Sei sulla pagina 1di 24

TRADIZIONE ORALE E FONTI LETTERARIE: LINGUA

E DIALETTO TRA ILCANZONIERE ITALIANO DI PIER PAOLO PASOLINI


E ‘UN POETA IN MOLISANO’ EUGENIO CIRESE
Walter Santoro

Oh fine pratico della mia poesia!


Per esso non so vincere l’ingenuità che mi toglie prestigio,
per esso la mia lingua si crepa nell’ansietà
che io devo soffocare parlando.
Cerco nel mio cuore solo ciò che ha!
A questo mi son ridotto: quando scrivo poesia
è per difendermi e lottare compromettendomi,
rinunciando a ogni mia antica dignità…

da La realtà, in Poesia in forma di rosa (1964)

“Per difendermi e lottare” dice Pasolini, appello proto-contem-


poraneo in un tempo di cliché estetizzanti dove impera il Videor
Ergo Sum (Appaio Dunque Sono) perché credo ormai che il Cogi-
to sia andato in pensione da un pezzo.
Scelgo il Canzoniere italiano di Pasolini forse perché fu l’unico o
tra i pochi che ebbe la capacità di ascoltare l’altro, il suo proletaria-
to e sottoproletariato, la difesa della gente di borgata, attaccando i
piazzisti dell’eskimo e dando voce, anche dialettale, a quei luoghi e
corpi indistinti, figli della guerra e del boom economico.
Per far questo, per additare senso alle parole, usò le parole del
diverso, di colui che amava, riesumando in una miscellanea lette-
163
rati o illetterati anonimi che si prodigarono nell’uso del dialetto,
liriche dallo slang dolceamaro dei figli della fatica.
Già l’Addison nello Spectator27 rivendicava la bellezza delle
vecchie ballate nazionali paragonandole a quelle colte franco-ita-
liche e d’ispirazione idillico-virgiliana, quindi il Macpherson nel
1760 editò I canti di Ossian28, quindi il Percy nelle memorabili
Reliquies of ancient English Poetry29, poi il Ritson, Burns e il pro-
toromanticismo herderiano, curatore di una raccolta di poesie
europee nell’opera Voci dei popoli nelle loro canzoni30 che por-
terà all’assunto di Omero e Dante come poeti popolari. Lo stesso
Goethe nei resoconti del Viaggio in Italia (1768-1788) ricorda di
aver udito canti di popolani romani e i fratelli Grimm, parimen-
ti, riportarono in una loro opera i ritornelli, ovvero gli stornelli
italiani.
La nuova passione raggiunse anche l’Italia e i primi testi di po-
esia colta popolareggiante non tardarono ad arrivare. Pionieri ne
furono il Placucci nel 1818 con Usi e pregiudizi dei contadini ro-
magnoli, il Basetti-Opici con il Saggio di poesie contadinesche, fino
al Tommaseo, Canti popolari toscani, illirici e greci che includeva
composizioni religiose, moralistiche e patriottiche. Un populismo
27
“The Spectator” è un quotidiano inglese uscito dal marzo 1711 al dicembre 1712
fondato dal politico, scrittore e drammaturgo Joseph Addison. È considerato uno dei
primi esempi di giornalismo moderno, incentrato sull’analisi di questioni sociali più che
sulle dispute politiche. Ogni numero è ambientato in un club dove si confrontavano le
diverse categorie sociali, riservando all’imparzialità del giornalista il ruolo di spettatore
(spectator, per l’appunto). Obiettivo della rivista era il dialogo sociale volto al miglio-
ramento della società.
28
Opera preromantica dello scrittore James Macpherson. Pubblicata in forma anonima
raccolse antichi canti gaelici attribuiti al leggendario cantore bardo Ossian, l’Omero
del Nord.
29
Thomas Percy, poeta, antiquario e religioso inglese. Al suo nome è legato un mano-
scritto di antiche poesie popolari e una raccolta di ballate che rappresentano una delle
prime sillogi di tal genere che influenzarono persino il Romanticismo inglese. Nel 1756
iniziò la compilazione dell’opera Reliques, raccolta di ballate “popolari”.
30
L’opera di Herder, composta tra il 1778 e il 1779, racchiude i canti delle varie po-
polazioni con i quali l’autore venne in contatto, divenendo la prima antologia della
letteratura universale.

164
ante-litteram quello del Tommaseo, in veste di ricercatore di po-
esia popolare frammisto di toni volgari ed eletti. Quindi nel XIX
secolo fu la volta del Marcoaldi, Dalmedico e del Rubieri con
Storia della poesia popolare italiana del 1877.
Opera poderosa, come ebbe a descriverla Pasolini, fu quella
di Alessandro D’Ancona, Poesia Popolare Italiana, che segna e
inaugura una seconda stagione di studi scientifici, esegesi stori-
co-comparativa tra settentrione e meridione d’Italia accentuan-
done il carattere distintivo che dividerà le due terre italiche in un
Nord epico-lirico e un Sud essenzialmente lirico.
Tralasciando altri importanti testi eccoci dunque a Il Canzo-
niere italiano. Antologia della poesia popolare, a cura di Pier Paolo
Pasolini. Fu pubblicato per la prima volta a Parma nel 1955 per i
tipi della Guanda editrice31 con tre successive ristampe, nel 1960
con il titolo La poesia popolare italiana, nel 1972 e 199232.
Come afferma il linguista De Mauro, il lavoro cui Pasolini si
dedicò poteva completarsi in breve e senza troppa fatica, ma fu
invece durissimo e lungo perché Pasolini lo impiantò e lo svolse
da studioso. Ancora Tullio De Mauro, in due relazioni tenute alla
Sapienza33, fece ammenda della poca considerazione e critiche
che si fecero all’uscita del Canzoniere pasoliniano: «…siamo re-
31
Collezione Fenice diretta da Attilio Bertolucci (ed. fuori serie).
32
2 voll., Garzanti, Milano. Si veda anche Tito Saffioti, Enciclopedia della canzone po-
polare e del nuovo canto politico, Teti Editore, Milano 1978.
33
Due lezioni (19 gennaio e 26 febbraio 1996) tenute alla Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Roma “La Sapienza” nell’ambito di un ciclo di lezioni (10 novembre
1995-26 novembre 1996) incentrate su Pier Paolo Pasolini per il ventennale dalla morte,
poi confluite nel volume Lezioni su Pasolini del 1997 a cura di T. De Mauro e F. Ferri.
Lo stesso De Mauro in uno scritto pubblicato nel 1955 in “La Lapa” (diretta da Eugenio
Cirese e poi da Alberto Maria), dal titolo Di alcuni problemi di circolazione culturale,
si occupò dell’Introduzione al Canzoniere italiano. Pasolini ne aveva anticipato l’uscita
su “Nuovi Argomenti” in un articolo dal titolo Pagine introduttive alla poesia popolare
italiana. Si veda anche il contributo di Emilia De Simoni, Pasolini: l’ordito e la trama,
in Costumi per narrare. L’officina di Piero Farani: arte, artigianato, cinema, a cura di
B. Giordani Aragno, Milano, Electa, 1998, pp. 94-113; Clemente Fanelli, «Intenso nel
sentire ma sobrio nell’esprimersi». Il Molise dei due Cirese, in “Glocale”, n. 6-7, 2013,
pp. 51-78.

165
sponsabili noi, della mia generazione ormai più che settantenne,
dei torti che allora furono fatti al Canzoniere italiano… Certo
non siete responsabili voi studenti, per quel remoto passato: ma
attenti al vostro oggi, voi che avete ora la nostra età di allora, e
occhio ai vostri futuri rimorsi, se oggi non avrete pensato abba-
stanza». Aggiunse inoltre: «Ciò che lamento di allora non è che
non si applaudisse, ma che si stroncasse; e, per quanto mi riguar-
da personalmente, l’aver scoperto oggi quel che avrei dovuto sa-
pere allora mi rende ancor più sgradite le aggressioni altrui, e più
pesante il fatto di non aver dato il dovuto sviluppo alle note in
cui presi sul serio Pasolini come studioso di poesia popolare».
L’Antologia era stata preceduta nel dicembre del 1952 da Po-
esia dialettale del Novecento firmata da Pasolini e dal poeta ro-
manesco Mario Dell’Arco (pseudonimo di Mario Fagiolo): quasi
quattrocento pagine di testi dialettali di tutte le regioni, accom-
pagnati dalle traduzioni e preceduti da un’introduzione di oltre
cento pagine, stesa dallo stesso Pasolini.
Nello stesso mese l’editore proponeva a Pasolini la cura di una
seconda antologia dedicata alla poesia popolare italiana. Inizial-
mente Pasolini ebbe qualche perplessità, nel gennaio 1953 scrive-
va a Giacinto Spagnoletti: «Adesso Guanda mi propone la Poesia
popolare: forse non ha torto né dal punto di vista commerciale né
da quello culturale, ma io non sono molto entusiasta…»
Ma alla fine dello stesso mese l’esitazione andava sciogliendosi:
«Non penso invece di rinunciare all’antologia della poesia popo-
lare: anche perché ideologicamente sento che potrei mantenermi
nel giusto mezzo».
Subito dopo Pasolini ebbe l’occasione di giudicare la fonda-
tezza delle sue aspettative. Eugenio Cirese34, cui Pasolini aveva
34
Eugenio Cirese (Fossalto 1884 – Rieti 1955) visse nel paese natio fino al 1911, allor-
quando la famiglia si trasferì a Castropignano. Maestro elementare in Molise dal 1904
al 1915, fu poi Direttore didattico e Ispettore scolastico a Teano, Avezzano, Cittaduca-
le, Rieti, Campobasso e poi di nuovo a Rieti dal 1940 alla morte, avvenuta l’8 febbraio
1955. Una vita dedita alla scuola e di cui Gente buona (Sussidiario per le Scuole) ne
rappresenta opera esemplare che si salda al suo Molise: canti del popolo, dialetto, poesia

166
dedicato attenzione nell’antologia del 1952, gli inviava il primo
volume appena edito della raccolta Canti popolari del Molise35,
e Pasolini così ringraziava: «Gentile Cirese, ho avuto, e subito
letto con grandissimo interesse, il suo volume di Canti popolari.
Ne parlerò diffusamente su “Il Giovedì”36. Poiché adesso dovrò
fare per Guanda un’Antologia della poesia popolare italiana, il
Suo lavoro mi interessa in modo speciale. Il secondo volume dei
Canti quando uscirà? Nel caso che la sua pubblicazione dovesse
tardare, potrei osare di chiederLe una primizia dattiloscritta (pur-
ché ne abbia una copia in più)? La ringrazio molto, per i deliziosi
testi cui mi ha introdotto, e Le invio i miei più rispettosi e cordiali
saluti»37.
Dopo qualche tempo l’impegno sull’Antologia fu preso in ca-
rico. «E mi è caro segnare» aggiunse Pasolini «che l’avvio fu
proprio dal Molise». Dopo aver ricevuto dal Cirese il dattilo-
scritto richiesto. Il 29 marzo 1953 Pasolini scrive: «Gentile Ci-
rese, grazie per i nuovi canti molisani: comincerò dunque la
mia scelta proprio dal Molise, e spero che Lei e la sua terra mi
portino fortuna»38.
e la buona gente della sua terra. Tra il 1910 e il 1915 escono nell’ordine Canti popolari e
sonetti, Discurzi di cafoni e Ru Cantone de la Fata. Nel 1951 pubblica Lucecabelle (Luc-
ciole) – Pasolini se ne avvalse per l’antologia dei poeti dialettali del 1952 – nel 1953 da
avvio a una straordinaria avventura letteraria, la rivista di storia e letteratura popolare
“La Lapa”, palesandosi da subito come di respiro internazionale, fu la prima difatti a
pubblicare in italiano uno scritto di Claude Levi-Strauss.
35
Eugenio Cirese, Canti popolari del Molise, vol. I, Nobili, Rieti 1953. Il secondo volume
comparve postumo nel 1957. Nel 1945 l’autore aveva già pubblicato Canti popolari
della Provincia di Rieti che Pasolini chiese in prestito (Lett., I, p. 556).
36
Rotocalco settimanale diretto da Giancarlo Vigorelli; P.P. Pasolini, I Canti popolari
del Molise, “Il Giovedì”, 9 luglio 1953, p. 7, poi, rielaborato in “La Fiera Letteraria” del
20 marzo 1955 (Poetica popolare e colta) e di qui ristampato in “Passione e ideologia”
col titolo Un poeta in molisano (1960, pp. 308-12; 1985, pp. 269-73; 1994, pp. 338-43).
Alla raccolta molisana Pasolini dedicò anche una nota comparsa su “il Belli”, a. II, n. 2,
maggio 1953, p. 47.
37
Lett., I, p. 547, 12 febbraio 1953. Pasolini, Lettere (1955-1975), Nico Naldini (a cura
di), Collana ET Scrittori, Torino, Einaudi, 1988,
38
Ivi, p. 556.

167
Né fu frase di circostanza. L’accennato scritto sui canti molisa-
ni, più che una recensione, fu un discorso incentrato sulla poesia
popolare come lo stesso Pasolini scrisse al Cirese, costituendone il
primo saggio, se non addirittura il primo impianto, di quell’am-
pio discorso storico-critico con cui due anni dopo si aprirà il Can-
zoniere italiano. Pasolini lo predispose con sapore antologico e le
idee del critico, poggiando le basi sulla storiografia e lettura delle
centinaia di raccolte regionali pubblicate nel corso degli ultimi
centocinquanta anni. Una “tremenda fatica” già in sé, e tanto più
disperante, scrive De Mauro, perché allora i libri erano irreperibi-
li, con frenetiche copiature a macchina o addirittura a mano. In
contemporanea, difatti, Pasolini lavorava a Ragazzi di vita.
Pier Paolo Pasolini raccolse in questa monumentale antologia
le espressioni più belle e curiose della poesia popolare italiana,
operando le scelte letterarie in modo estetico e non per generi,
in accordo col Croce e diversamente dal D’Ancona, tralasciando
però i testi musicali e peccando in didascalie e note che ne corre-
dino e completino provenienza geografica e genere; manca altresì
la distinzione tra tradizione orale e d’autore. Di converso una
generosa ed esaustiva bibliografia di rimando, compilata regione
per regione, è presente a fine volume.
In premessa Pasolini dichiara di ripercorrere l’antologia par-
tendo un secolo addietro, dalla raccolta del Tommaseo per arri-
vare sino ai Canti del Cirese, collettanea ricchissima e variegata
di tutte le XIX regioni d’Italia (il Molise si aggiunse al novero
italico nel 1963) che nel 1955 contava circa 7.800 comuni e quasi
altrettante varianti dialettali.
Il Canzoniere italiano rappresenta, come recitano le quarte di
copertina delle ristampe e l’ampia introduzione di Pasolini in ol-
tre 100 pagine, una tappa fondamentale per la riscoperta della
poesia popolare italiana, ritratto vivissimo e poetico-critico delle
radici regionali degli italiani, rassegna di quasi ottocento testi che
spaziano dai canti narrativi piemontesi alle biojghe romagnole,
168
dalle vilote venete e friulane ai rispetti e l’ottava rima toscana,
dalle canzune abruzzesi ai canti funebri calabresi, dal mutos sardo
agli stornelli, strambotti, ninne nanne, orazioni e scongiuri, canti
fanciulleschi, cantilene, canzoni iterative, gridi, sino ai temi sulle
due guerre e alle liriche fasciste e partigiane. Nell’areale nord-i-
taliano spadroneggiano le ballate epico-liriche, tra queste Donna
Lombarda rappresenta forse la più famosa canzone narrativa,
probabilmente ricamata sulle vicende di Rosmunda ed Elmichi.
La stessa cronaca di Paolo Diacono nella Historia Langobardourm
narra come la donna cerchi di avvelenare il marito con una mi-
stura di testa di serpente nel vino. Sarà il figlioletto a salvare il
padre, costringendo la madre a bere: “Solo per amore del re di
Francia lo berrò e poi morirò. La si intendeva da farla agli altri, la
se l’è fatta a lè!” Da annoverarsi anche la Povera Cecilia, diffusa
in tutta la penisola italiana, a esclusione delle isole, con riscontro
nella tradizione popolare catalana. Le differenze consistono nella
morte della donna o nel suicidio del capitano. Cecilia chiede la
grazia al capitano per fare uscire il marito da prigione; “se la
grazia vuoi” risponde il capitano “a letto con me dovrai venir”. Il
marito incoraggia la donna di non pensare all’onore ma a salvar-
gli la vita; la mattina seguente dopo un brutto sogno “s’affaccia a
lo balcon, e vede il suo marito col capo a ciondolon. Grazia m’ha
fatto signor capitan, la mi ha tolto l’onore e la vita al mio marì!”

Come sappiamo, la poesia popolare, il canto e la musica nasco-


no dal calamaio del letterato o dall’analfabeta volgo, popolo per
cosi dire incolto: tradizione orale contadina, pastorale e marinara
congiunte. Ciò che unisce i testi è la comune espressione dei di-
sagi sociali, della lotta, ma anche della vita quotidiana. I toni e i
linguaggi utilizzati possono essere diversi da regione a regione,
ma identica ne risulta la carica, la passione e la rabbia da cui sca-
turiscono: condizione di asservimento e viltade in cui gli uomini
sono stretti e costretti. Ecco quindi che il testo lirico e i canti che li
169
accompagnano rappresentano una fedele “colonna sonora” della
trasmissione del sapere e un’istantanea fotografica del momento
storico e delle condizioni sociali vissute.
Basta chiudere gli occhi e ci si è subito immersi.
Il tema della protesta ha da sempre accompagnato la lotta del-
le classi oppresse e Pasolini nei suoi vari livelli di maestria, dal
cinematografico al poetico, al letterario l’ha sempre enunciato
limpidamente. Gli argomenti affrontati sono disparati: canti di
lavoro, comunisti, socialisti, anarchici, contro la guerra, le carce-
ri, anticlericali. Si comincia da quelli antifeudali, poi ai giacobini
e garibaldini per arrivare agli scritti delle due guerre, all’antifa-
scismo, alla resistenza, alla ricostruzione, che nel post-Pasolini
condurranno come fil rouge ai canti del ’68, alla canzone politica
degli anni ’70 che oggi riemerge nel rap di protesta giovanile, seb-
bene espresso e troppo spesso cantato con centinaia di euro cuciti
addosso, vestiti che cozzano con il messaggio intrinseco dei testi.
Liriche e musiche “contro” si diceva, eccezion fatta per le po-
esie d’amore dove è messa a nudo la semplicità e al contempo
l’effetto delle parole dialettali, disarmanti per bellezza e armonia
che nulla hanno da invidiare ai migliori poeti di sempre. Pasolini
vi delinea gli aspetti linguistici citando gli studi compiuti sulla
poesia popolare italiana ed europea a partire dal Settecento. In
particolare descrive la genesi dei canti della prima guerra mon-
diale, nei quali i dialetti, tuttavia, furono quasi del tutto abbando-
nati a causa del regime, distinguendo le prose popolari da quelle
militaresche che Pasolini bolla come semicolti o addirittura dan-
nunziani. Non poteva essere diversamente visto che si trattava
di una produzione non popolare, politicamente e socialmente,
poesie e canti di regime, d’autore e soprattutto commissionati,
diversamente da quelli operati dalle classi subalterne, pregne di
spontaneità.
Pasolini inserisce con imparzialità, ma anche somma ripugnan-
za qualche canto fascista, lo riprende da una bieca raccoltina
170
stampata anonimamente a Caltanissetta nel ’22 in cui invita il let-
tore a valutarne lo stile, la non popolarità, “popolarità fittizia” la
chiama il poeta “volgare virilismo da attribuirsi a qualche futuro
federale di provincia”. Anche per i canti partigiani Pasolini parla
di semi-popolarità ascrivendoli a dirigenti politici e militari nelle
file dell’antifascismo borghese.
Conclude infine: «Non sussiste dubbio, comunque che, salvo
le aree depresse, la tendenza del canto popolare nella nazione è
a scomparire. Il popolo moderno è invece cosciente di sé, tende
ad abolire la soggezione in cui per tanti secoli era vissuto, tende
a essere autonomo, autosufficiente». Accorato appello ancora at-
tuale per evitare che scompaia una produzione letteraria dialet-
tale o comunque popolare già allora evidenziata dal poeta, come
in crisi.

L’uomo Pier Paolo nasce a Bologna il 5 marzo 1922. Per tut-


ta l’infanzia e l’adolescenza segue il padre, ufficiale di fanteria,
nei suoi spostamenti, trasferendosi continuamente da una città
all’altra del Nord Italia. Nel 1942 a causa della guerra si rifugia
nel paese materno, Casarsa, dove sin da giovane inizia a scrivere
poesie, alternando testi in italiano a quelli in friulano. Nel 1942
esce il suo primo libro Poesie a Casarsa. Il friulano è una lingua
romanza parlata, e a Casarsa il friulano era la lingua dei semplici,
dei contadini, mentre gli agricoltori più abbienti, tra cui anche
la famiglia della madre di Pasolini, preferivano usare il dialetto
veneziano.
Pasolini si avvinghia nella lotta per la conservazione del dialet-
to e nel 1943 lancia la rivista di poesie “Stroligut” in cui pubblica
composizioni proprie e di altri autori friulani, ma anche tradu-
zioni di poesie di Ungaretti, Tommaseo, Wordsworth e Verlaine:
vuole necessariamente che il friulano assurga allo status di lingua
esortando continuamente la popolazione contadina a fare un uso
consapevole e poetico del dialetto.
171
Lo sconosciuto idioma friulano trasformerà il ventenne Pasoli-
ni in poeta dall’oggi al domani.

Da La meglio Gioventù un suo scritto giovanile:

Ploja tai cunfìns Pioggia sui confini

Fantassùt, Giovinetto,
al plòuf il Sèil tai spolèrs dal to paìs, piove il Cielo sui focolari del tuo paese

… tal to vis di rosa e mèil … sul tuo viso di rosa e miele,


pluvisìn al nas il mèis nuvoloso nasce il mese.

Il soreli scur di fun Il sole scuro di fumo,


sot li branchis dai moràrs al ti brusa sotto i rami del gelseto ti brucia,
e sui cunfìns tu i ti ciantis e sui confini tu solo,
sòul, i muàrs. canti i morti.

Fantassùt, al rit il Sèil Giovinetto, ride il Cielo


tai barcòns dal to paìs, sui balconi del tuo paese,
tal to vis di sanc e fièl sul tuo viso di sangue e fiele,
serenàt al mòur il mèis. rasserenato muore il mese.

Nel Canzoniere Pasolini interpella diversi letterati e poeti italia-


ni, molti di essi scrivono in dialetto, particolare sarà il rapporto
con Eugenio Cirese: “un poeta in Molisano” come ebbe a descri-
verlo lo stesso Pasolini. Cirese nasce nel 1884 da famiglia ini-
zialmente agiata, ma poi travolta dalle drammatiche conseguen-
ze dell’emigrazione. A 26 anni morì tragicamente il padre: “Na
matina nen me chiamatte, ze ne iètte sule e nen turnatte!” (Una
mattina non mi chiamò, se ne andò solo e non tornò!)
Nei canti del Cirese, scrive Pasolini, «è inclusa e onnipresente
una biografia, anzi, quasi in assoluto, antifolcloristicamente una

172
Biografia: quella del Molisano che vi vive dalla culla – quatrale
tra le braccia di una madre infante anch’essa – al carcere, al cata-
letto; che si perde in superstiziose allegrie, in goffe tradizioni, in
ingenue e edificanti credulità; che apposta, giovinotto, le ragazze
del paese con deliziosa indecenza; che va in Puglia “come un gi-
gante” e ne torna “come un pezzente”; che invoca fiabescamente
Roma e si fa corrompere dal malandrino narcisismo napoletano:
figura disegnata con tratti il cui valore assoluto nessun volume
di etnologia o sociologia, per quanto romanzato o poetizzato, po-
trebbe uguagliare. E Cirese ne è ben cosciente: ed è questa sua
coscienza che fa di questa oggettiva raccolta un libro personale,
com’era personale la raccolta toscana del Tommaseo o la raccolta
piemontese del Nigra».
Ed è per questo che, come accennato, i canti molisani costitu-
irono il primo saggio di quell’ampia introduzione con cui aprirà
il Canzoniere italiano.

Esulando ora dal Canzoniere volendosi soffermare tra le poe-


sie e i canti del popolo “basso”, anche quelli che sfuggirono allo
stesso Pasolini, ma che nel verbo espressero tutto il vigore del
disagio, di una vita di stenti e di amori sperati, di padroni che
umiliano, di costrizioni migratorie da esuli più che da emigranti.
Tra le liriche raccolte quelle di lavoro riflettono le condizioni
di vita e di miseria dei braccianti. L’introduzione concerne soli-
tamente l’amara consapevolezza della propria sorte, l’individua-
zione di una controparte alla quale si reagisce con rabbia e ironia,
talvolta scagliandosi contro il padrone stesso. In questa poesia
che il Cirese dedica al mondo dei subalterni, dei cafoni in partico-
lare, non si manca di canzonare il mondo politico con una strofa
finale a sorpresa di grande spessore e semplicità:

173
Evviva le cuntadine
Sta vota è tiempe pe nù, è tiempe felice. Questo è il nostro tempo, è tempo felice.
Evviva lu cuntadine e l’operaie, Evviva il contadino e l’operaio,
chi zappa e chi campeja le lemàrie chi zappa e chi pascola gli animali
e tutte chille che ce suonn’amice! e tutti quelli che ci sono amici!

‘N coppe a ru municipie è necessarie Sopra il municipio è necessario


che la legge ze faccia a come dice che la legge si faccia come dice
lu popule sovrane… e sò nnemice il popolo sovrano… e sono nemici
le sìnneche struite e secretarie! i sindaci istruiti e segretari!

A che serve ‘ssa luce, pe sapé? A che serve questa luce, per sapere?
Pe ghì a la casa iamme mure mure, Per andare a casa andiamo muro muro,
e pò, de notte, è meglie a ghì a ru scure… e poi, di notte, è meglio andare allo scuro

Ca ‘n zacce lègge e scrive? E pò chi è…? Che non so leggere e scrivere? E poi cos’è…?

… jè meglie carta ghianca, siénte a me, … è meglio carta bianca, senti a me,
ca, nzapé legge e ne scrive, ‘n ze fanne che, a non saper leggere e né scrivere, non si
errure! fanno errori!

Lavorando al Canzoniere Pasolini intrattiene un rapporto epi-


stolare con Cirese, inviandogli tre domande tratte dal suo refe-
rendum sulla poesia dialettale.

PASOLINI: Perché scrivi in dialetto, anziché nella lingua letteraria?


CIRESE: Il dialetto è una lingua. Perché possa essere un mez-
zo di espressione poetica e trasformarsi in linguaggio e immagini
é necessario possederla tutta; avere coscienza del suo contenuto
di cultura e della sua umana forza espressiva. Nella mia infanzia
174
e nella mia prima giovinezza – o sia nel tempo più bello e più vivo
d’interessi della mia vita – ho parlato, raccolto e cantato canzoni,
gioito, pianto, pensato in dialetto! Non sto qui a sostenere la mag-
giore efficacia espressiva del dialetto sulla lingua letteraria …dico
solo che il possesso del dialetto agevola la ricerca e l’articolazione
di forme in atteggiamenti efficaci e immagini proprie; accresce in-
somma la possibilità di dare… Aggiungo anche che il dialetto è
sempre stato il luogo del mio respiro: quando mi trovai a cantare
l’amore, nato e patito sotto le finestre e sulle aie…

Espressività del dialetto, respiro e materializzazione d’imma-


gini, un sapore antico che sapeva contrapporre un avvocato al
contadino per risolvere una querelle, imbarazzo per manifesta
impreparazione culturale del secondo, inadeguatezza e soprat-
tutto soggezione.
L’audacia letteraria del dialetto in un immaginario confronto
in idioma natio e in cui l’esito verbale, tra sapienza libraria e sa-
pienza di vita, non avrebbe di certo avuto esito scontato.
Pasolini continua nella sua lettera a Cirese:

P: La tua poesia fa parte della letteratura italiana o di una


letteratura regionale?
C: Se è poesia, non può soffrire limiti né avere confini.

P: Supponi che ci siano delle speciali istanze di impegno so-


ciale nel dialetto?
C: Ci sono, si, anche se non intenzionali. Se no si dovrebbe
negare alla poesia un pensiero, ossia un contenuto. Nel dialetto,
poi, mi pare ci sia un più diretto legame con il mondo dei sem-
plici e degli umili: a loro, più che a noi appartiene lo strumento
espressivo di cui il poeta si serve, e al loro mondo, sia pure trasfi-
gurandolo, rimane pur sempre legato.

175
Pasolini torna a parlare di Cirese in La Fiera Letteraria39: «…
nel fare poesia è folclorista e nel fare folclore è poeta», ricerca-
tore in una concezione moderna assimilato al marxismo, «ac-
centi prefascisti, calore e simpatia per la classe popolare, che è
insieme per lui, proletariato contadino e gente tout court della
sua terra; e quindi i due amori condividendo e saldando due
amori, quello socialistico e quello patrio regionale si confondo-
no contraddittoriamente e appassionatamente, in un comune
sostrato romantico».

Con Cirese molti altri sono i poeti dimenticati.


Accanto alla poesia di lavoro in cui la sofferenza è espressa
come in una dolce “poesia in forma di rosa”, vi sono i canti d’e-
migrazione: il partire per una terra lontana, la paura che l’in-
namorata gli resti fedele, la pena, il distacco e la speranza del
ritorno. Dall’emigrazione americana ed europea a quella italiana
di Maremma o stagionale delle mondine: le sorelle Bettinelli e
Giovanna Daffini, da cui è tratto questo canto di risaia40.

AMORE MIO NON PIANGERE

Amore mio non piangere se me ne vado via,


io lascio la risaia, ritorno a casa mia.

Ragazzo mio, non piangere se me ne vo lontano,


ti scriverò una lettera per dirti che io t’amo
39
Ripubblicato anche col titolo di Una raccolta personale, in “La Lapa”, 1955, 1-2, p.
204; Pasolini, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960; Cirese, Oggi domani ieri, I,
pp. 424-428.
40
Giovanna Daffini (Villa Saviola 1914 - Gualtieri 1969), cantanteitaliana, ex mondi-
na, esponente del gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano. Il repertorio della Daffini
spaziava dai canti della tradizione mondina padana, ai canti politici e di protesta della
Resistenza e degli anni cinquanta, dalle canzoni narrative a successi di musica leggera
riarrangiati.

176
Non sarà più la capa che mi sveglia alla mattina,
ma là nella casetta mi sveglia la mammina.

Vedo laggiù fra gli alberi la bianca mia casetta,


e vedo laggiù sull’uscio la mamma che m’aspetta.

Mamma, papà, non piangere non sono più mondina,


son ritornata a casa a far la signorina.

Mamma, papà, non piangere se son consumata,


è stata la risaia che mi ha rovinata!

I canti d’amore, abbondantissimi e variegati: rabbia, passione


e sessualità, gusto per il doppio senso e la schermaglia amorosa,
misto d’ingenuità e malizia. Non mancano neppure momenti di
ribellione al femminile, rendersi conto che ogni donna è destinata
all’esser scelta e cercare ogni pretesto per sfuggire al matrimonio.
Quest’ultimo è sempre vividamente espresso come bello e deside-
rabile solo quando deve essere ancora celebrato, una volta sposati
emerge la delusione e la disperazione sovente riecheggiata.
Segue un canto d’amore a rispetto, cantato in Toscana durante
la mietitura del grano.

OI RONDINELLA

Oi rondinella che vai là per mare,


voltati indietro, ascolta dù parole, vò scrivere una lettera al
mio amore.

Quando l’avrò scritta e sigillata ti renderò la penna innamorata.


Quando l’avrò scritta e fatta d’oro ti renderò la penna pel tuo
volo.

177
E vai nel campo e piega quella rama,
quella penna che l’é là è la mia, se non ci arrivi, mettici
una scala.

Per te ci metterei la vita mia,


per te ci metterei la vita e il core, la morte fino all’ultime parole.
Per te ci metterei la vita e l’alma, la morte fino all’ultima con-
danna.

E poi le serenate, una sterminata raccolta che abbraccia l’I-


talia intera ma che in area garganica, note col nome di sunette,
emergono con disarmante naturalezza come in questa versione
di un’anonima serenata di Carpino (FG).

Na donni, a lu spuntà lu soli aje visto ‘na donni Una donna, allo spuntare del sole ho

visto una donna


putenzia delle Dii quann’era granni potenza di Dio quant’era grande

Quann’era granni, putenzia delli dii quann’erra Quant’era grande, potenza di Dio quant’e-
granni ra grande
et l’avea capilli ricci e faccia tonni, e aveva capelli ricci e faccia tonda,
ghianca come la nevi a la muntagni bianca come la neve alla montagna

Come la neve a la muntagna Come la neve alla montagna


Janca come la neve a la muntagna, bianca come la neve alla montagna,
Dio facitela avè sta giovina belle, Dio fammela avere questa giovane bella,
Tinè mi vularria a li soi cumandi belli, Lei mi avrà ai suoi comandi belli,
vojè belli a servì li munachelli, voglia bella a servire i monacelli,
e si monaca ti faje isso eremiti si farà e se monaca ti fai lui eremita si farà

E si monaca ti faje isso eremiti si farà E se monaca ti fai lui eremita si farà
e tu diciarraje la messa e isso la servirà. tu dirai la messa e lui la servirà.

178
Vojè belli cchiù lucenti so’ li stelli voglia bella più lucenti sono le stelle
e de quanne n’aje amati tu mi pari la cchiù bella! e di quante ne ho amate tu mi sembri la
più bella!

Per addentrarsi al meglio in quel determinato periodo storico,


per capirne l’inedia e anche la trasmissione del sapere, riporto
una lettera autografa di Antonio Piccininno (Carpino 1916), che
con Andrea Sacco e Antonio Maccarone hanno tramandato le
più belle melodie del Gargano.

“Oggio 18 giugno 2007 penso io quando sono nato.


Il 16 Febraio 1916. A sei mesi o perduto mamme e patre e mi
anno crisciuti i nonni materni.
A 7 anni soi iniziato il mio travaglio, mi mandarono alla scuo-
la. Ma il primo anno fui bocciato.
Il nonno per ripicco mi mandò nei boschi a guardare l’aine
(agnelli). I tembi allora erano tristi e si sofriva la fame e il freddo,
scarpe allora non li putavamo combrà, de soldi cinerano pochi. E
noi poveretti purtavamo i zambitti ricavato dal cuoio delle muc-
che e dei cavalli ma quando piovevo stavamo sempre bagnato
dalla matina alla sera. Stavo nei boschi a mesi, non putevo venire
al paese, la strata era lunga e mezzi non ginerano, cierano asine
mule cavalli e stando londano la pulizia era poco e ciera la su-
diciume dapertutto così si creavano addosso pulci e pidocchi e
questi inzetti li abbiamo tenuti fino a dopo la guerra. Poi, crazie
alla Merica che a purtato il flitte ci siamo liberati da tanti cattivi
inzetti. Presso l’agnelli non avendo diffà imbarrai quei canti che
cantavano l’anziani, a parole. E così tutti i giorni cantavo questi
sunetti d’ammore che lu ragazzo purtava come serenate alle ra-
gazze. Poi sono diventato grandicello e mi sono ritirato al paese
e inzieme a quelli più grandi di me andavamo cantando le sere-
nate. Poi con la televisione che cantavano canti moderni la gente
179
anno abandonati questi canti nostri e ci sono dati alla modernità
però io e altri miei combagni l’abbiamo sempre tenuti attivi e le
teniamo angore adesso.
Oggi, grazie ai ricercatore delle andichità, cianno dato la possi-
bilità di girare l’Italia e ango allestero e siamo conosciuto da tanti
Paese. Ripeto crazie a tutti loro che cianno dato spazio e non dico
altro. Saluti a tutti quello che leggeranno questi frasi raccondato
da me Antonio Piccininno.
P.S. scusatomi dei sbaglie, che io a scrivà così, milisono barato
da me alla melio che o potuto.”41.

La vita di Piccininno è forse per grandi linee applicabile a tutti


i coetanei di poesia e canto che in forma orale hanno tramandato
testi e musiche. La canzone, d’altronde, nasce solo se c’è un testo
poetico alle spalle. Figli della guerra e dello stento, figli della fati-
ca di uno spicchio di meridione come ebbe a definirli un’altro mo-
lisano illustre, Francesco Jovine, autore anch’esso di tanti scritti:
“Quando incontrerai le prime ulivelle magre, in bilico sui dirupi,
con i rami stenti tormentati dalla bufera, allora sarai in Contado
di Molise”.

Quanto all’Abruzzo, Pasolini ritiene che il Canzoniere di questa


regione sia tra i più autenticamente e deliziosamente popolare.
A questa terra lavorano il De Nino (1881) e il Finamore (1886),
per ogni canto e poesia possono trovarsi una dozzina di varianti,
anche se spesso il ‘testo primo’ è da ricondursi a un testo lazia-
le, umbro o toscano. Si segnalano la raccolta U picurare. Canti
popolari abruzzesi a cura di Cesare Bermani che vede tra i suoi
interpreti Mariateresa Bulciolu e Giovanna Marini.

E siamo alla Lucania, magrezza letteraria e poetica, Ce-


41
Salvatore Villani, Antonio Piccininno. Cantatore e raccoglitore dei canti popolari di
Carpino, Rignano Garganico 2008, pp. 15-18.

180
nerentola del Meridione la chiama Pasolini nel Canzoniere, a
sottolinearne la bibliografia poverissima: «…dopo Levi, dopo
Scotellaro, sembra non esserci più nulla». Il trentenne Scotella-
ro scrive due incompiute opere, pubblicate postume col titolo
di Uva puttanella e Contadini del Sud, risultati di un vasto
programma di esplorazione del comportamento culturale, re-
ligioso e sociale dei contadini meridionali. Nel 1944 fonda a
Tricarico la sezione del Partito Socialista, divenendone sinda-
co a soli 23 anni. Partecipa con i braccianti all’occupazione
delle terre del 1949-1950 e per questo incarcerato sotto la fal-
sa accusa di peculato. Tra le sue opere É fatto giorno del 1954
vince il premio Viareggio.

VERDE GIOVINEZZA

C’è tempo quando abbondano lucertole nelle vigne


e a qualcuna nuova coda inazzurra,
quando nei campi spuntano covoni impazienti di fuoco
e la cicala assorda e mi tappa l’orecchio alle campane,
alle canzoni, al lungo richiamo di mamma
che mi rivuole vicino e suo.
Quando la fiumara è bianca…
Allora mi voglio scolare l’orciuolo
e coricarmi in terra
senza memoria più, della verde giovinezza.

Tralasciando ora i canti di protesta come A lu suone de gran-


cascia, Battan l’otto, Gorizia, Sentite buona gente o le poesie legate
ai riti di morte e malattia in cui si manifesta, specie nel meridio-
ne, un forte carattere di autonomia culturale nei confronti della
tradizione cattolica e ben diversa dal valore che alla morte viene
attribuito nel nord, si accenna ora alle ninne nanne.
L’obiettivo delle ninne-nanne è quello di far addormentare
181
il bambino, qualsiasi testo, melodia e ritmo può essere utiliz-
zato per perseguire tale scopo. Ma talvolta l’autrice, che ne è
anche il cantore, approfitta della canzone per dare libero sfogo
ed esprimersi contro l’antifemminismo congenito della società
patriarcale. I temi ricorrenti sono l’esser sedotta e abbandona-
ta, matrimonio quale unica soluzione possibile di sistemazione,
rassegnazione alla miseria e alla sottomissione, il rapporto con
la suocera. Dalla Toscana una ninna nanna raccolta da Leydi e
Carpitella a San Casciano dei Bagni nel 1954 dal titolo Fate la
ninna nanna.

E io de li stornelli n’ho un tegame,


se fussero porpette sarèn bone
ma li stornelli nun levano la fame.
(R) Fate la ninna e fate la nanna, stò cittino de la mamma!

Avevo un cavallino brizzolato, contava i passi che facea la luna:


avevo un bel morino e m’ha lasciato.
si vede nell’amor non ho fortuna...
(R) Fate la ninna...

Avevo un cavallino senza coda e con la fune lo teneo legato;


e gira e gira la fune s’annoda, fa come l’omo quann’è ‘nnamorato.
(R) Fate la ninna...

Credeo che la mì socera m’amasse


e l’erba amara la mangiano li grilli;
me so’ seccate le foglie alla vite,
me so’ finite le parole amate.
(R) Fate la ninna...

Credo che la mì socera m’ammasse


182
e invece, porco cane, la mi tradiva;
diceva al mì morin non mi lasciasse e un’altra più bellina prov-
vedea.

A chiusa della rassegna ancora due poesie, la prima di Igna-


zio Buttitta42, imperniata sull’importanza della lingua dialettale,
accorato appello perché non vada a scomparire, la seconda dello
stesso Pasolini, tratta da Poesia in forma di rosa, rafforzativa del
suo legame indissolubile con la tradizione e le radici.

Lingua e dialettu

Un populu Un popolo
mittitilu a ‘catina mettetegli la catena
spugghiatulu, spogliatelo,
attuppatici a vucca, tappategli la bocca,
è ancora libiru. è ancora libero

Livatice u travagghiu, Levategli il lavoro,


u passaportu, il passaporto,
a tavola unni mancia, la tavola dove mangia,
u lettu unni dormi, il letto dove dorme,
è ancora riccu. è ancora ricco.

Un populu, Un popolo,
diventa poviru e servu diventa povero e servo

42
Tra i pochi poeti contemporanei che hanno scelto di esprimersi in dialetto siciliano,
Ignazio Buttitta (Bagheria 1899 –Bagheria 1997) rivolge la sua produzione letteraria
alla storia sociale, politica, intellettuale della Sicilia. I suoi versi hanno vivo impegno
sulle cause e conseguenze del disagio economico delle classi subalterne, vivendo in
prima persona le lotte contadine, le due guerre, l’antifascismo, la lotta contro la mafia
e la classe politica post-bellica.

183
quannu ci arribbanu a lingua aduttata quando gli rubano la lingua adottata dai padri
di padri

è persu pi sempri. è perso per sempre.

Diventa poviru e servu Diventa povero e servo


quannu i parroli nun figghianu paroli quando le parole non figliano parole

e si mancinu tra d’iddi e si mangiano tra loro

Minn’addugnu ora, Me ne accorgo ora,


mentri accordu a chitarra du dialettu mentre accordo la chitarra del dialetto

ca perdi na corda lu juornu… che perde una corda al giorno…

IO SONO UNA FORZA DEL PASSATO

Io sono una forza del Passato.


Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare,


dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.

Giro per la Tuscolana come un pazzo,


per l’Appia come un cane senza padrone.

O guardo i crepuscoli,
le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,

184
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età sepolta.

Mostruoso è chi è nato


dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.

Dopo la disamina di queste liriche è lecito chiedersi dove sia


finita la cultura in Italia!
L’esserè, quello pensante dei dissoi logoi, oggi non pensa più:
appare.
La stiamo facendo oggi, a quarant’anni dall’assassinio di Pa-
solini, elaborando o rielaborando il pensiero, la prosa, la poesia,
il cinema e il teatro di Pier Paolo. Colui che ben vide, veggente
probo di un tempo, quello del ’68, in cui riassunse come i sessan-
tottini di allora sarebbero addivenuti la peggiore classe borghese
d’Italia.
E allora mi domando, tra dieci, vent’anni ci sarà ancora una
cultura in Italia, un esistenzialismo più che mai vaneggiato in
questo non-tempo, in questi non-luoghi; chi ‘culturerà’ e accultu-
rerà in futuro in una società dominata dal solo Panem et circenses
di Giovenale43 memoria.
Qualcuno un ventennio orsono l’ha capito, dubito conoscesse
Giovenale, ma ne ha fatto il suo cavallo di battaglia: annullare le
menti e riprendere i bestiari medievali per evitare che la gente
pensi, sia critica e razionale di fronte a un mondo indotto da un
“tana libera tutti”, dalla mancanza di ‘bellezza’, concedendo alla
tv, calcio, politica e belle signorine i primari bisogni dell’uomo.
E così, azzardandone il rischio, siamo finiti in un eracliteo
43
Giovenale, autore satirico latino. Amò descrivere l’ambiente in cui viveva, dove chi
governava adduceva a sé il consenso popolare con distribuzioni di grano (panem) e
l’organizzare di grandiosi spettacoli pubblici (circenses).

185
pánta rêi, lasciando scorrere senza contrastare o almeno chiaro-
scurare un lento fluire dove la corrente porta e una controcorren-
te sbiadisce. Mancano i giovani perché manca l’insegnamento,
scriviamo e componiamo oramai solo per il ‘circolo della cultura’,
quasi fossimo illuministi tra gli illuminati.
Le foto di Plutone di qualche mese orsono gettano nuove luci
sull’universo, ma la notizia giunge seconda al leghista di turno
che propaga odio, mentre Plutone emana la sua luce come in un
lottare e difendermi pasoliniano. Società oggi meno spontanea,
talvolta finzione di un consumismo, più che di un popolare, reli-
gioso e assorto sentimento collettivo in cui un sempre più gene-
rico prossimo, Pier Paolo lo avrebbe chiamato ‘sottoproletariato’,
dovrebbe amarsi davvero. E invece siamo incolonnati in rotatorie
senza fine, chiusi tra le pareti di un centro, più centri, troppi
centri commerciali, ‘non luoghi’ per eccellenza, che sostituiscono
l’agorà greca, il foro romano, la piazza, con questo luogo dove
tutti sono e tutti vanno, contenitori solitari dell’omogeneità.
Mi rifuggo allora nell’Amarcord felliniano (forma dialettale ro-
magnola di a m’arcord, io mi ricordo), nell’esistenzialismo di Pa-
solini e tra i poeti miei e d’altre lande, quelli più semplici, di sana
umiltà contadina o pastorale, analfabeta presenza che m’arrecu-
rodene della vita, della terra, difendendo ciò che deve continuare
a essere in me e senza di me.
Io… contemporaneo di nuovo millennio non obbligato a tacere
o costretto a sviolinare luoghi e persone senza assumere un punto
di vista, pensare e pesare con le parole di ciò che mi circonda.

186

Potrebbero piacerti anche