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Paola Italia

Leopardi e Man zon i.


Due m etodi a con f ronto

1. Premessa (a titolo di ringraziamento)

Nel primo saggio delle Carte mescolate,1 Dante Isella cominciava


con queste parole il “libretto” che – nonostante l’aristocratico un-
derstatement – avrebbe dato basi scientifiche allo studio delle va­
rianti d’autore; era la prolusione con cui, nel 1978, egli iniziava il
suo insegnamento sulla cattedra di Storia della letteratura italiana
al Politecnico Federale di Zurigo (inaugurata cent’anni prima da
Fran­cesco De Sanctis), che avrebbe tenuto fino al 1988:2

Chi si è trovato, in questo dopoguerra, a militare (non importa se da ca­


pitano o da semplice gregario) nei campi della critica letteraria e della
filologia, ha vivissimo il senso che gli sia toccato in sorte di vivere una
delle stagioni piú mosse e appassionanti della propria disciplina.3

Ecco, non avrei mai accettato di affrontare un tema cosí impe­


gnativo, se non fosse stato per il desiderio di testimoniare un’altra
stagione che mi è « toccato in sorte » di vivere, e che ha segnato la
mia vita e miei studi degli ultimi dieci anni: piú che da « semplice
gregario », direi da « manovale » e con Gadda forse meglio da « ma­
gütt » di due laboratori filologici d’eccezione: l’edizione critica del
Fermo e Lucia diretta da Dante Isella, dove ho condiviso il lavoro

1. D. Isella, Le carte mescolate, Padova, Liviana, 1979; se ne veda ora la nuova
edizione in Id., Le carte mescolate vecchie e nuove, Torino, Einaudi, 2009, pp. 7-28.
2. Si veda ora, per una ricostruzione dei fecondi rapporti tra Isella e il Ticino,
il documentato e partecipe saggio di O. Besomi, Dante Isella e il Ticino, in « Archi­
vio storico ticinese », xlv 2008, pp. 67-94.
3. Isella, Le carte mescolate vecchie e nuove, cit., p. 7; su quell’eccezionale « anno
degno di essere vissuto » sono uscite ora le memorie dello stesso studioso: D.
Isella, Un anno degno di essere vissuto, Milano, Adelphi, 2009.

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con Barbara Colli e Giulia Raboni,4 e quella che è stata realizzata


in parallelo da un gruppo di lavoro – di cui ho fatto parte con Cri­
stiano Animosi, Maria Maddalena Lombardi, Federica Lucche­
sini, Rossano Pestarino e Sara Rosini – diretto da Franco Gavazze­
ni, per l’edizione critica dei Canti di Giacomo Leopardi.5 Due
progetti che si sono svolti in parallelo nei medesimi anni – dal 1999
al 2006 – e che si sono conclusi con la pubblicazione delle due
edizioni, a pochi mesi di distanza l’una dall’altra. L’avere avuto sul
tavolino (e sullo schermo del computer) per sette anni i mano­
scritti di questi due grandi scrittori e avere potuto partecipare alla
progettazione delle loro edizioni, è stata un’esperienza straordina­
ria e irripetibile, che è l’unica ragione di questo mio intervento. La
recente scomparsa di questi due grandi maestri rende quest’espe­
rienza ancora piú preziosa. A loro vorrei dedicare queste riflessio­
ni, come testimonianza di riconoscenza e affetto.
La bipartizione del titolo non riguarda solo una fenomenologia
degli autografi e del modo di lavorare dei due autori, di cui vorrei
qui trattare alcuni tratti generali, ma anche la necessaria ricaduta
ecdotica di questa fenomenologia, se è vero che la filologia non ade­
gua a modelli preesistenti i suoi oggetti, ma adatta i modelli agli
oggetti stessi, nella ricerca di un sistema di rappresentazione che
sia sempre piú soddisfacente e opportuno. Due metodi a confron­
to saranno quindi in soggettiva, di lavoro degli autori, e in oggettiva,
di edizione dei loro manoscritti.

2. Leopardi versus Manzoni

Prima di affrontare gli autori, però, mi sembra utile trattare bre­


vemente un aspetto del problema che riguarda l’evoluzione stori­

4. A. Manzoni, Fermo e Lucia, ed. critica dir. da D. Isella, a cura di B. Colli, P.
Italia, G. Raboni, Milano, Casa del Man­zoni, 2006.
5. G. Leopardi, Canti, ed. critica dir. da F. Gavazzeni, a cura di C. Animosi, F.
Lucchesini, M.M. Lombardi, P. Italia, R. Pestarino, S. Rosini, 2 voll., Firenze,
Presso l’Accademia della Crusca, 2006 (è uscita nel 2009 una ristampa che include
anche l’ed. critica delle Poesie disperse).

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leopardi e manzoni. due metodi a confronto

ca della disciplina, o meglio delle discipline: la filologia d’autore e la


critica delle varianti, strettamente correlate fra loro, ma anche stret­
tamente legate, piú che ad altri, ai nostri due autori. Che la critica
delle varianti si sia esercitata piuttosto sugli autografi di Leopardi
che su quelli di Manzoni è un fatto storico, se è vero infatti che si
è soliti segnare con l’edizione critica dei Canti di Moroncini del
1927 la nascita del primo strumento scientifico per la rappresenta­
zione delle varianti d’autore, con il 1937 la nascita della critica del­
le varianti con il saggio di Gianfranco Contini Come lavorava l’Ario-
sto 6 e con il 1947 i primi « esercizi » della disciplina con il « botta » e
« risposta » tra Giuseppe De Robertis e lo stesso Contini sulle pa­
gine di « Letteratura ».7 Un fatto storico, ma non naturale. Perché,
in una prospettiva non solo filologica, ma piú ampiamente lettera­
ria e linguistica, sarebbe stato molto piú ovvio che la filologia d’au­
tore si fosse esercitata sulle varianti d’autore manzoniane, che ave­
vano occupato gli studiosi della seconda metà dell’Ottocento ben
piú di quelle leopardiane, basti pensare al florilegio di studi di ogni
tipo sulle correzioni dalla Ventisettana alla Quarantana, nelle loro
varie declinazioni.
Ma a che punto era la filologia manzoniana, all’altezza del 1927?
Già da piú di un ventennio erano noti, dall’edizione dello Sforza, i
Brani inediti dei ‘Promessi sposi’, pubblicati da Hoepli nel 1905, e un
decennio era trascorso dall’edizione integrale degli Sposi promessi di
Giuseppe Lesca procurata nel 1916.8 Ma se guardiamo la seconda

6. Dove la critica seguiva con straordinario tempismo la filologia di Santorre


Debenedetti, che aveva pubblicato, nel medesimo 1937, i Frammenti autografi del-
l’ ‘Orlando Furioso, Torino, Chiantore.
7. Cfr. G. De Robertis, Sull’autografo del canto ‘A Silvia’, in « Letteratura », viii
1946, fasc. 31 pp. 1-9 (poi in Id., Primi studi manzoniani e altre cose, Firenze, Le Mon­
nier, 1949, pp. 150-68), seguito dalla risposta di G. Contini, Implicazioni leopardia-
ne, ivi, ix 1947, fasc. 33 pp. 102-9 (poi in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di
saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 41-52), e dalla replica di G. De Rober­
tis, Biglietto per Gianfranco Contini, ivi, ix 1947, fasc. 34 pp. 117-18 (poi in Id., Primi
studi manzoniani, cit., pp. 169-72).
8. A. Manzoni, Gli sposi promessi, per la prima volta pubblicati nella loro inte­
grità di sull’autografo da G. Lesca, vol. i, Napoli, Perrella, 1915.

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edizione del testo manzoniano – pubblicata tra l’altro un anno do­


po quella di Moroncini: 1928 –9 ci rendiamo conto dell’abisso che
corre tra le due. Pur avendo alle spalle altre due edizioni, quella
manzoniana sembra realizzata nella preistoria della filologia d’au­
tore, laddove quella leopardiana apre le porte della modernità della
disciplina. Ciò è evidente anche solo ad un’analisi meramente tipo­
grafica dei due strumenti, dove la perizia di impaginazione e di so­
luzioni grafiche della Moroncini (alcune delle quali risultate anco­
ra valide nell’edizione critica diretta da Gavazzeni) non teme con­
fronti con la povertà e la secchezza grafica dell’edizione di Lesca.
Un’arretratezza grafica ed ecdotica, che non poteva non solle­
vare obiezioni. E infatti, se ripercorriamo analiticamente le tappe
del dibattito sulla critica delle varianti, vediamo che il testo da cui
scaturí la celebre polemica Croce-Contini, era stato proprio quel­
lo di Lesca, che aveva suscitato le critiche di Ernesto Giacomo Pa­
rodi del 1946, a cui aveva reagito nel medesimo anno Giuseppe De
Robertis con un intervento sull’opportunità di capire i mecca­
nismi dei testi entrando « nel segreto » della loro composizione.10
All’intervento di De Robertis erano seguiti nell’ordine: la stronca­
tura crociana sugli « scartafacci » degli scrittori,11 una nuova rispo­
sta polemica di De Robertis, dedicata proprio ai Promessi Sposi,12
l’intervento di Nullo Minissi su « Belfagor » in polemica contro la
nuova corrente critica13 e, infine, il celebre articolo di Gianfranco
Contini La critica degli scartafacci,14 che rivendicando la legittimità

9. A. Manzoni, Gli sposi promessi, per la prima volta pubblicati nella loro inte­
grità di sull’autografo da G. Lesca, seconda edizione ampliata e corretta (Edizio­
ne del centenario 1827-1927), Napoli, Perrella, 1928.
10. G. De Robertis, Nel segreto del libro, in « Risorgimento liberale », 22 settem­
bre 1946.
11. B. Croce, Illusione sulla genesi delle opere d’arte, documentata dagli scartafacci degli
scrittori, in « Quaderni della Critica », iii 1947, num. 9 pp. 93-94 (poi in Id., Nuove
pagine sparse, Bari, Laterza, 1966, pp. 238-39).
12. G. De Robertis, La via ai ‘Promessi Sposi’. Capire distinguendo è un bel capire, in
« Corriere di Milano », 30 marzo 1948.
13. N. Minissi, Le correzioni e la critica, in « Belfagor », iii 1948, pp. 94-97.
14. G. Contini, La critica degli scartafacci, in « Rassegna d’Italia », iii 1948, pp.

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leopardi e manzoni. due metodi a confronto

di uno studio diacronico e non sincronico della letteratura, ave­


­va scritto l’atto di fondazione scientifica della disciplina. L’origine
“man­zoniana” della critica delle varianti, quindi, è solo un dato
« genetico », perché gli interventi di critica delle varianti vera e pro­
pria si appuntano poi tutti, come abbiamo visto, su Leopardi. Ve­
dremo poi come questo dato genetico non sia cosí irrilevante.
Torniamo invece alle ragioni di questa discrepanza tra le due
filologie, manzoniana e leopardiana; una discrepanza che non è
stata priva di ricadute sugli studi linguistici e critici (si pensi, ad
esempio, al fatto che della grande assente degli studi manzonia­
ni – come la definí Nencioni – la « Seconda minuta », su cui si im­
pianta il primo lavoro linguistico di toscanizzazione del romanzo,
non si possiede ancora non solo un’edizione critica, ma nemmeno
un’e­dizione).15
La prima ragione, dicevo, risiede sicuramente nella maggiore
difficoltà presentata al filologo dalla formalizzazione delle varian­
ti d’autore di un testo in prosa. Tecnicamente, l’apparato verticale
ideato da Moroncini e poi applicato in varie altre edizioni che si
sono uniformate al modello moronciniano (a partire dalle Myricae
di Giuseppe Nava del 197416 fino alla nuova edizione critica dei
Canti di Emilio Peruzzi del 1981)17 si adatta solo al testo poetico (e
a volte nemmeno a quello),18 data l’impossibilità di segmentare il

1048-56 e 1156-60 (ora in Id., La critica degli scartafacci e altre pagine sparse, con un ri­
cordo di A. Roncaglia, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1992, pp. 1-32).
15. All’edizione critica della « Seconda minuta » stanno lavorando Barbara Col­
li e Giulia Raboni, per l’Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Alessan­
dro Manzoni. Si vedano intanto gli importanti contributi di G. Raboni, Dove
“giace la lepre”? Note sulle postille manzoniane alla Crusca, in « Spogliare la Crusca » (scrit-
tori e vocabolari nella tradizione italiana), a cura di P. Gibellini, C. Marazzini, G. Ra­
boni, Milano, Unicopli, 2008, pp. 41-57; Ead., La scrittura purgata. Sulla cronolo­
gia della Seconda minuta dei ‘Promessi sposi’, in « Filologia italiana », 5 2009, pp. 191-
208.
16. G. Pascoli, Myricae, ed. critica a cura di G. Nava, Firenze, Sansoni, 1974.
17. G. Leopardi, Canti, ed. critica a cura di E. Peruzzi, con la riproduzione
degli autografi, Milano, Rizzoli, 1981.
18. Si vedano le osservazioni sull’impossibilità di rappresentare fasi sintattiche

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testo per unità discrete e in sé coerenti (la paragrafatura, infatti,


utile parcellizzazione topografica del testo, non corrisponde in
alcun modo ad unità genetiche ed è inutilizzabile per l’apparato).
E infatti, per i testi in prosa, si è adottato esclusivamente un appa­
rato di tipo orizzontale, piú o meno « parlato » o « simbolico ».19
A questo fattore se ne deve aggiungere un altro di tipo materia­
le: la grande difficoltà di una decifrazione delle carte manzoniane,
difficoltà che non è solo di tipo quantitativo (per la mole del lavo­
ro e per la quantità di correzioni sulla singola pagina), ma qualita­
tivo. Mi riferisco in particolare al problema presentato dal primo
tomo del Fermo e Lucia e dai capitoli trasposti, che appartengono
fisicamente tanto alla prima redazione del romanzo, quanto alla
sua revisione nella « Seconda minuta », su cui le due stesure si sono
materialmente sovrapposte. Su questo punto cruciale dei mano­
scritti manzoniani torneremo. Per ora basti riconoscere anche in
una difficoltà di tipo materiale il ritardo della filologia manzonia­
na su quella leopardiana.
Vero è che il percorso congiunto delle due discipline, filologia
d’autore e critica delle varianti, con tutte le implicazioni che ha
avuto nella cultura del secondo dopoguerra, salvo la polemica di
esordio, non tocca gli studi manzoniani, che restano per cosí dire

complesse e in enjambement con un apparato di tipo verticale nell’Introduzione


all’ed. critica dei Canti diretta da F. Gavazzeni, cit., vol. i pp. xxvii-xxviii.
19. La maggiore difficoltà ecdotica dei testi in prosa giustifica anche i problemi
sorti per l’edizione critica dello Zibaldone; si vedano al proposito le importanti
osservazioni di Marco Dondero sulla prima pagina dello Zibaldone, confrontato
con l’edizione Pacella e con la riproduzione anastatica del manoscritto fornita da
Peruzzi, sull’impossibilità di verificare le campagne correttorie dovute a diversi
inchiostri e alla particolare topografia del testo; osservazioni da cui discende la
valutazione stessa dell’opera leopardiana come scritta di getto (ipotesi Pacella)
oppure come bella copia di testi precedenti non conservati (ipotesi Peruzzi) o
conservati solo in parte (ipotesi del gruppo di lavoro della Biblioteca Nazionale
di Napoli). Cfr. M. Dondero, Il trionfo degli scartafacci. Le edizioni critiche del secondo
Novecento, in Leopardi a Milano. Per una storia editoriale di Giacomo Leopardi, a cura di
P. Landi, Milano, Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori, 1998, pp. 77-97, in
partic. le pp. 86-92; Id., Filologia leopardiana. Sul decimo volume dell’edizione fotografica
dello ‘Zibaldone’, in « Rassegna della letteratura italiana », ci 1997, pp. 89-98.

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fermi all’edizione Lesca fino al piano editoriale stabilito da Miche­


le Barbi nel 1939,20 ripreso da Fausto Ghisalberti nell’articolo ap­
parso sul medesimo numero degli « Annali manzoniani »,21 con cui
si gettavano le basi dell’edizione critica dei Promessi sposi che avreb­
be visto la luce nei « Classici italiani » Mondadori vent’anni dopo,
nel 1958. Se si rileggono – sotto questo aspetto – le pagine di Barbi,
e si pensa che solo due anni prima era nata, con il saggio del 1937
di Contini, la critica delle varianti (che ancora nel 1948 Contini
stesso chiamava « critica delle correzioni »),22 sembra davvero che
gli studi sulla letteratura italiana appartengano a due pianeti diver­
si. Infatti, mentre ferveva – come si è visto – sulle riviste, la varian­
tistica leopardiana, la severa valutazione dei maldestri tentativi ec­
dotici di Lesca portava Barbi e Ghisalberti a scegliere una soluzio­
ne che avrebbe reso questa separazione “ecdotica” ancora piú evi­
dente: Leopardi versus Manzoni.
Per giustificare questa affermazione è necessario entrare un po’
piú nel dettaglio tecnico. La soluzione fornita da Lesca, infatti, se
da un lato era presentata come insoddisfacente per Barbi e Ghisal­
berti, che non avevano esitato ad accusare il Lesca di avere « stipato
e mescolato confusamente nelle note a piè di pagina quanto di pre­
zioso può esser spigolato nelle correzioni manzoniane, con una tal
zavorra di scorie disseminate per via dallo scrittore – ripetizioni,
anticipazioni involontarie di parole che si ritrovan poco sotto, zep­
pe tosto evitate, trascorsi insomma di penna, e persino mozziconi
di parole senza alcun senso »,23 dall’altro però aveva sfidato le diffi­
coltà dell’autografo manzoniano, tentando una trascrizione, se

20. M. Barbi, Piano per un’edizione delle opere di A. Manzoni, in « Annali manzo­
niani », i 1939, pp. 23-153, in partic. pp. 82-94; poi raccolto in Id., La nuova filologia e
l’edizione dei nostri scrittori da Dante a Manzoni, Firenze, Sansoni, 1958 (si cita dalla
seconda ed., ivi, id., 1973, pp. 195-227).
21. F. Ghisalberti, Per l’edizione critica dei ‘Promessi sposi’, in « Annali manzonia­
ni », i 1939, pp. 241-82.
22. Contini, La critica degli scartafacci, cit., p. 17.
23. F. Ghisalberti, Note all’ed. A. Manzoni, Fermo e Lucia. Dall’autografo alle stam­
pe del ‘Fermo e Lucia’, Milano, Mondadori, 1958, p. 764; Barbi aveva rincarato la do­-
­se dichiarando che « fra tante futilità il lettore, se non sia armato di pazienza fra­

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pure disarticolata, di tutti i dati del manoscritto: « una vagheggiata


riproduzione fotografica, data, diciamo cosí, tipograficamente ».24
Nell’apparato degli Sposi promessi, infatti, troviamo tutti gli ele­
menti testuali del manoscritto del Fermo e Lucia, giustapposti pe­rò
l’uno all’altro senza – e qui sta il punto – che si istituisca tra di essi
un rapporto diacronico e senza che vengano messi in relazione
con la loro lezione definitiva, ma anzi rappiccandoli alla lezione
precedente del testo cui geneticamente avrebbero dovuto far se­
guito.25 Proprio questa disarticolazione dell’apparato provoca la
condanna di Barbi/Ghisalberti ed il loro deciso rifiuto di un ap­
parato esaustivo, per un apparato di tipo selettivo che registri solo
« quelle particolarità che possono aver interesse come varia lezio­
ne, come tentativo, come sforzo nella ricerca dell’espressione, dan­
do senz’altro l’ostracismo ai pentimenti o sgorbi senza importan­
za ».26 Se la motivazione dell’operazione filologica di Barbi e Ghi­
salberti era di non praticare una filologia disgiunta dalla critica, il
risultato era però una filologia ritagliata sulle esigenze della critica,
e che si traduceva in un apparato in cui venivano rappresentate

tesca, finisce col rinunziare a cercare quello che veramente è degno d’esser nota­
to » (Barbi, Piano per un’edizione, cit., pp. 35, 44 e sgg.).
24. Manzoni, Gli sposi promessi, cit., p. xiii.
25. Un esempio dell’apparato Lesca, tratto dal primo capitolo del romanzo
varrà a illustrare questa fenomenologia. Le varianti sono riferite a questa porzio­
ne di testo: « 1Quel ramo del lago di Como d’onde esce l’Adda e che giace fra due
catene non interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno, dopo aver forma­
ti varj seni e per cosí dire piccioli golfi d’ineguale grandezza, si2 viene tutto ad un
tratto a ristringere;3 ivi4 il fluttuamento delle onde si cangia in un corso5 diretto e
continuato, di modo che6 dalla riva si può per dir cosí, segnare il punto dove il
lago divien fiume ». Apparato: « 1Quel ramo del lago di Como [che] donde esce
l’Adda | Alla estremità del ramo | Sulla riva meridionale del ramo del [Lario]
Lario che | Quel ramo del lago di Como d’onde esce l’Adda e che giace fra due
catene non interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno, dopo aver forma­
ti varj seni e per cosí dire piccioli golfi d’ineguale grandezza, si – 2[ristringe alla
fine | viene alla fine a ristringer per tal modo che ristringe] – 3per tal modo, e ri­
avvicina le sue [ri] due riviere a segno che si può [dire] fissare che a quel punto il
lago cessi e il fiume cominci [si può | manifesta e] a cambiare l’ondeggiamento –
4
vario – 5diretto e seguito che – 6si può ».
26. Ghisalberti, Note, cit., p. 765.

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solo le varianti piú chiare e di agevole lettura, quelle piú facilmen­


te raffrontabili con la lezione finale, e venivano invece tralasciate
quelle incompiute, quelle indecifrabili, i « mozziconi di parole ».27
Le varianti scelte, però, nonostante fossero piú articolate sintatti­
camente, erano giustapposte le une alle altre senza una seriazione
dia­cronica, come nell’apparato Lesca, tanto da inficiare spesso il sen­
so complessivo della genesi del testo e da risultare, alla fine, non
piú utilizzabili a livello critico dei « mozziconi di parole » dell’ap­
parato di Lesca (come mostra infatti la scarsità degli studi scaturiti
dall’edizione dei Classici Mondadori).
Cosa è cambiato nell’ultimo ventennio, per quanto riguarda la
filologia d’autore? E da quali acquisizioni provengono le due edi­
zioni gemelle del 2006? Canti e Fermo e Lucia sono stati realizzati in
una fase già avanzata della disciplina, in cui, da un ventennio circa,
era stato già messo a punto da Isella il metodo ecdotico di rappre­
sentazione delle correzioni manoscritte nel triplice filtro testuale
inaugurato dall’edizione del Racconto italiano di ignoto del Novecento
di Carlo Emilio Gadda (Torino, Einaudi, 1983): 1) apparato, 2) va-
rianti alternative, 3) postille, rappresentanti ciascuno un determina­
to livello testuale – rispettivamente della genesi del testo (1), della
sua possibilità evolutiva (2) e della riflessione metatestuale dell’au­

27. Questa la formalizzazione della prima pagina del Fermo e Lucia (la medesi­
ma porzione di testo riportata nella n. 25) nell’ed. Ghisalberti: « 1. Alla estremità
del ramo Sulla riva meridionale del ramo del Lario 2. a ristringere per tal modo e
riavvicina le due riviere a segno che si può dire che a quel punto il lago cessi e il
fiume cominci. a ristringere e a cambiare l’ondeggiamento; ivi il fluttuamento
vario 3. corso diretto e seguito che 4. le due rive, e che aumenta il corso e il rumo­
re fluviale dell’acque il corso dell’acqua e le dà un rumore per cosí dire fluviale
compisce all’occhio le due rive, gli argini perpendicolari che non lasciano venir
le onde a battere sulla riva ma le costringono in un letto, e le fanno correre sotto
gli archi con uno strepito per cosí dire assolutamente fluviale rendono ancor piú
sensibile all’occhio questa trasformazione rende ancor piú sensibile all’occhio e
alla fantasia questa subita trasformazione poiché ivi cessano le rive poiché invece
di batter sovra 6. e l’uomo seduto presso e stando presso gli argini 7. e dove ella
viene a rompersi in onde sull’arena, e dove scorre tra rotta dai piloni » (Ghisal­
berti, Note, cit., p. 786).

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tore su di esso (3) – e aventi ciascuno una precisa formalizzazione


nell’edizione critica:
1) per l’apparato si tratta di un rapporto di subordine grafico (a
piè di pagina) e tipografico (in corpo minore) rispetto al testo, su­
bordine che può diventare anche estrema sudditanza quando l’ap­
parato viene relegato in fondo al volume, oppure assurgere a una
maggiore dignità quando vi si dedica un intero volume e un corpo
tipografico identico a quello del testo (come nel caso del­l’edizione
Isella del Fermo e Lucia);
2) per le varianti alternative il rapporto con il testo invece è di
pariteticità, tipografica (vengono impaginate al piede, richiamate
da un esponente alfabetico) e grafica (hanno lo stesso corpo tipo­
grafico del testo), perché in quel punto non sappiamo se l’autore,
in una successiva revisione del manoscritto, avrebbe scelto la va­
riante alternativa o la lezione a testo e quindi lo statuto delle va­
rianti alternative deve essere pari a quello del testo stesso;
3) per le postille, la posizione rispetto al testo è di servizio, sia dal
punto di vista tipografico che grafico: sono pubblicate in fondo al
volume, richiamate all’interno dell’edizione, nel suo margine ester­
no, da un uncino rovesciato, qualcosa di simile a quelle maniculae
che negli antichi testi manoscritti venivano utilizzate per soffer­
mare l’attenzione del lettore su un particolare del testo stesso.
Questa semplice distinzione di livelli testuali è però la premes­
sa a molte edizioni critiche realizzate dallo stesso Isella o dalla sua
scuola, che hanno contribuito a fornire soluzioni ecdotiche speci­
fi­che,28 edizioni che mostrano una sempre piú significativa evo­
luzione verso un apparato diacronico e sistemico, realizzato compiu­
tamente nelle due edizioni leopardiana e manzoniana. Se, infatti,
all’inizio (anche nello stesso apparato del Racconto italiano) l’inten­
to del filologo è quello di rappresentare tipograficamente la com­

28. Si pensi, selettivamente, all’ed. delle Operette morali di Ottavio Besomi, di


contro ad es. all’ed. critica dello Zibaldone di Pacella (nei confronti puntuali di
Marco Dondero, rispetto all’autografo dell’ed. Peruzzi, in Dondero, Il trionfo de­
gli scartafacci, cit., pp. 86-92).

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leopardi e manzoni. due metodi a confronto

plessa fenomenologia del testo, di darne una trascrizione tipogra­


fica attraverso abbreviazioni e simboli, negli apparati realizzati ne­
gli anni Novanta si è teso sempre di piú a rappresentare le fasi del­
l’evoluzione di un testo; fasi legate le une alle altre da un rapporto dia­
cronico. Non quindi: come la variante si realizza graficamente in
rapporto al testo superato (soprascritta, sottoscritta, inserita, ascrit­
ta, ecc.), ma: come la variante si può mettere in rapporto diacroni­
co con la variante precedente. La differenza principale – e la prin­
cipale difficoltà nella realizzazione dell’apparato – sta nella con­
frontabilità delle fasi con il testo finale, nella loro individuazione
relativamente ad un « sistema ». Cito dall’edizione Gavazzeni dei
Can­­ti:
Nell’apparato […] la porzione di testo coinvolta in variante (quella che
precede la parentesi quadra) è sempre direttamente raffrontabile con la
variante, o le varianti stesse, in modo da potere essere studiata diretta­
mente e autonomamente, senza ricorrere al testo.29

Il principale vantaggio di questo apparato è quindi la sua autono­


mia, la possibilità per lo studioso di seguire la genesi del testo svin­
colata dalla sua rappresentazione fotografica (molto agevolata,
tuttavia, dalla possibilità di avere riproduzioni digitali ad alta defi­
nizione). Non quindi apparati che servano per una migliore inter­
pretazione dell’autografo, ma apparati che siano essi stessi un’in­
terpretazione dell’autografo, tanto da rendere la sua lettura una
verifica, in parallelo, del lavoro di interpretazione filologica e di
analisi critica. Vero è che per realizzare questo tipo di apparati è
necessario dedicare molto piú tempo rispetto al passato all’analisi
del manoscritto, per cercare di capire piú profondamente il “mec­
canismo” della correzione, della costruzione linguistica, in poesia
o in prosa. Perché altro è rappresentare tipograficamente le va­
rianti, altro è disporle in un sistema diacronico. Vale la pena quin­
di di entrare brevemente nei laboratori dei due scrittori, con qual­
che esempio.

29. Gavazzeni, Introduzione a Leopardi, Canti, cit., vol. i p. xlii.

503
paola italia

3. Manoscritti e metodi leopardiani

Della fenomenologia dei manoscritti leopardiani sappiamo mol­


to, soprattutto dopo che Gavazzeni, intitolando continianamente
il proprio saggio leopardiano: Come copiava e correggeva Leopardi,30 e
riprendendo le sue osservazioni sui testi poetici da quanto Ottavio
Besomi aveva già notato sugli autografi in prosa,31 ha cosí sintetiz­
zato il metodo di lavoro di Leopardi:
Leopardi, dopo avere esemplato quella che riteneva la lezione ultima a
quell’altezza cronologica, continua a copiare da una fonte – un dossier di
carte non pervenutoci – che, oltre a consentirgli di ricavare il testo prov­
visoriamente ultimo, anche gli offriva i dati genetici dell’elaborazione,
insieme alle probabili varianti alternative. Varianti genetiche, varianti al­
ternative e altro ancora, vengono cosí a costituire quella varia lectio cui l’au­
tore ricorre, subito per le correzioni che interlinea, e poi, piú raramente,
in occasione delle modifiche attestate nelle stampe successive alla prin-
ceps. Da tutto ciò si deduce che, di massima, Leopardi dapprima esempla
il testo, quindi registra a piede di pagina le varianti (che, in subordine, ma
con eccezioni, talvolta occupano i margini o il capo pagina), e infine pas­
sa a correggere il testo base.32

Su questo tema compositivo, articolato nei tre momenti distinti


di: 1) copiatura del testo (a cui corrisponde il testo copiato in pu­
lito); 2) annotazioni della varia lectio (costituita da varianti vere e
proprie, note di certificazione linguistica o fonti e autocommen­
ti); 3) correzioni sul testo (corrispondente alle correzioni tardive
apportate sul manoscritto), Leopardi inserisce alcune « variazioni »
(in alcuni casi, infatti, le fasi 2 e 3 sono unite fra loro e la varia lec­
tio entra direttamente in gioco nella correzione del testo; la fase 2,
inoltre, non è sincronica, ma stratificata in varie « serie corretto­

30. F. Gavazzeni, Come copiava e correggeva Leopardi, in Id., Studi di critica e filologia
sull’Ottocento e il Novecento, Verona, Valdonega, 2006, pp. 409-20.
31. Cfr. O. Besomi, Introduzione, in G. Leopardi, Operette morali, ed. critica a
cura dello stesso, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1975, pp.
lxi-lxii.
32. Gavazzeni, Come copiava e correggeva Leopardi, cit., pp. 410-11.

504
leopardi e manzoni. due metodi a confronto

rie », ovvero strati di varianti e annotazioni apposti successi­va­


mente).33 In particolare, tralasciando le prime tre canzoni, dove le
correzioni si instaurano su copie delle rispettive principes, a partire
dal Bruto minore è possibile distinguere tipologicamente i testi del­
le Canzoni da quelli degli Idilli, che, pur con problemi individuali,
condividono con i Canti pisano-recanatesi la quasi totale assenza,
nella varia lectio, di citazioni e autocommenti.34
Due fenomenologie che corrispondono a due diversi progetti
poetici: da un lato la sperimentazione della « poetica del pellegri­
no » delle Canzoni del 1824 (entro una tradizione letteraria che do­
veva essere riconosciuta e perfino sbandierata), dall’altro la nuova
poesia dei Versi del 1826 e ancor piú dei Canti del 1831 che non ha
piú bisogno del corpo a corpo con i pedanti, che ha lasciato la poe­
tica del « pellegrino », per seguire quella del « vago » e dell’« inde­
finito ».35 Che conseguenze ha questa fenomenologia dei mano­
scritti leopardiani sul metodo ecdotico scelto per la loro rappre­
sentazione? Vediamole partitamente sui tre livelli testuali indicati
da Isella: apparato, varianti alternative e postille.
A) Apparato. Nell’edizione Gavazzeni, che mette a testo l’ulti­

33. Nell’ed. critica citata se ne ipotizzano alcune, in particolare in relazione al


testo delle Annotazioni e agli autori consultati da Leopardi.
34. « In generale, le dieci Canzoni pubblicate in B24 registrano una massiccia
presenza della varia lectio, da legare direttamente, anche se non esclusivamente,
alla necessità e all’impazienza del giovane poeta di giustificare a sé stesso e al mon­
do letterario le ragioni sottese alle sue scelte linguistiche, apparentemente etero­
dosse, ma in realtà in linea con la piú canonica tradizione italiana (B24, come è
noto, viene pubblicata con un autocommento d’autore: le Annotazioni). Nell’Epi-
stola al Pepoli, nel Risorgimento e in A Silvia, le varianti sono meno numerose, ma
vengono collocate sempre nel margine sinistro o destro (a volte il foglio viene
diviso a metà lasciando la colonna rispettivamente destra o sinistra bianca per
accogliere le correzioni). Con le Ricordanze, la Quiete dopo la tempesta, il Sabato del
villaggio, il Canto notturno, la situazione cambia e “le varianti, comprese entro pa­
rentesi tonde […] vengono trascritte contestualmente” » (Gavazzeni, Introduzione
a Leopardi, Canti, cit., vol. i pp. xi-xii).
35. Possiamo verificare direttamente sugli autografi le due fenomenologie,
mettendo a confronto il manoscritto del Bruto minore e quello, ad esempio, della
Quiete dopo la tempesta (vd. tavv. 1-2).

505
paola italia

ma lezione ricostruibile dal manoscritto, l’apparato è interamente


genetico e vengono indicate con opportune didascalie le varianti
apposte con altra penna (segnalando nelle Note filologiche i loro ap­
parentamenti). La prima conseguenza ecdotica è costituita dalla ri­
duzione al minimo dell’apparato genetico, in particolare di quello
dedicato alla rappresentazione delle varianti immediate, che sono
scarsamente documentabili e possono al piú testimoniare, con i
frequenti errori da copista, lo status di copia in pulito del testo base;
le varianti sono tutte tardive, stratificate però in varie serie corret­
torie.36
B e C) Varianti alternative e postille. Questi due elementi vanno
trattati congiuntamente perché insieme vengono esemplati sul
manoscritto, dove la varia lectio è costituita infatti da elementi di­
versi: varianti alternative vere e proprie; note di certificazione linguistica
e osservazioni metatestuali. Proprio la presenza di differenti tipologie
testuali ha reso necessaria una rappresentazione particolare, per
cui nell’edizione Gavazzeni è stato utilizzato lo strumento ecdo­
tico messo a punto da Moroncini nel 1927, e costituito dall’isola­
mento in una zona ben identificata del testo di tutto il materiale
della varia lectio.37 Alla comodità della soluzione, che comporta an­
che un maggiore rispetto della genesi della varia lectio e del legame
indissolubile tra le sue varie componenti, si opponeva però la ne­
cessità di distinguere tali componenti nella loro individualità, an­
che per studiarne meglio le reciproche interazioni. Necessità che
è stata realizzata mediante l’adozione di marcatori tipografici spe­
cifici per le specifiche componenti testuali: il testo (varianti alterna-
tive) è stato separato cosí dal metatesto (note di certificazione lin­
guistica e postille) mediante l’adozione di un fondino grigio che

36. Si vedano gli esempi in Gavazzeni, Come copiava e correggeva Leopardi, cit.
37. Diverso il trattamento riservato a questi materiali linguistici dallo stesso
Moroncini (che riporta tutta la varia lectio, comprendente postille e varianti alter­
native, in un riquadro) e da Peruzzi (che inserisce la varia lectio, indifferenziata,
sot­to l’apparato); si vedano le osservazioni in Gavazzeni, Introduzione a Leopardi,
Canti, cit., vol. i pp. xvii-xviii e xxiv-xxv.

506
leopardi e manzoni. due metodi a confronto

contraddistingue quest’ultimo, permettendone un’iden­tificazio­


ne im­mediata nel riquadro della varia lectio.38
Con questa soluzione ecdotica – ultima frontiera delle edizioni
critiche cartacee prima della loro trasformazione in ipertesti vir­
tuali – si è cercato di rispettare la fenomenologia dei manoscritti
leopardiani e contemporaneamente di adattare la loro rappresen­
tazione alle esigenze dello studioso. È infatti proprio in questi le­
gami tra il testo, l’apparato e la varia lectio nelle tre componenti (va­
rianti, note di certificazione linguistica e autocommenti), che si
racchiudono le « implicazioni leopardiane ». Viene allora naturale
riconsiderare lo statuto delle varianti alternative, che nei mano­
scritti di Leopardi, in particolare quelli dei Canti pisano-recanatesi,
non si pongono in posizione sussidiaria rispetto al testo, ma fini­
scono per invadere lo spazio grafico del verso, dialogare con esso,
relegare la lezione a testo a variante superata, promuovere a testo
quella alternativa, mediante un gioco – solo apparentemente sem­
plice – di parentesi tonde e quadre. Gioco che Moroncini aveva
creduto di riportare a una distinzione sistematica (tra parentesi qua­
dre che racchiuderebbero varianti “preferite” rispetto a quelle rac­
chiuse tra tonde), e che invece, a una piú attenta analisi dei mecca­
nismi correttori si rivela piú complesso,39 e ha richiesto una for­
malizzazione particolare40 che rendesse evidente la doppia natura

38. Ivi, p. xliii.
39. Si veda ad es. la dinamica tonde e quadre nelle Ricordanze: « La scelta della
quadra potrebbe essere finalizzata a destinare alle varianti un segno diacritico non
equivoco, che non possa cioè essere confuso con un segno interpuntivo come è di
fatto la tonda (utilizzata come tale anche in questo componimento, al v. 126, e in
prima istanza al v. 166 del ms.). Ma dopo il v. 70 Leopardi non riesce a tener fede
al suo proposito, e l’uso piú facile della tonda prende il sopravvento, senza che egli
si preoccupi di lí in avanti di ‘correggere’ le tonde in quadre, come aveva fatto ai
vv. 10, 12, 20, 28, 48, 53. In piú: le parentesi tonde presenti fino al v. 70 (conviventi
con le quadre, che di lí in avanti verranno abbandonate) indicano chiaramente
varianti apportate successivamente alla scrittura del testo (e non contestualmente
ad essa, come furono quelle in quadre), nell’ambito di una revisione del medesi­
mo, come si evince dai vv. 38, 49, 58, 59 » (Leopardi, Canti, cit., vol. i p. 400).
40. La soluzione proposta nell’edizione Gavazzeni è la seguente: « tutto ciò
che sta fra parentesi si è posto nel riquadro destinato alla v.l., anche ciò che è dive­

507
paola italia

di queste varianti, a cavallo tra testo, varianti alternative e varianti


genetiche.41
Da queste osservazioni discende che, nonostante i manoscritti
leopardiani siano belle copie e quindi appartenenti a un momento
successivo la genesi del testo, essi tuttavia vengono trattati dall’au­
tore come se fossero prime stesure, poiché il testo su di essi esem­
plato non è considerato definitivo, ma in continua evoluzione, in
uno stato di continua « approssimazione al valore »42 che permette
al poeta di recuperare, anche tardivamente, varianti depositate sul
manoscritto tempo addietro (molte risalenti a un ventennio pri­
ma) e farle interagire con il nuovo testo, fin negli ultimi stadi dei
Canti napoletani: la « Starita corretta ». E la riprova piú evidente di
questa vitalità delle carte leopardiane è la loro collocazione: non a
Recanati, insieme alle carte del poeta consegnate ormai alla prei­

nuto v.l. pur essendo in origine a testo. In questi casi, quando cioè una lezione fa
parte dapprima del testo e poi risulta ‘squalificata’ a v.l. perché a testo ne subentra
un’altra, si è preceduto cosí (vedi vv. 38, 49, 58, 59, 73, 90, 140, 169): a testo lezione
definitiva; in apparato l’elaborazione che porta alla lezione definitiva con le indi­
cazioni: – (v.l. e numero di verso) quando la v.l. diviene variante accolta a testo; – (→
v.l. e numero di verso) quando una variante scartata diventa v.l. Alle indicazioni (v.l.
e numero di verso) e (→ v.l. e numero di verso) si affida in sostanza la segnalazione
della particolare tipologia di queste lezioni, che vengono di fatto registrate due
volte, nelle due fasce d’apparato onde manifestare la loro natura mutevole tra
testo e variante alternativa. Quando la variante dalla v.l. passa a testo, nel riquadro
di v.l. la si formalizza in grassetto (per indicare l’assunzione a testo) e in corpo
minore (per indicare che di fatto non appartiene piú alla v.l.): cfr. p. es. v. 59 »
(Leopardi, Canti, cit., vol. i pp. 400-1).
41. Si veda la formalizzazione dell’apparato della Quiete dopo la tempesta (ivi,
pp. 441-43).
42. « Vi sono essenzialmente due modi di considerare un’opera di poesia: v’è
un modo, per dir cosí, statico, che vi ragiona attorno come su un oggetto o risul­
tato, e in definitiva riesce a una descrizione caratterizzante; e vi è un modo dina­
mico, che la vede quale opera umana o lavoro in fieri, e tende a rappresentarne
drammaticamente la vita dialettica. Il primo stima l’opera poetica un “valore”; il
secondo, una perenne approssimazione al “valore”; e potrebbe definirsi, rispetto a quel
primo e assoluto, un modo, in senso altissimo, “pedagogico” » (G. Contini, Come
lavorava l’Ariosto, in Id., Esercizi di lettura sopra autori contemporanei, con un’appendice su
testi non contemporanei, Torino, Einaudi, 1974; si cita dall’ed. ivi, id., 1982, pp. 232-41,
in partic. pp. 233-34, corsivi miei).

508
leopardi e manzoni. due metodi a confronto

storia delle varie stagioni leopardiane (erudita, filologica, e anche


della poesia giovanile), ma a Napoli, insieme a lui, a testimonianza
di un lavoro continuo sul testo che è anche – come scrisse De Ro­
bertis – la « sincronizzazione all’ultima stagione delle stagioni pre­
cedenti »43 e che è la ragione profonda dell’unità e della coerenza
di un organismo cosí complesso, ma cosí straordinariamente com­
patto come i Canti.

4. Manoscritti e metodi manzoniani

Proprio in conseguenza di una radicale diversità di atteggia­


mento poetico (o forse a causa di questo), per Manzoni il tratta­
mento dei propri autografi segue linee opposte a quelle individua­
te per Leopardi. Se, infatti, Leopardi tratta le belle copie come pri­­
me stesure, Manzoni fa il contrario, lavorando sulle prime stesure
e imponendo ad esse – naturalmente finché può, dal punto di vista
compositivo e linguistico – la definitività delle belle copie, di un
testo stabilito in una forma che egli desidera fortemente (anche se
non riesce a ottenerla) definitiva. E con la differenza che di “bello”
i manoscritti manzoniani hanno solo il nome, perché si tratta di
veri e propri rompicapi grafici in cui, all’interno del gruppo di la­
voro sull’edizione del Fermo e Lucia, ci domandavamo spesso come
avesse fatto a orientarsi cosí bene l’ancora anonimo estensore della
« copia per la censura ». L’affermazione, di fronte a un testo da sem­
pre definito « in fieri » come il Fermo e Lucia, e da ultimo pubblicato
in edizione critica con una fascia di lezioni dubbie che rivoluzio­
nano gli stessi criteri della filologia, tenuta, per deontologia profes­
sionale, a dare “un testo” (ma, come vedremo, si tratta di una fascia
dubbia per i curatori, non certo per l’autore…) sembrerebbe para­
dossale, e richiede pertanto un’illustrazione piú dettagliata degli
autografi manzoniani e del metodo di lavoro dell’autore.
Sappiamo per certo, ormai, che i primi materiali che si sono

43. D. De Robertis, Il sistema della poesia, in Leopardi, Canti, ed. G. e D. De


Robertis cit., p. xxxiv.

509
paola italia

conservati presso la Biblioteca Nazionale Braidense, e che ci testi­


moniano la complessa genesi del Fermo e Lucia non sono belle co­
pie, ma prime stesure del romanzo. Ne è stata una riprova, duran­
te il lavoro di edizione critica, anche l’assenza di quegli errori da
copista che invece permettono (se non convincesse a sufficienza la
facies dei manoscritti) di riconoscere negli autografi leopardiani
delle belle copie. Sono quindi prime stesure, che testimoniano la
reale genesi del testo, dalla prima idea, che è appena un abbozzo
di frase, un tentativo sintattico, un « mozzicone di parole » (come
avevano definito Barbi e Ghisalberti i materiali dell’apparato Le­
sca), fino alla frase compiuta. E nel dire “frase compiuta” non in­
tendo dire “definitiva”, il che snaturerebbe tutto il lavoro man­
zoniano, ma “provvisoriamente valida”, ritenuta conclusa in quel
particolare momento della stesura. Se il testo rimane incompiuto
lo è per ragioni soggettive contingenti (mancanza di documen­
tazione, come nel caso delle gride) o oggettive e materiali (è cadu­
ta una parte di testo che non possiamo recuperare). La volontà, la
strenua battaglia per giungere ad un testo definitivo, traspare da
ogni pagina, nonostante le correzioni genetiche immediate (che
testimoniano la difficoltà di giungere a una prima formulazione
del discorso) e quelle tardive (che ci raccontano la straordinaria
avventura di uno scrittore « alla ricerca della lingua »).44
Da questo punto di vista i manoscritti di Leopardi e Manzoni
sono uno specchio fedele di due atteggiamenti opposti: a una poe­
tica dell’indefinito e del vago, riflesso di una poesia che deve illu­
dere il falso, Manzoni contrappone una poetica del definito, del
reale, riflesso di una letteratura che deve avere per oggetto il « ve­
ro ». Ma qual è il metodo di lavoro di Manzoni? E quali ricadute ha
sulla formalizzazione delle sue correzioni? Dei due poli possibili
di lavoro sul testo, in specie del testo in prosa: il primo, molto co­
mune, che si basa sull’incremento progressivo di una lezione base
su cui si innestano correzioni e varianti, per lo piú in direzione di

44. Sul lavoro compiuto da Manzoni sul primo tomo della prima minuta, si
veda ora Raboni, La scrittura purgata, cit.

510
leopardi e manzoni. due metodi a confronto

un ampliamento (metodo che annovera seguaci anche linguistica­


mente antitetici come Bembo e Gadda), e il secondo, piú vicino
alla michelangiolesca « arte del levare », che riduce progressivamen­
te un testo inizialmente ipetrofico alla sua essenzialità (metodo
ariostesco per eccellenza),45 Manzoni si situa in una posizione in­
termedia, ben riconosciuta da Isella come una progressiva « messa
a fuoco » dell’oggetto rappresentato, mediante un’individuazione
sempre piú precisa dei particolari. Non quindi, un’evoluzione per
progressive « aggiunte », ma per precisazione, focalizzazione del
dettaglio.
Quali sono le conseguenze di questo modo di lavorare sui testi
sul metodo di rappresentazione delle loro correzioni? Vediamole
in progressione, seguendo il triplice filtro testuale che abbiamo
analizzato anche per Leopardi:
A) Apparato. Per quantità e qualità delle correzioni è necessario
adottare un apparato diacronico (nel caso del Fermo e Lucia, in cui
si è scelto di dare a testo l’ultima lezione ricostruibile dal mano­
scritto, un apparato genetico) che dia conto delle diverse fasi di costi­
tuzione del testo. Un apparato che rappresenti nel modo piú chia­
ro possibile le varie fasi in cui sono articolate le correzioni (e non
già la loro parcellizzazione, piú semplice da rappresentare, ma di­
sarticolata con l’organismo complessivo), e le loro divaricazioni
interne.46 Il risultato presenta l’organica ricostruzione di tutte le

45. Contini, Esercizi di lettura, cit., p. 238.


46. Si veda, a confronto con quelle di Lesca e Ghisalberti, qui riprodotte alle
nn. 25 e 27, la formalizzazione delle correzioni della prima, celebre pagina del
Fermo e Lucia (tav. 3) e si noti, in particolare, l’ampiezza della proposizione di rife­
rimento nel testo finale – soprattutto la porzione di 1b-c/2 rende … fluviale – in
rapporto alla frammentazione degli apparati delle edizioni precedenti (il testo
finale si legge nell’ed. critica cit., pp. 29-30):
1 Quel ramo … Adda] prima 1Quel ramo del lago di Como che donde esce
l’Adda 2Alla estremità del ramo 3Sulla riva meridionale del ramo del Lario Lario
che  1a-b/1 viene … fiume.] 1ristringe alla fine 2viene alla fine a ristringer per tal
modo che 3ristringe 4viene tutto ad un tratto a ristrin gere per tal modo, e riavvicina
le sue ri‹viere› due riviere a segno che si può adire (di- su da) che a quel punto il lago
cessi e il fiume cominci. b(sps.) fissare i‹l› | 1b si può manifesta‹mente› 5viene tutto ad un

511
paola italia

componenti testuali di un processo, laddove gli apparati prece­


denti davano solo alcuni selezionati elementi del medesimo pro­
cesso, separati fra loro.
B) Varianti alternative. Il considerare i propri testi compiuti (o
meglio: tendenti a una forma definitiva) ha come conseguenza
una forte riduzione delle varianti alternative, che testimoniano
una momentanea incertezza terminologica o stilistica, ma che si
situano canonicamente ai margini del testo, in posizione sussidia­
ria, e vengono rappresentate a piè di pagina, nello stesso corpo del
testo, richiamate nel testo da esponenti di tipo alfabetico. Un di­
scorso a parte va fatto per le varianti dubbie, che figurano nell’appa­
rato Isella precedute da una freccia bicuspide, a documentazione
della possibilità di appartenere all’ultima fase di revisione della

tratto a ristringere | 1b e a cambiare l’ondeggiamento il fluttuamento vario delle


onde in un corso diretto e seguito che diretto e continuato *di modo (agg.) che si può
dalla riva si può per dir cosí segnare il punto dove il lago divien fiume. → T
1b 2 congiunge] prima l‹ › 1b-c/2 rende … fluviale.] 1e che aumenta il corso e
il rumore fluviale *dell’acqua (riscr.), dell’acqua, e le da per cosí (c- su d) un rumore per
cosí dire fluviale compisce all’occhio rende ancor piú sensibile all’occhio questa
trasformazione. → 2gli argini che non lasciano battere perpendicolari (ins.) che non
lasciano venir (v- su le) le onde a battere sulla riva ma le costringono in un letto, e
le fanno correre sotto gli archi con uno strepito per cosí dire assolutamente flu­
viale, rendono ancor piú sensibile all’occhio questa trasformazione. rendono ancor piú
sensibile all’occhio questa subita trasformazione → 3rende ancor piú sensibile
all’occhio *ed all’ ed alla fantasia (ins.) questa subita trasformazione. 4rende ancor
piú sensibile all’occhio ed all’orecchio questa trasformazione poichè gli argini
non lasciano perpendicolari che lo fiancheggiano non perm‹ettono› lasciano | 1c
venir le onde a (ins.) battere sulla riva ma le avviano rapide (r- su c) sotto gli archi;
a
e l’uo‹mo› be chi ce l’uomo seduto presso de stando presso gli argini ee dove e presso a
quegli argini l’ uno può sentire il doppio e diverso rumore dell’acqua, e dove ella
viene a rompersi in onde sull piccioli cavalloni sull’arena, e dove scorre travolta dai
piloni di macigno scorre sotto gli archi con uno strepito per cosí dire fluviale. →
T {poichè … lasciano] la lez. in rigo su f. 1b è sostituita da lez. identica dopo una serie di
tentativi tutti as. sulla col. sx del f. 1c: 1poichè cessano le rive 2poichè gli argini perpen­
dicolari che lo fiancheggiano non lasciano (segue veni‹r› cass. per riutilizzo della lez. in
rigo) 3poichè ivi cessano le rive 4poichè gli argini perpendicolari che lo fiancheg­
giano non lasciano 5poichè invece di battere sovra 6T (segue venir cass. per riutilizzo
della lez. in rigo) quasi] ins.}.

512
leopardi e manzoni. due metodi a confronto

« Prima minuta », ovvero del Fermo e Lucia, oppure alla prima revi­
sione della « Seconda minuta », ovvero degli Sposi Promessi.47 Non si
tratta infatti di varianti dubbie per l’autore (ché altrimenti sareb­
bero varianti alternative), ma di luoghi in cui l’analisi del mano­
scritto non permette di attribuire il testo a una fase piuttosto che
all’altra e i curatori, diversamente da Ghisalberti che preferiva di­
vinare le volontà manzoniane per una sorta di sovrapposizione di
identità piuttosto che lasciare un luogo dubbio del testo, hanno
dichiarato in questo modo il punto estremo delle loro discussioni,
dei loro dubbi, affidando ai linguisti e agli studiosi futuri la solu­
zione di ciò che, allo stato attuale delle ricerche, non poteva e non
può essere deciso.
C) Postille. Anche le postille – intese come autocommenti d’au­
tore – sono ridotte al minimo, e soprattutto non sono costituite da
materiale eterogeneo, come nel caso di Leopardi, perché il con­
fronto con la tradizione letteraria è svolto da Manzoni fuori del te­
sto, sia spazialmente che temporalmente: le Postille alla Crusca, i po­
stillati di lingua, il libro stesso sulla lingua, non invadono quasi mai
la pagina del testo, cosí come sono distinti anche i loro tempi di rea­
lizzazione.48 Altro discorso vale per le postille di Fauriel e Viscon-
ti, che costellano variamente il testo, e che sono rappresentate a
parte, nella sezione loro dedicata. Un indizio, anche questo, del dif­
ferente metodo di lavoro dei due autori: l’uno chiuso nello splendi­
do, silenzioso isolamento della biblioteca paterna, l’altro immerso
nel vociare degli amici che frequentavano la « Sala Rossa ».

5. Due metodi, due ecdotiche, due critiche

Le due fenomenologie degli autografi che ho messo a confron­


to condividono questa nuova stagione della filologia d’autore, una
filologia per “fasi” in cui non è piú tanto importante la posizione
topografica della variante, se a tale posizione non corrisponde un

47. Cfr. Manzoni, Fermo e Lucia, cit., p. xii (Norme per la lettura, par. 2.1).
48. Si veda su questo aspetto Raboni, Dove “giace la lepre”?, cit.

513
paola italia

dato diacronico, ma il rapporto di una variante con la precedente,


l’identificazione di una fase e la sua posizione nella catena delle
varianti. Ciò che segue la parentesi quadra è quindi direttamen­
te confrontabile con ciò che la precede, ovvero il testo definitivo.
Questo semplice accorgimento ha però una ricaduta fondamenta­
le nel rapporto tra filologia d’autore e critica delle varianti.
Per vedere perché dobbiamo fare un passo indietro e tornare
alla famosa e dibattuta distinzione – esposta da Contini nell’artico­
lo del 1937 su Come lavorava l’Ariosto –49 tra varianti instaurative (« i
rapporti dell’essere al non essere poetico ») e sostitutive (che porta­
no alla « rinuncia a elementi frammentariamente validi per altri
organicamente validi, l’espunzione di quelli e l’inserzione di que­
sti »),50 alla eliminazione delle prime, e alla fondazione della « cri­
tica delle varianti » sulle seconde. Su questa distinzione Contini
torna, dieci anni piú tardi, nella polemica con Nullo Minissi pub­
blicata nella Critica degli scartafacci, precisando l’irriducibilità delle
reciproche posizioni: « le correzioni che io ho chiamato sostitutive
per il Minissi non sono vere correzioni. Si tratta » – e qui sta per
Contini il « brillante ghirigoro dialettico » del fedele crociano – « di
nuova poesia (la variante corrigente) che usufruisce per sua mate­
ria altra poesia (la variante corretta) », tanto da concludere che « tut­
ta la poesia d’ispirazione letteraria è una perpetua correzione ».51
Se quindi, per Minissi, le sostitutive non sono vere correzioni ma
raffronti tra due oggetti già poetici, le vere correzioni sono quel­
le instaurative, poiché conducono dalla « non poesia » alla « poesia »,
ma su queste non è possibile esercitare alcun ragionamento cri­
tico, da cui la sostanziale infondatezza della corrente critica de­
nominata « pedagogica ». Quanto a ortodossia crociana il ragiona­
mento non fa una piega, ma nel saggio su La critica degli scartafacci
(che Minissi non doveva avere letto, ma ricavato da quello di De
Robertis), Contini aveva postulato l’esatto contrario, ovvero la pos­

49. Si cita da Contini, Esercizi di lettura, cit., p. 234.


50. Ibid.
51. Ivi, p. 27.

514
leopardi e manzoni. due metodi a confronto

sibilità di costruire un’analisi critica sulle correzioni sostitutive e non


sulle instaurative, proprio per non « proporre un nuovo canone me­
todologico », e anzi per ribadire « un aspetto dello stesso metodo
[crociano] pedagogicamente differenziato » (questo il passaggio
del testo da cui Minissi aveva ricavato la definizione di critica « pe­
dagogica »).52
Che il piano del discorso continiano fosse quello del “valore”
nell’accezione crociana, e non quello della “materialità” della cor­
rezione ha ben spiegato Isella, dopo che le varianti instaurative e
quelle sostitutive erano state erroneamente identificate con varian­
ti « genetiche » (le instaurative) ed « evolutive » (le sostitutive).53 Bi­
­sogna ricordare, tuttavia, che se è vero che Contini utilizza i ter­
mini in accezione idealistico-crociana e non filologico-testuale, è
anche vero che la distinzione tra le due categorie di varianti non
poteva prescindere dalla loro accezione corrente: varianti instau-
rative, a indicare le porzioni di testo introdotte ex novo, varianti so­
stitutive per le correzioni da un testo a un altro testo. Accezione
adottata, tra l’altro, nella medesima edizione critica dei Frammenti
ariosteschi, dove il parco, ma acuto esercizio di lettura di Debene­
detti si era svolto prevalentemente sulle prime, rintracciando nel­
le varianti instaurative, come aveva sottolineato lo stesso Contini
nella sua recensione, l’« approssimazione al fantasma e la sua defi­
nizione ».54 Accezione, infine, che persiste nella vulgata degli stu­
di letterari, storico-filologici, nonché filosofici, venendo progres­

52. Ivi, p. 15.
53. Cfr. Isella, Le carte mescolate vecchie e nuove, cit., pp. 12-13 (e in partic. la n. 11
a p. 13: « Il predicato di “instaurative” e “sostitutive” si applica alle varianti corri­
spondenti ai “due stati ben distinti” […]. Non pare ne abbia inteso correttamente
la distinzione chi, invece che alla non presenza o alla presenza, frammentaria o
organica, del “valore”, ha creduto di doverlo riferire alla materialità dell’instau­
rarsi di una lezione o del suo sostituirsi ad altra lezione. Né risultano comprensi­
bili le ragioni per cui, secondo F. Brambilla Ageno […] le “varianti instaurative”
apparterrebbero all’apparato genetico, le sostitutive a quello apparato evoluti­
vo »); e si vedano anche, nel medesimo volume, i saggi “nuovi” Contini e la critica
delle varianti e Ancora della filologia d’autore, pp. 229-30 e 237-38.
54. Contini, Esercizi di lettura, cit., p. 234.

515
paola italia

sivamente a perdersi l’originaria accezione idealistica continia­


na.55
Sulle conseguenze critiche di una sopravvalutazione delle va­
rianti sostitutive, dovuta alla volontà di trovare « una spiegazione
autosufficiente del processo elaborativo », è intervenuto, piú di una
decina di anni fa, Fabio Finotti, riconoscendo alcuni limiti a una
critica che appuntasse l’attenzione sulle varianti relative alla « sto­
ria e forma dell’espressione » piuttosto che a quelle relative alla
« storia e forma del contenuto ».56 Ne discendeva – nella lettura di
Finotti – un’interpretazione circoscritta agli aspetti linguistico-for­
mali del testo,57 elementi all’origine di quel « meccanicismo » nell’a­
na­lisi continiana, recentemente riconosciuto anche da un profon­
do conoscitore della poesia leopardiana come Emilio Peruzzi.58
Credo, tuttavia, che la svalutazione da parte di Contini delle va­
rianti instaurative, oltre ad essere la declinazione ecdotica di ciò che
poteva non cozzare contro la critica crociana (che rimanda a una
cultura, ora cosí lontana, dove davvero non si poteva essere « anti­
crociani » ma solo « post crociani »),59 sia stata anche la naturale
conseguenza della mancanza di un loro adeguato sistema di rap­

55. Si veda ad es. l’applicazione rigorosa della distinzione « instaurative/sosti­


tutive », in accezione filologico-testuale, in A. Bruni, Modelli e interferenze nell’esor-
dio di Pirandello drammaturgo: ‘La morsa’, in « Cuadernos de filología italiana », 5 1998,
pp. 175-87, alle pp. 182-84.
56. F. Finotti, La storia finita. Filologia e critica degli scartafacci, in « Lettere italia­
ne », xlvi 1994, pp. 3-43.
57. Ivi, p. 29.
58. E. Peruzzi, Varianti di ‘A Silvia’, in Leopardi a Pisa. … cangiato il mondo ap-
par…, a cura di F. Ceragioli, Milano, Electa, 1997, pp. 156-63.
59. Sull’influenza di Croce su Contini si veda al proposito il contributo di Gui­
do Lucchini (Croce in Contini: alle origini della critica stilistica, in Due seminari di filolo-
gia, a cura di S. Albonico, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1999, pp. 213-57), ricor­
dato e contestualizzato da F. Gavazzeni, Critica (delle varianti) e filologia (come ecdo-
tica), in Riuscire postcrociani senza essere anticrociani. Gianfranco Contini e gli studi lette­
rari del secondo Novecento. Atti del Convegno di Napoli, 2-4 dicembre 2002, a cura
di A.R. Pupino, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio France­
schini, 2004, pp. 139-56 (poi, col tit. Critica (delle varianti) e filologia (come ecdotica) in
Gianfranco Contini, in Gavazzeni, Studi di critica, cit., pp. 529-46).

516
leopardi e manzoni. due metodi a confronto

presentazione, tanto da provocare, come bene aveva messo in ri­


lievo Dante Isella nella relazione tenuta nel 1990 a Pavia nel Con­
vegno su Gianfranco Contini, quel « certo qual distacco, quasi una
disinvolta sprezzatura verso l’ineccepibilità scientifica degli stru­
menti a sua disposizione ».60 Un atteggiamento che ribalta da solo
quell’accusa di formalismo prima ricordata, dal momento che la
critica delle varianti viene esercitata anche e proprio su edizioni
« non elaborate da filologi, accolte con proteste persino da lettori di
scarso commercio con la filologia, come quella del Jean Santeuil »61
in una prospettiva di piú ampio respiro culturale, che attraverso
l’analisi dei fenomeni formali giunge al cuore dei contenuti poeti­
ci del testo.
Ma quali edizioni critiche erano a disposizione, nel 1937, all’atto
di fondazione della critica delle varianti? Accanto al « capolavoro
filologico » di Santorre Debenedetti,62 i principali modelli di rap­
presentazione delle varianti d’autore erano l’edizione Moroncini
dei Canti e l’edizione Lesca dei Promessi sposi.63 In entrambi i casi

60. Ora in Isella, Le carte mescolate vecchie e nuove, cit., p. 226.


61. Ivi, p. 227.
62. Un’edizione « fatta con intenti critici », per « rendere facili all’occhio e fami­
liari i manoscritti dell’Ariosto » (Debenedetti, I frammenti autografi dell’ ‘Orlando
Furioso’, cit., p. xxxix), che cerca di dare una risposta – pur senza offrire una siste­
matica soluzione – ai principali problemi della filologia d’autore: relativa com­
pletezza e fedeltà nella documentazione del manoscritto (Debenedetti correg­
ge i trascorsi di penna, ma lascia « le lezioni sbagliate che messer Ludovico pensò
indubbiamente a quel modo », ibid.), separazione tra varianti immediate e tardive
(nei confronti delle lezioni soprascritte « siccome può trattarsi di un mutamento
fatto o scrivendo il verso o a verso compiuto, sarà bene distinguere i due casi », ivi,
p. xxxviii).
63. E di una relativa « familiarità » di Contini, all’altezza del 1937, con gli appa­
rati leopardiani, ha significativamente parlato Luigi Blasucci, mettendo in rela­
zione l’appena pubblicato articolo su Come lavorava l’Ariosto con la recensione
uscita sul « Meridiano di Roma » nello stesso 1937 al libro di P. Bigongiari, L’ela-
borazione della lirica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1936, in cui – di fronte al metodo
« impressionistico-ermetico » del critico « vociano » nella ricostruzione della poe­
sia dei Canti – colpisce come il giovane filologo « lasciasse cadere un’occasione
cosí propizia per inserirsi a sua volta nel discorso sulle correzioni dei Canti »; di­
scorso che sarebbe giunto dieci anni dopo nel celebre botta e risposta con Giu­

517
paola italia

(anche se piú macroscopicamente per il testo manzoniano, per i


motivi che abbiamo detto sopra), l’apparato fornito non era un
apparato diacronico (apparato di fasi cronologicamente distinte), né
un apparato sistemico (apparato regolato sulla confrontabilità tra te­
sto definitivo e variante, sulla autonomia sintattica della variante
rappresentata), ma un apparato sincronico (ovvero fotografico), vol­
to a riprodurre tipograficamente la fisicità delle correzioni sulla
pagina, e un apparato frammentario, dove le varianti venivano rap­
presentare separatamente le une dalle altre, anche se legate fra loro
nel “sistema” testo (ma di questi “legami” l’apparato non dava al­
cuna spiegazione). Un apparato, infine, che non permetteva una
valutazione funzionale delle varianti instaurative, declassate quin­
di, necessariamente, a puri « dirozzamenti dell’espressione » (cate­
goria a cui Croce aveva ricondotto tutte le varianti), ma solo di
quelle sostitutive, di piú semplice rappresentazione e formalizzazio­
ne ecdotica. Nello scorporare dal lavoro del critico le varianti in-
staurative, Contini segnava tuttavia i binari su cui si sarebbe mossa
la critica delle varianti: una critica di varianti sostitutive, esercitata­
si – non a caso – sugli apparati che meglio lo consentivano, come
quello di Moroncini dei Canti che, da questo punto di vita, era
strettamente funzionale, caratterizzandosi anche per uno sforzo/
intervento di razionalizzazione del testo.64
Ma veniamo all’oggi. La nuova fisionomia dell’apparato del Fer-
mo e Lucia (ed. Isella) e dei Canti (ed. Gavazzeni) – questa volta in
sinergia e non in opposizione l’un l’altro –, un apparato non foto­
grafico, ma interpretativo, non sincronico, ma diacronico, non di
topografie, ma di fasi, e soprattutto un apparato sistemico, ovverossia,
come si è detto, un apparato in cui le varianti non siano frammen­
tate, ma accorpate per unità logico-sintattiche, come gli esempi
qui proposti hanno mostrato, ha come conseguenza immediata la

seppe De Robertis sulle pagine di « Letteratura » (L. Blasucci, Su Contini leopar-


dista, in Riuscire postcrociani senza essere anticrociani, cit., pp. 33-47, alle pp. 34-35).
64. Si vedano al proposito le osservazioni in Leopardi, Canti, cit., pp. xiii-
xxi.

518
leopardi e manzoni. due metodi a confronto

possibilità di includere nello studio della genesi dei testi, anche le


varianti instaurative, fino ad oggi sottratte all’analisi critica perché
non rappresentate adeguatamente in un processo diacronico. Tali
varianti vengono a costituire ora uno straordinario materiale di in­
dagine per gli studiosi; un materiale che potrà costituire la base di
partenza di una rinnovata « critica delle varianti »65 che prosegua,
sulle linee di quella continiana, ma piú vaccinata dalle derive del
filologismo variantistico,66 la feconda prospettiva di una visione di­
namica dei testi, intesi come “atti”, organismi in evoluzione e non
come “dati”, oggetti statici; riflesso di una concezione dell’opera
d’arte come « processo storico » e non come « intuizione lirica ». Ope­
ra di « direzioni », non di « contorni fissi ».67
Che il superamento della prospettiva continiana, in uno dei me­
todi piú vitali dell’attuale critica letteraria italiana (e non solo ita­
liana), sia affidato alle edizioni di due allievi, in senso lato, di Con­
tini, mi sembra il lascito piú fecondo del suo insegnamento.68

65. Grazie allo sforzo di interpretazione degli autografi e alla ricostruzione del


processo genetico dei testi in fasi direttamente confrontabili, sarà possibile capire
piú approfonditamente e direi scientificamente le dinamiche della creazione let­
teraria non solo in riferimento all’elaborazione del lessico della lingua, ma alla sua
costruzione sintattica, fino ad ora trascurata dalla critica delle varianti, che – non a
caso – si è prevalentemente concentrata sulla valutazione comparativa di feno­
meni linguistico-stilistici.
66. Su questo punto rimando alle osservazioni (anche se non sempre condivi­
sibili) di R. Rea, Variantistica leopardiana. Origini, orientamenti, problemi, in « Filologia
antica e moderna », x 2000, pp. 119-61, e di Finotti, La storia finita, cit.
67. Contini, Esercizi di lettura, cit., pp. 12-13.
68. Un insegnamento che, come ha ben messo in evidenza Gavazzeni, non ha
mai disconosciuto il magistero crociano secondo cui: « Il “superare” […] è stretta­
mente congiunto al “conservare”; e ogni serio pensatore è destinato ad essere
“superato” in quanto apre la via a piú larghi pensieri, e ad essere, nell’atto stesso,
“conservato”, in quanto il suo pensiero rimane la “premessa” o la “base” di quegli
altri » (da B. Croce, Conversazioni critiche, Bari, Laterza, 1951, p. 71, cit. in Gavazze­
ni, Critica (delle varianti) e filologia (come ecdotica), cit., p. 529).

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