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DI CLEMENTE REBORA
di Franco Fortini
1. Genesi e storia. 4
1.1. 4
1.2. 4
1.3. 6
2. Struttura. 8
2.1. 8
2.2. 10
3. Tematiche e contenuti. 12
3.1. 12
3.2. 14
4. Modelli e fonti. 24
4.1. 24
5. Valutazione critica. 26
5.1. 26
5.2. 29
5.3. 30
6. Nota bibliografica. 31
1.1. L’opera di Rebora è in primo luogo l’insieme dei suoi versi, pubblicati in rac-
colte o su periodici (e in poca parte inediti quando ancora viveva l’autore). Le
raccolte recano i titoli di Frammenti lirici (1913), Canti anonimi (1922), Curri-
culum vitae (1955), Canti dell’infermità (1956). Nel 1947 il fratello Piero curò un
volume1 che insieme ai Frammenti e ai Canti anonimi conteneva quasi tutte le
poesie e prose liriche scritte fra il 1913 e il 1947 e stampate su riviste o fino allora
inedite. L’edizione cui facciamo qui riferimento2 distingue invece fra i testi del pe-
riodo 1913-27, le cosiddette “poesie religiose” del periodo 1936-47, i Canti del-
l’infermità e le numerose “poesie sparse” scritte fra il 1930 e la morte (1957). Con
le Dieci poesie per una lucciola una appendice contiene, fra l’altro, il terzo e quar-
to dei Movimenti di Poesia, testi, questi ultimi, molto rilevanti che tuttavia Rebo-
ra aveva rifiutati dopo la conversione e il passaggio allo stato sacerdotale.
Le prose e gli scritti saggistici – fra i quali l’importante studio Per un Leopar-
di mal noto3, che è del 1910 e le esposizioni su Antonio Rosmini (1951-52)4 – non
sono a tutt’oggi raccolti in volume. L’epistolario è di molto alta qualità intellet-
tuale, può in più luoghi considerarsi integrazione e commento dell’opera lirica e
non sembra avere ricevuto sino ad oggi tutta l’attenzione che merita5. Altrettanto
rilevanti sono le versioni6, soprattutto quella del Cappotto di Gogol’, con note e
annotazioni del traduttore.
1.2. Nato a Milano il 6 gennaio 1885, Rebora aveva ricevuto nella famiglia, che era
di agiata borghesia, una formazione intellettuale ispirata in pari misura al gusto
materno per la poesia e la musica e alla razionalistica severità civica, massonica e
patriottica del padre, dirigente di una grande impresa di trasporti, mazziniano
1 C.
REBORA, Le poesie (1913-1947), a cura di P. Rebora, Firenze 1947.
2 ID.,
Le poesie (1913-1957), a cura G. Mussini V. Scheiwiler, Milano 1988. Tutte le citazioni presenti nel testo so-
no tratte da questa edizione. L’indicazione in numeri romani di ogni “frammento” (abbreviato in fr.) è seguita dal nu-
mero dei versi citati. Non sono state mantenute le maiuscole nelle lettere iniziali di verso.
3 ID., Per un Leopardi mal noto, in «Rivista d’Italia», XIII (1910), pp. 373-449; ripubblicato in AA.VV., Omaggio a
Clemente Rebora, Bologna 1971, quindi come volumetto autonomo, a cura e con introduzione di E. Barile, Milano
1992.
4
ID., Sguardo alla vita interiore di Antonio Rosmini, in «Charitas», bollettino rosminiano, Stresa, sedici contributi
nelle annate 1951 e 1952.
5 Per i rimandi stilistici tra l’Epistolario e i Frammenti cfr. U. CARPI, La «Voce». Letteratura e primato degli intel-
NIMO, Gianardana, Milano 1922; N. GOGOL’, Il cappotto, Milano 1922. Va qui data notizia della nuova edizione di
A. BLOK, I dodici, a cura di V. Scheiwiller, Milano 1986, pubblicato senza nome di traduttore col titolo Canti bolsce-
vichi, Milano s. d. [ma 1920]. Scheiwiller, in una sua nota introduttiva, discute l’ipotesi che la versione possa essere
opera di Rebora o almeno compiuta con la sua collaborazione.
7 C. REBORA, Lettera ad Angelo Monteverdi del 28 settembre 1910, in ID., Lettere, I. 1893-1930, a cura di M.
quelle scritture una parte minore è in Canti anonimi, una maggiore è in quelle che
gli editori hanno chiamate Poesie sparse e prose liriche. L’esperienza traumatica
della battaglia e il successivo passaggio per gli ospedali psichiatrici lo segnarono a
lungo. Agli amici di giovinezza che si erano a poco a poco allontanati da lui, egli
appariva ormai come una mente vacillante e un velleitario9.
Fino alla conversione, sul finire del 1929, fu traduttore, curatore di testi di
spiritualità, insegnante e conferenziere poi novizio al Collegio Rosmini di Stresa;
e, dal 1936, sacerdote. Solo nel dopoguerra riprese a scrivere versi, poi disposti
nelle ultime raccolte. Queste, sebbene rivelino, sotto le pie formule della tra-
dizione mistica, una certa continuità stilistica con quelle del periodo 1913-22, so-
no talvolta di dura energia formale e di una sprezzante decisione di taglio; e, nel
Curriculum vitae, introduce una dimensione narrativa quasi del tutto assente dal-
la poesia della giovinezza.
1.3. Lo scritto presente considera soprattutto il libro dei Frammenti lirici (« forse
il libro più difficile di tutto il nostro Novecento»)10 come quello che si vuole, ap-
punto, un libro compiuto. Ma si deve anticipare qui che la poesia successiva, del
periodo 1913-22, proprio sviluppando le forze centrifughe solo implicite nella
raccolta del 1953 e quindi rinunziando a strutturarsi come i Frammenti, perviene
a esiti che in assoluto sono i suoi maggiori. In questo senso gli scritti posteriori si
fanno interpreti, come spesso accade, degli anteriori. Poesie come Al tempo che la
vita era inesplosa, Sacchi a terra per gli occhi, Gira la tròttola viva, Dall’imagine te-
sa (nei Canti anonimi), i quattro Movimenti di poesia, Notte a bandoliera, Fantasia
di carnevale, Voce di vedetta morta, Scampanio con gli angioli, Stralcio, Arche di
noè sul sangue, Viatico, Vanno, Serenata del rospo, Ca’ delle sorgenti (nelle Poesie
sparse e prose liriche) destinano a Rebora un luogo nella lirica italiana moderna
anche più alto di quello cui lo pongono i Frammenti del 1913, ancora “inesplosi”.
Le prime prove di Rebora sono probabilmente da situare intorno al 1905, sui
suoi vent’anni. Ne parla in una lettera del 1909: «[...] mi sono convinto che le mie
poesie non raggiungeranno forse mai l’arte»11. Sono di quell’anno (mentre conti-
nua lo studio della musica), e in coincidenza con la stesura della tesi di laurea,
l’incontro con Giovanni Boine e il primo contatto epistolare con Prezzolini e «La
Voce». Alla data del 16 novembre 1911, scrive a Dania Malaguzzi e già intravvede
9 ID., Lettera ad Angelo Monteverdi del 15 settembre 1921, ibid., p. 418: «[...] perché gli amici della giovinezza
88-104).
11 C. REBORA, Lettera a Daria Malaguzzi del 29 maggio 1909, in ID., Lettere cit., p. 45.
sette o otto e chiamò «organettate» le rimanenti. Rebora lavorò ancora sui versi, li
accrebbe. Inviava a Monteverdi, per consiglio, versioni non definitive della com-
plessa allegoria Dal grosso e scaltro rinunciar superbo, proponeva diversi titoli (gli
sarebbe piaciuto I guinzagli del Veltro), Sicuro ormai di venir pubblicato presso la
fiorentina Libreria della Voce, continuò fino all’ultimo a correggere e mutare. I
versi, nuovi e vecchi, scrive il 17 di aprile, sono «ritormentati»19. Il 18 di maggio è
da Daria Malaguzzi a leggere sulle prime bozze «i nuovi frammenti e le nuove tra-
mutazioni»20. Nella seconda metà del giugno 1913 si succedono lettere e appelli.
E quando Rebora, il 1° di luglio, riceve le prime copie, scrive a Prezzolini che for-
se sarebbe stata necessaria una ulteriore prova di stampa.
2. Struttura.
2.1. I Frammenti lirici sono una serie ininterrotta di settantadue poesie, numerate
con numeri romani (ma si veda la sezione 6). Dei 2327 versi, i settenari e gli ende-
casillabi – ossia i moduli metrici di massima frequenza nella tradizione italiana–
sono 1418 (60,93 per cento21. Il 31,58 per cento è di ottonari, novenari e decasil-
labi ossia di versi che per numero di sillabe sono fra il settenario e l’endecasillabo.
Solo il 7,47 per cento ossia 147 eccedono queste misure, con quadrisillabi, quina-
ri, senari, dodecasillabi, versi di dodici posizioni, doppi settenari.
Le composizioni si dividono in due modelli metrici: quelle riferibili alla tradi-
zione, con forme strofiche regolari, che diremo “chiuse” e quelle invece “aperte”,
dove i versi si succedono, tanto per la loro misura metrica quanto per le sequenze
strofiche, senza riferimento ad uno schema fisso ma solo alludendo a taluni mo-
menti della tradizione lirica, come i canti leopardiani, soprattutto i più tardi.
Nel primo modello rientrano venti frammenti: il IV, VII, IX, XVI, XVIII,
XIX, XX, XXII, XXVI, XXX, XXXII, XXXVII, XXXVIII, XL, XLI, XLIII,
XLIV, XLVIII, LIV, LVII. Di questi, otto sono in quartine di endecasillabi, cin-
que in quartine di endecasillabi e settenari, tre sono sonetti, uno (il fr. LVII) è un
madrigale, tre (XLI, XLVIII, LIX) sono rispettivamente in strofe di ottonari e
quadrisillabi, settenari e un decasillabo, endecasillabi e settenari (e un ottonario al
v. 3). Nel secondo modello gli altri cinquantadue frammenti.
pp. 11-35. A questo studio si debbono anche buona parte delle considerazioni metriche che qui seguono.
2.2. Bandini ha visto con sicurezza il nucleo della poesia reboriana nelle similitu-
dini che in un medesimo sintagma stringono insieme l’astratto e il concreto. Tale
tendenza ad elidere la mediazione vuole significare la passione di modellare il ra-
gionamento (e quel che si suol chiamare il “pensiero”) nell’ardore e furore o vee-
menza dell’eloquio; procedimento dei mistici e dei profeti. In Rebora (seguiamo
ancora l’interpretazione di Bandini) c’è una nettissima prevalenza del verbo. Ver-
bi intransitivi si trasformano in transitivi-causali (del tipo «piomba il fulmine e
scorrazza | [...] | campi e ville», fr. III, vv. 5-7 oppure «ma ragionarono il mondo»,
fr. XVII, v. 51); i transitivi-riflessivi si mutano in intransitivi assoluti («Il pensiero
che [...] | divincola muto», in Fantasia di carnevale, fr. XI, vv. 15-17); frequenti i
parasintetici («infognare», «invilire», «impastare»). Indice della violenza repressa
e del suo ingorgo è la frequenza dei verbi esprimenti frattura e dissoluzione, che
iniziano con prefissi che dicono deformazione e violenza e si inanellano in serie
(del tipo «scoppia», «scaglia», «scorrazza», «scardina», nel fr. III; «sguazza»,
«spezza», «schizza», «strizza», nel fr. XLIX). I verbi si succedono per asindeto,
non di rado l’infinito è in funzione di sostantivo, talvolta il participio si fa aggetti-
vo (ad esempio: «Nell’avvampato sfasciume», fr. XXXVI, v. 1).
Il lessico ha una escursione amplissima che va dagli arcaismi («gli sprezzanti ar-
caismi» di cui parla Bandini) ai dialettismi, da reperti della tradizione letteraria a
tecnicismi del nostro secolo. Dante è l’autore che più contribuisce a quella inat-
tualità che Rebora perseguiva coscientemente; i dantismi sono così frequenti non
solo per quanto è del lessico ma anche per la connessione fra sintassi e metro, so-
prattutto nelle forme “chiuse”. Non si dovrebbe tuttavia dimenticare che tali dan-
tismi immediatamente visibili possono nascondere alla vista il processo di trasfor-
mazione (nella accezione chimica) che Rebora fa compiere a taluni versi o passi
danteschi28, a cominciare, per esempio, dalla struttura del frammento LXX, che è
quella di una ascesa e di una ascesi29. Non meno importante è D’Annunzio30.
L’antidannunzianesimo etico di Rebora procede spesso assumendo elementi lessi-
cali, cadenze, tonalità ma invertendone radicalmente la direzione. Un esempio di
questo eclettismo ancora acerbo e in una tonalità che certo echeggia il D’Annun-
zio del Poema paradisiaco per la fluidità delle quartine indotta da una sovrabbon-
danza di enjambements è nei versi del frammento LIV (su trentasei versi ben tre-
dici scavalcano, di cui tre da una ad altra quartina: «Stai con chi ha luce; e il nulla
all’abbrunito || passeggier scavi d’intorno. Io non penso», vv. 4-5; «È un inganno
di voi che giù nel senso || ho confitto, o annidate trecce fonde», vv. 8-9; «Quando
voi m’appariste, e lisce e tonde | le guance sotto arrisero, non gli occhi», vv. 12-
13). L’evocazione, nella notte che cela gli amanti, dell’amore mancato per ritegno
– tema dominante in Rebora e chiaramente autobiografico, come conferma l’epi-
stolario – si accompagna a ovvi dantismi, che riportano al gusto preraffaellita e
anche a quello che della pittura nabis giunge a certo Munch:
A salutarvi, fanciulla, movea
parole il labbro tutte a scarabocchi
e la persona né ritta né china
non ritrovava il consueto aspetto:
feci come chi avanzi il passo stretto
se dietro senta alcun che s’avvicina.
Perché si figurò l’anima miti
confidenze nel tempo che verrebbe
[...]? (vv. 15-22).
(dove si noti il tipico tratto reboriano del contrasto crudo fra l’arcaismo, dantesco
28 Cfr. G. ORELLI, Dante in Rebora (appunti), in Clemente Rebora, a cura di A. Ermentini e G. Oldani, Brescia
1985, pp. 26-29. Si veda, per un esempio illuminante, G. MAGRINI, La trottola di Rebora, in «Paragone. Letteratu-
ra», nuova serie, XXXIX (1988), pp. 28-39.
29 Cfr. G. MUSSINI, Dannunzianesimo e antidannunzianesimo in Clemente Rebora (da un’indagine sulle fonti), in
AA.VV., Studi di letteratura italiana offerti a Dante Isella, Napoli 1983, pp. 473-94, che parla di « andamento “a com-
media”» (p. 493) per tutti i Frammenti lirici.
30 Ibid.
3. Tematiche e contenuti.
33 La formula è in S. RAMAT, Storia della poesia italiana del Novecento cit., pp. 93 sgg. Una esauriente rassegna del-
le tematiche dei Frammenti è in U. CARPI, La «Voce». Letteratura e primato degli intellettuali cit., pp. 201-43, in par-
ticolare alle pp. 228-43.
34 G. MUSSINI, Clemente Rebora e Carlo Michelstaedter, rapporti interpretativi, in AA.VV., In ricordo di Cesare An-
gelini. Studi di letteratura e filologia, a cura di F. Alessio e A. Stella, Milano 1979, pp. 320-42.
35 In un utile volume di P. BÉNICHOU, Le temps des prophètes. Doctrines de l’âge romantique, Paris 1977, i capp.
IX-XIV, e in particolare quelli dedicati a Edgar Quinet e a Jules Michelet, introducono a punti di riferimento impor-
tanti per l’umanitarismo di Rebora e l’idea di natura santificata.
La conclusione del frammento I va letta insieme a quella del LXXII, vv. 19-
22, l’ultimo del libro:
[...] Tu, lettor, nel breve suono
che fa chicco dell’immenso,
odi il senso del tuo mondo:
e consentire ti giovi
dove non c’è solo analogia di apostrofe al lettore e orgoglioso annunzio di valore
del «breve suono» e dell’«accordo solitario». L’imperativo ha valore conclusivo,
quasi dicesse: “e dunque”.
Il frammento II pare appena continuare la dichiarazione programmatica del
frammento I, concludendosi con una memorabile gnome, v. 65: «nelle faccende è
l’idea». E già col frammento III si legge una delle vittorie poetiche dei Frammen-
ti nella personificazione di eventi meteorologici che in questo poeta si estendono
ad occupare, orizzontali o verticali o trasversali, uno spazio amplissimo: l’assalto
del vento, nuda violenza esplosiva e vitale in figura di cavaliere armato e al galop-
po sulle pianure, quando penetra la città si interiorizza, la sfrenatezza positiva de-
cade e subdolamente la città distrugge il coraggio umano.
Col frammento V il contrasto città/campagna genera, nella città, la forma-
zione di un «tempo» nuovo (vv. 20-21: «Sortilegio del tempo […] o città») e l’in-
tento di avviare sul ritmo del battito dei torrenti montani «il grido delle macchine
e dei lucri» (v. 58); e nel successivo frammento VI la città è sentita come orrore di
decadenza eppure capace di generare una «certezza ineluttabile del vero», ordi-
trice di un «panno | che saldamente nel tessuto è storia e nel disegno eternamente
è Dio» (vv. 26-29; non senza un ricordo, si può supporre, della prima scena del
Faust). Anche in una prima parte del frammento VIII la città negativa cambia di
segno e quel che «pare/cosa» è invece «spirito e cielo» («l’idea si annida agli svol-
ti», vv. 15-16 e 20). Qui tuttavia un terzo e ultimo movimento ricompare, di nega-
tività e passività, introdotto ancora dal «ma» oppositivo: e, nonché torrente, la vi-
ta cittadina porge similitudine a una corrente che contro una chiusa «rifiuti e ba-
va aduna» (v. 34); immagine, questa, che riapparirà, sul finire della guerra, nella
splendida lirica Vanno, datata 1918.
Mentre il frammento X è un esempio di mediocre verbosa polemica contro le
ideologie dominanti (umanitarismo socialista e razionalismo)36, l’XI (O carro vuo-
to) è meritamente famoso. La critica vi legge una «opposizione tra volontà e fede,
ciecamente operose (la terra) e istanza di eternità e amore (il cielo)»37. O anche vi
legge come, nella prima parte, un “particolare” preceda un commento in termini
astratti, “universali”, determinando una «enfatizzazione dell’ethos» e «l’esigenza
di un messaggio» che si fa «proposta di un sacrificio stoico»38.
Al frammento XII, idillico e familiare, segue, col XIII una sorta di esperi-
mento canoro, in “positivo”, quasi un breve inno alla verità, alla ingenuità e alla
amicizia. Con il frammento XIV torna ancora una volta la ripugnante città in-
dustriale («scivola il vortice umano, | vibra chiuso il lavoro»; vv. 14-15) verso un
superamento paradossale, impreciso e sonante, un po’ come in certe sculture di
Rodin o musiche di Mahler:
ma voi, rapimento e saggezza
in apollinea gioia
in sublime quïete
[...]
un’immortale bellezza
uscirà dalla nostra rovina. (vv. 21-23, 31-32).
Preceduto dall’appena interessante sonetto alla musica (fr. XVI), il fram-
mento XVII, che nella edizione del 1947 recava il titolo di Sole, ha per tema la gi-
ta di un gruppo giovanile in una giornata estiva. Dice l’esaltazione erotica del pae-
saggio e delle presenze umane che vivono quasi al confine di una rivelazione («e
passar da ogni varco»; v. 46), che è certo una delle più impressionanti figurazioni
lo del focolare la voce poetante promette venturo fuoco e calore (fr. XLVIII).
Una poetica «di sterco e di fiori» (fr. XLIX, v. 31) esaltata di contraddizioni,
fa della poesia, del suo verso «lucido», «livido», «inviolabile» (vv. I, 6, 11), un
controcanto delle stagioni, la negazione del male ma anche la sua dichiarazione
(«terror della vita, presenza di Dio»; v. 32); e la formula finale, esclamativa (la
poesia è «cittadina del mondo catenata!»; v. 34) restituisce un’altra definizione di
sé, cara a Rebora, quella della libertà nella prigionia. Con il lungo frammento L,
uno dei più apertamente autobiografici (di scarso rilievo poetico ma rivelatore di
una contorta “retorica del sé” che accompagna, suo malgrado, il poeta), la situa-
zione è della imminenza dei ritorno dal paesaggio lacustre, ben presto notturno,
alla città «dove non è concesso titubare» (v. 27) e si evocano gli affetti domestici a
soccorso dell’angoscia della impotenza e della negatività, fino a supporre che la
generazione dei padri abbia prodigato nelle lotte risorgimentali anche le energie
dei figli («Forse d’Italia negl’impeti immensi | il sangue prodigaste anche di noi |
e balenò in sacri àttimi vasti | la vita di cent’anni, o padri eroi?»; vv. 58-61), dove
per un attimo l’autore sembra intravvedere l’immagine di un padre, il suo pro-
prio, divoratore del figlio; che potrebbe anche essere quello che egli chiama «l’or-
co che ci sbrana» e che si vorrebbe «uccidere» (v. 87). Dal furore per l’efferatezza
degli uomini («Se la ferocia ha modo | d’inferocire, | l’inganno d’ingannare, | il fal-
lir di fallire» vv. 69-72) e dalle domande senza risposta dello «smanioso pensiero
(v. 91), con un rovesciamento non infrequente nei Frammenti, viene una sorta di
trasfigurazione positiva («meravigliosi doni: | esistere e pensare, | cinger di sé l’i-
gnoto | universo e amare»; vv. 102-5), accompagnata dal richiamo, sempre positi-
vo, alla madre («evanescenze materne»; v. 117).
Analoga esperienza esistenziale di sottrazione della realtà è dichiarata nel
frammento LI, costruito secondo uno schema consueto: raffigurazione del moto
con insistiti verbi di azione («sibila», «scivola», «si riversa», «corrono», «svoltan»,
«s’orientano», «spia», «si trae», «s’amplia») nei primi dodici versi, cui segue nei
successivi undici in forma esclamativa e assertiva la dichiarazione di uno stato di
spossessamento:
Quel che vicino mi sta
ravvolto in sé non m’incita:
spettro è nel mezzo
l’inesplicabil momento;
quel che da lungi m’invita,
va sempre più in là:
e nulla è mio al passaggio. (vv. 17-23).
d’uomini e di donne | che nel lavoro preparan le voglie») quando più grave è la
solitudine («ma il dolore non basta | e l’amore non viene»). Di ben altro rilievo i
frammenti LVII e LVIII, l’uno e l’altro riconducibili alla struttura prosodica del
madrigale, non senza echi del Tasso, del Campanella e anche dell’ultimo Leopar-
di. La sapiente incertezza del lirismo tassiano è nella formula del penultimo verso
del frammento LVII («Cader così vorrei dietro il mio cuore»), dove «dietro» può
anche valere ‘perseguendo i miei desideri, che mi precedono’. Più severo il LXIII,
con la nitida parabola della «storia del mondo» (fr. LVIII, v. 9); e il mare ne aveva
proposto già una immagine allegorica, nel frammento LVIII, senza più distinzio-
ne fra storia umana e natura, con l’acuto senso, e anche prezioso, di sostanze mi-
nerali (come il «bitume» del fr. LII) quali l’«amianto», il «tufo», e dei colori
(l’«ebano») e la natura antropomorfa («vertebre e fauci»; vv. 1, 7 e 6).
Il frammento LIX è un esempio di certa ricorrente facilità patetica che si ri-
trova anche nell’idillico LX, di campagna lacustre. E se il LXI pare un esperi-
mento di manierismo classicistico («leggiadro e saldo», «agli occhi miei bramosi»,
«lo spirito fulgido», «roridi sguardi», «divina allegrezza»; vv. 1, 6, 9, 24, 30), il
frammento LXII già appartiene come tematica e struttura al gruppo degli ultimi
dieci e maggiori. Il «lavoro di Dio», «invisibile amore» (vv. 25 e 22), modella tut-
ta la realtà. È già presente la certezza unitaria del mondo come spirito-materia
nella immagine dello spazio «poroso e assetato» che «dissipa come riceve» (vv. 1
e 4) l’affannarsi degli uomini incapaci di superare il proprio io. Alla metà della
lunga strofe (vv. 14-20) si apre una serie di vocativi («Stella... notte.., goccia... ru-
pe... pianta... forza.., rozza») a cose e animali perché dicano «l’arcana maniera |
dell’invisibile amore» (vv. 21-22).
La lunga composizione LXIII ha uno svolgimento complesso per l’intento di
legare tre temi che altrove il poeta ha percorso separatamente: il paesaggio pacifi-
cante e ristoratore, con l’appello ad un «divin senso» (v. 35) che compensa delle
frustrazioni, l’evocazione della famiglia e degli amici e finalmente, nonostante la
condizione di dispogliato («Io non ho numi né glorie, | io non ho donne né bim-
bi, | io non ho lucri né mete, | ma un vasto cuore intero»; vv. 55-58), un altro «ma»
avversativo introduce l’ultimo terzo della composizione con l’esaltazione dei
«combattenti dell’usato giorno» che sono «poeti» e «sapienti» essi soli, «ignoti
eroi» (vv. 66, 70, 71, 74). Il paesaggio iniziale torna nella chiusa: un «indicibile
fervore» «dai tronchi ai rami ascende» (vv. 77 e 79), l’inerzia della terra e dell’ani-
ma vince se stessa.
Il tema della salita percorre, d’altronde, la maggior parte delle composizioni
conclusive dei Frammenti. È anche quello del successivo madrigale, il frammento
41
«Ingigantita beatitudine solcata da strisce di terrore. La mia carne è la mia anima; e riconosco ora crudele e gioio-
so nella mia sensualità l’onnipresente spirito che nutrii di tutto il mio sangue che fuma luccica fluttua vermiglio, con
cattiveria e bontà vividissime come questo ampliarsi luminoso intorno sereno e folle per la città; e che io vi intensifico
nell’offerta delle mie parole»: C. REBORA, Lettera a Sibilla Aleramo del 18 luglio 1914, in ID., Lettere cit., pp. 225-
26 (ma anche, al limite dell’equivoco, la successiva, del 25 luglio 1914, ibid., pp. 227-28). E cfr. la lettera a Giuseppe
Prezzolini del 15 gennaio 1914, ibid., p. 206: «Adoratore del “senso” e della “perversità”, li conosco senza averli mai
praticati: e n’ho, spesso, veemente e rovinosa potenza». I Frammenti, a questa data, sono già editi; e tuttavia ci sembra
che questa componente corra anche lungo i loro versi.
42 F. BANDINI, Elementi di espressionismo linguistico in Rebora cit., pp. 26-28.
le sue simmetrie sapientemente calcolate. Elaborata a lungo, anche per la sua col-
locazione strategica, ha come proprio limite quello di una forse eccessiva esem-
plarità, come di un testo che si vuole perfetto e memorabile, frutto più di volontà
che di libertà immaginativa. Si pone come un riassunto di un itinerario del mon-
do fisico, allegorico di quello morale, racchiuso nell’elementare rapporto fra
“basso” e “alto”. Ogni momento del percorso corrisponde ad una fase di svilup-
po del modo di essere e di produrre ma la forma della realtà spirituale moderna è
raffigurata nel moto, dalla sequenza delle preposizioni articolate. Moto ascensio-
nale ma non verticale, roteante invece e obliquo. Dinamismo che è delle arti figu-
rative di quel primo ventennio del secolo, in particolare nel nesso fra art nouveau,
espressionismo e futurismo; si ricordi il movimento ascensionale-trasversale in
Carrà, Boccioni, Russolo, Sant’Elia. La conclusione è eroicista, il gelo costringe la
vetta, ridotta alla sua natura minerale e astratta, dove il “bene” è nella sofferenza
e nella ascesi. Il gesto oratorio procede per quarantacinque versi prima che com-
paia il soggetto del lunghissimo periodo, che si conclude con tre versi monorimi
(in vetta : vedetta : costretta); tanto più lungo in quanto folto di figure e di antite-
si. L’inizio è «delle schiave pianure» (v. 2), poi si passa (v. 10) alle «ignare colline»
e alle «avide giogaie» prealpine (v. 18), per venire alle «tragiche catene» delle
montagne più alte e nude (v. 26). Tutto il paesaggio è antropomorfo, le pianure
«sfogano» (v. 4), le colline si sforzano, le giogaie invocano, le catene «guatano ad-
dentano | serran[o]» (vv. 31-32), hanno «braccia e torsi» e finalmente la vetta è un
corpo gigantesco e un’anima (figurazione di martirio, anche prometeico, e traspo-
sto autoritratto del poeta), verso cui muove «ogni cosa» e che essa «aspetta» (v.
60) per redimere e adempiere.
L’altezza che era «vietata» alla pianura e «fiutata» dalle colline (vv. 3 e 11) è
«sperata» (v. 19) da sistemi montuosi, «giogaie», risonanti dei muggiti delle stalle
e «avide» di una ascesa ulteriore, che invocano dalla propria vetta più alta (il «più
fier dei loro monti»; v. 20), attraverso le anime semplici («cuori rudi»; v. 21), i bo-
schi, i pascoli intatti («salvi»; ibid.) nelle conche dei poggi che si aprono sotto
quelle zone di pietre rovinate (le «pietraie»; v. 22), che segnano spesso il confine
fra l’alta montagna, dove ancora ci sono tracce di lavoro umano e di piante o ar-
busti, e quella di nuda roccia. I laghi e le fontane sono appassionatamente con-
senzienti («fra consensi [...] ansiosi»; vv. 23-24) a quelle invocazioni, come riper-
cosse di valle in valle.
L’ultimo grado della ascesa, che si conclude nella «vetta» (v. 61), è quello del-
le «catene» (vv. 62 e 26) o serie di montagne nude e perciò «tragiche» (v. 26) (ma
l’aggettivo induce anche il senso non metaforico di «catene»), che ormai appaio-
4. Modelli e fonti.
4.1. La scelta originaria è per una versificazione alta e “tragica” che abbia come
tema la situazione umana nel tempo e nella società. I modelli sono perciò quelli
della poesia di pensiero piuttosto che di sentimenti, cui è estraneo il momento
dell’ironia, dello scherzo e dell’idillio se separato dalla presenza del destino e del-
43 Tipico esempio quello del penultimo frammento, il LXXI, dove ai primi quattro versi ottonari seguono due set-
tenari poi due ottonari per proseguire con una sequenza di sedici settenari; alternanza che continua sino alla inserzio-
ne di endecasillabi.
44 Cfr.
G. MAGRINI, La trottola di Rebora cit.
45 Poeti italiani del Novecento (1978), a cura di P. V. Mengaldo, Milano 19812, p. 251.
46 Cfr. G. MUSSINI, Dannunzianesimo e antidannunzianesimo in Clemente Rebora cit.
47 Cfr. G. BÁRBERI SQUAROTTI, Tre note su Clemente Rebora (1957), in ID., Astrazione e realtà, Milano 1960,
pp. 195-219.
5. Valutazione critica.
5.1. L’intento poematico di Rebora, per opporsi alla disgregazione della integrità
personale guarda a un passato anteriore al decadentismo; a modelli del maggiore
romanticismo europeo, soprattutto a quelli relativi alle cosmologie spiritualisti-
che, umanitarie e profetiche del primo trentennio del XIX secolo. Bergson, che
gli è ben presente (ricordiamo che Materia e memoria è del 1896 e L’evoluzione
creatrice del 1907) si situa, è certo, contro la tradizione positivistica, cara al padre
di Rebora, ma nient’affatto contro il pensiero del vitalismo e naturalismo roman-
tici. D’altronde, la descrizione della tematica dei Frammenti, quand’anche si ac-
compagni all’analisi delle modalità linguistiche e metriche, è insufficiente a ren-
dere conto del loro senso complessivo. E neppure sembra decisivo che tale senso
sia preveduto dalla organizzazione intenzionale, dall’ordine di successione delle
settantadue liriche e dalle dichiarazioni di poetica. Anzi, queste ultime, con loro
esplicito richiamo ad un “appello” o “missione”, e con le loro esortazioni ideolo-
giche, è quasi fatale che ostacolino la vista della meta poetica di Rebora, non di-
versamente da chi, leggendo l’Inferno, finisse con identificare il senso del poema
negli enunciati del personaggio itinerante.
L’intenzione immediatamente leggibile dell’opera è di mostrare un poema ar-
ticolato in un sistema di ritorni e di echi tematici, dotato di una direzione do-
minante, chiara però solo nell’ultima parte: la proposizione di una “sapienza” co-
smica. Per dirla in breve con un titolo di Arturo Onofri, Zolla ritorna cosmo e l’u-
48 Si rilevino in C. REBORA, Lettera ad Antonio Banfi del 16 aprile 1923, in ID., Lettere cit., p. 452, alcuni dei no-
mi di autori di cui Rebora vorrebbe antologizzare pagine per una sua iniziativa editoriale (I Libretti di vita), autori e li-
bri che certo riflettono letture in gran parte compiute in età universitaria: oltre a Maimonide, Boehme, Vico, Bruno,
Cardano e Swedenborg, ci sono Guyau, Nietzsche, Emerson, Whitman, Michelet, Eliphas Levi.
mano soggetto terrestre tende ad identificarsi con l’universo naturale e col suo au-
toricrearsi. Tale è la finalità etico-religiosa del “messaggio” reboriano.
Ma non meno evidente è l’intenzione – attestata, come abbiamo già detto,
dalla corrispondenza di Rebora – di riprodurre all’interno di molte composizioni
il disegno e proposito esemplare complessivo, rispecchiandolo fino alle cellule
delle metafore e a quelle, sonore, delle omofonie e dei ritmi. Le torsioni espressi-
vistiche mimano la contorsione dello spirito e dei corpi verso il proprio oltrepas-
samento.
L’esempio dantesco è qui, ancora una volta, manifesto nella contraddizione
fra itinerario psichico, organizzato dal poeta con la sua sequenza, e sistema di
bruschi ostacoli e dislivelli che impegnano il lettore e lo aggrediscono nel corso
della lettura. L’intenzione di fornire una sorta di “libro d’ore” o di “itinerario del-
l’anima” o “romanzo” (mai venuta meno in età romantica e simbolista e poi di
molta letteratura del decadentismo) qui però fallisce perché priva di un rico-
noscibile o afferrabile schema o decorso narrativo-temporale. Se si eccettuano (in
parte) gli ultimi dieci “frammenti”, gli altri si sviluppano ognuno per proprio con-
to. «Mentre rotolo dentro»: questa clausola (fr. LVI, v. 18), che dice rovello inte-
riore e anche violenza di implosione, di cedimento, pare metafora del raggrumar-
si di ogni singolo “frammento” in coaguli, quasi in emboli, nonostante, anzi con-
tro, lo sviluppo apparentemente fluido delle sequenze.
Quello che convenzionalmente chiamiamo l’espressionismo reboriano è dun-
que un intento o volontà formale che, disponendo di un repertorio amplissimo di
figure di discorso, determina all’interno del verso, per eccesso e ingorgo, una se-
rie di pressioni e decompressioni violente e avvolge di torsioni continue lungo le
strofe ininterrotte; che sono, quelle, la maggioranza dei “frammenti”. Con poche
eccezioni (soprattutto i madrigali e il commiato, che annunziano alcune prove
successive fino ai Canti anonimi inclusi) quelle pressioni e torsioni si dànno anche
nelle composizioni “chiuse” che pure, metricamente e tematicamente, dovrebbe-
ro fungere da momenti di rallentamento e distensione, prima del rilancio delle
tensioni. Le pause non riescono insomma ad essere tali; perché all’origine, al mo-
to di avvio, di quasi tutte le composizioni sta un’attitudine di aggressivo antagoni-
smo, di combattimento esacerbato. Di qui l’abuso del «ma» avversativo nei Fram-
menti: alla disgregazione di cui la città moderna (rispecchiata e duplicata dalla di-
sgregazione del soggetto) è immagine dominante si oppone un gesto di volontà e
di positività, un “nonostante tutto”, ben diverso, aggiungiamo, dal «ma» conces-
sivo e limitativo che sarà in Sereni49. Tutta l’opera di Rebora, anche nella raffigu-
49 Mentre
in Sereni le negazioni modulano le affermazioni, le alterano, in Rebora sono di pari forza e si aggredisco-
razione della sconfitta e dell’orrore partecipa del grande ottimismo della cultura
europea del Sette e dell’Ottocento, dove la volontà etica dovrebbe vincere ogni
rassegnazione e ironia.
La vulgata psicanalitica potrebbe parlare di edipo irrisolto e di rimorso e col-
pa per la rimozione degli istinti omicidi e suicidi. Ad esempio, quando l’immagine
paterna («i padri eroi») latrice della ratio e del dover essere è contigua a quella
dell’«orco che ci sbrana» e che si vorrebbe annientare. (E d’altronde il medesimo
plurale «eroi» compare sarcastico in «civil risma di eroi» (fr. XXI, v. 73). Un «or-
co» interiore che assumerà spaventosa realtà oggettiva di lì a poco quando
nell’«aria sbranata» (Voce di vedetta morta, v. 3), l’«appetito della morte» (Fanta-
sia di carnevale, fr. XI, v. 42)50 di cui i padri si fanno gloria, si sazierà di infanti tra-
sformati in soldati e l’augurio sarà quello di «assenti figlioli di giorni presenti a di-
vorare il padre» (Coro a bocca chiusa, p. 213). Di qui anche la rappresentazione di
sé in prima persona come calma padronanza di sé («la concretezza nel pensier
mio calmo», fr. LXXI, v. 58) oppure come violenza e demenza («forsennato» è
uno dei suoi aggettivi significativi) e fino alla identificazione di sé con Ugolino e
Caino:
Oh, se avvelenati denti
mi saettassero fuor dalla bocca
per morder cuore e cervello su te,
mentre la gola rugghiasse a sterminio
il terrore del mal che m’infosca
e drizzasser le mani ogni nocca
in artigli selvaggi a squarciare
Dio e i scellerati buoni!
Oh, se fuggendo trovassi regioni
dov’occhio non mi veda né conosca [...]. (fr. XXI, vv. 40-49).
Il risultato è che mentre le singole composizioni (o almeno quelle che paiono
di maggiore ricchezza e profondità) hanno un faticoso svolgimento, un interno
percorso che quella tensione graduano e orientano, le sequenze e l’insieme del li-
bro risultano invece un unico intrico, un fascio di linee-forza che si annullano a vi-
cenda, una voce antimelodica resa stridula e finalmente coatta e incapace di silen-
zio, quindi di articolazione, dalla propria medesima concitazione ininterrotta. Se
si aggiungono le analogie con i futuristi e i cubisti, il libro ha maggiore somiglian-
za con la musica atonale e col dinamismo futurista che non con le figurazioni del
no, come draghi, a vicenda.
50 Fantasia di carnevale è pubblicato nel febbraio 1915, Voce di vedetta morta nel gennaio 1917, Coro a bocca chiusa
5.3. Bandini ha sintetizzato la sua ricerca sul verbo in Rebora indicando la «pre-
varicazione della sfera verbale su quella nominale»51. Il primato del verbo sul so-
stantivo e, fra i verbi, di quelli di operazione violenta non può essere interpretato
solo come un atteggiamento rivolto all’azione. Il verbo, che è temporalità, se-
quenza, svolgimento, si oppone alla spazialità dei nomi, alla loro immobilità. Qui
si scorge un importante punto di contatto fra la postura fondamentale dell’elo-
quio reboriano e le proposte di poetica del futurismo riassunte nella sua maggio-
re parola d’ordine, il “dinamismo”. È vero che, a differenza dei futuristi marinet-
tiani, la ricerca di una imitazione verbale della tensione e della velocità non solo
non è vitalismo fine a se stesso ma si accompagna, anzi si arricchisce, del senso
dello scacco e della sconfitta (per un evidente apporto, come in Michelstaedter, di
origine schopenhaueriana). Tuttavia la prevalenza del verbo manifesta l’intento
intensamente esortativo e mobilitante di queste liriche e dà ragione delle sequen-
ze di versi brevi, i «movimenti», come egli li chiamerà in testi successivi ai Fram-
menti. Nei componimenti “liberi” i versi di lunghezza inferiore all’endecasillabo
sono più del doppio di tutti gli altri. In questo moto i mutamenti di velocità e gli
effetti di alterazione del ritmo hanno la funzione di organizzare – contro la “me-
lodia” delle composizioni “chiuse” – una polifonia, una prospettiva di piani che
non è senza analogia con gli effetti visivi “sghembi”, perseguiti dai futuristi e dal
“modernismo”; non cubista, quindi, ma semmai cubo-futurista. Di qui una inno-
grafia sussultante, innervata da invocazioni e da effetti di crescendo continua-
mente ripreso e potenzialmente interminabile, che non è più quello delle varia-
zioni armoniche ma traspone il sempre rinnovato infrangersi del desiderio e della
aspirazione, l’interrogazione inesausta; come nel Wagner del Tristano, secondo
una esperienza giovanile che deve essere stata indimenticabile52.
Come la concretezza e oggettività naturali e corporee sono evocate, nella
51 F.
BANDINI, Elementi di espressionismo linguistico in Rebora cit., p. 18.
52 «Sono in un eccitamento formidabile dello Spirito. Mi si scatena impetuoso, dà in balzi possenti che mi annien-
tano, rugge, si ribella, si placa improvvisamente; poi di nuovo si divincola, instabile, immenso e piccino, assurdo, ir-
reale, terribile. Sono stato al Tristano e Isotta […]. È stata una combustione, una conflagrazione di tutto me stesso».
(C. REBORA, Lettera a Daria Malaguzzi del 1° febbraio 1907, in ID., Lettere cit., p. 16).
6. Nota bibliografica.
La migliore edizione esistente dei Frammenti è quella che si legge alle pp. 9-123 di
C. REBORA, Le poesie (1913-1957), a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Milano
1988. Non è una edizione critica, come a p. 483 chiariscono i curatori; il testo dei
Frammenti è esemplato sulla prima edizione, quella del 1913, curata dall’autore,
tuttavia tenendo presenti le tre successive, la seconda a cura di P. Rebora (Firenze
1947), la terza a cura di V. Scheiwiller (Milano 1961), che ne pubblicò una quarta
(Milano 1982). Viene da questa l’ultima, con alcune modifiche grafiche e inter-
puntive che Gianni Mussini discute nella Nota sul testo da lui siglata alle pp. 481-
526 della edizione citata.
Una rilevante differenza, come si è già detto, fu tra l’edizione 1913 e quella
fiorentina del 1947, dove il poeta sostituì (o accettò il consiglio di chi volle sosti-
tuire) alla numerazione romana dei singoli frammenti altrettanti titoli: una sorta
di interpretazione autentica che l’edizione del 1961 omise, restituendo la nume-
razione del 1913, che è quella leggibile nel volume del 1988. L’omissione fu assai
discussa da chi considerava l’apposizione dei titoli volontà di autore. E (come eb-
be ad osservare O. MACRÌ, La poesia di Clemente Rebora nel secondo tempo o in-
termezzo (1953 -1920) tra i «Frammenti lirici» e le «Poesie religiose», in «Pa-
radigma», n. 3 (1980), pp. 281-87, e n. 4 (1982), pp. 177-78) sarebbe stato oppor-
tuno che quei titoli fossero stati almeno riprodotti nell’apparato critico della edi-
zione più recente. In maggioranza, si trattava di titoli che identificavano un mo-
mento temporale (Mattinata, Ultime luci, L’ora intima, Sera estiva) o un luogo
(Pioggia in città, Marina) ma altri si fanno importanti elementi di paratesto (Strut-
ture di monti, Cosmo, Tempera, O ignoti eroi, Il consolatore, Cantico famigliare). Si
aggiunga che è stata l’edizione 1947, con i titoli, quella di cui i lettori del secondo
dopoguerra, e la critica, ebbero a disporre fra quella data e il 1961, ossia per un
quindicennio, dopo che la prima edizione, nel periodo più che trentennale che la
seguì, era divenuta una rarità da antiquariato.
Una bibliografia degli scritti di Rebora è alle pp. 528-42 della citata edizione
delle Poesie e a quella si rimanda il lettore. Per quanto è invece della fortuna cri-
tica dei Frammenti, sono memorabili – precedute dalla ripulsa di Emilio Cecchi
(in «La Tribuna» del 12 novembre 1913) – le due recensioni che ne aprirono la
storia: A. MONTEVERDI, Recensione in «La Voce», VI (1914), 7, pp. 42-51, e,
soprattutto, ricca di impeto e di geniali intuizioni dei dati fondamentali dell’ope-
ra, G. BOINE, Recensione in «La Riviera Ligure», XX (1914), 33, p. 321 (ora in
ID., Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano
1983, pp. 115-20). Boine non si limita a parlare, per i Frammenti, di «grandezza»,
ma elenca, fra Dante e Leopardi, i veri modelli della poesia reboriana: Mi-
chelangelo, Campanella e Bruno.
Si può dire che il silenzio quasi assoluto della critica nel ventennio successivo
ha la sua origine nel giudizio negativo che gli eredi dell’età “vociana” (si pensi a
Piero Gobetti) erano indotti a dare dello spiritualismo teosofico e poi del-
l’avvicinamento al cattolicesimo. Importante, in questo senso, il silenzio di Eu-
genio Montale; che scriverà di Rebora solo in occasione della sua morte (in «Cor-
riere della Sera», 2 novembre 1957, e in «La Gazzetta di Parma», 25 novembre
1957; ora in E. MONTALE, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano 1976, pp.
303-6), e che, trent’anni prima, lo aveva nominato («La fiera letteraria», 1° aprile
1928) con Boine e Gozzano fra i poeti di «impegno severo» di cui «il tempo ri-
spetterà certamente qualcosa». Quel poco spiegabile silenzio mostra oggi non so-
lo la rilevanza dei Frammenti per il poeta ligure (fra l’altro, Ossi di seppia avrebbe
dovuto intitolarsi Rottami) ma anche una singolare vicinanza nel modo di “attra-
versare” D’Annunzio).
L’opera di Rebora venne riproposta alla generazione dell’ermetismo dal gio-
vane G. CONTINI, Due poeti anteguerra. Dino Campana, Clemente Rebora
(1937), poi con il titolo Due poeti degli anni vociani. I. Clemente Rebora, in ID.,
Esercizî di lettura, Torino 19743, pp. 3-15 (Contini tornerà a scrivere di Rebora in
ID., Letteratura dell’Italia unita (1861-1968), Firenze 1968, pp. 705-6). Lo studio
di Contini, da cui procederà Bandini trent’anni più tardi, è di grande rilievo, so-
prattutto per le definizioni linguistiche. Ciò nonostante un altro ventennio do-
vette trascorrere prima che si imprendesse una adeguata collocazione dell’opera
nella storia della lirica del Novecento. Era stata la vicenda biografica del poeta,
con la sua conversione, a suscitare un interesse talvolta più devozionale che lette-
rario, rivolto piuttosto alle poesie dell’estremo periodo della vita di Rebora (i
Canti dell’infermità, pubblicati nel 1957, due mesi prima della morte del loro au-
tore) che non ai Frammenti. P. P. PASOLINI, I «Canti dell’infermità» di Rebora
(1956), in ID., Passione e ideologia, Milano 1960, pp. 326-27, fin dal 1950 attento
alle indicazioni di Contini, avrebbe nel 1956 definito il significato di Rebora e de-
gli altri «maestri in ombra» dell’età vociana in funzione della propria poetica.
Quando nel 1960 comparve la biografia della Marchione (M. MARCHIONE,
L’immagine tesa. La vita e l’opera di Clemente Rebora, prefazione di G. Prezzolini,
Roma 1960; ristampa anastatica ampliata con lettere inedite, Roma 1974), l’opera
era di solito interpretata come un progressivo avvicinamento al sacerdozio; e d’al-
tronde si disponeva solo della edizione fiorentina del 1947, di limitata circolazio-
ne e non di poi ristampata. Ne scrissero, fra gli altri, A. ROMANÒ, Sulla poesia di
Clemente Rebora, in «aut aut», n. 45 (1958), pp. 138-42; P. BIGONGIARI, L’og-
getto come evento in Clemente Rebora (1958), in ID., Poesia italiana del Novecen-
to, Milano 1960, pp. 35-52; G. BÁRBERI SQUAROTTI, Tre note su Clemente
Rebora (1957), in ID., Astrazione e realtà, Milano 1960, pp. 195-219.
Nel 1962, su «Questo e altro», in uno scritto di grande intelligenza critica,
Giovanni Raboni, rifacendosi ad una nota di Pasolini del 1956, affermò il carat-
tere non-metafisico della poesia reboriana: «Le parole di Rebora – voglio dire la
sua lingua, la sua sintassi, la sua metrica, il tipo della sua metafora – sono parole
pesanti, parole trattenute e bilanciate a terra dal piombo del loro significato quo-
tidiano e storico [...] un materiale trovato e di cui non rifiuta niente [...] una poe-
sia che non vuole trionfare sulla realtà e vuole invece salvarne dentro di sé le di-
mensioni concrete, gli spigoli vivi, le parti opache, le profonde spaccature [...]»
(G. RABONI, Clemente Rebora (1962), poi col titolo Rebora e la storia, in Lette-
ratura italiana. I Contemporanei, diretta da G. Grana, II, Milano 1979, pp. 1547-
52; la citazione, passim, a partire da p. 1549).
Una nuova strada per la lettura dei Frammenti fu aperta dal rilevantissimo
studio, che più volte abbiamo citato, di F. BANDINI, Elementi di espressionismo
linguistico in Rebora, in AA.VV., Ricerche sulla lingua poetica contemporanea. Re-
bora, Saba, Ungaretti Montale, Pavese, presentazione di G. Folena, Padova 1966
(«Quaderni del circolo filologico linguistico padovano»), pp. 3-35. L’analisi lin-
guistica consentiva di uscire dai termini biografici e psicologici e di ripensare la si-
tuazione storica di quella poesia da un punto di vista non confessionale, grazie an-
che alla pubblicazione, nel 1976 del primo volume delle Lettere, a cura di M.
Marchione, prefazione di C. Bo, Roma 1976 (relative agli anni 1893-1930; il se-
condo volume, 1931-57, è a cura di M. Marchione, prefazione di C. Riva, Roma
1982). Nelle rispettive antologie, F. FORTINI, I poeti del Novecento, Roma-Bari
1977, pp. 30-40, e P. V. MENGALDO, Poeti italiani del Novecento, Milano 1978,
pp. 249-74, situavano i Frammenti fra i massimi “libri” di poesia italiana del no-
stro secolo.
Pier Vincenzo Mengaldo aveva posto in evidenza il debito di Rebora verso
Lucini per «densità timbrica sul registro aspro», «espressività violenta nel do-
minio verbale» e tendenza ad «assorbire ed annullare il linguaggio aulico» onde
Rebora «lima ciò che Lucini ha fabbricato», compiendo ciò che qui «è solo in-
coato»; ma anche le «soluzioni linguistiche» reboriane che «anticipano – e spesso
puntualmente – Montale»; «Senza Rebora io non riesco a spiegarmi né L’Allegria
di Ungaretti né – come sarebbe ora di chiarire – Montale» (P. V. MENGALDO,
La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Milano 1975, pp. 111 e
116). Questa di Rebora («l’espressione lirica più alta del clima “vociano”») sem-
bra a Mengaldo «aggressività e incandescenza stilistica [...] anteriore alla messa in
opera del testo poetico, una specie di dato biologico [...]. In pochi poeti come in
Rebora lo stile, più che riflettere un’ideologia, è immediatamente ideologia, anzi
si direbbe la surroghi e ne colmi i vuoti con una sorta di gesticolazione psicologi-
ca e morale che da un lato veicola l’attivismo del soggetto, dall’altro mima il caos
peccaminoso della realtà rugosa [...]» (P. V. MENGALDO, Poeti italiani del No-
vecento cit., pp. 254 e 252).
A questo sommario di critica reboriana vanno naturalmente aggiunti i rife-
rimenti e i titoli citati nelle nostre note (tra cui: G. GETTO, L’ultimo Rebora
(1956), poi con il titolo Nota su Clemente Rebora, in ID., Letteratura religiosa
dal Due al Novecento, Firenze 1967, pp. 415-24; M. GUGLIELMINETTI, Cle-
mente Rebora, Milano 1961). Dovessimo ora suggerire un testo monografico re-
cente ed equilibrato su tutto Rebora, che dei Frammenti dà un disegno persua-
sivo ed esauriente, crediamo dover ricordare quello di P. GIOVANNETTI, Cle-
mente Rebora, in «Belfagor», XLII (1987), 4, pp. 405-30. Le sue parole conclu-
sive ci sembrano da sottoscrivere: «La filosofia e la religione, nel miglior Rebo-
ra, assumono uno spessore materiale e terreno, acquistano il loro più vero signi-
ficato solo se sottoposte a controspinte che ne estenuino la troppo facile predi-
cabilità; e nelle pieghe di pagine che sembrano spesso negarsi alla chiarezza e
all’equilibrio il lettore moderno potrà scoprire – caso forse unico nella poesia
italiana del Novecento – il progetto di una lirica che nell’impurità della storia e
del corpo ha saputo ricercare (e individualmente, forse, inverare) le promesse
d’una possibile pacificazione».