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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II”

DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI

CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN LETTERE MODERNE

TESI DI LAUREA
IN
LETTERATURA ITALIANA

Teorie della lirica moderna

Candidata Relatore
Chiara Maraucci Ch.mo Prof.
N60007939 Bernardo De Luca

Anno Accademico 2021/2022


A chi sa avere il coraggio
di credere in se stesso.
INDICE

INTRODUZIONE…………………………………………...……………………………… p. 1

CAPITOLO I. HUGO FRIEDRICH, LA STRUTTURA DELLA LIRICA MODERNA

1.1 Considerazioni preliminari…………………………………………………………….. 4


1.2 Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé……………………….…………………….………… 7
1.3 La lirica europea nel XX secolo…………………………………….………………..… 16
1.4 Giuseppe Ungaretti, L’Isola………………………………………………………….… 19

CAPITOLO II. GIUSEPPE BERNARDELLI, IL TESTO LIRICO

2.1 Le variazioni storiche di un’idea……………………………………………….……… 25


2.2 Proposte teoriche………………………………………………………………….…… 30
2.3 Fattori di testualizzazione……………………………………….……………….......… 41
2.4 Eugenio Montale, I limoni…………………..………………….…………………….... 44

CAPITOLO III. GUIDO MAZZONI, SULLA POESIA MODERNA

3.1 Le forme dell’arte e la storia degli uomini………………………………………….… 52


3.2 Lo spazio letterario della poesia moderna…………………………………………..… 57
3.3 Antropologia poetica moderna………………………………………………………… 66
3.4 Giacomo Leopardi, L’Infinito……………………………………………………….… 69

CONCLUSIONE. LA MUSICA COME POESIA CONTEMPORANEA

4.1 Guido Mazzoni, Poesia e canzoni…………………………………………………..… 73


4.2 Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura 2016…………………………………..… 77

BIBLIOGRAFIA…………………………………………………………………………… 83

RINGRAZIAMENTI………………………………………………………………………. 85
INTRODUZIONE

Fra la metà del Settecento e la metà del Novecento la poesia occidentale si trasforma. I poeti

acquistano una libertà senza precedenti: possono scrivere in modo oscuro, infrangere le regole

del metro e della sintassi, rinnovare il lessico, eliminare ogni mediazione tra la propria persona

biografica e colui che nei testi dice «io». Sebbene empiricamente sembri chiaro che cosa sia una

lirica, quando si tenta di precisare i contenuti essenziali della nozione, tutto si complica, perché il

confronto con i testi rivela tensioni e differenze apparentemente inconciliabili. L’idea

complessiva sembra sottrarsi a ogni definizione, il genere in questione pare non avere una

delimitazione sicura. Il problema della specificità lirica (quale sia l’esatta natura del testo lirico e

quali siano le marche che lo identificano come tale) costituisce uno dei problemi più aperti della

poetica e della semiologia letteraria attuali. Di fronte a questo dato paradossale e contraddittorio,

diversi studiosi hanno provato ad elaborare delle teorie della lirica moderna.

Questo elaborato si concentra sulle tesi di Hugo Friedrich, Giuseppe Bernardelli e Guido

Mazzoni, contenute rispettivamente nei saggi: La struttura della lirica moderna, Il testo lirico e

Sulla poesia moderna.

La struttura della lirica moderna di Friedrich, pubblicato in una prima edizione nel 1956 e in

una seconda nel 1966, si concentra soprattutto su quelli che, secondo l’autore, sono i maestri

della lirica moderna europea: i francesi del XIX secolo Rimbaud, Mallarmé e il loro precursore

Baudelaire. Tra essi e la poesia novecentesca intercorre un rapporto di comunanza che non si

può definire semplicemente «influenza». Si tratta piuttosto di una comunanza di struttura che

ricorre con costanza nei fenomeni della lirica moderna. Rimbaud e Mallarmé chiariscono le leggi

stilistiche dei poeti di fine Novecento e, a loro volta, questi ultimi chiariscono la modernità di

quelli francesi. Friedrich intende mettere da parte le solite classificazioni e le solite categorie,

così come la tradizionale limitazione della visuale d’analisi su un singolo autore. Il suo obiettivo

1
è quello di scoprire i sintomi della modernità, cioè quei caratteri della lirica moderna che sono al

di sopra delle personalità, delle nazionalità e dei decenni. Per «struttura» egli non intende

qualcosa di rigido, ma la configurazione comune di una serie di numerose composizioni liriche,

che si basa sul rifiuto delle tradizioni classiche, romantiche, naturalistiche e declamatorie.

Nell’ultimo paragrafo del capitolo dedicato a questo libro l’analisi si sposta sul componimento

L’Isola di Giuseppe Ungaretti, che rappresenta un perfetto esempio di quella esperienza di

distacco dalla realtà e di introspezione tipica della lirica moderna descritto da Friedrich.

Nel suo volume Il testo lirico del 2002, Giuseppe Bernardelli tenta, invece, di dare qualche

risposta alla apparente impossibilità di trovare dei contorni certi e definiti per l’idea poetica di

lirica. Anzitutto, egli è il primo a riprendere la questione dalle origini e a proporre una

preliminare ricostruzione della storia generale del concetto, dall’antichità a oggi. Poi, ragionando

sulle ipotetiche peculiarità del discorso lirico, illustra la particolare logica che nella maggior

parte dei casi sottende i testi collocati dalla tradizione e dalla coscienza comune sotto l’insegna

della liricità. Da quella logica dipendono i tratti di superficie che solitamente si assumono nel

tentativo di caratterizzare questo particolare tipo di comunicazione letteraria, che Bernardelli,

inoltre, intende definitivamente scindere dalla nozione di poeticità, con la quale viene spesso

improduttivamente confusa. La poesia I limoni di Eugenio Montale funge da emblema della

definizione che l’autore dà del testo poetico come un tipo di discorso aperto e in presenza, dotato

di una struttura allocutiva e apostrofale che lo rende un ‘discorso dell’io/tu’, anziché un ‘discorso

dell’io’.

Sulla poesia moderna di Guido Mazzoni (2015) è un testo che intende proporre, mediante un

discorso di tipo comparatistico, un’interpretazione unitaria della poesia moderna che vuole

essere valida per tutte le letterature occidentali. Il punto di partenza del suo discorso è costituito

da una ricostruzione genealogica dell’idea su cui si fonda la poesia moderna secondo cui la

scrittura in versi degli ultimi secoli sia diversa da quella premoderna e che abbia al proprio

2
centro il genere lirico. In seguito, traccia una storia delle forme praticate negli ultimi due secoli e

propone una sorta di mappa delle tendenze che compongono quello che lui definisce la

topografia dello spazio letterario della poesia moderna. Nel tentativo di mostrare poi le novità di

questo genere, egli prende come esempio il celebre testo leopardiano L’infinito. Gli idilli di

Leopardi, infatti, sono per Mazzoni i primi testi nei quali possiamo cogliere i segni della

rivoluzione che ha determinato la nascita di un nuovo genere letterario.

Nella parte conclusiva del discorso ci si focalizzerà, infine, sul declino sociale e sulla crisi del

consenso che oggi riguarda proprio la poesia moderna. Al suo posto, una nuova forma d’arte sta

conquistando rapidamente un’alta dignità culturale e un consenso molto vasto: la canzone.

Sebbene si pensi che la musica abbia poco da insegnare a chi interpreta la scrittura in versi, in

realtà nello spazio artistico della canzone potremmo ritrovare dei territori molto simili a quelli

presenti nella topografia letteraria della poesia. Una testimonianza storica di questa evoluzione è

il conferimento del premio Nobel per la Letteratura 2016 al cantautore americano Bob Dylan. Il

problema della equiparazione di musica e poesia e quello della scelta di una definizione più

esclusiva o inclusiva del concetto di letteratura rappresentano i due nodi centrali su cui hanno

dibattuto in modo particolarmente accesso scrittori, poeti e musicisti, portando ad una sorta di

lotta tra coloro che sostengono la decisione del Comitato svedese e chi, invece, vi si oppone.

3
I. Hugo Friedrich, La struttura della lirica moderna

1.1 Considerazioni preliminari

Hugo Friedrich apre il suo discorso critico intorno alla lirica contemporanea dando una

definizione chiara dei due concetti di dissonanza e anormalità. Il primo fa riferimento

all’inaccessibilità e alla oscurità tipiche dei testi lirici del XX secolo. La poesia moderna, infatti,

non descrive la realtà, piuttosto la deforma, la estranea, la sgancia dall’ordine temporale e

spaziale e da qualsiasi forma di ordinamento. Il poeta, d’altro canto, diventa colui che vive nei

panni dell’artista che «esercita gli atti metamorfosanti della sua imperiosa fantasia»1: egli perde

la sua identità privata, si chiude nel suo irreale modo di vedere e nella sua essenza poetante.

Friedrich definisce l’oscurità della lirica una «oscurità di principio»2. Lo stile tipico della poesia

moderna tende a staccare il più possibile segno e significato, opponendo tra loro temi o motivi e

generando una sorta di trauma nel lettore che, più che sentirsi rassicurato, resta sempre in

allarme. È questa quella che Friedrich definisce la «drammaticità aggressiva»3 della lirica. Il

senso di smarrimento è accentuato anche dal fatto che, a partire dalla seconda metà del XIX

secolo, la lingua poetica diventa un esperimento: il vocabolario usuale assume significati

inconsueti e la differenza tra lingua quotidiana e lingua poetica diventa radicale. Queste

caratteristiche conducono direttamente al secondo effetto presentato da Friedrich, quello di

“anormalità”, da non intendere come sinonimo di “degenerazione”. Il lettore ricava dalla poesia

anteriore le sue unità di misura e attraverso esse definisce un testo normale o anormale, a

seconda del grado di vicinanza rispetto ai modelli di partenza. Anche in questo tipo di poesia

lontana dai canoni tradizionali, però, è possibile una forma di conoscenza che accoglie in sé la

stessa impossibilità della sua comprensione come caratteristica primaria. Qualsiasi tentativo di

interpretazione, infatti, è inconcludibile e conduce sempre verso l’esterno.

1
HUGO FRIEDRICH, La struttura della lirica moderna: dalla metà del XIX alla metà del XX secolo, Traduzione a
cura di Piero Bernardini Marzolla, Milano, Garzanti, 2016
2
Ibidem
3
Ivi, p. 15
4
Questi cambiamenti interni al genere in analisi si collegano inevitabilmente alle evoluzioni

storiche verificatesi a partire dall’inizio del XIX secolo. È in questo momento che la poesia esce

dallo spazio della società e vive una rottura con la tradizione: l’originalità del poeta è

direttamente legata alla sua anormalità. A questo punto cambiano anche i parametri di giudizio

del genere. Se in passato ci si atteneva principalmente alle qualità contenutistiche descritte

mediante categorie positive, ora compaiono nuove categorie, «quasi tutte negative»4, legate più

alla forma che al contenuto testuale.

Nella figura di Rousseau tutte le tradizioni di cui è erede sembrano scomparire: egli «si porta

al punto zero della storia»5, in compagnia esclusivamente di se stesso, rappresentando la prima

moderna rottura con la tradizione, col mondo e con la società, dalla quale si sente continuamente

incompreso. Questa inconciliabilità dell’Io è la sua prima garanzia di vocazione poetica. In

opposizione alla realtà, la fantasia è l’unica a riuscire a portare felicità: «essa crea il non-

esistente e lo pone al di sopra dell’esistente (Confessions, II, 9)»6. L’unica strada che permette

all’interiorità di manifestarsi è quella dell’immaginazione e della fantasia, entrambe facoltà

consapevoli della propria ingannevolezza necessaria ed inevitabile. In questa concezione assoluta

della fantasia, Rousseau rappresenta il preludio del futuro concetto proprio del XIX secolo che

Friedrich definisce «fantasia dittatoriale»7.

In modo simile Diderot assegna alla fantasia un ruolo autonomo, direttamente legato

all’indipendenza del Genio artistico. Quest’ultimo è «selvaggio»8, è più un produttore che un

esploratore, spinto direttamente dalla forza della fantasia. Vero e falso smettono di esistere così

come buono e cattivo, gli errori del genio sono ciò che infiamma il lettore in proporzione

all’efficacia delle immagini e delle idee prodotte. Da qui deriva l’avversità verso ogni forma di

4
Ivi, p. 19
5
Ivi, p. 22
6
Ivi, p. 23
7
Per la differenza di questo concetto moderno della fantasia da quello greco di Aristotile, vedasi V. SZILASI, Sulla
capacità immaginativa. (In: «Ideen und Formen», numero unico per H. Friedrich, Frankfurt a.M., 1964)
8
FRIEDRICH, La struttura della lirica moderna, cit., p. 24
5
chiarezza, l’invito all’oscurità e al mistero e la centralità delle figure metaforiche: la magia

linguistica vince sul contenuto. Con Diderot il concetto di bellezza inizia ad ampliarsi, il

disordinato e lo sconcertante cominciano a farsi spazio nel mondo lirico e a produrre un lecito

effetto artistico.

I nuovi valori della poesia e della fantasia, anticipati da Rousseau e Diderot, trovano una più

completa definizione nel Romanticismo tedesco, francese e inglese. Le riflessioni più

significative che tracciano un concetto della poesia futura, secondo Friedrich, sono quelle di

Novalis, esponente del Romanticismo tedesco. Con questo autore la lirica inizia ad essere posta

sullo stesso piano della magia: attraverso la fantasia, si ottiene una mescolanza di immagini

diverse e le parole fungono da veri e propri incantesimi. Così il linguaggio poetico acquista una

piena e oscura autonomia: in esso «avviene come con le formule matematiche; elaborano un

mondo per sé, giuocano soltanto con se stesse»9. L’oscurità e l’incoerenza diventano presupposti

essenziali dell’espressione lirica, la magia linguistica spezza il mondo in frammenti e la fantasia

vince sulla realtà, il caos sull’ordine.

È proprio al Romanticismo che si deve poi il merito di aver trasmesso queste evoluzioni al più

grande lirico e teorico dell’età moderna: Charles Baudelaire. Il Romanticismo francese, in

particolare, segna il destino di tutte le generazioni successive. Lo stesso Baudelaire scriveva: «Il

Romanticismo è una benedizione celeste o diabolica a cui noi dobbiamo eterne stimmate»10.

Come gli studiosi tedeschi, anche i romantici francesi vedono il poeta come un veggente

incompreso, il quale dà vita ad una letteratura di diretta contrapposizione alla società, al centro

della quale si pongono «la malinconia e il dolore cosmico»11, generati da nessuna causa, dal

9
Ivi, p. 28
10
Ivi, p. 29
11
Ivi, p. 30
6
Nulla. La poesia nasce nell’impulso della parola, cresce nella sua oscurità, a partire dalla quale

«crea il senso che vuole»12.

Queste riflessioni rappresentano la nuova strada sulla quale si metteranno in viaggio grandi

personalità come Rimbaud, Mallarmé e lo stesso Baudelaire. Hugo Friedrich, attraverso

un’analisi meticolosa di questi autori, si pone nel suo libro alla ricerca di precise caratteristiche

che consentano di dare una definizione di lirica moderna.

1.2 Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé

Baudelaire viene spesso considerato il poeta della modernità: è con lui, in effetti, che la lirica

francese arriva in Europa. La sua opera indica la strada per una possibile convivenza tra la poesia

e la nuova società tecnicizzata, e questa via conduce a un distacco netto dal reale fino a giungere

alla dimensione del misterioso.

Con Baudelaire comincia il processo di spersonalizzazione della lirica moderna: la parola non

nasce più dall’unità di poesia e persona empirica come avveniva nel Romanticismo. Il poeta è

completamente ripiegato su sé stesso, ma guarda appena al suo Io empirico. Egli si fa diretto

interprete delle sofferenze della modernità: «il suo soffrire non è solo il suo»13. Un altro

elemento che segna il distacco di questo autore dal Romanticismo è il fatto che egli abbia dato a

Les Fleurs du Mal una costruzione architettonica matematicamente progettata. La sua attenzione

verso i valori formali è legata ai cambiamenti del XIX secolo, quando il dolore perde un fine e

diventa desolazione. La poesia si separa dal cuore così come la forma si separa dal contenuto e

diventa mezzo di salvazione.

Anche dal punto di vista tematico Baudelaire segna un punto di svolta. L’unico luogo in cui

l’anima del suo tempo può ancora poetare è quello del notturno e dell’anormale, in cui il

12
VICTOR HUGO, Les Contemplations, Editions Gallimard, Parigi, 1973
13
Ivi, p. 37
7
negativo diventa affascinante e il misero, il decadente, si fa interessante. Egli trova nelle

dissonanze interne alle metropoli (come quella tra «profumo di fiori e odore di catrame»)

l’antidoto contro «il vizio della banalità»14. La struttura formale è l’unica a conservare il concetto

di bellezza, gli oggetti, invece, si fanno stravaganti e misteriosi. La nuova bellezza corrisponde al

brutto, dove il banale si deforma in bizzarro attraverso la «fusione dello spaventoso col

pazzesco»15. Il grottesco si allontana dal senso di “giocoso” ed entra, piuttosto, nella dimensione

dell’assurdo. Solo in questo modo è possibile esplorare il mondo dell’irrealtà.

Tuttavia, Baudelaire riprende dal Romanticismo il tema del poeta solitario e lo carica di

drammaticità. La poesia irrita il lettore, produce uno «choc nervoso», e il non essere più

compreso dal suo pubblico diventa motivo di vanto. È questo quello che Friedrich definisce:

«l’aristocratico gusto di disgustare»16. La misteriosità inafferrabile è poi accentuata dal dominio

del suono sul contenuto linguistico. I versi «vogliono più suonare che dire»17: più che essere

compresi, vogliono suggestionare attraverso le forze musicali delle parole. Anche questo è uno

strumento tipico della poesia moderna grazie al quale il poeta può fuggire dal reale e sprigionare

nuovi contenuti dal senso oscuro. La lirica di questo autore, infatti, sebbene sia stata accusata di

realismo, non riproduce fedelmente la realtà, ma la trasforma attraverso la fantasia che, per

Baudelaire, è «la capacità creativa per eccellenza»18 che agisce attraverso la decomposizione e la

deformazione del mondo in nome delle leggi più profonde dell’anima. Il mondo nuovo che nasce

è privo di ordinamenti reali o di tecnicismi, da qui l’avversione di Baudelaire verso la nascente

fotografia e le scienze naturali, responsabili della perdita del mistero. Anche quella del sogno è

una capacità produttiva, non percettiva, che crea contenuti irreali. Baudelaire «degrada la natura

a caos e impurità»19, arrivando ad escludere il reale dalla poesia come segno di vittoria della

14
Ivi, p. 43
15
Ibidem
16
Ivi, p. 44
17
Ivi, p. 50
18
Ivi, p. 54
19
Ibidem
8
spiritualità sulla natura e sull’uomo. Il paradosso, però, è che, nel tentativo di fuga da una realtà

tecnicizzata, la poesia pretende di produrre una dimensione irreale altrettanto esatta.

Le innovazioni introdotte da Baudelaire troveranno piena realizzazione nella lirica posteriore.

Partendo dalle idee dei suoi maestri romantici, egli ha dato vita ad un pensiero che le supera

completamente. Perciò i suoi eredi produrranno una lirica che Friedrich definisce «romanticismo

sromanticizzato»20. Egli scrive, infatti, che «la poesia di Rimbaud è da intendersi come

realizzazione di quegli abbozzi teorici di Baudelaire»21. Le tensioni di Baudelaire diventano in

lui dissonanze assolute, la poesia non produce altro che frammenti, linee spezzate, immagini

irreali. Ciò però non si traduce in una frantumazione dell’ordine sintattico, anzi, Rimbaud si

serve di periodi semplici, quasi primitivi. I suoi versi sono ricchi di riferimenti ad autori anteriori

e contemporanei, ma è come se l’eredità acquisita si trasformasse in lui in qualcosa di

completamente diverso, che segna un netto distacco dal passato. Il mito viene collegato

all’ordinario e subisce così un fenomeno di degradazione. Intrecciandosi anche con il grottesco e

con il brutto, poi, produce un attacco contro la tradizione e la bellezza in modo da sfogare quella

tendenza istintiva alla deformazione. Rimbaud riprende l’idea greca del poeta veggente il cui

obbiettivo è «scrutare l’invisibile», «giungere nell’Ignoto»22. Anche in questo caso, però,

parliamo di una trascendenza vuota, che tende ad una meta non reale, ad un altro privo di

contenuto. L’Io non è empirico, è un Io che Friedrich definisce «prepersonale»23, che sprofonda

verso il basso, verso l’inconscio, da cui trae nuove esperienze. Il poeta diviene il «gran malato» e

allo stesso tempo il «supremo Sapiente» e la sua lingua si definisce universale, caratterizzata da

una musica sconosciuta e dissonante, carica di quella fantasia che fugge nell’Ignoto e fa

esplodere il mondo. In opposizione al positivismo scientifico, che si basa sull’idea di una totale

spiegabilità dell’universo e del mondo, quella di Rimbaud è una poesia oscura che fugge

20
Ivi, p. 59
21
Ivi, p. 61
22
Ivi, p. 63
23
Ivi, p. 64
9
dall’ordine e si cala nel mondo della fantasia. Il caos che genera è una forma di redenzione dalla

realtà opprimente che gli permette di spingersi verso una nuova forma di beatitudine

sovraterrena. La fuga dell’Io verso l’Ignoto non permette però di definire con esattezza cosa sia

l’Ignoto e perciò il poeta torna indietro e «accoglie in sé la morte interiore»24. Se Baudelaire

poteva fare della sua dannazione un sistema, Rimbaud distrugge tutto il reale, cristianesimo

compreso, e la dannazione diventa prima caos e poi silenzio. Come in Baudelaire, anche in

questo caso il rapporto con la modernità si pone su due strade: da un lato quella dell’avversione

verso il progresso tecnico e l’illuminismo scientifico, dall’altro quella di un legame con le nuove

esperienze che essa offre e che permette la nascita di una nuova poesia. Il tema della città viene

trasferito nel sovradimensionale, in una sfera priva di confini temporali e spaziali. Reale e irreale

si intrecciano, gli uomini subiscono un processo di disumanizzazione e si fanno fantasmi, come

delle maschere. Il senso di queste immagini incoerenti è nella loro stessa confusione, è

impossibile trovare una spiegazione tranquillizzante.

Con Rimbaud si afferma il distacco tra l’Io empirico e il soggetto poetico: la poesia è

«monologica»25, non parla a nessuno e il suo stesso soggetto non sembra concepibile. Esso è

pervaso da una forma di eccitazione che lo porta verso lontananze immaginarie, in una altezza

popolata da angeli senza un Dio e senza un messaggio. Il desiderio di fondo è quello di evadere

dalla realtà, ma nemmeno Rimbaud, come Baudelaire, riesce a comprendere i motivi di questa

evasione. È l’insufficienza della realtà a rendere indispensabile una trascendenza che, però,

genera una distruzione della realtà stessa senza alcuno scopo. Da qui nasce quella che Friedrich

definisce «la dialettica della modernità»26: la realtà distrutta è contemporaneamente il segno

dell’insufficienza del reale e il segno dell’Ignoto irraggiungibile. Il poeta sospende gli oggetti

delle sue poesie e trasforma tutto ciò che è consueto privandolo di qualsiasi relazione spaziale o

temporale. Tutto è inafferrabile: mancano gli uomini e, al loro posto, dominano le cose, ma nella
24
Ivi, p. 71
25
Ivi, p. 72
26
Ivi, p.79
10
loro indeterminatezza e nei loro rapporti assurdi privi di legami tra causa ed effetto. Egli

imprime in esse una nuova forma di intensità che accosta il bello e il brutto generando un

contrasto interno. Il brutto non è più segno di inferiorità, con Rimbaud diventa una necessità,

perché senza di esso non sarebbe possibile quella drammaticità che nasce dalla sfida verso il

consueto senso di bellezza. L’effetto prodotto è quello di una «dissonanza tra melodia e

immagine»27 in cui anche i residui di bello sono funzionali all’esistenza della dissonanza stessa.

La bruttezza poetica rende percepibile la evasione nel sovrareale e nel vuoto.

La realtà che Rimbaud deforma parla, secondo Friedrich, «per gruppi di parole»28, ognuno dei

quali possiede una qualità sensibile. In essi, però, vengono combinati in modo assolutamente

anormale elementi tra loro inconciliabili, a tal punto che le stesse qualità sensibili generano

un’immagine irreale. È questa quella che Friedrich definisce «irrealtà sensibile»29. La libertà

concessa alla poesia supera i limiti tradizionali e arriva a rendere un Ignoto il reale stesso,

attraverso la dissoluzione dei confini delle sue figure. L’immagine nuova che ne scaturisce non

rinvia alla realtà ma costringe a concentrare l’attenzione sull’atto stesso che l’ha prodotta: la

«fantasia dittatoriale»30. Il soggetto non vuole farsi rappresentante dei suoi contenuti, li vuole

creare da sé. Friedrich lo definisce un «atto di violenza»31: l’ordine spaziale è completamente

sconvolto e l’impulso creativo genera anche delle dissonanze lessicali, affiancando in gruppi di

parole valori eterogenei (come «un mattino di luglio con odore invernale di fumo»32).

Rimbaud adatta alla sua fantasia anche il linguaggio formale: rinuncia ai mezzi di

congiunzione, si serve di un vocabolario prevalentemente nominale, i verbi presenti raccolgono

in sé sfere opposte. Siamo di fronte alla prima vera comparsa del verso libero in Francia e al

primo esempio della tecnica di fusione che produce una non-realtà carica di una enigmaticità

27
Ivi, p. 81
28
Ivi, p.83
29
Ibidem
30
Ivi, p. 84
31
Ibidem
32
Ivi, p. 86
11
irrisolvibile. Nel corso della sua evoluzione, la poesia di Rimbaud rinuncia alle «rivoltose

evasioni»33 attraverso le quali le prime poesie si spingevano verso l’estraneo. Egli ormai è dentro

l’estraneo. Dal 1871 in poi la poesia diventa sempre più un monologo, in cui i periodi sono

ancora più concisi, le omissioni più frequenti e i gruppi bizzarri di parole più diffusi. Ma la sua

oscurità non è incontrollata, proviene sempre da una profonda consapevolezza. La scrittura

rappresenta un tentativo di salvare la libertà dello spirito che non ha più dimora e che può così

crearsene una propria nella poesia stessa. Dal punto di vista linguistico, la poesia non si

preoccupa più di essere comprensibile. Attraverso sequenze sonore insolite, le parole esercitano

un incanto sorprendente, che Friedrich riconduce alla «magia del linguaggio»34 e Rimbaud stesso

parla di «alchimia della parola» (pp. 218 sgg.). Con ciò egli intende: «Regolavo la forma e il

movimento di ogni consonante e mi figuravo di scoprire […] un verbo poetico accessibile a tutti

i sensi» (p. 219)35. Nei suoi versi, quindi, la scrittura poetica corrisponde con l’operare magico

«che vuole trasformare in oro metalli inferiori con l’impiego di una misteriosa sostanza»36. La

sonorità del verso domina a tal punto che il senso o è assente o è assurdo, sicuramente

intraducibile. Quando la poesia raggiunge il suo limite, comincia a distruggere se stessa, ed è a

questo punto, quando aveva solo diciannove anni, che Rimbaud decide di tacere. Il contributo

che egli ha portato allo sviluppo della lirica moderna è perfettamente spiegato da J. Rivière:

«[…] egli ci rende impossibile il soggiorno tra ciò che è terreno… Il mondo sprofonda nel suo

caos originario, le cose risaltano di nuovo con quella terribile libertà che possedevano quando

ancora non servivano a nessuno»37.

Per quanto riguarda Mallarmé, egli era un normale uomo borghese, ci dice Friedrich che «non

presentava alcuna frattura, ma piuttosto parlava ironicamente della propria persona privata».38

33
Ivi, p. 95
34
Ibidem
35
Ivi, p. 96
36
Ibidem
37
Ivi, p. 97
38
Ivi, p.99
12
Anche la sua poesia parte dall’annientamento della realtà e degli ordini normali attraverso la

fantasia, opera mediante gli impulsi della lingua e punta più alla suggestività che alla

comprensibilità. Egli sviluppa la concezione, nata con Baudelaire, di una fantasia artistica che

deforma la realtà, annulla le cose e le innalza ad essenze assolute. Gli oggetti dei suoi versi

vengono sconcretizzati: le cose semplici del mondo si riempiono di mistero e diventano

ininterpretabili. Esse esistono solo nel linguaggio, in una forma di presenza spirituale che è tanto

più forte quanto più esse sono allontanate dalla loro essenza concreta ed empirica. Afferma

Friedrich che «l’assenza delle cose ha un rango superiore alla loro presenza, le cose sussistono

solo nel linguaggio, strappate alla loro consueta usualità»39, l’infinita potenzialità del linguaggio

è il vero contenuto della sua poesia. Anche in Mallarmé troviamo quella caratteristica della lirica

moderna che elimina la persona privata e la normale umanità. Egli va oltre la tendenza già

diffusa a condurre il soggetto poetico verso una neutralità sovrapersonale: non intende penetrare

alcun orecchio umano, i suoni non provengono da una bocca umana. Anche la natura vegetativa

è esclusa dalla scrittura: le cose concrete presenti sono artificiali, «simboli innaturali della parola

poetica»40. Egli, inoltre, sviluppa ulteriormente quel processo che aveva portato la poesia al

rifiuto della società commercializzata: oppone alle spiegazioni scientifiche il valore

dell’ambiguità della parola, che muove anche in questo caso dal dominio dello spirito. Lo scopo

di questa poesia dittatoriale è il «giuoco» o la «menzogna»: il primo termine indica la «libertà

assoluta dello spirito creativo», col secondo Friedrich intende, invece, «l’auspicata irrealtà dei

suoi prodotti»41.

La poesia di Mallarmé, che annulla ogni realtà, ricerca la bellezza formale del linguaggio. La

«severità formale» contrasta con «l’impalpabilità dei contenuti»42: la lirica moderna ambigua ed

astratta necessita inevitabilmente l’appoggio di una forma precisa. Nonostante ciò, Mallarmé si

39
Ivi, p. 101
40
Ivi, p. 115
41
Ivi, p. 120
42
Ivi, p. 121
13
impegna sempre a preservare la libertà del linguaggio, privandolo di qualsiasi fine comunicativo

ed evitando che si irrigidisca in clichés, al fine di conservarne la funzione di esprimere qualcosa

di nuovo, che non sia mai stato detto prima. Gli strumenti di cui si serve sono inevitabilmente

inconsueti: verbi all’infinito, participi che si avvicinano al participio assoluto latino, inversioni

grammaticali ingiustificate. L’obbiettivo è quello di creare una dimensione in cui la parola

ritorna alla sua originaria consistenza e ciò è possibile solo mediante la discontinuità e la

frammentazione del periodo. Come Rimbaud, anche Mallarmé porta la sua poesia fino al punto

in cui annulla sé stessa e determina quasi la fine della poesia in generale.

Per l’oscurità dei suoi versi, egli è stato spesso avvicinato ad uno dei più oscuri poeti europei:

Góngora. In realtà, per quanto anche in quest’ultimo il reale venga sostituito da frasi poco

trasparenti, metafore e vocaboli desueti, tra i due poeti vi sono sostanziali differenze. La poesia

di Góngora, per quanto enigmatica, si serviva di un materiale simbolico comune anche al lettore.

La poesia oscura aveva il compito, afferma Friedrich, di «sciogliere enigmi colti, per addestrare

lo spirito»43. In Mallarmé, invece, non vi è un lettore disposto ad accettare la sua lirica. La

disumanizzazione distrugge il rapporto tra autore, opera e lettore. Egli si serve di un simbolismo

che Friedrich definisce «autarchico»44, subordinato ad una comprensione limitata. La sua lingua

è priva di fini comunicativi, è solo espressione di se stessa: egli «parla per non essere

compreso»45. Anzi, la lirica invita il suo pubblico a continuare la produzione non conclusa, per

questo la potenzialità interpretativa è infinita. Il lettore più che decifrare deve entrare

nell’enigma del testo e avanzare ipotesi di interpretazione che potrebbero essere estranei anche

all’iniziale idea dell’autore.

Il reale scompare mentre la fantasia creativa subentra, al desiderio di scappare dalla realtà

corrisponde la spinta verso l’idealità. L’ideale corrisponde al Nulla ed il suo potere è quello di

43
Ivi, p. 125
44
Ibidem
45
Ivi, p. 127
14
mettere alla prova lo spirito. In questo caso, quindi, non solo la trascendenza è vuota, come in

Baudelaire e Rimbaud, ma è «radicalizzata nel Nulla»46. Al posto dell’Io empirico, subentra un

Io impersonale che permette all’assoluto, ovvero il Nulla, di fare la sua apparizione nella lingua.

Mallarmé, quindi, spinge le cose concrete della realtà nell’assenza e le rende presenti

esclusivamente nella parola. Nei versi ricorrono infatti parole e formule che indicano il

fallimento: tra uomo e trascendenza non vi è alcuna forma di contatto. Il linguaggio, dunque, è

insufficiente a far nascere l’assoluto, così come l’assoluto si mostra al linguaggio in modo

altrettanto insufficiente.

Nei suoi versi la magia linguistica si rivela nella spinta musicale ed essa ha il compito di

esercitare quella suggestione che egli cerca al posto della comprensibilità. Mallarmé stesso

afferma: «il ritmo dell’infinito, fra i tasti del pianoforte verbale, risulta, come sotto

l’interrogazione delle dita, nell’uso delle parole appropriate, quotidiane»47. La sonorità della sua

lirica fa sì che i versi si fissino nella memoria anche se il loro significato risulta incomprensibile.

Il processo di sconcretizzazione attivo nella sua lirica, infatti, si collega al concetto di poésie

pure: «Consumare e logorare le cose in nome di una purezza centrale»48. Una cosa per egli è

pura nel senso della sua essenza, il suo essere, afferma Friedrich, «scevro da intrusioni»49. Anche

in questo concetto rientra il rapporto con la musica. Nel 1944 A. BerneJoffroy scriveva che:

«Poésie pure è l’alto momento in cui la frase in modo armonico dimentica il suo contenuto. È il

verso che non vuol dire più nulla, ma vuole solo cantare (213, pag. 202)»50. Per musica, però, in

questo caso non si intende semplicemente l’armonia del linguaggio, ma una tensione che investe

46
Ivi, p. 132
47
Ivi, p. 142
48
Ivi, p. 142
49
Ibidem
50
Ivi, p.143
15
anche i contenuti della poesia e che secondo Friedrich è «più avvertibile dall’orecchio

interiore che da quello esterno»51.

Anche in Mallarmé torna il concetto di fantasia dittatoriale: la realtà sfugge all’interesse

dell’artista e le sue componenti oggettive sono sostituite dalle immagini della fantasia. Il mondo

fenomenico viene sottratto al tradizionale ordinamento spaziale e temporale anche per influsso di

una seconda tensione che Mallarmé chiama regard absolu, sguardo assoluto. Nel saggio Ballets

(1891) egli scrive: «La danzatrice non è una donna che danza… non è affatto una donna, ma una

metafora […] ed essa non danza ma suggerisce… con una scrittura corporale quello che si

potrebbe esprimere con una parafrasi in prosa dialogata e descrittiva… (pag. 304)»52. I fenomeni

vengono privati della loro componente empirica e vengono sopraffatti dallo sguardo assoluto che

se ne serve per indicare i movimenti del soggetto stesso.

L’opera di Mallarmé, secondo Friedrich, è «la più a sé che mai sia stata costruita dalla lirica

moderna. Eretta con pochi materiali, essa cerca di “cifrare melodicamente e silenziosamente” lo

spazio infinito, vuoto, dell’Assoluto nella lingua delle cose terrene (pag. 648)»53. Essa si estranea

dal presente e rifiuta di essere umana, la realtà è insufficiente e forma con il Nulla una

dissonanza assoluta. Tutto ciò che resta è la sola poesia con il poeta e la sua lingua che

rappresenta la sua unica patria e la sua libertà, disinteressata di essere comprensibile.

1.3 La lirica europea nel XX secolo

Dopo aver toccato i limiti estremi della poesia con Rimbaud e Mallarmé, la lirica del XX

secolo non poteva far altro che collegarsi ai suoi predecessori nel rispetto di una «unità stilistica»

51
Ibidem
52
Ivi, p, 144
53
Ivi, p. 146
16
e di una «parentela elettiva»54. In generale, però, si possono definire due tipi di evoluzione

diversi: da un lato, una poesia più libera e alogica, dall’altro, una più rigorosa e intellettuale.

Entrambi i casi, così come anche la pittura, tendono alla fuga dalla concretezza e dai sentimenti

umani consueti.

Data la poca importanza che l’aspetto contenutistico e tematico posseggono nella poesia

moderna, è inevitabile che essa si concentri molto di più sulla tecnica dell’espressione.

L’attenzione è tutta rivolta verso lo stile, che rappresenta la manifestazione più chiara e diretta

della trasformazione del reale e del normale. Rispetto alla lirica precedente, quindi, l’equità tra

contenuto e modo dell’espressione viene spezzato dalla prevalenza del secondo elemento, ricco

di inquietudini e oscurità, con una conformazione anormale che richiama l’attenzione su se

stessa. Un esempio delle evoluzioni linguistiche avute in questo periodo è la tendenza,

sviluppatasi da Mallarmé in poi, ad evitare l’interpunzione e turbare gli ordini di rapporti

producendo un effetto di ellissi nella frase. Un fenomeno molto frequente, poi, è anche quello

che Friedrich definisce «funzione indeterminativa dei determinativi»55. Essa consiste nel fatto

che l’articolo determinativo non esprime più una vera determinatezza del sostantivo ma

«semplicemente lo introduce, per farne il segno sonoro di un movimento assoluto, che a sua

volta fa tornare indietro e conclude i movimenti dei versi precedenti»56. Quindi l’articolo

determinativo coincide con l’incognita e produce un effetto misterioso. Il poeta diventa colui che

esplora campi linguistici mai provati prima, ma non perde mai il controllo su se stesso, frena

l’incantesimo con la sua coscienza artistica, che Friedrich immagina personificata dalla divinità

Apollo, unico vero maestro del poeta, senza essere mai sostituito da un dio come Dioniso.

Da Baudelaire in poi la lirica inizia a misurarsi con la civiltà tecnica dell’età moderna,

arrivando ad unire la dimensione reale della macchina con le istanze dell’assurdo. Attraverso i

54
Ivi, p. 148
55
Ivi, p. 168
56
Ibidem
17
versi si legge la sofferenza suscitata dall’assenza di libertà in un’epoca dominata da

pianificazioni, ordini tecnici, di cui l’uomo stesso, loro creatore, è diventato schiavo. L’anima

moderna cerca di conservare se stessa attraverso la fuga nell’irreale, nel mistero e in un

meraviglioso che è diverso dalle meraviglie della scienza. Nonostante ciò, i segni dell’epoca

corrente sono molto evidenti nei testi, dove immagini liriche primordiali si uniscono a termini

tecnico-scientifici. Rispetto alla tradizione, nel XIX secolo si era avuto un eccesso di pressione

esercitata dal patrimonio storico del passato, al quale in epoca moderna si reagisce con un

aumento della pressione opposta, quella che respinge ogni cosa passata e segna una volontaria

rottura con la tradizione. I simboli si fanno autarchici, da Mallarmé in poi, e non derivano da

nessun patrimonio tradizionale. I motivi ripresi, le citazioni o le allusioni sono per Friedrich resti

spettrali di un passato andato in frantumi, inseriti senza scelta.

Per quanto riguarda il rapporto con il mondo, la gerarchia tra cosa e uomo si capovolge,

quest’ultimo passa al grado più basso, abbandona gli stati sentimentali naturali e perde la sua

umanità. Anche dove ci si serve di parole familiari, l’anonimità è sempre rispettata e genera

inquietudine. La disumanizzazione in alcuni casi si traduce in una lirica che, come contenuto, ha

solo cose il più futili possibile e prive di ogni tipo di qualificazione, come se fosse il

corrispettivo poetico di ciò che Flaubert aveva fatto col romanzo. Il poeta lirico, secondo Musil,

è «l’uomo che più di ogni altro è cosciente della solitudine senza scampo dell’Io, nel mondo e tra

gli uomini»57. Per questo uno dei temi più frequenti della lirica moderna è quello dell’angoscia,

che diventa un elemento obbligatorio nella poesia moderna. A differenza della lirica precedente,

l’angoscioso non esiste solo come passaggio indispensabile per giungere alla chiarezza e alla

speranza, piuttosto diventa impossibile sottrarsi ad essa. Nella poesia moderna nessuna parabola

giunge alla meta vicina. Nel mondo moderno perfino la più breve strada si fa irraggiungibile e

soprattutto mortale.

57
Ivi, p. 182
18
A partire da Rimbaud e Mallarmé, il primario effetto della lirica diventa quello della

suggestione. Con questo termine si intende, afferma Friedrich, «il momento in cui la poesia

guidata dall’intelletto sprigiona forze magiche dell’anima ed emette radiazioni a cui il lettore non

si può sottrarre»58. La parola è il primo motore dell’atto poetico. Il mondo non è reale, lo è solo

la parola: la poesia non significa, semplicemente è. In qualsiasi forma della lirica moderna è

presente sempre un processo di svalutazione del reale e della sua frammentazione in singoli

fenomeni scelti al posto di un tutto. Il frammentarismo rielabora i pezzi generando delle fratture

che determinano la perdita del dato di realtà. Esso mostra la superiorità dell’invisibile e

l’insufficienza del visibile. Giungiamo così a T.S. Eliot. Alla base della sua tecnica poetica ci

sono due tratti fondamentali: l’inconsistenza e la contrapposizione. Il frammentarismo è la vera

legge delle sue poesie che determina il suo modo di comunicare. Ciò che viene espresso in un

gruppo di versi è successivamente distrutto dal gruppo che segue. La potenza del sogno frantuma

il mondo e lo trasporta nel mistero dell’irreale. La polifonia linguistica riesce a percepire la

musica non udibile del sogno attraverso parole che frantumano. All’origine di tutte le

trasformazioni e le distruzioni del mondo reale vi è sempre la forza della fantasia dittatoriale. Lo

spazio si dissolve, il tempo diventa «una sorta di quarta dimensione dello spazio», dove cose

separate temporalmente vengono concentrate in un solo istante.

1.4 Giuseppe Ungaretti, L’isola

Con la lirica moderna l’oscurità diventa un principio estetico universale. La lingua ha il

compito di esprimere e contemporaneamente nascondere un significato. La poesia priva il

linguaggio della sua tradizionale funzione comunicativa. La lirica oscura parla di creature o cose

di cui il lettore non conosce luogo, tempo o causa: le informazioni, più che essere completate,

vengono interrotte. Spesso il contenuto è rappresentato solo dagli atteggiamenti del linguaggio.

58
Ivi, p. 193
19
La poesia moderna, così, risulta essere solo un insieme di esperimenti volti a fornire qualcosa di

cui, al momento, non si può disporre. Il destinatario è il futuro, anch’esso caratterizzato

dall’oscurità e dal mistero.

In Italia, all’inizio del Novecento, questo genere di poesia iniziò ad essere definito col termine

«ermetismo». I più importanti poeti ermetici italiani sono Ungaretti, Quasimodo e Montale.

L’ermetismo è la forma italiana della poésie pure e la più violenta reazione alla letteratura

declamatoria dannunziana. Ungaretti prende le mosse da poeti come Mallarmé, Apollinaire,

Valéry, Gòngora. A partire dagli anni ’20 la sua lirica si concentra molto sul linguaggio. Egli

ritiene che la parola sia uno squarcio nel silenzio, come in Mallarmé. Le poesie più fortunate,

infatti, sono quelle brevi. Esse non devono essere lette a partire dal contenuto, ma focalizzandosi

in primo luogo sulle formule sonore liriche delle parole, che lasciano alle loro spalle un’eco

affascinante. «I movimenti sono più concreti degli oggetti in movimento»59, scrive Friedrich, ma

sono sempre ambigui ed oscuri.

Un perfetto esempio di oscurità ungarettiana è rappresentato dalla poesia L’isola, scritta nel

1925 ed entrata a far parte della raccolta Sentimento del tempo nel 1933. Questo libro segna una

fondamentale svolta nella carriera poetica del poeta: qui egli abbandona lo stile essenziale

dell’Allegria e approda ad una sorta di classicismo oscuro e barocco, di cui L’isola è chiaro

manifesto. Questa, dichiara Friedrich, è la poesia di «un avvenimento senza Io»60, il soggetto è

un «egli» non identificabile, deducibile solo dalle forme verbali. L’indeterminatezza è

accresciuta anche dalla assenza di legami tra le espressioni e le rappresentazioni idillico-

bucoliche dell’avvenimento. Il testo recita:

A una proda ove sera era perenne


Di anziane selve assorte, scese,
E s'inoltrò
E lo richiamò rumore di penne

59
Ivi, p. 191
60
Ibidem
20
Ch'erasi sciolto dallo stridulo 5
Batticuore dell'acqua torrida,
E una larva (languiva
E rifioriva) vide;
Ritornato a salire vide
Ch'era una ninfa e dormiva 10
Ritta abbracciata a un olmo.

In sé da simulacro a fiamma vera


Errando, giunse a un prato ove
L'ombra negli occhi s'addensava
Delle vergini come 15
Sera appiè degli ulivi;
Distillavano i rami
Una pioggia pigra di dardi,
Qua pecore s'erano appisolate

Sotto il liscio tepore, 20


Altre brucavano
La coltre luminosa;
Le mani del pastore erano un vetro
Levigato da fioca febbre.

Dal punto di vista metrico, si tratta di un componimento in versi liberi con una prevalenza di

settenari, novenari ed endecasillabi. La sintassi è prevalentemente ipotattica e ricca di anastrofi e

iperbati, spesso spezzati dagli enjambements.

L’andamento è prevalentemente narrativo e descrittivo. Le inversioni e lo stile fortemente

analogico e polisemico, inoltre, generano un effetto di “legato”, come se le parole fossero

intrecciate tra loro. L’Isola è una delle poche liriche di Sentimento del tempo in cui non vi sono

confessioni di sentimenti o annotazioni personali autobiografiche. L’azione inizia ma sembra

non finire, prolungandosi nella coscienza dell’uomo. Questo effetto è dato soprattutto dal

frequente uso dell’imperfetto, come in "languiva", "rifioriva", "distillavano", "s'addensava",

"erano". La visione, poi, è resa ancora più lontana e inafferrabile dai verbi coniugati al passato

remoto (“scese”, “s'inoltrò”, “lo richiamò”, “vide” ripetuto, “giunse”).

21
In apertura notiamo subito l’utilizzo dell’iperbato che lascia sospeso il lettore in attesa di

sapere chi sia il soggetto e che dilata il tempo in una dimensione chiaramente onirica e fiabesca.

Questo soggetto indefinito, secondo Emerico Giachery, «si accinge ad una sorta di misteriosa

iniziazione: un iniziale descensus»61, giungendo in un luogo silenzioso e costantemente coperto

dall’ombra, attraverso la vegetazione. Questo movimento viene poi momentaneamente interrotto

da un improvviso battito d’ali di uccelli che increspano l’acqua torrida. Segue, poi, una risalita,

definita da Giachery «una stasi contemplativa, espressa del resto già in apertura e dall’attributo

assorte»62. Quest’ultimo suggerirebbe una lettura del testo a voce alta, “assorta”. L’itinerario

iniziatico continua: un’immagine di una ninfa abbracciata ad un albero appare e scompare in

modo intermittente. Il protagonista sembra che stia errando in se stesso, passando da apparizioni

illusorie (v. 12: “simulacro”) alla realtà (v. 12: “fiamma vera”). Per Giachery il cammino di

questo soggetto ignoto assomiglia a un «viaggio nell’Oltre come quelli indicati nelle tavolette

orfiche»63.

L’Isola rappresenta un perfetto esempio di quella esperienza di distacco dalla realtà e di

introspezione tipica della lirica moderna. Essa appartiene al periodo di crisi della vita di

Ungaretti nel quale egli avverte un vuoto interiore ed esistenziale che lo angoscia e che

contribuisce ad aumentare la componente ermetica e la difficoltà di comprensione della sua

scrittura. È così che trasforma le presenze reali in immagini mitiche, partendo da riferimenti

legati alla letteratura arcadica e neoclassica (le ninfe, il prato, le greggi, il pastore). L’ignoto

soggetto, infatti, sembra camminare all’interno del topos classico del locus amoenus campestre.

Tutta la poesia richiama gli elementi tipici di un’ambientazione arcade. Secondo una

dichiarazione di Ungaretti stesso, il paesaggio trasfigurato sarebbe quello di Tivoli.

61
EMERICO GIACHERY, Ungaretti e il mito (con un'appendice su Ungaretti e Dante), Edizioni Nuova Cultura,
Roma, 2012, p. 22
62
Ibidem
63
Ivi, p. 123
22
Emerico Giachery lo definisce uno «spazio mitico», identificandolo con la Villa Gregoriana:

Luogo delle sorti, luogo misterico, prediletto per secoli da viaggiatori e pittori. […] uno
spazio remoto dal quotidiano, che potrebbe assomigliare a quella zona interiore da cui
emergono archetipi, in cui appare il mito.64

Già l’autore del componimento aveva scritto in una nota a Sentimento del tempo: «Perché

L’Isola? Perché è il punto dove io mi isolo, dove sono solo: è un punto separato dal resto del

mondo, non perché lo sia in realtà, ma perché nel mio stato d’animo posso separarmene». Ma il

secondo Ungaretti non è più il poeta-soldato che scrive dal doppio fronte della guerra (come in

Fratelli o in Mattina), adesso egli si volge alla tradizione per trasformare poeticamente le

avventure interiori del suo io.

A questo proposito, il critico Pier Vincenzo Mengaldo scrive su di lui:

Venuta meno la naturale compartecipazione a un’esperienza “unanime”, Ungaretti, che


agisce adesso in una sorta di vuoto storico, deve obiettivare la propria biografia in
“emblemi eterni”, favole e miti, ora idillici come nell’arcadica Isola ora tenebrosi.65

Nell’immagine conclusiva del testo, secondo Hugo Friedrich, l’autore sembra aver

dimenticato la vicenda iniziale, come se essa e il suo soggetto non fossero mai esistiti. Il vero

contenuto dell’opera è costituito dai suoi movimenti astratti, ricchi del mistero generato dalla

non interpretabilità della vicenda in cui avvengono: un arrivo, un incontro, una quiete. Il mistero

non è risolto nemmeno nel finale, anzi, esso ne aggiunge uno nuovo. La quiete ferma i

movimenti, «ma la dissonanza delle immagini (mani come vetro), rimanda a un piano più alto,

quello del linguaggio autonomo, riportando nuovamente nell’oscuro»66. Egli sottolinea la

notevole differenza tra quel «lui» e l’ «io» o il «tu» frequenti nella lirica, che trasformano la

poesia in monologo o dialogo. Per poter considerare la poesia di Ungaretti un testo limpido,

secondo Friedrich, «occorrerebbe porre punti di riferimento cui il testo stesso non si rimanda»67.

64
Ibidem
65
PIER VINCENZO MENGALDO, Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano, 1978
66
FRIEDRICH, La struttura della lirica moderna, cit., p. 192
67
Ibidem
23
Emerico Giachery, invece, definisce l’immagine finale de L’Isola «pittorica»: «una raffinata e

ardita analogia che suggerisce un’accensione coloristica, una trasparenza lievemente accesa».

Ma, sottolinea il critico, la parola finale è pur sempre febbre. Dopo i numerosi segni di una

quiete arcadica e pastorale, ecco che si manifesta un «fuoco sotterraneo […] una segreta

inquietudine che connota intera quell’esperienza»68. In un mondo moderno che minaccia la

libertà, la risposta non può che essere una fortissima tendenza alla libertà stessa. La fuga tende

sempre a un mondo irreale che esiste solo nella parola e che per mantenere la sua compattezza

parla alla confusione o al vuoto. I resti del mondo e le irrealtà che si levano su di essi portano

quel mistero che i poeti lirici moderni ricercano.

68
GIACHERY, Ungaretti e il mito, cit., p. 23
24
II. Giuseppe Bernardelli, Il testo lirico

2.1 Le variazioni storiche di un’idea

Come Friedrich, anche Giuseppe Bernardelli nel suo libro Il testo lirico ragiona su quali siano

l’esatta natura e le caratteristiche distintive del genere lirico e si pone come obiettivo primario

quello di chiarire la differenza tra le due nozioni di liricità e poeticità, spesso confuse.

Prima di entrare nel merito della questione, egli ricostruisce a grandi linee la storia generale

del concetto. Le sue origini, secondo lo scrittore, affondano le radici tra il III e il II secolo a.C.,

in età alessandrina, nell’ambito della tradizione poetica dei componimenti cantati e

accompagnati da strumenti a corda: tra questi, la lira, da cui poesia lirica. Tre sono gli aspetti

principali che contraddistinguono questo genere nella fase antica della sua storia.

In primo luogo, quello della musicalità. La lirica nasce come una forma di poesia destinata al

canto e questa caratteristica resterà costitutiva della nozione fino alle soglie della modernità,

nonostante le abitudini dell’accompagnamento musicale e del canto stesso vengano

progressivamente abbandonate. La loro sopravvivenza sarà possibile grazie alla nascita di una

musicalità puramente verbale, data dalle scelte metriche, e grazie alla permanenza nella lirica a

noi più vicina delle immagini di tipo musicale.

La seconda caratteristica che riguarda, invece, i contenuti della lirica antica è quella della

soggettività. Con tale termine si intende una forma di espressione di emozioni connesse a

situazioni esistenziali diverse e di abbandono agli impulsi interiori. Questa impronta resta una

costante nella considerazione del genere in fase antica; tuttavia, esso detiene sempre un valore di

tipo collettivo e «quasi liturgico»69.

Il terzo aspetto su cui occorre soffermarsi riguarda l’impossibilità di individuare una categoria

poetica o un genere preciso per l’idea antica di lirica. Essa costituisce una nozione generica e di

69
GIUSEPPE BERNARDELLI, Il testo lirico: logica e forma di un tipo letterario, Milano, Vita e Pensiero, 2002
(“Ricerche. Scienze linguistiche e letterature straniere”).
25
incerta estensione. I testi stessi non vengono unificati a partire da proprietà comuni di tipo

verbale, ma in base al loro rapporto con la musica. Essendo, però, ciascuno potenzialmente

suscettibile di un qualsiasi grado di elaborazione musicale, è naturale che il termine in questione

comprenda in sé forme e contenuti molto diversi, risultando così particolarmente oscillante.

I primi autori che si confrontano con questa dimensione eterogena, chiarisce Bernardelli, non

sono filosofi o teorici del poetico, ma grammatici, filologi e retori che solo in modo superficiale

si relazionano con gli aspetti letterari. Il loro scopo, infatti, non è teorico, ma descrittivo e

catalogativo. Il concetto di lirica viene «desunto dall’ambito musicale a designare un settore del

già composito campo della melica»70 e il suo nome funge perlopiù come una sorta di etichetta.

Nella cultura medioevale la nozione di lirica scompare: la perdita del contatto diretto con la

tradizione classica conduce allo «scompaginamento dell’apparato nomenclaturale connesso»71

che viene legato a significati diversi. Il recupero del termine avviene a partire dal primo terzo del

Cinquecento, grazie alla vocazione ‘archeologica’ del Classicismo rinascimentale. Quest’ultimo

prende principalmente ispirazione dalla Poetica di Aristotele, a partire dalla quale opera un

processo di dilatazione del concetto. Si torna così a concepire la riflessione sulla poesia come

una «riflessione organica e sistemica sulle forme e i modi della creazione letteraria sia esistenti

sia astrattamente possibili»72. Accanto alle due tradizionali categorie poetiche, drammatica ed

epica, si crea lo spazio per la nascita di una nuova categoria che conservi con sé l’associazione

tra poesia e musica tipica dell’antichità. È così che la lirica prevale sull’elegia, grazie anche alla

sua sostanziale indeterminatezza di fondo.

A partire dalla metà del Cinquecento, gli scritti di Platone e di Aristotele diventano un

riferimento obbligato nell’ambito di un qualsiasi discorso intorno alla creazione poetica. Nel

tentativo di trovare per la lirica uno spazio preciso sul piano teorico, la riflessione

70
Ibidem
71
Ivi, p. 37
72
Ibidem
26
tardorinascimentale ha tentato di integrarne la nozione al sistema platonico-aristotelico attraverso

la ridiscussione del principio dell’imitazione. Un caso interessante è quello delle Lezioni intorno

alla poesia di Angelo Segni. Egli distingue due tipi di imitazione: uno è quello proprio di chi

produce immagini attraverso strumenti diversi dall’artefice (pittori, scultori, musicisti), l’altro è

quello che coinvolge la persona stessa che fa l’imitazione (danzatori, attori). La poesia viene

definita da Segni come ogni altra forma di imitazione «componimento di idoli», ma «con

l’orazione», cioè con le parole, e l’orazione nel caso della poesia è sempre finzione, è

un’orazione falsa (in questo consiste la favola e l’operazione del favoleggiamento)73. Il Segni,

quindi, allarga il campo teorico dell’imitazione «alla totalità dell’imitabile e non alle sole azioni

umane»74 e finisce col scoprire una nuova categoria che era latente e che si rivela di piena dignità

teorica.

La trattatistica rinascimentale, però, più che parlare di generi, fa riferimento a specie o parti

della poesia e in ciascuna di esse include un vario numero di sottospecie affini. Un ideale punto

di arrivo della riflessione generale del Cinquecento sul concetto di lirica è rappresentato dalle

tesi di Charles Batteux nel suo saggio Les Beaux-Arts réduits à un même principe del 1746. Egli

torna sul dibattuto problema della natura imitativa o non imitativa della lirica e teorizza la

presenza di un ‘principio unico’ che legherebbe tra loro tutte le belle arti. Bernardelli lo presenta

come un «principio aristotelico dell’imitazione temperato dall’idea settecentesca di gusto o buon

gusto»75. L’imitazione non è intesa come copia del vero, ma come «simulazione del possibile» o

«finzione efficace di verità»76. Il Batteux definisce la poesia lirica una finzione di sentimenti, ed

è proprio nella «tematizzazione della componente affettiva»77 che si pone l’unica differenza della

lirica rispetto agli altri generi di poesia che hanno per oggetto principale le azioni.

73
Cfr: Lezione sesta, in B. WEINBERG, Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, Laterza, Bari, 1970, p. 88
74
BERNARDELLI, Il testo lirico, cit., p. 52
75
Ivi, p. 61
76
Ibidem
77
Ivi, p. 68
27
Con il Batteux avviene quello che Giuseppe Bernardelli definisce come il «passaggio da un

sistema multipolare rigido ad un sistema bipolare organico»78. Nella prospettiva classicista,

infatti, i generi erano considerati come entità oggettive e immutabili, di numero teoricamente

aperto. In epoca rinascimentale, invece, prevalgono i generi misti. Ma quando il Batteux parla

della lirica distingue due grandi categorie di poesia: quella dei sentimenti, lirica, e quella delle

azioni, epico-drammatica. Dopo di lui, la definizione soggettivistica ed emotiva della lirica si

imporrà rapidamente portando con sé quattro principali conseguenze. In primo luogo, la perdita

di ogni riferimento al principio dell’imitazione, il quale comportava sempre l’idea di un

distanziamento dalla persona del poeta e dalla realtà oggettiva. In secondo luogo, la progressiva

dilatazione dei contenuti del concetto, che diviene definibile più in termini di fenomenologia

dello spirito che in termini letterari. Bernardelli parla di «estrinsecazione della soggettività,

rivestimento verbale dell’emozione»79. Il punto più alto di questa dilatazione del concetto di

lirica rappresenta la terza sostanziale differenza: l’identificazione con l’idea stessa di poesia. La

lirica è la forma di poesia del sentire più intenso, essa può essere considerata «l’essenza stessa

della creazione poetica»80. L’ultima delle quattro conseguenze descritte è il nuovo rapporto che

nasce tra lirica e musica. Col Romanticismo il testo lirico passa dall’essere un’invenzione

subordinata al canto e all’accompagnamento musicale a una creazione autonoma e già in sé

musicale, un testo cioè «verbalmente melico»81. La riflessione romantica conferma, inoltre, una

serie di indicazioni già fornite nei secoli precedenti: la grande varietà di contenuti, il carattere

aperto della rappresentazione, la pluralità dei modi enunciativi, la densità dell’espressione e la

più grande varietà metrica.

L’idea romantica che la lirica sia rappresentazione delle emozioni del singolo resta

dominante, ma essa in quanto genere continua ad essere difficilmente circoscrivibile. Il processo

78
Ivi, p. 70
79
Ivi, p. 79
80
Ivi, p. 85
81
Ibidem
28
di sovrapposizione delle nozioni di lirica e di poesia, invece, si accelera bruscamente

dall’Ottocento in poi fino a rivelarsi una quasi completa identificazione.

Durante il corso del Novecento la visione idealistico-romantica del concetto di lirica permane,

per poi essere seguita, dalla metà del secolo, in seguito alla crisi progressiva dell’idea della

natura soggettiva del genere, da vari tentativi di superamento. A sopravvivere in un primo

momento è l’idea stessa del carattere emotivo del testo, il quale continua ad essere concepito

come ‘proiezione di vissuto’ (Erlebnislyrik, secondo l’espressione della teoria letteraria tedesca).

Giorgio Bàrberi Squarotti, ad esempio, riprende l’immagine romantica del grido per

caratterizzare quella che chiama la «puntiformità della dichiarazione patetica [lirica]»82. Nei

primi decenni del secolo permane anche l’idea goethiana del carattere ‘naturale’ della lirica e

ritorna quella riduzione del campo poetico alle tre ‘forme fondamentali’ della lirica, dell’epica e

della drammatica, che sarà poi messa in dubbio negli anni Settanta. In fine, resta viva

l’equazione tra liricità e musicalità, che diventa il vero elemento costitutivo del testo lirico.

Il punto di congiunzione fra le letture di ispirazione romantica di inizio secolo e i tentativi di

superamento successivi è rappresentato dal saggio di Käte Hamburger: Die Logik der Dichtung.

Nel suo scritto la Hamburger dichiara che ogni espressione d’uso corrente può essere definita un

«enunciato di realtà»83 che rimanda in qualche modo al di fuori di sé stesso e mette in evidenza

una polarità fra il soggetto di enunciazione e l’oggetto dell’enunciato. Ciò che distingue

l’enunciato di realtà lirico dagli altri è la rinuncia al carattere di comunicazione che fa orientare

l’enunciazione stessa sul suo polo-oggetto. Ciò significa, afferma Bernardelli, che gli enunciati

nel testo lirico «hanno lasciato il polo-oggetto per penetrare nella sfera del polo-soggetto»84. La

riflessione di Kate Hamburger ha contribuito a rilanciare l’idea di un carattere finzionale del

82
GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI, Schema di una teoria della lirica, in Critica e storia letteraria. Studi offerti
a Mario Fubini, Padova, Liviana, 1970, p. 201
83
KÄTE HAMBURGER, Die Logik der Dichtung, Stuttgart, Ernst Klett, 1957
84
BERNARDELLI, Il testo lirico, cit., p. 111
29
genere e ad «orientare in senso enunciativo o pragmatico-enunciativo la riflessione degli anni a

noi più vicini»85 ma la sua riflessione appare non risolta del tutto.

Nel suo complesso, il dibattito sulla liricità è sempre stato accompagnato da una sorta di

minaccia di improduttività e di infondatezza che nel corso del tempo non ha fatto altro che

aumentare. Secondo Giuseppe Bernardelli, questo sospetto è dovuto al fatto che tutte le idee

sorte in merito sono state assolutizzate e soprattutto «impropriamente gerarchizzate e collegate

tra di loro»86. Un esempio riguarda proprio il nesso tra liricità e musicalità. Se da un lato, infatti,

larghe sezioni liriche presentano questa caratteristica, dall’altro vi sono altre sezioni consistenti

che sembrano esserne prive. Il tratto in questione, quindi, afferma Bernardelli, «non è né

fondante né esclusivo […]. L’intuizione era giusta, ma essa è stata indebitamente enfatizzata e

non correttamente legata alle altre che la completano»87. Lo stesso avviene a proposito

dell’impianto ‘soliloquiale’ o del tratto della soggettività del testo: l’intuizione sembra sempre

giusta, ma il suo sviluppo non risulta all’altezza.

Scrive dunque Bernardelli concludendo la parte prima del suo libro:

[…] i materiali di una soddisfacente teorica della lirica non sono da inventare.
Essi sono già dati dalla tradizione: si tratta essenzialmente di trasceglierli, di
rimodellarli, eventualmente di levigarli un po’, e poi di ricomporli in modo
adeguato. (Bernardelli, Il testo lirico, p. 123)

2.2 Proposte teoriche


Postosi l’obiettivo di individuare dei tratti linguistici che permettano di distinguere il genere

lirico dagli altri tipi di discorso, Giuseppe Bernardelli dedica le prime pagine della seconda parte

del suo libro ad una analisi del capolavoro leopardiano L’Infinito. L’aspetto più rilevante

individuato riguarda l’abbondante presenza di espressioni deittiche: nel testo, infatti, ricorrono

85
Ivi, p. 114
86
Ivi, p. 122
87
Ibidem
30
ben otto dimostrativi. La funzione di questi elementi consiste nell’ agganciare il linguaggio al

piano della realtà fisica. Specifica l’autore, però, che il linguaggio umano non si riferisce

direttamente alle cose, ma a dei «modelli di realtà», a dei «concetti» costituitisi a partire da un

minimo di esperienza antropologica88. I deittici dell’Infinito designano il contesto di locuzione

lasciando al lettore il compito di riempire i vuoti e le incongruenze presenti servendosi del suo

sapere. Leopardi fa indicare all’io del suo testo tutti gli oggetti che gli stanno attorno

semplicemente supponendo la presenza fisica del destinatario, sebbene sia consapevole della sua

lontananza. Questo ‘discorso in presenza’ viene definito da Bernardelli come il frutto di

un’operazione di riciclo di una «poesia di circostanza»89. Ogni testo lirico, infatti, è in fondo un

testo di circostanza, perché suppone sempre la prossimità fisica di un interlocutore. I principali

indici linguistici che fungono da spia di questa caratteristica sono: i deittici, la frequenza di nomi

propri, l’abbondanza di presentativi (ecco, c’è, vedi, è ecc.) e l’uso diffuso di interiezioni.

L’indizio più evidente fra tutti è, però, l’organizzazione del discorso in forma di apostrofe: il

poeta sembra disinteressarsi del suo lettore e si rivolge verso qualcuno o qualcosa che gli sta

davanti collocandolo idealmente in presenza. Questa strategia comunicativa viene definita da

Bernardelli come «la singolare economia del discorso lirico»90 e mette in luce alcuni problemi

secolari propri della questione.

Il primo riguarda il rapporto tra poesia lirica e preghiera. Quest’ultima, infatti, è un esempio

compiuto di discorso in forma di apostrofe che viene indirizzato a qualcuno che è assente

(divinità, santi, ecc.), ma che viene condotto come se fosse in realtà presente e conoscesse bene il

contesto di chi prega.

Il secondo problema è quello del rapporto tra modalità lirica e modalità drammatica. Esistono

liriche il cui impianto è chiaramente drammatico: versi, cioè, in cui si succedono due voci

88
Ivi, p. 130
89
Ivi, p. 141
90
Ivi, p. 146
31
distinte. L’autore in questi casi sospende momentaneamente l’apostrofe e imita questa dinamica

lasciando una sorta di «diritto di risposta all’ideale interloquito»91, determinando un passaggio

dal registro monologico a quello dialogico di impianto drammatico.

Il meccanismo dell’apostrofe, inoltre, può tanto confermare quanto smentire l’esistenza di un

terzo problema: il carattere soggettivo, emotivo o affettivo del testo lirico. Questo tipo di

impostazione del discorso, infatti, tocca la sfera vitale dell’interlocutore-destinatario e tende a

caricarsi di affettività.

Ma al di là di questo, e soprattutto, l’apostrofe induce necessariamente una


tematizzazione marcata della persona del locutore […]. Chi dice tu, dice implicitamente
o esplicitamente io, e l’io non può essere pensato che in termini […] di soggettività e
sentimento. (Bernardelli, Il testo lirico, p. 153)

Tale dimensione può tanto essere enfatizzata quanto compressa dall’autore: «si può fare della

lirica dei sentimenti o delle cose, ma l’io e il tu, e con essi la soggettività della struttura

apostrofale, resterà sempre iscritta nel testo»92.

Ritornando al caso dell’Infinito, esso è senza dubbio un ‘discorso in presenza’, però non

presenta una chiara struttura in forma d’apostrofe. Quel tu indeterminato che si finge accanto al

poeta, tuttavia, è indispensabile ai fini del discorso tutto. La relazione inscindibile tra l’io e il tu,

quindi, riporta al modello dell’apostrofe anche quei testi lirici in cui la struttura allocutiva

sembra essere occultata.

L’Infinito, in quanto testo-emblema preso ad esempio, mostra anche un ultimo aspetto: la

liricità può inglobare in sé narratività. Abbiamo in esso la dimensione della temporalità (c’è il

presente “sedendo e mirando…”; c’è il passato “Sempre caro mi fu…”; c’è un futuro prefigurato

“nel pensier mi fingo…”); c’è la permanenza dell’io lirico che permette un’unità tra le fasi della

sequenza temporale; vi è anche un processo di trasformazione del soggetto nel tempo.

91
Ivi, p. 150
92
Ivi, p. 154
32
È quindi ampiamento dimostrato da Bernardelli che

[…] la lirica non è una modalità parallela ed opposta alle modalità drammatica e
narrativa, ma piuttosto qualcosa di parzialmente coestensivo ad entrambe, che vi si può
sovrapporre variamente inglobandone gli elementi costitutivi. (Bernardelli, Il testo
lirico, p. 155)

La modalità enunciativa del ‘discorso in presenza’ che contravviene al principio fondamentale

della buona comunicazione, secondo cui si debba tener conto della distanza (spaziale, temporale,

culturale) dell’interlocutore, non è esclusiva del solo genere lirico. Un esempio è rappresentato

semplicemente dai testi narrativi moderno-contemporanei, come La luna e i falò di Pavese o

l’Assommoir di Zola, in cui la ‘voce’ che parla fa come l’io dell’Infinito di Leopardi: finge che il

destinatario del discorso sia lì davanti e che conosca le circostanze. Mentre le espressioni indicali

presenti all’inizio del testo lirico, però, rimandano deitticamente fuori dal testo stesso, quelle

presenti all’interno di un testo narrativo rinviano invece anaforicamente o cataforicamente

all’interno. Il punto è spiegarsi se questo duplice atteggiamento di strutture linguistiche simili sia

spontaneo e naturale o culturalmente indotto.

È sicuramente innegabile che qualsiasi rappresentazione linguistica cerchi una parte di realtà

alla quale applicarsi e grazie alla quale giustificare se stessa. È in qualche modo, spiega

Bernardelli, come «sospesa tra l’autonomia della pura dimensione linguistica e la mediatezza del

riferimento alle cose all’interno o all’esterno di sé»93. Nel caso del romanzo, però, poiché non è

possibile ricorrere agli orientamenti del contesto, la ragione del duplice funzionamento delle

strutture linguistiche deittiche è da ricercarsi nel co-testo, cioè nel «grado di chiusura del testo

considerato nella sua globalità»94. Al contrario, il testo lirico si presenta come una «struttura

logico-semantica aperta, ossia caratterizzata da un insufficiente grado di determinazione delle

coordinate di locuzione e delle unità di senso che lo compongono»95. Al lettore comune non resta

93
Ivi, p. 165
94
Ibidem
95
Ivi, p. 169
33
che affidarsi alle note che portano oltre il testo e permettono di identificare le entità fondanti

l’atto comunicativo. Il lirico, afferma Bernardelli, «apre una finestra sul mondo, vi invita ad

affacciarvi, e […] si limita per conto suo a fare commenti più o meno pertinenti»96. Il lettore di

un testo lirico ha sempre la sensazione che esista un oltre che bisogna esplorare per raggiungere

una piena comprensione della rappresentazione stessa.

Le possibili direzioni di ricerca sono comunque due. La prima è quella del co-testo, quindi

delle relazioni che l’unità possiede con segmenti adiacenti. Nel caso delle liriche, accade che

queste vengano composte in funzione del libro o che il materiale testuale disponibile venga

selezionato in modo da enfatizzare determinate linee tematiche. Nonostante ciò, l’autonomia di

una singola poesia resta sempre grandissima, se non assoluta: ognuna di esse è definibile come

«un’isola verbale»97. La seconda strada da poter seguire è quella del contesto. Nel caso del

genere lirico, però, il lettore non conosce le circostanze in cui il testo si inserisce, né ha a

disposizione molteplici determinazioni o riferimenti interni al testo stesso (come accade nel caso

di altri generi letterari). L’unico punto di riferimento preciso è rappresentato dalla persona

dell’autore che si nasconde dietro quell’io indefinito e alla cui biografia si finisce col chiedere le

determinazioni che il testo non dà. La verità è che è del tutto illusorio pretendere di trovare nel

contesto biografico l’immagine autentica dell’autore, perché è proprio attraverso il testo che egli

cerca di definire la propria immagine e di costituire la propria identità. In più, il messaggio del

testo lirico può fingere quello che dice e, perciò, il referente o il frammento di contesto evocato

può benissimo non esistere. Ciò che persegue in realtà l’autore, non è la fedeltà o la verità della

rappresentazione, ma la sua capacità di coinvolgere, ovvero la sua efficacia poetica. Qualsiasi

testo letterario è di base a-contestuale perché riflette la necessità di definizione dell’identità di

chi dice «io» e che solo per ipotesi si fa coincidere con l’autore. L’io lirico definisce l’autore non

meno di quanto l’autore può definire l’io lirico: il testo è destinato a rimanere aperto. Il limite

96
Ivi, p. 174
97
Ivi, p. 177
34
estremo di apertura di una qualsiasi rappresentazione verbale «sta nel punto oltre il quale c’è il

silenzio. Il silenzio rappresenta insieme l’assenza e la compresenza di ogni significato

possibile»98. Una parola sola costituisce un enunciato caratterizzato dal massimo di

indeterminatezza e di apertura possibili.

Conseguenze della natura aperta del testo lirico sono, in primo luogo, la limitazione

dell’ampiezza complessiva del tessuto verbale, ma soprattutto la possibilità di fare a meno del

titolo. La funzione primaria del titolo, infatti, è «di ordine banalmente semiologico»99.

Trovandoci, nel caso di un testo lirico, di fronte ad una costruzione verbale aperta e pseudo

contestuale, si può facilmente prescindere dal «segnacolo di autodesignazione»100.

Nel tentativo di descrivere e contemporaneamente di motivare la morfologia del testo lirico,

va specificato che i veri tratti costitutivi della liricità sono esclusivamente la sua ‘apertura’, o

indeterminazione, e il suo configurarsi sempre come un ‘discorso in presenza’. Tutti i tratti non

pragmatici, ma elocutivi (l’uso della prima persona, il predominio del tempo presente, la

configurazione enigmica, la metaforicità, la musicalità, ecc.), possono venir meno senza che

l’orientamento lirico sia compromesso. La liricità dipende esclusivamente dalla relazione di

contestualità e di condivisione del sapere tra locutore e destinatario, il grado di elaborazione

dell’espressione e la presenza dei tratti elocutivi garantiscono solo un rafforzamento della tipicità

del testo. La lirica, infatti, a differenza degli altri generi e tipi letterari chiusi e ripiegati su stessi,

non costituisce un blocco rigido, ma una «polarità»101 definita da una gerarchia di tratti, tra i

quali i più periferici è possibile trovarli anche in altre polarità testuali. L’ampia categoria nella

quale il testo lirico sembra collocarsi è quella più generale del poetico: essa in qualche modo

risulterebbe essere una varietà testuale del poetico, che lo ingloba in sé stesso. In realtà è più

corretto affermare, al contrario, che la lirica costituisce il fondamento della dimensione poetica,

98
Ivi, p. 189
99
Ivi, p. 198
100
Ibidem
101
Ivi, p. 206
35
la sua radice e la sua vera essenza. Il discorso sulla poeticità e sulla liricità in quanto categorie

estetiche, e non tipologico-letterarie, resta comunque del tutto aperto e destinato a rimanere tale.

Per quanto riguarda l’organizzazione di superficie e il profilo elocutivo del testo lirico, le

conseguenze strutturali che derivano dalla sua configurazione ‘in presenza’, oltre alla brevità,

sono l’uso della prima persona, l’appiattimento della temporalità al presente e l’opacità del senso

che tende a forme di vera e propria ermeticità.

Che il discorso lirico si presenti come un discorso della prima persona è un’evidenza non

discutibile, tant’è vero che la lirica da secoli è conosciuta come il ‘genere dell’io’. Accade

spesso, poi, che la prima persona singolare venga sostituita con la prima persona plurale,

generando un ampliamento dell’orizzonte di riferimento che determina un’inclusione degli

ipotetici destinatari nella prospettiva del locutore. Accanto ad esse, compare spesso anche l’uso

della seconda persona singolare, per cui il discorso lirico andrebbe definito più come un

‘discorso dell’io/tu’ anziché un discorso dell’io. Questa struttura è una conseguenza diretta

dell’impianto allocutivo del discorso in presenza e dell’impostazione apostrofale. Più che un

passaggio da un’istanza personale all’altra, però, si tratta di una «semplice dialettizzazione della

stessa soggettività, che assume insieme i ruoli del locutore e dell’allocutario»102. Il tu, quindi,

risulta essere una sorta di sdoppiamento dell’io, una sorta di sua duplicazione, come in un gioco

di specchi. Anche questi fenomeni di sostituzione della categoria della persona sono direttamente

connessi alla particolare economia del discorso in presenza, il quale riduce al minimo la distanza

comunicativa e rende palpabili i due fattori dell’io e del tu. Questa doppia polarità della

comunicazione resiste anche nel caso in cui l’io-lirico scelga di parlare semplicemente a se

stesso e di collocarsi in regime di soliloquio autoapostrofandosi.

102
Ivi, p. 216
36
Scrive Bernardelli:

[…] è parlare ad un tu che non si avrà mai di fronte, che si consuma nel silenzio, fuori
del tempo, e nello spazio assoluto del foglio bianco. Certo, c’è il lettore, ma questa è
una presenza lontana, indeterminata e del tutto ipotetica. In queste condizioni,
l’allocutario finisce spesso coll’essere […] una specie di necessità dialettica, una
costruzione della mente dovuta alla particolare modalità espressiva che si è scelto di
praticare. (Bernardelli, Il testo lirico, p. 221)

L’io-lirico che si sdoppia può anche designarsi semplicemente con ‘l’altro da sé a cui si

rivolge’, ossia con il tu. Le due soggettività arrivano ad avvicinarsi a tal punto da sovrapporsi

fino ad inglobare l’io nel tu. Il soggetto locutore riesce a vedere dentro il proprio interlocutore e

a coglierne i moti interni più reconditi arrivando a costituire una struttura psichica unitaria. Ciò

non corrisponde ad una doppia personalità, il ‘guardar dentro l’altro’ è un ‘guardarsi dentro’ che

porta l’io-locutore a predicare se stesso in forma oggettivata. Il tu in questione è «un tu

‘coscienzale’, ossia una pura proiezione o rappresentazione in termini pseudo-oggettivi

dell’io»103. Colui che parla, quindi, può adoperare la prima persona, secondo la norma, ma

anche la seconda o addirittura la terza: poiché il discorso è circolare e autoriflessivo. La retorica

ha di fatto inventariato questa possibilità di scivolamento teorizzando la figura dell’enallage di

persona, che consiste nel sostituire la seconda singolare alla prima o alla terza o alla costruzione

impersonale del verbo. Ciò accade ad esempio in alcuni testi poetici di Giacomo Leopardi: «Odi

il martel picchiare, odi la sega / Del legnaiuol, che veglia / Nella chiusa bottega alla lucerna»104.

La natura ‘in presenza’ del discorso lirico determina anche la dominanza della categoria

dell’attualità e, di conseguenza, dell’uso del tempo presente. I tempi verbali non sono altro che

uno strumento di orientamento rispetto al momento dell’enunciazione e, per questo, chi parla in

prima persona e in contesto tende a farlo al presente perché in quel momento ha davanti, o finge

di avere, l’interlocutore. Il presente indica la coincidenza stretta dell’evento descritto con la

verbalizzazione dell’evento stesso: dire «io» significa sempre ‘io che parlo in questo luogo e nel

103
Ivi, p. 226
104
GIACOMO LEOPARDI, Canti, introduzione di Franco Gavazzeni, Milano, Bur Rizzoli, 2020, p. 471, vv. 33-35
37
momento attuale’. Questa tendenza è così forte che anche quando le tracce della soggettività del

lirico si affievoliscono la rappresentazione continua ad essere al presente. Nelle poesie sul

temporale, ad esempio, pur essendo composte quando il temporale è finito, il lirico finge di

parlare nel momento in cui sta per scoppiare. Basta pensare al componimento Temporale di

Giovanni Pascoli. Un’altra ragione per cui nel discorso lirico domina il tempo presente è data dal

fatto che esso si alimenta dei contenuti più diversi e, tra questi, anche concetti di portata

universale di tipo antropologico o ideologico. Ciò che è ideologico, argomentativo, filosofico è

sempre al presente, come accade nella poesia Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo.

Per quanto riguarda il tratto della relativa e costante opacità semantica del testo lirico, esso si

lega a sua volta ad un altro tratto: quello dell’ermeticità vera e propria. Solo in lirica, infatti,

l’ermetismo è sentito come fenomeno organico e strutturale. Scrive Bernardelli che «la libertà di

essere oscuri è sempre stata rivendicata come una delle libertà fondamentali del lirico (la sua

parola ‘vola’, senza bisogno di spiegare o di chiarire)»105. Le varie forme di ermetismo ricorrenti

in ambito lirico non sono altro che la radicalizzazione della ‘libertà dal senso’ di cui gode il

messaggio che finge la presenza e il coinvolgimento del destinatario nella vicenda del locutore.

Questa ‘libertà dal senso’ e la ridotta autonomia, o mancanza di autoconsistenza, rappresentano

due generali proprietà a cui si legano i restanti tratti elocutivi e formali del testo lirico.

La prima si lega direttamente al fatto che, comunicando con qualcuno che è in contesto e

condivide le stesse presupposizioni, il locutore gode di un margine di libertà verbale molto più

ampio di quello che è normalmente concesso a chi si rivolge a qualcuno che invece in contesto

non è. Il lettore è quasi invitato ad abbandonare la costruzione verbale e a trovare all’esterno le

ragioni di una libertà che può spingersi quasi all’abolizione della materia dell’enunciato stesso.

Basti pensare a Mattina di Giuseppe Ungaretti, il cui testo trova senso nella parte di servizio del

testo stesso, ossia nel peritesto rappresentato dal titolo e dall’esergo sottoscritto (“Santa Maria La

105
BERNARDELLI, Il testo lirico, cit., p. 238
38
Longa il 26 gennaio 1917”). A questo proposito Goethe afferma che «ogni lirica deve essere nel

suo complesso molto sensata, nel dettaglio un po’ insensata»106. La lirica gode di una duplice

libertà: quella dalla necessità di informare e quella dalla necessità di collegare. Grazie alla prima,

il testo può rifiutarsi di dichiarare di cosa stia parlando e ignorare completamente le attese di

senso del lettore arrivando a dissolvere la predicazione stessa in una sorta di grido inarticolato. Il

secondo tipo di libertà, invece, consente alla lirica di allentare i nessi sintattici e diminuire la

coesività complessiva del testo, generando un tipo di comunicazione internamente sconnesso.

Diffusa è la tendenza, ad esempio, di cominciare un discorso con una congiunzione coordinativa,

come nel caso di E ora, in queste mattine di Vincenzo Cardarelli o di La Madre di Giuseppe

Ungaretti. I poeti, nonostante non vi sia alcuna relazione tra il testo in questione e quelli

precedenti, si comportano come se stessero proseguendo un discorso apostrofale la cui prima

ipotetica parte si troverebbe fuori del libro, nel contesto esterno, nel vissuto. Il carattere slegato

della struttura del testo lirico è evidente tanto nell’accumulo di unità strofiche che vengono

semplicemente accostate tra loro, quanto nell’andamento parcellare del discorso «internamente

legato e rotondamente congegnato»107.

I restanti tratti formali dell’artefatto lirico si legano direttamente alla seconda proprietà sopra

presentata: la mancanza di autoconsistenza o ridotta autonomia testuale. Una comunicazione in

presenza si presenta in genere, lo si è visto, come qualcosa di breve, di aperto, di internamente

slegato, spesso anche di banale. Se presa fuori contesto, essa resta come sospesa nel vuoto e

sembra approdare all’insignificanza. È una ripetizione di luoghi comuni, di verità risapute e di

parole di circostanza. È per questo che il testo che ne deriva ha scarsa autoconsistenza e rischia

di confondersi con le infinite parole in presenza del quotidiano. Allo stesso tempo, però, quello

lirico è il genere più disponibile alla ricerca e alla sperimentazione linguistica: se da un lato è la

parola letteraria più vicina al regime dell’oralità, dall’altro è la più meditata ed indiretta,

106
JOHANN WOLFGANG GOETHE, Massime e riflessioni, Trad. di M. Bignami, Tea, Roma, 1988, p. 130
107
BERNARDELLI, Il testo lirico, cit., p. 252
39
caratterizzata da un altissimo grado di elaborazione. Secondo Bernardelli «la parola del lirico ha

sempre un po’ bisogno di fare violenza al linguaggio, di forzarne in parte le regole e di sfruttarne

al limite della rottura i meccanismi di funzionamento»108. La lingua della lirica è sempre stata

concepita come una lingua altra, diversa da quella dell’uso corrente, caratterizzata da singolari

procedimenti di intensificazione delle capacità di presa del testo. Prime fa tutte, le varie forme di

metafora e di similitudine. La lirica sembra essere per sua natura metaforica: produce immagini

in misura mediamente superiore a quella di qualsiasi altro testo letterario e, soprattutto, di

maggior intensità. Questa forte metaforicità del discorso lirico sembra derivare dalla necessità di

riscattare la scarsa presa del contenuto: l’immagine salva il testo e ne costituisce la vera

invenzione. La metafora costituirebbe una forma particolare di conoscenza elitaria, una sorta di

strumento di rivelazione e di partecipazione iniziatica a verità nascoste non altrimenti

comunicabili.

Un altro aspetto del testo lirico che compensa la debolezza dei significati è l’intensa

elaborazione del significante, ossia della sua forma sonora, che ha trovato nei secoli il proprio

strumento privilegiato nell’organizzazione metrica della sequenza. Questo tratto ha prodotto nel

corso del tempo due esiti diversi, dovuti al passaggio dalla trasmissione a voce alla lettura:

l’elaborazione musicale dell’artefatto lirico e l’elaborazione del significante grafico.

L’elaborazione musicale ha definito per secoli la dimensione stessa della liricità: lirico ha sempre

significato ‘destinato ad essere cantato’. Questo perché la lirica presenta molteplici

caratteristiche che la predispongono al canto: la sua brevità, la sua precarietà testuale, il suo

carattere di discorso della voce viva destinato ad essere recitato davanti ad un destinatario, la sua

attenzione ai suoni dato dalla metricità, il suo carattere emotivo. La separazione che si è avuta

nella modernità, per cui la lirica è esclusivamente arte della parola, deriva dal fatto che il testo

lirico non si trasmette più davanti ad un uditorio ma si legge privatamente. Bernardelli la

108
Ivi, p. 260
40
definisce «la lirica dell’attuale regime della comunicazione di massa e della civiltà del rapido

consumo»109. Per quanto riguarda l’elaborazione del significante grafico, essa si lega alla

esaltazione della scrittura in quanto fatto grafico ricco di potenzialità iconiche ed estetiche. La

condizione principale è che il testo sia visibile con un solo colpo d’occhio, come un’icona. Ed è

la stessa organizzazione metrica del discorso a spingere in questa direzione: il taglio delle righe

prima del margine, il loro allineamento, il raggruppamento in strofe, la spaziatura tra strofa e

strofa producono effetti visivi atipici rispetto alla pagina in prosa. È così che nasce l’artificio del

technopaegnion, che consisteva nel distribuire versi di lunghezza diversa in modo da realizzare

figure di varia natura. Questo ed altri procedimenti sono stati poi enfatizzati dai movimenti

d’avanguardia del Novecento ed essi non sono altro che il riflesso di un’epoca in cui i rapporti

fra scrittura poetica e arti grafiche diventano strettissimi e l’idea di musicalità subisce una

divaricazione tale da manifestarsi anziché sul significante fonico su quello grafico.

2.3 Fattori di testualizzazione

Per quanto sia dalla caratteristica del ‘discorso in presenza’ che discendono le proprietà

fondamentali del messaggio lirico, ugualmente costitutiva dell’enunciazione lirica è la distanza

di fatto del lettore, che non è mai in contesto, né possiede le informazioni ad esso relative. Il

lirico è diviso tra due logiche opposte: la logica della presenza e la logica della distanza.

Quest’ultima va sempre colmata gettando qualche «filo nel vuoto che separa la presenza

supposta dalla distanza effettiva»110, in modo da spostarsi dal polo dell’apertura verso quello

della chiusura, dalla frammentarietà verso la costruzione testuale meditata e connessa. Sebbene il

lirico finga di parlare per se stesso, quindi, in realtà ha bisogno di trasmettere quello che dice,

pensa sempre al lettore che dall’altra parte cerca di capire. Aggiunge Bernardelli: «il lirico volta

109
Ivi, p. 275
110
Ivi, p. 280
41
le spalle al pubblico guardando la scena anziché la platea, ma […] si gira continuamente per

lanciare cenni d’intesa e verificare se lo si sta seguendo»111. Il lirico non può, quindi, ignorare

del tutto i problemi di senso che si pongono al destinatario reale, così finisce col mettergli a

disposizione gli strumenti e gli indizi che permettono di avviare il processo di definizione del

senso.

Il primo orientamento offerto al lettore è dato dal titolo, per quanto esso sia del tutto superfluo

perché una lirica può farne tranquillamente a meno. Se è vero che il discorso lirico è un discorso

estemporaneo in presenza, il titolo risulta del tutto superfluo se non comico. Esso si lega più alla

logica della distanza che a quella della presenza: «costituisce un fattore di testualizzazione e

insieme di chiusura dell’aggregato linguistico che designa»112. La sua presenza esplicita che

quello che si legge è qualcosa di artefatto e di meditato, facilitando la ricostruzione del senso da

parte del lettore. Negli altri tipi di testo (una novella, un romanzo, un saggio) il titolo è

conseguenza del testo; in quello lirico, invece, è il testo che può diventare conseguenza del titolo.

Nel primo caso il titolo funziona «come una specie di faro supplementare che proietta un fascio

di luce […] su un edificio […] che è tuttavia già sufficientemente illuminato al suo interno»113.

In un testo lirico, invece, il titolo non è il faro ma la luce che rivela ciò che stava come in

penombra.

Il secondo fattore di riduzione della distanza è rappresentato dalle forme di ridondanza

semantica. Il lirico sa di doversi giostrare tra il regime della presenza e la reale condizione di

distanza del lettore, per questo arricchisce il testo di informazioni che sarebbero scontate se così

non fosse. Nel caso dell’Infinito di Leopardi, ad esempio, le precisazioni del colle «ermo» e della

siepe che impedisce la vista evocano due proprietà di immediata evidenza, ma per nulla scontate

per il lettore.

111
Ibidem
112
Ivi, p. 286
113
Ivi, p. 289
42
Il terzo fattore di testualizzazione è dato dalla collezione delle singole liriche nell’insieme

della raccolta. Ciascun testo rappresenta sempre un’entità a sé; la raccolta è una costruzione a

posteriori che non compromette l’autonomia e la separatezza delle unità. È una struttura orientata

al lettore: si mettono insieme dei testi in un libro per qualcuno che è fuori contesto. «Il testo

lirico sembra destinarsi all’orecchio vicino e alla mente che sa, ma è in realtà per l’occhio

lontano e per l’intelligenza ignara»114. Attraverso l’accostamento i testi, poi, cominciano a

istituire delle relazioni di contiguità con gli altri, preservando intanto la propria natura aperta ed

enigmica. Il senso di uno si arricchisce e si definisce pienamente solo nella relazione con gli

altri, per questo la raccolta è un vero e proprio strumento di chiusura del senso e di riduzione del

margine di indeterminatezza.

Sono questi i fattori che, secondo Giuseppe Bernardelli, consentono di creare un modello di

comunicazione letteraria che possa fungere da schema interpretativo utile a unificare e

comprendere una serie di testi. Secondo tale prospettiva, dunque, il testo lirico risulta essere il

risultato di un processo di aggregazione di più tratti. Primo fra tutti, l’effetto di presenza, seguito

dagli arricchimenti elocutivi e dall’eventuale elaborazione musicale. L’autore, però, non ha

coscienza di seguire uno schema enunciativo determinato, egli semplicemente imita altri testi in

cui quella struttura è iscritta. Tutto è già nella poesia greca, portata avanti da quella latina e

presto integrata da quella ebraico-cristiana. Si trattava di una lirica ‘di circostanza’ che

prevedeva un coinvolgimento diretto del destinatario: il poeta costituiva il centro della piazza e

con i suoi uditori formava un unico insieme, come una sorta di rito collettivo. Il tema era dato

direttamente dal destinatario, l’artista doveva solo svolgerlo in modo originale. Il testo, di

conseguenza, tendeva a semplificarsi secondo modalità enunciative ripetute infinite volte. È così

che si spiega l’origine e la permanenza storica della modalità comunicativa lirica. La parola del

lirico serve a comunicare e si serve di molteplici attributi estetici per far presa sul destinatario,

114
Ivi, p. 300
43
riferendosi ad un contesto preciso nel quale finge che sia presente e consapevole il suo uditore. È

questo il paradosso del lirico: «tende a parlare di sé e di cose minime a un mondo che non c’è,

comportandosi come se il sapere che tematizza fosse perfettamente presente alla coscienza del

mondo»115.

2.4 Eugenio Montale, I limoni

La poesia I limoni di Eugenio Montale è un perfetto esempio di come il poeta possa giocare

con l’uso della prima persona singolare e scegliere di alternare ad essa la prima plurale o la

seconda singolare. Come si è visto, sebbene il discorso lirico sia un discorso dell’io’aperto’ e ‘in

presenza’, il soggetto locutore può includere nella sua prospettiva gli ipotetici destinatari o

rivolgersi ad un tu indefinito che è in qualche modo specchio di se stesso.

Il componimento in questione è stato scritto da Montale all’età di soli venticinque anni, tra il

1921 e il 1922, ed è posto quasi in apertura della sua prima raccolta Ossi di seppia, fungendo da

vera e propria dichiarazione poetica. Sebbene appartenga alla prima stagione montaliana, esso

presenta uno stile sorprendentemente nitido e maturo. Montale sfoggia mediante il registro

stilistico la sua antiletterarietà, in controtendenza con le principali mode del tempo. Vi è infatti

una sintassi colloquiale, da discorso ‘a tu per tu’, lontanissima dalla poesia alta che Montale

prende a bersaglio.

I limoni si aprono con la comune apostrofe lirica spiegata da Bernardelli e poi proseguono con

il tipico ‘discorso dell’io’ in prima persona:

Ascoltami, i poeti laureati


si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.

115
Ivi, p. 308
44
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere 5
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. 10

Nel momento in cui dall’evocazione dei dettagli del quadro oggettivo si passa a fatti di

psicologia e di ordine morale, il plurale sostituisce il singolare secondo un movimento di

riflessione e generalizzazione:

Meglio se le gazzarre degli uccelli


si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore 15
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza 20
ed è l’odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose


s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta 25
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
45
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.

Lo sguardo fruga d’intorno, 30


la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana 35
qualche disturbata Divinità.

Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo


nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta 40
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni; 45
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.

Accanto alla prima persona singolare, insieme alla prima plurale, la seconda affiora di

continuo. Ciò dipende dalla natura del discorso lirico da identificarsi come un ‘discorso

dell’io/tu’ ed è una conseguenza diretta della struttura allocutiva e apostrofale della

comunicazione in presenza. L’intreccio delle due persone del verbo e delle forme pronominali

46
correlate è molto evidente: si inizia tematizzando la seconda e passando contemporaneamente

alla prima (ascoltami), si continua con la prima (io per me amo) e poi ci si allarga alla prima

plurale (tocca anche a noi) per tornare dopo alla seconda (vedi) e passare poi di nuovo alla prima

plurale (le forme impersonali stanno per una prima persona ulteriormente allargata). Il tu a cui si

indirizzano in apertura I limoni viene generalmente interpretato come il futuro lettore o come un

ipotetico interlocutore convocato dall’io-lirico, cioè dall’autore che si fa personaggio e si

rappresenta nei suoi versi. A mano a mano che il testo si sviluppa, però, l’opposizione personale

tu-io dell’inizio tende ad affievolirsi e le due identità personali si sovrappongono fino a

confondersi. Senza dubbio il tu viene richiamato all’inizio della terza strofa («Vedi, in questi

silenzi…»), ma già nella seconda si passa al noi, che non è altro che la riunione delle due

categorie di persona nella prospettiva di una vicenda unitaria. Tutto il discorso continua in

seguito in prima persona plurale, in modo tale che il tu viene assorbito nell’io attraverso il noi.

Spostandoci verso un’analisi più ampia del testo, possiamo sottolineare che il primo verso,

con la sua richiesta di ascolto, segna fin da subito la distanza rispetto alla tradizione

dannunziana, identificata nei “poeti laureati” (v. 1) e, attraverso una raffinata metonimia, nei loro

pregiati “bossi ligustri o acanti” (v. 3). Questi ultimi sarebbero il simbolo dei vati ufficiali

dell’Italia unita: Carducci, Pascoli e D’Annunzio, indicati dal poeta con i nomi rari dei vegetali

che compaiono nelle loro poesie. Egli si pone dinnanzi alla tradizione poetica con una certa

sfrontatezza, e così prende le distanze da una poesia precedente che sublimava eccessivamente il

suo oggetto (la tradizione delle piante “dai nomi poco usati”) per parlare di realtà più marginali

ma più capaci di toccare il cuore dell'uomo moderno e di simboleggiare qualcosa di più

profondo.

47
Scrive Mengaldo in «L’opera in versi» di Eugenio Montale:

Più volte però Montale ha giustamente escluso la sua appartenenza alla “lirica pura” che
si diparte in sostanza da Mallarmé per giungere da noi a Ungaretti ed ermetici, al loro
monolinguismo rarefatto, a quelle alchimie verbali.116

Egli si è proclamato erede di una poesia da lui detta «metafisica» e che «nasce dal cozzo della

ragione con ciò che ragione non è»117.

L’originalità montaliana si fa spazio anche nella metrica, come spiega G. Maruccelli in La

metrica di Montale:

tale metrica, per nulla rivoluzionaria, consiste non tanto in un compromesso fra la
libertà novecentesca e le norme tradizionali, quanto in una nuova regolarità tendenziale
che allude a quella classica senza ricalcarla e si crea sue proprie norme.118

L'autore si muove, inoltre, nel solco della poetica di T. S. Eliot del correlativo oggettivo,

secondo la quale una realtà emotiva può essere meglio rappresentata in modo indiretto,

attraverso la descrizione di un oggetto concreto che funge da simbolo della stessa. Le immagini

scelte per rappresentare stati interiori e concetti astratti sono molto efficaci: le anguille che

guizzano in «pozzanghere mezzo seccate» (vv. 5-6), le «viuzze che seguono i ciglioni» (v. 7), il

sussurro dei rami sullo sfondo di un cielo azzurro e di un'aria immobile che hanno inghiottito i

rumori abituali. In realtà, in La verità della poesia. Da Baudelaire a Montale, M. Hamburger

nota che, a differenza di Eliot, Montale «non si concentra tanto su riconoscibili “correlativi

oggettivi” o soggettivi. La sua fantasia si muove più liberamente, tra elementi che non sono

sempre famigliari a tutti»119.

116
P. V. MENGALDO, «L’opera in versi» di Eugenio Montale, Einaudi, Torino, 1995, p. 14
117
E. MONTALE, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano 1976, p. 581
118
G. MARUCELLI, La metrica di Montale. Isosillabismo ed equivalenza ritmica dagli «Ossi di seppia» alle
«Occasioni», in Contributi per Montale, a cura di G. Cillo, Lecce, 1976, p. 100
119
M. HAMBURGER, La verità della poesia. Da Baudelaire a Montale, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 246
48
Mazzoni scrive a proposito delle liriche montaliane che

Il testo nasce da un taglio metonimico che isola, dalla totalità della vita, una serie di
scene irrelate, come se le poesie fossero le terre emerse da un fondale biografico
invisibile, e come se la scrittura imitasse le reticenze di una pagina di diario o di una
lettera alla persona amata.120

La possibilità di trovare qualcosa di diverso, di più alto, in qualche angolo della nostra

esperienza, sembra però svanire non appena la vita riconduce il poeta (e con lui il lettore) nella

realtà del quotidiano, dove l'azzurro del cielo si spezza e la noia impoverisce l'io. Il vivere è

soffocante, se non fosse per queste saltuarie rivelazioni cui possiamo assistere e attraverso le

quali scorgiamo per un attimo il colore simbolo della vita: il giallo dei limoni.

La poesia si conclude in un liquefarsi dell'identità del poeta che osserva quel frutto in

un’esperienza quasi mistica in grado di spezzare l’insufficienza della vita. Allora il cuore «si sfa»

(v. 46), la visione diventa percezione sonora («in petto ci scrosciano le loro canzoni» al v. 47),

musica e visione si fondono poi nell'immagine finale delle «trombe d'oro della solarità» (v. 49).

Nonostante le dichiarazioni esplicite, I limoni è un componimento raffinato e tutt’altro che

privo di modelli e referenti letterari. A tal proposito Guido Mazzoni scrive:

Dunque la continuità dei temi, proprio come quella dello stile, non è rigida ma
dialettica: lo spirito del grande romanticismo lirico sopravvive, ma la lettera si adegua ai
tempi. Ho chiamato questo modo di far poesia classicismo lirico moderno: ‘classicismo’
perché esibisce una continuità con la tradizione poetica di stile alto, […] ‘moderno’
perché adatta la tradizione ai tempi nuovi.121

Il crepuscolarismo, ad esempio, aveva già reagito al modello di D’Annunzio, attraverso un

radicale abbassamento della poesia in direzione della prosa e del quotidiano. Ne I limoni invece

ritroviamo lo stesso D’Annunzio, sebbene in forma dialettica e stravolta. Possiamo infatti

paragonare I limoni con un testo dannunziano altrettanto significativo: La pioggia nel pineto.

120
G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna, 2015, p. 104
121
G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, cit., p. 189
49
L’attacco “Ascoltami” del primo verso ricorda l’anafora insistita su cui è costruito il testo

dannunziano. Anche i versi che descrivono l’effetto provocato dall’odore dei limoni (vv. 15-17)

contengono un’ispirazione dannunziana: “piove” è infatti usato transitivamente, nel senso di

“cola”, con l’“odore” come soggetto e la “dolcezza” come oggetto.

Diversamente però da D’annunzio, la sensazione dei limoni non ha in Montale nulla di

vittorioso. Il miracolo che potrebbe nascere dai “silenzi” nella terza strofa alla fine non si

realizza. “L’illusione manca” (v. 37), cioè svanisce: ed è un sogno amaro e quindi lontano dalla

“favola bella” che “illude” de La pioggia nel pineto (vv. 29-32). Gli accenti dannunziani

ritornano nella chiusa della poesia: un eventuale incontro con un’altra pianta di limoni può

provocare una nuova eccezione alla quotidianità amara del poeta. Per costruire questa complessa

immagine sensoriale Montale usa un procedimento sinestetico, cioè di unione e di fusione di

sfere sensoriali diverse (come, in questo caso, vista e udito). Secondo Pietro Cataldi, attraverso

questa strategia «il modello dannunziano appare già qui, più che rinnegato, sfidato, e utilizzato in

vari modi»122.

Il rapporto tra Montale e D’Annunzio è quindi molto più articolato di quanto possa sembrare.

I critici per spiegarlo usano un’immagine inventata da Montale stesso, riferita a Guido Gozzano,

che per l’autore degli Ossi di seppia è stato «il primo poeta del Novecento che riuscisse (com’era

necessario e come probabilmente lo fu anche dopo di lui) ad attraversare D’Annunzio per

approdare a un territorio suo»123. Montale contrappone ai toni accesi di D’Annunzio un’etica più

difficile in cui l’uomo, in lotta con il cosmo, è alla disperata ricerca del senso delle cose. Pietro

Cataldi ha messo in luce in modo assai preciso questa differenza ideologica:

Come D’Annunzio aspira a riconoscersi nel tutto e ad affermare nella dimensione del
panismo la propria identità, così Montale è costretto a riconoscersi nei frantumi scissi
dal contesto, particolari espulsi dall’universale, e costretto a misurarsi con la crisi di

122
P. CATALDI, Introduzione a I limoni, in Eugenio Montale, Ossi di seppia, Milano, Mondadori, 2003. p. 12
123
E. MONTALE, Gozzano dopo trent’anni (1951), in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, Mondadori, Milano,
1996, p. 1275
50
identità apportata dal destino di deiezione e di estraneità. In D’Annunzio tutto si ritrova;
in Montale tutto si perde, “con la cenere degli astri”.124

Resta innegabile, comunque, che I limoni lasciano il segno nel repertorio montaliano di una

possibilità in un mondo quotidiano disilluso, la quale è sempre disponibile se le porte si

schiudono e se sappiamo osservare.

124
P. CATALDI, Montale, Palermo, Palumbo Editore, 1991, p. 22
51
III. Guido Mazzoni, Sulla poesia moderna

Nel suo libro Guido Mazzoni si serve di un discorso di tipo comparatistico per proporre

un’interpretazione unitaria della poesia moderna che ha l’ambizione di essere ritenuta valida per

tutte le letterature occidentali, sebbene lo spazio dedicato a quella italiana risulti inevitabilmente

maggiore. Il punto di partenza della sua analisi è costituito da una ricostruzione genealogica dei

concetti su cui si fonda l’immagine della poesia moderna: l’idea che la scrittura in versi degli

ultimi secoli sia diversa da quella premoderna e che abbia al proprio centro il genere lirico. Per

quanto il momento più vistoso della sua storia coincida con l’età fra Baudelaire e le avanguardie,

la nostra idea del genere nasce in realtà in epoca romantica.

Nella prima parte del testo lo scrittore ripercorre la formazione della teoria in questione e

mostra le novità della poesia moderna prendendo come esempio il celebre testo leopardiano

L’infinito. In seguito, traccia una storia delle forme praticate negli ultimi due secoli e propone

una sorta di mappa delle tendenze che compongono lo spazio letterario in oggetto. Nel capitolo

conclusivo, poi, discute su quali siano oggi il significato e il valore della poesia moderna e su

quale immagine del mondo e dell’uomo essa ci trasmette.

3.1 Le forme dell’arte e la storia degli uomini

Con l’espressione spazio letterario125 Mazzoni intende l’insieme delle opere che gli autori di

una certa epoca giudicano giusto scrivere e ritengono all’altezza dei tempi. Un esempio lampante

è rappresentato dai Disegni letterari di Giacomo Leopardi, in cui il giovane scrittore ci ha

lasciato traccia di tutte le possibilità che uno scrittore italiano di quel periodo avesse e, quindi, la

125
G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna, 2015, p. 9

52
«topografia del suo spazio letterario»126. Le opere nominate da Leopardi appartengono a due

mondi storici diversi e soprattutto inconciliabili, per questo tale insieme rappresenta un perfetto

esempio di quella grande metamorfosi che la letteratura europea ha vissuto fra la seconda metà

del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. È questo il momento in cui uno spazio letterario nuovo si

affianca ad uno spazio letterario dalla tradizione millenaria, da un lato la letteratura moderna e

dall’altro quella premoderna. Leopardi credeva di potersi muovere in entrambi, senza porre alcun

tipo di frontiera.

Walter Benjamin in un suo saggio, per mostrare l’estrema lentezza delle trasformazioni

letterarie, le paragona all’evoluzione che la superficie terrestre ha subito attraverso le ere

geologiche127. In questi termini interpreta i cambiamenti del modo di vivere la realtà che ci sono

stati nel passaggio dal mondo premoderno, comunitario, a quello moderno, individualistico. Egli

sembra suggerire che le strutture della narrativa si evolvono lentamente perché sono portavoci

delle trasformazioni della storia umana: «l’arte traduce la continuità ideale di un’epoca nella

continuità visibile di un sistema di segni, […] proprio come la superficie terrestre fa col tempo

geologico. È questa la filosofia della storia cui Benjamin allude»128. Questo modo di intendere il

divenire dell’arte e della cultura affonda le sue radici nelle lezioni hegeliane di estetica e di

filosofia della storia e si diffonde in due versioni differenti caratterizzate da opere molto diverse

tra loro ma fondate su presupposti comuni diventati oggi problematici e facilmente criticabili.

Sono tre gli unici aspetti che secondo Mazzoni sono ancora difendibili e sui quali, dunque, si

fonda il suo saggio.

In primo luogo, il presupposto che i sistemi culturali coevi tendono ad intersecarsi e ad

influenzarsi tra loro producendo una specie di sintesi oggettiva. Come spiega Proust, «gli uomini

vissuti negli stessi decenni, se visti da lontano, finiscono per assomigliarsi tutti, e le distinzioni

126
Ibidem
127
W. BENJAMIN, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus novus, Torino, Einaudi,
1962, p. 252
128
G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, cit., p. 12
53
che parevano insormontabili si stemperano nel colore dell’epoca»129. Le maggiori letterature

europee sembrano percorse dagli stessi fenomeni di lunga durata: il romanzo, la poesia e il

dramma degli ultimi secoli compongono un sistema abbastanza omogeneo e segnato da

caratteristiche comuni. Nonostante ciò, resta sempre viva la possibilità di distinguere epoche e

spazi culturali diversi:

certe discontinuità si lasciano cogliere nella dimensione della lunga durata. […] è
sufficiente pensare al fenomeno ottico elementare per cui la distanza attutisce le piccole
differenze e rende visibili le grandi.130

In secondo luogo, è necessario smentire il presupposto su cui si fondano le storie di impianto

tradizionale secondo cui i pochi testi di cui si parla possano rappresentare un intero periodo,

mentre la ricostruzione di uno spazio letterario circoscritto offre un panorama molto più

stratificato. Sarebbe corretto, dunque, sforzarsi di cercare la rete delle cause che si pongono

dietro uno scrittore, un movimento, un genere e abolire la convinzione secondo cui i verdetti

della storia riflettano il valore delle opere, destinato ad emergere negli anni grazie al ‘giudizio

del tempo’. Per recuperare l’immagine autentica di un’epoca è illusorio credere che basti

attribuire un ingiustificato valore universale ai testi o credere che un numero ristretto di scrittori

possa esprimere l’intero spirito del tempo. Bisogna piuttosto «insistere sulle fratture, sulle

dispersioni, sugli attriti che turbano l’unità apparente di un periodo storico»131. Le opere e le idee

dominanti non si impongono solo perché vincono la lotta interna al sistema letterario, ma perché

si adattano meglio al cambiamento storico complessivo. Scrive Bourdieu, il più acuto dei

genealogisti, che

le lotte interne sono in qualche modo arbitrate dalle sanzioni esterne. In effetti, benché
siano largamente indipendenti nel loro inizio (cioè nelle cause che le determinano), le
lotte che si svolgono all’interno del campo letterario dipendono sempre, nel loro esito,

129
M. PROUST, Le Temps retrovué, Gallimard, Paris, 1989, vol, IV, p. 537
130
G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, cit., pp. 16-17
131
Ivi, p. 18
54
felice o infelice, dalla corrispondenza che intrattengono con le lotte esterne (quelle
interne al campo del potere o al campo sociale nel suo insieme)132.

La memoria di lunga durata, quindi, nascerebbe dalla capacità di trasformare i gusti di un

gruppo in gusti condivisi, affiancando al potere di imporre certe idee l’abilità di rispondere alle

attese sociali. I generi, gli stili, i canoni, sebbene nati dalla pura volontà di potenza, non

significano solo la vittoria casuale di una fazione su un’altra.

Attraverso il terzo punto Mazzoni poi si interroga sulla tendenza degli storici della cultura a

pensare prettamente per epoche, concepite come organismi unitari. A differenza di quanto

afferma Gombrich in I custodi della memoria133, Mazzoni ritiene che questa tendenza non sia

«un semplice riflesso di un tacito hegelismo, ma discende dalla natura dell’oggetto

considerato»134. Si è portati a pensare per epoche perché il campo del simbolismo espressivo è lo

spazio immaginario dove si manifestano meglio il senso e l’inconscio comune. Fra tutti i

segmenti di questo territorio, il più espressivo è quello estetico. Le forme dell’arte registrano

meglio la storia degli uomini perché «danno una consistenza plastica alla maniera di intendere le

strutture primarie della vita»135.

Quando Benjamin paragonava le forme narrative alla superficie terrestre, pensava a gruppi di

opere complessi e indefinibili: i generi, famiglie di testi del tutto disomogenee. Possiamo

considerare questi ultimi come le zolle che danno forma, con i loro movimenti, alla crosta del

pianeta. Queste categorie ci portano a chiamare col nome astratto di ‘genere letterario’ delle

entità completamente diverse tra loro. Per evitare tale confusione Goethe proponeva di fissare

una gerarchia razionale deducendo delle grandi categorie ideali a cui riportare l’insieme confuso

132
P. BORDIEU, Les Règles de l’art, Seuil, Parigi, 1998, p. 416
133
E. H. GOMBRICH, I custodi della memoria. Tributi ed interpreti della nostra tradizione culturale, Feltrinelli,
Milano, 1985
134
G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, cit., p. 22
135
Ibidem
55
delle categorie storiche136. La distinzione primaria da fare sarebbe quella tra la massa dei generi

poetici (Dichtarten) e le tre grandi forme naturali (Naturformen) della poesia l’epica, la lirica e il

dramma. Oggi continuiamo a chiamare con la stessa parola sia le forme naturali astoriche di

Goethe sia la massa delle forze storiche e concrete: alle prime appartengono le nozioni di

narrativa, dramma e lirica; alle seconde, le svariate categorie che le diverse culture hanno usato

per unire le opere (gli inni, i peani, il romanzo cavalleresco, storico, fantastico, la commedia

all’italiana). la distinzione gerarchica fra le diverse forme sembra conservare un’evidenza

lampante nel fatto che anche i piani di realtà su cui si collocano i generi stessi sono disomogenei:

alcuni si trovano in rapporto paritario fra loro, altre invece stanno in un rapporto di

subordinazione. Fra il romanzo di fantascienza, il romance, il romanzo e la narrativa, sembra

esserci una relazione crescente: il primo è sottoinsieme del secondo, il secondo del terzo, il terzo

della quarta. Attraverso un’analisi critica più severa, però, si scopre che è molto difficile

giustificare la differenza proposta da Goethe tra piccole e grandi forme. L’ipotesi di una catena

deduttiva che permetta di passare dalle prime alle seconde incontra tante difficoltà perché

rimanda ad un paragone fra le famiglie letterarie e le specie animali.

È giusto a questo punto approfondire il discorso intorno alla natura dei generi. Nella prima

parte di un saggio dedicato a questo tema, Jauss distingueva tre posizioni: per alcuni, i generi

incarnano delle essenze ante rem, cioè delle strutture che idealmente precedono l’esistenza

empirica dei testi; per altri, rappresentano delle griglie post rem che i lettori applicano a una

realtà letteraria dispersa; per altri ancora, registrano la continuità storica e il legame oggettivo fra

i singoli testi, quindi degli universali in re137. I generi, quindi, non rispecchiano l’essenza della

letteratura, come dichiarava la teoria delle forme naturali, ma designano degli insiemi di testi

storicamente imparentati da alcune somiglianze. Rispetto al problema di definire quali siano i

giusti criteri per stabilire queste relazioni, scrittori, critici e istituzioni si scontrano nel tentativo
136
J. W. GOETHE, Divan occidentale-orientale, a cura di R. Fertonani, Mondadori, Milano, 19997, vol. III, pp.
462-463
137
H. R. JAUSS, teoria dei generi e letteratura del Medioevo, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 221
56
di imporre ognuno una precisa idea dello spazio letterario. Solo alcune partizioni diventano

effettivamente egemoni ed affermate, ma nessuno può mettere in discussione l’esistenza di

insiemi chiamati romanzo moderno o poesia moderna, perché una rete di somiglianze, di attese e

di saggi critici rendono questi universali in re incontestabili. I generi sono tenuti insieme da due

elementi: un’oggettiva somiglianza di stile e argomento fra i testi che li compongono e gli

schemi mentali che consentono ai lettori di percepire la continuità fra le opere. Scrive Mazzoni

che

Se il modello organicistico presuppone degli universali ante rem, e se il modello


tassonomico presuppone degli universali post rem, l’unico schema mentale che si
addice agli universali in re è quello topografico.138

Egli paragona gli universali in re con le città: il nostro immaginario se li rappresenta come

sistemi di case eterogenee tenute insieme dalla vicinanza spaziale, da una storia comune, da

criteri architettonici o da un nome proprio. Come i piani regolatori dei centri storici impongono

alle nuove costruzioni di adeguarsi a una certa immagine della città, così le aspettative diffuse

dei lettori condizionano gli scrittori, che finiscono per adeguare le loro opere alla prassi di

genere. Come ogni spazio, poi, anche i generi letterari hanno un centro e una periferia: nel primo

risiedono le opere che il lettore percepisce vicine a un ipotetico idealtipo, nella seconda, invece, i

testi che si fanno rientrare nel genere anche se eccentrici rispetto alla norma.

3.2 Lo spazio letterario della poesia moderna

Fra la seconda metà del Settecento e l’inizio del Novecento, la poesia europea subisce una

metamorfosi straordinaria: i poeti conquistano una completa libertà lessicale, metrica, sintattica e

retorica; all’espressivismo dei contenuti si affianca quello della forma; lo stile si fa riflesso di

una nuova sensibilità. Anche lo spazio della poesia moderna è complesso e in parte

138
G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, cit., p. 32
57
disomogeneo. ‘Poesia’ significa, in primo luogo, un discorso in versi, l’epoca moderna della

scrittura in versi invece si colloca fra l’età romantica e quella delle avanguardie. Sebbene la

maggior parte del suo territorio sia occupato da opere in versi, la poesia moderna è arrivata a

inglobare anche testi in prosa, i poèmes en prose. Anche questo genere, come tutti gli universali

in re, possiede una periferia e un centro, quest’ultimo è occupato dai testi lirici, ovvero

componimenti brevi, quasi sempre in versi, che parlano di temi personali con uno stile anch’esso

personale. Alla periferia troviamo, invece, due famiglie di testi che non possono essere definiti

lirici, ma, anzi, rappresentano due tentativi opposti di mettere in discussione il primato della

lirica stessa. Da un lato, quelli che la critica italiana chiama ‘poemetti’: opere in versi che

superano i limiti della poesia soggettiva affrontando contenuti narrativi o saggistici e che

ricercano una direzione più chiara, trasparente e pubblica, a discapito della forma breve, opaca e

soggettiva della lirica moderna. Dall’altro lato si pongono invece i testi che aboliscono la prima

persona e riducono la poesia a un gioco di suggestioni formali, come Mallarmé è stato il primo a

fare. La differenza principale tra gli spazi risiede nel rapporto con l’autobiografia empirica

dell’autore, mentre la natura soggettiva della forma dei testi rappresenta l’elemento che tiene

insieme il nostro territorio. Scrive Mazzoni che «la letteratura sembra avere due compiti:

raccontare il mondo e manifestare i sentimenti, le idee, il modo di vedere le cose di chi

scrive»139, il primo è svolto dalla prosa, il secondo dalla lirica. Se la prosa sembra più vicina alla

frase elementare, la poesia appare invece una maniera di scrivere anomala, destinata a portare

l’attenzione del lettore sul modo di rappresentare le cose. Da quando il romanzo moderno e il

dramma borghese prendono il posto del teatro in versi e della narrativa, la teoria espressivistica

dello stile acquista un’egemonia sul sistema letterario occidentale. È così che il gesto di andare a

capo viene percepito come una forma di straniamento lontana dal modo naturale di raccontare e

soprattutto produce l’effetto di concentrare l’interesse, piuttosto che sul contenuto, sulla

soggettività della forma. Non possono più esistere dei versi puramente mimetici, anzi, Mazzoni

139
Ivi, p. 174
58
definisce la poesia un genere strutturalmente egocentrico, perché «pone al centro dell’opera il

gesto con cui l’io dell’autore dà senso alla realtà rappresentandola sotto un aspetto nuovo»140.

Al centro del nostro spazio letterario, quindi, si trova il genere soggettivo per eccellenza: la

lirica. Essendo quest’ultima estremamente egocentrica, è necessario riflettere sul ruolo che l’io

della prima persona occupa all’interno del testo. Il modello di poesia soggettiva che si è imposto

negli ultimi secoli, come abbiamo detto, nasce fra la seconda metà del Settecento e l’inizio

dell’Ottocento. Mazzoni definisce questo archetipo romanticismo lirico, intendendolo come un

idealtipo, cioè un modello sintetico e astratto141. Ciò che distingue le liriche romantiche dalla

lirica premoderna è il legame con la contingenza: il discorso poetico fa riferimento a un luogo e

un tempo precisi; il personaggio che dice io ha un nome proprio; l’identità della voce coincide

con quella della persona reale che firma il libro di versi. Questo tipo di scrittura presuppone un

ethos difficile da definire in modo formale o contenutistico, ma che il lettore contemporaneo

avverte facilmente. La grande lirica romantica sembra nascere da una forma di sicurezza, a

partire dalla quale l’io è convinto che la sua vita personale abbia un immediato valore universale.

Non si tratta, però, di un individuo straordinario, ma di un uomo normale, solo più abile degli

altri ad esprimere pensieri e passioni, come se le esperienze private di questi interessassero a

ogni uomo e contenessero una verità sulla vita.

Nonostante la teoria romantica legittimi ogni esperimento, il vero sperimentalismo esplode

oltre mezzo secolo più tardi. La prima persona della poesia romantica possiede ancora quelle

strutture gerarchiche interiori che danno ordine al flusso della coscienza. Fra la seconda metà

dell’Ottocento e l’età delle avanguardie l’io che parla nella lirica moderna tende a diventare

disarmonico e diviso, diventa abituale il topos metaletterario dell’imbarazzo e dello scandalo di

scrivere poesie. Due sono i modi possibili in cui si declina questa famiglia di temi: uno euforico

ed espressivistico, l’altro disforico e crepuscolare. Quest’ultimo è senza dubbio quello più

140
Ibidem
141
Ivi, p. 178
59
diffuso nella nostra cultura nazionale: da Gozzano a Giudici, i poeti italiani danno voce

all’imbarazzo che gli intellettuali provano rispetto a chi lavora per davvero. Se con Gozzano la

prima persona tratta se stessa con ironia o ostenta la sua marginalità, con Pasolini essa si prende

sul serio, si mette al centro della scena e adegua ai tempi l’atteggiamento tipico del poeta

romantico. Molteplici sono, dunque, i modi di reagire alla perdita di quell’equilibrio che la lirica

romantica riusciva a mantenere.

Per descrivere il campo di forze della poesia moderna, quindi, si può usare il romanticismo

lirico come termine di confronto, a partire dai cambiamenti del modo di rappresentare la realtà e

l’io che sono avvenuti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Le stesse periferie nascono

dalla crisi del romanticismo lirico e si diramano a partire dal centro definendosi per negazione,

come una forma di rovesciamento dei termini romantici (“la scomparsa del poeta”, “l’estinzione

della personalità”). Contemporaneamente alla nascita delle periferie, anche il centro si rinnova: il

primo risultato di questa metamorfosi è il cambiamento della poesia soggettiva. Il posto dell’io

nel mondo resta immutato, la sua esperienza continua ad avere un significato collettivo;

«scompare invece quell’equilibrio fra espressione di sé e compostezza stilistica che la poesia

romantica riusciva a mantenere»142. Il termine scelto da Mazzoni per definire questo modo di

fare poesia è, ancora una volta, espressionismo.

Potremmo infatti chiamare espressionistica quella forma di mimesi in cui l’artista si


attribuisce il diritto di stravolgere profondamente la forma sensibile della realtà pur di
esprimere se stesso con più forza. Come il pittore altera i colori naturali, così il poeta
altera le consuetudini ereditate e la maniera ordinaria di dir le cose. […] In questo
senso, l’espressionismo poetico sottopone la mimesis a un forte straniamento
soggettivo.143

Ciò che resta immutato è il valore assoluto che si continua ad attribuire all’esperienza

personale e all’importanza che circonda il monologo dell’io. In Italia l’espressionismo lirico si

diffonde negli anni Dieci del Novecento con i poeti vociani e con l’Allegria di naufragi. Quando

142
Ivi, p. 184
143
Ivi, p. 185
60
parla di evoluzione espressionistica della poesia moderna Mazzoni allude a due processi

intrecciati: la conquista dell’anarchia formale e la possibilità di raccontare parti della vita

interiore che la letteratura del primo Ottocento censurava. Il topos della vergogna della poesia,

come dicevamo, ha due versioni: una espressionistica e una crepuscolare. I poeti crepuscolari

sono accomunati dalla consapevolezza di occupare un posto marginale nel mondo ma, anche se

continuano ad usare la forma della confessione, finiscono per svuotarla, visto che le loro

esperienze non posseggono più un valore universale. Si tratta, quindi, di una poesia romantica

nelle strutture ma antiromantica nello spirito: l’egocentrismo diventa uno strumento per esibire i

limiti dell’io. Espressionismo e crepuscolarismo sono dunque poetiche speculari. «Le anima una

sorta di patologia dell’autoespressione: l’idea che parlare di sé sia diventato un gesto carico di

violenza latente»144.

Il romanticismo lirico può anche avere un seguito ideale. Le poesie che Montale scrive fra la

seconda edizione degli Ossi di seppia (1928) e la Bufera (1956), ad esempio, sono caratterizzate

da uno stile che continua ad avere un legame metrico, sintattico e lessicale con la lirica

premoderna di stile tragico, e l’esperienza quotidiana della prima persona possiede ancora un

valore cosmico. La lingua è tecnica, concreta e moderna, ma anche essenziale: pluristilistica e

monostilistica contemporaneamente. Anche il valore dell’esperienza si evolve: Montale può

attribuire un valore assoluto, quasi epifanico, ad alcuni segmenti della propria storia. Scrive

Mazzoni:

Dunque la continuità dei temi, proprio come quella dello stile, non è rigida ma
dialettica: lo spirito del grande romanticismo lirico sopravvive, ma la lettera si adegua ai
tempi. Ho chiamato questo modo di far poesia classicismo moderno: ‘classicismo’
perché esibisce una continuità con la tradizione poetica di stile alto, […] ‘moderno’
perché adatta la tradizione ai tempi nuovi. 145

144
Ivi, p. 187
145
Ivi, p. 189
61
Mentre l’espressionismo, il neocrepuscolarismo e il classicismo moderno restano legati alla

forma lirica, le periferie del genere nascono dalla volontà di oltrepassare il nucleo egocentrico di

questa forma, e ciò avviene in due possibili direzioni. Da un lato, vi sono i testi che recuperano

contenuti narrativi o riflessivi che superano i limiti dell’autobiografia empirica e che, quindi,

recuperano l’oggettività; dall’altro, i testi che tendono a spostare l’attenzione dal senso al suono,

dai contenuti personali allo stile, e, quindi, che finiscono per esasperare l’individualismo della

lirica moderna.

Sebbene il centro del genere sia occupato dalle forme soggettive, i poeti antilirici si sono

conquistati un posto di grande rilievo nel canone della letteratura moderna. Infatti, la poesia

narrativa o saggistica viene costantemente rivalutata da quegli autori che cercano di mostrare che

la moderna scrittura in versi non coincide con la lirica (basta pensare allo stesso Giuseppe

Bernardelli). Un esempio eclatante è sicuramente quello di T. S. Eliot, uno degli autori più

famosi ad aver cercato nel corso del Novecento di rinnovare la scrittura in versi rifiutando la

centralità dell’io. Negli anni Dieci Eliot esorta i poeti a praticare «l’estinzione della

personalità»146 e ricerca forme estranee al narcisismo lirico rifiutando l’egocentrismo poetico.

Un altro modo per allargare i confini della soggettività è immettere nel monologismo lirico

una forte dimensione teatrale, arrivando a non far coincidere più la prima persona col poeta ma a

renderla un vero e proprio personaggio. La tecnica più importante è quella del drmatic

monologue che Robert Browning contribuì a diffondere nella poesia inglese del secondo

Ottocento. A dire io è un personaggio storico che svela in pubblico il senso del proprio destino,

come in un soliloquio teatrale. Si tratta di una sorta di maschera che assomiglia al poeta ma che

non coincide veramente con lui, perché ne deforma alcuni tratti caratteriali.

146
T.S. ELIOT, Tradizione e talento individuale, Bompiani, Milano, 1985, pp. 73 e 79
62
Secondo Mazzoni

La vocazione autentica della letteratura è invece orfica e sovrapersonale: spogliare il


linguaggio dall’uso quotidiano e riportarlo a un’ipotetica pienezza originaria, facendo
coincidere forma e contenuto del discorso umano, e descrivendo non gli accidenti
esteriori ma la «nozione pura» delle cose.147

I testi di Mallarmé ad esempio si distinguono per il rifiuto di ogni immediatezza mimetica o

espressiva, sia nei contenuti che nella forma, perché ignorano o sublimano l’accidentalità del

quotidiano e raccontano delle scene emblematiche della condizione umana conferendo loro una

forma plastica e simbolica. Prevale perciò l’uso di temi simbolici e la scelta di uno stile

antimimetico: il vero poeta si sforza di abolire la separazione fra suono e senso tipica del parlare

comune e raggiunge così una coincidenza perfetta propria della musica148. Una simile poetica

impone di ridurre gli elementi referenziali a favore di quelli evocativi, scegliendo le parole sulla

base del solo significante. Piuttosto che egocentrica, la vera poesia presupporrebbe l’eclissi del

poeta che, cedendo l’iniziativa alle parole, lascia parlare il ritmo dell’Idea149. Da questa poetica

discende una lunga tradizione critica che sottolinea il primato del suono sul senso, della forma

sui contenuti: il fulcro della poesia moderna non è la comunicazione di contenuti ma il gioco sul

linguaggio. Le poesie di Mallarmé rimandano l’immagine di una poesia del tutto introversa e

solipsistica. Scrive Mazzoni che

alla morte dell’antico soffio lirico non corrisponde la nascita di una poesia impersonale,
ma il trionfo di un lirismo senza io, la costruzione di un sovramondo poetico separato
dalla prosa quotidiana. […] Il simbolismo, in altre parole, è l’apoteosi del narcisismo in
poesia: comunica infatti un’idea di mondo totalmente introflessa e un egocentrismo così
forte da eliminare l’ultimo residuo di oggettivazione narrativa che la poesia romantica e
postromantica manteneva.150

147
G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, cit., p. 193
148
S. MALLARMÈ, La Musique et les Lettres, Perrin, Parigi, 1895, pp. 642-657
149
Ivi, p. 366
150
G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, cit., p. 195
63
La poesia di Mallarmé rifugge dalla normale umanità soprattutto perché si allontana dal modo

ordinario di vivere e trasmettere le cose, la sua soggettività letteraria si esprime specialmente

nella forma, cioè nel modo personale di vedere ciò che lo circonda, nel dominio dell’io sulla

realtà. Una forma viene considerata opaca quando trascende il senso comune e la tradizione e

diventa accessibile esclusivamente ad un’élite ristretta che possiede il sapere necessario per

decifrare l’opera. Si crea così quello che Mazzon i definisce «narcisismo sociale, esteso agli

happy few che condividono il gioco del poeta e attribuiscono, al suo modo personale di dar forma

alla realtà, un valore universale»151. Il simbolismo, quindi, è il vero archetipo della poesia oscura.

Esistono però altre forme di egocentrismo senza individuazione che intrattengono col

simbolismo un rapporto complesso. Fortini, ad esempio, nel suo saggio Oscurità e difficoltà,

afferma che le scritture letterarie sono sempre state in parte oscure o difficili, ma solo dopo il

romanticismo la differenza fra la poesia moderna e quella premoderna è diventata comprensibile.

Esisterebbe quindi una continuità fra il romanticismo orfico, il simbolismo, il futurismo, il

surrealismo e alcuni esperimenti delle neoavanguardie. Anche se diverse in superficie, queste

tendenze sono accomunate dal ricorso a una forma autoreferenziale e intransitiva, «mimesi di

una coscienza inarticolata dunque oscura, prima che ai destinatari, a se stessa»152. A partire

dall’archetipo di riferimento, esistono dunque delle tendenze che prolungano la posizione

romantica, altre che cercano di trascenderla e altre ancora che la esasperano. Non si tratta di

raggruppamenti chiusi, ma di forme fluide che possono incrociarsi, sovrapporsi e sfumare le une

nelle altre.

I confini del genere in questione, quindi, sono sfrangiati come quelli di una città e uno stesso

nome definisce testi molto diversi fra loro. In questo insieme complesso, vi è un elemento

espressivistico comune a ogni corrente: da quando la versificazione non è più un ornamento della

frase di grado zero ma un linguaggio diverso dotato di una sensibilità particolare, ogni forma di

151
Ivi, p. 198
152
F. FORTINI, Oscurità e difficoltà, in «L’asino d’oro», II, 1991, n.3, p. 88
64
scrittura in versi o di prosa che voglia distinguersi dal modo ordinario di dire le cose, appaiono

cariche di opacità soggettiva. Mentre il romanzo colloca le persone nel tempo, nello spazio e in

relazione con gli altri, la poesia moderna sembra voler dire che l’interessante, l’essenziale della

vita, risiede nella rappresentazione straniata della realtà. È una lirica che sembra voler censurare

l’immagine oggettiva della realtà per rimandare ad un’immagine personalistica del mondo.

Nessun altro genere è così egocentrico, nel contenuto come nella forma. Ed ancora più

egocentrica è la periferia simbolistica della poesia moderna, ricca di opere che cancellano i

contenuti per spostare l’attenzione del lettore sulla bellezza opaca delle parole. Anche la periferia

saggistica e narrativa non sfugge al lirismo della forma, con i suoi racconti in versi, le riflessioni

in versi o la prosa poetica carica di figuralità.

La poesia moderna è senza dubbio il genere letterario che più assomiglia alle arti figurative

degli ultimi secoli. Come la pittura e la scultura, anche la scrittura in versi ha reagito

estremisticamente alla crisi della mimesis e alla disumanizzazione dell’arte. Per ogni arte le cui

forme si sono allontanate da un patrimonio di norme accettate, alla morte delle regole è seguito il

trionfo di una forma di anarchia di gruppo. Quanto più diminuiscono i limiti che le consuetudini

pongono alla libertà dell’artista, tanto più cresce il bisogno di un sostegno collettivo, corale.

Afferma Mazzoni che «a ogni livello, il soggettivismo dell’arte moderna è in realtà, per dirla con

un ossimoro, un soggettivismo di gruppo»153. I campi artistici, quindi, non sono dominati da

un’anarchia individualistica e caotica, ma da un’anarchia sociale e organizzata, fatta di gruppi,

tendenze e correnti. Le potenzialità dell’espressione di sé attraverso lo stile sono una

conseguenza di tre cambiamenti storici che permettono di distinguere le arti moderne da quelle

premoderne: la libertà di violare le consuetudini della tradizione e le norme lessicali, metriche,

sintattiche e figurali; la possibilità di scegliere fra diverse tendenze in lotta fra loro all’interno di

un sistema caotico; la facoltà di scrivere per rivoluzionare lo spazio letterario e lasciare una

153
G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, cit., p. 209
65
traccia di sé. Negli anni Dieci dell’Ottocento Leopardi sapeva di non poter oltrepassare i limiti

fissati dalle regole vecchie di secoli. Negli anni Dieci del Novecento, invece, un autore come

Montale può infrangere ogni limite, può scegliere fra molte tendenze poetiche diverse, ma non

può non passare attraverso la mediazione di un linguaggio sociale. Conclude Mazzoni dicendo

che

Pur vivendo in un’epoca dominata dall’anomia, l’artista moderno rimane comunque


incatenato al territorio dei possibili, la distanza fra la pretesa di autonomia e l’autonomia
reale rimanendo insuperabile.154

3.3 Antropologia poetica moderna

Osservando il nostro spazio letterario nella prospettiva della lunga durata, si può cogliere

abbastanza bene l’evoluzione dell’antropologia poetica moderna. I primi grandi testi del nostro

genere sono caratterizzati dalla sicurezza, la misura e l’integrità che il personaggio poetico

conserva quando si esprime. Del resto, il coro comprende e condivide l’esibizione di una vita in

teoria uguale alle altre, questo perché la sua esperienza interiore non è troppo lacerata e

soprattutto non è troppo soggettiva per significare qualcosa per tutti. Se la forma della poesia

moderna deve senza dubbio la propria struttura profonda al modello romantico, infatti, gli autori

che restano fedeli al modello sono pochi, sia perché la loro marginalità impedisce che si formi un

coro sociale ad essi legato, sia perché la poesia più recente ci ha abituato a idee nuove dell’uomo

e del suo posto nel mondo, per cui oggi possiamo conoscere perlopiù per contrasto le qualità

della lirica romantica e constatare che l’integrità di quelle prime persone non ci appartiene più.

Dopo la rivoluzione del secondo Ottocento, dopo le avanguardie storiche e dopo le avanguardie

degli anni Cinquanta e Sessanta, la scrittura in versi ha accentuato quella vocazione

all’egocentrismo immanente alla lirica moderna. La chiusura dell’io in se stesso isola il poeta col

rischio di imprigionarlo in una forma di solitudine privata simile a quella che circonda gli artisti
154
Ivi, p. 210
66
figurativi contemporanei, che espongono opere sempre più bizzarre davanti ad un pubblico

distratto e disinteressato. È la testimonianza del fatto che il poeta non ha più una legittimazione

collettiva; che non può attribuire un valore universale alle proprie vicende; che l’io non è più né

integro né plastico; che il rapporto del presente con la tradizione è puramente conflittuale. La

crisi di prestigio della poesia in versi rende difficile credere che l’immagine del mondo presente

nei suoi testi abbia un valore universale; esiste però un nuovo pubblico che si riconosce in

un’antropologia lirica diversa. Anche i testi delle canzoni, infatti, compongono un territorio

letterario sfrangiato e plurale, ma i soggetti lirici della musica si distinguono da quelli poetici,

secondo Mazzoni, per due elementi essenziali: «il rapporto con una cultura di nuovo tipo e la

consapevolezza di possedere un solidissimo mandato sociale»155. I cantanti sanno di potersi

permettere degli atteggiamenti preclusi agli scrittori in versi, ormai privi di sostegno collettivo.

La poesia moderna, invece, ignora le due forme in cui la realtà del mondo si mostra all’io: la

presenza degli altri e lo scorrere del tempo. Il trionfo del soggettivismo, però, sembra rovesciarsi

nel suo contrario. Quanto più lo spazio letterario della poesia perde ogni rapporto con la

tradizione condivisa e con il pubblico, tanto più il poeta inizia a dipendere dal coro sociale e

dalla tradizione cui si richiama. Il nostro genere letterario racconta dunque aspetti diversi della

storia recente, tanto che dentro questa forma simbolica Mazzoni distingue quattro livelli

ermeneutici156.

In primo luogo, la poesia narra la nascita di un’idea nuova dell’identità. La prima persona non

è un’identità collettiva ma un io individuato che vive esperienze personali e irripetibili. La verità

abita in interiore homine, in esperienze asociali, in attimi isolati.

A un secondo livello, definito da Mazzoni culturale, lo spazio letterario della poesia moderna

può essere letto come l’idealtipo dell’espressivismo. Usando quest’ultimo come modello

esemplare, si noterebbe che, nella seconda metà del Novecento, settori un tempo governati dalla

155
Ivi, p. 237
156
Ivi, p. 241
67
scientificità sono stati invasi dall’ethos dell’espressivismo. Lo dimostra ad esempio la

metamorfosi subita dalla saggistica, che è arrivata oggi a poter esporre delle ossessioni solo

private servendosi di categorie bizzarre.

Una terza lettura possibile della poesia moderna è di tipo esistenziale. Ancora una volta il

genere si presta come idealtipo di comportamenti sociali collettivi governati da dinamiche vicine

a quelle che governano i poeti. Fra l’imperativo dell’express yourself e l’imperativo del be

yourself si apre una dimensione estetica dominata dalla ricerca di uno stile di vita personale e

tutto incentrato sull’affermazione della propria personalità.

L’ultimo ed anche il più astratto livello di lettura è quello allegorico. Questo insieme di

personalità che tendono ad uno scopo puramente individuale rappresentano, dunque, anche una

allegoria della vita nell’epoca presente. La logica culturale del nostro tempo è caratterizzata,

infatti, dalla relatività di ogni scelta, dalla mancanza di una trascendenza condivisa,

dall’incomunicabilità fra gruppi, dalla frantumazione degli interessi, dei linguaggi e delle

mentalità. Mentre le singole poesie restituiscono una visione delle cose incentrata sull’io, i

romanzi, le autobiografie e i racconti degli ultimi secoli riescono a dare una forma totale e

concreta a ciò che la poesia mostra in forma parziale e astratta. È per questo che il romanzo e il

teatro, capaci di adattarsi al presente e di trasmettere un’immagine del mondo sistemica, così

come la musica, che trova supporto e riconoscimento in un nuovo sistema di valori condiviso,

trovano un più ampio spazio nel panorama artistico odierno. Ciò non toglie che, in ogni caso,

l’immagine del mondo che si ricava dalla letteratura del nostro tempo ci presenta, da punti di

vista diversi, lo stesso paesaggio storico, segnato dall’individualismo, dalla rottura dei grandi

legami espliciti e dal rafforzamento dei piccoli legami impliciti che rassicurano l’io.

68
3.4 Giacomo Leopardi, L’Infinito

Secondo Mazzoni, gli idilli di Leopardi sono le prime liriche italiane autenticamente moderne,

ovvero i primi testi nei quali possiamo cogliere i segni di quella rivoluzione che avrebbe

cambiato significativamente la poesia europea dei secoli successivi facendo nascere un genere

letterario diverso. Il testo esemplare che l’autore analizza e commenta ampiamente nel secondo

capitolo del suo libro è L’Infinito. Scritto fra la primavera e l’autunno del 1819, fu incluso nella

serie dei testi pubblicati fra il dicembre 1825 e il gennaio 1826 sul «Nuovo Ricoglitore» col

titolo di «Idilli». Ripubblicati con lo stesso titolo nel volume dei Versi uscito a Bologna nel

1826, questi componimenti entreranno nel libro dei Canti fin dalla prima edizione fiorentina del

1831. Di seguito il testo dell’Infinito:

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,


E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani 5
Silenzi, e profondissima quïete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce 10
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare. 15

Il significato letterale del componimento non è oscuro per chi conosca il lessico storico della

poesia italiana. L’unico dubbio riguarda il pronome dimostrativo al v. 5, che secondo alcuni si

69
riferirebbe a “tanta parte”, mentre secondo la lettura tradizionale, più probabile, indicherebbe la

“siepe” del v. 2. Il metro è l’endecasillabo sciolto: sembra quasi che Leopardi abbia voluto

condensare un contenuto adatto al sonetto in una forma libera dalla costrizione della rima.

Sorprende che lo sfondo venga soppresso quasi per intero, come se la descrizione non intendesse

illustrare il contesto della poesia a chi non lo conosce, ma invitare il lettore a condividere la

natura intima e privata delle cose che il soggetto vede. L’ambientazione allude a un hic et nunc

preciso e la rapidità con cui il contesto viene presentato rafforza l’impressione di realismo

testimoniale.

Il testo è scomponibile in tre segmenti: i vv. 1-3; il corpo centrale (vv. 4-13), e la chiusa (vv.

13-15), secondo una scansione sancita da passaggi semantici, da pause sintattiche e da differenze

lessicali. Nei primi versi l’io narra un’azione iterativa157, ovvero racconta una volta ciò che nella

realtà si suppone essere accaduto più volte: il sentimento di cui si parla viene infatti trasformato

dall’uso del passato remoto in una «consuetudine dalla durata indefinita»158. Poi, al v. 4, il ritmo

statico dell’apertura viene interrotto da una sensazione visiva: gli spazi interminati oltre la siepe

suscitano la prima percezione dell’infinito. Nel secondo segmento, poi, l’io sembra raccontare un

fatto nuovo, non più una passione consueta. La distanza cronologica fra l’evento e la scrittura

sembra mutata: come se si trascrivesse un’esperienza attuale, si passa dal passato remoto del v.1

al presente del v.8. Nel terzo segmento invece il discorso pare placarsi, l’io riassume il

significato della propria esperienza in una formula dichiarativa e alla paura iniziale subentra la

dolcezza del naufragio finale.

Leopardi sembra evocare l’esperienza di cui parla piuttosto che trascriverla in forma logica,

ed è questo l’aspetto dell’Infinito che ha colpito così tanti critici ed interpreti. Adriano Tilgher

scriveva che «l’Infinito non è l’analisi, ma la narrazione di un processo spirituale»159; Fubini

157
L. BLASUCCI, Paragrafi sull’«Infinito», Leopardi e i segnali dell’infinito, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 97
158
Ibidem
159
A. TILGHER, La filosofia di Leopardi, Ed. di Religio, Roma, 1940, p. 149
70
giungeva alla stessa conclusione paragonando lo stile della poesia al passo equivalente dello

Zibaldone, osservando come nella prosa l’immaginazione segua una logica razionale, mentre

nell’Infinito venga rappresentato «con immediatezza e accenti di singolare novità, come di chi

scopre un’inesplorata regione dell’animo»160. Blasucci poi sviluppa le osservazioni di Fubini e

scrive che la pagina dello Zibaldone è il riassunto critico-riflessivo dello stesso percorso mentale

che la poesia rievoca mimeticamente, come se il testo non fosse una descrizione fredda

dell’esperienza, ma un vero e proprio itinerarium mentis in infinitum portato sulla pagina161.

Secondo Mazzoni, ciò che rende questa poesia rivoluzionaria è il fatto che essa cristallizzi al

suo interno fenomeni che attraversano la poesia del Settecento e trasformazioni che diventeranno

chiare solo nelle fasi successive della lirica leopardiana, o addirittura nella poesia del primo

Novecento. L’elemento di novità più eclatante sarebbe senza dubbio il suo contenuto. Durante

gli anni in cui la componeva, Leopardi era perfettamente consapevole delle differenze fra i

generi della poesia e ripeteva, nelle prime pagine dello Zibaldone, i principi essenziali della

divisione classicistica degli stili. Quando decide di attribuire il nome di «idilli» ai sei testi che

fanno parte di questa serie, ha in mente un modello letterario piuttosto vago e una famiglia

eterogenea di tradizioni, ma accomunata dalla prevalenza del tono patetico-elegiaco e dal décor

bucolico. Il lettore moderno di fronte a questi testi, però, rimane perplesso, perché i più

importanti tra essi hanno poco a che vedere con la genealogia cui Leopardi si richiama: gli idilli

classici di Mosco, la bucolica antica, la pastorale moderna, gli idilli sentimentali di Gessner.

In primo luogo, cambia il personaggio che dice io: non abbiamo più un soggetto stereotipato e

prevedibile, ma un «io esistenziale»162 calato nella contingenza di una vita insostituibile. In

secondo luogo, è diverso il tono che Leopardi usa per raccontare le vicende della prima persona,

cioè la serietà assoluta con cui L’Infinito narra le esperienze private di un individuo non

160
G. LEOPARDI, Canti, con introduzione e commento di M. Fubini, Loescher, Torino, 1964, p. 115
161
L. BLASUCCI, Paragrafi sull’«Infinito»,cit., p. 104
162
L. BLASUCCI, I tempi dei «Canti». Nuovi studi leopardiani, Einaudi, Torino, 1996, p. 190
71
stilizzato. È una poesia che non sottopone la mimesis della realtà empirica a un filtro astraente,

né pone limiti al peso delle emozioni raccontate: la riflessione sull’esperienza dell’infinito, sulla

natura del ricordo, sulla morte, sul tramonto di tutte le cose, eccedono i limiti dei modelli cui

Leopardi dichiarava di ispirarsi. Scrive Mazzoni che egli «fa parlare l’uomo, e non una maschera

convenzionale. […] Certe poesie di Leopardi ci mostrano una scrittura autobiografica inedita,

estranea alla poesia precedente e familiare a quella successiva»163. A differenza

dell’autobiografismo di tipo trascendentale di Petrarca, quello di Leopardi è un autobiografismo

nuovo, in cui il protagonista del testo è un soggetto trascendentale, una persona contingente che

si confessa ad un pubblico invisibile, comunicando con loro per la via dell’identificazione

empatica. Tanto l’espressione di sé nello stile quanto l’autobiografismo empirico, però,

rappresentano una grandezza relativa, perché le novità dell’Infinito restano sempre mescolate a

elementi del tutto tradizionali. La poesia di Leopardi è a tutti gli effetti il primo segno di una

metamorfosi dello spazio letterario che si compirà solo un secolo più tardi.

163
G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, cit., p. 99
72
CONCLUSIONE. LA MUSICA COME POESIA CONTEMPORANEA
4.1 Guido Mazzoni, Poesia e canzoni

Nel suo saggio Il testo lirico, Guido Mazzoni dedica un intero paragrafo della sezione

conclusiva ad una riflessione intorno al rapporto tra Poesia e canzoni. Il discorso si apre con

l’affermazione secondo cui «le opere che si offrono al giudizio estetico sono cose inerti che solo

il consenso collettivo può trasformare in feticci, cioè in segni sensibili carichi di contenuto

spirituale»164. Questo bisogno di legittimità è particolarmente intenso nelle arti che mettono l’io

dell’autore al centro del testo, dovendo queste legittimare il gesto di hybris dell’autore che carica

di valore le sue parole e le sue esperienze riportate su carta. Non è un caso, quindi, che la prima

forma letteraria a registrare una crisi del consenso negli anni sia stata quella che più di tutte ha

bisogno di consenso per esistere: la poesia moderna. È innegabile che, nell’ultimo secolo e

mezzo, questo genere si sia rivolto ad un pubblico ristrettissimo, composto principalmente da

versificatori o aspiranti tali. Afferma Mazzoni che

Oggi l’arte di cui parliamo è una forma di scrittura sempre più autoreferenziale, priva di
lettori che non ambiscano a diventare degli autori a propria volta, confinata in una
riserva protetta che sopravvive grazie al prestigio accumulato nei secoli, al
conservatorismo dei programmi scolastici e al mecenatismo residuo di qualche casa
editrice.165

Le arti acquistano un peso collettivo in virtù di una precisa divisione dei ruoli fra le figure dei

creatori, dei commentatori e degli spettatori. Un’opera viene prima commentata dagli esperti e

poi raggiunge il pubblico medio: quando questa piramide gerarchica si sfalda, quando l’autorità

dei creatori non trova più il consenso popolare e, di conseguenza, quella dei commentatori, perde

ogni funzione, il sistema collassa nell’anarchia. Negli ultimi decenni la poesia si è avvicinata

molto a questa forma di implosione, entrando in una fase di decadenza che sembra irreversibile. I

sintomi più vistosi del declino sono due: l’aumento incontrollato degli scrittori dilettanti e la

marginalità sociale dei poeti affermati. A ciò si aggiunge anche il disinteresse delle grandi case

164
G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, cit., p. 221
165
Ibidem
73
editrici: evidentemente il pubblico colto non specialista è favorevole a leggere romanzi di autori

esordienti o sconosciuti, ma si interessa alla scrittura in versi solo se l’autore è già

abbondantemente affermato. Ciò che secondo Mazzoni rende davvero interessante il declino

sociale della poesia moderna è una contraddizione di fondo che si lega a quello che Benjamin

avrebbe definito come il suo «elemento musale»166 o nucleo profondo. Oggi l’elemento musale

si incarna in una forma d’arte, nata nell’ambito della comunicazione di massa, che sta

conquistando rapidamente un’alta dignità culturale: la canzone. Uno dei primi scrittori italiani a

raccontare questo cambiamento è stato Pier Vittorio Tondelli:

Mentre la poesia colta rimaneva territorio di interpretazione, esegesi, svolgimenti noiosi


sui banchi di scuola, […] i giovani riesumavano la figura classica del poeta, colui che
unisce le parole alla musica […]. Poesia e canzoni, dunque. Un aspetto non
sufficientemente preso in considerazione dai critici ufficiali e dai letterati di
professione: la consapevolezza, insomma, che il contesto rock ha prodotto i più grandi
poeti degli ultimi decenni.167

Mazzoni accoglie la riflessione di Tondelli e arriva addirittura a sostenere che fra un secolo si

guarderà a questa metamorfosi con lo stesso spirito con cui oggi si guarda ai processi che hanno

determinato lo sviluppo del romanzo moderno e del cinema: anche in quei casi l’elemento

musale di alcuni generi antichi fu assorbito da arti nuove. Sebbene si pensi che la musica abbia

poco da insegnare a chi interpreta la scrittura in versi, in realtà nello spazio artistico della

canzone potremmo ritrovare dei territori molto simili a quelli visti nella poesia: un centro lirico e

una periferia ad esso contrapposta di tono saggistico o narrativo. Ancora, Mazzoni definisce il

rapporto tra canzone e poesia «archeologico e figurale»168: ‘archeologico’ perché il nuovo

genere riscopre delle forme che il vecchio ha abbandonato da secoli, come il legame con la

musica; ‘figurale’ perché la canzone, con la sua immediatezza un po’ semplicistica, esaspera

alcuni elementi che la poesia del passato tendeva a occultare. In primo luogo, la sua natura

166
W. BENJAMIN, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus novus, Einaudi, Torino,
1962, p. 262
167
P. V. TONDELLI, Poesia e rock (1987-89), in Opere, Bompiani, Milano, 2001, p. 335
168
G. MAZZONI, Il testo lirico, cit., p. 225
74
implicitamente corale. Quell’invasamento lirico comunitario si è reso oggi pienamente visibile in

una nuova forma di rito: il concerto. Le migliaia di persone che oggi cantano all’unisono

riconoscendo se stesse nell’esperienza che il cantante intona sul palco, non sono altro che la

realizzazione moderna di quel coinvolgimento che la poesia antica ambiva ad ottenere nei

confronti dei lettori. Un altro elemento che rende il rapporto tra canzone e poesia figurale è

rappresentato da un topos che ricorre in molti videoclip: il cantante si trova in uno spazio

pubblico ed è circondato da altre persone con le quali, se la scena fosse realistica, dovrebbe

intrattenere dei rapporti. Quando il brano musicale inizia, però, il protagonista si isola dagli altri

mettendosi a cantare mentre ogni cosa continua come prima. Questa immagine esprime bene il

tipo di forma simbolica cui la canzone appartiene: quella struttura elementare del lirismo, cioè,

per cui il poeta può trovare la verità che ricerca non nel rapporto col mondo esterno, ma solo

nella contemplazione del proprio mondo interno e nella pura espressione di sé.

Le differenze fra le poesie e le canzoni sono significative tanto quanto le somiglianze. Per

esempio, la musica ha oggi un mandato sociale plebiscitario, mentre la poesia moderna ha perso

da tempo ogni legittimazione collettiva. Dietro la voce del cantante e del poeta si nascondono

due cori diversi, uno fatto di masse planetarie, l’altro composto da pochi intellettuali chiusi in un

mondo separato. Il prestigio della poesia soggettiva è stato per molto tempo inversamente

proporzionale al numero dei suoi lettori, e questo perché l’élite che si rispecchiava in essa poteva

facilmente trasformare le proprie idee in un insieme di valori universalmente riconosciuto. Fin

quando i gruppi ristretti mantengono la propria posizione egemone, un’arte può conservare il suo

prestigio anche se esprime la visione del mondo di una minoranza. Perciò, sebbene la scrittura in

versi moderna abbia quasi sempre parlato agli intellettuali, è innegabile che questo ceto abbia

saputo mantenere a lungo intatto il proprio potere simbolico, riuscendo a dare un significato

collettivo al proprio modo di vedere le cose. Oggi, però, il nostro genere sembra sempre meno

capace di cogliere l’universale. Tondelli scrive che

75
I poeti ufficiali si nascondono dietro le loro scrivanie e i loro libri. Mescolano e affinano
parole e rime. Si applaudono fra loro e si complimentano, premiandosi a vicenda per le
venti copie vendute. Hai la sensazione che oltre la capacità combinatoria, oltre la
perfezione formale non esista un’anima. Nei poeti rock, più o meno maledetti che siano,
questa anima è eccentricamente viva e pulsante169.

Durante la seconda metà del XX secolo la storia del mondo occidentale ha conosciuto una

trasformazione molto profonda: enormi masse di persone hanno iniziato a sviluppare dei bisogni

intellettuali. A prendersene cura è stata una nuova industria potente e ramificata che ha prodotto

una nuova cultura, inizialmente rivolta al consumo e al mercato, ma destinata ad accrescere la

propria autorità e ad invadere il territorio occupato dalla cultura tradizionale. Mazzoni definisce

questo nuovo sistema di opere, figure e generi come «una nuova cultura umanistica, cioè come

un nuovo corpus di testi e discorsi che ambiscono a spiegare o raccontare la vita umana in forme

divertenti o istruttive»170. I giornali, la televisione, il cinema commerciale, la musica, i quotidiani

e le riviste sono oggi capaci di concorrere, per prestigio e valore simbolico, con i testi che si

studiano ancora a scuola. Così come avvenne quando nel Settecento fu sconvolto il sistema dei

generi letterari e si svilupparono il giornalismo, il novel, il dramma borghese e la poesia

moderna, anche questa grande metamorfosi avanza in modo discontinuo sovrapponendo il nuovo

al vecchio in modo a volte pacifico ma più spesso conflittuale. Ritornando alla similitudine della

città per descrivere il nostro spazio letterario, Mazzoni spiega che «potremmo dire che questa

ristrutturazione urbana prevede che alcuni quartieri vecchi e nobili vengano abbattuti per fare

spazio a nuovi quartieri privi di memoria»171. A questo cambiamento nei rapporti di forza si

aggiunge la metamorfosi che la canzone stessa ha subito nella seconda metà degli anni Sessanta,

quando la musica leggera si è aperta alla sperimentazione ed è diventata il medium preferito dalla

nuova cultura giovanile, invadendo il territorio della poesia. Per questo pubblico giovanile i

cantanti sono come dei poeti musicali che raccontano storie, esperienze e fanno funzionare i testi

169
P. V. TONDELLI, Poesia e rock, cit., pp. 336-337
170
G. MAZZONI, Il testo lirico, cit., p. 229
171
Ibidem
76
delle loro canzoni proprio come le poesie. Ne consegue che lo spazio artistico della musica

finisce per assomigliare allo spazio letterario della poesia moderna: oggi milioni di persone

modellano parte della propria identità su immagini dell’uomo e del mondo ricavate da opere che

in qualche modo sovrappongono sempre l’aspetto musicale alla mimesi della realtà. Le canzoni

piacciono, infatti, anche se il testo risulta banale o incomprensibile, grazie ai significati secondi

che il potere dei suoni evoca. L’unico genere che oggi può competere per popolarità con la

musica è quell’area vasta che Mazzoni definisce la narrativa degli stati d’eccezione, in cui fa

entrare i romanzi, i racconti, ma anche il cinema, gli sceneggiati televisivi, la cronaca

giornalistica e il reality show172. Seppur diverse tra loro, queste forme fanno parte di uno stesso

genere teorico e si occupano degli stessi temi, anche se concentrano l’attenzione del lettore su

eventi e avventure che si allontanano, ciascuna a suo modo, dalla mimesi realistica della vita

media. Questo sistema di generi che vige nella nuova cultura umanistica sembra aver sostituito il

gusto per l’oggettività, per i rapporti esterni interpersonali e per la dimensione della durata, con

un’attenzione opposta per la soggettività, i riflessi interni e la dimensione dell’attimo.

4.2 Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura 2016

Un punto di arrivo che può fungere da ufficializzazione formale della riflessione che Mazzoni

fa nel suo saggio del 2015, è la notizia che esattamente un anno dopo viene dichiarata dal

Comitato dei Nobel a Stoccolma. È proprio nell’Ottobre del 2016, infatti, che viene annunciato

che il premio Nobel per la letteratura 2016 sarebbe stato assegnato a Bob Dylan, celebre

cantautore e musicista statunitense, per aver avuto il merito di aver creato una nuova espressione

poetica nell'ambito della tradizione della grande canzone americana. L’artista ha conquistato il

Nobel a vent'anni esatti dalla sua prima candidatura: fu il professore Gordon Ball, docente di

letteratura dell'Università della Virginia, a indicarlo all'Accademia Reale Svedese come

172
G. MAZZONI, Il testo lirico, cit., p. 232
77
meritevole del premio nel settembre 1996. Che Dylan potesse vincere un Nobel era già nell'aria

da tempo, ma in pochi avevano previsto che il comitato potesse decidere di estendere il

prestigioso riconoscimento a un genere come la musica pop. La notizia, infatti, ha generato nel

2016 un dibattito particolarmente accesso tra scrittori, poeti e musicisti, portando ad una vera e

propria contrapposizione tra coloro che sostengono tale scelta e chi, invece, vi si oppone. Il

confronto ruota sempre attorno al quesito centrale: «è poesia, la canzone, o non lo è?»173. È

proprio questa la domanda con la quale Umberto Fiori, insegnante, scrittore, poeta e cantante

degli Stormy Six, nel 2016 apre il suo articolo in merito alla scelta presa dal comitato svedese.

Secondo lo scrittore, le condizioni per una progressiva legittimazione culturale della canzone e

della cultura pop furono già create negli anni Settanta del Novecento, quando nacque una

canzone “di qualità” che ha poi ottenuto successo presso un pubblico più esigente, attento e

acculturato. Questi giovani consumatori di canzoni non si accontentavano più di godere

esclusivamente in privato dei loro prodotti musicali preferiti: sentivano il bisogno di vederli

riconosciuti pubblicamente come arte, cultura. Con ciò Fiori non vuole sostenere che Dylan sia a

tutti gli effetti un poeta. Definisce la musica e la poesia «due modi molto diversi, e non

concorrenti, di avere a che fare con la parola. […] Scrivere per la pagina e scrivere “con la voce”

sono due cose molto diverse»174. Per quanto riguarda la polemica nata attorno al Nobel conferito

al cantautore, Fiori definisce la situazione come prevedibilissima, come se fosse un déja-vu,

qualcosa che era nell’aria effettivamente da tempo e che prima o poi tutti si aspettavano che

sarebbe accaduta. La sua posizione si poggia su due riflessioni. In primo luogo, egli discute

sull’eccesivo peso che viene dato alle decisioni che si prendono a Stoccolma. Per quanto il

premio in questione sia prestigiosissimo, infatti, sono tanti i meriti Nobel che nel tempo non sono

stati conferiti a personaggi che lo avrebbero senza dubbio meritato (per citarne uno, Ungaretti).

Senza mettere in dubbio l’importanza del comitato svedese, quindi, egli semplicemente ritiene

173
UMBERTO FIORI, Bob Dylan e la vizza corona di alloro, «Doppiozero», 17 ottobre 2016
174
Ibidem
78
che «forse non è da lì che dobbiamo aspettarci l’ipse dixit sui valori letterari mondiali»175.

Secondo Fiori, dunque, non è detto che le decisioni prese a Stoccolma siano indiscutibili o

incontestabili, come si dava per scontato che fosse. La seconda riflessione ruota attorno al fatto

che l’esigenza di vedere riconosciuto e accettato il premio Nobel per la letteratura ad un

cantante, piuttosto che essere avvertita da Dylan stesso, appartiene più ai critici e agli artisti che

da anni reclamano una definitiva consacrazione della canzone come poesia. Ma, a questo punto,

la domanda che si pone Fiori è: «se davvero si pensa che i versi cantati siano per natura più vivi,

autentici, comunicativi di quelli scritti per la pagina, perché poi pretendere che vengano

qualificati come poesia?»176. In altre parole, perché servirsi della categoria poetica per

legittimare una forma artistica autonoma se non, secondo alcuni, superiore alla scrittura in versi?

In più, ci troviamo in una fase storica in cui il prestigio della poesia è in grave crisi. Da qui la

conclusione dell’articolo: «Povera poesia. Non solo tenuta ai margini, ma ridotta a una vizza

corona d’alloro da mettere in capo a una rockstar che non ne ha alcun bisogno»177.

Il problema della equiparazione di musica e poesia e quello della scelta di una definizione più

esclusiva o inclusiva del concetto di letteratura rappresentano i due nodi centrali su cui si basa

non solo la riflessione di Fiori, ma anche quella di altri scrittori e cantautori che si sono inseriti

nel dibattito difendendo o condannando la decisione presa dal Comitato svedese nei confronti di

Bob Dylan. Il 22 ottobre 2016, ad esempio, Lilli Gruber ha ospitato nella trasmissione Otto e

mezzo di La7 lo scrittore Valerio Magrelli e il cantautore Roberto Vecchioni. Magrelli, contrario

alla scelta fatta nei confronti di Dylan, difende con forza la distanza tra le due forme d’arte,

ragion per cui il premio Nobel per la letteratura 2016 farebbe del cantautore, a suo avviso, un

intruso. La tesi portata avanti dallo scrittore si basa sull’idea che i versi di una canzone non

possono essere considerati autonomi e non possono prescindere dalla musica su cui sono

costruiti. Se letti senza di essa, come fossero un componimento poetico o narrativo, sarebbero
175
Ibidem
176
Ibidem.
177
Ibidem
79
«imbarazzanti: è come mangiare solo la margarina invece della torta intera»178. In più, secondo il

poeta, tra questi due campi contrapposti vi è una disparità di fondo, perché la musica gode di un

numero di ascoltatori di gran lunga superiore rispetto a quello di lettori di testi poetici. Questi

ultimi, caratterizzati da un livello di complessità superiore, appartengono ad una specie protetta

che va preservata, così come dovrebbe essere tutelato il premio Nobel che resta l’unica finestra

di visibilità per loro ancora disponibile. I testi dei cantautori, quindi, per Magrelli, non possono

essere considerati letteratura in quanto inscindibili dalla musica e dal cantato.

Della stessa idea è poi lo scrittore Alessandro Baricco, che ha addirittura affermato che:

Che un drammaturgo vinca un premio alla letteratura ci sta, anche se in modo un pò


sghembo. Ma premiare Bob Dylan con il Nobel per la Letteratura è come se dessero un
Grammy Awards a Javier Marias perché c'è una bella musicalità nella sua narrativa.
Allora anche gli architetti possono essere considerati poeti.179

Secondo Roberto Vecchioni, invece, anch’egli ospite presso la trasmissione Otto e mezzo, la

canzone non è né musica né parole, ma è altro che nasce da un miscuglio che non si può

dirimere. «È un afflato unico», spiega il cantautore, «e se la letteratura riguarda la “parola”,

comprende in se stessa sia l’espressione orale sia quella scritta»180. In questa prospettiva, pur

essendo i testi delle canzoni inscindibili dalla musica e dal cantato, il Nobel per la letteratura a

Dylan non è altro che l’estensione del premio a una forma letteraria, la forma canzone, che prima

non veniva considerata.

L’appartenenza di Bob Dylan, e con lui di tutta la sfera artistica musicale, al campo della

letteratura è una questione più problematica di quanto sembri. Secondo lo scrittore Alessandro

Portelli, infatti, «il punto è se nel terzo millennio intendiamo per letteratura la stessa cosa che

intendevano i tardo-ottocenteschi creatori del premio Nobel»181. Almeno dall’inizio del ‘900,

178
Otto e mezzo, Dylan e il Nobel della discordia (Puntata 22/10/2016), La7, (2002- in produzione)
179
STEFANIA PARMEGGIANI, Nobel a Dylan, dibattito aperto. Baricco: "Cosa c'entra con la letteratura?", «la
Repubblica», 13 ottobre 2016
180
Otto e mezzo, Dylan e il Nobel della discordia (Puntata 22/10/2016), La7, (2002- in produzione)
181
ALESSANDRO PORTELLI, Bob Dylan, l’arte non si ingabbia, «Il Manifesto», 16 ottobre 2016
80
dalla nascita delle nuove tecnologie della parola come il cinema, la radio o la riproduzione della

voce, la pagina stampata non è stata più l’unico veicolo al quale affidiamo il lavoro sulla parola,

l’immaginazione di visioni o la narrazione di storie. L’obbiettivo, però, secondo Portelli, non

deve essere quello di creare nuove categorie per giustificare e riconoscere persone come Dylan,

ma ripensare, piuttosto, alla definizione e alla delimitazione dei confini di quelle già esistenti.

Ancora meglio, bisognerebbe interrogarsi sull’utilità stessa di suddividere per categorie i saperi e

le arti. L’idea dello scrittore è che:

Le categorie separano le arti e i saperi in sfere incomunicanti; artisti come Dylan le


mescolano, le scavalcano, le confondono, ci fanno dubitare e cercare ancora, che poi è
la funzione delle arti e della letteratura medesima. Dylan non appartiene alla letteratura
perché non ce lo possiamo chiudere dentro. Dovremmo ringraziarlo perché ci induce
inaspettatamente a riproporci l’antica domanda di Jean Paul Sartre «qu’est ce que la
littérature?», e a lasciare la risposta in sospeso («nel vento»?).182

Il mondo della musica d’autore italiana, invece, non ha dubbi sul riconoscere al cantautore

americano la sua appartenenza al mondo della letteratura. Lo testimonia Francesco De Gregori,

traduttore delle canzoni di Dylan, nell'album Amore e furto:

Non è mai troppo tardi, il Nobel a Dylan è anche il riconoscimento definitivo che le
canzoni fanno parte a pieno titolo della letteratura di oggi e possono raccontare, al pari
della scrittura, del cinema e del teatro, il mondo e le storie degli uomini. Nessuno come
lui ha saputo mettere in musica e parole l’epica dell’esistenza, le sue contraddizioni, la
sua bellezza.183

Se l’autonomia della poesia si fonda sulla musicalità intrinseca del testo, data dalla

disposizione di accenti, parole e rime, e sul suo stretto legame con la pagina e gli spazi bianchi

che lo circondano, che Mallarmé considera parte integrante del componimento stesso, quella

della canzone si basa, invece, sul connubio inscindibile tra il testo e le note. Ed è proprio questo

binomio parola-nota che in alcuni casi fa passare in secondo piano il valore dei significati dei

brani e fa apprezzare anche canzoni straniere per le sole sensazioni che l’ascolto di esse genera.

182
Ibidem
183
DONATELLA TROTTA, Bob Dylan, il Nobel della discordia: per Baricco «Non c'entra con la letteratura», per
Frasca «La sua è poesia viva», «Il Mattino», 14 ottobre 2016
81
Tuttavia, è altrettanto vero che esistono brani che possono essere realmente ammirati solo

leggendo attentamente il testo, al quale è sempre possibile attribuire significati soggettivi e

personali. È in questo che la musica non differisce tanto dalla poesia. Il punto d’incontro tra

queste due forme artistiche, prescindendo dalle gerarchizzazioni o dalle fusioni che si possono

ipotizzare, si fonda proprio sul piano emotivo e sulle potenzialità espressive che entrambe

posseggono. Se un tempo era la poesia la miglior voce del tempo, oggi la musica sembra aver

trovato dei mezzi più efficaci per farsi portavoce delle istanze del nostro mondo e per

coinvolgere, quindi, un pubblico più ampio. Per due arti che mettono l’io dell’autore al centro

del testo, come abbiamo detto, il bisogno di legittimità e di consenso è inevitabile e determina i

momenti di successo e quelli di crisi. Ciò non significa che in questa ipotetica lotta uno dei

partecipanti sia destinato alla sconfitta, ma che la strada giusta per farsi spazio nella

contemporaneità è ascoltare le esigenze e le domande dei suoi protagonisti, inevitabilmente

nuove e diverse dal passato, e trovare i giusti mezzi per farsi specchio di queste ultime e provare

ad offrire delle risposte o delle chiavi di lettura che possano fungere da mezzi di espressione,

riconoscimento e definizione per un mondo in crisi d’identità.

82
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84
RINGRAZIAMENTI

Quando si intraprende un viaggio o un qualsiasi tipo di percorso, arriva sempre un momento in


cui ci si ferma per girarsi alle proprie spalle e rivedere tutti i passi fatti.
In questo momento provo ad immaginare la mia vita come se fosse la scalata di una montagna
fatta da tante tappe volte a raggiungere una cima in continua via di definizione. Questo traguardo
rappresenta il raggiungimento di un punto importante del monte e per questo in queste pagine mi
fermo e, prima di ricominciare a camminare, guardo indietro verso tutto ciò che ho vissuto fino ad
ora. I miei, quindi, oltre ad essere dei ringraziamenti, vogliono fungere da resoconto della strada
percorsa e delle persone che, accompagnandomi con la loro presenza o con la loro assenza, ne
hanno fatto parte.
Volgendo lo sguardo verso il basso, alle base della mia montagna, non posso non ritenermi
fortunata di trovare in ogni ricordo la mia famiglia al mio fianco. Dai miei genitori ho imparato a
riconoscere quali siano gli anelli della catena di mandati generazionali da spezzare, ma ho capito
soprattutto quanto sia importante apprezzare il coraggio con cui mi hanno permesso di acquisire gli
strumenti necessari per cercare di rendere me stessa il più libera possibile.
Mamma è sempre stata la mia spalla destra, il mio punto di riferimento ed il mio porto sicuro. Mi
ha sempre salvata dalle mie mille paure e dalle mie crisi d’ansia e ha sempre riposto fiducia in me e
nelle mie capacità credendo in ciò che desideravo più di quanto lo facessi io. Da lei ho imparato a
non arrendermi di fronte a tratti apparentemente impossibili da scalare e a non sentirmi mai
realmente sola. Spero che tutto l’impegno con cui inseguo i miei sogni ogni giorno possa renderti
fiera. Sei la mia stella polare, il mio faro.
In una lettera qualche anno fa ho paragonato papà all’estate, la mia stagione preferita. Il bello dei
mesi estivi è che durano poco, ma sono tanto intensi da valere più di un anno intero. Con papà è
così: sebbene a volte sia costretto ad essere lontano, quando c’è si sente e fa la differenza. Negli
ultimi anni mi sono scoperta più simile a lui di quanto avessi mai notato. È il mio esempio di vita, il
più saggio maestro a cui so di potermi rivolgere in qualsiasi momento. Il mio obiettivo sarà sempre
quello di riuscire a ripagarti di tutto e di renderti fiero della persona che con cura cerco di diventare.
Francesco da quando sono nata mi ha tenuto la mano e mi ha aiutato ad oltrepassare non solo i
tratti più impervi ma anche i più semplici del tragitto, non mi ha lasciato mai. Mio complice, mio
alleato, mia guardia del corpo. Non potrò mai dimenticare quel falò dell’estate 2019 in cui mi ha
sussurrato all’orecchio di credere nelle mie passioni e di scegliere questa facoltà senza paura. Tutte
le esperienze più belle della mia vita le abbiamo vissute insieme, tutti i momenti di crisi (dal greco
krino, “scegliere”) li abbiamo superati in due. Non ci sarà ostacolo abbastanza grande che mi
permetterà un giorno di separarmi da te, non potrei farcela altrimenti.
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Quando penso di girarmi verso dietro per guardare il punto d’inizio della mia scalata, immagino
di vedere una nanetta bionda che comincia ad arrampicarsi tenendo per mano altre tre nanette.
Emanuela, Maria e Caterina sono una delle poche certezze che ho sempre avuto in questi ventidue
anni. Tutte le tappe fondamentali del percorso le ho segnate insieme a loro. Non potrò mai
dimenticare le feste di compleanno organzzate per far combaciare gli orari con le mie lezioni di
danza e tutti i saggi di fine anno ai quali hanno assistito per sostenermi. La loro amicizia mi ha
insegnato la differenza con i rapporti di circostanza e di contesto: anche quando i momenti da
condividere si sono ridotti, li abbiamo inventati da zero. Dietro le donne che diventeremo troveremo
sempre le bimbe che si sono incontrate all’asilo. Non potrò mai smettere di ringraziarle per tutta la
fiducia che mi hanno trasmesso e mi trasmettono ancora.
I ricordi legati alla scuola mi fanno pensare anche a tutti gli insegnanti che in questi anni di
formazione hanno contribuito ad arricchire il mio bagaglio personale e culturale, chi permettendomi
di credere di più in me stessa, chi mettendomi in difficoltà. Mi sono rimasti impressi gli occhi della
maestra Rosa che conservano ancora lo stesso affetto che avevo conosciuto alle scuole elementari.
Non dimentico le professoresse Cerullo e Pistorio che alle medie mi hanno guidato con passione
nella costruzione del mio futuro. Non posso non ringraziare la professoressa Crispino che al liceo
mi ha fatto innamorare ancora di più delle materie umanistiche e mi ha fornito tutti gli strumenti
necessari per affrontare gli studi successivi.
Riprendendo l’ambito familiare, le altre persone che mi hanno dato una spinta e un appoggio in
questa prima fase della mia scalata sono in parte parenti di sangue, in parte parenti di cuore.
Gli occhi di nonna Nietta sono i più belli e dolci che abbia mai visto. Tutta la sua purezza e la
sua genuità fanno trasparire in modo inedito l’ammirazione che prova nel vedere ogni nipote
prendere piano piano la propria strada. Di nonno Salvatore continuerò a ricordare l’unica scena che
mi è rimasta impressa e che mi trasmette sempre un senso di affetto inspiegabile. Mi piace pensare
che anche lui in questo momento sia soddisfatto.
Diddo è il giovane che voglio diventare quando sarò anziana. La sua energia inesauribile è un
esempio da seguire. So quanto vale per te questo mio traguardo. Immagino quanto tu e Nonna vi
sareste vantati dei vostri nipoti e di ogni piccolo successo. Non dimenticherò i pomeriggi in cui
Nonna Rosaria mi aiutava con i compiti e poi mi aspettava per cena dopo lezione di danza. Non
dimenticherò quando mi accompagnava sotto braccio per strada ed io mi vergognavo un po’. Oggi
mi piacerebbe tanto passeggiare con lei tenendola per mano.
A seguirmi con lo sguardo però c’è sempre Zia Stefy, pronta in qualsiasi momento a mettersi a
disposizione per aiutarmi a compiere ogni passo di questa scalata. Il modo in cui sa farsi sentire

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vicina prescinde dalla frequenza con cui ci vediamo. È questo il vero fondamento di ogni legame
affettivo.
Anche per questo considero zii persone come Marcello e Mariagrazia, con i quali condivido i
ricordi ed i viaggi più belli. Mi aiutano ogni giorno a progettare il mio futuro e sono pronti a
sostenermi sempre, soprattutto zio che ama tanto i miei spettacoli di danza. Allo stesso modo, zio
Dario e zia Germana mi hanno sempre accolto a braccia aperte come una vera nipote. Anche se da
lontano, seguono ogni mio movimento e sanno farmi sentire il loro affetto come se fossero vicini
quotidianamente. Claudio e Daniela sono i cugini più belli che potessi desiderare.
A questa famiglia scelta che riempie lo spazio di tutto il versante montuoso che immagino di
rivedere alle mie spalle, si aggiungono poi Matteo e Simone: i due figli adottivi che da tempo
animano le mie giornate e le più belle esperienze. Matteo con la sua energia esplosiva e la sua
capacità di riuscire ad aiutarti sempre, anche a costo di rendere possibile l’impossibile; Simone con
il suo carattere protettivo e i suoi messaggi la mattina di ogni esame: sono diventati due pilastri
essenziali per me. A loro si aggiunge Luana, nuova scoperta dell’anno. La sua dolcezza, la sua
disponibilità ed il suo affetto mi hanno fatto avvicinare a lei in modo assolutamente inaspettato e
sorprendente. Sono felice di averla nella mia famiglia.
Se c’è una persona, poi, che ha subìto ogni mia ansia universitaria e ogni mia singola paura in
questo triennio, è sicuramente Roberta. Mi ha supportato e sopportato come nessun altro, e il modo
in cui io le sia grata prescinde dalla lontananza che le nostre strade hanno assunto ultimamente.
Poi c’è Luna, con la quale condivido il mese più bello dell’anno e ogni singolo angolo della mia
seconda casa. Mi ha insegnato che la distanza geografica non separa davvero. Non ho mai
conosciuto un livello di complicità e di empatia così alto come quello che caratterizza la nostra
amicizia. Non ho mai sentito una persona radicarsi in modo così stabile dentro di me. Mi sai
comprendere sempre, non serve nemmeno uno sguardo. Mi hai saputa capire nel momento più
difficile della mia vita, mi hai trasmesso una quantità di affetto che sento quasi di non meritare. Sei
essenziale.
La spiaggia su cui sono cresciuta mi ha permesso di conoscere persone speciali che oggi
arricchiscono ancora di più il panorama che sto descrivendo. Nisida è una ventata di aria fresca. La
sua energia mi coinvolge come nient’altro ed è una delle poche persone con le quali non temo
l’essere vulnerabile. Compare sempre nel momento in cui non sai di averne bisogno, e poi ti rendi
conto di non poterne fare a meno. Federica è la mia spalla destra estiva, la persona con cui ti lasci
andare per vivere a pieno ogni secondo e che torna sempre in mente quando ripensi ai ricordi più
belli. Cecilia è stata la persona con la quale è iniziato tutto: il bene che mi lega a lei ha radici
profondissime. È sempre stata e continua ad essere un mio stabile punto di riferimento, qualunque

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cosa accada. Allo stesso modo lo sono anche tutti coloro che formano il gruppo degli “amici
dell’estate”. I giorni condivisi insieme restano i migliori, quelli che mi hanno fatto crescere in modo
significativo e che ogni anno mi danno la forza di vivere i mesi successivi. Ringrazio tutti voi per la
forza che mi trasmettete inconsapevolmente.
Il secondo grande pilastro portante della mia vita e, quindi, della mia montagna, è e sarà sempre
la danza, la mia migliore amica. Non esiste dimensione nella quale io riesca ad esprimermi in modo
più autentico e ad essere in contatto diretto con la mia interiorità ed il mio corpo. Ringrazio la
maestra Dominga per avermi insegnato il rigore e la disciplina di questa forma d’arte e per aver
condiviso con me ogni successo artistico e scolastico. Ringrazio il maestro Angelo, mia guida e
fonte d’ispirazione, insegnante di danza e di vita. Con te ho riscoperto il piacere dello studio in sala
ed ho acquisito princìpi che custodisco con cura quotidianamente. Grazie di esserci sempre. Grazie
a tutta la Dance Mania. È stata la mia seconda famiglia e non smetterò mai di sentirmi parte delle
emozioni che quel mondo mi ha regalato. Sensazioni condivise spalla a spalla con Maria, dall’inizio
alla fine. La miglior compagna di viaggio che potessi incontrare.
Grazie a Maria Piccirillo che mi ha permesso di imparare a conoscere me stessa e di individuare
la strada attraverso cui trasformare i limiti in risorse. Non sarei chi sono oggi senza la sua guida.
Grazie a Simona che mi ha cresciuto con amore seguendo il passaggio di ogni tappa di questo
percorso e riuscendo a comprendermi senza bisogno di parole in qualsiasi circostanza.
Ringrazio Marina, Francesco e Roberto per avermi accolta nella loro famiglia e per il modo con
cui si prendono cura di me e dei miei progetti quotidianamente.
Grazie a Claudio. Con te ho corso il rischio di prendere una posizione imparando a viverla fino
in fondo e apprezzando tanto i suoi pregi quanto i difetti. Con te ho scoperto il bello di condividere
la parte più pura di sé con qualcuno e di mostrarsi in tutta la propria autenticità. Mi hai insegnato
che dagli errori si può imparare più di quanto si immagini e che con costanza e pazienza si può
costruire e ricostruire una strada passo dopo passo. Mi hai sostenuto in tutto, accogliendo e
combattendo le mie ansie e le mie insicurezze. Credi in me più di quanto riesca a farlo io e sai
darmi la forza di non arrendermi mai. In questa scalata mi hai spianato il terreno prima che dovessi
attraversarlo, mi hai dato una spinta quando deceleravo. Se mi giro di nuovo verso avanti, verso le
altre mete del monte, immagino inevitabilmente di raggiungerle con te. Ci sei ogni giorno quando il
ricordo e il peso dell’assenza rinnovano e approfondiscono quel vuoto nel petto che prima di quattro
mesi fa non avevo mai provato. Da quando Briciola e Mara se ne sono andate non c’è giorno che
passi senza che pensi a loro. La mia vita ad oggi è tutto un cercarle e non trovarle mai. Il dolore che
la loro assenza mi ha generato è il più forte che abbia mai conosciuto in tutta la mia vita.

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Briciola era mia sorella, siamo cresciute insieme. È stata la mia prima spettatrice quando ballavo
in salotto, la mia più fedele compagna in ogni passo fatto. Era diventato così naturale vivere insieme
che adesso mi sento priva di una parte di me. I suoi occhi dolci sono la cosa più pura e profonda che
abbia mai visto. Da quando abbiamo scoperto che fosse malata ho assaggiato ogni giorno un
pezzetto di questo dolore che toglie il respiro. La mattina la ringraziavo di aver resistito ancora e
cercavo di rubarmi ogni angolo di lei, per registrarla dentro di me come una fotografia. Il giorno in
cui ci ha lasciati, però, mi ha distrutto come se fosse stato del tutto inaspettato, quasi irreale. Non
potrò mai dimenticare tutto ciò che abbiamo condiviso, tutto ciò che sei stata. Non potrò mai
accettare la tua assenza, la consapevolezza che aprendo la porta di casa non ci sarai. Perché per me
casa eri tu.
Mara è stata un raggio di sole luminosissimo, ha portato nella nostra famiglia una quantità di
allegria e di energia inspiegabile. La sua presenza riempiva ogni stanza, nessuno mai saprà unirci
come ha fatto lei. Sapeva comprendere i momenti negativi con un’empatia infinita, e sapeva restarti
accanto con i silenzi più forti del mondo. Mi mancano i suoi graffi sulle mani, i suoi morsi al
mattino appena sveglia, i suoi richiami quando pretendeva cibo (ogni giorno ad ogni ora) e quella
macchietta sull’occhio destro che mi ricordava sempre l’estate in cui l’abbiamo salvata. Non
accetterò mai il fatto di non averti potuto conoscere fino in fondo. Non accetterò mai tutti gli anni
che non abbiamo potuto trascorrere insieme, tutte le attenzioni che avrei potuto darti e non ti ho
dato. Ma sei stata comunque mia sorella, e lo sarai sempre. Con te ho iniziato ad amare i gatti, ma
ogni volta che ne incontro uno non riesco mai a trovare te. Nessuno è te.

Concludo rivolgendomi a te che scrivi e che hai il merito di aver scalato tutto il pezzo di
montagna descritto e tutto il percorso triennale che hai appena concluso. A te che non sai sempre
credere in te stessa, che sei troppo spesso pronta a sottovalutarti e a costruirti intorno gabbie
indistruttibili. A te che con costanza e caparbietà ogni giorno scegli di non arrenderti di fronte ai
tuoi mostri. Che questo punto d’arrivo possa dimostrarti almeno un po’ che in fondo qualche
motivo per sentirsi soddisfatta c’è. Grazie perché non molli mai.
Ringrazio, infine, chiunque si riconosca nella mie parole e si senta parte di questo viaggio al mio
fianco, anche se non direttamente mezionato prima. Costruite giorno dopo giorno la vostra strada e
abbiate il coraggio di credere in ogni tappa che desiderate raggiungere. Non smettete mai di
coltivare voi stessi e i vostri sogni, continuate a fiorire.
Alla prossima meta!

Chiara

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