gruppi di giovani laici legati alle corporazioni.
Quando la società borghese e mercantile iniziò ad affermarsi, sul versane religioso si vennero a
formare gli ordini mendicanti; la sempre maggiore consapevolezza della borghesia rispetto alla sua
posizione favorì lo sviluppo di confraternite laiche volte alla tutela del lavoro e alla mutua
assistenza. L’aumento dei destinatari del prodotto teatrale portò, quindi, ad una laicizzazione sempre
maggiore dello stesso, infatti, fu proprio ai laici che veniva affidata l’organizzazione di questi
eventi: ciò portò anche ad uno spostamento dallo spazio della chiesa a quello delle città, dal latino al
volgare e dal mistero alla Passione, in modo da incarnare quel sentimento di unità dei laici.
In Italia, nel XIII secolo, famoso divenne il movimento dei Flagellanti, i quali si umiliavano
battendosi a sangue per assimilare le sofferenze del Signore, e anche i drammi liturgici iniziano a
diventare sempre più realistici attraverso una più accentuata messa in scena.
L’influsso laicale portò a più rappresentazioni sulla Madonna e i santi in quanto intercessori con la
grazia divina, ed ecco perché si svilupparono anche le azioni teatri dette Miracoli. Nello specifico,
Miracolo di San Nicola di Bodel narra di un cavaliere saraceno che provocò la statua del santo la
quale, però, prese miracolosamente vita suscitando la conversione del protagonista; fondamentale è,
in quest’opera, la presenza di un autore specifico, la dilatazione romanesca e realistica,
l’oscillazione tra sacro e profano e tra registri patetici alti e volgari comici: sono i primi segni della
specializzazione dei ruoli, della contaminazione dei generi e della scrittura drammaturgica.
Nelle opere (sei drammi in latino) della monaca Rosvita di Gandersheim ritroviamo il modello della
commedia terenziana nella quale, però, al comico si sostituiscono i valori della fede
(contaminazione).
L’avvento dei laici, il passaggio dal latino al volgare, il coinvolgimento della borghesia cittadina, la
contaminazione tra sacro e profano e l’invenzione drammaturgia portarono, tra XV e XVI secolo,
alla maturazione della grande spettacolarità tardomedievale.
Analogamente ai Miracoli, i Misteri e le Passioni narrano ad episodi tutta la vita di Gesù attraverso
testi in volgare lunghi e articolati anche nel tempo in quanto non avevano cadenza annuale. Tali
eventi erano così rilevanti da coinvolgere tutte le istituzioni e le maestranze cittadine,
rappresentando un impiego civile e collettivo che prevedeva un coordinatore, come ad esempio Jean
Boucher che diede il nome di “organizzatore di eventi” alla sua professione.
La scena era ancora strutturata per luoghi deputati ma con il dilatarsi della narrazione anche loro si
erano moltiplicati; la scenografia divenne visivamente più elaborata per colpire i sensi del pubblico.
Lo spazio scenico manteneva lo schema paratattico della narrazione e la presenza simultanea dei
luoghi deputati in modo che il pubblico potesse guardare lo spettacolo da più punti di vista.
Con la festa del Corpus Domini si realizzava una processione che mettesse in risalto il valore
unificante del corpo di Cristo e celebrasse il tutto in chiave solidale.
Le Moralità erano drammatizzazioni incentrate sulla disputa tra personificazioni di virtù.
Ritornando sulla dimensione collettiva e partecipativa della spettacolarità medioevale, dove tutti
erano attori e spettatori contemporaneamente, in questo periodo si sviluppa anche il professionismo
teatrale che vide come protagonisti i giullari, la cui figura era ben definita solo se riconosciuta a
livello sociale, essere quindi a servizio dei potenti, a differenza di quei giullari che invece si
ritrovavano a dover fare l’elemosina condannati all’anonimato e visti come vagabondi: è proprio
questo punto che però il giullare utilizza a suo favore per esasperarne le caratteristiche in maniera
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comica e grottesca attraverso equilibrio e disciplina del corpo. I giullari più consapevoli della loro
arte riuscirono ad emanciparsi ed iniziarono ad essere definiti trovatori; nasce così la distinzione tra
autore ed interprete, che gioverà ad entrambe le categorie. Un ulteriore specializzazione è quella dei
musici che declamavano le saghe epico-cavalleresche come le Chansons de geste. Quando i giullari
si trovavano, invece, al servizio dei potenti venivano definiti menestrelli o buffoni ma venivano
considerati ala stregua della servitù, infatti, era loro permesso di vivere a corte ma solo per la loro
capacità di trasformarsi in figure di trasgressione. Vennero poi a formarsi delle proto-compagnie di
giullari che nei loro spettacoli operavano la commistione di sacro e profano, dialettica fondamentale
anche nell’ambiente della corte e quindi celebrativo, in quanto ogni evento importante, come una
nascita o un banchetto, veniva spettacolarizzato.
Il modello spettacolare medievale più noto è socialmente quello de tornei, erede del “gioco” dei
gladiatori ma meno violento per l’influsso della Chiesa e della cultura dell’amor cortese, in quanto
lo scopo dei due combattenti era quello di conquistare il cuore ella virtuosa dama: queste
caratteristiche permisero a tali eventi di rimandare alla narrativa dell’epica romanza.
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Capitolo III
Il primo Cinquecento: il Rinascimento
Il Quattrocento italiano fu caratterizzato dalla riscoperta della cultura classica a opera degli
umanisti, che nelle accademie recuperarono tragedie e commedie greche interpretandole
nuovamente nella lingua originale.
Le corti si arricchiscono di artisti ed intellettuali che potevano procurare loro lustro come anche alle
città. Siamo al cospetto dell’invenzione del teatro moderno inteso come riscoperta della classicità:
non importava se il luogo di rappresentazione fosse il cortile o la sala del palazzo, ma l’occasione
era sempre una ricorrenza festiva nella quale la corte inserisce l’avvenimento teatrale (teatro dentro
la festa), il cui pubblico coincide con gli invitati, ed il committente coincide col fruitore.
A differenza del teatro medioevale, quindi, il pubblico non è più una comunità, bensì un’élite.
Siamo difronte alla privatizzazione del teatro da parte delle nuove classi dirigenti costituite dalla
borghesia per la quale il teatro contrassegna il loro nuovi status symbol. Al di fuori del palazzo,
invece, il popolo continuava ad assistere alle Sacre Rappresentazioni.
A differenza della scena medievale, quella rinascimentale unifica in un unico dipinto, una città
ideale posta sul lato più corto della sala che ospita la rappresentazione, i luoghi che erano prima
molteplici e dislocati, il tutto realizzato attraverso il nuovo espediente della prospettiva.
Si celebrava così il vivere urbano che nel principe trovava la sua incarnazione politica.
Un’altra fondamentale caratteristica del teatro rinascimentale è quella del diletto, in quanto coloro
che lavoravano allo spettacolo non svolgevano la loro mansione come professione anche nella vita,
tanto che spesso il nome dell’autore non veniva neanche citato.
Fondamentali nello spettacolo erano gli intermezzi, che insieme alle moresche scandivano gli atti
fino a porsi come elemento principale invece di essere considerati mere pause.
L’elemento dominante è sicuramente l’eccezionalità della visione che deve sorprendere
l’osservatore, cosa che invece non fu fondamentale per il teatro spagnolo, elisabettiano e per la
Commedia dell’Arte, per i quali centrali era il corpo dell’attore.
Quello che si imporrà da qui in poi è la visione frontale, che separa nettamente attori e spettatori e
caratterizzerà il teatro/schema all’italiana, che implica anche una superiorità morale di chi guarda
rispetto a chi invece è guardato.
Comunque, la riscoperta della classicità non induce i mecenati alla costruzione di nuovi edifici
teatrali. Bisognerà attendere la fine del Cinquecento, quando Palladio realizzerà il Teatro Olimpico
di Vicenza e Scamozzi quello di Sabbioneta: il tetro è ora luogo di ricomposizione della comunità.
Il principe rinascimentale, invece, rifiuta l’edificio teatrale mantenendo il luogo teatrale.
Nonostante la scena rinascimentale venga riutilizzata più volte, non è per una questione di voler
evitare lo spreco che ciò avviene, ma semplicemente perché così bella che merita di essere rivista.
Essa non è totalmente bidimensionale in quanto realizzata attraverso si pittura, ma anche rilievo: gli
attori opto però costretti a recitare in proscenio per non distruggere l’illusione ottica.
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Capitolo IV
La drammaturgia del primo Cinquecento
Nella scena cortigiana, Ariosto si pone come l’inventore della commedia rinascimentale. Sulla
tradizione, però, si innesta la novità della cultura romanza principalmente attraversi il Decameron di
Boccaccio, pieno di intrecci tra comicità, beffe, erotismo, elementi trasgressivi essenti nei plot delle
commedie di Plauto e Terenzio. Accanto a questi generi troviamo buffoni e performers che basano
la loro figura sulle capacità mimico-gestuali, come Niccolò Campani, detto lo Strascino che, come
coloro che svolgevano tale professione, era un intellettuale che amava scrivere commedie rusticane,
cittadine e pastorali, terzo genere nato nel Cinquecento che si rifà alle commedie classiche e che
trova il suo maggior esponente in Tasso.
La commedia rusticana o alla villanesca nasce a partire dalla sperimentazione linguistica nel
Medioevo e si prolunga fino al Cinquecento. Affonda le sue radici nel contrasto tra città e campagna
a sfavore dei contadini, ecco perché la satira di questa commedia viene definita antivillanesca: è qui
che nasce il personaggio teatrale del villano, visto come grossolano, bestiale e maligno.
I personaggi come lo Strascino costruivano una sorta di one man show basato totalmente sul loro
ventaglio di capacità espressive, improvvisatori e anche canore. A livello estetico tale figura veniva
costruita con costumi esotici.
A Venezia il teatro si diffonde grazie alle Compagnie della Calza, responsabili dell’organizzazione
di eventi ludici e festivi. Per i giovani aristocratici far parte di queste organizzazioni era sia un
modo per distinguersi che per trasgredire. Accanto ai dilettanti troviamo anche i professionisti che
Francesco Nobili, detto Cherea. Allo stesso tempo, a Venezia fiorisce l’industria tipografica e quindi
le stampe dei testi teatrali, che permisero una più ampia partecipazione agli spettacoli, che si
svolgevano nelle case patrizie, quindi riservati agli invitati, ma anche a pagamento in sale aperte al
pubblico. Fondamentale fu la mescolanza di generi, in quanto da una parte c’era la tipica commedia
rinascimentale, e dall’altra l’esibizione dei buffoni.
Grazie al Ruzante, in opere, o meglio dialoghi, come Parlamento e Bilora, si supera la
stereotipizzazione parodistica del contadino, che non è più caricaturale ma autonomo e protagonista,
che soffre veramente e dimostra le contraddizioni sociali, lo sfruttamento e l’alienazione causata
sulla campagna per vis della città. Il villano sembra però essere destinato alla sconfitta proprio dopo
aver cercato di migliorare la sua condizione. Per far fronte a queste sconfitte, il villano di Ruzante
sembra in un perenne stato di eccitazione. Questa figura del villano compie un passo avanti nella
Moschetta, in quanto il contadino rimane ai margini ma questa volta vive in città e la trama ricorda
quella della commedia in quanto si allontana dalla carica polemica per avvicinarsi agli intrighi della
commedia. Nell’ultima fase di attività del Ruzante il villano e le opere diventano definitivamente
classicheggianti attraverso l’avvento del servo astuto che non è più raccontato in contrapposizione
al padrone e pone le basi per quella che diventerà la maschera di Arlecchino nell’opera Anconitana,
che presagisce la Commedia dell’Arte, in quanto il villano verde la sua vitalità diventando
maschera.
A Siena nasce la Congrega dei Rozzi, un’associazione di attori-autori dilettanti che si concentrava
sull’orizzonte rusticano; nonostante gli appartenenti alla congrega vengano definiti “rozzi”, il
processo che iniziano è quello di autoformazione culturale: nella scrittura di una commedia,
fondamentale diventa l’abilità creativa piuttosto che quella di mera scrittura, che rimane comunque
necessaria. Interessante è anche l’intento della congrega di esaltare il loro status di artigiani rispetto
a quello di gentiluomini. La congrega punta tutto sulla figura del villano (commedia alla villana che
nasce da quella pastorale), centrale e non più coniugato a cittadini e pastori, ed è quindi evidente la
simpatia verso il mondo contadino. Il punto di partenza è dunque la satira antivillanesca che
contrappone città e campagna: il fatto che i rozzi appartengano alla classe considerata inferiore
rispetto alla borghesia dominante fa si che sia il villano ad incarnarne l’opposizione, in quanto essi
non osano metterei in scena in prima persona.
Queste caratteristiche sono perfettamente incarnate da Salvestro, detto il Fumoso, le cui opere
caratterizzate da satira riproducono i rapporti sociali tra classi sbilanciate.
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A Firenze, non è possibile parlare di corte medicea se non a partire dall’avvento di Cosimo I, in
quanto dove manca un’organizzazione principesca dello stato non si dà il teatro.
La figura emblematica della teatralità dei primi decenni del Cinquecento fiorentino è l’araldo,
messaggero e garante delle cerimonie urbane e attore-autore di un teatro basato sull’oralità.
Giorgio Vasari ricorda due delle cosiddette “compagnie di piacere”, quella del Paiuolo e quella
della Cazzuola, sodalizi che riuniscono artigiani e artisti nelle cui case vengono le rappresentazioni
delle commedie, ad esempio, di Niccolò Machiavelli, la cui opera più famosa in questo senso è la
Mandragola, ambientata nella scena cittadina e borghese, quindi, non più villanella e contadina
come quella veneziana. Il protagonista Callimaco vive a Parigi quando Carlo VIII arriva in Italia, in
modo da difendersi dalle guerre che nasceranno in Italia, ma non vende la sua casa natia in quanto
simbolo delle sue radici, che cercherà di mantenere anche a Parigi stringendo amicizie
esclusivamente fiorentine e in questa città vive tra i doveri che scaturiscono dal matrimonio e i
piaceri. Clizia, invece, inizia dove la Mandragola finisce narrando dell’ordinato vivere civile di un
clan familiare messo però in crisi da beffa e follia. Comunque, il fine delle due commedie è il
medesimo, cioè quello politico, di una borghesia divisa tra sesso e affari.
Con Ludovico Ariosto, invece, ormai la scena cittadina si è imposta e ne La Lena vediamo
l’intreccio plautino della classica trama del servo che aiuta il suo padrone coniugato ad un realistico
tranche de vie sulla miseria sociale del marito inconcludente e della moglie quasi prostituita che si
offre all’anziano padrone in cambio della gratuità dell’affitto. Ella tenta di fuggire a tale condizione
ma ciò la porterà a diventare una vera prostituta. Il marito si schiererà crudelmente dalla parte del
padrone, quindi dello status quo, incolpando la moglie di qualcosa che aveva fatto solo per garantire
una casa a lei e suo marito poltrone. Nonostante un apparente lieto fine per Lena che ritrova una
collocazione sociale, alla fine i posti a tavola sono cinque, dispari, e delle due coppie menzionate
solo una è legittima: si insinua una punta d’amarezza nel lieto fine, spezzando l’allegria della
spettacolarità rinascimentale.
Ne La Venexiana troviamo due nobildonne che si contendono lo spregiudicato Iulio: non c’è nulla a
che fare col teatro cinquecentesco, si tratta infatti di un’anticommedia in quanto opera sdoppiata in
due commedie minori che non hanno quali alcun legame tra di esse e non c’è evoluzione; siamo
ancora una volta in presenza di un tranche de vie quotidiano ed inconcludente.
In quest’opera i canoni di temo e spazio sono anch’essi rifiutati in quanto la vicenda si svolge in
quattro giorni e la scena passa da una donna all’altra senza soluzione di continuità, ma proprio
questa mancanza verrà utilizzata dall’autore per dare spessore psicologico ai personaggi. Lo spazio
chiuso diventa infatti simbolo di nobiltà, è lì che troviamo le donne, mentre quello aperto e vuoto
appartiene ai servi. Il rapporto erotico, comunque, si rivela paradossalmente frustrante per le due
donne e vincente per Iulio, colui che le domina, mostrando il fallimento in modo implicito della loro
classe. Ecco perché quest’opera costituisce un emblematico esempio della realtà sociale e umana
del tempo.
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Capitolo V
Il secondo Cinquecento e la Commedia dell’Arte
Il Cinquecento è detto secolo breve in quanto già nel 1547 erano morti tutti i grandi autori
rinascimentali, ma proprio nel 1545 che nasce il documento che segna il punto d’inizio della
Commedia dell’Arte.
La fioritura del teatro rinascimentale è ricca ma di breve durata in quanto in poco tempo si passa
all’irrigidimento canonico aristotelico per via di Robortello e Castelvetro: la divisione in cinque
atti (Orazio), l’unità di tempo e di luogo e la scelta della prosa rispetto al verso, usato
prevalentemente per la tragedia, che però non era il genere prediletto dalle corti, le quali ambivano
al divertimento.
Uno dei veri pochi uomini del teatro cinquecentesco, quasi un pre-regista, fu Leone de’ Sommi,
autore dei Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche. La sua attenzione va alla
dimensione dello spettacolo, infatti il punto di vista privilegiato è quello dello spettatore, non del
lettore, mentre ribadisce che gli attori e tutti colore che lavorano allo spettacolo debbano rispettare
l’autore, rinforzando così la dimensione del professionismo teatrale.
Il 25 febbraio 1545 otto uomini stipulano un contratto a Padova davanti ad un notaio: si forma una
sorta di società che mira a produrre spettacoli per guadagnare denaro che poi divideranno. È
evidente il pratico spirito borghese che segna la nascita di una nuova professione: già il termine
Commedia dell’Arte rimanda alle Arti e Corporazioni medioevali, quindi artigianato, mestiere. Il
teatro piace, e per questo diventa utile farlo pagare attraverso la vendita di biglietti a tutti, grazie
agli spettacoli itineranti, invece che regalarlo a pochi, come facevamo i principi. I comici dell’arte,
intesi anche come attori, si specializzavano in ruoli fissi per una resa artistica più sicura. I canovacci
(termine che rimanda allo strofinaccio da cucina e all’intreccio della stoffa), invece, sostituivano il
testo e sulle loro basi gli attori improvvisavano: ogni attore imparava solo la sua parte, detta proprio
per questo scannata, mentre tutte le parti si ricomponevano nello spettacolo. Proprio grazie alla
presenza di ruoli generici si poteva improvvisare: fondamentali furono le maschere. Quelle fisse
sono Pantalone (mercante veneziano ridicolo e malinconico), Graziano (dottore bolognese che
parla metà in latino e metà in dialetto bolognese) e i due servi, Arlecchino (servo sciocco), e
Brighella (servo astuto). Sono le maschere ad attrarre il pubblico, così come la loro varietà di
linguaggio e fondamentale rimane la gestualità del corpo. La trovata vincente, però, arriva nel 1570
con la donna-attrice, che alletta enormemente il pubblico. Ciò contro cui la Chiesa si scagliò non fu
la commedia in sé, bensì il fatto che quella teatrale fosse diventata una vera e propria professione
che costruì un micro-cosmo visto come trasgressivo rispetto alla moralità dominante, infatti le
persone di teatro venivano quasi ghettizzate ma era paradossalmente in quell’esclusione che essi
trovavano un diverso modo di vivere, più gioioso, che li rendeva comunque soggetti a pregiudizi,
infatti le donne di teatro venivano viste quasi come prostitute. La Commedia dell’arte perdura sino
al Settecento, quando ormai gli attori non sono più in grado di scriversi i canovacci da soli e per
questo nasce la figura del poeta di compagnia, ruolo che Goldoni ricoprirà.
L’eccellenza è costituita da tre comici illustri: i coniugi Isabella e Francesco Andreini e Flamingo
Scala il quale, attraverso la raccolta di canovacci Il teatro delle favole rappresentative, dona dignità
libresca al canovaccio, considerato fino ad allora come un basso strumento di lavoro. Ora diviene
invece un oggetto pratico per gli attori, che vi possono attingere anche per quanto concerne gli
oggetti che serviranno in scena. Ogni canovaccio è introdotto da un Argomento, una micro-novella
di fattura letteraria. Il ritratto risulta metateatro in quanto un ecclesiastico assiste a ciò che avviene
nella compagnia dall’interno di essa, mostrandoci il fuori scena della quotidianità dei comici.
Non offrendoci la vera e propria messa in scena, il canovaccio ci offre uno scorcio dal quale
osservare il dopo spettacolo, che ne Il ritratto finisce in rissa con un crescendo drammatico che
mostra la prima donna della compagnia trattata come una prostituta.
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Capitolo VI
La scena elisabettiana tra Cinquecento e Seicento
A partire dal punto di rottura che avviene nel passaggio da spettacoli religiosi a laici dopo il
Medioevo, si passa ad una mentalità moderna che si apre e nuovi contenuti e ad un nuovo pubblico,
il popolo, dai gusti più semplici e classici. A piacere è infatti il tragico Seneca, le cui sanguinolente
vicende possono finalmente essere esibite più che lette, in modo da soddisfare la sede di
divertimento del popolo di Londra di fine Cinquecento.
Fondamentale era la produzione commerciale del teatro, in quanto l’autore scriveva semplicemente
per guadagno e abbandonava al suo destino l’opera dopo essere stato pagato, e così ogni compagnia
poteva rappresentarla. Se da una parte Londra da il via all’industria dello spettacolo, in anticipo
rispetto al resto d’Europa, dall’altra la merce teatro è rivolta al pubblico interclassista, che
comprende quindi le classi inferiori: gli spettatori paganti delle classi inferiori pagavano un penny e
stavano in piedi nell’area che circonda il palco, mentre ad un prezzo maggiore, borghesi ed
aristocrazia potevano occupare i palchetti. Il fatto che i primi edifici teatri sorsero sulla riva
meridionale del Tamigi, quindi fuori dalla City, rimanda al fatto che all’epoca di Elisabetta I i
puritani erano estremamente avversi al teatro.
L’edificio teatrale dell’epoca rimandava vagamente ad un’arena per via della forma circolare e a
cielo aperto. Il palcoscenico inglese si protende verso la platea. Infatti gli spettatori circolano quasi
gli attori. Al centro del palcoscenico era presente una botola che simboleggiava l’inferno, dalla
quale infatti ne spuntavano le creature; sul fondo del palco, invece, un paio di colonne sostenevano
una tettoia creando un vano che poteva essere utilizzato come un ulteriore spazio scenico, mentre in
alto era presente una balconata usata dai musici ma anche per lo spettacolo, come in Romeo e
Giulietta. Gli spettacoli erano diurni e la scenografia spoglia: erano le parole degli attori ad evocare
la scena, e ognuno di loro interpretava spesso più parti. A mancare erano e attrici, infatti, i ruoli
femminili venivano assegnati a giovani attori.
La stessa regina Elisabetta I amava il teatro, infatti le compagnie erano riconosciute ed apprezzate
proprio quando un nobile le proteggeva, ne era il padrone: la più famosa compagnia in questo senso
fu quella dei Lord Chamberlain’s Men, che poi assunsero l’emblematico nome di King’s Men.
Il teatro risulta lo specchio delle contraddizioni di un paese che si trasforma.
Le vite degli autori dell’epoca furono spesso tormentate, come nel caso di Christopher Marlowe,
autore del famosissimo Doctor Faustus, intellettuale laico, blasfemo ed omosessuale, collaboratore
dei servizi segreti di un tempo e che morì giovane in una rissa. A morire giovane fu anche Thomas
Kyd, arrestato per la sua trasgressione ed autore de La tragedia spagnola, prototipo della senechiana
tragedia della vendetta. Ben Jonson fu invece attento ai precetti classici, anche se nel Volpone non
mancò di rappresentare il cinismo e la durezza della sua contemporaneità, come gli altri due attori
precedentemente citati.
È in questo quadro che giganteggia William Shakespeare (1564-1616), della cui vita sappiamo
poco, se non che ebbe una famiglia e che fu aperto ad una sorta di bisessualità, non rara all’epoca,
com’è evidente nei suoi sonetti. Non creò da solo come si è per lungo tempo creduto, e non fu
l’unico genio del tempo: la sua scrittura fu caratterizzata da una parvenza di artigianato, infatti
adattava spesso per il teatro testi già scritti. Egli non fu solo un drammaturgo, ma anche un attore,
un manager, anche se il suo maggiore impegno era quello di fornire copioni scritti in parte in versi e
in parte in prosa: il suo celebre black verse è un verso sciolto, non rimato, il cui ritmo si avvicina al
parlato inglese.
Amleto nasce da un antico racconto scandinavo: il re di Danimarca muore e suo fratello sposa
rapidamente la regina; però, lo spettro del defunto re appare al figlio Amleto, rivelandogli che è
stato propri suo zio Claudio ad ucciderlo e reclamando la vendetta che Amleto rimanderà fino alla
fine ma che compirà, morendo lui stesso. L’interpretazione celebre e romantica vede Amleto come
l’eroe del dubbio, intellettuale e riflessivo fino all’eccesso, ecco perché rimanda continuamente
l’azione, infatti non sa se credere a quello spettro che gli offre solo un sospetto, mentre in altri
passaggi egli appare risoluto, mandando alla morte tre personaggi (Rosenctratz e Guildenstern;
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Polonio). Un ulteriore confutazione al fatto che Amleto temporeggi per via della sua riflessione è
dimostrata nella sua assenza per tutto il quarto atto, una tempistica che non gli rende materialmente
possibile vendicarsi, cosa che farà nel quinto atto, proprio al suo ritorno. A risultare priva di
fondamenti è anche l’interpretazione di Amleto che Freud realizza in base al complesso di Edipo in
quanto, identificandosi nello zio, Amleto avrebbe già realizzato i suoi desideri inconsci, quindi
ucciderlo avrebbe voluto dire uccidere se stesso.
Meglio leggere il testo alla lettera, quindi concentrarsi sul dolore di Amleto in primo luogo per la
morte del padre e in secondo per la spudoratezza di sua madre e suo zio (es. Amleto porta il lutto
anche durante l’incoronazione della zio). Nel momento in cui Amleto incontra lo spettro, però, si
verifica un’epifania che lo farà man mano cadere nel cono d’ombra del padre.
C’è una volontà, da parte di Amleto, di azzerare le banalità della sua vita, quindi anche l’eros,
personificato dal personaggio di Ofelia: lo spettro apre la visione misogina dell’opera in quanto,
partendo da Gertrude che Amleto considera quasi una complice di suo zio, per poi passare per
Ofelia, Amleto si scaglia contro tutto il genere femminile. Durante la pazzia di Amleto non sono
poche le battute sessuali riferite al personaggio di Ofelia, la quale si abbandonerà ad esse quando a
sua volta impazzirà. Improbabile è la visione romantica della storia tra i due, in quanto ella non
avrebbe potuto ambire al principe, per il quale ella sarebbe quindi stata solo un capriccio.
Il triangolo che ritroviamo in quest’opera è malsano: un figlio e suo padre contro la madre
colpevole, per Amleto, quando Claudio della morte di re Amleto. Gertrude diventa il simbolo del
negativo che deve essere punito per la sua natura libidinosa, e quando Amleto si scaglia contro
Ofelia rivede in lei proprio sua madre, così come nelle altre donne il cui sesso, per questo, causa in
lui disgusto.
Fondamentale in Amleto è la nozione di play within the play, già frequente nel teatro elisabettiano
ma portato su un altro livello da Shakespeare: alla corte di Danimarca giunge una compagnia alla
quale Amleto chiederà di mettere in scena la vicenda del duca Gonzago, una storia che diventerà
specchio della realtà, la raddoppia, mostrando ciò che realmente è accaduto a suo padre. Claudio si
illude che il teatro possa distrarre Amleto, ecco perché accetta di assistervi, ma quando rivede ciò
che lui ha vissuto si alza e fugge, rivelando la fondatezza dei suoi sospetti ad Amleto.
Con Macbeth, nasce il primo grande personaggio femminile di Shakespeare: Lady Macbeth. Sarà
proprio lei ad intimare a suo marito di uccidere Duncan, re di Scozia, e così usurparne il trono.
Questa è una tragedia di potere che narra dell’attrazione verso il male e così dell’assurdità
dell’esistenza. Il principale antagonista di Macbeth è Macduff, colui che lo ucciderà, infatti la
critica tradizionale tende a considerarli rispettivamente come il polo negativo e quello positivo. Per
la legge del contrappasso Macbeth deve morire, secondo la profezia, allo stesso modo di come lui
ha procurato la morte del re. In realtà, però, la visione di Macduff come angelo buono è piuttosto
superficiale, in quanto ego si rivela incurante di ciò che accade alla sua famiglia, infatti, saranno
paradossalmente molti personaggi ad aver cura di Lady Macduff, tranne suo marito: la drammaticità
cresce, infine, quando il figlio stesso di Macduff proteggerà sua madre dai sicari di Macbeth, e
Shakespeare riprodurrà questa scena umana attraverso una animale, dimostrando che persino lo
scricciolo protegge sua madre dai predatori, tranne colui che avrebbe dovuto, Macduff. Egli
rappresenterebbe, dunque, una violenza maschile che si abbatte contro il femminile: nonostante per
la profezia egli è l’unico a poter liberare il mondo da Macbeth, non può evitare di farlo se non
attraverso la carneficina, ecco perché risultano entrambi dei mostri.
L’epopea elisabettiana si conclude con John Ford, che riassume i caratteri di quest’epoca nell’opera
Peccato che fosse una sgualdrina, la storia d’amore incestuosa di un fratello ed una sorella nella
società cinica dell’epoca: la loro storia risulta tenera come quella di Romeo e Giulietta, i due non
vogliono riconoscere il loro sentimento che nasce e si sviluppa nell’intimità della casa, in quanto il
mondo esterno non lo permetterebbe. In conclusione i due presentano due tipi di eroismo diversi:
Annabella si pente ma continua ad amare suo fratello il quale, invece, resta l’ereo maledetto che si
ribella agli uomini e a Dio.
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Capitolo VII
La scena spagnola tra Cinquecento e Seicento
La matrice comune del teatro elisabettiano e di quello spagnolo è la scena medievale.
Centrale nel teatro è infatti l’influenza religiosa, ecco perché molti autori spagnoli facevano parte
del clero, nonostante producessero comunque anche opere di carattere profano accanto ad opere
religiose che si rifacevano a passi della Bibbia e utilizzavano personificazioni allegoriche che
rimandano alla tradizione del teatro sacro medievale. Il clero continuò comunque ad opporsi al
teatro, ma nonostante questo non potè fare nulla in quanto il teatro suscitava ormai troppo interesse.
Lo spazio teatrale spagnolo dell’epoca è caratterizzato da un corral, una sorta di cortile creato dalle
parti di abitazioni contigue e su uno dei lati veniva collocato il palcoscenico. In piedi al centro c’era
il popolo, mentre assistevano seduti sui lati o dai balconi delle abitazioni gli aristocratici; il loggione
era invece riservato al pubblico femminile.
I comici dell’Arte che provenivano dall’Italia incrementarono lo sviluppo del teatro come
professione e dell’introduzione delle attrici, ma comunque gli spettacoli spagnoli rimasero incentrati
sulla tradizione medievale.
La commedia nueva venne inventata da Carpio Lope de Vega, il quale disconosce il teatro
medievale rigettandone i canoni aristotelici e favorendo la mescolanza dei generi. Egli diede vita
alla tragicommedia, la cui figura chiave è il gracioso, una sorta di buffone spesso alter ego ironico
del protagonista. Le innovazioni sono invece legate alla dinamica contemporanea, infatti si sviluppa
la commedia avventurosa che narra di onore e mentalità guerriera, mentre a scansione si riduce da
cinque a tre atti. Ne la Nuova arte di far commedie in questi tempi, Lope riconosce la centralità
sociologica del pubblico, vero committente al quale i teatranti devono adeguarsi.
Il Seicento è il Siglo de Oro per il teatro spagnolo, in contrasto con il declino socio-politico.
Il pregiudizio sul teatro spagnolo deriva dal pregiudizio laicista per il quale si tende a sottovalutare
il teatro di stampo religioso.
Fuente Ovejuna è l’opera più famosa di Lope: il signorotto di un villaggio attua un governo
tirannico sugli abitanti che lo uccidono per metterne fine ai soprusi. Nonostante le torture il
colpevole non si trova e gli abitanti vengono graziati da re e regina solo perché il signorotto ucciso
si era a sua volta macchiato, precisamente di ribellione contro la famiglia reale. I contadini risultano
portatori di moralità e dignità e così Lope sostiene il potere monarchico vigente in Spagna da
preferire a quello dei signorotti locali. Ecco perché questa idea conservatrice non deve impedire di
individuare il valore artistico delle opere spagnole seicentesche. L’unico ostacolo alla valutazione è
la gigantesca quantità di opere prodotte da Lope, che contrastano quindi la qualità.
Autore di una sola opera, Commedia di Calisto e Melibea, è invece Fernando de Rojas. Il testo,
pubblicato anonimo, non fu pensato per la rappresentazione, bensì per la lettura: gli atti sono infatti
21, ognuno dei quali è introdotto da un argomento. L’autore non si preoccupa di rispettare i canoni
aristotelici nonostante la sua conoscenza umanistica. Calisto è un aristocratico i cui valori
corrispondono a quelli dell’amor cortese, che manifesta verso la semplice Melibea, ma la trama non
si esaurisce qui: accanto alla nobiltà viene rappresentata la quotidianità dei marginali, come
Celestina, uccisa per non aver diviso con altri due servi, poi puniti dalla legge, i soldi che Calisto le
aveva dato. Alla trama cavalleresca si affianca dunque il violento realismo medievale che offre
anche uno spunto moralistico, infatti tutti i personaggi principali, macchiatisi in qualche modo,
muoiono, secondo un’idea di punizione.
Sulla scia di Lope si pone Tirso de Molina, autore de L’ingannatore di Siviglia e il convitato di
pietra, testo fondatore del Don Giovanni. Da un lato c’è il burlador, l’individuo che vive di inganni
ed invita a cena la statua dell’uomo che ha ucciso, e dall’altro il convitato di pietra, che al termine
dell’insolito banchetto gli stringerà la mano dannandolo per sempre. Evidente è l’impianto
moralistico. La particolarità di Don Juan, comunque, non sta nel piacere che prova con l’eros, bensì
nel piacere che prova ingannando le donne con sotterfugi sempre nuovi per poi abbandonarli.
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Don Juan risulta forte con i deboli ma debole con i forti, infatti, sembra che gli riesca facile di
sedurre le donne del popolo ma non con le nobili, con le quali deve mascherarsi dai loro veri amanti
per non mostrare la sua inferiorità sociale, diventando un mero ladro d’amore più che un seduttore.
Don Juan non mette in discussione Dio e la dannazione eterna, ma si limita ad allontanarne l’idea
sostenendo che la morte è ancora lontana: essa giunge, però, inaspettatamente prima del tempo, e
così l’eroe rivela le sue fragilità e i suoi fallimenti, dimostrando di non essere un eroe del male ma
solo qualcuno che vuole essere salvato.
Il punto più alto del teatro spagnolo seicentesco arriva con Pedro Calderòn de La Barca, il cui
capolavoro è La vita è sogno, nel quale ritroviamo la struttura della commedia coniugata alla
volontà di preservare l’onore e il potere monarchico. Evidente è anche la sensibilità religiosa data
dalla labilità dell’esistenza. La conclusione è, appunto, che tutti coloro che vivono sognano, a
partire da un convincimento profondo che farà loro percepire la realtà in un certo modo. In tal
senso, però, i personaggi non potrebbero mai essere sicuri di ciò che vivono, ecco perché in
Sigismondo, ad esempio, rimane un’incertezza di fondo che mette in dubbio ciò che succede.
Ciò che emerge è, quindi, una meditazione sulla vita umana data per esser tolta (Sigismondo
imprigionato da suo padre) dalla morte alla quale nessuno sfugge: la nascita stessa risulta un delitto,
aggravato nel caso di Sigismondo dal fatto che la sua libertà fu ulteriormente ristretta.
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Capitolo VIII
La scena francese del Seicento
Vista la vicinanza geografica tra Italia e Francia, quest’ultima ne subì un influsso molto più forte
rispetto a Spagna ed Inghilterra (legate ancora alla tradizione medievale), diventando la seconda
patria della Commedia dell’Arte, i cui comici si raccoglievano attorno alla sala Petit-Bourbon.
Fondamentale in Francia fu l’influenza della cultura classicista, infatti, il ministro Richelieu fondò
nel 1635 l’Académie Française, di stampo classicista e primo esempio di intervento statale nella
cultura. Il Seicento francese fu definito Le Grand Siècle: il teatro è un nuovo strumento per
rappresentare i confitti sociali e la classe in ascesa costituita dalla borghesia che intende guadagnare
potere politico in contrapposizione all’aristocrazia che intende invece restaurare il potere feudale,
usando il teatro come arma ideologica a sostegno della loro superiorità.
Il Cid di Pierre Corneille, uno dei più grandi tragediografi francesi, narra delle lotte contro i Mori
nella Spagna medievale: si racconta Don Diego, un vecchio uomo d’arme, e Don Gomes, nel pieno
della sua maturità fisica; il primo viene scelto dal re come precettore di suo figlio ma il secondo lo
insulta e schiaffeggia ritenendosi più adatto all’incarico. Ciò che emerge è il dibattito molto forte a
qui tempi in Francia tra costruzione accelerata dell’assolutismo monarchico e spinta indietro verso
l’anarchia feudale. Al centro sono presenti i valori cavallereschi-militari nella loro chiusura: lo
schiaffo risulta un’umiliazione alla quale Don Diego non può rispondere perché troppo anziano, ma
cerca al suo antagonista di fargli capire che il giorno arriverà anche per lui. Non potendo Don Diego
battersi, sarà il figlio Rodrigo a farlo, ma egli è innamorato di Chimène, figlia di Don Gomes:
l’amore dovrà combattere in modo melodrammatico contro l’amore, che per entrambi i figli viene
dopo il primo. La differenza tra i padri e i figli sta però nel fatto che i secondi risultano più
sentimentali e meno misogini, infatti Rodrigo soffre per aver ucciso il padre dell’amata nonostante
non si penta, mentre suo padre gli intima di abbandonare tali sentimentalismi dati dalle spinte
contraddittorie del cuore. L’opera è definita come tragicommedia, in quanto il lieto fine è comunque
presente. Le unità aristoteliche non vengono rispettate, infatti l’opera si svolge in due giorni e ci
sono continui passaggi da interno ad esterno. La tattica di Corneille consiste da un lato nella ricerca
di consenso del pubblico dotto e dall’altro nella volontà di raggiungere anche del pubblico meno
colto. Un altro grande tragico francese fu Jean Racine: se Corneille dipingeva gli uomini nel modo
in cui dovrebbero essere, Racine lo fa nel modo in cui sono. Una delle sue opere più famose è
Andromaca: Oreste, portavoce della Grecia, giunge alla corte di Pirro che non ha ancora provveduto
all’uccisione di Astianatte, figlio di Ettore e della cui madre, Andromaca, Pirro è innamorato anche
se deve sposare Ermione, della quale è innamorato ma non ricambiato proprio Oreste, che progetta
di rapirla; le sue mire dimostrano una contrapposizione tra interesse pubblico e politico e personale,
come tutti i personaggi di Racine. Pirro garantisce ad Andromaca che proteggerà Astianatte, ma in
cambio chiede di essere amato da lei, ecco perché non esita a minacciarla crudelmente. La grande
novità di Racine fu quella di scavare nella psicologia dei personaggi: Pirro, figlio di Achille che ha
ucciso Ettore, intende affermarsi agendo all’opposto del padre sposando la vedova di Ettore, e non
ha alcun interesse per Ermione proprio perché è stato Achille a combinare il matrimonio.
L’affinità di Racine con la cultura classica sta nel voler raccontare il dramma dei figli degli eroi,
costretti al costante confronto con modelli insuperabili, confronto che li rende fragili, infatti
Ermione offesa da Pirro intende vendicarsi con l’aiuto di Oreste il quale non si dimostra all’altezza
della situazione, così come Pirro ed Ermione. Colei che trionfa è l’austera Andromaca, che vive
dell’amore per Ettore e il loro figlio.
Fedra narra invece dell’amore incestuoso di Fedra, moglie di Teseo, per il figliastro Ippolito. La
storia è quella dell’Euripide di Seneca, ma Racine esplora la scissione psicologica di Fedra tra
passione e moralità; in quest’opera Ippolito non è misogino ma ama Aricia, e ciò permette a Fedra
un ventaglio psicologico più ampi che include la gelosia. Fondamentali sono anche le irrequietudini
di Ippolito, che si innamora proprio della donna della quale suo padre uccise tutti i fratelli e alla
quale ha proibito di sposarsi per non far nascere un vendicatore: a questo punto è evidente il senso
di predestinazione dell’opera, in quanto Fedra è preda dell’amore per Ippolito ed è inevitabile,
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mentre lui si innamora proprio dell’unica donna che non può sposare. Egli però si innamora della
principessa solo quando il padre è lontano, quando “può provare” quell’amore: Ippolito dimostra
che le sue mire a livello psicologico non riguardano l’amore per Aricia in sé, bensì la possibilità di
emanciparsi dalle regole del padre-padrone. Dal canto suo Aricia è l’equivalente femminile di
Ippolito, in quanto lei è attratta dal potere che scopre di poter esercitare su un uomo: Ippolito sta in
realtà combattendo contro suo padre ed Aricia mira in realtà al potere. Quando Teseo muore,
Ippolito ne azzera i comandi ridando libertà ad Aricia, con potere di revoca.
Jean-Baptiste Poquelin, conosciuto come Molière, è una nuova figura di attore-scrittore legato alla
convenzionale commedia e alla Commedia dell’Arte e anche leader della sua compagnia teatrale.
I suoi capolavori teatrali sono delle pièces, i precursori del dramma borghese, infatti, Molière scrive
spesso in versi e i suoi personaggi iniziano a mostrare lo status sociologico della condizione
borghese, anche se il classico salotto borghese non è ancora l’ambientazione prediletta, infatti i
luoghi non sono mai precisati. Una delle sue opere più famose è Tartufo, che narra di un ricco
mercante di nome Orgone che si infatua del lestofante Tartufo ed intende farlo sposare a sua figlia.
La mogie di Orgone Elmira, però, vuole dimostrare a suo marito che Tartufo è solo un avventuriero
ed arrampicare che non solo vuole sposare sua figlia ma anche sedurre sua moglie. Per questo
Elmira chiede a suo marito di nascondersi sotto il tavolo mentre lei parla con Tartufo: si apre una
scena tabù, quella della seduzione di una donna sposata sotto gli occhi di suo marito che è
benefattore dell’adultero. La violenza psicologica di un padre che combina il matrimonio di sua
figlia con colui che vuole anche sedurne la moglie si riflette nella velata violenza fisica che è quasi
uno stupro: Tartufo non nasconde le sue intenzioni ed Elmira sembra consapevole di ciò che subirà.
Nonostante i tre colpi di tosse da parte di Elmira che avrebbero dovuto lasciare intendere ad Orgone
che era ora di rivelarsi, egli non reagisce in quanto non vuole sentire: Orgone ama Tartufo quanto
ama sua figlia e sua moglie, ecco perché non reagisce quando egli cerca di stuprarla. Ormai
rassegnata, Elmira chiede a Tartufo di controllare se dietro la porta ci sia su marito ad origliare:
l’incantesimo del triangolo perverso ormai è spezzato ed Orgone esce allo scoperto. Egli dimostra
omosessualità fantasmata ma la sua perversione non sta nel desiderare un’altra persona rispetto alla
moglie, bensì nel fatto di godere che l’uomo che ama possegga sua moglie.
Il peso psicologico delle opere di Racine e Molière è analogo, ma il primo le esterna sotto forma di
tragedia e il secondo in commedia.
Il Don Giovanni di Molière parte dal modello spagnolo ma la differenza fondamentale sta nel fatto
che il protagonista dell’opera francese non può pentirsi in quanto non crede in Dio: Molière vive in
una società molto più aperta che permette al suo protagonista di essere considerato un eroe del male
che si ribella a Dio e abbraccia una civiltà laica. Egli è un libertino, non semplicemente qualcuno
che non crede in Dio, bensì qualcuno ibero dai dogmi religiosi e morali, cosa evidente per quanto
riguarda il suo rapporto con la sessualità: egli è interessato al piacere istintuale dato dai molteplici
rapporti con donne diverse, delle quali non vuole prendersi gioco ma goderne.
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Capitolo XIX
Settecento: la nascita del dramma borghese
A metà Settecento si diffonde un nuovo genere tipicamente borghese al di là di tragedia e
commedia, ovvero il “dramma”, che nell’Encyclopédie viene descritto come una sintesi di secolari
generi di tragedia e commedia, e sempre in quest’opera viene introdotta la voce “tragico-borghese”,
che ridisegna la struttura tragica in base al protagonismo borghese. Quello che il nuovo genere
richiede è una nuova drammaturgia libera da convenzioni e che risponda ad una domanda di
realismo, la massima coincidenza tra vita e ciò che è scritto.
Denis Diderot, principale animatore dell’Encyclopédie, realizzò Il figlio naturale, il cui testo è
accompagnato da tre dialoghi che lo riguardano e una premessa di Diderot dove egli esprime il
valore pedagogico che intende infondere al suo teatro, in modo che il suo argomento sia la vita e le
sue prove. Una tradizione borghese era quella di tramandare da padre in figlio i “libri” di famiglia,
che tramandano storie e tradizioni familiari: a metà Settecento, però, Dorval decide che quelle storie
diventeranno un’opera che i membri stessi della famiglia reciteranno per un pubblico costituito
dalla famiglia stessa. Ma Lysmond, padre di Dorval, viene a mancare, ecco perché nel momento in
cui un estraneo entra nella messa in scena per sostituirlo si attua il passaggio necessario per
trasformare il teatro per pochi (i familiari) in teatro per tutti. Dorvel, però, travalica il desiderio di
privatezza paterno nel momento in cui permette a Diderot di assistere, non visto in quanto spettatore
la cui vista da parte degli attori è ostacolata dalle luci della ribalta. È a questo punto, però, che
l’ambientazione del dramma diventa quella del salotto borghese.
La seconda commedia di Diderot fu Il padre di famiglia, che ci permette di entrare a tutti gli effetti
nella quotidianità borghese.
Diderot fu accusato di essersi ispirato per Il figlio naturale a Il vero amico di Goldoni, nel quale
però manca il sapore della vita borghese, infatti, considerando La locandiera, vediamo
un’ambientazione semplice e praticamente pubblica, opposta al salotto privato borghese che
comunque Goldoni considera quasi come un nemico. Le porte, infatti, che dovrebbero indicare
intimità, indicano invece la possibilità che le violenze esterne hanno di entrare, com’è evidente
quando Mirandolina si trova in una stanza della locanda con tre porte e da una di esse ad entrare è il
Cavalier di Ripafratta che intende prenderla con la forza.
L’innovazione del dramma borghese, comunque, non consiste solo nell’ambientazione ma anche nel
contenuto: non si tratta solo di storie d’amore ma anche di storie di soldi, sinonimo di ossessione
sociale sempre connessa alla possibilità di conquistare la donna amata.
Il dramma risulta dunque la trascrizione scenica di una histoire véritable (storia vera), che segna
una svolta capitale nella storia del teatro che non è più finzione.
Poco dopo i due testi teatrali di Diderot, Goldoni crea la Trilogia della villeggiatura, intersecando
dissipazione sia finanziaria che amorosa: Giacinta ama Guglielmo ma è promessa sposa di
Leonardo, il quale sarà costretta a sposare perché suo padre non è in grado di procurare al fidanzato
in disgrazia economica la dote promessa. Giacinta presenta però un inedito spessore psicologico:
ella non mostra i tratti degenerati di suo padre, un mercante che ha dissipato la sua fortuna, ma
condivide i valori della classe mercantile e li sostiene con convinzione sposando un uomo che non
ama per non rinnegare la parola data.
Il teatro moderno nasce quindi a corte ma saranno i borghesi ad appropriarsene e a rappresentare in
modo psicologicamente profondo la loro vita e quotidianità.
Jean-Jacques Rousseau scrisse la Lettera a d’Alembert sugli spettacoli, in quanto quest’ultimo
coglie il problema di un teatro che non deve più essere sottoposto ad un controllo statale
configurandosi come giocattolo ma deve essere assimilato dal punto di vista borghese in modo che
esso assuma un valore pedagogico (?).
Su questa linea si muove il tedesco Lessing, che insieme ad un gruppo di cittadini influenti diede
vita al primo teatro stabile tedesco con una compagnia di attori fissi.
A consolidarsi è anche la critica teatrale, a partire da Steele e Addison, padri fondatori del
giornalismo inglese, che animarono il giornale “The Spectator”: ci si rivolge alla new class i cui
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argomenti prediletti sono commercio, relazione tra i sessi, mode culturali, coffee houses e teatro; già
dal nome si comprende che l’intento della rivista è quello di offrire il punto di vista di uno
spettatore che osserva il mondo borghese come fosse una scena teatrale.
Nonostante la dinastia inglese del Settecento non fosse interessata al teatro, gli spettatori
provenienti dalla City aumentarono. Il maggior attore inglese del Settecento fu David Garrick, che
riformò la recitazione proponendo uno stile più naturale e quotidiano: se con Diderot si forma a
livello teorico il teatro borghese, con Garrick viene messo in pratica.
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Capitolo X
L’intermezzo classici-romantici
Nel XVIII secolo, Beumarchais si muove nel solco del genere comico realizzando Il barbiere di
Siviglia, musicato nel secondo successivo da Rossini, e Il matrimonio di Figaro, nel quale i toni
farseschi sono affiancati alla satira sociale.
Per tutto il secolo, però, molti intellettuali continuano a tramandare la tragedia aristotelica, come
fece Voltaire, nonostante il suo interesse per Shakespeare.
In questo senso, l’autore più significativo in Italia fu Vittorio Alfieri: egli smantellò i valori della
tradizione occidentale. Ciò che conta ora, a partire dal Romanticismo, è l’Io, e ciò che si ricerca è la
novità, opposta alla linea di continuità che la cultura classica sostiene. Ma questa novità deve essere
intesa come variazione su tema, una rivisitazione di un soggetto che già c’è.
L’opera maggiore di Alfieri è Mirra, variazione su tema di Fedra di Racine: non è più l’amore semi-
incestuoso di una matrigna per il suo figliastro, ma l’amore della giovane Mirra per il proprio padre
Ciniro, re di Cipro (episodio tratto dalle Metamorfosi di Ovidio). Alfieri rende più trasgressiva la
storia per dimostrare come si può costruire un testo moralmente accettabile su un argomento
moralmente pericoloso: se Ovidio racconta questo scabroso episodio è perché esso era destinato, in
quanto poesia, ad essere letto in privato; qualsiasi cosa che invece viene mostrata in pubblico risulta
più coinvolgente, e per non suscitare disgusto Alfieri prende degli accorgimenti, in primo luogo
rifiutando la soddisfazione della pulsione incestuosa, facendo della protagonista una vergine
dell’incesto che per cinque atti non confessa la sua passione, si limita a piangere e nessuno sa
perché. Ella confessa, anche se non del tutto, alla fine dell’ultimo atto a suo padre, al quale strappa
però il pugnale e si suicida, punendosi per questo suo amore. L’opera può essere colta nella sua
pienezza da uno spettatore che ne conosce gli antecedenti di Ovidio e Racine. Essendo anche
presenti in Mirra degli spunti involontariamente comici, è evidente la crisi di commedia e tragedia
come stile separati e quindi l’avvento del dramma.
Sempre di Alfieri è l’Antigone, ispirato all’opera di Sofocle: i figli di Edipo, Polinice ed Etocle,
sono statati uccisi in battaglia ma combattevano in due schieramenti opposti; il cognato di Edipo,
Creonte, governa Tebe e ordina che il corpo di Polinice rimanga insepolto come monito. Antigone,
sorella dei due, disubbidisce ed incorre nell’ira di Creonte che la condanna, nonostante Emone,
figlio si lui, ne sia innamorato: le ragioni di Creonte risultano in realtà personali, in quanto ella è
l’unica erede legittima di re Edipo. Quando Creonte scopre dell’amore di suo figlio per Antigone,
inaspettatamente la perdona e la rende regina permettendole di sposare suo figlio: se Antigone
muore il trono si rafforza, ma lo fa ugualmente se lei diventa regina: ecco che Alfieri mina mina le
basi del tragico facendo trasformare in un certo punto la tragedia in commedia.
Ma se la Francia è la patria del dramma borghese, in Germania nasce il Romanticismo che affonda
le sue radici nel movimento dello Sturm und Drang: autori come Schiller e Goethe
contrappongono con forza Shakespeare a Diderot. Essi considerano il Bardo come genio assoluto
libero dalle unità aristoteliche e capace di mescolare tragico e comico per dar sfogo alla passione.
La tragedia pura è per i romantici tedeschi l’espressione dell’Io in rivolta contro la realtà esistente:
alla piattezza della prosa contrappongono il verso e la poesia come esplosione delle passioni
individuali.
Alessandro Manzoni, sul versante italiano, insiste sul problema delle unità aristoteliche nella
Prefazione a Il Conte di Carmagnola e nella Lettre à Monsieur Chauvet. Nella Prefazione Manzoni
individua una duplice conseguenza negativa alle unità aristoteliche:
-a livello estetico impediscono la verosimiglianza aumentando invece le forzature;
-a livello morale è l’obbligo di rispettare rigorosamente regole classiciste.
Nella Lettera Manzoni sottolinea invece che il tema passionale-amoroso è centrale nella tragedia
francese ed è un tema che ben si adatta ad essere risolto nella canoniche dodici o ventiquattro ore, in
quanto tutti gli altri sentimenti che non siano amore richiedono un maggior lasso di tempo per
svilupparsi. Il nucleo che costituisce la scrittura manzoniana è però il bisogno di verità, sorgente
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della poesia. Considerando Il Conte o l’Adelchi siamo difronte al vero storico in quanto tragedie
storiche che in realtà conducono un discorso sulla contemporaneità pre-risorgimentale di Manzoni.
Con spirito romantico Manzoni attribuisce alla storia il merito di farci riflettere sul presente, basti
pensare al nazionalismo come riscoperta di sé attraverso la riscoperta nella propria identità
linguistica, politica e culturale.
Il romanticismo francese si sviluppa in ritardo rispetto agli altri paesi. Ne è il maggior esponente
Victor Hugo, la cui tragedia principale è Hernani, basato sull’omonima battaglia che segna l’arrivo
del Romanticismo in Francia (1830).
Alfred de Vigny creò invece l’opera di successo Chatterton, la cui vicenda è ambientata a Londra e
narra del poeta Chatterton che ama Kitty, moglie del ricco borghese Josh Bell presso il quale il
protagonista vive in affitto. Questo amore è reso romantico dall’impossibilità della sua realizzazione
dovuta alla moralità della donna che comunque lo ricambia.
Il poeta si avvelena e Kitty ne muore di dolere: ecco rappresentata la condizione del poeta nella
società capitalista e le contraddizioni della vita familiare borghese.
Alexandre Dumas figlio fece rappresentare La signora delle camelie, ispirato ad una vicenda
autobiografica: la storia narra della prostituta di lusso Marguerite Gautier, innamorata del ricco
Armand Duval che rischia di rovinarsi per lei. Il padre di lui le offre del denaro per andarsene anche
se il figlio la umilierà ma alla fine papà Duval condurrà sul letto di morte di lei, affetta da tisi, suo
figlio, al quale farà promettere che sposerà una donna buona ed onesta. Questo successo fu tradotto
in opera lirica da Verdi, il quale ne fece il suo melodramma La Traviata.
Durante il Romanticismo, a Parigi il genere più proficuo è il vaudeville, prodotto industriale a più
mani nel quale le parti dialogate si alternano a canzonette che col tempo scompariranno a differenza
della struttura del teatro leggero caratterizzato da imprevisti, sesso e lieto fine.
I dominatori della scena parigina dell’epoca sono Scribe, Labiche, Sardou (creatore della Tosca,
poi musicata da Puccini) e Feydeau, che trionfano con la “pièce bien faite”, che mescola intrighi e
storie adulterine.
Diverso è il caso del tedesco Büchner, la cui breve esistenza da perseguitato politico diede vita ad
una ridotta drammaturgia ma di altissimo valore: Woyzeck risulta un testo profetico (anche se
rimasto incompiuto) per quanto riguarda il naturalismo, in quanto gli istinti umani si mescolano con
le violenze di classe. Le scene si susseguono senza divisone in atti, e questo anticipa il dramma
degli Espressionisti, mostrando che probabilmente il Romanticismo risulta solo un intermezzo in
una linea di sviluppo che passa dal dramma di Diderot nel Settecento e la drammaturgia ibseniana
di fine Ottocento.
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Capitolo XI
Fine Ottocento tra Marx e Freud: la grande drammaturgia europea e la piccola
drammaturgia italiana
Nell’Ottocento il teatro si trovava diviso tra una sua concezione istituzionale e una meramente
edonistica; un’ala borghese minoritaria lo concepiva come in possesso di una funzione storica e
critica solitamente attribuita al romanzo.
Con la crescita delle metropoli il teatro divenne sempre più un fanone urbano ed industriale, infatti
lo spettacolo era merce e il pubblico gli acquirenti. Il pubblico divenne sempre più eterogeneo, ecco
perché i temi preponderanti furono sesso e denaro in quanto atti ad attirare il cittadino medio. Si
afferma in questo senso una particolare forma di teatro data dal café-chantant o café-concert, locali
dove i consumatori potevano esibirsi ed ascoltare musica: la macchina spettacolare si fa più
complessa ed articolata, è così che nasce il teatro di varietà. Nei caf-conc’ si assiste all’esibizione
teatrale mangiando, bevendo e fumando: l’arte si ritrova ridimensionata ad accompagnamento della
consumazione.
In relazione alla logica visuale, invece, domina la sala all’italiana, ricca di lucentezza e velluti.
L’architettura teatrale è in genere a ferro di cavallo, con i palchi tutto intorno e il centro di
gravitazione nella platea: lo spettacolo è nella sala, non sul palcoscenico, in quanto gli spettatori
sono attori che si offrono ala vista di altri spettatori in un contesto sfarzoso. Analogamente, la scena
del palo si arricchisce di spettacolarità (teatro visione) alla quale gli attori si adeguano attraverso
l’esibizione di abiti sfarzosi, soprattutto per le donne.
Il norvegese Henrik Ibsen è il principale rappresentante di un teatro che si pone cime sofferta
riflessione sulla realtà borghese: fu lui l’inventore del teatro del salotto borghese, tappa ultima del
processo iniziato con Diderot. Le didascalie iniziano a diventare significative per descrivere
l’ambiente di casa nel quale i personaggi si trovano. Una casa di bambola inizia infatti con una
didascalia che descrive un interno che rispecchia l’equilibrio della famiglia Helmer che lo abita tra
passato e futuro, un interno di una famiglia che ha gusto ma che non può assecondarlo
finanziariamente: il protagonista Torvald Helmer attende una promozione a lavoro ed è sua moglie
Nora a rendere comunque accogliente l’ambiente con ciò che possono permettersi. Il dottor Rank,
amico di famiglia ma in stato terminale più volte si “intromette” nel focolare della coppia, in quanto
ama quella casa e ama Nora: Rank è il terzo escluso, che rende Torvald ancora più compiaciuto di
ciò che ha in quanto desiderato da un altro che copre anche i buchi lasciati da Torvald stesso quando
è troppo preso da sé per stare con sua moglie.
Il salotto borghese che ospita le vicende dell’opera ispira privacy e accoglienza ma le porte che lo
caratterizzano non servono solo a mantenere l’intimità, in quanto possono aprirsi ad orecchie
indiscrete: ciò che è celato può sempre essere spiato, ad esempio dai domestici, necessari in casa ma
comunque degli estranei. In realtà, coloro che spiano non sono i domestici bensì i padroni, che
turbano l’intimità familiare. Ibsen può quindi essere definito come il poeta delle porte socchiuse,
che comunque non esplicita sempre il tema dell’origliamento.
Quindi, se la pièce bien faite permette alla classe borghese di rispecchiarsi nel teatro, Ibsen realizza
un decisivo rovesciamento che rende il teatro specchio critico della società, non solo a livello
edonistico ma anche e soprattutto morale.
Un’ulteriore novità è quella della discussione, scene durante le quali i personaggi si siedono e
parlano imponendo riflessione e analisi dei problemi. Nasce così la tecnica analitica dei drammi
ibseniani, così come Freud avrebbe iniziato a lavorare sui suoi pazienti di lì a poco, facendoli
stendere su un divanetto in modo da farli semplicemente parlare.
Un altro scatto che Ibsen aggiunge alla linea Diderot-Goldoni è che ad intrecci sentimentali, denaro,
lavoro, società egli aggiunge le pulsioni vitali, i mostri dell’inconscio dei personaggi: pensiamo alla
protagonista omonima dell’opera Hedda Gabler, che vive nel ricordo del suo defunto padre per il
quale covava pulsioni incestuose, oppure al protagonista de Il costruttore Solness, dominato da
perverse pulsioni che non riesce a controllare; risulta quindi evidente il nesso tra Freud e Ibsen.
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August Strindberg tratta invece dello scontro dei sessi: ne Il padre, un padre e una madre litigano
riguardo l’educazione da dare alla loro figlia, e per averla vinta lei insinua il dubbio che il padre
carnale della bambina non sia lui, spingendolo verso la follia.
La signorina Julie racconta della lotta tra i sessi intrecciata a quella di classe: la nobile ragazza Julie
ha appena rotto il suo fidanzamento durante la notte di San Giovanni, ma presa dall’atmosfera
trasgressiva di quella festa la sua carica erotica, accentuata dal fatto che la ragazza ha il ciclo
mestruale, viene indirizzata al servo Jean, con il quale va a letto. Non potendo sopportare di vivere
sotto quel tetto, la coppia decide di fuggire, infatti Jean spera di poter compiere una scalata sociale
attraverso i soldi che Julie dovrebbe rubare a suo padre; la distanza sociale, però, è tanta che
l’attrazione fisica non riesce a colmarla: il motivo del sangue, già presente nella decapitazione di
San Giovanni e nel ciclo della protagonista, ritorna quando Julie vuole portare con sé il suo
uccellino ma Jean, considerandolo come un inutile ingombro, lo decapita, ma ritornerà anche alla
fine, quando Jean darà a Julie un rasoio col quale tagliarsi la gola. È la violenza a risultare quindi
componente dell’eros, non la tenerezza.
Anton Čechov opera una radicale trasformazione del dramma di fine Ottocento: l’apparentemente
asettico salotto borghese diventa teatro di tensioni inaspettate. Infatti, il salotto borghese nella sua
intimità diventa espediente per marcale l’attrazione dell’autore per l’esterno, che quindi fa degli
interni una barriera claustrofobica. Lo spazio diventa dilatato così come il numero di personaggi, i
quali compongono un gruppo privo di un centro i cui membri cercano di ritagliarsi dei piccoli spazi
dividendosi in sottogruppi; in questo senso, anche i dialoghi iniziano ad includere più personaggi.
L’opera che più di tutte rende queste caratteristiche è l’opera, simbolista, le Tre Sorelle: le orfane
Irína (23 anni), Màscia (24 anni) e Olga (qualche anno in più delle altre) vivono nella profonda
provincia russa e, come Hedda Gabler, nel ricordo del padre, il generale Prosòrov, morto
esattamente un anno prima della scena d’apertura dell’opera. Le tre ragazze sono cresciute sotto
l’ala del padre, infatti sappiamo che la madre è morta da anni, e ora che neanche lui c’è più sembra
che nessun uomo possa essere alla sua altezza: è evidente che le tre ragazze sono preda del
complesso di Edipo, infatti la più grande e la più piccola non si sono sposate, mentre la mezzana
non prova nulla per suo marito e si innamora disperatamente di un colonnello, per il semplice fatto
che appartiene all’esercito come suo padre. Il colonnello, infatti, non mostra alcun tratto
affascinante, ma solo la condizione parassitaria e oziosa dell’esercito e dell’aristocrazia dell’epoca,
inefficienti, incapaci e presuntuosi, sull’orlo dell’abisso costituito dalla Rivoluzione Russa del 1917.
Le donne non sono da meno, in quanto si lamentano e sognano solo la vita oziosa che conducevano
quando il padre era ancora vivo. Quando Màscia vede il colonnello Vierscínin scatta in lei
un’epifania, in quanto rivede in lui suo padre: non sappiamo cosa lei veda in lui ma neanche cosa
lui veda in lei, ma l’unica cosa certa è che, come tutti gli altri soldati, il colonnello è un perfetto
corteggiatore, attività che per rimane trasgressiva e sempre al di fuori del matrimonio, come già la
madre delle tre aveva fatto iniziando una relazione adulterina col medico militare Cebutykin, forse
padre naturale di Irína. Dunque Màscia non solo sceglie il suo amante in ricordo del padre, ma
agisce come fece già sua madre. Sarà il medico a cercare di proteggere Màscia dallo scandalo, cosa
che invece non farà col personaggio di Natàscia, perché ella appartiene alla borghesia e non alla
casta. La drammaturgia italiana contemporanea ad Ibsen, Strindberg e Čhecov può essere definita
come piccola drammaturgia allo stesso tempo in sintonia e autonoma rispetto ai modelli europei.
Ne fu il maggior esponente Giuseppe Giacosa, il cui primo capolavoro è Tristi Amori: l’avvocato
Scarli è un uomo che si è fatto da solo e fa coincidere studio e domicilio familiare secondo una
logica di risparmio evidente anche nell’arredamento. Concentrandosi troppo sul suo lavoro, come
spessissimo accadeva, il protagonista trascura sua moglie che finisce per tradirlo con un nobile
deceduto ora avvocato al servizio di Giulio Scarli di nome Fabrizio: la moglie del protagonista ha
una formazione romantica, che spesso rimanda ad Emma Bovary, protagonista dell’omonimo
romanzo di Flaubert. Il fatto che Giulio in quanto borghese abbia a servizio un aristocratico è per lui
una conquista, che dimostra un inconscio odio di classe.
In Come le foglie, prototipo del dramma corale, il protagonista è Giovanni Rosani, il quale lavora in
borsa ma perde molti soldi portando la sua famiglia ad un tenore di vita nuovo al quale non riesce
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ad abituarsi; il protagonista però non impara nulla e commette gli stessi errori e per far fronte alle
spese della casa co duce un secondo lavoro in segreto: il motivo per il quale lo fa è che dà tutto il
tempo al lavoro perché non ne ha da darne alla famiglia, del cui fallimento risulta responsabile.
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Capitolo XII
Il teatro del Grande Attore tra Ottocento e primo Novecento
Nell’Ottocento si intrecciano tre fili: drammaturgia, attori e la nuova figura del regista.
Nelle compagnie italiane, gli attori ricoprono diversi ruoli (da non confondere con le parti, che
sonno comprese appunto dal ruolo): il primo attore e la prima attrice sono i più importanti sul piano
gerarchico e a loro spettano le parti da protagonisti; di solito il fisico del primo attore (es. Tommaso
Salvini) è imponente e così anche la sua voce, mentre la donna (es. Eleonora Duse) presenta una
figura maestosa e voce potente. Il brillante è un ruolo maggiore che però introduce una nota di
leggerezza e dinamismo nei testi, mentre nel Novecento si trasforma nella figura del raisonneur,
spesso portavoce dell’autore. Il caratterista deve sottolineare gli elementi caricaturali del
personaggio che interpreta. Attor giovane e attrice giovane scoprono ruoli importanti ma di
personaggi di giovane età. La seconda donna interpreta il personaggio rivale di quello della prima
attrice e deve presentare le sue stesse caratteristiche fisiche. Il promiscuo è un ruolo minore ma di
grande importanza in quanto capace di passare da un registra ad un altro totalmente diverso, dal
patetico al comico, basti pensare ad Eduardo De Filippo. Il generico, invece, è colui che interpreta
parti appena abbozzate e di natura eterogenea.
Comunque, i ruoli non costituiscono categorie fisse: con l’età atto giovane e attrice giovane sono
destinati a diventare primo attore e prima attrice, e il primo attore invecchiando può a sua volta
restare tale o diventare caratterista; prima attrice o seconda donna potrebbero diventare interpreti
delle parti della madre nobile mentre il promiscuo potrebbe diventare caratterista.
Attraverso i ruoli gli attori si specializzavano in parti maggiormente consone alle loro possibilità
dettate in primo ruolo dalle loro caratteristiche fisiche, infatti avere il physique du rôle era già metà
del lavoro e lo indirizza al ruolo che l’attore ricoprirà, ruolo può essere concepito come personaggio
dell’attore. Questa articolazione in ruoli permise il passaggio dal il metodo di produzione della
Commedia dell’Arte e le relative maschere a quello della nuova condizione storico-culturale a
cavallo tra Settecento e Ottocento.
L’economia della compagnia ottocentesca era gestita dal capocomico (compagnia capocomicale),
un impresario: egli rendeva stabile internamente l’organizzazione della commedi che era instabile
invece per il suo nomadismo. Non può un capocomico essere definito regista, ma ciò non toglie che
era fondamentale il suo lavoro di supervisione di repertorio, attori, parti e prove. Le compagnie
davano raramente delle repliche in quanto contavano su un publico abituale e ristretto; il
capocomico divideva le parti assegnandole ai rispettivi attori che, come abbiamo visto, non
conoscevano quelle degli altri e il tutto veniva quindi sincronizzato dal capocomico, il quale
interveniva liberamente sul testo. Anche la cura della scenografia spettava al capocomico: sta era
sommaria, essenzialmente una carta dipinta facile da trasportate e quindi riutilizzare: solo in casi
specifici si commissionava allo scenografo una nuova scenografia, ma egli lavorava per conto suo.
Lo spettacolo italiano ottocentesco risulta quindi una sommatoria di diversi ingredienti. Per quanto
riguarda l’allestimento della scena, si raccoglievano mobili approssimativi predisposti nella scena
dal direttore di scena, mentre il trovarobe segue la compagnia portando cianfrusaglie che potrebbero
rivelarsi utili. I costumi dei ruoli principali venivano solitamente procurati dagli attori stessi, quindi
semplici per via delle loro ristrettezze economiche, mentre per il resto dei ruoli, principalmente
quelli di carattere, provvedeva la compagnia. L’illuminazione si riduceva alle luci in basso della
ribalta e alla fila di lampadine in alto (bilancia), che serviva semplicemente a far vedere e non aveva
ancora valore espressivo; l’attore recitava quindi in proscenio in quanto parte meglio illuminata del
palco: a guadagnarne è il valore mimico del volto dell’attore, ecco perché si può parlare di teatro
dell’attore, dove conta la presenza viva dell’attore più di tutto ciò che lo circonda.
Nei secoli passati l’anno teatrale andava dalla prima domenica di Quaresima fino al successivo
carnevale; a fine Ottocento, però, la sindacalizzazione dell’attore riuscirà a modificare la condizione
inizialmente molto pesante. La dignità professionale dei teatranti iniziò ad essere ancor più
riconosciuta quando iniziarono ad essere organizzate serate d’onore o di beneficio in onore degli
attori, ai quali andava una parte del ricavato, omaggi e gli era permesso scegliere la parte da
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interpretare. Erano presenti vari livelli di compagnie anche se non rigidamente divisi: compagnie
primarie, le più prestigiose che si spostavano tra i capoluoghi, quelle secondarie che si
concentravano su città secondarie e grossi paesi, e quelle di terz’ordine, dette anche di guitti, che si
muovevano tra paesini sperduti.
La performance del grande attore era dunque basata sulle sue risorse individuali: quando
Stanislavskij, grande padre della regia, vide recitare Tommaso Salvini nell’Otello di Shakespeare
in Russia, osservò che nonostante la poca credibilità estetica la sua interpretazione era talmente
potente da renderlo perfettamente credibile, infatti, nonostante il pubblico non conoscesse l’italiano
egli utilizzava così magistralmente la sua gestualità e la sua voce da farsi capire.
Adelaide Ristori divenne estremamente famosa interpretando la Mirra di Alfieri a Parigi: ella non
cambiò nulla della trasgressività del testo ma riuscì a far fremere il pubblico parigino attraverso gli
slanci del proprio corpo.
Ermete Zacconi, invece, interveniva pesantemente sul testo, infatti interpreto una versione di
Spettri tutta incentrata su Osvald, mentre Eleonora Duse spostò l’accento sulla madre di
quest’ultimo.
I grandi cavalli di battaglia di questi ultimi due attori furono, comunque, i grandi personaggi di
Shakespeare, infatti, la Ristori presentò l’opera Macbeth col nome di Lady Macbeth e la Duse
concentrò sulla componente femminile l’opera Antonio e Cleopatra.
Per il grande attore a contare non è il copione, bensì la poesia dell’attore stesso.
In Europa, l’individualismo attoriale (alle soglie del divismo) è rappresentato dall’inglese Henry
Irving e dalla francese Sarah Bernhardt. Soprattutto in Francia l’amore diventa titolare di diritti in
quanto, con la Rivoluzione Francese, diventa un cittadino, non più marginalizzato dalla società
borghese ma riconosciuto anche dalle istituzioni.
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Capitolo XIII
Il teatro dell’opera lirica tra Ottocento e primo Novecento
L’Ottocento costituì l’epoca d’oro del melodramma: l’opera in musica italiana si impone in Europa
come se fosse una merce. L’edificio teatrale all’italiana gerarchicamente strutturato continua ad
essere il luogo di ritrovo delle élite anche se fondamentale è proprio la compresenza di classi
diverse, anche se a mancare è il popolo. Il centro gravitazionale è il palco dal quale si guarda e si è
guardati, soprattutto durante le arie, ed è per questo che vengono posti al suo interno degli specchi
che permettono il gioco di sguardi senza però perdere di vista il palcoscenico.
Comunque, nell’Ottocento l’opera lirica diventa scuola di sentimenti, una fonte di educazione, ben
diversa dal teatro di prosa che si imporrà alla fine dell’Ottocento: questo secolo può essere
considerato il secolo lungo del melodramma che si impone per tutta la sua durata attraverso grandi
compositori ma vi si esaurisce, trovano il suo picco e la sua fine contemporaneamente.
Gioacchino Rossini si pone come ponte tra passato e Ottocento: una delle sue opere più famose è Il
barbiere di Siviglia, ispirato a Beaumarchais. A dominare è la potenza musicale che astrae i
condizionamenti psicologici e sociologici, come ad esempio nel crescendo, durate il quale la musica
aumenta di velocità man mano che nuovi strumenti si inseriscono, anche se Rossini utilizza questo
espediente spesso in maniera gratuita.
L’italiana in Algeri è una surreale opera buffa venata di patetismo per quanto riguarda il lieto fine:
si narra del pascià Mustafà che dichiara di voler sostituire sua moglie con una donna italiana di
nome Isabella, dama spregiudicata consapevole del fatto che tutti gli uomini sono uguali. Ciò che
risulta evidente nella realizzazione dell’opera è che la musica viene messa a servizio dei cantanti, ai
quali si vuole garantire spazio vocale senza preoccuparsi del realismo.
Comunque, la linea di sviluppo del melodramma romantico non passa solo da Rossini, ma
principalmente da Bellini e Donizzetti: I Puritani di Vincenzo Bellini narra della lotta tra i seguaci
di Cromwell e la corona inglese come sfondo per la storia d’amore tra Arturo ed Elvira,
rispettivamente tenore e soprano, contrastato da Riccardo, baritono con funzione di antagonista. La
storia viene narrata con toni elegiaci.
L’accento romantico di Bellini è evidente in Norma, ambientata in Gallia durante la conquista
romana e che narra della sacerdotessa dei Druidi Norma e della sua relazione con il proconsole
romano Pollione, dalla quale nascono due figli. La foresta gallica, di epica ispirazione romantica,
mette in risalto la figura della donna associata ad un destino di passione e morte: temendo di essere
abbandonata da Pollione, invaghitosi di una sacerdotessa più giovane, media di punire i nuovi
amanti, i suoi figli e, infine, anche se stessa sacrificandosi.
Di Gaetano Donizetti è invece Lucia di Lammermoor (tratto da un romanzo di Scott): due famiglie
scozzesi si scontrano nel Settecento, ma i due giovani apparenti ai due schieramenti opposti si
innamorano. Lucia uccide il marito che le è stato imposto e muore di dolore, ed Edgardo si
suiciderà quando lo verrà a sapere.
Risulta evidente in queste opere il ritorno dell’eroe romantico appassionato e disperato
contemporaneamente.
L’elisir d’amore narra del contadino Nemorino, timido e ingenuo, il quale ricorre ad un fasullo elisir
d’amore per conquistare la maliziosa Adina: l’opera si fa buffa per via del protagonista che non
semplicemente è il classico contadino ignorante, bensì un uomo fragile e la cui grazia deriva
proprio da tale delicatezza, che conquisterà alla fine anche Adina.
Nelle opere di Giuseppe Verdi troviamo invece un timbro nuovo dato dalla passione politica
risorgimentale (es. Viva Verdi). Il Rigoletto è tratto da un dramma di Victor Hugo, nel quale il
sovrano seduce la figlia del buffone di corte, che guadagna pathos attraverso il dolore che questa
vicenda gli procura; il Trovatore narra della zingara Azucena, distrutta dal dolore per la morte di suo
figlio Manrico ma rabbiosamente felice di aver potuto vendicare sua madre; la Traviata, di
abilitazione borghese, narra invece di un amore infelice con attenzione all’aspetto psicologico e
sociale, infatti Verdi si ispira alla Signora delle Camelie di Dumas figlio. Il naturalismo di Dumas
assume in Verdi un approccio sociologicamente più aspro: Violetta piange quando le viene imposto
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di lasciare il protagonista, e l’imposizione violenta viene accentuata dal fatto che il padre di lui, che
si rivolge a lei sempre col voi, solo in quell’occasione le da del tu richiamandola all’ordine. Grazie
anche alle possibilità offerte dalla musica Verdi rende magistralmente le ipocrisie sociali dell’epoca,
che il pubblico riesce a cogliere consacrando l’opera al successo.
Verdi è considerato come il più fedele al melodramma italiano: i conflitti sono chiari, esemplari e
d’impatto, romanzeschi e rocamboleschi allo stesso tempo anche a livello coloristico. Egli rese
l’opera lirica una realtà che coinvolse anche il popolo, è infatti con Verdi che viene utilizzata per la
prima volta l’espressione nazional-popolare nella storia italiana, facendo dell’Italia il paese del
melodramma. Con gli shakespeariani Otello e Falstaff, però, Verdi svela una vena comica
insospettata fino ad allora: la ricchezza orchestrale è preponderante, infatti, gli strumenti sembrano
vivere con i personaggi, realizzando una maggior continuità tra melodia e recitativo.
Giacomo Puccini fu l’ultimo fortunato interprete del melodramma italiano: La Bohème è un
melodramma-manifesto del Verismo. Si narra della vita di quattro giovani bohémiens, artisti di belle
speranze, attanagliati dalla povertà nel Quartiere Latino di Parigi. Non c’è esattamente una trama di
fondo ma viene messo a fuoco il pathos e il comico eroismo della vita quotidiana, ma non manca
l’amore. Sulla linea dell’esotismo troviamo, invece, Madama Butterfly: in Giappone, la protagonista
si innamora del tenente ella marina statunitense Pinkerton che poi ritornerà con la sua nuova moglie
americana solo per strapparle il figlio e portarla alla condanna a morte. Incompiuto ma poi
completato da Alfano è Turandot: la storia della regina che uccide tutti i suoi pretendenti ma poi si
innamora dell’impavido Calaf si apre a passioni intense e turbate.
La Tosca appare un dramma storico ambientato nella Roma del 1800: la trama politica si intreccia
però all’amore tra il pittore Mario Caravadossi e la cantante Floria Tosca, a sua volta amante del
brutale capo di polizia Scarpia. Si innesta un crescendo di passioni, ricatti e sadismi che condurrà
alla morte in successione dei tre protagonisti. Ciò che attrae è l’intreccio tra violenza politica e
violenza sessuale, alla quale ogni violenza fisica viene infine ricondotta.
Per quanto concerne, invece, il melodramma francese, esso doveva presentare misura, eleganza,
buon gusto, intelligenza e in piccola parte razionalità. I due generi tipici sono 1) l’opéra-comique e
2) il grand-opéra: 1) i dialoghi in prosa si alternano a parti musicate e cantante, e l’elemento comico
consiste nel lieto fine; 2) con un minimo di quattro atti, l’allestimento scenico è sfarzoso ed
imponente; l’intreccio è romanzesco ma lo sfondo è spesso caratterizzato da un conflitto storico o
religioso. Al primo genere appartiene la Carmen di Georges Bizet: la musica esprime un’ardente
sensibilità meridionale per una vicenda ambientata in Siviglia la cui protagonista è Carmen,
personaggio carico di erotismo che lavora in una fabbrica di tabacco e che attrae, tra i tanti, il
brigadiere José che diserta per lei e lo spingerà in un vortice passionale che lo porterà a pugnalarla
per averlo tradito con il torero Escamillo. Quest’opera tradisce il genere di appartenenza in quanto è
assente il lieto fine sostituito da crudo realismo. Carmen viene vista come una bohémien che incarna
una visione scandalosamente libera dell’amore, infatti è lei ad attirare Josè ed è sempre lei a
piantarlo in asso. Critica è anche la rappresentazione dei militari, che dovrebbero simboleggiare
l’ordine e invece si abbandonano ai piaceri carnali.
Richard Wagner, coetaneo di Verdi, aspirò alla realizzazione dell’opera d’arte totale, nella quale le
più grandi arti (musica, poesia, danza, pittura, scenografia) dovevano fondersi: parola e musica
operano in continuità drammaturgica attraverso un’orchestra che tutto racconta, non per nulla
Wagner fu musicista ed autore dei sui libretti. Il punto d’arrivo della sua produzione fu la
realizzazione di un nuovo edificio teatrale costruito a Bayreuth, in Baviera.
Wagner introdusse un ininterrotto tessuto musicale dove tutto si amalgama in una compenetrazione
tra l’evento sonoro e quello scenico. Wagner rigetta i soggetti melodrammatici tipici per abbracciare
le leggende nordiche: ne è il maggior esempio la tetralogia de L’anello del Nibelungo (L’oro del
Reno, La Valchiria, Sigfrido, Il crepuscolo degli dei), tratta da miti germanici pagani. Wagner fu
prima animato da fermenti rivoluzionari ma poi visse le contraddizioni della borghesia tedesca.
Successivamente fu influenzato dal pessimismo metafisico di Shopenauer che gli procurò una
visione negativa dell’umanità e del suo destino: infine, in questa tetralogia, Wagner approda
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all’esaltazione dello spirito germanico, con l’eroe puro e vittorioso e la redenzione dal peccato
attraverso l’amore puro della donna disposta anche al sacrificio supremo.
Il vertice della produzione wagneriana è Tristano e Isotta: nel mito celtico, Tristano conduce Isott in
sposa al re di Cornovaglia, che è anche suo zio; i due giovani bevono per sbaglio un’elisir d’amore
e si innamorano, anche se in realtà si amano sin dall’inizio. La tendenza alla fusione che spinge
l’uno verso l’altro non si risolve nella vita, bensì nella morte, esilio che Tristano propone ad Isotta
quando re Mark scopre del loro amore. Wagner rende ancora più scabroso il mito: Isotta è infatti
innamorata dell’uomo che ha ucciso il suo fidanzato, Morold, anche se lei non lo sapeva
inizialmente. Ella condivide l’ideologia della forza e per questo è attratta dall’uomo che le ha
portato via il suo amato e che proprio per questo ora ha il diritto di appropriarsi di lei.
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Capitolo XIV
Il teatro del regista tra Ottocento e primo Novecento
La regia nasce come reazione ai guasti più evidenti del modo di fare del teatro d’attore.
Un notevole impulso in tal senso avvenne grazie al duca Giorgio II che insieme al regista Ludwig
Chronegk organizza la compagnia i Meininger: fondamentale per loro era il rispetto del testo che
doveva essere reso attraverso prove rigorose e massima cura ed esattezza di costumi, luci e messa in
scena. La troupe era composta da circa settanta persone pagate dal duca. Il criterio di lavoro si
basava sulla rotazione delle parti principali, infatti gli attori principali non sempre interpretavano i
protagonisti. Ma la fondamentale innovazione fu il controllo sull’attore da parte del regista: grazie
alla rotazione anche il più bravo doveva essere subordinato a chi dirigeva.
André Antoine iniziò la sua attività ispirandosi ai Meininger dei quali seguiva le rappresentazioni;
egli fondò in base a questa compagnia il suo Théâtre Libre: Antoine era un dilettante ma con grande
capacità di innovazione. Il suo punto di riferimento era Zola e il suo senso naturalistico.
Il suo primo obiettivo è la riforma del dècor: deve emergere il quadro d’insieme, nel quale nessun
elemento è secondario o trascurabile. La scenografia prospettica poco realistica e basata su
un’illusione viene sostituita da una scena costruita, in modo da far recitare l’attore al suo interno e
non davanti ad essa: il significato deriva ora dalla composizione e non solo dall’attore.
Dal canto loro gli attori possono ora sfruttare pienamente il linguaggio del loro corpo senza limiti di
movimento.
Stanislavskij è invece una specie di padre del teatro moderno: insieme al regista ed insegnante di
teatro Dančenko fonda il Teatro d’Arte di Mosca, nel quale ogni gerarchia di attori è annullata. Il
loro teatro si pone in contrasto con la tradizione di pàthos e teatralità ottocentesca e romantica: si
apre la possibilità di non mostrare sempre il volto al pubblico e di recitare in zone d’ombra.
Stanislavskij, comunque, non rinnega la fase romantica in quanto fondamentale per il passaggio dal
teatro d’attore a quello della regia. La nuova centralità del regista viene accentuata dalle relative
invenzioni su ogni livello della produzione che attirano sulla sua figura l’attenzione del pubblico:
non bisogna pensare, però, che il regista voglia sovrapporsi all’attore, ma piuttosto proteggerlo ed
aiutarlo ad esprimersi.
La fondamentale innovazione di Čechov fu invece la scoperta dei limiti del realismo esteriore
(scenografia, ecc…) che lo portò ad approfondire quello interiore, la psicologia dei personaggi:
nella sua drammaturgia non succede mai nulla di decisivo ed è per questo che c’è bisogno di creare
un’atmosfera precisa attraverso una recitazione fatta di tonalità sfumate, pause e silenzi. Il regista ha
scoperto la centralità dell’attore nella macchina scenica: si ribalta la situazione rinnegando la figura
del regista-despota in favore di un regista in accordo e in collaborazione con l’attore.
Mejerchol’d fu l’allievo più geniale di Stanislavskij: il primo favoriva un teatro fatto di gestualità,
mentre il secondo di parola, ma non si deve considerare troppo rigidamente questa
contrapposizione, in quanto già Stanislavskij mostrò un risvolto novecentesco attraverso una serie
di studi su di un teatro in cui sperimentare delle riflessione sull’arte attorica.
È da qui che nasce il cosiddetto “Sistema”, un codice recitativo espresso nelle due opere Il lavoro
dell’attore su sé stesso e Il lavoro dell’attore sul personaggio. Il problema alla base del Sistema è:
come evitare che l’attore, replicando molte volte la propria parte, non scada in una messa in scena
meccanica e fatta di clichés? Stanislavskij sostiene che lo spettatore possa essere coinvolto
emotivamente solo quando l’attore lo è a sua volta, è quindi immedesimato nel personaggio che
interpreta: il metodo consiste dunque nel far cadere l’attore in questo stato ricorrendo alle proprie
emozioni e ai propri ricordi. La parola che descrive questo stato è la Reviviscenza: un attore non
può restare un personaggio che non sente.
Paradossalmente il “Sistema” non è qualcosa di sistematico e rigido, anche se negli USA è stato
interpretato così, basti pensare al famosissimo Actor’s Studio. Stanislavskij si oppose sempre a
questa concezione, mettendo costantemente in discussione il Sistema fino ad arrivare ad un “metodo
delle azioni fisiche”: il sentimento si riflette nella dimensione mimico-gestuale. A partire da questa
nuova visione, durante le prove non è necessario che l’attore conosca le battute ma semplicemente
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l’intreccio in base al quale improvviserà a livello fisico; questa successione di azioni fisiche verrà
poi fissata e sostituita con le battute del testo drammaturgico, accentuando la linea di continuità tra
fisico e spirituale che non risultano più opposti.
Curiosamente, la regia moderna nacque da gruppi generalmente dilettanti, anche perché su attori
non professionisti era più facile per il regista prevalere, mentre i grandi attori opposero resistenza
all’avvento della regia. Un’ulteriore visione del regista è quella del “servo d’Autore”, in quanto si
nasconde dietro il conseguimento letterale del testo per porre il suo comando sull’attore, più
importante del regista ma meno importante dell’autore.
Comunque, al culmine della fortuna del regista, egli inizia a modificare il testo più di quanto l’attore
abbia mai fatto, forgiando allo stesso tempo un attore più accondiscendente abituato alla
subordinazione alla regia.
Per la regia si configura proprio una nuova drammaturgia, rispettosa dell’insieme ma anche
dell’approfondimento dei personaggi, che implica un pubblico più colto: regia e drammaturgia
risultano due facce della stessa medaglia che causano il notevole ampliarsi delle didascalie che
determinano in maniera sempre più esatta la composizione della messa in scena, infatti, il
drammaturgo lavora spesso a astretto contatto col palcoscenico.
Se per alcuni la regia è un fenomeno tipicamente Novecentesco, altri ne percepiscono l’elemento di
continuità con l’Ottocento, continuità data dall’organizzazione organica tra palcoscenico e
fenomeno professionale.
Ma che cosa distingue essenzialmente il teatro dell’attore da quello del regista? Il teatro d’attore
fonda la sua potenza sul corpo fattoriale più che sul testo, mentre nell’Ottocento la grandezza dello
spettacolo è data dal rispetto rigoroso del testo. Ma ciò che collega questi de momenti è la spinta
dell’autore a farsi regista, spinta che si trasformò nel tempo non permettendo di individuare una
data esatta di nascita della regia, ma piuttosto una banda di oscillazione cronologica.
La regia si definisce prima di tutto come un mestiere dell’industria dello spettacolo: già ad inizio
Ottocento, in Francia, c’era una sorta di libretti di istruzioni utili per allestire e rimontare lo
spettacolo, coordinandone gli aspetti, ma a mancare era proprio la figura del regista, colui che mette
in esecuzione tali istruzioni. Però, stando a questo tipo di regista egli non sembrerebbe altro che una
figura che duplica uno spettacolo già impostato, senza margine di libertà, a sappiamo che così non è
in quanto, nel corso del Novecento, da mestiere quella del regista diventerà arte: non più
professionista ma artista.
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Capitolo XV
Primo Novecento: le Avanguardie Storiche e la centralità di Pirandello
La Prima guerra mondiale causò nel Novecento una messa in discussione delle certezze dominanti:
a livello artistico, il modo per farvi fronte fu lo sperimentalismo, elemento caratterizzante delle
Avanguardie Storiche. Celeberrimo è il Manifesto del Futurismo redatto da Filippo Tommaso
Marinetti il 20 febbraio 1909: in questo scritto egli elogia la modernità economico-sociale
attraverso il mito della macchina, fonte di velocità e violenza resa attraverso la giustapposizione di
parole anche prive di senso ma chiassose, rifacendosi al caos della guerra, infatti per i futuristi era
necessario distruggere la cultura passata per fondarne una nuova e basata su questi nuovi ideali, che
per molti sfociarono nel Fascismo, anche se in realtà sono molte le contraddizioni tra i due modi di
pensare. Sempre Marinetti compose il Manifesto dei drammaturghi futuristi dove prendeva
coscienza della problematica dei limiti legati al teatro. Il teatro di varietà, sempre di Marinetti,
riguarda invece quel genere di teatro considerato minore: per l’autore esso deve aprirsi ad una
pluralità di forme d’espressione spettacolare e, soprattutto, ad una maggiore interazione con il
pubblico, carattere fondamentale delle serate futuriste e del teatro moderno.
È infatti la rottura della barriera palco/platea il filo rosso che lega le Avanguardie Storiche.
Di matrice tedesca fu invece l’Espressionismo, che interessò maggiormente le arti figurative e
nacque come reazione all’Impressionismo, esaltando la visione soggettiva dell’artista. A livello
teatrale viene denunciata la disumanità resa evidente dalla Prima guerra mondiale.
Sulla stessa linea delle serate futuriste si muovono le serate dadaiste, portate dal movimento del
Dadaismo, i cui sostenitori non intendevano fondare una nuova arte o un nuovo mondo.
Quest’avanguardia nacque a Zurigo a partire dal poeta Tristan Tzara ma si estende a livello
internazionale. Zurigo ospitava all’epoca figure irregolari che si riunirono in un gruppo che rifiutava
la carneficina costituita dalla guerra e le regole capitalistiche ed assurde della società: Tzara
dichiarò persino che “l’arte non è una cosa seria”, infatti il nome Dada venne scelto a caso in un
dizionario “non significa nulla”. L’arte e la cultura perdono quindi la loro tradizionale connotazione
positiva. Per favore è un testo di Andrè Breton e Philippe Soupault composto da quattro atti di
cui i primi tre autonomi l’uno rispetto all’altro ma che partono da un’apparente razionalità
discorsiva per poi approdare all’incomprensibile, mentre il quarto atto è caratterizzato
dall’intervento del pubblico: coloro che recitano il ruolo degli spettatori solo però collocati nello
spazio reale del luogo teatrale, accanto ai veri spettatori.
Proprio all’interno del Dadaismo nasce, però, l’esigenza di un discorso in positivo: dalle
contraddizioni con Tzara, Breton ricava il primo manifesto surrealista sotto l’influsso della
psicanalisi freudiana.
Nell’Unione Sovietica, irrompe il Futurismo e ad essere prediletta è l’attivazione degli spettatori ,
anche in opposizione agli attori, concepita come irruzione nella realtà: i circoli teatrali si formano
negli strati sociali più umili in modo da rendere potenzialmente qualsiasi luogo uno spazio scenico.
A teorizzare questa visione fu Vladimir Majakovsckij, che nella sua opera Il bagno introdusse il
teatro nel teatro: la scena viene concepita come prolungamento della platea; per essere usato come
arma critica il teatro ha bisogno di rompere la convenzione teatrale per coinvolgere direttamente il
pubblico.
Inizialmente surrealista du il geniale Antoin Artaud, la cui esistenza oscura lo condusse alla pazzia
ma che generò opere fondamentali come Il teatro e il suo doppio, e la cui visione può essere
riassunta nell’espressione teatro della crudeltà.
La visione del francese Jacques Copeau può invece essere descritta come “classicismo moderno”:
l’attore e l’autore devono essere formati a livello pedagogico in modo da donare unità di fondo alla
rappresentazione; Copeau diventa quindi mediatore tra pubblico e poeta attraverso l’attore.
Il massimo drammaturgo del Novecento fu però Luigi Pirandello, che distrusse la tradizione
europea del teatro del salotto borghese in favore di un teatro privo di illusione, dove il dramma è
quello che gli attori stessi provano e che sarà il capocomico a mettere in scena, ciò che avviene in
Sei personaggi in cerca d’autore: sei personaggi irrompono durante le prove di uno spettacolo in
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un teatro spoglio, chiedendo al capocomico di mettere in scena quel dramma che poco a poco essi
vivranno sul palcoscenico. Tutto rimane però sul palco, non invade la platea, mimando la
rivoluzione scenica.
Ciascuno a modo suo è la seconda delle opere che compongono la trilogia del teatro nel teatro: i
finti spettatori pirandelliani rimangono sul palco senza confondersi con la platea. I protagonisti
dell’opera appartengono ad un fatto di cronaca nel quale poi si riconoscono: Pirandello mostra così
la superiorità del teatro in quanto non è lui ad imitare la vita, bensì la vita ad imitare l’arte in quanto
essa è capace di intuire la dimensione profonda dell’uomo. Se gli avanguardisti intendevano unire
arte e realtà, per Pirandello è fondamentale ancorarsi al valore dell’arte in quanto tale.
Il 1925 è però una data spartiacque per Pirandello, che inizia a dirigere il Teatro d’Arte di Roma e si
avvicina al mondo della scena, innamorandosi anche della sua prima attrice Marta Abba e
superando la frattura palco/platea.
Pirandello, però, seppe scavare anche nelle profondità della psicologia e della miseri dei suoi
personaggi borghesi riprendendo la piccola drammaturgia di Giacosa, ma l’interesse di Pirandello
non è concentrato sulla borghesia del nord Italia, bensì su quella della Sicilia latifondista,
innestando uno scontro uomo-donna e una ricognizione sociologica di mestieri e lavori. Opere come
Enrico IV furono scritte da Pirandello in base al famoso attore Ruggero Ruggeri, ritratto di un
uomo solo, colto e affascinante, coniugato a due figure di donne estreme: la madre santa, archetipo
siciliano, e la baldracca, che lusinga e frustra l’uomo allo stesso tempo. Dopo l’incontro con Marta
Abba, però, Pirandello si concentra su un teatro al femminile nel quale le due figure precedenti
convergono in una donna affascinante anche a livello erotico ma in possesso di numerosissime
virtù. Comunque, ancora una volta l’esperienza autobiografica di Pirandello si rifletterà nelle sue
opere: egli si trova costretto a far internare sua moglie in manicomio, delirante riguardo ad un
interesse del marito per la loro figlia, Lietta, di tre anni più grande di Marta Abba che per Pirandello
costituisce forse una figura filiale, un amore impossibile, che in Sei personaggi lega i due
personaggi principali, il patrigno e la figliastra. L’incesto collega quindi il maggior drammaturgo
novecentesco al maggiore dell’Ottocento, Ibsen.
In Italia, oltre Pirandello, Gabriele D’Annunio cerca di distinguersi nel teatro creandone uno di
poesia ma fallisce nonostante la presenza della grande Eleonora Duse. Fa eccezione La figlia idi
Iorio, documento di una società patriarcale e riti crudeli. Fedra, invece, innova felicemente sia il
personaggio di Fedra, stuprata ma allo stesso tempo attratta da Ippolito e sia quello di Ippolito,
pieno di ammirazione per il padre e non più contrapposto.
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Capitolo XVI
Anni Venti-Cinquanta: dal teatro politico al teatro dell’Assurdo
Il Novecento vide l’arrivo di un’altra enorme rivoluzione, quella del cinema, che gettò il teatro
nell’ombra, ma paradossalmente fu proprio in questo secolo che il teatro riprese importanza
attraverso brevi fiammate di protagonismo sociale: in un’epoca in cui la lotta di classe
imperversava, il teatro divenne una potente arma politica. Mentre il cinema era un mezzo freddo, il
teatro era un mezzo caldo in quanto la presenza reale dell’attore poteva realizzare un potente
coinvolgimento da parte del pubblico. Il teatro agit-trop nacque proprio per questo motivo, al di
fuori di spazi tradizionali che non necessitavano neanche di professionismo.
Analogamente nell’Unione Sovietica, se da un lato c’era la battaglia condotta dalla milizia dall’altro
c’era la ricerca di un rinnovamento formale del linguaggio artistico, all’epoca però sottoposto alla
censura staliniana che quindi limitava la libertà dei teatranti.
Mejerchol’d, che a teatro valorizzava la corporeità, fu uno dei fautori della Rivoluzione ma non per
motivi di opportunismo, bensì per un genuino interesse sociale, che lo porterà purtroppo a morire
nelle purghe staliniane.
Lenin stanziò dei fondi per il mantenimento del Teatro dell’Arte in modo da rendere più
acculturato il proletariato, apprezzando meglio la cultura borghese e permise così a Stanislavskij di
mantenere la sua posizione. Per Mejerchol’d l’attore doveva essere in grado, attraverso scetticismo
ed ironia, di smascherare se necessario il personaggio che interpretava, al contrario di Stanislavskij
che invece concepiva l’attore come entità neutrale.
Sulla linea di Mejerchol’d continuerà il tedesco Bertolt Brecht: la Rivoluzione russa attraversò gli
orizzonti sovietici ed approdò appunto in Germania, dove nasce il teatro politico o teatro epico,
termini che rimandano alla distinzione che Aristotele fece nella Poetica tra epico e drammatico: nel
poema c’è un narratore che racconta e guida il lettore, mediando tra lui e i personaggi, mentre a
teatro i personaggi si rappresentano da soli; a questo proposito, il teatro epico presuppone una sorta
di io epico che organizzi lo spettacolo.
Al regista tedesco Erwin Piscator si deve il primo tentativo di teatro politico con Ad onta di tutto!,
un montaggio du discorsi, articoli, volantini, filmati e immagini risalenti della guerra o scene
storiche.
Brecht, però, si oppone con forza all’immedesimazione dell’attore nel personaggio, ma non si
oppone a Stanislavskij del quale non conosce il Sistema, bensì ad Aristotele: solo mantenendo un
distacco tra lui e il personaggio l’attore potrà straniare lo spettatore rispetto alla rappresentazione e
portarlo a riflettere criticamente. Attraverso questo processo lo spettatore potrà concepire la
situazione alla quale assiste come trasformabile a partire dalla lotta politica.
Le convergenze tra URSS e Germania furono dovute non solo a Mejerchol’d, ma anche alle
analoghe condizioni politiche e sociali, ecco perché Brecht sostiene che il teatro epico non può
sorgere ovunque.
La tecnica dello straniamento fu di volta in volta trasformata da Brecht per tutta la sua carriera:
uno degli espedienti era un’immagine introduttiva che preparasse lo spettatore a ciò che stava per
accadere in modo da non sorprenderlo e quindi coinvolgerlo emotivamente. Quelle immagini
ricordavano, inoltre, allo spettatore che egli si trovava a teatro, che era tutta un’illusione.
La produzione giovanile di Brecht risente ancora dell’Espressionismo, come in Tamburi della notte,
un dramma didattico pensato per il pubblico operaio berlinese; dopo l’avvento del nazismo, Brecht
è costretto all’esilio ma crea i suoi capolavori: Madre Courage e i suoi figli, Vita di Galileo e
L’anima buona del Seuzan. Durante la Guerra Fredda le opere di Brecht guadagnano fama per poi
riperderla a partire dal 68’ e quindi dalla caduta delle ideologie politiche. A perdurare è però la
lezione dello straniamento, che viene integrato al Sistema, infatti, l’attore impara ad essere
contemporaneamente dentro e fuori il personaggio.
Comunque, dai primi anni Cinquanta a diffondersi è il Teatro dell’Assurdo, che si rifà alle
Avanguardie ma è loro successivo. Questo teatro racconta del disagio che la civiltà Occidentale
prova rispetto agli eventi storici traumatici, non esplorati attraverso una valenza politica, bensì in
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relazione ai grandi temi esistenziali che l’umanità tutta condivide: la falsità dei rapporti sociali,
l’insensatezza (assurdo) del vivere, la solitudine, i valori sbagliati o assenti, il mistero della morte.
Tutto ciò viene messo in scena attraverso la destrutturazione e la messa in discussione del
linguaggio della forma teatrale. La cantatrice calva del romeno Ionesco è un’anti-commedia che si
fa parodia dei luoghi comuni della comunicazione sociale nella borghesia attraverso il delirio
verbale.
La rivelazione di Samuel Beckett è invece costituita da opere come Aspettando Godot, basato
sull’attesa di un personaggio che non arriva mai, Godot, da parte di Vladimiro ed Estragone, un
testo in cui non accade praticamente nulla: il punto non è la trama, bensì la condizione dell’attesa
intesa come lungo preludio alla morte. Come la vita, quest’opera è puro accidente.
Due dei personaggi aspettano la fine della vita, mentre altri due ne subiscono la metamorfosi.
L’atto unico risulta funzionale in questo senso, in quanto concentrazione drammatica, l’essenza
della condizione esistenziale resa anche a livello temporale e spaziale: in Finale di Partita Hamm è
immobilizzato al centro della stanza, servito da Clov, mentre i genitori di Hamm sono immersi in
due bidoni della spazzatura. Il teatro di Beckett risulta dunque una metafora dell’esistenza umana:
un’attesa della fine sempre più limitata nella possibilità di far presa sul reale. I tre vertici del teatro
beckettiano sono attesa, mutilazione, silenzio.
Il teatro risulta in questo contesto un’arma per per abbattere la società capitalistica facendo riflettere
sulle sue contraddizioni, ma esso risulta anche una dolorosa riflessione sull’assurdità della
condizione umana. Il silenzio di Beckett è in realtà la metafora della perdita della fiducia nel
pensiero, un limite della vita stessa, di quell’umanità raffinata che ha però generato l’orrore della
Shoa e della bomba atomica.
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Capitolo XVII
Secondo Novecento italiano: l’avvento (tardivo) della regia e tardi epigoni del
Grande Attore
Perché in Italia la regia tardò ad arrivare? L’Italia è portatrice della tradizione del grande attore, che
non era abituato a sottomettersi a qualcuno a lui superiore. Affinché ciò avvenisse in Italia, fu
necessario che il regista (termine nato solo con Silvio D’Amico, prima si usava il francese metteur
en scène) diventasse un uomo di teatro, il capocomico, basti pensare a Pirandello.
Il vero innovatore della scena Italiana fu quindi Silvio D’Amico, giornalista teatrale che grazie
all’appoggio fascista fondò l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica. D’amico fu il primo a
capire che per mettersi al passo con l’Europa, l’Italia doveva rinunciare alla grande tradizione del
teatro dell’attore, in favore anche di una scuola che formasse un attore disciplinato, non più solo
figlio d’arte. Luchino Visconti, regista cinematografico ma anche teatrale, eliminò il suggeritore ed
impose lunghissime prove a tavolino, e fondò anche la Compagnia dei Giovani.
Riferendosi alla trasposizione di Visconti de La Locandiera di Goldoni, D’Amico affermò che
l’opera goldoniana non può essere interpretata secondo puro realismo, dimostrando di sbagliare su
uno dei punti focali del testo drammatico: l’opera d’arte contiene in sé più significati, alcuni dei
quali occulti, e sta proprio alla critica portarli alla luce; non si ha un unico significato dato una volta
per tutte. Negli anni Sessanta la grande scoperta fu proprio quella relativa al realismo goldoniano:
La Locandiera di Visconti viene ambientata per tutto il primo atto e parte del secondo in esterni,
lasciando intendere che la dimensione pubblica invade quella privata; il cortile risulta invece
squallido, rimandando ad una società capitalistica del consumo; da una parte essenzialità, dall’altra
pulizia, indicate da ambienti spogli ma dove troviamo biancheria candida e pulita. La vicenda di
Mirandolina e dei tre pretendenti si sviluppa in modo dialettico in un rapporto con la comunità e la
storia. Quell’ordine e quella pulizia rimandano, invece, al fatto che si tratta di una locanda e ce la
protagonista è, appunto, una locandiera, che indossa un grembiule come divisa e col quale da
l’esempio ai suoi subordinati.
Il filo rosso nella storia della fondazione della regia in Italia è il realismo: Giorgio Strehler,
fondatore del Piccolo Teatro di Milano, in quest’ottica riscopre alcuni capolavori del naturalismo
dialettale ottocentesco. Ad esempio, nella sua versione della Trilogia della villeggiatura il testo
goldoniano viene prosciugato ma conserva le linee importanti; il linguaggio relativo all’aspetto
romantico delle opere accentua appunto il fattore del “vero amore”, assente in Goldoni ma portato
alla luce ed esplorato da Strehler. Risulta quindi evidente come il copione sia un punto di partenza
che l’attore rielabora andando in scena. Stando, inoltre, al codice di comportamento Settecentesco,
notiamo che l’innamorata non non perde mai il controllo nonostante la passione.
Anche Mario Missiroli diresse una sua versione della Trilogia, innovando personalmente la
scenografia ora non più realistica: il palcoscenico circolare è vuoto e inclinato verso il pubblico; la
scena romantica tra Giacinta e Guglielmo viene resa come una fotografia cruda, come se fosse un
rapporto carnale e brutale, brutalità che ritroviamo anche quando Leonardo la stringe a sé, in quanto
in nessuno dei due c’è amore per l’altro ma solo la volontà da parte di Leonardo di possedere lei.
Massimo Crasti lavorò sulla scenografia ma con meno senso di astrazione: le ambientazioni
vengono rese in senso più espressionistico, e la fondamentale sequenza fra Giacinta e Guglielmo è
qui solo origliata, già minimamente presente in Goldoni che si trovava all’inizio del processo che
sarebbe culminato con l’individuazione del salotto borghese come scena prediletta, concepito come
luogo di privacy e allo stesso tempo come luogo spiato da estranei e non solo. Inoltre, in questa
versione Leonardo è consapevole dell’amore tra Guglielmo e Giacinta, ma fa finta di non vedere in
quanto bisognoso di denaro e perciò incurante della mancanza di amore.
L’attenzione per l’aspetto sociologico e psicologico riflette l’interesse per Freud e Marx che animò
il 68’, un interesse assente, però, in Luca Ronconi, più interessato ad un ininterrotto
sperimentalismo, principalmente operato a livello spaziale-comunicativo.
La sua trasposizione dell’Orlando furioso è caratterizzata da azioni simultanee dislocate su più
palchi tra i quali il pubblico è libero di muoversi: è evidente il carattere inedito dello spazio.
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Analizziamo, invece, la sua versione non molto fortunata de Il ventaglio di Goldoni: il ventaglio di
Candida si rompe ed Evaristo, innamorato di lei, ne compra un altro chiedendo alla serva Giannina
di consegnarlo alla borghese, la quale osserva però la scena da lontano fraintendendo e dando il via
ad una serie di equivoci che si risolverà nel consueto lieto fine dove il borghese sposa la borghese e
il servo la serva. Ronconi, però, carica le scene tra Evaristo e Giannina, in quanto nella compassione
del primo per la seconda è stato individuato un carattere ambiguo.
Il ventaglio è infatti un simbolo crudo e carnale in Goldoni: il ventaglio servirebbe a raffreddare la
bramosia femminile, e Candida lo lascia cadere proprio perché non ne ha bisogno visto che il suo
corteggiatore è troppo spirituale.
Quindi, se il regista è colui che riesce a reinterpretare il testo in maniera originale, Ronconi rientra
in questa figura: il teatro della regia è la grande novità italiana del Novecento insieme all’apertura di
teatri pubblici; come negli altri paesi d’Europa, essi venivano sostenuti dal denaro pubblico, e
proprio in quanto strumento propagandistico molti dittatori lo sopportarono.
Nelle nazioni democratiche, invece, il teatro rimase fermo all’iniziativa privata, anche se sul piano
culturale iniziò a farsi strada l’idea che la cultura vada promossa finanziariamente, ponendo il teatro
come servizio pubblico, anche se forte fu sin dall’inizio il rischio di trovare spesso e volentieri alla
direzione registi sostenuti dai politici e non a livello meritocratico.
Comunque, in Italia non scompare del tutto la tradizione del grande attore neanche nel Novecento:
basti pensare a Vittorio Gassman, troppo indocile per lavorare al servizio dei registi, ma grazie alla
possanza del suo corpo e della sua voce fu ben presto risucchiato dal cinema.
Altro grande fu Eduardo De Filippo, inizialmente attore e poi anche autore che basò la sua attività
principalmente dall’improvvisazione a partire da un canovaccio. Egli ampliò la scena italiana
mostrando la vita materiale dei suoi popolani e piccolo-borghesi, che agiscono in sgraziate camere
da letto o nella dolorosa miseria di un basso, l’abitazione umile caratteristica napoletana al piano
terra che da sulla strada. Ma indimenticabili di Eduardo sono la mimica facciale che lascia trasparire
la sua umanità sofferente, non per nulla la sua drammaturgia fu sempre orientata al sentimentalismo
buonista.
Attore/autore fu anche Dario Fo, la cui vita fu da sempre strettamente legata a livello lavorativo e
privato alla figura di Franca Rame. Le sue opere sottolineano la sua adesione al partito comunista e
la sua battaglia politica resa attraverso una scrittura scenica spesso retorica. Ma straordinaria fu la
sua mimica del corpo e il suo capolavoro è Mistero buffo, un esempio di one-man show nato
durante il biennio rosso italiano.
Abbiamo poi Carmelo Bene: la sua potenza di voce era straordinaria e per questo vi sperimentò
continuamente utilizzando anche strumenti di amputazione fonica. Egli considerava fondamentale il
test poetico che ricreava come un vero autore, infatti, le sue trasposizioni shakespeariane non
vengono citate come di Shakespeare ma da Shakespeare: egli le rielabora portando alle estreme
conseguenze la pratica del grande attore ottocentesco, ecco perché è con Bene che si parla
dell’ultimo erede moderno della tradizione ottocentesca del teatro dell’attore.
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Capitolo XVIII
Sciamani e poeti della scena
In opposizione alla concezione del teatro in quanto industria e quindi prodotto disimpegnato atto
solo allo svago, si sviluppa una fazione che tenta di recuperare, invece, la funzione rituale del teatro
in quanto incontro fra attori e spettatori.
Proprio su questa tendenza si basano gli happening, nati a New York nel 1959: il termine significa
“avvenimento” e rifiuta l’idea che a teatro ogni spettatore veda la stessa cosa; non esiste più un
luogo deputato, in quanto ogni luogo può diventare teatrale, e il pubblico era qualitativamente e
quantitativamente diverso dal teatro ottocentesco. I movimenti degli artisti non sono prefissati una
volta per tutte e l’elemento verbale viene praticamente abbandonato in favore di quello visuale e
sonoro, pre-verbale. Strettissimo è il legame tra la dimensione dell’incontro e quella dello spazio: lo
spazio teatrale tende ad essere uno spazio di relazione sia per l’attore che per lo spettatore, ecco
perché diviene un’articolazione dello spettacolo che quindi deve essere sempre nuova come lo
spettacolo stesso. Il Living Theatre di New York fu fondato da Judith Malina e Julian Beck, e le
opere lì rappresentate rendevano a modello il teatro della crudeltà di Artaud. Seguendo l’onda del
68’, il Living riproponeva l’ideale pacifista e anarchico, incarnato dall’evento-scandalo Paradise
Now, un viaggio verso la “Rivoluzione Anarchica Non Violenta”: accanto all’elemento
intellettualistico ritroviamo le influenze dei culti orientali ma la vera novità sta nell’effettiva rottura
della barriera tra palco e platea e nella trasformazione dello spettacolo in un happening nel quale gli
spettatori agiscono. Quella del Living può essere definita una tribù apolide in quanto, come Brook
scrisse ne Lo spazio vuoto, si trattava di un gruppo di persone che vivevano costantemente in
contatto costruendo insieme spettacoli e anche famiglie uniti dall’intenzione comune di recitare.
Peter Brook, regista commerciale ma geniale allo stesso tempo, fu profondamente influenzato da
Artaud, infatti, alla base del teatro considera il fenomeno teatrale e lo scavo sull’arte dell’attore: egli
sceglieva attori etnicamente eterogenei distruggendo la convenzionale perfezione d’accento e, allo
stesso tempo, cercava un pubblico vergine e quindi nuovo. Si installò in un teatro parigino
abbandonato, Les Bouffes du Nord, dove indagò sempre più la centralità attorica fino ad approdare
alla sua monumentale opera Mahabharata, poema epico summa del pensiero indù e dalla durata di
nove ore. Comunque, il più solido interprete di tali innovazioni fu Jerzy Grotowski, creatore del
Teatro Laboratorio: egli ammette l’inferiorità tecnologica del teatro rispetto a cinema e televisione,
e sostiene che solo accettandosi come teatro povero, e riconoscendo quindi i suoi limiti, il teatro
potrà ritrovare la propria specificità, cioè la presenza viva dell’attore. Per Grotowski, il testo non è
assolutamente essenziale, in quanto ciò su cui lo spettacolo deve fondarsi è il rapporto con l’attore:
per permettere che ciò avvenga, è necessario abolire il palcoscenico e la divisione che ne deriva con
lo spettatore, instaurando un teatro da camera. Nel Teatro Laboratorio gli spettatori solitamente non
superano la cinquantina, questo perché la convenzione antropologica del teatro prevede che l’evento
teatrale instauri un lavoro su di sé che porti al cambiamento e alla crescita dell’attore quanto dello
spettatore, ecco la vena gnostica del teatro di Grotowski.
Il capolavoro di Grotowski è Il principe costante, adattamento dell’opera di de la Barca riscritto da
Slowacki. Il ruolo del protagonista fu assegnato al famosissimo Ryszard Cieslak: la ricerca di
Grotowski non riguardava tanto l’incontro attore/spettatore ma piuttosto l’incontro regista/attore,
infatti che con il solo Cieslak che egli provò per mesi e mesi.
Quando Grotowski smise di creare spettacoli, la sua attività non finì in quanto seguitò ad incontrare
esseri umani per indagare l’azione psicofisica attraverso esperimenti parateatrali che portarono
anche ad un lavoro su se stesso.
Grande allievo di Grotowski fu Eugenio Barba, fondatore dell’Odin Teatret ad Oslo. I suoi
spettacoli non erano basati su alcun tessuto dialogico. Il suo più grande successo fu La casa del
padre, frutto dell’incontro tra la personalità dello scrittore russo Dostoevskij e il gruppo dell’Odin,
il cui metodo consisteva in un lunghissimo periodo di improvvisazione a partire da spunti che gli
attori stessi individuavano nella vita e nelle opere dell’autore russo, spunti che potranno seguire o ai
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quali si opporranno creando una ricca partitura di azioni che in un secondo tempo il regista
seleziona, modifica e monta, senza ancora una volta ricorrere ad un testo scritto.
Successivamente Barba iniziò la pratica dei baratti, interventi dell’Odin in territori marginali che si
posero come incontri di culture: l’Odin offre i suoi spettacoli e la gente del luogo ricambia con i
propri. Barba fu infatti il creatore del manifesto del Terzo Teatro (dopo quello tradizionale e quello
delle avanguardie). Il teatro di Barba fu prepotentemente musicale in quanto giocato su contrasti tra
silenzi prolungati, accensioni subitanee e strazianti melodie che mostrano quindi una profonda
carica vitale, passionale e selvaggia simultaneamente. Fondamentale è anche l’aspetto cromatico
degli spettacoli di Barba, che si rifanno ai colori dei paesaggi del Salento, infatti le registrazioni in
bianco e nero fanno perdere ai suoi spettacoli tutto il loro valore.
Il polacco Tadeusz Kantor fu, invece, prima artista e poi teatrante: egli riporta lo spettacolo in una
cornice classica, non più di evento. Ciò che pervade i suoi spettacoli (tra cui La classe morta) è
l’ossessiva presenza del regista in scena in quanto figura indispensabile nella guida, ma tale
presenza simboleggia anche la grande rivoluzione novecentesca della regia che ha una volta per
tutte strappato il monopolio del palcoscenico all’attore.
Nell’opera Wielopole-Wierpole, il drammaturgo polacco Witikiewicz racconta del ricordo della sua
infanzia nella quale scava con tono lucido e ironico fino alla spietatezza: il privato viene allargato al
sociale e alla Storia, che si insinua con i riferimenti alla Prima guerra mondiale, senza toni
sdolcinati nel ricordo della famiglia. Il flusso memoriale che guida l’opera viene accompagnato
dalla dimensione sonora, che nasce dal silenzio ma è proprio a partire da essa che le immagini si
innalzano, concretizzando le emozioni e i ricordi profondi nati dalla musica (teatro della memoria e
della musica). I motivi musicali che caratterizzano l’opera sono quattro e ognuno di loro ha valenza
metaforica soprattutto per la dimensione bellica, resa dalla marcia militare.
Robert Wilson lavorò, invece, sulle dimensioni di tempo e spazio, dunque il teatro delle immagini.
Comunque, queste due dimensioni spesso scontate vengono in Wilson modificate, ad esempio, il
tempo viene rallentato per suscitare un certo effetto nello spettatore, accompagnato inoltre da una
musica il cui ritmo aiuti a suscitare lo stato ipnotico che lo spettatore deve raggiungere per
dissociare ciò che si vede sulla scena da ciò che si pensa: in questo modo lo spettatore partecipa
all’evento come nella tradizione dell’happening. Ma paradossalmente, è proprio questo autore a
recuperare la divisione tra palcoscenico e platea, alla cui visione frontale è funzionale l’utilizzo
delle luci come fattore pittorico. Ancora una volta secondario è invece il dialogo, nonostante Wilson
portò in scena tantissimi classici sui quali ad incidere maggiormente era sempre il fattore acustico.
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Capitolo XIX
Teatro del Novecento e teatro eurasiano
I teatri d’Asia si opposero ad una ricerca di realismo a partire dal teatro greco e da quello delle
avanguardie per realizzare un’arte opposta alla restituzione della realtà: ci si avvicina alla danza in
quanto scena dell’astrazione dalla quale emerge la potente presenza fisica dell’attore, superandone
l’interpretazione psicologica. I teatri d’Asia sono quindi caratterizzati dalla fusione tra danza, teatro
e musica, privo di una marcata codificazione ma che conserva un sostrato religioso.
In India molte erano le danze religiose: le più note furono la Bharata Natyam e la Orissi. La prima
prevedeva una tecnica per la quale i piedi tengono il ritmo, le mani raccontano la storia e il volto
esprime i sentimenti che la storia suscita, mentre il testo viene narrato da un cantante accompagnato
da musicisti accanto alla scena. La danza Orissi vede come una dei maggiori interpreti la
Panigrahi, collaboratrice di Barba; questa danza sensuale è basata su una tecnica che prevede la
divisione simmetrica verticale del corpo e il peso viene scaricato prima su una parte e poi sull’altra.
Il termine “Kathakali” vuol dire “rappresentazione di storie”; questo tipo di espressione si basa sul
canto, recitazione, mimo e danza portati avanti da esecutori maschi con l’accompagnamento di due
cantanti e due strumenti su un repertorio eroico e mitico. La rappresentazione avviene all’aperto ed
il pubblico vi può assistere già a partire dal trucco e dalla vestizione. I costumi sono simbolici e
trasformano il corpo dell’interprete, i cui movimenti di mani, piedi ed espressioni facciali sono
codificati.
A Bali le espressioni sceniche sono numerose ma in sostanza sono state codificate in tre categorie:
a) sacre, danze all’interno del cortile del tempio a favore degli dei;
b) cerimoniali, nel cortile intermedio del tempio, drammi d’amore;
c) intrattenimento, fuori dal tempio.
Molte di queste danze sono state ridotte a semplice intrattenimento turistico, ma Artaud sostiene che
la danza balinese dimostra ancora una “creazione autonoma pura” che rispecchia la sua idea di
teatro della crudeltà.
L’Opera cinese si basa invece su recitazione e canto ma non rimanda assolutamente alla nostra
concezione di melodramma, basti pensare al fatto che le compagnie erano composte di soli uomini o
di sole donne. L’Opera di Pechino rimanda invece ad una recitazione mimica con canto e
improvvisazione accompagnate da una piccola orchestra. I quattro tipi di questo teatro sono:
- sheng (personaggio maschile);
- dan (personaggio femminile);
- jing (faccia dipinta);
- chou (buffone).
La recitazione si basa su un assemblaggio di scene tradizionali con l’inserimento di gesti stilizzati e
virtuosismi acrobatici.
Il celebre dan Mei Lan Fang fu apprezzato dai più grandi uomini di teatro del Novecento, ad
esempio, Brecht sostiene che egli recitava dimostrando di essere consapevole di essere visto, senza
la paura di rompere la quarta parete ma allo stesso tempo non turba l’illusione scenica: appare
strano e sorprendente allo spettatore attraverso l’apparire estraneo in primis a se stesso.
In Giappone troviamo il Noh, forma drammatica di ascendenza sciamani i cui attori (maschi) sono
mascherati e accompagnati da un coro; essi danzano, cantano e parlano con monotonia.
Le trame sono principalmente eroiche, mitiche o storiche. La scena è costituita da uno spazio
quadrangolare che un ponte collega allo spogliatoio; quattro pilastri sorreggono una tettoia e sulla
destra è presente la veranda che ospita il coro, mentre sul fono è raffigurato un pino nodoso.
A scenografia è assente ma i costumi sono ricchi e il tavolato della pavimentazione è lucido e
sonoro. Il pubblico si colloca di fronte al palco e a sinistra di fronte al ponte.
Il Kabuki narra di eventi drammatici sia storici che amorosi attraverso cinque atti di danza e mimo,
ma suscitò più interesse del Noh per via del successo tra i ceti più umili.
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Erano presenti botole e la piattaforma era rotante ma i cambiamenti di scena e costumi avvenivano a
vista. I gesti degli attori si bloccavano in un punto significativo o virtuosistico. Questo genere
presenta molti legami con il Bunraku, lo spettacolo di marionette molto grandi di Osaka.
A differenza dell’occidentale, l’attore asiatico ha un rigido sistema metodologico al quale far
riferimento, ed inoltre giunge ad un punto cruciale: non c’è distinzione tra attore e danzatore,
sarebbe assurdo per la tradizione orientale.
Gia Barba sosteneva un’utilizzazione particolare del corpo, sapiente ma non premeditata, in modo
tale da poter captare la nostra attenzione ed attrarre i nostri sensi.
Comunque, concepire in maniera opposta il teatro occidentale e quello asiatico non è corretto, in
quanto è possibile analizzarli parallelamente secondo la prospettiva eurasiana in base ad una
reciproca contaminazione non scritta tra le due tradizioni.
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Capitolo XX
Il secolo lungo della danza
Il percorso del Novecento ha portato verso l’immagine reale, ma la regia non è stata l’unica
innovazione: il Novecento è, infatti, anche il secolo dell’attore in relazione alle scuole teatrali;
anche i grandi registi si posero in qualche modo al servizio dei loro attori, il cui corpo rimane
comunque centrale nella scena.
La valorizzazione del corpo a teatro è stata stimolata dalla danza: Isadora Duncan fu la fondatrice
della danza libera, caratterizzata da un corpo nudo che non segue alcuna regola accademica ma
ascolta solo la propria spinta interiore.
Marta Graham fu invece la fautrice della modern dance, uno stile rivoluzionario di danza e
balletto.
L’espressione Danza Moderna negli USA serve invece a descrivere generi tra loro affini e con
confini labili, ad esempio hip-hop, break-dance, danza jazz. A dare inizio a questi stili furono i neri
d’America o, più in generale, le minoranze etniche o i gruppi di protesta (ad esempio le danze di
strada che indicano un’appartenenza etnica e una protesta contro la loro esclusione). Tali tipi di
danze sono sfociate in forme teatrali popolari come il musical o il balletto televisivo, tutto coniugato
nella contemporaneità all’universo mediatico.
Il balletto moderno o contemporaneo fa invece riferimento al libero utilizzo delle tecniche
accademiche, che spesso vengono anche contaminate da altri stili.
Il Teatrodanza divenne famoso in Italia e in Europa grazie a Pina Baush. Esso nacque a partire da
una rivolta artistica giovanile relativa alle Avanguardie Storiche avverse al conformismo. Questa
tendenza era rivolta alla riscoperta del linguaggio del corpo per riprendere il mito dell’arte totale,
teatro come luogo di spettacolo e accadimento.
L’innovazione statunitense fu invece quella della post-modern dance, ripensamento globale del
medium danza, della figura del coreografo e di quella del danzatore; il luogo teatrale si configura
ora con spazi aperti o urbani, in quanto adesso è la danza il ruolo dal quale liberarsi dalle
convenzioni capitaliste e dalla relativa società. Questo concetto fece si che la danza divenisse anche
metafora di ideologie politiche e tematiche scottanti e mezzo più efficace per attirare l’attenzione
del pubblico su tali argomenti.
Negli anni 90’ a diffondersi è, invece, la danza d’autore: viene a formarsi una nuova estetica della
danza.
Il teatrodanza “povero” è caratterizzato dal fatto che il danzatore si fa mediatore di un contenuto a
lui estraneo ma lo vive personalmente, rendendolo esplicito attraverso un tipo di espressione pre-
verbale, gestuale.
Nel mondo giovanile contemporaneo la danza continua ad essere un modo di esprimere se stessi e la
propria appartenenza ad una comunità. Sempre oggi si tende ad annullare le distinzioni tra un
genere e l’altro, e inoltre la danza non appartiene più ad un élite, ma è aperta a tutti al di fuori dei
luoghi deputati stabili: è evidente il tentativo di ricucire quella divisione tra teatro e danza che ha
per secoli caratterizzato l’occidente.
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Capitolo XXI
Conclusioni sul Novecento: il secolo delle cinque rivoluzioni
1) La regia
-Padri fondatori: Stanislavskij; Mejerchol’d.
-Relazione fondamentale: non più autore-attore ma autore/regista-attore.
-Disputa tra regista e attore per contendersi il controllo dello spettacolo.
-Regista demiurgo/despota: creatore di un’opera unitaria della quale controlla tutti gli strati
senza limiti.
-Regista pedagogo: non rinuncia al controllo totale ma rimette al centro l’attore; teatro come
scuola; processo come invenzione continua a più mani che comunque il regista coordina.
-Le prove si allungano e diventano più importanti: momento di relazione regista-attore e
attore-attore; esperienza umana ed esistenziale.
-Punto d’arrivo dell’era del processo creativo.
2) L’attore nuovo e la sua formazione
-Scuole teatrali ed esercizi per gli attori in rapporto al lavoro teatrale nel suo complesso;
allenamento costante che diventa dimensione costitutiva e permanente.
-La scuola non fornisce più un sapere codificato ma risulta luogo di ricerca e sperimentazione:
laboratorio, studio, atelier.
-Prima l’attore si specializzava, ora assume una tecnica che può adoperare indipendentemente
dal personaggio.
-Attore come interprete ed esecutore del testo sul quale interviene.
-Improvvisazione: sottrazione temporanea del testo per rendere l’interpretazione più spontanea
partendo dalla dimensione fisica (Stanislavskij).
-Il lavoro su di sé diventa fondamentale.
3) La riscoperta del corpo: danza e mimo
-Riscoperta del corpo.
-La danza in quanto corpo in movimento diviene indipendente dalla musica.
-Decroux: mimo corporeo. Il teatro è nella sua essenza attore, corpo vivo in scena: c’è bisogno di
un’arte depurata che lo esalti nella sua assolutezza.
-Il mimo usa quasi esclusivamente volto e mani; si esprime per stereotipi.
-La riscoperta del corpo libera l’attore dal vincolo necessario al testo: il linguaggio verbale viene
scavalcato dal gesto capace di esprimere l’essenziale.
4) Il rifiuto del testocentrismo
-Scenocentrismo: spettacolo scritto dalla scena e dai suoi linguaggi, il testo è secondario.
-Azioni fisiche ed improvvisazione: le parole non sono vietate ma secondarie, e gli attori le
utilizzano seguendo la loro iniziativa.
-Totale automatizzazione dell’attore a partire dalle azioni fisiche.
-Fuoriuscita dal testocentrismo: attore liberato dal personaggio (Principe costante).
-Living Theatre: il personaggio diventa solo uno strumento attraverso il quale studiare ciò che si
nasconde dietro la maschera della quotidianità.
-Processo creativo ogni volta diverso ed irripetibile.
5) La rivoluzione dello spazio scenico
-Superamento del teatro e della scena all’italiana: valorizzazione della relazione attore-spettatore.
-Nuovi edifici teatrali (es. centrali o anulari).
-Abbattimento figurato della quarta parete: ristrutturazione dei vecchi edifici teatrali attraverso
l’eliminazione dell’arco di proscenio.
-Ricerca di spazi non teatrali utilizzati come luoghi teatrali non canonici (es. la strada): lo spazio
diventa un elemento della drammaturgia.
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Parte II-Analisi di spettacoli
Capitolo XXII
Giorgio Strehler, “I giganti della montagna” di Pirandello
Strehler riprende l’opera nel 1966 intervenendo in modo geniale sul finale e prendendo spunto dagli
appunti di Stefano Pirandello. L’opera inizia con la vestizione degli attori come se fosse un
cerimoniale medioevale ed un sipario steso in mezzo al palcoscenico; gli attori prendono gli oggetti
a loro necessari da una carretto. Quando gli attori si calano la maschera sembrano dei cavalieri che
abbassano la visiera. La musica da circo richiama il pubblico paesano.
Ilse sale le scale come se si stesse dirigendo verso la ghigliottina: si ferma dietro quel sipario dal
quale si intravede la sua sagoma; le pietre lanciate dai giganti la colpiscono e i suoi arti sembrano
spezzarsi e si posizione come una marionetta. I compagni la portano via in spalla come se la
stessero deponendo ed escono nella stesso modo nel quale sono entrati all’inizio: il cerchio si è
chiuso. A rimanere in scena è solo il carretto, simbolo dell’arte teatrale come faro; ma quel sipario
non è convenzionale, bensì fatto di ferro, e taglia in due il carretto come fosse una ghigliottina,
metafora del materialismo ostile che nella contemporaneità uccide l’arte.
L’esaltazione del sacrificio di Ilse rimanda alla consapevolezza del valore dell’arte da un lato, ma
dall’altro anche alla consapevolezza che è necessario sottrarsi alla volgarità della società
(rappresentata dai giganti) per poterla conseguire.
Comunque, i punti nevralgici della trasposizione di Strehler sono quelli dove le battute sono state
tagliate e al loro posto sorge la propria vena poetica.
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Capitolo XXIII
Carmelo Bene, “Amleto” da Shakespeare
L’attore si pone a tutti gli effetti come autore dello spettacolo: il pubblico non sta assistendo
all’Amleto di Shakespeare ma a quello di Carmelo Bene, ispirato anche alla versione di Laforgue,
Amleto ovvero Le conseguenze della pietà filiale.
Amleto non si configura come tormentato dall’assassinio di suo padre, bensì come attore-
capocomico che, in combutta con lo zio Claudio, intende dimostrare l’impossibilità dell’arte di farsi
strumento di riscatto e verità della sua storia, infatti Amleto viene parodizzato e reso grande attore,
che non può più rappresentare un personaggio ma agire.
Amleto si scontra quindi col suo fallimento nel tentativo di mostrare la verità attraverso l’arte in
quanto capocomico della compagnia che arriva ad Elsinore: Carmelo Bene intende osì rappresentare
la summa dei suoi stessi fallimenti.
Amleto rinuncia da una parte alla pietà filiale e dall’altra al teatro stesso, infatti, quello dell’Amleto
di Shakespeare è ridotto a stralci che Amleto fa leggere ad Orazio.
Claudio, grottesco impresario della compagnia, non si preoccupa dell’efficacia della cecità ma è
addirittura spalla di Amleto, sempre pronto a coprire i costi.
Ofelia viene invece rappresentata come un Innocente moderno: una ritardata mentale immediata
nella parola e costretta a subire violenze da parte di quello che lei crede essere il suo innamorato.
Il forte tratto metateatrale è la presenza in scena dei bauli nei quali gli attori cercando costantemente
oggetti che serviranno nella scena: alla fine gli attori cadono in quei bauli, a dimostrazione che tutto
nasce dal teatro e tutto vi ritorna. Dopo la chiusura dei bauli, arriva Fortebraccio, disumana
incarnazione del potere che infatti prende autoincoronandosi re.
Questa versione dell’Amleto si configura, quindi, come una parodia sofferta del teatro della
possibilità di coesistere in scena come artista, senza tuttavia paradizzare sul precedente di
Shakespeare.
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Capitolo XIV
Luca Ronconi, “Orlando furioso” da Ariosto/Sanguineti
L’Orlando di Ariosto narra dello scontro tra cristiani e pagani attraverso la storia d’amore tra
Orlando e Angelica, ma quello su cui Ronconi si concentra è la folla di personaggi che in realtà
caratterizzano l’opera.
Il luogo teatrale viene totalmente deostruito: esso si configura come uno spazio neutro che accoglie
indistintamente attori e spettatori e più scene possono svolgersi simultaneamente, la messa in scena
viene per questo definita una carta geografica in divenire, e il racconto non è più narrato in terza
persona al passato, infatti, gli attori adoperano la prima persona al presente.
Lo spettacolo venne allestito nella chiesa di S. Nicolò a Spoleto: nello spazio rettangolare vedono
costruiti due palchi e al centro un ring; non ci sono posti a sedere, infatti il pubblico è libero di
muoversi per tutto lo spazio.
Su uno dei due palchi si fa strada Astolfo, che inizia a narrare: inizia quindi la fuga di Angelica, resa
attraverso un’inseguimento che gli attori conducono proprio tra il pubblico, e subito dopo una
parvenza di unità, in quanto nel ring centrale Orlando si sveglia dopo aver sognato la sua amata in
pericolo, e la piattaforma si trasforma nella nave col qual egli la raggiungerà.
L’estetica naïve e metateatrale è evidente nei costumi, un misto tra fantasy e pop.
Il sipario si alza su un palcoscenico, ma questa scelta convenzionale viene subito negata in quanto
due azioni diverse iniziano simultaneamente sui due palchi opposti, costringendo gli spettatori a
scegliere una sola scena e ad intraprendere un loro viaggio attraverso le scene simultanee.
L’analisi di questo spettacolo permette un’efficace osservazione della poetica ronconiana: lo
spettatore, per via del suo essere costretto a scegliere cosa guardare, monterà secondo la sua
predilezione lo spettacolo che quindi risulterà diverso per ognuno, secondo una tecnica
antiaccademica, nonostante l’articolazione dello spazio e il copione siano fissati in maniera precisa.
Per Ronconi orni spettacolo ha un suo spazio e la sua idea di regia consiste nel sottrarre allo
spettatore lo spettacolo nella sua totalità.
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Capitolo XXVIII
Jerzy Grotowsky, “Il principe costante”
Il principe costante mostra l’idea di teatro povero di Grotowski, quello che su concentra sulla
relazione tra spettatore e attore. Si narra del principe portoghese Fernando, in lotta contro i Mori che
lo catturano e torturano fino alla morte in quanto egli non accettò di cedere un’isola, rimanendo
costante nella sua fede, ma la trasposizione grotowskiana non si ferma alla lotta tra spagnoli e mori,
ma si pone su un piano universale, la lotta tra conformismo sociale e coerenza. Il principe si
configura come metafora di un popolo oppresso ma che rimane fedele alla sua fede. In questa
trasposizione la scenografia rimanda alle segrete della polizia di uno Stato totalitario qual era la
Polonia dell’epoca, infatti, il principe venne interpretato da Cieslak, considerato da Grotowski come
l’”attore santo” per eccellenza, il cui carattere di martire è accentuato dalla nudità, che lo rende
simultaneamente adorato e torturato in quanto presentato alla corte nemica come la novità: i
cortigiani ammirano il suo comportamento e quando lo torturano quasi se lo contendono, paradosso
che culmina dopo la sua morte, quando essi iniziano ad accarezzarne il cadavere.
Questa cerimonia potrebbe essere definita sedo-masochista per via delle ambiguità che nascono dal
contrasto tra la purezza del principe e l’ipocrisia dei cortigiani.
Nel momento in cui l’attore assiste a tale messa in scena, tutto sembra riassunto nella figura
dell’attore, la cui prestazione è il culmine di un processo creativo segreto coniugato, però, alla
spiritualità indiana, induismo e yoga, ispirati da Barba.
Gli spettacoli per Grotowski non erano altro che pretesti per raggiungere una più elevata spiritualità.
Non si tratta di recitare, ma di qualcosa che è in atto, sta avvenendo: è il presente.
Lo spettacolo, dunque, è un veicolo, il cui montaggio non è quello dello spettatore, che vede ciò che
il regista ha confezionato, ma è in colui che agisce.
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Capitolo XXIX
Eugenio Barba, “Min Fars Hus”
La casa del padre è basato sulla vita di Dostoevskij, ma non solo sulla sua figura in senso stretto,
bensì con il suo incontro con gli attori dell’Odin: la vita dell’autore viene filtrata attraverso le loro
esperienza per darne una visione universale. Sui quattro lati della stanza ero disposte delle banche
sulle quali sedevano circa sessanta spettatori; al centro agivano sette attori e sopra le panche era
presente un fitto fil di lampadine che permetteva di modulare la luce per rendere un’atmosfera
febbrile, scandita inoltre dalla musica che suscitava tensione nello spettatore.
Le scene vengono evocate secondo un filo di memorie soggettive tramutate in una sequenza di
scene quasi filmiche che suggerisce un’altra realtà.
L’utilizzo del buio suggerisce la violenza che l’autore subì da bambino, mentre la presenza di due
donne sulla scena rimanda al fatto che nella vita come nelle opere di Dostoevskij erano sempre
presenti due donne. A ritornare è sempre l’alternanza tra bianco e nero, luce ed ombra, che si protrae
fino alla fine, caratterizzata da una musica chiassosa che accompagna il supplizio finale.
Min Fars Hus risulta, quindi, un’opera contemporaneamente straziante ed ironica, che fu creata a
prescindere dal testo e, inoltre, l’unica lingua parlata a che nel risultato finale è unicamente quella
delle emozioni profonde ed ineffabili.
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