RELATORE
Prof. Giuseppe Ledda
PRESENTATA DA
Chiara Caputi
CORRELATORE
Prof. Marco Antonio Bazzocchi
SESSIONE Terza
ANNO ACCADEMICO 2017/2018
A mia madre che mi ha insegnato a leggere e
a mia nonna che mi ha insegnato a studiare.
Indice
• Introduzione.......................................................................................................................1
• 1.4 Altre fonti del realismo pasoliniano negli Anni Cinquanta: Pascoli e Gadda...........24
• Conclusioni ...................................................................................................................108
• Appendice ......................................................................................................................112
• Bibliografia.....................................................................................................................115
• Ringraziamenti...............................................................................................................125
TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI
Per rendere più scorrevole la lettura si farà riferimento ai volumi facenti parte della collana
dei Meridiani dedicati a Pier Paolo Pasolini con le seguenti abbreviazioni:
SLA I = Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, con un
saggio di Cesare Segre, cronologia a cura di Nico Naldini, Milano, Mondadori, 1999 3a
edizione 2008, 2 voll.
RR I = Romanzi e Racconti, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, con due saggi di Walter
Siti, cronologia a cura di Nico Naldini, Milano, Mondadori, 1998 8a edizione 2010, vol. 1.
RR II= Romanzi e Racconti, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, con due saggi di Walter
Siti, cronologia a cura di Nico Naldini, Milano, Mondadori, 1998 8a edizione 2013, vol. 2.
INTRODUZIONE
Il tema del dantismo pasoliniano è stato trattato da diverse prospettive, in quanto fornisce vari
spunti di analisi. La presenza di tracce linguistiche dantesche costella l'opera pasoliniana in
tutti i generi che essa comprende (poesia, prosa e cinema). Alla luce del fatto che i rimandi
danteschi sono consustanziali all'opera pasoliniana, nel presente lavoro si è deciso di adottare
un criterio ben preciso di selezione dei testi da prendere in esame. Tra le prose pasoliniane si è
scelto di esaminare i tentativi di riscrittura del poema dantesco: La Mortaccia, testo composto
da due frammenti dei primi tre canti dell'Inferno scritti tra il 1955 e il 1959, e La Divina
Mimesis, scritta negli anni Sessanta a più riprese e pubblicata postuma negli anni Settanta. In
particolare il focus verrà posto sulla prima delle due riscritture dantesche, in quanto
rappresenta un primo approccio all'ipotesto della Commedia, pressoché ignorata dalla critica e
definita dallo stesso Pasolini un “infelice embrione”. Nonostante la scarsa risonanza di questi
frammenti, l'analisi delle diverse fasi di stesura permette di ricostruire l'evoluzione del
pensiero pasoliniano all'interno di una precisa stagione, quella caratterizzata dall'influenza
gramsciano-continiana del plurilinguismo dantesco e della mimesi nell'oggetto della
narrazione.
Nel primo capitolo del presente lavoro svolgerò una ricognizione delle fonti da cui Pasolini
trae le influenze alla base della sua concezione del realismo negli anni Cinquanta e Sessanta.
Da parte di Pasolini emerge un'esigenza di superamento della concezione del realismo
proposta dai neorealisti tramite la concezione del plurilinguismo dantesco di impronta
continiano-gramsciana. Questa concezione prevede una regressione empatica nell'altro da sé,
che consiste nell'oggetto del narrato, al fine di rappresentare la realtà tramite la mescolanza di
diversi registri linguistici. Nell'attuazione di questi precetti stilistici Pasolini guarda anche a
modelli novecenteschi, in particolar modo al pastiche nelle prose di Carlo Emilio Gadda.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta vediamo che il contatto
con Erich Auerbach porta ad un cambiamento nella concezione del realismo:
conseguentemente al passaggio al realismo creaturale abbiamo l'approdo ad un differente
medium espressivo, quello cinematografico.
Nel secondo capitolo proporrò un inquadramento iniziale del testo La Mortaccia e della
raccolta di cui fa parte, Alì dagli occhi azzurri. La raccolta si inquandra nel periodo del
realismo gramsciano-continiano, che trova la sua massima espressione nel primo romanzo
romano Ragazzi di vita. Procederò con l'analisi del testo, istituendo in particolare un
1
confronto con le prime due versioni dattiloscritte, nello specifico con la prima versione
dattiloscritta inedita, per la prima volta divulgata intergralmente, al fine di cercare di illustrare
il lavoro effettuato da Pasolini sull'ipotesto dantesco, nelle diverse fasi di elaborazione del
progetto.
Il terzo capitolo prevederà l'istituzione di un confronto con le opere successive. Vediamo
come i presupposti teorici a livello linguistico cambieranno radicalmente nelle Nuove
questioni linguistiche (1964), in relazione alla nascita dell'italiano come lingua nazionale e a
causa del progressivo avanzamento della lingua delle industrie, che ha il suo fulcro nel
triangolo industriale Milano-Torino-Genova. Lo shock dato dall'omologazione culturale vede
un diverso approccio alla lingua ma un differente ricorso all'ipotesto dantesco come chiave di
lettura della realtà contemporanea, sulla scorta dell'autobiografismo e della riflessione su di
sé. Infine proporrò un confronto con Petrolio, l'ultimo e controverso testo pasoliniano, in cui
il modello dantesco costituisce ancora una volta un riferimento per orientarsi nel mondo
contemporaneo, descritto questa volta con presupposti linguistici e narratologici
completamente sovvertiti rispetto al primo tentativo di vent'anni prima.
2
EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI REALISMO IN PASOLINI
(Giorgio Pasquali)
Secondo Emanuela Patti, nella concezione pasoliniana il concetto di mimesis è la chiave per
scardinare il sistema borghese portato avanti dal neorealismo, a partire dal linguaggio e dai
generi artistici, fino all’ideologica di fondo.1 Vediamo però che il sistema mimetico
-regressivo ideato negli anni Cinquanta va in crisi, così come lo strutturalismo, e negli anni
Sessanta emerge il rapporto schizofrenico con il Sé, eternamente diviso tra auctor e actor. Il
concetto di realismo pasoliniano ha subito diverse metamorfosi: prima, sulla scia di Contini,
sviluppa una forma di «plurilinguismo dantesco reinterpretato alla luce dell’ideologia
gramsciano-marxista, per incarnarsi successivamente nel realismo figurale e creaturale di
Auerbach […], infine viene ripensato in chiave cognitivista»2. Sulla base di questi modelli
Pasolini interpreta la mimesis come una forma di immedesimazione in ciò che è altro da sé.
Inoltre «il concetto di mimesis è stato il principio guida per costruire e decostruire, in
un’instancabile sperimentazione, attraverso diversi linguaggi, generi e media, i concetti di
“realismo”,“realtà” e “linguaggio”»3. Cerchiamo di illustrare e spiegare questi passaggi
abbozzati dalla Patti.
Per Pasolini attraversare l’Inferno non significava fare esperienza del peggior destino
possibile, piuttosto provare empatia nei confronti del diverso e, tramite l’empatia, dare voce
alla vita degli altri. Per quanto si tratti di un’esperienza virtuale, quella che Pasolini ha
1 EMANUELA PATTI, Pasolini intellettuale mimetico, in «Studi Pasoliniani», 7, 2013, pp. 89-103, p. 90.
2 EMANUELA PATTI, Pasolini intellettuale mimetico, cit., p. 90.
3 EMANUELA PATTI, Pasolini intellettuale mimetico, cit., p. 91.
3
definito come l’opera più realistica della letteratura italiana, La Divina Commedia, di fatto
evoca intensamente l’esperienza umana nella sua straordinaria diversità4.
Filippo La Porta nota come «la commistione degli stili ha sempre per Pasolini lo stesso
obiettivo: far emergere qualcosa di reale e di oggettivo (che altrimenti non avrebbe neppure
visibilità)»5. Nelle conversazioni con Jon Halliday, Pasolini rivendica la sua indole da
pasticheur affermando che «non sono riconoscibile perché inventore di una formula stilistica,
ma per il grado al quale porto la contaminazione e la commistione dei differenti stili»6.
Pasolini possedeva una voce sola, inconfondibile – che trascolora indistintamente dall'oralità alla scrittura
– quasi martellante, e questa voce disponeva di una gamma ristretta di tonalità stilistiche. Alla fine non fa
che rimediare alla relativa scarsità di risorse e opzioni stilistiche con l'apertura a una pluralità di generi 7.
A questo aspetto si ricollega l'interpretazione di Vincenzina Levato secondo cui, sulla scia
delle considerazioni di Contini su Gadda e Pasolini inerenti lo sperimentalismo, di fatto
Pasolini non attua una vera e propria fusione linguistica nell'oggetto della narrazione in
quanto «nonostante un'apparente omogeneità la voce del narratore si isola spesso in tutta la
sua unicità e individualità»8. Per Pasolini, sottolinea La Porta9, «lo stile di una lingua rimanda
sempre a uno stile culturale, a una mentalità e a un costume, a una visione del mondo» 10, e
questo assunto è alla base delle critiche mosse alle considerazioni sulle modalità espressive di
Gramsci in quanto erano indicative di una serie di lacune sul piano teorico. Una questione
4 EMANUELA PATTI, La Divina Mimesis come progetto popolare-nazionale. Pasolini e il regresso nel parlante,
in «La Rivista», 4, 2015, pp. 178 – 192, pp. 183 -184.
5 FILIPPO LA PORTA, Pasolini, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 123.
6 PIER PAOLO PASOLINI, Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday [1968 – 1971], in Id., Saggi
sulla politica e sulla società, Milano, Mondadori, 2012, pp.1283-1394, p. 1302.
7 FILIPPO LA PORTA, Pasolini, cit., p. 123.
8 VINCENZINA LEVATO, Lo sperimentalismo tra Pasolini e la neoavanguardia, 1955-1965, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2002, p. 40.
9 FILIPPO LA PORTA, Pasolini, cit., p. 124.
10 FILIPPO LA PORTA, Pasolini, cit., p. 124.
4
centrale per Pasolini era trovare uno stile «con una forte espressività personale» e con una
modalità «direttamente comunicabile» che potesse rappresentare interamente la realtà11.
Renè Girard, nel suo saggio intitolato Peter’s denial and the question of mimesis 12, ripercorre
in rassegna la diversa concezione del realismo a partire da Platone, che elabora nel concetto di
“copia della copia”; e di Aristotele. Nel diciannovesimo secolo, il concetto di mimesis viene
associato alle etichette di realismo e naturalismo sulla base dell’esigenza della classe media
borghese di un’arte che rappresentasse la propria percezione del mondo e in particolare il
proprio interesse per la materialità della realtà. Pasolini, non identificandosi né con il
neorealismo né con il realismo di Lukàcs, condividendo con queste ultime solamente
l’esigenza di dare voce agli ultimi, negli anni Cinquanta delinea la propria personale idea di
mimesis affidandosi maggiormente alla Stilkritik. Ponendosi a suo modo sulla scia aristotelica,
secondo cui è importante l’immedesimazione nell’altro, al contrario del realismo
rappresentativo, in questa specifica concezione del mimetismo Dante diventa la principale
figura di riferimento come poeta mimetico anche sulla base del fatto che:
nel contesto storico dell’Italia del dopoguerra, il poeta della Commedia ha rappresentato l’ideale prototipo
del poeta popolare che si muoveva tra due culture, quella popolare e quella borghese, che poteva colmare
dunque la distanza esistente tra cultura e popolo, tra conoscenza e vita popolare. 13
Un tratto che accomuna sia Dante sia Pasolini è la presenza di un’«ansia di giustificarsi
linguisticamente […] dalla Vita Nova al De vulgari […] dal Convivio agli spunti di quella che
l a fin de siècle avrebbe chiamata “filosofia linguistica” entro la Commedia»14. Pasolini
realizza «la figura dell’autore-critico, dell’artista che si fa tale anche in quanto padrone di una
sua consapevolezza metodologica, d’una sua poetica quasi precedente all’opera di
poesia»15.Di Dante si può dire che ha «alternato un’eminente attività di teorico con l’altra […]
5
di versificatore, per altro anche questa non disgiunta da momenti potentemente
autoriflessivi»16.
Come sostiene Cristina Montilli, «Si può quindi dire che, sia in Dante sia in Pasolini, viene
espressa una scrittura sempre attenta all’occhio che la leggerà, tendente a sdoppiarsi in due
fasi: quella creativa, da una parte; quella critica, dall’altra, preoccupata di rendere esplicito il
senso di ciò che si è creato, di vedere le proprie opere, come le altrui inserirsi in un quadro
letterario più vasto, di contradirsi o anche abiurare, se necessario»17.
6
la carriera di Pasolini risiede in questa sua convivenza tra l’espressione artistica, declinata in
uno spettro molto ampio (dalla poesia in italiano e in dialetto, alla narrativa, al cinema, al
teatro, alla pittura), e la produzione saggistica e giornalistica.
7
Un punto di vista diverso è portato avanti da Alfonso Berardinelli, secondo cui Pasolini è da
ritenere il «massimo antipetrarchista del Novecento» per una serie di elementi tipici del
dantismo novecentesco propri dei suoi assunti critici quali «Mescolanza degli stili (o
compresenza osmotica dei generi?), interesse ideologico, se non teoretico, realismo creaturale
e (secondo le possibilità contemporanee) perfino “figurale”»31. Da ciò consegue la pervasività
del dantismo nell'opera pasoliniana secondo lo studioso che afferma «il “dantismo” è
variamente dislocato in tutte le sue opere, ed è onnipervasivo, nonché intenzionale»32.
Pasolini ribadisce l’importanza del magistero di Gadda, Contini e Gramsci inserendoli nella
sezione della Divina Mimesis posta in appendice con il titolo “Iconografia ingiallita” 33. Come
sostiene Emanuela Patti: «A guardare le immagini de L’Iconografia ingiallita [...] non si può
non percepire il senso di nostalgia verso un periodo in cui Pasolini si era formato come
Autore guardando ai “Padri”, Dante e Gramsci»34.
In una lettera all’amico Luciano Serra dell’autunno del ’45, pur ammettendo l’importanza di
Dante, il giovane Pasolini non mostra di considerare l’autore della Commedia propriamente
come un maestro:
8
Come dimostra anche il duplice rapporto con la figura di Ezra Pound, il legame di Pasolini
con le figure che considera magistrali è di «cercare delle maschere, dei doppi, che puntellino
la sua autorità»38.
Manuele Gragnolati elabora un'interpretazione in chiave queer di questo rifiuto da parte di
Pasolini sia del ruolo di padre, per i giovani sessantottini che lo eleggono come figura di
riferimento, sia del ruolo di figlio putativo di una figura che detiene la paternità intellettuale.
Sulla base delle considerazioni di Lee Edelman in No Future: Queer and the Death Strive, sul
rifiuto del futurismo produttivo della società eteronormativa, attuato dalla famiglia che pone
al centro il bambino come “figura messianica”, afferma che:
si può anche avvicinare il rifiuto, per Pasolini insito nell'omosessualità, del ruolo produttivo del genitore.
Secondo Pasolini, infatti, rifiutando questo ruolo si rifiutano tanto i rapporti di potere inerenti al sistema
famigliare quanto quelli della struttura di produzione-consumo tipica delle nuove forme del capitalismo 39.
Sin dai primi anni Cinquanta alcuni intellettuali, tra cui Pasolini e Sanguineti, iniziano a
distaccarsi dal neorealismo ma anche dal realismo di ascendenza verghiana, pur continuando a
condividerne gli ideali, parte del proprio retaggio culturale. La nuova forma di realismo non
era legata solo ai contenuti o all'uso o meno del dialetto ma al rapporto dialettico tra realtà e
linguaggio. Per molti autori, e Pasolini era tra questi, gli obiettivi da perseguire a livello
narrativo erano i medesimi del neorealismo, ma a differenza di quest'ultimo «la risoluzione
della realtà nel linguaggio doveva essere continuamente verificata come fatto sociale e
ideologico»40. Il realismo di Dante era differente dal neorealismo e promuoveva una mimesi
totale nel reale e un rapporto dialettico tra realtà e parola. Lo sperimentalismo di questi autori,
sulla scia di Dante, prevede il rifiuto di uno stile assoluto a favore del ricorso a stili propri e
altrui che hanno riscontro con la realtà. La sperimentazione comportava l'abiura delle strutture
linguistiche predeterminate e un costante adeguamento del linguaggio alla realtà, tenendo fede
all'ideologia. Dante Della Terza aveva notato già agli inizi degli anni Sessanta come Pasolini
9
ebbe il merito di porsi con occhio critico «rispetto alla formula contenuto-forma che il
crocianesimo aveva mostrato come momento inscindibile»41. In questa prospettiva l'atto
creativo viene concepito in due fasi, all'elaborazione artistica viene affiancata la riflessione
che è al contempo linguistica e sociale.
L'idea di un Dante realista si è diffusa nella cultura italiana in un momento tale da rendere
possibile il superamento dell'estetica crociana che scindeva la pura poesia dal contatto con la
concretezza della storicità. Allo stesso tempo ha offerto agli scrittori militanti la possibilità di
riflettere su diverse strade per il realismo. Va precisato che Contini costituì un punto di
riferimento soprattutto durante gli anni Cinquanta, mentre nel decennio successivo Auerbach,
con la sua differente accezione di realismo creaturale, sarà la figura di riferimento più
importante. Nello specifico Pasolini, essendo più vicino a Contini, fu molto più sensibile alla
sua influenza e sulla scia della sua concezione del plurilinguismo nel saggio Passione e
Ideologia, della metà degli anni Cinquanta, pone quest'ultimo come terza via tra l'Ermetismo
e il Neorealismo che si avviavano al declino. Lo stesso Pasolini, in un'intervista radiofonica
del 1965, rimasta inedita fino al 1999, dichiara esplicitamente l'assunzione di Dante a simbolo
in quel periodo:
C'è stata negli anni Cinquanta, presso un gruppo di addetti ai lavori, molto impegnati in questo, sulla
scorta di un ormai famoso saggio del Contini, una specie di assunzione di Dante a simbolo. Il suo
plurilinguismo, le sue tecniche poetiche e narrative, erano forme di un realismo che si opponeva, ancora
una volta, alla Letteratura.42
Le principali fonti di ispirazione mutuate da Contini nell’elaborazione del suo stile mimetico
derivano da Preliminari sulla lingua del Petrarca (1959) e dalla sua precedente Introduzione
alle Rime (1939). Il primo di questi contributi, che stabiliva come paradigma la
contrapposizione tra plurilinguismo dantesco e monolinguismo petrarchesco, sarà magistrale
in quanto inaugurerà una fase di “realismo dantesco”, non solo in Pasolini ma in altri autori
come Edoardo Sanguineti e Franco Fortini43. Non era una questione solamente stilistica,
41 DANTE DELLA TERZA, Il realismo mimetico di Pier Paolo Pasolini, in «Italica» 38, 4, 1961, pp. 306-313, p.
306.
42 PIER PAOLO PASOLINI, Dante e i poeti contemporanei in ID., Appendice a Empirismo Eretico, SLA I, pp. 1643-
1648, pp. 1647-1648.
43 Per una disamina sull'influenza dell'opera dantesca negli autori del Novecento (italiano e non) si veda:
ADELIA NOFERI, Dante e il Novecento, «Studi Danteschi», XLVIII, 1971 pp. 185-209, ZYGMUNT G. BARAŃSKI,
The Power of Influence: Aspect's of Dante's Presence in Twentieth – Century Italian Culture, in «Strumenti
10
Contini forniva ai giovani autori del dopoguerra una nuova chiave interpretativa del rapporto
tra realtà e linguaggio in un momento storico in cui il ricorso ai dialetti costituiva un possibile
parallelismo con il plurilinguismo vissuto da Dante nella sua epoca. Come sottolineato
nell’introduzione al volume Dante’s Plurilingualism:
Linguistic plurality is the decisive question for the poet in his dramatical diglossic situation: on the one
side he has a never-changing inalterable language of the higher discourse, mainly of doctrina, on the
other side, he is confronted with the multiplicity of the vulgar languages which differ from city to city
[…]. Latin, the artificial, universal and eternal language of doctrina, is no longer an option since the
audience of this poetry is no longer the old Latin theocracy, but the new modern aristocracy […] which is
the social support of a new, secular high culture44.
Con l'Introduzione alle Rime, il primo dei saggi continiani in ordine di pubblicazione, Contini
presenta Dante come un esempio di «poesia oggettiva e sperimentale, capace di adeguare la
parola alle cose del mondo plastico»45. Nell'Introduzione Contini accenna alcuni temi che
saranno poi sviluppati nei Preliminari della lingua del Petrarca (1951), tra cui la distinzione
tra lo stile di Dante e quello del Petrarca, il primo tendente alla pluralità mentre il secondo alla
selezione linguistica. Il contributo di Auerbach servì a ribadire e ampliare ulteriormente la
definizione di un Dante realista. Emanuela Patti trova e fa notare un elemento che accomuna
entrambe le concezioni di Contini e Auerbach: «l'idea di “pluralità” e di “contaminazione”
linguistica che […] costituiva l'assoluta originalità della Commedia»46. Tuttavia la pluralità a
cui fa riferimento il critico tedesco va oltre il plurilinguismo continiano. Quella attuata da
Dante era una vera e propria mescolanza linguistica, basata su quella attuata nel Vangelo,
dello stile comico e di quello tragico e sublime.
Una delle prime riflessioni pasoliniane scaturite dalla lettura del saggio continiano del 1951
riguardava il dialetto e comparve in un'intervista dello stesso anno apparsa su «Mondo
Critici», 1, 3, 1986, pp. 343-76, GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI, L’ultimo trentennio, in Dante nella letteratura
italiana del Novecento, a cura di Silvia Zambon, Roma, Bonacci, 1979, pp. 245-277, L. SCORRANO, Presenza
verbale di Dante nella letteratura italiana nel Novecento, Ravenna, Longo, 1994; D.M. PEGORARI,
Vocabolario dantesco della lirica italiana del Novecento, Bari, Palomar, 2000; ALBERTO CASADEi, Dante nel
ventesimo secolo (e oggi), in Dante oltre la Commedia, Bologna, Società editrice Il Mulino, 2013, pp 145-
180.
44 SARA FORTUNA, MANUELE GRAGNOLATI, JÜRGEN TRABANT, Dante’s Plurilingualism: Authority, Knowledge,
Subjectivity, London, Modern Humanities Research Association, 2010, p. 3.
45 EMANUELA PATTI, Ideologia e Linguaggio, cit., p. 89.
46 EMANUELA PATTI, Ideologia e Linguaggio, cit., p. 90.
11
operaio»47, in cui l'autore metteva in guardia sulla falsità del binomio dialetto-poesia popolare
in quanto il dialetto era legato alla convenzione e all'uso del poeta che, in quanto borghese,
non era avvezzo all'uso proprio del popolo. Ne consegue che la poesia dialettale rimaneva
legata a una tradizione monolinguistica e colta e che il binomio dialetto-realtà veniva sfatato,
in quanto i poeti dialettali interpretano la realtà popolare sulla base delle sovrastrutture
borghesi. L'anno successivo, nelle prime pagine dell'antologia Poesia dialettale del
Novecento (1952), questo concetto veniva ripreso e ulteriormente precisato. Come viene
descritto nell' Intervento sul discorso indiretto libero (1965) e ne La volontà di Dante a
essere poeta (1965) il modello di autore che Pasolini aveva delineato degli anni 1952-1955
era quello del poeta mimetico sulla scia di Dante. Per Pasolini il realismo consiste
nell'immedesimazione e nel riconoscimento della differenza culturale dell'altro:
Uno scrittore borghese, anche nobile, anche alto, che non sappia riconoscere i caratteri estremi della
diversità psicologica di un uomo dalle esperienze vitali diverse dalle sue – e che anzi, creda di
impadronirsene cercando delle sostanziali analogie, quasicché altre esperienze che la sua non fossero
concepibili – compie un atto che è il primo passo verso forme di difesa dei privilegi addirittura di
razzismo: in tal senso non è più libero, ma appartiene deterministicamente alla sua classe: non c'è
soluzione di continuità tra lui e un commissario di polizia o un boia dei Lager. 48
caratteristica dell'innovatore “neorealistico” è poi una tendenza anti-sperimentale, come se la sua visione
etica, letteraria e conoscitiva […] Sicché la sua esigenza d'innovazione destituita di un abito sperimentale,
finisce fatalmente […] col riadattare un materiale linguistico superato e spesso marcescente 49.
47 PIER PAOLO PASOLINI, Dialetto e poesia popolare, in «Mondo operaio», 14 aprile 1951 ora in ID., SLA I, pp.
373-376.
48 PIER PAOLO PASOLINI, Intervento sul discorso indiretto libero in ID. , Empirismo Eretico, SLA I, pp. 1345-
1376, p. 1357.
49 PIER PAOLO PASOLINI, La confusione degli stili in ID. , Passione e Ideologia, SLA I, cit., pp. 1070-1089, p.
1071.
12
ideologia e linguaggio […] è l'orizzonte entro cui si pone, oggi (come ieri) ogni questione
culturale»50
Pasolini reinterpretava a suo modo la lezione di Contini, il quale avversava qualsiasi tipologia
di “posizionalismo”, contro ogni ideologia in difesa dell'indipendenza ideologica. Questa sua
concezione è esplicitata in due saggi critici: La libertà stilistica e La posizione. Nel primo
contributo individua due fasi nello sviluppo del proprio sperimentalismo: un momento
negativo di indecisione e uno positivo, in cui lo sperimentalismo viene concepito come
un'elaborazione in opposizione al sistema ideologico vigente. Tra queste pagine Pasolini
definisce la propria personale forma di realismo come «una strada d'amore – amore fisico e
sentimentale per i fenomeni del mondo, e amore intellettuale per il loro spirito, la storia: che
ci farà sempre essere col sentimento, al punto in cui il mondo si rinnova» 51. Nel secondo
contributo esplicita la concezione maturata negli anni Cinquanta quando afferma che
«l'ingenua e quasi illetterata (e anche burocratica) coazione teorica derivata dalla convinzione
che una letteratura realistica dovesse fondarsi su quel “prospettivismo”: mentre in una società
come la nostra non può venire semplicemente rimosso […] lo stato di crisi, di dolore, di
divisione»52.
Pasolini già dagli anni Cinquanta elabora la sua concezione di “Dante poeta mimetico”, e la
mette in pratica nel primo romanzo romano Ragazzi di Vita (1955), nella raccolta poetica Le
Ceneri di Gramsci (1957) e nelle antologie Poesia dialettale del Novecento (1952) e Poesie
popolare italiana (1955); ma questa concezione viene teorizzata per la prima volta solo nel
1965. La raccolta poetica Le Ceneri di Gramsci riporta il primo suggerimento dantesco alla
poesia pasoliana in Picasso che è del '53: «Nel restare / dentro l'inferno con marmorea/
volontà di capirlo». Steno Vezzana sostiene la forza del parallelismo tra Dante e Pasolini
affermando che «la sua poesia civile è […] dantesca nell'intento, se non nella tonalità del
canto»53.
Nella prima antologia l’autore cerca di dimostrare come il binomio dialetto e realismo di fatto
non sussista. Per Pasolini la falsità di questo assunto è stata chiara fin dalla prima esperienza
nelle borgate romane. Quattro mesi dopo il suo trasferimento a Roma ha pubblicato su Il
13
Quotidiano un articolo intitolato Romanesco 1950, il cui intento era quello di dimostrare
come molta della narrativa neorealista, che faceva ricorso al pastiche tra italiano e dialetto,
era ben lontana dal realismo mimetico quindi non aveva un approccio realmente popolare. In
questo articolo e nell’antologia dedicata alla poesia dialettale, Pasolini intende il
plurilinguismo dantesco come una forma di empatia e identificazione nell’altro; il bilinguismo
costituiva perciò una differenza non solo a livello linguistico, ma anche a livello sociale e
culturale tra il popolo e l’intellettuale borghese. Gli intenti erano lontani dal documentarismo
di stampo verista. Per Pasolini l’attuazione vera e propria del plurilinguismo prevedeva la
contaminazione delle due culture (popolare e borghese) tramite «un regresso che il poeta per
simpatia compirebbe nell’interno del parlante inconsapevole, e un recupero verso il livello
della coscienza»54. Quest’esperienza era volta a cogliere «quel nucleo di irrazionale sacralità
che oggi definiremmo il vero “Reale”»55. Ne consegue che l’imitazione linguistica e letteraria
era volta a riportare il senso della partecipazione alla dimensione concreta della realtà. Per
Pasolini era l’unico modo per evitare di scadere nella rappresentazione stereotipata della
realtà stessa.
In conclusione, negli scritti teorici degli anni Cinquanta Pasolini concepisce il realismo come
una forma di connessione di tipo sentimentale ed empatico con la classe subalterna e come
motivazione ideologica. Questi elementi sono entrambi volti al superamento della separazione
linguistica e retorica tra l’autore e l’oggetto della narrazione. Quel plurilinguismo nasceva
dall’esperienza sul luogo, in relazione anche al desiderio fisico non conforme a quello
propugnato dalla società borghese:
nel caso di Roma è stata la necessità (fra l’altro la mia stessa povertà di borghese disoccupato) a farmi
fare l’esperienza immediata, umana, come si dice, vitale, del mondo che ho poi descritto e che sto
descrivendo. […] Alla coazione biografica si aggiunge la particolare tendenza del mio eros, che mi porta
inconsciamente, e ormai con la coscienza dell’incoscienza, a evitare incontri che causino possibili […]
traumi di sensibilità borghese, o di borghese conformismo.56
54 PIER PAOLO PASOLINI, Dialetto e poesia popolare in ID., Saggi giovanili, SLA I; cit., pp. 373-376, p. 375.
55 EMANUELA PATTI, Pasolini intellettuale mimetico, cit., p. 95.
56 PIER PAOLO PASOLINI, Il metodo di lavoro in ID., Ragazzi di vita, Torino, Einaudi, 1972, p. 209.
14
lingua dell’altro tramite «una “regressione/oggettivazione” di sé nel parlante»57. Era una
forma di opposizione a quella che Stefano Agosti denomina «Lingua del Padre» 58, ossia la
lingua della classe borghese, e configurava il suo ruolo di scrittore realista in maniera diversa
a quella segnata dal neorealismo. La questione linguistica era quindi connessa alla battaglia
civile e sociale: colpendo la Lingua del Padre Pasolini mirava a colpire la cultura fascista e
democristiana che si opponeva al suo «osceno desiderio mimetico»59.
Nel 1959 è stato pubblicato Una vita violenta il secondo romanzo romano pasoliniano, con
un’ impostazione più tradizionale e con un approccio meno restìo alla cultura borghese.
Questa scelta, a livello letterario, sarà giustificata a livello teorico l’anno successivo: il 27
giugno in occasione dell’assegnazione del Premio Strega Pasolini ha declamato il
poemetto/invettiva In morte del realismo. In realtà il vero tradimento al plurilinguismo
mimetico lo aveva attuato Pasolini stesso con il suo secondo romanzo ed era questo evento
che si celebrava in quella occasione. La contraddizione del progetto mimetico pasoliniano
consisteva nell’intento di voler formalizzare nel romanzo, il genere letterario borghese per
eccellenza, un codice espressivo e simbolico che ontologicamente non si prestava a questo
genere di riduzione. Con In morte del realismo viene sancita la morte dell’idea degli anni
cinquanta di realismo mimetico. Questo poemetto rappresenta il passaggio dalla letteratura al
cinema in un senso che in parte ha già segnato la scoperta del realismo figurale teorizzato da
Auerbach durante gli anni di Officina (1955-1959). Da ciò consegue il distacco dalla figura di
poeta e intellettuale mimetico ispirata a Dante.
Negli anni Sessanta questa dissociazione è comunque sviluppata sulla scia di Dante con il
saggio La volontà di Dante a essere poeta (1965) e La Divina Mimesis, il progetto di
riscrittura della Commedia pubblicato postumo nel 1975. La tesi portata avanti nel saggio
pasoliniano parte dal testo continiano Un’interpretazione di Dante (1958) con
un'interpretazione che, come afferma Pasolini, scinde in maniera “schizofrenica" le figure
dell’auctor e dell’actor. Nella Commedia, afferma Pasolini, coesistono due prospettive: una
più ampia e di portata universalistica (quella dell’auctor) e una più concreta di portata civile
(quella dell’actor). A livello ideologico la prospettiva più ampia viene meno e in quel
momento storico Pasolini si identifica solo con la concezione sociale dell’auctor. Allo stesso
15
modo quello che originariamente era concepito come plurilinguismo viene ridotto a un
«monolinguismo tonale»60, in quanto la mescolanza linguistica crea spesso accostamenti
dissonanti di termini afferenti ad ambiti e registri diversi, cosa che nell’opera dantesca non
accade mai, tutto è misurato e proporzionato. Come sottolinea Walter Pedullà61 il realismo
socialista non si era espresso in favore dello sperimentalismo linguistico, caratteristica
peculiare del realismo di matrice dantesca.
Anche le riflessioni contenute nel contributo teorico sono legate alla figura di Gianfranco
Contini. In una lettera del 6 Dicembre 1964 il filologo romanzo accenna a Pasolini la tesi alla
base del suo nuovo lavoro dantesco:
ci sono due “stati” della Commedia, uno al rallentato, di fotogrammi sublimi, il meglio che il linguaggio
abbia mai prodotto, e uno veloce, un libretto implausibile e alieno, salvo per la continuità dello stimolo
alla presa sulla diretta62.
Nel suo testo Pasolini medita sull’intuizione continiana di «due registri» danteschi: quello
«veloce» e concitato del «tempo delle cose» e il registro «lentissimo, atemporale della poesia
[…] fuori dal tempo delle cose»63. Contini aveva formulato ed esposto queste teorie su
«Paragone». Nel Post Scriptum, uscito anch'esso su «Paragone», Pasolini si schermisce
alludendo a una certa lettera privata ricevuta da Contini che deve aver «gettato» nel suo animo
il «seme» di «una pianta difforme». La lettera effettivamente esiste e anche l’accenno a
Dante, ma nulla di articolato. Il fatto è che Pasolini, grazie a Contini, distoglie lo sguardo da
Dante «uomo della realtà»64 per affissarsi su Dante «uomo dell’ossessione».
Se Emanuela Patti vede il superamento del realismo teorizzato sulla scia di Contini a favore di
un approdo al «postrealismo dantesco»65 nel decennio, Michela Santodonato si oppone alla
posizione portata avanti dalla Patti in quanto «Contini fu mentore e non termine a quo della
60 PIER PAOLO PASOLINI, La volontà di Dante a essere poeta, in ID., SLA I, pp. 1376-1391, p. 1390.
61 WALTER PEDULLÀ, La letteratura del benessere, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1968, p. 64.
62 PIER PAOLO PASOLINI, Lettere (1955-1975), a cura di Nico Naldini, Torino, Einaudi, 1997, p. 595.
63 PIER PAOLO PASOLINI, La volontà di Dante a esser poeta, in «Paragone», n. 190, dic. 1965, pp. 57-69, e
Appendice: la mala mimesi, «Paragone», n. 192, aprile 1966. Ora in ID., Empirismo eretico, SLA I, pp. 1376-
1391, p. 1380.
64 PIER PAOLO PASOLINI, Post scriptum, in «Paragone», n. 190, dicembre 1965, pp. 70-71. Ora in ID., Appendice
a «Empirismo eretico», SLA I, p. 1649.
65 EMANUELA PATTI, Mimesis. Figure di realismo e postrealismo dantesco nell’opera di Pier Paolo Pasolini,
Department of Italian School of Modern Languages The University of Birmingham, 2008, p. 49.
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rinnovata sensibilità dantesca di Pasolini: una sensibilità d’impronta continiana mirabilmente
espressa nel Post Scriptum»66.
Pasolini si scusa per aver distorto il pensiero di Contini, eppure lo reinterpreta. Il testo
continiano è tra virgolette ma Pasolini attinge non alla lettera privata ricevuta da Contini 67, ma
alle pagine continiane apparse su «Paragone» due mesi prima. Di fatto «Pasolini cita Contini
senza virgolette e senza fonte; e in modo fuorviante oltre che penetrante deforma il testo per
antifrasi». Segre, nella querelle su La volontà di Dante, accusa Pasolini di basare la sua
conoscenza di Dante sui ricordi di scuola. Ebbene Pasolini recupera l’idea continiana, esposta
nel 1964 alla Scuola d'Ungheria e pubblicata su «Paragone» nell’ottobre del ’65. L'assunto
continiano afferma che la sede autentica del poema dantesco sia nella memoria nazionale
collettiva e non nel libro stesso. Queste sono le pagine continiane che ha in mente Pasolini
scrivendo il Post Scriptum:
Che la vera sede della Commedia stia nella memoria e non nel libro, potrà risultare una tesi di lesa
filologia. […] Se la memoria consente una ricostruzione ben tassellata del testo dantesco, […] essa è un
oggetto necessario alla filologia. […] Nessuno potrà sospettare che la trasmissione della Commedia sia di
natura orale piuttosto che scritta. […] quelle asimmetrie provano la commistione della tradizione orale
nella tradizione scritta, cioè che gli scribi copiavano ma, come faremmo noi stessi, con la memoria
oberata di ricordi. […]
Danteggiare fu dunque illegittimo, anzi impossibile, quanto lecito petrarcheggiare: l’assoluto è per
definizione ripetibile e produttivo di serie, l’eccesso si compiace di frutti unici e incomparabili. 68
all’inizio del Purgatorio sembra ed è puro, dico staccato da ogni solidarietà con la presunta angoscia della
valle inferna; e dunque, addio viaggio. Tuttavia, non fidatevi troppo di quegli incantevoli giunchi che si
flettono e non si frangono al limite dell’onda: essi infatti celano e implicano un miracolo, «oh
maraviglia», svelta dalla mano di Virgilio «l’umile pianta» rinasce identica: più ha apparenza pacifica,
66 MICHELA MASTRONDONATO, La «pianta difforme» nata dal seme di Contini. Dante secondo Pier Paolo
Pasolini, in La funzione Dante e i paradigmi della modernità : atti del 16. Convegno internazionale della
Mod, Lumsa, Roma, 10-13 giugno 2014, cura di Patrizia Bertini Malgarini, Nicola Merola e Caterina Verbaro,
Pisa, ETS, 2015, p.474 e ID., La volontà di Pasolini a essere Dante. Diatribe sepolte in Proposito di scrivere
una poesia intitolata «I primi sei canti del Purgatorio» in «Rivista di letteratura italiana», XXIV, 2, 2016, pp.
161-180.
67 Cfr. Lettera a Gianfranco Contini, 6 Dicembre 1964 in PIER PAOLO PASOLINI, Lettere, a cura di Nico Naldini,
Torino, Einaudi, vol. II, 1988, p. 98.
68 GIANFRANCO CONTINI, Un’interpretazione di Dante, in ID., Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 2001 [1970],
pp. 73-74.
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più la natura rinvia al prodigio. […] ? Ogni lettura un po’ tesa dovrebbe porsi a caso vergine e fare tabula
rasa della storia della critica69.
L'operazione compiuta da Pasolini, nei testi critici dedicati a Dante, è quella di dare origine a
un'immagine che nel testo non è presente: una pianta che è difforme poiché no n rinasce
identica. Nel primo canto del Purgatorio il giunco rinasce identico; al contrario «dal seme del
“giunco continiano” nutrito dalla lettura discorsiva di Pasolini, nasce un giunco “difforme”».
Ecco palesato il falso mea culpa di Pasolini che fa «tabula rasa della storia della critica» come
di fatto prescriveva Contini.
I l Post Scriptum di Pasolini è una variazione sul tema continiano della «memoria» come
veicolo filologico di esperienze dantesche. Petrocchi non ripudia l'interpretazione pasoliniana
poiché ne comprende la letterarietà:
Dante è un brutto affare per chi non gli si avvicina con cautela, con lungo studio[…]. E Pasolini ci ha
battuto il naso contro. […] Segre da un lato, e Garboli dall’altro, lo hanno «incastrato» contro il muro di
fatti filologicamente e culturalmente ineccepibili. Ma Pasolini ha il merito (con quell’ingegno inquieto,
sottile, crudele della lettura letteraria che egli ha in misura fuori dal comune) d’aver suscitato l’unica
polemica degna di questo nome, nel primo semestre dell’anno centenario dantesco.70
Pasolini pubblica la replica su «Paragone» nell’Aprile del 1966: Appendice: la mala mimesi, è
il suo secondo saggio dantesco, e con le ultime righe (poi espunte) si difende dall’accusa di
aver letto forse solo «i primi sei canti del Purgatorio»:
Quanto e quanto attentamente ho letto della Commedia? Tutti i miei amici sanno […] che da anni
giacciono nei miei cassetti i lavori in corso di un Inferno moderno, che attraverso dilatazioni, asimmetrie
e altre cose, ripete l’Inferno dantesco: e sono quindi anni che monto e rimonto, pezzo per pezzo, almeno
la prima cantica. Le mie citazioni ovvie del Dante che tutti sanno a memoria (e che egli stesso sapeva a
memoria) sono dovute al fatto che il pretesto del mio scritto era una celebrazione dantesca tra
consumatori poco familiarizzati con Dante […]. Non ho curato per niente l’oreficeria del mio pezzo. Una
candida domanda, infine. Il prof. Segre non vuole essere un dantista: egli indubbiamente lo è. E perché
allora rivela che le mie citazioni “non oltrepassano il canto VI del Purgatorio”, quando tutti sanno che
l’episodio di Buonconte si conclude nel V?71
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Non ne parlerà più, fino all’ottobre del ’68 quando a Torino leggerà su «Paragone» il saggio
di Adelia Noferi dal titolo La visione legislativa di Gianfranco Contini: una rigorosa disamina
dei percorsi epistemologici continiani. La lettura della Noferi, a distanza di tre anni, ripropone
l'ispirazione continiana che sfocia nella composizione del testo intitolato Proposito di scrivere
una poesia intitolata «I primi sei canti del Purgatorio».
Per Pasolini, Contini e Gramsci sono strettamente legati tra loro: «Il solo critico italiano i cui
problemi siano stati i problemi letterari di Gramsci è Contini» 72 ed entrambi figure magistrali
per lui: «Considero (io praticamente non crociano) due i miei maestri: Gianfranco Contini e
Gramsci»73.
Mengaldo spiega questa affermazione sottolineando che si trattava di «una sovrapposizione o
sintesi di istanze gramsciane, e più genericamente democratico-marxiste, e di suggestioni
della stilistica: di Contini specialmente, […] e poi anche di Devoto, Spitzer, Auerbach ecc. (e
naturalmente di Longhi)»74. Secondo Pasquale Voza si parla più specificatamente di istanze
gramsciane, poiché le istanze marxiste diffuse dalla sinistra ufficiale venivano rigettate da
Pasolini con l'accusa di prospettivismo ideologico. Tra le opere della prima metà degli anni
Cinquanta certamente subisce maggiormente l'influenza gramsciana la raccolta Canzoniere
italiano (1955). Nel testo introduttivo Un secolo di poesia popolare faceva ricorso al pensiero
gramsciano in maniera singolare. Un punto centrale risiede nel fatto che Pasolini riprende le
considerazioni di Gramsci sull'estetica crociana per motivare la scarsa produzione di poesia
popolare nel dopoguerra in Italia, disincentivata appunto dal «pericolo dell’estetizzamento e
del sentimentalismo implicito nella malintesa categoria crociana della semplicità» 75 dove
Gramsci parla «dell’“individualismo” artistico espressivo antistorico (o antisociale o anti-
nazionalepopolare)»76. Pasolini riesce a cogliere, se pur in maniera parziale e legata al suo
giudizio personale, un aspetto chiave del pensiero di Gramsci ossia l'esigenza di arginare le
72 P.P. PASOLINI, Gianfranco Contini, La letteratura italiana, tomo IV, Otto – Novecento, in ID., Descrizioni di
descrizioni, SLA II, cit., pp. 2203-2204, p. 2204.
73 E.F. ACCROCCA, Che cosa fanno gli scrittori italiani: dieci domande a Pier Paolo Pasolini, in «La fiera
letteraria», 30 giugno 1957.
74 P. V. MENGALDO, Pasolini critico e la poesia italiana contemporanea, in «Revue des études italiennes», 2-3, 1981, p.
154.
75 PIER PAOLO PASOLINI, La poesia popolare italiana in ID., SLA I, pp. 861-873, p. 878.
76 ANTONIO GRAMSCI, Quaderni dal carcere, a cura di Vincenzo Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 1686-7.
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possibili conseguenze derivate dalla teoria crociana della “intuizione lirica pura” con una
risposta di tipo etico e politico, in una forma di lotta critica, concentrata nell'espressione di
“popolare-nazionale”. È però palpabile una distanza ideologica tra i due che secondo Voza
«chiama in causa la distanza tra un interesse avvertito come ideologico-politico o
‘rivoluzionario’ e un interesse lirico-antropologico, quale è quello che connota la passione
filologico-culturale e poetica dell’autore delle Ceneri di Gramsci» 77
Come ha notato Barański, nel primo coinvolgimento nella politica di sinistra di Pasolini non
sono implicati né Marx né Gramsci. Solo dopo il 1955 inizia a conoscere gli aspetti più
popolari di Gramsci. In primo luogo, prima della lettera del 28 Febbraio 1955, non si trovano
riferimenti a Gramsci, in secondo luogo i primi riferimenti che usa sono di seconda mano: uno
del 1952 tratto da un articolo di Carlo Muscetta e l'altro scritto nel 1953 che si riferisce alla
letteratura che Gramsci etichetta come “nazionale- popolare”, secondo Barański ha più l'aria
di uno slogan dell'epoca che di una vera citazione78. Forse quell’anno ha avuto una conoscenza
diretta dell'opera del filosofo sardo, limitata solamente a Letteratura e vita nazionale.
Barański ha dimostrato come in realtà il pensiero pasoliniano dopo il 1949, anno di presunta
prima lettura di Gramsci, non sia radicalmente cambiato. Durante gli ultimi quindici anni
della sua vita Pasolini farà riferimento all’influenza del rivoluzionario sardo che è stata alla
base del rafforzamento della propria personalità intellettuale degli anni Cinquanta. La
costruzione del proprio sé lo porta a trasporre le sue considerazioni personali come proiezioni,
considerandole valide come fatti empirici. Il Gramsci delineato da Pasolini somiglia a un
alter ego di quest’ultimo. Come ha scritto Barański: «Pasolini came to identify himself to his
mentor». La costruzione di un’identità soggettiva del rivoluzionario sardo è alimentata dalla
mancanza di letture approfondite delle sue opere. A causa della sua tendenza all’irrazionale,
Pasolini avrebbe attribuito una dimensione religiosa al suo marxismo, descrivendolo come
una sorta di ascesi mistica. Come dimostrato in Passione e Ideologia, Gramsci viene elevato a
pura categoria estetica e metastorica. Il Gramsci che emerge dagli scritti pasoliniani è più
vicino a un alter ego del poeta che non alla figura storica. Una volta che Pasolini ha stabilito
la propria immagine di sé, utilizza la sua idea di Gramsci a supporto delle proprie riflessioni
sul ruolo degli intellettuali nella società: «In quegli anni 48-49 scoprivo Gramsci. Il quale mi
77 PASQUALE VOZA, l Gramsci di Pasolini, in «Lo Sguardo», n. 19, III, 2015, pp. 243-254, p. 248.
78 ZYGMUNT G. BARAŃSKI, Pasolini: Culture, Croce, Gramsci in Culture and conflict in postwar Italy, edited
by Zygmunt G. Barański and Robert Lumley Basingstoke, Macmillian in association with the Graduate
School of European and International Studies, University of Reading, 1990, XIII, pp. 140-159, p. 148.
20
offriva la possibilità di fare un bilancio personale. Attraverso Gramsci la posizione
dell’intellettuale – piccolo-borghese di origine o di adozione – la situavo ormai tra il partito e
le masse, vero e proprio perno di mediazione tra le classi, e soprattutto verificavo sul piano
teorico l’importanza del mondo contadino nella prospettiva rivoluzionaria. La risonanza
dell’opera di Gramsci fu per me determinante». È interessante notare come qui Pasolini non
faccia mai menzione a una lettura diretta dell’opera di Gramsci. Questa rappresentazione
estremamente soggettiva aiuterà Pasolini a rappresentarsi più facilmente come erede di
Gramsci. Pasolini userà la sua versione di Gramsci per legittimare la propria attribuzione di
una funzione pedagogica agli intellettuali.
Secondo Pasquale Voza, la presenza di Gramsci nelle opere e nel pensiero pasoliniano può
essere rintracciata in diverse stratificazioni sia cronologiche, l'interesse di Pasolini per
Gramsci va dagli anni Quaranta fino agli ultimi giorni prima della morte, sia tematiche, tra
loro intrecciate ma facilmente individuabili79. Un primo livello tematico è quello etico e
morale, che trova la sua massima espressione artistica nella raccolta Le Ceneri di Gramsci. In
un saggio dello stesso anno, La libertà stilistica, notiamo la definizione a livello teorico del
Gramsci a cui faccia riferimento Pasolini: il «Gramsci “carcerato”, tanto più libero quanto più
segregato dal mondo, fuori dal mondo, in una situazione suo malgrado leopardiana, ridotto a
puro ed eroico pensiero»80. Sostiene Voza: «l'idealizzazione di Gramsci, presente nel
poemetto, è sempre – per così dire – funzionale all'incontro/scontro o meglio al rapporto
tensivo, tra la figura del pensatore sardo e l'io-Pasolini»81. Santato conferma questa
interpretazione scrivendo di Gramsci come «l'ideale partner di un rapporto di confidenza e di
confessione, di un violento sdoppiamento dell'io»82. Tuttavia secondo Voza non c'è una
corrispondenza diretta tra Pasolini e il Gramsci disincantato che egli proietta su di sé, e questa
forma di dialogo impossibile tra i due è produttiva in ambito poetico in questo senso. Barański
sostiene che nulla fa pensare all'altezza cronologica del poemetto che Pasolini avesse letto
Gramsci: «its political tone and its references to Gramsci are generic, instead its register is
resolutely literary»83. C'è comunque un divario tra Pasolini e Gramsci nella concezione della
letteratura popolare, nonostante Pasolini avesse preso alcuni termini gramsciani (ad esempio
21
stratificazione, fossilizzazione, innovazione) e la sua concezione della cultura popolare come
una piccola parte assorbita dalla cultura alta. La concezione pasoliniana di cultura alta e
cultura popolare come due segmenti paralleli è in contrasto con quella gramsciana per cui
questi due elementi sono in contraddizione. Per Pasolini ciò che è popolare coincide con ciò
che è inconscio e astorico, per Gramsci al contrario è parte della dimensione sensibile e
pratica, contraddittorio, frammentario e incastonato nella storia. La differenza più grande
risiede nelle rispettive definizioni di “popolare”. A differenza di Gramsci, Pasolini ha una
visione paternalistica ed elitistica su cosa è il popolare, una conclusione che è poco confacente
con le posizioni successive sul valore autonomo della letteratura popolare. Si evince quindi
che Gramsci era stato assimilato poco nel pensiero pasoliniano e che l'influenza esercitata dal
pensiero del pensatore sardo era ancora marginale nel 1955.
Secondo Barański84 è evidente che ne La Poesia popolare italiana Pasolini si serva di
Gramsci anche per nascondere quanto fosse ampia la presenza dell'influsso crociano. Come
hanno sottolineato Garin e Bobbio, il pensiero crociano ha influenzato ogni pensatore italiano
della prima metà del ventesimo secolo. Garin ha spiegato come ci furono numerosi tentativi di
indebolire l'influenza del filosofo; questi attacchi venivano da pensatori che spesso in maniera
inconscia erano fortemente influenzati dal pensiero crociano. I pensatori di sinistra
promuovevano Gramsci come una sorta di “Anti Croce” a causa della sua critica al pensiero
crociano. Tuttavia spesso questi detrattori non sapevano quanto in realtà il pensiero
gramsciano fosse debitore di quello crociano, un debito che in realtà Gramsci ammetteva
volontariamente. Nel saggio pasoliniano Croce viene presentato in maniera piuttosto neutrale,
come un passaggio obbligato del dibattito accademico sulla letteratura popolare. Tuttavia,
nonostante il suo intento sia quello di porsi sulla scia marxista e superare le idee crociane, di
fatto Pasolini attinge pesantemente a queste ultime per elaborare la propria definizione di
poesia popolare. Come Croce, Pasolini non distingue tra diversi tipi di poesia, ma ha una
concezione della Poesia astratta che trova una propria attuazione nel poetico. Sebbene
Pasolini avesse criticato Croce per aver definito la poesia popolare come “semplicità di
sentimenti” di fatto questo è un concetto che emerge anche dal suo saggio 85. Inoltre dagli anni
Sessanta in poi Pasolini riconduce alla sua concezione di cultura popolare i termini di
“semplicità” e “innocenza”86. Secondo Barański Pasolini rientra perfettamente nei paradigmi
84 ZYGMUNT G. BARAŃSKI, Pasolini: Culture, Croce, Gramsci, cit., pp. 150-151.
85 Cfr. PIER PAOLO PASOLINI, La poesia popolare italiana, in ID., Passione e Ideologia, SLA I, pp. 192-194.
86 Cfr. TOMMASO ANZOINO, Pier Paolo Pasolini, Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp. 8-10.
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che secondo Garin caratterizzano la reazione degli intellettuali del dopoguerra alle teorie di
Croce, in particolare nei «unwitting expressions of crocianismi in criticism of the philosopher
to the elevation of Gramsci (and Marxism) as alternatives to his thought» 87. Barański sviluppa
la sua argomentazione affermando che è plausibile che nel saggio pasoliniano ci siano delle
evidenti contraddizioni in quanto «Pasolini's concern was not so much to develop a logically
coherent argument as to offer a rhetoric, an appearence, of rational discourse» 88. Sottolinea
Barański come, tra le varie influenze letterarie e critiche, non sia da perdere di vista quella
crociana per quanto riguarda l'estetica pasoliniana. Innanzitutto la distinzione tra ciò che è
poesia e ciò che non lo è, in secondo luogo l'idea del valore della cultura alta rispetto alle altre
culture. Nel 1957 Pasolini stesso ha ammesso il proprio debito nei confronti del «Croce amato
e odiato»89 anche se nello stesso anno ha dichiarato di non essere stato minimamente toccato
da Croce90.
Nonostante la scarsa conoscenza degli scritti gramsciani, questi ultimi sono stati fondamentali
per lo sviluppo della ricerca storica e del pensiero teoretico pasoliniano. Grazie a Gramsci
Pasolini ha capito che le scelte linguistiche non riguardano solo l’ambito letterario ma
coinvolgono anche le relazioni e i conflitti sociali che, in maniera più o meno conscia, portano
con loro un determinato peso politico e sono coinvolti nella creazione dell’egemonia politica e
culturale. In conclusione è grazie a Gramsci che si è gradualmente avvicinato alla questione
della lingua e inizierà a comprenderla veramente solo negli anni Settanta. Ispirato da Gramsci,
Pasolini enfatizza l’importanza a livello politico del plurilinguismo dantesco e gaddiano. La
sua ricerca linguistica nelle borgate romane, le scelte linguistiche adottate ne Le Ceneri di
Gramsci e nei due romanzi romani, costituisce l’attuazione in chiave sperimentale delle teorie
linguistiche apprese ed elaborate nei primi anni Cinquanta.
23
1.4 Altre fonti del realismo pasoliniano negli anni Cinquanta: Gadda e
Pascoli
Se infatti con gran probabilità anche Gadda è da veder calato in un'area naturalistica e impressionistica,
avviene però che in lui i vari livelli e piani, quello in lingua e quello dialettale, si fondono in un magma
vischioso, non possono venir districati l'uno dall'altro […] il che significa che il rapporto gnoseologico di
Gadda con la realtà è molto più complesso che non quello, lineare e diretto, tenuto da Pasolini 95.
91 PIER PAOLO PASOLINI, Pascoli in ID., Passione e Ideologia, SLA I, pp. 997-1007, p. 1004.
92 EMANUELA PATTI, La Divina Mimesis come progetto popolare, cit., p. 190.
93 VINCENZINA LEVATO, Lo sperimentalismo tra Pasolini e la neoavangiardia 1955 – 1965, cit., p. 35.
94 GIANFRANCO CONTINI, Espressionismo letterario, in ID., Ultimi esercizi ed elzeviri. (1968-1987), Torino,
Einaudi, 1988, p. 100.
95 RENATO BARILLI, Ancora sul naturalismo di Pasolini, i n ID. , La barriera del naturalismo (1964), Milano,
24
Se Gadda giunge a un amalgama inscindibile di più livelli linguistici, Pasolini invece resta a
un livello di linearità, in cui i diversi livelli linguistici rimangono meri inserti senza essere
connaturati alla narrazione, delineando, come sostiene Barilli, un tipo di «narrazione
impressionistica, senza giungere a un'esperienza espressionistica»96 . Si discosta nettamente
dal giudizio di Barilli quello di Giorgio Petrocchi che parla di Pasolini come l'inventore di
«un amalgama gergo – dialettale [che] travolge la struttura sintattica» 97. Sempre in relazione
al giudizio sul realismo pasoliniano, Franco Fortini, in una recensione del romanzo Ragazzi di
vita, parla di un esito lirico del plurilinguismo pasoliniano, affermando che «l'assunto
stilistico – contaminazione di dialetto e di lingua nella voce narrante, dialetto e gergo nei
dialoghi – comincia naturalistico e finisce lirico»98. Ribadisce Fortini che lo sperimentalismo
pasoliniano «non è dilettantismo ma scelta cosciente e precisa, critica descrizione di uno stato
di fatto nella nostra narrativa e poesia»99. Francesco Muzzioli parla di plurilinguismo in
Pasolini e non di sperimentalismo in quanto gli elementi innovativi e sperimentali rimangono
confinati entro «una complessiva conservazione delle strutture tradizionali»100.
Pasolini attribuisce alla figura di Carlo Emilio Gadda un ruolo fondamentale nell’elaborazione
del realismo di matrice dantesca. Lo stile di Gadda è un «barocco realistico» 101, una tipologia
stilistica non propriamente seicentesca, ma alla base della letteratura italiana in quanto rientra
nella concezione continiana del plurilinguismo dantesco, in antitesi al monolinguismo di
Petrarca. Se il modello dantesco viene posto alla base del canone letterario fiorentino prima e
italiano poi, in realtà corrisponde pienamente al pastiche. Il pastiche gaddiano non è
metafisico ma è assimilabile al «grande modulo realistico ch’è la Divina Commedia»102.
Nell’analisi schematica dello stile gaddiano Pasolini enuclea quattro componenti: una prima
componente manzoniana, una componente dialettale legata a Porta e Belli, una componente
scapigliata individuata da Contini, una componente veristica di ascendenza verghiana.
Mursia, 1970, p. 231.
96 RENATO BARILLI, Ancora sul naturalismo di Pasolini, cit., p. 230.
97 GIORGIO PETROCCHI, Poesia e tecnica narrativa, Milano, Mursia, 1965, p. 123.
98 FRANCO FORTINI, Ragazzi di vita, in ID., Saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p. 246.
99 FRANCO FORTINI, Ragazzi di vita, cit., p. 246.
100 FRANCESCO MUZZIOLI, Elementi sperimentali e conservazione delle strutture in Pasolini, in «Rapporti», n.
24-25, gennaio-giugno, 1982, p. 38.
101 PIER PAOLO PASOLINI, Gadda, in ID., Passione e Ideologia, SLA I, pp. 1049-1055, p. 1050.
102 PIER PAOLO PASOLINI, Gadda, cit., p. 1051.
25
Pasolini considera gli scritti gaddiani come l’incarnazione del plurilinguismo, come
coesistenza di diverse stratificazioni linguistiche sulla stessa pagina e in questo senso è stato
un modello e una forma di ispirazione. Enzo Siciliano, nella sua biografia ha scritto che
«Pasolini sentì verso Gadda una sorta di debito intellettuale, simile a quella che provava verso
Contini: tanto che era solito apparentare i due in un'unica costellazione»103.
Tullio De Mauro104 applica la definizione che diede Contini al marxismo pasoliniano come
“dilettantismo intelligente” anche alle sue dissertazioni in ambito linguistico. Pasolini si è
occupato di tre questioni chiave: 1) Le difficoltà e le limitazioni nell’uso dell’italiano e/o del
dialetto, 2) il cambiamento linguistico e culturale a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta,
3) le difficoltà espressive di diversi tipi di linguaggi. Secondo il celebre linguista italiano, gli
errori tecnici e le ricerche non sistematiche non inficiano il valore delle considerazioni
linguistiche pasoliniane; semplicemente va messo in conto che il ruolo di Pasolini è quello di
sperimentatore e osservatore dei cambiamenti della realtà linguistica. Nel diario degli anni
Quaranta Pasolini esprime il suo disagio verso la lingua ufficiale rispetto al dialetto, che
considera la propria lingua madre, in quanto sterile rispetto a quest’ultima. Il Friulano gli
permetteva di colmare una lacuna che non riuscivano a riempire autori che scrivevano in
italiano e che non erano legati alle origini da un territorio preciso. Il friulano era sia una
lingua letteraria (usata nella sua poesia) sia una lingua quotidiana (parlata dalla madre e dagli
amici a Casarsa).
Mario Mancini nella prefazione ai saggi di Auerbach sulla cultura francese, editi da Carocci
nel 2007 con il titolo La corte e la città, indica due autori non filologi su cui l’influenza di
Mimesis si è sentita con più impatto: Edward Said e Pier Paolo Pasolini. Pasolini aveva letto
Mimesis durante gli anni del liceo, nella traduzione dell’edizione Einaudi con il saggio
introduttivo di Aurelio Roncaglia. Nella primavera del 1956, dopo aver pubblicato Ragazzi di
vita e aver subito il processo per oscenità, era alla ricerca di un punto di riferimento nuovo per
quanto riguarda l’ambito del realismo. Un riferimento che soprattutto potesse giustificare
103 ENZO SICILIANO, Vita di Pasolini, Milano, Rizzoli, 1981, pp. 206-207.
104 TULLIO DE MAURO, Pasolini’s linguistics, cit., p. 77.
26
«con strumenti teorici adeguati e agguerriti la sua operazione narrativa»105. Nella primavera
del 1956 Pier Paolo Pasolini ha conosciuto Federico Fellini in occasione di una ricognizione
nella periferia romana, per la ricerca di ambientazioni e soggetti per il nuovo progetto del
regista romagnolo che sarebbe diventato Le Notti di Cabiria. Questa esperienza viene
ricordata da Pasolini in una Nota, riportata da Lino Del Fra nel libro dedicato al film nel
1957106, e dai curatori del Meridiano, Walter Siti e Silvia de Laude, nel primo volume del
dittico intitolato Saggi sulla letteratura e sull'arte. Il racconto si apre in maniera cronachistica
e sviluppa un ragionamento intorno al realismo e al neorealismo. Il realismo creaturale
pasoliniano, di ispirazione auerbachiana, differisce dal “realismo stilizzato” di Fellini:
Io, gattino peruviano, accanto al gattone siamese, ascoltavo con in tasca Auerbach. […] Temevo, al suo
referto sulle Notti, la sproporzione tra il concreto-sensibile e di tono, ambito e gusto realistico, e
l'immaginario di provenienza quasi surreale, sia pure modificato dall'humour. […] un po' spaventato dal
mio Auerbach107.
In quell'anno Mimesis era stato tradotto in italiano per Einaudi ma è poco probabile che
Pasolini portasse effettivamente con sé i tomi in questa circostanza, probabilmente li evoca
per allegoriam. Secondo Corrado Bologna «Come Petrarca scelse Agostino quale liber vitae
per la sua ascensione spirituale, così per Pasolini, che è forse il più intenso allegorista del
nostro tempo, nella sua catabasi all’”inferno" delle borgate sceglie Auerbach […] Trova in
Mimesis quello che cercava, e che in certa misura aveva depositato già da sempre la propria
poetica»108.
In Mimesis109 l'analisi linguistica del testo dantesco operata da Auerbach assume «il senso di
una dizione totale della realtà, data stilisticamente dal pastiche e dalla contaminazione degli
aspetti più vari del reale»110. Il realismo di Auerbach era «vicino alle posizioni dei pittori
primitivi, di Giotto e dei grandi rappresentatori della “realtà” della prima età moderna:
105 SILVIA DE LAUDE, Pasolini lettore di Auerbach, i n Mimesis: l'eredita di Auerbach: atti del 35. Convegno
interuniversitario (Bressanone/Innsbruck, 5-8 luglio 2007), a cura di Ivano Paccagnella e Elisa Gregori
Padova, Esedra, 2009, pp. 467-481, p. 400.
106 PIER PAOLO PASOLINI, Nota, i n FEDERICO FELLINI, Le Notti di Cabiria, a cura di Lino Del Fra, Bologna,
Cappelli, 1957 poi in PIER PAOLO PASOLINI, Nota su Le notti, in ID., SLA II, pp. 699-707.
107 PIER PAOLO PASOLINI, Nota, cit., p. 699.
108 CORRADO BOLOGNA, Le cose e le creature. La divina e umana mimesis di Pasolini in Mimesis: l'eredita di
Auerbach : atti del 35. Convegno interuniversitario (Bressanone/Innsbruck, 5-8 luglio 2007), a cura di Ivano
Paccagnella e Elisa Gregori Padova, Esedra, 2009, pp. 445 – 466, p. 447.
109 ERICH AUERBACH, Farinata e Cavalcanti, in ID., Mimesis, cit., pp. 189-222.
110 EMANUELA PATTI, Ideologia e Linguaggio, cit., p. 91.
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realistico perché antropocentrico, quindi perché “creaturale”»111. Questa concezione del
realismo, che Corrado Bologna definisce creaturalismo, è maturata durante gli anni bolognesi
(1940-1941), durante le lezioni di Roberto Longhi inerenti ai Fatti di Masolino e di
Masaccio112, gli stessi in cui veniva forgiato «il suo gusto cinematografico […] non di origine
cinematografica ma figurativa», un gusto che gli impediva di «concepire immagini, paesaggi,
composizioni di figure al di fuori di questa [su]a iniziale passione pittorica, trecentesca, che
ha l'uomo come centro di ogni prospettiva». Il “senso creaturale dell'esistenza” supera la
rappresentazione di tipo veristico, naturalistico o neorealistico e investe una dimensione più
profonda, «è l' “amalgama” antropologico di tenerezza e crudeltà, di umano e animale, di cosa
e creatura, che si riverbera nella tradizione artistica attraverso un parallelo “amalgama” di
stili»113. Pasolini, prima della lettura di Mimesis, non era realista né tantomeno neorealista, era
interessato più che alla realtà alla sua rappresentazione. Il suo intento non era quello di
rappresentare le cose ma «l'irriducibile storicità immanente nelle storie dolenti di creature
derelitte in mezzo ai detriti delle cose che la Storia ha distrutto». La lettura di Mimesis ha
permesso a Pasolini di ridefinire la propria concezione del mondo, sulla base di elementi
preesistenti quali la concezione di ethos creaturale di Longhi, che differisce dalla concezione
creaturale di Auerbach. Gli aspetti cruciali legati al realismo si basano sull'assunto che non sia
una forma di narrazione realistica astorica e oggettiva ma «della dialettica tra l' “oggetto-
mondo” e la genesi di un evento di esperienza fenomenica che, mosso da un consapevole
punto di vista conoscitivo, si trasfigura in opera artistica attraverso la tematizzazione di
quello stesso punto di vista»114. Ciò si riconduce al fatto che il realismo per Pasolini non è una
mera riproduzione della realtà, ma una sua rappresentazione in chiave ideologica. Secondo
Corrado Bologna «Pasolini parlava auerbach senza neppure saperlo»115.
Il saggio di Auerbach si prestava perfettamente in quanto si proponeva di indagare le varie
modalità con cui autori diversi nel corso della storia della letteratura hanno declinato la
rappresentazione della realtà. Pasolini era da sempre animato da un “rispetto venerante” per la
realtà. Lisa Gasparotto116 invece, a differenza della De Laude, sostiene che l’incontro con
111 CORRADO BOLOGNA, Le cose e le creature. La divina e umana mimesis di Pasolini, cit., p. 447.
112 ROBERTO LONGHI, Fatti di Masolino e di Masaccio, Firenze, Sansoni, 1948.
113 CORRADO BOLOGNA, Le cose e le creature., cit., p. 451
114 CORRADO BOLOGNA, Le cose e le creature., cit., p. 457.
115 CORRADO BOLOGNA, Le cose e le creature, cit., p. 457.
116 LISA GASPAROTTO-ANNA PANICALI, Conversazioni su Auerbach e Pasolini, i n Mimesis: l'eredita di
Auerbach: atti del 35. Convegno interuniversitario (Bressanone/Innsbruck, 5-8 luglio 2007), a cura di Ivano
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Auerbach e la sua opera sia avvenuto nel 1955-1959, periodo in cui Pasolini si dedica alla
critica letteraria con il progetto della rivista «Officina». La mimesi nel popolo ormai era
impraticabile, dato che era una realtà sociale in via d'estinzione, e quindi si cercano altre
forme di realismo tramite la contaminazione più ampia di elementi diversi, non solo quelli
facenti parte dell'antinomia tra cultura alta e cultura bassa, per aspirare ad una
rappresentazione più ampia e onnicomprensiva della realtà. La concezione di realismo
dantesco esposta da Auerbach insiste su questa esplorazione dei diversi aspetti del reale.
Auerbach stesso, nell’introduzione a Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina
e nel Medioevo, uscito dieci anni dopo Mimesis, si concentra sull’aspetto cruciale del celebre
saggio sul realismo: «chiedere che cosa i loro autori considerassero elevato e importante, e
quali mezzi usassero per rappresentarlo»117.
Il criterio alla base di Mimesis è quello della teoria classica della distinzione degli stili: a
determinati contenuti corrispondono diversi livelli stilistici. Questo principio, che prevede una
corrispondenza tra la gerarchia etica e sociale della materia narrata, viene messo in crisi dal
cristianesimo e dal suo uso del sermo piscatorius: l’abbinamento di umile e serio prevede la
rappresentazione in chiave seria della quotidianità facendo ricorso a un linguaggio umile e
basso. C’è uno “scandalo” connaturato nel linguaggio evangelico che consiste in primo luogo
nel riconoscimento della tragicità insita nella vita quotidiana e in secondo luogo
nell’importanza costante della creatura umana, nonostante il fatto che appartenga a una
dimensione infima della realtà. Auerbach leggeva il «pathos nelle cose terrene»118.
Nell’orizzonte delineato in Mimesis la nuova idea di sperimentazione cristiana, che fonde
altitudo e d humilitas, fa da apripista a quelli che saranno gli esiti successivi di
contaminazione derivati dal concetto di mescolanza stilistica:
Il punto d’incontro di Pasolini con la critica europea e a un tempo il punto di avvio del suo iter culturale è
la crisi del neorealismo dovuta da un lato al rapporto degli scrittori e degli intellettuali di sinistra con la
cosiddetta politica culturale del marxismo e dall’altro alle nuove idee nazional popolari gramsciane. Il
percorso pasoliniano verso la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta segue le direttrici
teorico-critiche dell’eredità della lezione di Auerbach119.
29
Sulla scia di Auerbach è individuabile un cambiamento sostanziale in relazione alla
concezione pasoliniana di realismo e di rapporto con la realtà, in particolare la questione della
lingua e dello stile all’interno del realismo. Nei saggi degli anni Cinquanta è evidente il
ricorso al lessico auerbachiano. Il saggio pasoliniano del 1957 La confusione degli stili ha in
Mimesis un vero e proprio punto di riferimento, anche se viene tradotto in italiano solo l’anno
precedente. Come spiega in proposito Lisa Gasparotto:
Pasolini conviene con Auerbach che forse è meglio che il ruolo dello scrittore contemporaneo si configuri
entro il “concreto sensibile” entro cioè una dimensione di imitazione consapevole del reale, in cui i fatti e
i personaggi da raccontare siano reali, manifestino cioè la loro natura, appunto concreto-sensibile, fatta di
gesti, di un mondo e di una lingua con caratteristiche precise 120.
Il punto d’unione tra Auerbach e Pasolini sta nella concezione di una forma di realismo
«avente per oggetto la creatura sofferente»121. Le radici del realismo di Auerbach risiedono nel
cristianesimo e in Dante, in quanto massima espressione del realismo vigente nel tardo
Medioevo, poiché dimostra che «a lui e a molti suoi contemporanei sembrasse importante,
eticamente rilevante e decisiva per la salvezza eterna, l’attività secolare e politica degli
uomini singoli e della società»122. Sono elementi che fanno parte anche della riflessione
pasoliniana sul passaggio dal realismo alla realtà. Nel componimento provocatorio intitolato
In morte del realismo123, impostato sulla base del discorso di Antonio sul cadavere di Cesare
nel terzo atto del Giulio Cesare di Shakespeare e pronunciato in occasione della premiazione
al Premio Strega del romanzo La ragazza di Bube di Carlo Cassola, Pasolini non condanna gli
autori che cita ma lo stile proprio degli autori borghesi che non coniugano il realismo in una
modalità complessa e multiforme, che renda sfaccettata la rappresentazione della realtà, ma la
appiattiscono seguendo i dogmi della cultura egemone di cui questi ultimi fanno parte. È
l’incapacità da parte dello scrittore borghese di regredire nella lingua, e quindi nella
condizione sociale, dei personaggi della realtà che, secondo Pasolini, gli impedisce di attuare
una autentica democratizzazione del linguaggio. Nel poemetto ritroviamo il concetto
30
elaborato da Roland Barthes che individua due tipologie di realismi, entrambi di matrice
borghese, per ciò che concerne gli ambiti formale e strutturale: «un realismo della profondità,
socialista nella struttura ma borghese nella forma» e «un realismo di superficie, libero nella
forma ma apolitico, dunque borghese nella struttura»124.
Questo testo esprime tutti i concetti chiave che sono contenuti nella produzione saggistica
pasoliniana di questi ultimi anni. Ritroviamo questo discorso esemplificato nella figura di
Moravia, all’interno del saggio Nuove questioni linguistiche (1964): «Moravia ha con
l’italiano medio, in fondo, il rapporto più curioso: esso si basa su un equivoco che Moravia
spavaldamente accetta: il disprezzo per la condizione borghese […] insieme con
l’accettazione della lingua della borghesia come lingua normale»125. Nuove questioni
linguistiche viene pubblicato per la prima volta su «Rinascita» il 26 dicembre 1964 e
successivamente confluirà nella raccolta Empirismo eretico. Pasolini, nell'istituire il confronto
linguistico con poeti e sostenitori delle avanguardie in questo testo, prende le mosse da
Gramsci, come si evince in queste dichiarazioni rilasciate su «Vie Nuove»:
Sto lavorando a un lungo saggio – adesso che ho un po' di tempo libero e di calma. Nuove questioni
linguistiche ne è il titolo ( si ricordi di Gramsci: ogni volta che si ripropone la questione della lingua vuol
dire che si ripropongono problemi sociali e politici di fondo, diceva Gramsci, pressappoco): in questo
lungo saggio c'è un paragrafo dedicato all'avanguardia126.
Pasolini, sulla scia di Gramsci, individua il fattore linguistico come discrimine per poter
misurare il peso specifico della classe egemone. La tesi portata avanti dallo scrittore è che per
la prima volta la borghesia industriale del Nord è riuscita ad imporre la propria egemonia su
tutte le classi sociali tramite il potere economico, acquisito dopo il boom economico degli
anni sessanta. Questo fenomeno causa un vuoto culturale in quanto:
a) il mondo letterario oggetto della revisione polemica degli anni cinquanta, non esiste più […]
b) l'operazione linguistica che ha come base il discorso libero indiretto e la contaminazione, si rivela
improvvisamente come superata, per un improvviso stringimento dei dialetti come problema linguistico e
quindi come problema sociale127.
124 ROLAND BARTHES, Nuovi problemi del realismo i n ID., Scritti. Società, testo, comunicazione, a cura di
Gianfranco Marrone, Torino, Einaudi, 1998, pp. 347-348.
125 P.P. PASOLINI, Nuove questioni linguistiche (1964), in ID, Empirismo eretico, SLA I, pp. 1245-1271, p. 1250.
126 P. P. PASOLINI, I dialoghi, a cura di G. Falaschi, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 336.
127 P. P. PASOLINI, Nuove questioni linguistiche, in ID., Empirismo Eretico, p. 1254.
31
Come sottolinea Andrea Felici128, il saggio Nuove questioni linguistiche tratta la questione
della lingua non di carattere normativo ma in base a un'analisi sociolinguistica del contesto
italiano del dopoguerra. In particolare secondo Pasolini è avvenuta una “rivoluzione dei
semantemi” intorno alla quale l'utilizzo di oscillazioni regionali e, a livello diastraticamente
alto, di cultismi latini veniva progressivamente sostituito da una terminologia proveniente da
una fonte del tutto nuova rispetto al passato, ma specchio dei cambiamenti sociali di quel
periodo: il lessico tecnico delle industrie»129. Nel periodo del dopoguerra, dal 1946 al 1960,
avevano maggior prestigio i dialetti dell'“asse Roma-Napoli” che caratterizzarono la
produzione neorealista. Dagli anni Sessanta in poi si stava affermando la lingua specifica
dell'“asse Milano-Torino”, la zona oggetto dello sviluppo economico. Quindi vengono eletti a
nuovi centri culturali i luoghi in cui si era sviluppata maggiormente la civiltà industriale.
Pasolini definisce come nuova lingua nazionale il linguaggio delle fabbriche «un arido idioma
“di consumo” che, insieme alla nuova classe borghese dell'industrializzazione, si stava
imponendo su quello regionale dei ceti subalterni»130. La sua riflessione sulla lingua di
consumo mette a fuoco il fatto che il fine comunicativo avrebbe prevaricato su quello
espressivo. Il nuovo italiano medio si sarebbe allontanato dai riferimenti letterari e classici,
modelli superati da quello tecnocratico, frutto della catena di montaggio. La lingua era
connotata con due caratteristiche principali: la funzionalità e la strumentalità. La lingua
tecnologica aveva come unico fine quello comunicativo. In particolare, vediamo l'esempio del
discorso di Aldo Moro in occasione della cerimonia d'inaugurazione dell'Autostrada del Sole:
La produttività degli investimenti dipende dunque dal loro coordinamento in una programmazione delle
infrastrutture di trasporto, che tenda a risolvere gli squilibri, ad eliminare le strozzature, a ridurre gli
sperperi della concorrenza tra i diversi mezzi di trasporto, a dare vita insomma ad un sistema integrato su
scala nazionale131.
128 ANDREA FELICI, Nuove questioni linguistiche di Pier Paolo Pasolini: tempo della tecnica e della tecnocrazia
del linguaggio, in Idee di tempo: studi tra lingua, letteratura e didattica, a cura di Claudio Buffagni, Beatrice
Garzelli e Andrea Villarini, Perugia, Guerra, 2011, pp. 157-169.
129 ANDREA FELICI, Nuove questioni linguistiche di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 157.
130 ANDREA FELICI, Nuove questioni linguistiche di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 158.
131 PIER PAOLO PASOLINI, Nuove questioni linguistiche, in ID., Empirismo Eretico, SLA I, p.1261.
32
tecnicismi e nelle modalità di diffusione di questi nuovi tecnicismi tramite il ricorso al
medium televisivo. Infatti un telespettatore comune ascoltando il discorso di Moro in
televisione, percependo una differenza sul piano culturale, avrebbe ritenuto parte dei termini
aulici quelli che erano parte del linguaggio tecnico e scientifico e si sarebbe sentito portato a
usarli. In questo modo i tecnicismi sarebbero penetrati all'interno del vocabolario dello
spettatore medio. Vediamo dalle parole di Pasolini stesso, nello specifico nel linguaggio dei
telegiornali, le critiche mosse verso il linguaggio televisivo
la monotonia dei diagrammi delle proposizioni di quel tipico campione televisivo che è il dettato del
telegiornale. Esso non parrebbe neanche italiano. Il reticolato della frase ripete moduli il più possibile
uguali, evitando ogni espressività digrammatica, addirittura anche col tono della voce132.
Un altro aspetto che in parte accomuna Pasolini e Auerbach è una certa avversione per la
borghesia e i due autori procedono in totale sintonia nel legare il degrado linguistico alla
classe borghese, come sottolinea Lisa Gasparotto: «la parola non sembra più corrispondere
alla cosa; la parola è finzione non realtà, e questo perché le esigenze estetiche dello scrittore
sono piccolo-borghesi e quindi poco realistiche»133. Il punto cruciale, tanto per Auerbach
quanto per Pasolini, è l’identificazione dell’autore con il personaggio. La differenza tra i due
risiede nel fatto che Auerbach in Flaubert, di cui parla in Mimesis, non vede nessuna forma di
identificazione con la realtà, Pasolini invece la vede negli scrittori che cita nel poemetto In
morte del realismo; tuttavia il legame con la realtà istituito dagli autori neorealisti, secondo
l'autore, è una finzione. I due romanzi romani Ragazzi di vita e Una vita violenta sono
ascrivibili al realismo figurale di Auerbach in quanto presentano: stile misto, creaturalità,
significato universale di fatti quotidiani. Pasolini prende i suoi personaggi dalla realtà più
bassa e li inserisce in un contesto narratologico serio e addirittura tragico.
Nel 1963 usciranno in Italia gli Studi su Dante di Auerbach e da quest’opera Pasolini mutuerà
un concetto che sarà alla base della riformulazione del progetto dantesco, che sarà poi La
Divina Mimesis, ossia che: «realismo e soggettivismo possono convivere»134.
132 P. P. PASOLINI, Nuove questioni linguistiche, in ID., Empirismo eretico, cit., pp. 1245-1271, p. 1260.
133 LISA GASPAROTTO-ANNA PANICALI, Conversazioni su Auerbach e Pasolini, cit, p. 493.
134 MARCO ANTONIO BAZZOCCHI, Buona e mala mimesi (Pasolini, Dante e la poetica del romanzo), in «Poetiche.
Rivista di Letteratura», n.s. I, 1999, pp. 49-65, p.54.
33
1.6 Pasolini come critico dantesco: La volontà di Dante a essere poeta
Nel saggio dantesco di «Paragone» vediamo teorizzati da Pasolini una serie di dualismi
inconciliabili: in primo luogo un dualismo di prospettiva (quello teologico universalistico e
quello terreno e sociologico) e in secondo luogo il dualismo continiano tra i due registri del
racconto (quello veloce della prima lettura e quello lento della rilettura e della memoria). I
personaggi danteschi sono concepiti in una prospettiva razionale, propria della prosa. Come
spiega Marco Antonio Bazzocchi, la lingua della poesia che esprime questi personaggi crea
una evidente discrasia in quanto «Pasolini lancia l’idea di un’inconscia volontà dantesca, la
volontà di “dare poesia in quanto poesia”, che si potrebbe tradurre, usando un linguaggio
freudiano, in una misteriosa forma di paranoia o di schizofrenia» 135. Nell’ottica di Pasolini è la
parola poetica a generare il racconto, quindi vediamo da parte sua una decostruzione del
concetto di plurilinguismo allo scopo di correggerlo. Se valesse effettivamente il principio del
plurilinguismo tra i diversi idioletti si creerebbero delle associazioni lessicali fortemente
stridenti e nel testo della Commedia questo non succede mai. Nel plurilinguismo dantesco non
c’è contrasto, ogni termine e ogni livello linguistico hanno il proprio ruolo preciso e
determinato. Quindi sul piano linguistico l’operazione dantesca viene riportata a quella
petrarchesca. Tuttavia ciò che differisce in Dante rispetto ad autori successivi, già imbevuti
nella nascente cultura borghese, è la mancanza di distanza rispetto all’oggetto narrato:
«Invece di portare tutto il reale verso se stesso, parificandolo sul proprio sguardo, il che
farebbe di lui il precursore di una poetica realistica e borghese, Dante incorpora se stesso nel
suo poema “rendendosi protagonista del poema”»136. L’esito della tesi di Pasolini è
esattamente opposto a quello di Garboli il quale sosteneva che l’operazione dantesca fosse
totalmente oggettiva e che all’interno del testo non si percepisse la presenza di un “Dante che
scrive”. Tramite il ricorso al modello dantesco Pasolini ha messo in crisi alcuni principi della
poetica realistica e di quella estetizzante. Cesare Segre critica ferocemente Pasolini
accusandolo di non aver compreso pienamente la mimesi dantesca e che fondamentalmente,
come già sosteneva Garboli, aveva condotto una mistificazione narcisistica sul poeta
fiorentino. Segre infatti nel suo La volontà di Pasolini ‘a’ essere dantista sottolinea in
maniera molto critica come vengano proiettati «ideali estetici moderni, anzi pasoliniani, sul
34
povero Dante»137. Pasolini di fatto rivendica questa impostazione fin dalle prime righe del suo
saggio in cui parla di: «un contributo molto particolare alla “fortuna” di Dante in Italia in
questi dieci, quindici anni (nella letteratura non accademica né specializzata)»138. In
particolare il Dante a cui Pasolini fa riferimento è il Dante del plurilinguismo, delineato da
Gianfranco Contini. Sarà infatti Contini a introdurre Pasolini alla poesia di Dante sulla base
delle nozioni critiche di “plurilinguismo” e “monolinguismo”, rispettivamente applicate a
Dante e a Petrarca nel saggio Preliminari sulla lingua del Petrarca (1957). Oltre a stabilire
delle categorie linguistiche Pasolini instaura un nesso tra lo stile e l’ideologia ad esso sottesa.
Come sottolinea Invernizzi «I Preliminari sulla lingua del Petrarca sono l’atto di fondazione
dell’interpretazione di Dante uomo della realtà»139. Gli strumenti forniti da Contini guidano
Pasolini in tre opere diverse: le due antologie (Poesia dialettale del Novecento e Poesia
popolare italiana) e il lavoro svolto con «Officina» (1955-1959). Contemporaneamente questi
stessi principi influenzano le opere sul versante creativo (i romanzi romani Ragazzi di vita
(1955) e Una vita violenta (1959) e la raccolta poetica Le ceneri di Gramsci (1957)). Ma tra
questi scritti e il saggio La volontà di Dante si crea una netta spaccatura e con il saggio viene
attuata «non solo la ripresa dell’insegnamento di Contini, ma anche la sua problematizzazione
e il suo definitivo superamento»140. Quindi Pasolini mette in atto i precetti linguistici
continiani nella prospettiva ideologica segnata da Gramsci.
Tuttavia se in Contini la coscienza sociologica e teologica è riunita in chiave unitaria, è scissa
da Pasolini in chiave duale adottando un approccio più problematico rispetto a quello
continiano. Pasolini prosegue poi con la teoria dei “due registri” che Contini gli anticipa
privatamente nella lettera del 4 Dicembre 1964 e che poi esporrà in maniera più compiuta nel
saggio Un’interpretazione di Dante. Pasolini riprende la teoria continiana ma la sviluppa in
senso opposto. Come sostiene Invernizzi, dalle prime pagine del saggio si evince che
l’approccio pasoliniano è “duplice e contraddittorio”141: da un lato fa propri gli esiti degli studi
danteschi continiani, dall’altro invece li applica in ottica crociana, scindendoli dal testo
d’origine, ristabilendo il dualismo interno all’opera che Contini aveva cercato di sanare. Egli
137 CESARE SEGRE, La volontà di Pasolini ‘a’ essere dantista, in «Paragone», XV, 190, dicembre 1965.
138 PIER PAOLO PASOLINI, La volontà di Dante, cit., p. 1376.
139 SIMONE INVERNIZZI, La spaventosa unità del linguaggio, cit., p. 328.
140 SIMONE INVERNIZZI, La spaventosa unità del linguaggio, cit., p. 329.
141 SIMONE INVERNIZZI, La spaventosa unità di linguaggio, cit., p. 331.
35
porta la tensione tra questi due poli fino al limite del parossismo. Nella Commedia non si
riscontra mai un accostamento a fini espressivi di registri linguistici tra loro dissonanti.
È evidente che Pasolini pensasse a se stesso nell’analizzare Dante; un aspetto invece meno
intuitivo sta nel fatto che lo faceva non in base alla sua produzione passata quanto in una
prospettiva rivolta al futuro. Una è quella del cinema, il cui inizio sulla scia dantesca è
testimoniato da alcune tracce disseminate in Accattone, il frammento de La Mortaccia in cui
fa ricorso al discorso libero indiretto e alla poetica del pastiche, e l’ultimo e definitivo
progetto completamente dantesco La Divina Mimesis. Gli anni Sessanta avevano portato degli
sconvolgimenti radicali in Italia, come affermava lo stesso Pasolini: «All’inizio degli Anni
Sessanta si è avuto nella cultura italiana uno di questi ‘momenti zero’: finiva un’epoca e ne
cominciava un’altra»142. L’Italia è totalmente travolta dal boom economico e dall’ideologia
consumistica che da essa deriva che porta all’omologazione dei consumi e delle tradizioni.
L’esito del mutamento antropologico è costituito da un vuoto culturale e un cambiamento
radicale a livello linguistico: nasce una lingua tecnica e scientifica che si impone come lingua
nazionale. A scomparire non è solo il realismo dantesco pasoliniano ma anche il neorealismo:
«Il neorealismo è stato l’espressione cinematografica della Resistenza […]. La cosa è durata
fin verso la fine degli anni Cinquanta. Dopodiché il neorealismo morì perché l’Italia era
cambiata»143. In Pasolini, nello specifico, la crisi non è segnata da ragioni di ordine politico e
sociale ma da ragioni prettamente letterarie, legate al fallimento del modello del
plurilinguismo dantesco di elaborazione continiana. La soluzione proposta da Pasolini al
fallimento dell’interpretazione continiana e della “compagnia picciola” che la ho seguito, è
quella di un “monolinguismo tonale” dantesco. La crisi del modello dantesco non è una fine
per Pasolini, ma l’inizio di una nuova fase di sperimentazione e di ricerca di nuove modalità
espressive.
Pasolini riprende Dante a partire dalla struttura narrativa in quanto, come osserva Bazzocchi
«gli si presenta come uno straordinario contenitore capace di allargarsi a tutti gli aspetti della
storia contemporanea»144.
Pasolini ha rivestito la sua opera di una patina gramsciana e ha cercato di celare la sua parte di
idealismo crociano sottostante. Quando Pasolini parla, al termine di Passione e Ideologia,
142 P.P. PASOLINI, I dialoghi, a cura di Giovanni Falaschi, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 373 (vd. anche p.
351).
143 P. P. PASOLINI, Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, cit., pp. 1308-1309.
144 M. A. BAZZOCCHI, Buona e mala mimesi, cit., p.60.
36
della sistemazione razionale delle emozioni irrazionali tramite il marxismo, egli prende in
prestito da Croce il concetto di sistemazione dell’irrazionale in universale e razionale tramite
l’arte. Probabilmente come conseguenza del suo approccio superficiale a Gramsci negli anni
Cinquanta, Pasolini non si è appropriato completamente degli elementi più innovativi del
pensiero del filosofo sardo, in particolare del rapporto tra letteratura e società. Negli anni
Sessanta Pasolini considerava come anacronistiche, sulla scia dei cambiamenti sociali in atto,
le posizioni adottate da Gramsci. Questa mancanza di conflitto di classe quindi condiziona
anche la sua poetica, come sostiene Joseph Francese: «the empiricism led him to redimension
the importance of historical dialectic as an instrument for interpreting reality also reinforced
the propensity to project his interior reality outside the self. Because of this extreme
subjectivism, he was unable to historicize himself, to isolate and analyse the forces that
determined and conditioned his poetic research»145. Gramsci ha riconosciuto il rapporto
dialettico tra base economica e sovrastruttura ideologica. Per Croce invece la storia era solo
un argomento, uno stimolo per l’intuizione artistica. Nel sistema crociano lo Spirito si
concretizza nel fatto estetico, che corrisponde con l’intuizione come attività meta-storica
puramente intellettuale, che prescinde dal fatto artistico. Il fatto artistico era l’atto pratico
infuso di intuizione, un’esternazione del fatto estetico. Per Croce l’arte non doveva
necessariamente condurre alla riflessione critica ma doveva stimolare l’intuizione del fruitore.
Una parte fondamentale dell’estetica crociana è la distinzione tra poesia, che è meta storica, e
non poesia, ossia gli elementi strutturali all’interno e all’esterno del testo. Pasolini sembra in
qualche modo confermare l'interpretazione della Commedia data da Croce, stabilendo una una
serie di dicotomie antitetiche quali: registro lento e veloce, visione teologica e sociologica, la
differenza tra autore e personaggio, tra poesia e romanzo. Tuttavia è bene precisare come in
Pasolini non sussistano le categorie specificatamente crociane di “poesia” e “non poesia", ma
per lui la divisione binaria delle categorie costituisce per lo più una forma mentis. Nell’analisi
del poema dantesco le due categorie a cui Pasolini è più interessato sono quella psicologica,
data dalla mimesi nell’altro, e quella sociologica. Gli elementi più razionalistici fanno parte
dell'ideologia dell'opera. Negli anni Cinquanta sembrava che Dante potesse conciliare
ideologia e linguaggio, negli anni Sessanta Pasolini rifiuta l'identità tra questi elementi e
suggerisce una forma di realismo in divenire. Emanuela Patti146 ipotizza una concomitanza
145 JOSEPH FRANCESE, The Latent Presence of Crocean Aestetics, in Pasolini Old and New, cit., pp. 131-162, pp.
132-133.
146 EMANUELA PATTI, Ideologia e Linguaggio, cit., p. 104.
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con la definizione di realismo che Pasolini ha fornito nel saggio La confusione degli stili
(1957): «realismo tipico delle transizioni, con cui, in attesa del formarsi oggettivo e vivente di
una ideologia non meramente prospettata, si operi a descrivere – teleologicamente – l'insieme
concreto e materiale dei fenomeni»147. La volontà di Dante è quindi la testimonianza concreta
della presa di distanza da parte di Pasolini dalle posizioni che aveva assunto negli anni
Cinquanta, in cui il realismo ispirato al plurilinguismo dantesco viene superato da una forma
di realismo in cui permane il presupposto dello sperimentalismo, ma di matrice postideologica
nei confronti della rappresentazione letteraria della realtà. In questo saggio viene messa in
discussione la figura di Dante poeta, concepito come auctor, che opera una selezione
razionalistica della materia letteraria.
Pasolini durante gli ultimi anni della sua vita ha percepito che il progresso doveva essere
portato avanti da un élite di intellettuali, mettendo in primo piano la figura dell’intellettuale a
sfavore del rapporto dialettico tra artista e pubblico promosso da Gramsci. L'autore pospone
l’interazione con le masse e allo stesso tempo sperava che si attuasse un cambiamento nella
sovrastruttura ideologica tramite le classi più istruite, e in questo senso è perfettamente in
linea con Croce. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Pasolini oscillava tra la critica marxista e
l’apertura verso una riconciliazione con gli intellettuali vicini al Partito Comunista con cui si
riappacificherà dopo il Sessantotto.
Pasolini si avvicina alle istanze del movimento operaio ispirato prima a livello emotivo, poi
per obiettivi linguistici e letterari; quello che lui chiamava marxismo è stato la conseguenza di
questo impegno.
Nel 1965 Pier Paolo Pasolini pubblica il saggio dantesco, La volontà di Dante a essere poeta,
nel quale si interroga sul principio unificatore della poesia dantesca nella Commedia.
Dall’analisi del saggio si evince quanto l’influsso del concetto di «plurilinguismo», acquisito
tramite la lettura di Gianfranco Contini, sia centrale per comprendere la riflessione teorica e la
produzione letteraria pasoliniana dagli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Sessanta e allo
stesso tempo ci illustra l’abbandono della concezione continiana, con il passaggio dal
“plurilinguismo dantesco” al “monolinguismo tonale”, nella prima metà degli anni Sessanta.
Nel secondo dopoguerra il realismo è la corrente artistica preponderante 148. Come sottolinea
147 PIER PAOLO PASOLINI, La confusione degli stili, in ID., Passione e Ideologia, SLA I, p. 1088.
148 Cfr. ALBERTO CASADEI, MARCO SANTAGATA, Manuale di letteratura italiana contemporanea, Roma, GLF
Laterza, 2007, pp. 231-256.
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Emanuela Patti149, la critica dantesca di quegli anni è stata cruciale per ridefinire il concetto di
realismo; difatti alcuni degli elementi cruciali del periodo (plurilinguismo, contaminazione
degli stili, sperimentalismo) sono mutuati appunto dalla rappresentazione di Dante che è stata
elaborata in quegli anni da Contini e Auerbach. La nuova idea di Dante era quella di “poeta
della realtà”, legata alla sua capacità di trasporre, tramite il linguaggio poetico, le diverse
sfaccettature della realtà. La nuova idea di realismo, basata anche sulla critica stilistica,
prevedeva un rapporto razionale tra realtà e linguaggio e un continuo sperimentalismo. Questa
interpretazione superava la concezione crociana e ristabiliva l'unità di poesia e struttura o,
come sosteneva Sanguineti, riuniva l'unità di poesia e ideologia. Nonostante il fatto che tale
modello dantesco non si conformasse alla corrente neorealista si è rivelato un filone
estremamente florido per le correnti che lo superarono, quali la neoavanguardia e il
neosperimentalismo.
Secondo Pasolini, la questione del realismo era prima di tutto linguistica: solo una nuova
lingua poteva essere in grado di rappresentare in maniera compiuta ed esaustiva le
sfaccettature della realtà. Pasolini trova nelle tecniche narrative e nel plurilinguismo dantesco
una forma di realismo che si opponeva a quella istituzionale e borghese che è autoreferenziale
e lontana dalla vita delle classi subalterne che sono oggetto della narrazione. Perciò «Per un
quindicennio, tanto la riflessione teorica quanto la produzione artistica pasoliniane sono
segnate dallo sforzo di creare una nuova lingua e una nuova letteratura che, sulla scorta del
modello dantesco, siano capaci di descrivere e comprendere il mondo»150. Con il saggio La
volontà di Dante a essere poeta vediamo sancito il distacco tra Pasolini e Dante, assunto
come modello nel decennio precedente.
La volontà di Dante a essere poeta viene pubblicato su «Paragone», numero 190 anno 15,
Dicembre 1965, nel fascicolo intitolato Giornale dantesco, della rivista diretta da Roberto
Longhi e Anna Banti, dedicato al centenario della nascita del Sommo Poeta. Il centenario
cade in un periodo particolare per Pasolini, ossia il dover affrontare dolorosamente la crisi del
marxismo, testimoniata dalla produzione filmica [Uccellacci e uccellini (1965)] e letteraria
[La Divina Mimesis (1965)] di quel periodo. Questo fascicolo, oltre all’articolo di Pasolini,
conteneva un saggio di Luzi, uno di Longhi sul rapporto tra Dante e Masaccio, una recensione
di Aldo Rossi alla mostra fiorentina dedicata al centenario. Rispetto al testo edito su
«Paragone» quello pubblicato nella raccolta Empirismo Eretico presenta delle modifiche.
149 EMANUELA PATTI, Ideologia e Linguaggio, cit., p. 88.
150 SIMONE INVERNIZZI, La spaventosa unità del linguaggio, cit., p. 324.
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Sulla rivista l’articolo è accompagnato da una lettera alla Banti che riferisce della
commissione del pezzo da parte di una rivista sovietica in occasione del suddetto centenario e
a un articolo di Cesare Garboli, intitolato Come leggere Dante e pubblicato sul numero di
giugno della medesima rivista, che sarebbe stato d’ispirazione per il contributo pasoliniano.
La Banti, nella lettera del 30 Agosto151, ringrazia per l’articolo e gli comunica che andrà alle
stampa a dicembre perché sul numero in preparazione, quello di ottobre, sarebbe stato inserito
il contributo di Contini Un’ interpretazione di Dante. La notizia sembra turbare Pasolini al
punto tale che la Banti si vede costretta a scrivergli a settembre per spingerlo alla
pubblicazione152. Un secondo ripensamento si ebbe in ottobre a causa della richiesta di
correzioni da parte di Cesare Segre, redattore di «Paragone», una in relazione al titolo e l’altra
in relazione ad alcuni errori e imprecisioni. Dopo la risposta piccata di Pasolini a Segre, solo
151 PIER PAOLO PASOLINI, Lettere: 1955-1975, a cura di Nico Naldini, Torino, Einaudi, 1988, p. 595.
152 Cfr. lettere della Banti pubblicate in P.P. PASOLINI, Lettere, cit., p. 595.
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grazie all’intervento di mediazione della Banti lo scritto pasoliniano viene pubblicato sulla
rivista. Inoltre il suo contributo sarebbe stato seguito da due appendici critiche: uno di Cesare
Garboli, intitolato Il male estetico, e l’altro di Cesare Segre, intitolato La volontà di Pasolini
a essere dantista. L’intervento di Garboli sarà citato dallo stesso Pasolini, nella lettera che
funge da premessa al suo saggio, come fonte di ispirazione. Garboli in questo suo testo tenta
di risolvere la problematica questione crociana dell’unità della Commedia facendo confluire
l’elemento poetico e quello tecnico-linguistico. In particolare l’aspetto cruciale è esplicitato in
questo passaggio: «Nella Commedia si celebra certamente il più alto trionfo della poetica
dell’oggettività […] Dante poeta, Dante che scrive, è un puro tecnico»153.
La replica a Segre è La mala mimesi (1966), pubblicato in Appendice a «Empirismo Eretico».
Dall’epistolario emerge che, in seguito alle critiche di Garboli e Segre, Pasolini vuole ritirare
il pezzo, nonostante le insistenze della Banti per pubblicarlo. Lettera di Pasolini a Segre,
Roma, ottobre 1965154:
Gentile Segre,
se continuassi ad avere l’idea di pubblicare su «Paragone» il mio pezzetto su Dante, vi apporterei
certamente delle modifiche che Lei mi suggerisce. Ma preferisco non pubblicarlo: come del resto avevo
già deciso qualche mese fa, se non fossero state le insistenze della signora Banti, gentili e amiche, come
sempre, ma evidentemente stavolta immeritate. Resterò poi per sempre di fronte al mistero della reazione
di Garboli, e Sua. Io venero Contini, e Contini sa che lo cito continuamente, anche se non faccio ogni
volta il suo nome, che diventerebbe ossessivo: il dialogo tra noi due è ormai, credo, ventennale. Quanto a
Garboli, capisco che possiede delle ville, e che questo può essere un po’ inibitorio: comunque gli voglio
molto bene, e credo di avergli chiarito oralmente certi equivoci che potevano nascere dal mio testo
frettoloso. Non ho nulla in mano – per colpa della mia ignoranza – per non aver seguito in modo neanche
elementare gli ultimi studi danteschi – per comprendere invece la Sua reazione.
Lei sa certamente che anche con Lei mantengo – finché la mia attività ossessa di facitore di troppe cose
me lo consente – un dialogo ininterrotto: e che ho per Lei la più grande stima. La pregherei dunque di
mandarmi le indicazioni bibliografiche dei testi, sui quali arrossire per aver detto delle bestialità,
invadendo il campo altrui: cosa che rende le bestialità meno perdonabili.
La saluto molto affettuosamente
Suo
Pier Paolo Pasolini
153 CESARE GARBOLI, Come leggere Dante, «Paragone», XV, 184, giugno 1965, pp. 8-42, p. 37.
154 PIER PAOLO PASOLINI, Lettere: 1955-1975, cit., p. 593.
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La lettera di Pasolini è risposta a una di Segre del 17 ottobre 1965 155:
Caro Pasolini,
le redazioni di «Paragone» si sono riunite ieri a Firenze per decidere il sommario del prossimo numero, a
cui Lei ha gentilmente offerto il suo saggio su La volontà di Dante a (ma perché non di?) essere poeta. I
Suoi scritti sono sempre stimolanti e degni di discussione, e perciò ci siamo trovati d’accordo a stampare
anche questo, nonostante molti segnali di frettolosità che vi si rilevano, e che Lei stesso reiteratamente
confessa nella lettera – premessa. Questa volta però Lei chiama bruscamente in causa Garboli, che ha
deciso di risponderLe e sul fatto personale, e sul merito della tesi; e mi sono sentito chiamato in causa
anch’io, sia pure per motivi più generali, di costume e di metodo. È giusto che Lei sia avvertito che al Suo
scritto verranno appiccicate queste due appendici critiche.
Occorre però che Lei tolga alcuni errori, espressioni imprecise e ingiuste preterizioni, che oltre tutto ci
offrirebbero un modo troppo facile di darLe sulla voce.
A p. 2 Lei dice che nella Commedia “un poeta provenzale parla per un intero endecasillabo nella sua
lingua”. Alluderà a Purg. XXVI, ma gli endecasillabi sono ben otto.
Nell’ultima pagina Lei parla, a proposito del Petrarca, di un “regresso al volgare letterario del Dolce Stil
Novo”. Detto così è un errore, e grosso, anche se indovino quale possa essere il Suo pensiero.
È indispensabile che Lei citi Contini (che, con Auerbach mi pare averLe fornito gli spunti utili), in tutti i
luoghi dove Lei ne accoglie i suggerimenti (p.4 “il racconto è svolto su due registri ecc.” stessa pagina:
“Del proprio poema, Dante è scrittore, ma anche protagonista”) o dove, se ben capisco, intende
polemizzare con lui (questione del monolinguismo e del plurilinguismo; e qui temo che Lei abbia letto
troppo superficialmente l’articolo a cui allude). Non che lei non nomini Contini e Auerbach; ma una volta
sola, mentre almeno noi nel retrivo mondo accademico preferiamo sia sempre indicato ai luoghi dove
occorra l’antagonista o il suggeritore.
Sono certo che Lei sarà disposto ad attuare questi minimi ritocchi; La prego di comunicarmelo per
espresso, e di farli avere, al più presto, al segretario editoriale Paolini, con cui è già in corrispondenza.
Scusi questo intervento pedante e noioso, ma indispensabile, e abbia i migliori del suo
Cesare Segre
Il saggio di riposta a Segre viene pubblicato su «Paragone»; anno XVI, numero 194 nel
numero di aprile 1966 con il titolo Vanni Fucci. In particolare viene pubblicato sull’Allegato
al «Giornale Dantesco» (Paragone 190) e comprende un paragrafo, espunto dalla versione in
volume, presente in questa versione in rivista e che qui riportiamo156:
155 PIER PAOLO PASOLINI, Lettere: 1955-1975, a cura di Nico Naldini, Torino, Einaudi, 1988, p. 594.
156 PIER PAOLO PASOLINI, Note e notizie sui testi, in ID., SLA II, pp. 2952-2954.
42
A meno che non abbiano ragione invece le oneste orecchie del prof. Segre che in tutto questo parlare di
Vanni Fucci non hanno sentito altro che “un linguaggio forte ma stilisticamente corretto e persino
sostenuto”, niente altro.
Quelle stesse orecchie che non avvertono la differenza sostanziale che c’è tra l’adozione di alcune parole
provenzali all’interno della frase, e il manufatto melodico, con effetti lievemente ilari, che risulta dalla
sistemazione di quelle stesse parole in un intero endecasillabo: che improvvisa autocritica fa
l’endecasillabo a se stesso presentandosi fatto completamente di un diverso materiale linguistico, che ne
rende assurda la meccanica. Sarà forse il mio amore di ragazzo per Arnaldo Daniello, che, con gli altri
poeti provenzali, mi era così famigliare da apparirmi quasi mio coevo, nel ’40, nel ’41…
A proposito poi di “pulcro” non ho mai pensato di dire che in Dante manchi l’espressionismo “aspro e
chioccio”: ho detto semplicemente, in quel mio povero scritto, divertendomi, che manca in Dante la
forma espressionistica del tipo “il pulcro dindi”: ossia “pulcro” può benissimo essere calato in un corso
melodico chioccio in quanto chioccio fonema: ma non potrà, credo, mai essere una qualificazione di un
sostantivo proveniente da un altro mondo sociolinguistico ( il semplice, tenero “dindi” del linguaggio di
una madre appartenente a ceto plebeo)
3) Per questo punto rimando l’annoiato lettore al post scriptum della lettera aperta che accompagnava il
mio articolo. Quanto poi alla sfottitura del prof. Segre fa del mio linguaggio tecnicistico – espressivo,
anche questa è una di quelle reazioni, cui, per pura economia di tempo e energia, non oso rispondere.
4) Col senno di poi, il prof. Segre sa benissimo che “ i filoni culturali e regionali” che confluivano sulla
storia del volgare dantesco erano eterogenei ecc. ecc.: ma tali filoni erano confluiti nella stessa misura e
nello stesso modo anche nel volgare del Dolce Stil Novo, che era la lingua strumentale parlata dalle plebi
e dalle nascenti borghesie ecc. ecc.: perché il volgare del Dolce Stil Novo si è posto subito come
canonico, come lingua gergale letteraria ecc. ecc.? Dante non poteva usare per la Commedia il gergo
volgare letterario del Dolce Stil Novo?
Qual è stata nel fondo la ragione della mancata adozione di un simile volgare, se non l’opposizione a un
sua “eventuale istituzionalità conformista” (dico io, sempre col senno di poi, naturalmente)? Certo questo
non è un modo semplicistico e contemporaneistico per dire delle cose molto più serie: ma io contavo sullo
spirito del mio lettore… non volevo certo prestare a Dante la terminologia di «Officina».
Per quel che riguarda il mio “imperdonabile errore” di aver attribuito al Petrarca un ritorno alla selettività
linguistica del Dolce Stil Novo, il prof. Segre prima di prendere la matita blu in mano, dovrebbe rileggere
un po’ meglio quel mio Contini ch’egli tanto difende ai suoi scolari di Liceo …
Quanto e quanto attentamente ho letto della Commedia? Tutti i miei amici sanno – e anche i lettori di
giornali, per mie reiterate dichiarazioni orali che i cronisti si incaricavano di fissare nei loro scritti – che
da anni giacciono nei miei cassetti i lavori in corso di un “Inferno” moderno, che attraverso dilatazioni,
asimmetrie e altre cose, ripete l’Inferno dantesco: e sono quindi anni che monto e rimonto, pezzo per
pezzo, almeno la prima cantica.
43
Le mie citazioni ovvie del Dante che tutti sanno a memoria ( e che egli stesso sapeva a memoria) sono
dovute al fatto che il pretesto del mio scritto era una celebrazione dantesca tra consumatori e poco
familiarizzati con Dante: i lettori di una rivista sovietica, a cui dovevo quindi offrire esempi di riferimento
immediato. Non ho curato per niente l’oreficeria del mio pezzo.
Una “candida domanda” infine. Il prof. Segre non vuole essere un dantista: egli indubbiamente lo è. E
perché allora rivela che le mie citazioni “non oltrepassano il canto VI del Purgatorio” quando tutti sanno
che l’episodio di Buonconte si conclude nel V?
Con tale meschinità, che non mi basta riconoscere per non essere umiliato, dichiaro chiusa da parte mia
ogni operazione di guerra. Da ora in poi se il prof Segre mi tirerà l’orecchia destra, gli porgerò l’orecchia
sinistra.
Pier Paolo Pasolini
Pasolini non fu un dantista di professione, i suoi interventi critici riguardano per lo più la
questione linguistica. Nell'Intervento sul discorso diretto libero vediamo l'analisi del
linguaggio di due personaggi del poema di diverso livello sociale e psicologico, Francesca da
157 PIER PAOLO PASOLINI, Note e notizie sui testi in ID, SLA II, p. 2954.
44
Rimini e Vanni Fucci. Segue poi il saggio La volontà di Dante a esser poeta che conferma la
presenza di due registri lessicali e psicologici e l'espressione della duplice natura del poema in
diverse dicotomie: teologismo – sociologismo, figurativismo – allegorismo, lingua prosastica
– lingua poetica. Il terzo contributo intitolato La mala mimesi, pubblicato su «Paragone»
nell'aprile del '66 in risposta all'intervento di Segre, riprende la trattazione sul discorso libero
indiretto in relazione al personaggio di Vanni Fucci. Secondo Steno Vezzana «questi sono
interventi non sono tanto studi specifici su Dante, quanto ricerca di una conferma, anche in
Dante, dei principi fondamentali della poetica pasoliniana»158.
158 STENO VEZZANA, Il dantismo di Pasolini, in Dante nella letteratura italiana del Novecento, a cura di Silvia
Zambon, Roma, Bonacci, 1979, p. 279.
45
PRIMO ESPERIMENTO DANTESCO: LA MORTACCIA (FRAMMENTI)
Il testo verrà pubblicato nella raccolta Alì dagli occhi azzurri nel 1965 in forma di frammenti
divisi in due canti i quali, preceduti da un breve prologo, narrano la vicenda di Teresa Macrì
che, perdutasi nella versione infernale della borgata in cui esercita la professione di prostituta,
viene condotta da Dante stesso sulla soglia del carcere di Rebibbia. Questi frammenti
testimoniano il progetto di realizzare «un grande affresco stilistico e sociale sul modello
dantesco»159.
Alì dagli occhi azzurri è una raccolta di racconti, per lo più inediti, redatti in un periodo di
tempo che va dal 1950 al 1965 ed è di per sé peculiare in quanto:
Alì dagli occhi azzurri, il libro che avrebbe dovuto essere il terzo romanzo romano di Pasolini, diventa nel
1965 il primo esempio di una nuova maniera fatta di provvisorietà esibita, costruita per relitti e
frammenti. Invece di compiere un’ennesima operazione neo-naturalistica, lo scrittore testimonia nel
proprio lavoro una crisi del naturalismo160.
46
da Ferdinando Giannessi secondo cui si dovrebbe individuare proprio«nel personaggio della
Profezia un nuovo redentore, simile al Veltro vagheggiato da Dante all’inizio del suo
poema»163.
163 FERDINANDO GIANNESSI, Pasolini scrittore “religioso”. Dicembre 1965-Gennaio 1966. Ritaglio de La
Stampa, senza data, nella cartella Ritagli su “Alì dagli occhi azzurri” conservata nel Fondo Pasolini in ACGV
(Segnatura: PPP V.3.166.4).
164 PASQUALE LICCIARDELLO, Pasolini poeta, Ritaglio incollato de “La Fiera Letteraria” 26 Luglio 1966. Testata
e data aggiunte in testa al ritaglio. Fondo Pasolini in ACGV (Segnatura: PPP V.3. 166.7).
165 Due domande a Pier Paolo Pasolini, intervista firmata “Fr.Pal.” su L’attenzione di Moravia e Alì dagli
occhi azzurri, Ritaglio di “Avanti!”, 26 Dicembre 1965. Fondo Pasolini in ACGV (Segnatura: PPP V.2.53).
166 SANDRO BRIOSI, Un’alternativa al realismo: “Alì dagli occhi azzurri”, in «Diogene», gennaio-febbraio 1967,
pp. 16-17. Fondo Pasolini in ACGV (Segnatura: PPP V3 166.8).
167 Due domande a Pier Paolo Pasolini, intervista firmata “Fr.Pal.” su L’attenzione di Moravia e Alì dagli
occhi azzurri, Ritaglio di “Avanti!”, 26 Dicembre 1965. Fondo Pasolini in ACGV (Segnatura: PPP V.2.53).
168 CLAUDIO MARABINI, I “flashes” di Pasolini, Ritaglio de “Il Resto del Carlino” del 16 febbraio 1965. Fondo
Pasolini in ACGV (Segnatura: PPP V.3. 166.5).
47
Ci sono due possibilità che trovano la loro attuazione nei frammenti pasoliniani: o l’evasione
dal realismo nel simbolo, con la mescolanza stilistica e il ricorso a personaggi astratti e
simbolici, o l’espressione realistica, legata alla mimesi del linguaggio popolare. Negli altri
casi estranei a questa dinamica, Briosi porta l’esempio del frammento Mignotta ma a parere di
chi scrive è una constatazione che può essere estesa anche a La Mortaccia: gli appunti sono
portatori del sentimento che avrebbe dovuto esprimere la loro forma compiuta.
Appaiono qui per la prima volta” i ragazzi di vita romani”, da poco chiamati a sostituire gli adolescenti
friulani che erano stati i personaggi principali di Il sogno di una cosa. In Pasolini la spinta ad avvicinare
169 MARIA SABRINA TITONE, Dannata, dolente catabasi: L’Inferno di Pier Paolo Pasolini, in Cantiche del
Novecento: Dante nell’opera di Luzi e Pasolini, Firenze, L.S.Olschki, 2001, pp. 69-207, p. 84.
170 PIER PAOLO PASOLINI, «Vie Nuove», n.4, 28 gennaio 1961, p.6.
171 Per una trattazione approfondita dello sviluppo della questione linguistica in Pasolini cfr. EMANUELA PATTI,
Pasolini after Dante: The “Divine Mimesis” and the politics of representation, Cambridge, Modern
Humanities Research Association, 2016.
172 CRISTINA MONTILLI, Cristina Montilli, Dante in Pasolini: tesi di laurea, relatore Walter Siti, Università degli
Studi dell’Aquila Corso di laurea in Materie Letterarie, a.a. 2008-2009, p. 39.
48
gli uni e gli altri, si è detto, con poche obiezioni, che è di origine traumatica, psicologica: cercava in essi
una condizione di innocenza, di esuberanza, apparentemente allegra e sfrontata, ma in fondo malinconica,
di vitalità amorale, di una naturalezza ingenua selvaggia e disinteressata oltre i più impellenti bisogni
dell’esistenza.173
Fabio Vighi insiste molto sull'aspetto della continuità tra i ragazzi romani delle borgate, le cui
vicende sono narrate nelle prime raccolte Alì dagli occhi azzurri e Storie dalla città di Dio,
prima ancora che nei romanzi romani, e i contadini friulani. Secondo lo studioso la differenza
sostanziale risiede nel fatto che «le figure degli adolescenti cominciano a arricchirsi di
connotazioni sociologiche assenti negli archetipi settentrionali»174
I n Alì sono contenuti diversi frammenti risalenti agli anni cinquanta e di conseguenza al
periodo del naturalismo come Dal vero, Storia burina e Il biondomoro. Tuttavia La
Mortaccia presenta la sua peculiarità: «sia pure allo stato di frammento incompiuto, da un lato
anticipa le riflessioni pasoliniane “sul discorso rivissuto dei personaggi danteschi”, dall’altro
rappresenta un prolungamento di Ragazzi di vita e Una vita violenta»175. Oltre a La Mortaccia
vediamo disseminate alcune tracce lessicali e situazionali dantesche in altri testi facenti parte
della raccolta. Ad esempio notiamo in Giubileo un riferimento alla prima opera dantesca in
questo passaggio: «che non mancò con una certa ebbrezza nel proclamare, con entusiasmo un
po’ passato di moda, essendo egli sulla cinquantina, la sua vita nova»176. Così come sosterrà
Dini riguardo La Mortaccia, e come si dirà più approfonditamente nelle pagine successive,
anche la Mortilli per Giubileo parlerà di una narrazione in cui «tutto è […] abbassato di grado,
parodiato quasi, ma mai facendo scadere l’uno (la Commedia, la Vita Nova) o l’altro
(Giubileo) a mero elemento da parodiare, bensì trasportando l’uno nell’altro»177.
Vediamo ora come, almeno in parte, il rapporto con il testo dantesco intersechi anche la
produzione cinematografica pasoliniana. In esergo al frammento della sceneggiatura di
Accattone, troviamo una citazione tratta dal quinto canto del Purgatorio: «Te ne porti di
costui l’etterno/ per una lacrimetta che 'l mi toglie» 178. Come spiega Marco Antonio
Bazzocchi179, proprio la scena finale della prima pellicola pasoliniana è martoriata dalla critica
173 WALTER PEDULLÀ, La letteratura del benessere, Napoli, Libreria scientifica editrice, 1968, p. 320.
174 FABIO VIGHI, Le ragioni dell'altro : la formazione intellettuale di Pasolini tra saggistica, letteratura e
cinema, Ravenna, Longo, 2001, p. 94.
175 GIANLUIGI SIMONETTI, Da un Dante all’altro. Pasolini e la Divina Mimesis, cit., p. 44.
176 PIER PAOLO PASOLINI, Giubileo (1950), in ID., Alì dagli occhi azzurri, RRII, p. 384.
177 CRISTINA MONTILLI, Dante in Pasolini, cit., p.44.
178 Pg. V, 106-107.
179 MARCO ANTONIO BAZZOCCHI, Dante nel cinema, i n ID. , I burattini filosofi: Pasolini dalla letteratura al
cinema, Milano, Mondadori, 2007, pp. 46-47.
49
per la presunta “lagrimetta” che si intravede nell’occhio del protagonista, e quindi sulla sua
possibile redenzione in extremis sancita in chiave esplicitamente dantesca. Pasolini stesso nel
carteggio con Segre, legato alla querelle sul contributo pasoliniano pubblicato su «Paragone»
in occasione del sesto centenario della nascita di Dante, parla della propria predilezione per il
canto di Buonconte180, dato che il suo detrattore gli ritorce contro questo dato come accusa di
una conoscenza scarsa e superficiale del poema nel suo complesso181.
I n Storia burina troviamo un altro rimando dantesco, in particolare alla figura di Ulisse in
relazione al personaggio del commissario che svolge le sue inchieste seguendo le cacche di
vacca, una trasposizione in chiave comico – parodica delle stelle polari che guidano l’ultimo
viaggio di Odisseo: «seguito dal brigadiere e dalla sua compagnia picciola» 182 di contro alla
“compagna picciola” con cui Ulisse si pose «per l’alto mare aperto»183.
Un altro rimando dantesco significativo in Alì è presente in Dal vero, prosa datata 1950-1953,
che si apre con un Collage da Dante, con accostate tutte terzine tratte dalla prima cantica. In
particolare circa la metà delle terzine è tratta da alcuni canti di Malebolge, mentre l’ultima
riporta le parole di Manfredi nel canto terzo del Purgatorio. Testo scritto tra il 1950 e il 1953
quindi l'unica edizione da cui plausibilmente può essere tratto, tra quelle possedute nella
biblioteca di Pasolini, è quella commentata da Luigi Pietrobono. Dal catalogo del Fondo
Pasolini184 del Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze emerge come Pasolini nella sua biblioteca
personale possedesse tre edizioni commentate del poema dantesco: due edizioni integrali,
l'edizione commentata da Luigi Pietrobono185 e quella commentata da Natalino Sapegno186, e
la sola cantica purgatoriale commentata da Tommaseo187. A rigor di logica è da escludere il
ricorso al commento di Tommaseo, almeno per le citazioni tratte dalla prima cantica, e per
ragioni cronologiche il ricorso al commento di Sapegno, in quanto edito nel 1957 e quindi
180 «poiché avevamo riletto la Commedia tutti e due, ho chiesto a Moravia quale gli fosse parso il pezzo più
bello del poema: quanto a me, erano i primi sei canti del Purgatorio, con speciale riferimento ai racconti che
alcune anime fanno della propria morte; soprattutto Buonconte» PIER PAOLO PASOLINI, Note e notizie sui testi
in ID.,Empirisimo Eretico, SLA II, p. 2949.
181 «Quanto, e quanto attentamente ha letto la Commedia, P.? Le sue citazioni tutte banali, son quelle che
restano nel bagaglio dei ricordi di scuola. Inoltre esse non oltrepassano il canto VI del Purgatorio.» Cesare
Segre, La volontà di Pasolini ‘a’ essere dantista, «Paragone», XVI, 190, Dicembre 1965, p.84.
182 PIER PAOLO PASOLINI, Storia burina (1956-1965), in Alì dagli occhi azzurri, RRII, cit., p.488.
183 Inf. XXVI, 100.
184 GRAZIELLA CHIARCOSSI E FRANCO ZABAGLI , La biblioteca di Pier Paolo Pasolini, Firenze, Olschki, 2017, p.
237.
185 DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, con brevi note di Luigi Pietrobono,Torino, Società editrice
internazionale, 1939.
186 DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno, Milano-Napoli, 1957.
187 DANTE ALIGHIERI, Purgatorio in La Divina Commedia, con le note di Nicolò Tommaseo ed introduzione di
Umberto Cosmo, Torino, UTET, 1927 («I classici italiani», 4).
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pochi anni dopo la stesura del testo in questione.In questa operazione letteraria: «Pasolini
accostava, con disinvoltura metrica, i versi relativi alle pene inferte ai violenti contro l’altrui
bene, agli eretici, agli scialacquatori, ai malfattori fraudolenti, ai ruffiani, ai barattieri e ai
ladri, fino all’infera visione di Lucifero»188:
A differenze di Teresa, i due protagonisti di Giubileo, Claudio e Sergio, escono proprio dal
penitenziario di Rebibbia e trovano quindi il loro reinserimento nella società.
188 MARIA SABRINA TITONE, Dannata, dolente catabasi: L’Inferno di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 77.
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2.2 Genesi e sviluppo del testo La Mortaccia
Come spiegano Walter Siti e Silvia De Laude, nella sezione Note e notizie sui testi del
secondo volume del “Meridiano” dedicato a Pasolini, intitolato Romanzi e Racconti189,
nonostante il testo de La Mortaccia sia datato 1959, ci sono diverse testimonianze del fatto
che il progetto rimane aperto anche negli anni successivi. Anticipando la trama de La
Mortaccia a Massimo Massara, su «Nuova Generazione» nel 1960, Pasolini nomina sé stesso
come viaggiatore e la prostituta nei panni della guida, accenna a un antinferno in cui ci
saranno Moravia, Gadda, Thomas Mann e Stalin (come trasposizione di Farinata Degli
Uberti) all’ingresso della Città di Dite 190. Nell’intervista pubblicata su «Paese Sera» il 4-5
Luglio 1960 rilasciata da Pasolini ad Adolfo Chiesa, lo scrittore dichiara, parlando del testo a
cui stava lavorando, del quale in quel momento aveva terminato il primo capitolo:
È una visione analoga a quella dantesca, ricalcata su quella. Al posto di Dante una prostituta che ha letto,
in vita, la Commedia a fumetti e ne è rimasta particolarmente colpita; dal canto suo nella Mortaccia Dante
è trasformato in un novello Virgilio che parla come Gioacchino Belli ed è marxista. Dunque all’inferno la
prostituta trova padre, madre, parenti, sfruttatori, colleghe, invertiti da un lato; e dall’altro lato trova i
personaggi più noti della cronaca e della politica contemporanea.[…] Quanto agli altri personaggi poi
avremo delle vere e proprie sorprese…Stalin sarà al posto di Farinata, Gadda fra i golosi, Migliori e
Tupini fra i lussuriosi, i dorotei sotto la cappa dorata degli ipocriti, Moravia nel limbo dei virtuosi non
battezzati… li ritroveremo tutti, prima o poi, i personaggi più in voga del mondo contemporaneo; e nella
bolgia dei ladri, come dicevo, gli scippatorelli di Panigo che racconteranno la loro storia 191.
È di particolare interesse lo spunto fornito dalla trama di una edizione della Commedia a
fumetti. Probabilmente è un elemento privo di riferimenti specifici, usato nella trama come
modalità di accesso all'opera, in una chiave divulgativa accessibile a chi presumibilmente,
come Teresa e il suo cliente, non era istruito. Eppure è bene sottolineare che tra la fine degli
anni quaranta e l'inizio degli anni cinquanta ci furono ben due edizioni a fumetti del poema
dantesco: nell'aprile del 1947 sulla rivista satirica «Belzebù» viene pubblicata La rovina in
189 PIER PAOLO PASOLINI, La Mortaccia (frammenti), in ID., Note e notizie sui testi, RR II, pp. 1964-68.
190 PIER PAOLO PASOLINI, La Divina Mimesis, nota introduttiva di Walter Siti, Torino, Einaudi, 1993, p. V.
191 PIER PAOLO PASOLINI, Note e notizie sui testi in ID., RRII, p. 1964.
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commedia. Grottesco satirico e dantesco di Jacovitti di Benito Jacovitti192 e nel 1949-50 la
magistrale riscrittura a fumetti di Guido Martina e Bioletto L'inferno di Topolino, uscito sui
numeri 7-12 di Topolino193. Di fatto queste riscritture fumettistiche sono operazioni simili a
quella compiuta da Pasolini ossia fare ricorso al modello dantesco al fine di narrare in maniera
critica la realtà contemporanea.
Tutti gli eventi narrati sarebbero stati riportati in base alla prospettiva della realtà della
protagonista, ma era prevista qualche variazione sul piano linguistico (ad esempio il
personaggio di Starace avrebbe parlato in parte in barese in parte in italiano).
53
Emanuela Patti, sulla scorta delle posizioni pasoliniane, che «nel dialetto plebeo di Belli,
secondo Pasolini, possiamo infatti trovare lo stesso latino maccheronico dell’Inferno»198.
Il progetto è ancora attivo nel ’61 e la testimonianza ci viene fornita dal testo da una delle sue
pagine autobiografiche intitolata La Vigilia. Il 21 Ottobre, in cui scrive: «E ne La Mortaccia,
il mio prossimo libro, salteranno fuori certo molte delle incredibili case in cui lui è vissuto,
sempre qui, tra la Marranella, il Pigneto e la Borgata Gordiani»199.
Risalgono allo stesso anno, in seno alla rubrica di dialogo con i lettori sulla rivista «Vie
Nuove», alcune tracce di questo progetto ancora in via di definizione sul livello prettamente
stilistico: «Sto scrivendo un libro, che non so se chiamare romanzo che racconta la discesa
all’Inferno secondo la falsariga dantesca […] di una prostituta»200. Si sofferma poi, in un altro
contributo afferente la medesima rubrica, sull’aspetto linguistico che caratterizzerà questa sua
nuova fatica. Parlando del romanzo Una vita violenta e del suo tentativo di rappresentare la
realtà della borgata tramite un linguaggio che fosse in grado di trasporre il punto di vista, il
«linguaggio interiore», dei personaggi narrati mette in luce le difficoltà di questa operazione
che si pone sulla scia di Verga, Joyce e Gadda. Se nei discorsi diretti si faceva ricorso al
dialetto come tipica modalità espressiva dei personaggi, nei discorsi indiretti bisognava fare
ricorso a una mescolanza linguistica che rendesse verosimile la parte narrativa come
espressione del punto di vista di chi agisce nella narrazione. Sulla scia di queste nozioni
linguistico-narrative afferma che:
N e La Mortaccia il mio nuovo libro, userò lo stesso procedimento linguistico: ma con degli ovvi
allargamenti. […] La mia opera sarà comica e satirica: lo schema dell’Inferno dantesco è un elemento
comico: ed è quindi esplicito e dichiarato: né più né meno che come succederebbe in un avanspettacolo 201.
Quando Pasolini parla dello stesso procedimento linguistico fa riferimento alla stagione dei
romanzi romani Ragazzi di vita e Una vita violenta, e al filone neorealista a cui appartiene
anche il testo del La Mortaccia che avrebbe preso in considerazione una più ampia varietà
sociale e conseguentemente linguistica. Nonostante il fatto che questi “allargamenti” non
198 EMANUELA PATTI, La Divina Mimesis come progetto popolare-nazionale, cit., p. 188.
199 PIER PAOLO PASOLINI, La vigilia. Il 21 Ottobre in ID., Racconti, abbozzi e pagine autobiografiche, RRI, pp.
1563-1585, p. 1572.
200 PIER PAOLO PASOLINI, Le belle bandiere, Roma, L’Unità, Editori Riuniti, 1991, p. 137. In particolare la
conferma che questa dichiarazione è riferita al testo della Mortaccia è data dalla nota 1.
201 PIER PAOLO PASOLINI, I dialoghi, a cura di Giovanni Falaschi, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 69. Cfr. anche
GIAN LUCA PICCONI, Oppongo al cordoglio un certo manierismo: Patmos e il tragico nella poesia dell’ultimo
Pasolini, in «Between», n. VII, 14, 2017, p. 4. http://www.betweenjournal.it/
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siano mai stati effettuati, ci sono tratti evidenti che ricollegano questo testo ai due romanzi.
Innanzitutto l’ambientazione descritta nell’incipit del secondo frammento («Era un
montarozzo che sotto i ragazzi ci giocano al pallone, e sulle coste è tutto pieno di puncicarelli
e fratte, e, arrivati in pizzo, laggiù si vede l’Aniene» 202) richiama negli elementi dei
puncicarelli, della vicinanza all’Aniene e alle fratte, a un passaggio descrittivo del capitolo
VIII di Ragazzi di vita («erano là in mezzo a quegli orti, o per dir meglio, in mezzo a quella
giungla di frattacce e salci, di canne e puncicarelli, tra gli orti e la scarpata che scendeva a
picco sull’Aniene»203). Il collegamento tra le due realtà descritte sembra sancito dai ragazzi
che giocano a calcio, inoltre è comune la mescolanza linguistica tra dialetto e lingua letteraria.
Pur con le sue peculiarità, La Mortaccia appartiene alla fase che Emanuela Patti definisce di
«realismo dantesco» in cui tramite le influenze di Contini e Gramsci prima, e di Auerbach poi,
Pasolini fa ricorso al plurilinguismo dantesco, che ha alla base la mescolanza di stile umile e
sublime, come modello di realismo e di impegno in chiave marxista 204. L’attenzione per il
plurilinguismo e per la tecnica del discorso indiretto libero ha alla base una forte dimensione
politica, legata al concetto gramsciano di rappresentazione realistica delle classi subalterne,
che implica l’interesse per l’altro da sé. In particolare in Pasolini c’è un interesse precipuo per
il sottoproletariato delle borgate, per la peculiare autenticità e per il tipo di contatto con la
realtà205. Tuttavia la pubblicazione in frammenti, secondo Gragnolati, testimonia come la fase
dei romanzi romani, e la suddetta idea di realismo, invece di rinnovarsi sotto la spinta di
questo nuovo progetto si esaurisca nella crisi che Pasolini sta vivendo nei primi anni Sessanta
e che sarà poi al centro della Divina Mimesis. Una crisi che, come sottolinea Bazzocchi, nella
prefazione al volume di Corinne Pontillo, prevede lo slittamento «dall’epoca delle grandi
illusioni ideologiche (gli anni Cinquanta) e dall’epoca in cui il movimento della storia sembra
improvvisamente fermarsi (gli anni Sessanta)»206.
In realtà, l’ipotesto dantesco non ha una funzione solamente stilistica ma è anche alla base
dell’impostazione ideologica e rappresentativa della riscrittura. Gragnolati in questo senso
sottolinea che «L’idea originaria era quella di usare l’Inferno “per dare un giudizio
storicamente oggettivo, e una diagnosi, marxisticamente esatta, della nostra società”»207. Lo
202 PIER PAOLO PASOLINI, La Mortaccia (frammenti), cit., p. 244.
203 PIER PAOLO PASOLINI, Ragazzi di vita in ID., RRI, pp. 523-769, p. 743.
204 MANUELE GRAGNOLATI, Rifare e disfare Dante. Dalla Mortaccia alla Divina Mimesis, cit., p.39.
205 MANUELE GRAGNOLATI, Rifare e disfare Dante. Dalla Mortaccia alla Divina Mimesis, cit., p.37.
206 MARCO A. BAZZOCCHI, Attraverso un diaframma luminoso in «Quaderni di arabeschi», n.VI, Luglio-
Dicembre 2015, pp. 36-39, p. 37.
207 MANUELE GRAGNOLATI, Rifare e disfare Dante. Dalla Mortaccia alla Divina Mimesis, cit., p. 37.
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stesso principio è ribadito da Andrea Dini che delinea un rapporto di duplice esegesi, da un
lato quello dei canti infernali, dall’altro il filtro narrativo come chiave interpretativa della
realtà, affermando che «il testo pasoliniano […] è anche una lettura critico-interpretativa dei
primi canti infernali, e sintomo della necessità di narrare (dantescamente) il mondo
contemporaneo»208.
Nel 1963 questo testo viene nominato in più occasioni ma con un nuovo titolo. Nell’intervista
rilasciata a Sennuccio Bennelli, in cui anticipa la presenza di Marylin Monroe in forma di
pianta di mimosa nella selva dei suicidi e di Antonio Gramsci nei panni di Virgilio, sul
«Punto», il 17 luglio 1963, illustra i vari cambiamenti che ha subito il titolo del testo: «In un
primo momento avevo pensato di intitolarlo L’infernante, poi La Mortaccia. Alla fine mi
sono deciso per L’Inferno»210.
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pubblicata sul «Giorno»: «Prima doveva essere una donna del mio mondo, la “mortaccia” che
scendeva all’Inferno e lo vedeva dal suo punto di vista. Ora sono io stesso a fare il viaggio» 211.
Questo cambio di prospettiva è testimoniato in una pagina scartata dalla Divina Mimesis
(nello scartafaccio intitolata Memorie barbariche – Frammenti infernali) in cui l’editore
immaginario ricorda il frammento datato di due o tre pagine pubblicato in una raccolta
precedente dell’autore, intitolato La Mortaccia, che definisce:
un primo embrione […] di quest’opera incompleta, con cui mancano i legamenti: infatti il carattere
stilistico e l’impianto strutturale dell’opera è completamente mutato rispetto a quel primo infelice
embrione212 .
Come abbiamo visto questo testo sfortunato ha avuto una elaborazione, prolungata nel tempo,
di circa nove anni. Ciò ha implicato lo sviluppo della tradizione del testo nella maniera che
segue: complessivamente abbiamo tre versioni. Le prime due sono dattiloscritte, di cui la
prima [nel secondo volume di Romanzi e Racconti della collana dei Meridiani dedicata a
Pasolini viene indicata dai curatori, Siti e De Laude, come versione A] è quella
linguisticamente più vicina al plurilinguismo e allo sperimentalismo dantesco individuato da
Contini e da cui Pasolini trae ispirazione nella sua peculiare concezione del realismo negli
anni Cinquanta; e sarà quella su cui ci focalizzeremo maggiormente proprio per questa sua
caratteristica. La seconda versione è più “normalizzata” ed è quella più vicina alla terza
versione, quella andata alle stampe nel 1960. Le variazioni tra la seconda versione e la terza,
quella edita, sono minime: saranno al massimo una decina e di carattere per lo più
variantistico, un paio di occorrenze riguardano i sinonimi. Le due versioni dattiloscritte sono
conservate all'Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto G.P. Vieusseux
di Firenze. Per quanto riguarda la prima versione si è deciso di riportare il manoscritto
integralmente in questa sede per due ragioni: la prima di ordine pratico, a causa di alcune
notazioni a margine scritte a mano dall'autore di difficile lettura, la seconda di ordine
211 P.P PASOLINI, Note e notizie sui testi, in ID., RRII, p. 1965. Per il testo integrale dell’intervista cfr. ALFREDO
BARBERIS, «Mi è tornata la fantasia del narratore»: Pasolini cinquant'anni fa, «Between», n. IV, 7, 2014,
http://www.Between-journal.it/
212 P.P PASOLINI, Note e notizie sui testi, cit., p. 1965.
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contenutistico in quanto sono riportate delle varianti sostanziali che permettono di ricostruire
sia il rapporto di Pasolini con il dialetto romano nel tempo, nell'ambito degli interessi
linguistici dello scrittore, che il rapporto con il modello dantesco che ci interessa in maniera
specifica. Nel primo caso, ad esempio, il passaggio da “Ehi” della prima versione ad “Aoh!”
nella seconda e nella terza testimonia una maggiore padronanza della lingua e un livello
successivo del perseguimento del realismo. Interessante come “quand'ecco” nella sua
incisività richiami l'uso dantesco in numerosi casi, il più vicino a parere di chi scrive
all'occorrenza del primo canto «Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta, / una lonza leggera e
presta molto»213 e del terzo canto «Ed ecco verso noi venir per mare»214. Ecco il testo della
versione A:
CANTO I
Sonno, mamma mia! Un sonno che se la faceva sotto pôra Teresa: capirai co quella giornata ch’aveva
passato, ne aveva fatti pochi d’impicci!
Robertino, il fijo della sora Lùcia, ch’era appena risortito dal baverino, e a sedici’anni già faceva il pappa,
se l’era caricata a San Sebastiano, verso l’una, e così l’aveva portata scavicchiata a casa, al Mandrione.
Scese tutta, coll’ossi rotti: imboccò il vicolo, che si vedevano dietro tutte le luci della ferrovia, e più dietro
quelli del Quadraro, e più dietro quelli di Cecafumo e quelli di Cinecittà: ma tutte morte, era notte e alta
e; da quando Marzano aveva conquistato Roma, a mezza notte, da quelle bande, c’era il coprifuoco. Passò
sotto l’archi, grandi come montagne con tutti i fregi e le fregne di pietra del tempo dei Papi, andò oltre il
funtanone, pure lui come un altare, e imboccò il Mandrione, per una pistaccia di fanga, incassata sotto la
muraglia dell’Acquedotto Felice, alto che non si vedeva più il cielo, da una parte, e dall’altra i prati
coperti dalla merda dei cavalli degli zingari, e di zella affumicata, perché più sotto, tra le fratte squartate ,
passava il treno.
Forse sotto la muraglia una addosso l’altra c’erano le baracche, come tanti gallinari; con le finestrine e le
porticelle di legno fràcico, e coi tetti di bandone.
Sotto, tutto lo sciroppo pasticciato dalle pedate dei clienti di quelle che battevano lì, dentro i tuguri –
miste a quelle dei ragazzini, che ci avevano giocato rognosi e ignudi durante tutto il giorno, schivando le
sciacquate delle catinelle, che le zoccole svuotavano fuori dalle porte senza manco guardare chi c’era e
chi non c’era.
La catapecchia di Teresa era una dell’ultime, quasi laggiù in fondo, poco prima dell’arco, verso i depositi
della Coca Cola. (c.2)
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(c.3) Cotta dal sonno, con una cecagna che stravedeva, prese, aprì la porticina e si buttò sul letto a sedere:
si tolse le scarpe, poi le calze zozze di polvere e sudore, capirai, con tutte quelle sgalloppate, su e giù,
avanti e indietro, per San Sebastiano e sui prati intorno, dalla Cristoforo Colombo alla Caffarella…Poi
cacciò dalla borsa le svampe coi cerini, e, insieme, la «Divina Commedia» illustrata, a fumetti, tutta
ciancicata, che s’era fatta dare da un cliente suo, uno che veniva su col camion delle melanzane da
Caserta o Lucera, quelle parti là, e ogni notte alla fontanella di San Sebastiano si fermava per bagnare le
melanzane, perché paressero più grosse e pesassero di più. Beh questo teneva in saccoccia la «Divina
Commedia», perché era uno di quei tizi che gli piace leggere e istruirsi, brutto come la fame. Siccome
Teresa era fin da ragazzina che sentiva parlare di questo libro, se l’era fatta prestare, per levarsi una
curiosità, e durante la giornata, battendo sotto un sole che levava i sentimenti, s’era letto tutto l’Inferno.
Era un libro gaiardo proprio, li mortacci sua! Alla luce di candela perché così si andava avanti dentro
quelle tane si svestì, e voltò dall’altra parte la fotografia di Peppe il Folle, il pappa suo: quello stronzo,
s’era messo la fotografia in cornice, che tanto era carino e l’aveva appoggiata sul comodino, per farsi
ammirare. Teresa non lo poteva vedere, in quella fotografia con quella faccia di biondo sciapo, bella
grossa, che pareva un poppante, e nel tempo stesso fijo de 'na mignotta e simpaticone: non lo poteva
vedere soprattutto perché, in quella fotografia, Peppe il Folle era lei sputato. Sì, si assomigliavano come
due fratelli, lo dicevano tutti: si vede proprio che Dio li fa e poi li accoppia. Ma in quella fotografia la
rassomiglianza era proprio troppa, li mortacci sua, faceva proprio schifo!
(c.4) La rigirò questa fotografia del ca…, si mise sotto le coperte, battendo i denti sotto, perché, con tutto
ch’era aprile, faceva freddo, e, con un bel sospiro, perché pure quella giornata, se Dio vuole, era passata,
s’appennicò.
Come si fu appennicata, cominciò d’acchitto a sognare: mannaggia alla Divina Commedia, aòh, e a chi
gliela aveva data, quel martufagno tubercoloso morto di fame zappatera, lui e l’anima de li mortacci sua!
Il sogno che si fece, l’incubo! A trentacinque anni ancora non c’era arrivata, che non ne aveva manco
trenta, ma era come se n’avesse sessanta: altro che mezza foja s’era magnata, ormai! E, insomma, dai a
questo e dai a quell’altro, in mezzo alla selva dei peccati ci stava, e ecchela là!
Veramente non era una selva. Era quel montarozzo che sta sulla Tiburtina, dopo il Forte, prima di
Tiburtino III, dove stava a abitare Peppe il Folle.
era un montarozzo che sotto i ragazzi ci giocano al pallone, e sulle coste e tutto pieno di puncicarelli e
fratte e, arrivati in alto, laggiù si vede l’Aniene, tra i canneti, e laggiù Pietralata, e tutt’intorno le borgate
più lontane, bianche al sole.
Ma mo’ ragazzi non ce ne stavano: era notte alta: non soffiava una sbava di vento: non c’era neanche una
luce, perché, si vede, c’era una interruzione della centrale elettrica, non una luce, né sulla Tiburtina né
oltre la borgata, là in fondo dove ci stavano di solito i fari e i riflettori. Tutto buio, morto. E neanche una
voce: neanche quei piccoli rumori che si sentono la notte: qualche cane che abbaia nei casali, o, i grilli; le
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ranocchie. Niente, niente. E il montarozzo, detto il monte del Pecoraro, lì davanti, era alto che pareva una
montagna, coi puncicarelli e le fratte che ciondolavano nella oscurità, senza un filo di vita.
“Ma do’ me trovo qua, vaffan…!” pensava Teresa, che già parlava da sola, con uno spagheggio che si
cagava sotto.
(c.5) Camminò lì nello spiazzo giallo, tutto fanga, verso la gobba del monte: e si sarebbe messa a strillare,
se non avesse avuto paura che fosse peggio.
Camminava, camminava, tutta col culo stretto, pora creatura, senza sapere dove andare, Quand’ecco che,
daje!, da dietro una gobba del monte sbucarono fuori, con la bava alla bocca, tre canacci lupi, abbaiando
da scremarsi i polmoni, secchi allampanati, con le code che sbattevano sui fianchi spelati e con la rogna.
Si gettarono contro di lei abbaiando come la volessero sbranare, e si fermarono lì a pochi metri,
guardandola e continuando a abbaiare con quelle boccacce bavose, girando intorno, nevrastenici, come
coatti, con una rabbia che pareva che qualcuno gli avesse ammazzato sotto l’occhi il padre o la madre.
Chissà. Erano forse scappati da qualche casale, alle Messi d’Oro, dietro il monte, lungo l’Aniene: o
avevano sentito qualche ladro, con quei nasacci pelosi e bagnati che sentono tutto. Adesso ce l’avevano
con Teresa: e questa se ne stette lì ferma, coi capelli dritti in testa, e il sangue che le era andato in acqua,
s’era agghiacciato, e la pungeva come si fosse trasformato in tanti spilli contro i polpastrelli delle dita e
sulla testa.
Strillare non poteva, tanta era la paura. Le usciva come un lamento dalla strozza, nemmeno quello.
Poi piano piano, facendo finta di niente, sempre coi capelli dritti, fece qualche passo verso il monte,
guardando i cani, e, come quelli pareva che ancora ancora sbranarla e divorarsela viva non ci pensassero,
sul momento, cominciò a salire: ma non ce la faceva, perché la china del monte era tutta melma, ci si
poteva sciare, e come puntava il piede per arrembarsi, questo le scivolava e le tornava giù più in basso di
prima. Stette lì un bel pezzo, a cercare di salire su per quello scivolo di fanga nera: e piangeva, piangeva,
s’insozzava tutta.
(c.6) Poi, verso sinistra, sentì una voce che la chiamava, che diceva: “Ehi!” Si voltò, con le mani a terra
contro la fanga, a pecoroni come si trovava, e guardò quella da parte. C’era un’ombra, non si capiva bene
chi era. Stava ferma, e guardava verso di lei.
Lì c’era la fermata degli autobus, il 211 che voltava giù verso il centro di Tiburtino, il 211, il 213 che
proseguivano verso Ponte Mammolo e San Basilio, e pure i pulman che andavano a Tivoli: la fermata era
sotto dei pali della luce elettrica, lungo la strada, in mezzo a uno spiazzale: dietro lo spiazzale,
cominciavano i lotti di Tiburtino, bassi e chiari, come magazzini, in fila, con la chiesetta, e, più in fondo,
dei palazzi più alti, in stile fascista. L’ombra stava proprio lì accanto alla fermata degli auti, verso il Bar
Duemila, dove di solito Peppe il Folle faceva a fugge con le motociclette, scommettendo coi compari.
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Adesso era tutto deserto: non si vedeva un’anima: pareva che fossero morti tutti, e che fossero scomparsi
da questa terra pure i cadaveri.
L’ombra s’accostò al monte, attraversando la strada, passò il ciglio del prato, e venne verso Teresa.
Come s’accostò, a questa parve di riconoscere chi era. “Sì, sì, ma io questo lo conoscio!” pensava, stando
sempre così, a pecoroni.
Era infatti un uomo non tanto alto di statura, secco, con la fronte sporgente, e un naso a becco accentuato,
con le labbra sottili che, si vede, non ridevano mai. “sì sì Lo conoscio…ma chi cazzo è?” continuava a
pensare Teresa, cominciando a sollevarsi, e mettendosi a posto i capelli col dorso della mano, che palmo
era tutta impiastricciata di melma.
Non riusciva a capire bene se era un cliente, di quelli che arrivavano con la macchina a San Sebastiano, e
non vogliono farsi conoscere, o perché sono sposati o perché sono viziosi: qualcuno sadico, magari, che
gli piace vedere il sangue, qualcuno che invece vuol fare tutta una
(c.7) una moina, con la donna che deve far finta di non conoscerlo e farsi trovare ignuda in qualche posto
della casa, e via dicendo. Oppure se si trattava invece di qualcuna di quelle persone importanti che si
conoscono andando per gli uffici a fare le carte. Oppure un dottore di San Gallicano, o magara un
commissario di polizia …
Ma come fu proprio vicino, quello là la prese per un braccio, e, aiutandola a sollevarsi, le fece: “Vieni!”,
allora la prese una tremarella e una soggezione che quasi si sturbava, perché l’aveva riconosciuto era
Dante Alighieri.
Muta come una cella, guardandolo quasi piangendo per la timidezza, gli andò dietro a macchina.
CANTO II
Dante andò dallo spiazzo del monte del Pecoraro, e, giunto sulla Tiburtina, anziché andare verso Roma,
prese a sinistra, verso l’Aniene: e cominciò a pedalare di buon passo, con Teresa dietro come un cane.
Tutt’intorno la campagna fràcica di guazza, nera. C’era una specie di chiarore, nella notte, che chissà da
dove veniva, come quando sta per spuntare la luna, o il sole non è proprio calato del tutto: ma luci accese
non ce n’erano: laggiù i lotti di Tiburtino, tutti uguali, si intravedevano appena perché erano intonacati di
bianco: e così il Silver Cine, e la piccola fabbrica di sapone costruita da poco.
Da lì al ponte sull’Aniene ci sarà almeno un chilometro di strada: Dante e Teresa la percorsero svelti,
allungando la pedivella. Ecco anche l’osteria e la fabbrica di varecchina sopra i vivai oltre il fiume, tutto
deserto, come disabilitato da almeno mill’anni.
61
Poi, presero ancora a sinistra, per via Casal dei Pazzi: la borgata di Ponte Mammolo dormiva il sonno
della morte. Neanche la lucetta della Madonnina lì all’angolo tra via Casal dei Pazzi e via Selmi, era
accesa.
Dante camminava dritto per via Casal dei Pazzi, lungo una fila di casette bianche di calce, con tende per
infissi, da una parte, e dall’altra l’avallamento dell’Aniene, tutto zeppo di broccoli e altri ortaggi, marci
d’umidità.
(c.8)
Ancora un chilometro e ecco, la borgatella di Rebibbia, accoccolata su un montarozzo, senza strade, con
al posto delle strade come dei letti asciutti di torrenti, le case bianche, a terrazza, come un villaggio
beduino.
Ecco, tra la fanga, la garitta della sentinella, e ecco, dietro la borgatella di Rebibbia, dietro una strada
militare deserta, il Carcere.
Era come un immenso scatolone, giallognolo, bucato da centinaia e centinaia di finestre tutte uguali. Si
alzava in una radura tutta piena di stoppie gialle, e pianticine di finocchio selvatico sottili e invisibili
come ragnatele, tra Ponte Mammolo e San Basilio: ma le borgate non si vedevano, inghiottite dal buio: in
quel chiarore lattiginoso appiccicato all’aria, si vedeva solo quello scatolone immenso, in tutta la pianura,
fino ai monti di Tivoli che si profilavano un po’ più scuri contro il cielo scuro, lontani, lontani.
In tutta quella pianura che non si vedeva una luce, non si sentiva un suono.
“Vieni” ripetè Dante, e andò verso il Carcere, attraverso la prateria secca e fràcica.
Man mano che s’accostavano il Carcere di Rebibbia si faceva sempre più grande, e la prateria intorno
sempre più sconfinata. Arrivarono davanti a una porta, piccola, in tutta quella parete gialla e nuda, dove
c’era scritto: ”Carcere penitenziario ecc ecc ecc”.
Teresa si fermò, e lesse e rilesse quelle parole: e la prese uno spavento tale che cominciò a tremare tutta,
poi le vennero le convulsioni, e si buttò per terra, strappandosi le vesti, piangendo come una pazza, perché
sentiva come nel cuore che non sarebbe mai più riuscita da quella prigione.
Mettiamo ora a disposizione il testo nella sua versione edita 215 in modo tale da poter istituire
un confronto:
CANTO I
Il sonno! Mamma mia! Un sonno che proprio se la stava a fà sotto, pora Teresa: capirai, co' quella
giornata ch'aveva passato, n'aveva fatti pochi d'impicci!
215 PIER PAOLO PASOLINI, La Mortaccia (frammenti), in ID., Alì dagli occhi azzurri, RR II, pp. 591-596.
62
Robertino, il fijo de la sora Lùcia, ch'era appena risortito dal baverino, e a sedic'anni già faceva il pappa,
se l'era caricata a San Sebastiano, verso l'una, e così l'aveva portata al Mandrione, a casa sua.
Scese tutta sonno, coll'ossa rotte: imboccò il vicolo, che ci si vedevano dietro tutte le lucette della
ferrovia, e più dietro quelle del Quadraro, e più dietro quelle di Cecafumo, e più dietro quelle di Cinecittà:
ma tutte sbattute, perse, perché era notte alta e, da quando Marzano aveva preso Roma, a mezza notte, da
quelle bande, c'era il coprifuoco.
Passò sotto l'archi, con tutti i fregi e le fregne di pietra del tempo dei Papi, andò oltre il funtanone,
addossato a quell'archi come un altare, e imboccò il Mandrione, per una pista di fanga, incassata sotto la
muraglia dell'Acquedotto Felice, alto che non si vedeva il cielo, da una parte, e dall'altra i prati coperti
dallo sterco dei cavalli degli zingari, e della loro zella, affumicata, perché più sotto, tra le fratte sventrate,
passava il treno.
Sotto la muraglia, una addosso all'altra, c'erano le baracche, come tanti gallinari, con le finestrine e le
porticelle di legno fràcico, e i tetti di bandone.
Sotto, tutto lo sciroppo pasticciato dalle pedate dei clienti di quelle che battevano lì, dentro i tuguri -
insieme a quelle piccolette dei ragazzini, che ci avevano giocato rognosi e ignudi durante il giorno,
schivando le sciacquate delle catinelle, che le zoccole svuotavano fuori dalle porte senza manco guardare
chi c'era e chi non c'era.
La catapecchia di Teresa era una dell'ultime, quasi laggiù in fondo, poco prima dell'arco, verso i depositi
della Coca Cola.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Era quel montarozzo che sta sulla Tiburtina, dopo il Forte, prima di Tiburtino III, dove stava a abitare
Peppe il Folle. Era un montarozzo che sotto i ragazzi ci giocano al pallone, e sulle coste è tutto pieno di
puncicarelli e fratte, e, arrivati in pizzo, laggiù si vede l'Aniene, tra i canneti, e dall'altra parte Pietralata, e
tutt'intorno le borgate più lontane, bianche come spuma al sole.
Ma mo, ragazzi non ce ne stavano: era notte alta: non soffiava un fiato di vento: non c'era neanche una
luce, si vede c'era una interruzione alla centrale elettrica, non una luce, né sulla Tiburtina, né dietro la
borgata, là in fondo dove ci stavano di solito i fari e i riflettori. Tutto scuro, morto. E neanche una voce:
neanche quei piccoli rumori che si sentono la notte: qualche cane che abbaia pei casali, o i grilli, le
ranocchie. Niente, niente. E il montarozzo, detto il monte del Pecoraro, lì davanti, era alto che pareva una
montagna, coi puncicarelli e le fratte che ciondolavano nell'oscurità, senza un filo di vita.
«Ma indò me trovo, qua, vaff...!» pensava Teresa, che già parlava da sola, con uno spagheggio che
tremava. Camminò un po' lì nello spiazzo giallo, verso la gobba del monte: e si sarebbe messa a strillare,
se non avesse avuto paura che fosse peggio.
63
Camminava camminava, tutta col culo stretto, pora creatura, senza sapere dove andare, quand'ecco che,
daje! da dietro una gobba del monte si pararono, colla bava alla bocca, tre canacci lupi, abbaiando da
torcersi i polmoni, secchi allampanati, con le code dritte sulle cosce spelate e piene di rogna.
S'affiondarono contro di lei abbaiando come se la volessero sbranare, si fermarono lì a pochi metri,
guardandola e continuando a cioccare con quelle boccacce schifose, girando intorno intorno come coatti.
Chissà, erano forse scappati da qualche casale, alle Messi d'Oro, dietro il monte, lungo l'Aniene: o
avevano sentito qualche ladro morto di fame. Adesso ce l'avevano con Teresa: e questa se ne stette lì
ferma; coi capelli dritti in testa, e il sangue che gli s'era gelato. Strillare non poteva, tanta era la paura. Le
usciva come una lagna dalla strozza, nemmeno quella.
Poi piano piano, facendo finta di niente, sempre coi capelli dritti, fece qualche passo verso il monte,
guardando i cani, e, come quelli pareva che ancora sbranarla e divorarsela viva non ci pensassero, per il
momento, cominciò a salire: ma non ce la faceva, perché la scesa del monte era tutta una melma, ci si
poteva sciare, e come puntava il piede per arrembarsi, questo le scivolava e le tornava giù più in basso di
prima. Stette lì un bel pezzo, a cercare di salire su per quello scivolo di fanga nera: e piangeva, piangeva,
s'insozzava tutta.
Poi, verso sinistra, sentì una voce che la chiamava, che diceva: «Aòh.» Si voltò, con le mani a terra contro
la fanga, a pecoroni come si trovava, e guardò da quella parte. C'era un'ombra, un'ombra che non si capiva
bene chi era. Stava ferma, e guardava verso di lei.
Lì c'era la fermata degli autobus, il 109 che voltava giù verso il centro di Tiburtino, il 211, il 213 che
seguitavano verso Ponte Mammolo e San Basilio, e pure i pulman che andavano a Tivoli: la fermata era
sotto dei pali della luce elettrica, lungo la strada, in mezzo a uno spiazzale: dietro lo spiazzale
cominciavano i lotti di Tiburtino, bassi e chiari, come magazzini, in fila con la chiesetta, e più in fondo,
dei palazzi più alti di stile fascista. L'ombra stava proprio lì accanto alla fermata degli auti, contro il Bar
Duemila, dove di solito Peppe il Folle faceva a fugge con le motociclette, scommettendo coi compari.
Adesso era tutto deserto: non si vedeva un'anima: pareva che fossero tutti morti, e che fossero scomparsi
da questa terra pure i cadaveri.
L'ombra s'accostò al monte, attraversando la strada, passò il ciglio del prato, e venne verso Teresa.
Come s'accostò, a Teresa le parve di riconoscere chi era. «Sì, sì, ma io a questo lo conosco!» pensava,
stando sempre così, a pecoroni.
Era infatti un uomo non tanto alto di statura, secco, con la fronte sporgente, un naso a becco, e le labbra
strette, che, si capiva, non ridevano mai. «Sì, sì, lo conosco... ma chi è?» continuava a pensare Teresa,
cominciando a sollevarsi, e accroccandosi i capelli col dorso della mano, chè il palmo era tutto
impiastricciato di melma.
64
Non riusciva a svagare s'era un cliente, di quelli che arrivano con la macchina, a San Sebastiano, e non
vogliono farsi conoscere, o perché sono sposati, o perché sono viziosi: qualcuno sadico, magari, che gli
piace vedere il sangue, qualcuno che invece vuol fare tutta una messinscena, con la donna, che deve far
finta di non conoscerlo e farsi trovare ignuda col di dietro di fuori in qualche posto della casa, e via
dicendo. Oppure se si trattava invece di qualcuna di quelle persone importanti che s'incontrano andando
per gli uffici a fare le carte. Oppure un dottore di San Gallicano, o magara... un commissario di polizia!
Ma come fu vicino, quello là la prese per un braccio, e, aiutandola a sollevarsi, le fece: «Vieni!», allora a
Teresa venne una tremarella e una soggezione che quasi si sturbava, perché l'aveva riconosciuto.
Muta come una cella, guardandolo quasi piangendo per la timidezza, gli andò appresso.
CANTO II
Dante Alighieri zitto, ma come chi ha tante cose da dire, risortì dallo spiazzo del Monte del Pecoraro, con
Teresa alle tacche, e, giunto sulla Tiburtina, anziché andare verso Roma, prese a sinistra, verso l'Aniene: e
cominciò a pedalare di buon passo, sempre con Teresa dietro come un cane.
Tutt'intorno la campagna fràcica di guazza, nera. C'era una specie di chiaro, nella notte, che chissà da
dove veniva, come quando sta per spuntare la luna, o il sole non è proprio calato del tutto: ma luci accese
non ce n'erano: laggiù i lotti di Tiburtino, tutti uguali, si scandagliavano appena perché erano intonacati di
bianco: e così il Silver Cine, e la fabbrichetta di sapone costruita da poco.
Da li al ponte sull'Aniene c'era almeno un chilometro di strada: Dante e Teresa la percorsero lesti lesti,
allungando la pedivella. Ecco, anche l'osteria del ponte e la fabbrica di varecchina sopra i vivai sul fiume:
tutto deserto, come disabitato da almeno mille anni.
Poi presero ancora a sinistra, per via Casal dei Pazzi: la borgata di Ponte Mammolo dormiva il sonno
della morte. Neanche la lucetta della Madonnina lì all'angolo di Via Casal dei Pazzi e via Selmi, era
accesa.
Dante camminava dritto per via Casal dei Pazzi, lungo una fila di casette bianche di calce, con tende per
infissi, da una parte, e dall'altra l'avvallamento dell'Aniene, tutto zeppo d'ortaggi, marci d'umido. Ancora
un chilometro, e ecco la borgatella di Rebibbia, appizzata s'un montarozzo, senza strade, con al posto
delle strade come dei letti di torrenti, le case bianche, a terrazza, come un villaggio beduino.
Ecco, tra la fanga, la garitta delle sentinelle, e ecco, dietro la borgatella di Rebibbia, dietro la strada
militare deserta, il Carcere.
Era come uno scatolone, grande grande, grande come tutto il cielo, giallo, bucato da miliara di finestre
tutte uguali. Si alzava in una radura di stoppie gialle, e di pianticine di finocchio selvatico sottili e
invisibili come ragnatele, tra Ponte Mammolo e San Basilio: ma le borgate non si vedevano, inghiottite
dall'oscurità: in quel chiarore spugnoso appiccicato all'aria umida, si vedeva solo quello scatolone, in tutta
la pianura, fino ai monti di Tivoli, ch'erano là, un po' più scuri contro il cielo scuro, lontani, lontani.
In tutta quella pianura non si vedeva una luce, non si sentiva una voce.
65
«Vieni,» rifece Dante, e andò verso il Carcere, attraverso la prateria secca, fràcica.
Arrivarono davanti a una porta, piccola, in tutta quella parete gialla e nuda, dove stava scritto: «Carcere
Penitenziario». Teresa si fermò, leggendo e rileggendo quelle parole: e subito la prese il mammatrone,
tanto che cominciò a tremare tutta, a non tenersi più, finché le vennero le convulsioni, e si buttò per terra,
strappandosi le vesti, piangendo come una ragazzina, perché sentiva come nel cuore che, da quella
prigione, non sarebbe risortita mai più.
La parte espunta dall'originale dattiloscritto nel passaggio alla stampa include riferimenti espliciti alla
Commedia e a Dante, che svelano l'origine dell'incubo (propriamente detto) di Teresa, la quale, tornata a
casa, nell'approntarsi al talamo e al sonno ristoratore caccia dalla borsa “La Divina Commedia' illustrata,
a fumetti, tutta ciancicata, che s'era fatta dare da un cliente suo [...] Siccome Teresa era fin da ragazzina
che sentiva parlare di questo libro, se l'era fatto prestare, per levarsi una curiosità, e durante la giornata,
battendo sotto un sole che levava i sentimenti, s'era letto tutto l'Inferno. Era un libro gaiardo proprio, mica
so lo credeva, li mortacci sua! (e. 3) cassata di A si diffonde fra l’altro, nel discorso indiretto libero della
prostituta, sull’incontro con La Divina Commedia a fumetti.”216
Una differenza evidente sta nella cesura grafica della pagina, tra Teresa che torna a casa e
l'immagine del monte e dello smarrimento corrispondente, nei fatti, a un lungo brano cassato
dal dattiloscritto originale. Nella sezione Note e notizie sui testi del Meridiano, che raccoglie i
romanzi e i racconti pasoliniani, i due editori rendono conto della cesura grafica che separa i
due frammenti del primo canto:
La fila di puntini in Alì a p. 592 corrisponde ad una pagina cassata in A [prima redazione del testo] e
quella a p.596 ad appunti scarabocchiati in fretta in coda al dattiloscritto, che si arresta nel punto in cui si
arresta il secondo frammento di Alì 217.
Questa carta espunta riporta una parte fondamentale, quella in cui viene esplicitata la
dimensione onirica del viaggio di Teresa:
Cotta dal sonno, con una cecagna che stravedeva, prese, aprì la porticina e si buttò sul letto a sedere: si
tolse le scarpe, poi le calze zozze di polvere e sudore, capirai, con tutte quelle sgalloppate, su e giù, avanti
66
e indietro, per San Sebastiano e sui prati intorno, dalla Cristoforo Colombo alla Caffarella…Poi cacciò
dalla borsa le svampe coi cerini, e, insieme, la «Divina Commedia» illustrata, a fumetti, tutta ciancicata,
che s’era fatta dare da un cliente suo, uno che veniva su col camion delle melanzane da Caserta o Lucera,
quelle parti là, e ogni notte alla fontanella di San Sebastiano si fermava per bagnare le melanzane, perché
paressero più grosse e pesassero di più. Beh questo teneva in saccoccia la «Divina Commedia», perché
era uno di quei tizi che gli piace leggere e istruirsi, brutto come la fame. Siccome Teresa era fin da
ragazzina che sentiva parlare di questo libro, se l’era fatta prestare, per levarsi una curiosità, e durante la
giornata, battendo sotto un sole che levava i sentimenti, s’era letto tutto l’Inferno. Era un libro gaiardo
proprio, li mortacci sua!218
Un altro aspetto presente nel dattiloscritto della versione A nella pagina espunta è un esplicito
richiamo alla Commedia e in particolare al celeberrimo verso incipitario del poema: «Nel
mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura»219, sempre reso in una
forma prosastica e gergale. È interessante notare come a penna blu fosse stato annotato al lato
di questo paragrafo dall’autore “all’inizio”. Pasolini perciò aveva immaginato un incipit della
sua riscrittura che ricalcasse fedelmente quello del poema dantesco, ma che costituisse uno
scioglimento del suo senso letterale demetaforizzato. Nel testo pasoliniano troviamo la
citazione con la glossa incorporata nel testo:
A trentacinque anni ancora non c’era arrivata, che non ne aveva manco trenta, ma era come se n’avesse
sessanta: altro che mezza foja s’era magnata, ormai! E, insomma, dai a questo e dai a quell’altro, in
mezzo alla selva dei peccati ci stava, e ecchela là! (c.4)220
Come osserva Dini nel passaggio dalla prima versione dattiloscritta ( quella che Siti e De
Laude identificano con A) alla versione a stampa «i riferimenti diretti al testo dantesco
spariscono, non più in 'citazione', ma mediati dalla narrazione»221. Nel mezzo abbiamo una
seconda versione dattiloscritta, che Siti e De Laude denominano come versione B, che
presenta pochissime varianti rispetto al testo a stampa. Facendo un confronto tra l’edizione a
stampa e la seconda versione dattiloscritta (conservata in Fondo Pasolini ACGV, Cartella Alì
dagli occhi azzurri segnatura PPP II 1.58 fascicolo 3) risultano esserci per lo più variazioni sul
piano lessicale o meramente grafiche:
218 PIER PAOLO PASOLINI, Note e notizie sui testi, cit., p. 1966.
219 Inf. I, 1.
220 Cartella Alì dagli occhi azzurri, inserto 5 Segnatura: IT ACGV PPP II.1.58.
221 ANDREA DINI, Una Commedia di borgata, cit, p. 151.
67
• e laggiù Pietralata (c.19) = e dall’altra parte Pietralata
• mo’ (c.19) = mo
• Dante Alighieri risortì dallo spiazzo (c.21) = Dante Alighieri zitto, ma come chi ha tante cose da dire
risortì
Nonostante questo testo sia spesso relegato a un ruolo minore o pressoché ignorato dalla
critica, secondo Andrea Dini, il primo ed unico studioso a cimentarsi nell’analisi completa di
questo testo: «La mortaccia resta invece la prova del nove più cospicua per capire la forza
attrattiva del modello originario e i suoi modi d'impiego»222. Quanto Pasolini avesse investito
in questo progetto è testimoniato «dalla costanza con la quale si dedicava, nei primi anni
Sessanta, alla rielaborazione del materiale e dei cartoni preparatori della sua inaudita rilettura
dantesca, prevedendo di ultimarla in poche stagioni»223.
In particolare la definizione che lo studioso attribuisce a questo testo è «esempio precoce di
lettura e fiction reinterpretativa del testo dantesco»224. Secondo Maria Sabrina Titone La
Mortaccia costituisce «un esercizio incompiuto degli anni ’50 cui Pasolini dedicò tutta la sua
lucidità di conoscitore della Commedia. I frammenti di un romanzo mai divenuto tale […] si
222 ANDREA DINI, Una Commedia di borgata. Pasolini, Dante e “La Mortaccia”, cit, p. 144.
223 MARIA SABRINA TITONE, Dannata, dolente catabasi: L’Inferno di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 83.
224 ANDREA DINI, Una Commedia di borgata. Pasolini, Dante e “La Mortaccia”, cit., p.144.
68
ispirano al modello dantesco, alla complessa struttura della Commedia, sottratta, in questo
esperimento, alla contingenza del dato ed elevata a paradigma di riferimento»225.
Il progetto iniziale era quello di «un grande affresco stilistico e sociale sul modello
dantesco»226, di cui La Mortaccia costituisce quello che lo stesso autore ebbe a dire un
“infelice embrione”. Pasolini basandosi sul modello dantesco voleva realizzare: «la commedia
umana degli anni Cinquanta, una cronaca vitale che sfuggisse al determinismo dei confini di
classe, distendendosi lungo una galleria di esistenze, un repertorio di anime onnicomprensivo,
allegoria dell’umanità intera»227.
225 MARIA SABRINA TITONE, Dannata, dolente catabasi: L’Inferno di Pier Paolo Pasolini, cit., pp. 82-83.
226 MANUELE GRAGNOLATI, Rifare e disfare Dante. Dalla Mortaccia alla Divina Mimesis, i n ID., Amor che
move: linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante,Pasolini e Morante, Milano, Il saggiatore, 2013,
p.39.
227 MARIA SABRINA TITONE, Dannata, dolente catabasi: L’Inferno di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 85.
228 ANDREA DINI, Una Commedia di borgata. Pasolini, Dante e “La Mortaccia”, cit., p. 145.
229 ANDREA DINI, Una Commedia di borgata. Pasolini, Dante e “La Mortaccia”, cit., p. 145.
230 BEATRICE LARGHEZZA, Visioni e viaggi oltremondani in Pasolini: in La Mortaccia, La Divina Mimesis,
Petrolio, in Testo e commento. Prima giornata di studi della Scuola di dottorato Letterature e Filologie
Moderne, a cura di Maria Cristina Cabani, Giulia Poggi, Ghezzano (Pisa), Felici, 2008, pp. 67-83, p. 70.
231 GIANLUIGI SIMONETTI, Da un Dante all’altro. Pasolini e la Divina Mimesis, cit., p. 46.
69
Teresa è connotata con degli elementi tipici dei primi due canti, sebbene questi siano stati
trasfigurati nell'operazione di riscrittura (il montarozzo, i tre cani, l'incontro con Dante). È
opportuno sottolineare che l'ambientazione dei primi due canti è collocata nel mondo terreno,
sebbene questo sia caricato di elementi dal significato allegorico, non è propriamente l'inferno
in quanto l'ingresso nel regno oltremondano avverrà per l'appunto in seguito. Questi elementi
allegorici stanno ad indicare in chiave figurale la vita terrena, nella sua dimensione viziosa e
virtuosa. Per questo motivo la corrispondenza tra il primo dei regni oltremondani e
l'anbientazione della borgata romana non sussiste, ma è da sottolineare come la
rappresentazione della vita terrena sia declinata da Pasolini nella medesima chiave.
Su questo punto ribadisce il concetto Maria Sabrina Titone, utilizzando una metafora
coloristica: «La tavolozza dell’Alighieri aveva dunque mostrato a Pasolini le sue tinte più
lugubri cui ricorrere con umiltà per istoriare le borgate romane con le gradazioni del più
basso, torbido Inferno»232.
Ne consegue che «I luoghi e le allegorie dantesche rinviano però ad un’ambientazione
inconfondibilmente romana e prosaica, […] al posto della Città di Dite o del “cieco / carcere”
(Inferno, X,58-59) c’è il vero carcere di Rebibbia, al posto della selva c’è la borgata del
Mandrione, il colle è il Monte del Pecoraro»233.
L'allegoria delle immagini della Commedia rifluisce dunque vitale nei groppi di carne del testo
pasoliniano, portata a nuova vita: mutata nella storia di Teresa, si mescola con il significato letterale dei
riferimenti danteschi stessi, in una scrittura generosamente temperata in bilico tra fiction e esegesi,
scivolante verso la parodia in presenza di un testo noto, di riferimento, ma riversata in una narrazione che
vale di per sé, ha un significato 'letterale', vero234.
Quando Pasolini parla del “montarozzo” ha in mente un luogo ben preciso, come riporta in
uno dei suoi dialoghi con i lettori:
232 MARIA SABRINA TITONE, Dannata, dolente catabasi: L’Inferno di Pier Paolo Pasolini, cit., p. 80.
233 GIANLUIGI SIMONETTI, Da un Dante all’altro. Pasolini e la Divina Mimesis, cit., p. 46.
234 ANDREA DINI, Una Commedia di borgata, cit., p. 146.
70
C’è un punto della Tiburtina, all’altezza di Pietralata, e poco prima di Tiburtino III e Ponte Mammolo
(dove allora abitavo) che si chiama il “Forte”. Vi si vedono una caserma, un bar, una fabbrica, un
deposito di pullman, delle baracche, e, dietro, un’altura, un montarozzo spelacchiato e infernale, il
«Monte del Pecoraro» (che ho tante volte descritto nei miei libri, e che ridescriverò nel primo Canto del
mio nuovo romanzo, un Inferno, appunto, che si chiama La Mortaccia)235.
71
Come si fu appennicata, cominciò d'acchito a sognare: mannaggia alla Divina Commedia, aòh, e a chi
gliela aveva data, quel martufagno tubercoloso morto di fame zappaterra, lui e l'anima de li mortacci sua!
Il sogno che fece, l'incubo! A trentacinqu'anni ancora non c'era arrivata, che non ne aveva manco trenta,
ma era come se n'avesse sessanta: altro che mezza foja s'era magnata, ormai! E, insomma, dai questo dai
quell'altro, in mezzo alla selva dei peccati ci stava, e ecchela là! Veramente non era nella selva: era quel
montarozzo. (c. 4) 241.
Se il viaggio dantesco è visione, è sogno, un ‘itinerarium mentis in Deum’, Pasolini accentua proprio il
ruolo del sonno (letterale) col proposito di riflettere una dimensione onirica. Dimensione nella quale ogni
tipo d’incontro è lecito e permesso, ogni tipo di sintassi logica deve re-inventare le proprie coordinate, e
le immagini arrivano alla superficie portando le stigmate di timori e paure (il carcere per Teresa, spada di
Damocle presente nella vita di una prostituta post-Merlin)243.
È interessante notare come Pasolini, forse più o meno consciamente, nella prima stesura si rifà
alla tradizione delle visioni medievali in cui si parlava di monaci che, ispirati dalla lettura dei
Dialoghi di Gregorio Magno, una volta addormentati avessero delle visioni sull'aldilà244.
241 ANDREA DINI, Una Commedia di borgata. Pasolini, Dante e “La Mortaccia”, cit, p.151.
242 ANDREA DINI, Una Commedia di borgata. Pasolini, Dante e “La Mortaccia”, cit, p.152.
243 ANDREA DINI, Una Commedia di borgata. Pasolini, Dante e “La Mortaccia”, cit, p.150.
244 MARIA PIA CICCARESE, Visioni dell'aldilà in Occidente: fonti, modelli, testi, Firenze, Nardini-Centro
Internazionale del Libro, 1987.
72
Il timore che prende il cuore del pellegrino, una volta giunto al colle, («quella valle / che
m’avea di paura il cor compunto»245) viene traslato da Pasolini totalmente sul piano fisico
nella sua protagonista dopo l’incontro con i tre cani: «se ne stette lì ferma, coi capelli dritti in
testa, e il sangue che gli s’era gelato»246. Vediamo poi un vero e proprio calco dantesco a
livello sintattico con «tanta era la paura»247, con esplicito richiamo a versi quali «tant’è
amara»248 e «tant’era pien di sonno»249.
Il tremolio di paura riferito all’esperienza dell’incontro con le fiere sul colle in Dante («fa
tremar le vene e i polsi»250) viene riproposto anche da Pasolini per Teresa, nel disorientamento
della borgata durante la notte, nell’espressione «con uno spagheggio che tremava»251.
Nota giustamente Cristina Montilli nel periodo «le usciva una lagna dalla strozza»252, che con
un lessico così basso e popolareggiante, quasi onomatopeico, è più vicino alle modalità
espressive delle anime e non a quelle del pellegrino. Il termine strozza in realtà è
propriamente dantesco e accostato al termine strozza, basso e popolareggiante, attua un
pastiche linguistico accostabile a quello del modello gaddiano da lui adottato negli anni
cinquanta. Si noti inoltre come nella prima versione si faccia ricorso al termine lamento,
sostituito nella seconda versione dattiloscritta con lagna, più aderente al registro basso. Il
termine “strozza” nello specifico viene raggruppato da Dini253 insieme a tutta una serie di
parole quali “cioccare” “daje” “pora creatura”, che connotano in senso realistico-mimetico,
tramite il libero indiretto, la narrazione. Tuttavia il termine strozza si può considerare un
termine basso ma è parte comunque di un registro letterario; difatti fa parte del lessico
dantesco254. Questa ricostruzione è perfettamente aderente al finale della riscrittura
pasoliniana in quanto, a differenza di Dante personaggio che raggiungerà la salvezza, Teresa
sembra destinata all’eterna dannazione perciò è da considerarsi più propriamente una dannata
e non una pellegrina in viaggio verso la salvezza eterna.
73
La discesa dal colle di Dante («Mentre ch’i’ rovinava in basso loco») 255 viene resa con la
stessa tecnica di forma prosastica da Pasolini per la sua Teresa: «e come puntava il piede per
arrembarsi, questo le scivolava e le tornava giù più in basso di prima» 256. Vediamo però
esplicitato nella prima versione del testo un altro riferimento dantesco con Inf. I, 30257.
Teresa è sperduta nel buio e nel silenzio della borgata durante la notte e le giunge incontro
una figura nella notte che si rivela essere Dante Alighieri in persona. Egli si porrà nei
confronti di Teresa come una sorta di guida ma al negativo, in quanto condurrà la prostituta
all'ingresso del carcere di Rebibbia condannandola all'eterna dannazione.
Per quanto riguarda la figura di Dante, Beatrice Larghezza e Andrea Dini elaborano due
differenti interpretazioni. La Larghezza sostiene che viene ribadita l’auctoritas della guida
sulla scia del modello. Infatti il personaggio viene individuato come un cliente
particolarmente vizioso rispetto ad altri («qualcuno sadico, magari, che gli piace vedere il
sangue»258) oppure una figura con una particolare autorità («un dottore […] magara…un
commissario»259). D’altro canto Dini ribadisce la linea dello svilimento satirico anche in
questo contesto:
Quel Dante moralmente intransigente e descrittore di pene e contrappassi, diventa un ipotetico cliente
vizioso, sadico, a cui piace il sangue. La commedia dell'incontro preserva in filigrana il sospettato
riconoscimento (dall'originale dantesco) di una persona importante, il cliente laureato, 'dottore o più
modernamente 'commissario', comunque un'auctoritas, resa di nuovo elemento parodico peri lo
spostamento dei campi semantici260.
74
figliuol d’Anchise che venne di Troia
Mentre la guida nella riscrittura pasoliniana viene delineata solo nella descrizione fisica:
«Era infatti un uomo non tanto alto di statura, secco, con la fronte sporgente, un naso a becco,
e le labbra strette, che, si capiva, non ridevano mai»262.
L'immediatezza del riconoscimento è tale da far esclamare a Teresa «Sì sì, ma io a questo lo
conosco!»264. Questo riconoscimento immediato, che non si avrà nel caso di Dante
personaggio con Virgilio, a Teresa «venne una tremarella e una soggezione che quasi si
sturbava, perché l’aveva riconosciuto»265. Questo timore reverenziale si manifesta in Dante
personaggio con una «vergognosa fronte»266.
È interessante notare come solo in un’occasione ci si sia soffermati sul dettaglio delle fiere,
nonostante il fatto che siano uno degli aspetti più memorabili del canto proemiale del poema
dantesco. Infatti, se nell’ipotesto abbiamo tre bestie infernali a ostacolare il cammino del
pellegrino, rispettivamente la lonza a simboleggiare la lussuria, il leone la superbia e la lupa
l’avarizia, Patrick Rumble è l’unico a rimarcare questo aspetto del racconto che «Dante
guides Teresa past the allegorical beasts (stray dogs in this version)» 267. Se da un lato Beatrice
75
Larghezza e Andrea Dini insistono entrambi su una perdita dell’esotismo delle tre fiere a
fronte di una resa quotidiana e in parte banalizzante di tre cani comunissimi in un quartiere
periferico, Cristina Montilli disseziona questo particolare aspetto mettendo in luce lo
svilimento iperrealistico attuato da Pasolini:
Pasolini ha costruito su questa scena uno spessore dato dalla sovrapposizione di due schemi simbolico-
letterari, più una reazione umana realistica. Due lastre di vetro poste davanti a una paura del tutto naturale
e istintiva. La prima lastra è letteraria, perché ogni lettore vi riconosce l’incontro di Dante con le tre fiere.
La seconda è altamente simbolica, perché Dante, personaggio della Commedia, sa che le tre fiere
simboleggiano altrettanti vizi umani. La realtà alla quale, invece, si arriva dopo aver attraversato questi
due filtri, e quindi tanto più preziosa quanto più nascosta dietro diverse coperture letterarie, è quella di
Teresa, che rimane assolutamente priva di qualsiasi strumento intellettuale, razionale e simbolico davanti
ai tre cani. Teresa è ancor più realisticamente disperata di Dante, il quale sa che nel suo viaggio ogni
incontro è funzionale, non solo alla propria salvezza, ma anche (e soprattutto) alla propria glorificazione
poetica 268.
Ne La Divina Mimesis notiamo uno slittamento di piani ben presentato nel componimento in
terzine incatenate intitolato Progetto di opere future (1964), pubblicato nella raccolta Poesia
in forma di rosa nello stesso anno, in cui contrappone un “Inferno arcaico” (quello di Dante e
delle borgate) a un “Inferno dell’età neocapitalistica”.
Lo stesso Pasolini, in un’intervista radiofonica del 1965 pubblicata per la prima volta nel
volume del Meridiano Saggi sulla letteratura e sull’arte, dichiara riguardo a Dante: «egli se
mai ha prefigurato qualche momento ideale dell’evoluzione democratica delle borghesie
europee»269 senza passare per umanesimo e controriforma. Di fatto Pasolini si serve del
modello dantesco per rappresentare, sia nei racconti che nei romanzi romani, un momento
specifico dell’evoluzione della borghesia negli anni ’60, con la conseguente scomparsa del
sottoproletariato urbano delle borgate romane.
Nel celeberrimo contributo La volontà di Dante a essere poeta, sulla base della definizione
continiana di plurilinguismo dantesco, Pasolini individua in Dante:
76
una “coscienza sociale”, senza la quale l’allargamento plurilinguistico non sarebbe stato che meramente
numerico, oppure meramente espressivo […] Invece no: il punto di vista era doppio e contraddittorio: al
punto di vista dall’alto, corrispondeva un punto di osservazione dal basso 270.
È strettissimo il rapporto tra plurilinguismo e coscienza sociale, che viene ribadito da Pasolini
stesso:
Nell’atto stesso in cui è nata in Dante la volontà a usare per la Commedia la lingua della borghesia
comunale fiorentina, è nata anche la volontà di capire i vari sub linguaggi da cui essa è formata: gerghi,
linguaggi specialistici, particolarismi di élite, apporti e citazioni di lingue estere[…] L’ allargamento
linguistico di Dante […] non è solo un allargamento dell’orizzonte lessicale e espressivo: ma anche
sociale271.
Vediamo un cambiamento radicale di prospettiva sul realismo e sul magistero dantesco negli
anni ’60 con il conseguente abbandono di questo progetto e al passaggio alla Divina Mimesis.
Questo mutamento è ben illustrato da Gianluigi Simonetti:
Nel passaggio dalla Mortaccia alla Divina Mimesis il rapporto con Dante resta dunque centrale, ma il
senso dell’operazione cambia profondamente. Per l’autore La Mortaccia incarnava un dantismo
anacronistico, mentre il nuovo rinvio all’Inferno assume connotazioni autoreferenziali, più criptiche e
critiche, ma anche più personali: il “vecchio Pasolini macro / di sé, dato, degradato” diventa il vero
soggetto e oggetto della nuova riscrittura: l’Inferno plurilinguista e convenzionalmente comico-realistico
diventa autobiografico e sperimentale, non solo satirico e parodico ma anche ricco di spunti visionari e
tragici272
La prostituta Teresa ha perduto l’orientamento tra le baracche della borgata a causa della
stanchezza e di un guasto elettrico. Dini273 mette in luce come c’è uno spostamento di piani:
dal disorientamento di tipo morale di Dante personaggio a quello meramente terreno della
protagonista pasoliniana.
Vediamo come Pasolini enfatizzi molto il fatto che Teresa segua Dante, in ben due periodi
consecutivi «Dante Alighieri […] risortì dallo spiazzo del Monte del Pecoraro, con Teresa alle
tacche»274, «E cominciò a pedalare di buon passo, sempre con Teresa dietro come un cane»275,
forme di resa prosaica del verso finale del primo canto «Allor si mosse, e io li tenni dietro»276.
270 PIER PAOLO PASOLINI, La volontà di Dante a esser poeta in ID., SLA I, pp. 1376-1391, p.
271 PIER PAOLO PASOLINI, La volontà di Dante a esser poeta in ID., SLA I, p. 1376.
272 GIANLUIGI SIMONETTI; Da un Dante all’altro. Pasolini e la Divina Mimesis, cit., pp. 50-51.
273 ANDREA DINI, Una Commedia di borgata, cit., p.145.
274 PIER PAOLO PASOLINI, La Mortaccia (frammenti), cit., p. 595.
275 PIER PAOLO PASOLINI, La Mortaccia (frammenti), cit., p. 595.
276 Inf. I, 136.
77
In più luoghi del testo viene ribadito come Teresa, prima da sola e poi sotto la guida di Dante
giri a sinistra («Poi, verso sinistra»277, «anziché andare verso Roma, prese a sinistra, verso
l’Aniene»278, «Poi presero ancora a sinistra»279), elemento che ha diverse occorrenze nel
poema dantesco, sia in riferimento al pellegrino e alla guida sia ai dannati che incontrano i
due protagonisti durante il viaggio oltremondano [«dissi: "Maestro mio, or mi dimostra / che
gente è questa, e se tutti fuor cherci/ questi chercuti a la sinistra nostra".» 280 ; «Dal volto
rimovea quell'aere grasso,/ menando la sinistra innanzi spesso;» 281 ; «Appresso mosse a man
sinistra il piede»282 ; «Ed ecco due da la sinistra costa»283 ; «Ed elli a me: "Tu sai che 'l loco è
tondo; / e tutto che tu sie venuto molto, / pur a sinistra, giù calando al fondo»284 ; «In questo
luogo, de la schiena scossi / di Gerïon, trovammoci; e 'l poeta / tenne a sinistra, e io dietro mi
mossi.»285 ; «Noi discendemmo in su l'ultima riva / del lungo scoglio, pur da man sinistra; / e
allor fu la mia vista più viva»286 ; «Facemmo adunque più lungo vïaggio, / vòlti a sinistra» 287].
A differenza di Dante personaggio, che al termine del suo viaggio raggiungerà la redenzione e
la salvezza eterna, Teresa è destinata alla reclusione nel Carcere di Rebibbia, a livello di plot
narrativo, e alla condanna all'estinzione definitiva.
Questa insistenza è basata sulla topica classica che contrappone la destra come rettitudine alla
sinistra come errore. Tramite questo rimando lo scrittore riesce a prefigurare al lettore la sorte
di eterna dannazione che spetta alla sventurata Teresa, già tramite queste spie linguistiche.
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dattiloscritta del testo in una carta che è stata poi cassata a penna ed eliminata dalla seconda
versione e da quella definitiva del testo. Tra le due quest’ultima ha una matrice prettamente
gergale e dialettale rispetto alla prima, che è riconducibile a uno stile informale e colloquiale.
Sullo stesso livello si colloca il calco nel verso successivo «che la verace via abbandonai» 291
con un rovesciamento in chiave pratica e realistica: Teresa condotta nella sua borgata dal
pappone «imboccò il vicolo»292 per tornare a casa, azione semplice e quotidiana
apparentemente non caricata di alcun valore allegorico, ma che darà inizio al suo cammino
verso la meta finale, il Carcere di Rebibbia.
Il riferimento al fiume Aniene è una perfetta chiave di lettura della duplicità dei rimandi
dell’opera. Come visto in precedenza, l’Aniene connota in chiave realistica il romanzo,
ponendosi come punto di riferimento in un contesto ben definito e caratterizzato come quello
della borgata. Evinciamo dalle carte preparatorie come in realtà nel progetto dell’opera avesse
un ruolo ben preciso. Come notano Siti e De Laude, a seguito della versione A del testo,
abbiamo quattro carte dattiloscritte con aggiunte e correzioni a penna di difficile lettura:
costituirebbe lo schema del progetto letterario basato su Dante, che reca il titolo Requienterna
(deformazione popolare del latino ecclesiastico) sotto cassatura che si presenta nella maniera
che segue293:
Macrì Teresa detta Pazzia (al Mandrione) ha letto la «Divina Commedia» a fumetti.
Dopo il lavoro dorme nella sua baracca.
Sogna l'Inferno, secondo Dante.
Dante fa la parte di Virgilio (lei dapprincipio ne ha una soggezione maledetta, poi un po' alla volta prende
confidenza: alla fine scompare – per il cunicolo che riporta fuori: se ne sarà proseguito per il Purgatorio e
il Paradiso).
Le bolge hanno tutte qualche riferimento con la realtà delle borgate.
Per ogni bolgia un peccatore – simile a quello dantesco – con la sua storia. Tutti personaggi viventi.
Lite violentissima con una puttana per un fatto terreno; in cui la dannata e la visitatrice si rinfacciano cose
tremende.
Ugolino che mangia una testa abbuffandosi ecc. ecc.
Tra i personaggi minori anche persone grandi: Papa Pio XII («Sei già qua, a Roncà»), Cioccetti ecc.
In fondo Lucifero che mastica con tre teste è un personaggio spaventoso che in prima istanza è il pappone
di Teresa che mastica mastica, magna, in seconda istanza qualche cliente ricco, in terza istanza le autorità
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e la burocrazia romana, in quarta istanza lo stato ecc. Tenere presenti i barattieri, coi diavoli: tutti tipi con
riferimenti reali ai tipi di clienti e di conoscenti del Mandrione. Concerto orrendo di peti ecc. Scherzi ecc.
Alla fine, in fondo al cunicolo buio, Teresa si ritrova su questa terra al Mandrione: una bella mattinata
dolce dolce ecc.: «dappertutto sfarfallava e ardeva il bel sole di aprile».
NOTE:
Paolo e Francesca i due amanti suicidi di Centocelle (lei figlia di N.N.) o simili.
Farinata: Stalin.
Teresa incontra tutti i suoi famigliari all'inferno: padre, madre, due fratelli, una sorella, dei nipoti. Uno le
racconta realisticamente i propri funerali. (il paese, l'infanzia di Teresa)
A Wilma Montesi chiede chi è stato il colpevole: risposta sibillina di questa ecc. ecc.
Un poliziotto delle retate.
L'ingresso dell'inferno è simile a quello delle Mantellate.
Gerione è Andreoli, Mossotti, un nome così (Andreotti).
Teresa aiuta come Dante una volta i diavoli a tormentare un dannato (je ceca l'occhi). ‹...›
Scherzo dei diavoli (pece bollente), a dannato pivello, come scherzo di carcerati: gioco orologio. Diavoli
come giovanottacci zozzi, mezzi ubriachi, schifosi, con le code davanti.
I Dorotei all'Inferno in massa.
Il fratello, Franco, che riconosce dalla cadoppa – coi blue jeans ecc. - è uno di quelli che hanno aggredito
una tredicenne (tipo Alba Sbrighi ecc.).
- Nella bolgia dei ladri: una dozzina di storie di ladri; l'ultima quella di Marcello Elisei, con la sua
spaventosa tortura e morte.
- ‹...› a un certo punto Dante e Teresa stanchi, fanno un picnic (chiedono a un diavolo della coca cola
e dei panini: diavolo furbesco, ammiccante, come un borsaro nero, procura ecc.). Domande di Teresa: e
il paradiso? Il paradiso non c'è, tutti all'inferno, perché tutti – parole misteriose – né carne né pesce. E
Dante continua a masticare il suo panino, mentre Teresa aspetta a bocca aperta che si spieghi meglio
(suoi pensieri confusi)
Nelle Note e notizie sui testi del Meridiano i curatori hanno trascritto gli appunti dattiloscritti.
Nell'ultima carta ci sono delle note a penna che sono di difficile lettura e che non sono state
riportate. Dopo aver consultato queste carte siamo riusciti a decifrare solo un paio annotazioni
in cui veniva stabilita dall'autore la corrispondenza tra i due fiumi romani, il Tevere e
l'Aniene, e i due fiumi infernali, lo Stige e il Flegetonte294.
294 Cartella Alì dagli occhi azzurri, fascicolo 5 Segnatura: IT ACGV PPP II.1.58, carta 11.
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«C’era una specie di chiaro, nella notte, che chissà da dove veniva, come quando sta per
spuntare la luna, o il sole non è proprio calato del tutto: ma luci accese non ce n’erano»295
aspetto che narrativamente si ricollega all’unico dettaglio di luce presente nel canto terzo
«com'io discerno per lo fioco lume»296.
Vengono menzionati nella descrizione del paesaggio urbano che si trova ad Teresa si trova a
percorrere le fermate degli autobus: «Lì c’era la fermata degli autobus, il 109 che voltava giù
verso il centro di Tiburtino, il 211, il 213 che seguitavano verso Ponte Mammolo e San
Basilio»297. A parere di chi scrive è un dettaglio puramente descrittivo volto a connotare in
chiave realistica il paesaggio, arricchendolo con elementi che favoriscono la ricostruzione di
uno scenario riconoscibile, come la menzione del Silver Cine, il cinema situato nel quartiere
Tiburtino III. Tuttavia la critica si è soffermata su questo aspetto istituendo un parallelismo
con il traghetto di Caronte e il vasello leggero dell'Angelo Nocchiero. La Montilli segnala che
«in quest’ inferno di borgata, crudele e vitale, la gente arriva ammucchiata nei tram, che sono
i veri traghetti di questa valle dell’Ade»298. Il paragone viene confermato da Maria Sabrina
Titone, in riferimento alla prosa Dal vero sempre in Alì, nel rapporto tra la barca di Caronte e
quella dell’Angelo nocchiero, per descrivere la sorte differente dei due protagonisti rispetto
agli abitanti dell’infernale borgata «l’autobus metropolitano è periglioso come la nave di
“Caron dimonio” […] tuttavia quella di Sergio e Claudio è una traversata verso la salvezza
come il transito delle anime sul “vasello snelletto e leggiero”»299.
Il fatto che il Carcere sia trascritto con la lettera maiuscola suggerisce a Dini 300 una
corrispondenza con la Città di Dite, le cui torri sono rappresentate tramite la «garitta delle
sentinelle»301. Dante utilizza il termine carcere in due accezioni302: in senso metaforico
parlando del «cieco carcere» riferendosi all'inferno in quanto, come spiega chiaramente il
Boccaccio «chiama ‛ carcere ' per ciò che alcuno che v'entri mai uscir non ne puote; e chiamal
‛ cieco '... per ciò che ha a far cieco chi v'entra, in quanto egli è tenebroso e ne' luoghi
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tenebrosi non si può veder lume»303; e in senso oggettivo nel caso del luogo di reclusione in
cui ha trascorso gli ultimi anni della sua vita il conte Ugolino «il doloroso carcere» 304. Nello
scritto pasoliniano è evidente che si intenda in senso letterale, trovandosi Teresa di fronte alla
porta che reca l'iscrizione “Carcere Penitenziario” Tuttavia nella prima versione si parla di
“Carcere Penitenziario Eterno” (c.21) ed è evidente quindi il rimando al valore metaforico a
cui faceva riferimento Dante. È interessante notare che negli appunti preparatori intitolati
Requieneterna non si fa menzione dell'arrivo alla soglia del Carcere Penitenziario ma si parla
di un cunicolo attrverso cui si esce dall'Inferno.
«In tutta quella pianura non si vedeva una luce, non si sentiva una voce.»305 rende in forma
prosastica, come nota Dini, «l’aere senza stelle» 306 dantesco, ma a differenza
dell’ambientazione infernale, in cui «sospiri, pianti e alti guai/risonavan»307, nell’inferno
contemporaneo della borgata romana descritto da Pasolini c’è il più totale silenzio. Sempre
appellandosi al materiale preparatorio si notano ulteriori aspetti: in quella che Siti e De Laude
definiscono come versione B vediamo una dicitura lievemente diversa rispetto a quella
riportata nella versione a stampa che recita «Carcere Penitenziario Eterno» (c.21) mentre nella
suddetta troviamo solamente «Carcere Penitenziario». L’aggettivo eterno rimanda fortemente
al sistema di valori dell’ipotesto dantesco, di tipo etico e morale. Si crea quindi un
parallelismo con l'iscrizione sulla porta dell'Inferno e in particolare all'ultima parte: «Dinanzi
a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogne speranza, voi
ch'intrate.»308.
Nella seconda definizione, priva dell’aggettivo, vediamo uno spostamento di piano: dalla
dantesca “«Giustizia mosse il mio alto fattore»309 a una giustizia borghesizzata che reclude
coloro che sono estranei al suo sistema di valori, come Teresa, ormai ultimo residuo di un
sottoproletariato in procinto di estinguersi. Il sentimento di eterna dannazione è trasmesso
anche dalla reazione di Teresa di fronte alla porta del carcere
303 GIOVANNI BOCCACCIO, Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri in Dartmouth Dante Project
(https://dante.dartmouth.edu/search_view.php?cmd=nextresult Ultima visualizzazione 4 Gennaio 2019 ore
18:43).
304 Inf. XXXIII, 56.
305 PIER PAOLO PASOLINI, La Mortaccia( frammenti), cit., p. 596.
306 Inf. III, 23.
307 Inf. III, 22-23.
308 Inf. III, 6 -9.
309 Inf. III, 4.
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leggendo e rileggendo quelle parole: e subito la prese il mammatrone, tanto che cominciò a tremare tutta,
a non tenersi più, finchè le vennero le convulsioni, si buttò per terra, strappandosi le vesti, piangendo
come una ragazzina, perchè sentiva come nel cuore che, da quella prigione, non sarebbe risortita mai più
310
.
Si tratta di una reazione assimilabile a quella delle anime traghettate da Caronte che, dopo
aver attraversato l’Acheronte, e raggiunto sull’altra sponda la porta d’ingresso all’Inferno
reagiscono nella maniera che segue: «cangiar colore e dibattero i denti/ quando intesero le
parole crude»311. Cristina Montilli sottolinea come l’irruenza della reazione di Teresa possa
essere assimilata a quella delle Erinni sulle torri della Città di Dite «Con l’unghie si fendea
ciascuna il petto / battìensi a palme, e gridavan sì alto»312. A parere di chi scrive è più
rispondente al contesto il parallelismo istituito da Dini, poiché rispecchia pienamente la
condizione di eterna dannazione di Teresa.
E questa sua irreversibile condizione è indicata dalla lapidaria conclusione del testo «da quella
prigione, non sarebbe risortita mai più» 313 che trova una perfetta corrispondenza, individuata
da Dini314, con le espressioni di eterna dannazione legate alla Porta dell’Inferno di Dante quali
la celeberrima «Lasciate ogni speranza voi ch’intrate»315 e «Io etterna duro»316.
Questa eterna dannazione accomuna tutto il mondo protagonista della raccolta Alì dagli occhi
azzurri, quello del sottoproletariato urbano, dannazione che ne comporta la sparizione. Come
spiega Spinazzola
Anteriore all’esperienza storica e alla coscienza sociale, il cosmo rappresentato da Pasolini è immobile
per definizione: non può aprirsi al movimento, alla dialettica delle idee e dei sentimenti se non
distruggendosi.317
L’ineluttabilità della dannazione di Teresa è legata come da un fil rouge a quella del testo che
rimane appunto incompiuto. A tale proposito afferma Dini, in pieno accordo con chi scrive
che:
83
Teresa non possiede nessuna 'coscienza' -specie di classe -, è Lumpen-Proletariat; e forse è questa
mancanza di coscienza che avverte delle ragioni dell'interruzione della scrittura del rifacimento, il vicolo
cieco della scelta di una protagonista troppo 'muta', verso invece la necessità di un dialogo (come avverrà
nella Mimesis, e come ovviamente avveniva nella Commedia) tra protagonista del viaggio e la sua guida,
entrambi accomunati dal medesimo retroterra letterario e, in parte, ideologico. 318
84
NUOVO PROGETTO DANTESCO: LA DIVINA MIMESIS
La concezione figurale di Auerbach segnerà la strada per il superamento del realismo da parte
di Pasolini e per l’elaborazione della Divina Mimesis, che prevede appunto la morte del
realismo e l’approdo alla realtà. Secondo l'interpretazione fornita da Riccardo Campi riguardo
il titolo dell'opera l'aggettivo “divina” allude al titolo vulgato del poema dantesco mentre il
termine “mimesis” rimanda al carattere plurinlinguistico dello stile di Dante. Nella “Nota n.2”
inserita tra i materiali estravaganti che compogono il testo si dichiara che l'opera si presenta
«come l'ultima opera scritta nell'italiano non nazionale, l'italiano che serba viventi e allineate
in una reale contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della sua storia. Nell'Inferno si
parla dunque questo italiano, in tutte le sue combinazioni storiche: […] tutti gli incroci
possibili, secondo le esigenze dei discorsi liberi indiretti dei vari personaggi, socialmente
diversi»319. Tuttavia, osserva Campi320, nei testi che compono l'opera non ci sono tracce così
vistose di una forte contrapposizione tra lingua letteraria e lingua contaminata dal
plurilinguismo. Difatti Questo testo costituisce il distacco dall’identificazione dal modello
dantesco del plurilinguismo stabilito negli anni Cinquanta.
Pasolini scriverà La Divina Mimesis negli anni compresi tra la pubblicazione di Studi su
Dante (1963) e il suo saggio La volontà di Dante a essere poeta (1965). Il periodo compreso
tra Mimesis e Studi su Dante è quello in cui è sancita la morte del realismo letterario e la
nascita di una nuova forma di realismo creaturale, sulla base del concetto di figura. Come
sottolinea Emanuela Patti:
La Divina Mimesis corrisponde ad un punto di svolta nella poetica pasoliniana: se Dante era prima
assunto come esempio di mimesis letteraria, ora il suo capolavoro, la Commedia, diventa il pre-testo, o
l’ultimo pretesto residuale per rendere la parola del “poeta/intellettuale mimetico” azione vivente
attraverso corpi, suoni ed immagini321.
85
Con la morte del realismo dantesco la funzione regressiva di tipo empatico/sentimentale si
traduce in una nuova modalità performativa di rappresentazione, data dalla presenza di
Pasolini stesso nei suoi testi, film, e reportage. La nuova opera ha come presupposti tutta una
serie di riflessioni linguistiche – raccolte ne Le Nuove questioni linguistiche (1964) – ed
esposte in maniera sintetica nell'intervista rilasciata ad Alfredo Barberis:
Vede, ho fatto una scoperta, che è un po’ l’uovo di Colombo: mi sono accorto che proprio in questi anni,
è nato l’italiano come vera lingua nazionale. Prima l’italiano era pseudonazionale, perché copriva non una
società intera, ma una società frammentaria. C’era un distacco totale tra la “koiné”, cioè tra la lingua
parlata, e la lingua letteraria. In fondo tutta la storia della nostra letteratura del Novecento si pone come
storia dei rapporti degli scrittori con la lingua media che, ripeto, non è, in realtà, nazionale. Ora ho notato
che c’è un elemento di omologazione nell’italiano: il linguaggio tecnologico… 322
Alla luce di queste considerazioni sul piano linguistico in Pasolini rinasce il desiderio di
scrivere un nuovo romanzo:
Sì. In seguito a queste meditazioni linguistiche mi si è rimessa in moto la fantasia del narratore, e mi è
tornata in mente un’idea vecchissima. Scrivere un “Inferno” contemporaneo. Prima doveva essere una
donna del mio vecchio “mondo”, “la mortaccia”, che scendeva all’Inferno e lo vedeva dal suo punto di
vista. Ora sono io stesso a fare il viaggio. Il mio è un Inferno classico, come quello di Dante: a imbuto,
con tanti gironi, e qualche girone nuovo per i nuovi peccati. Un Inferno degli anni Sessanta, popolato di
miei contemporanei: amici, personaggi, eroi della cronaca rosa o criminale, capi di governo o di partito,
con tanto di nomi e cognomi: una summa eroica e pantagruelica dello spirito contemporaneo.
Linguisticamente sarà molto interessante; ci sarà sempre una mescolanza di dialetti, che oggi ormai
considero arcaici, e cercherò di inventare un linguaggio per i due “progetti” di Paradisi: uno neo-
capitalistico e uno marxista, che descriverò con una lingua inventata, con una lingua del futuro. Si tratterà
d’un romanzo apertissimo, di una cosa magmatica323.
Dopo un iniziale entusiasmo verso questo cambiamento, Pasolini rovescia la sua tesi vedendo
uno snaturamento che consegue nell’afasia di gruppi di giovani e sottoproletari che
abbandonano il proprio dialetto di origine in favore di una lingua che tutto sommato non
padroneggiano e non conoscono bene. Con l’approdo al cinema e al linguaggio della realtà,
322 ALFREDO BARBERIS, Mi è tornata la fantasia del narratore»: Pasolini cinquant'anni fa, in «Between», IV, 7,
2014, pp. 2-7, p. 3.( http://www.Between-journal.it/ Ultima visualizzazione: 16 Febbraio 2019 h 18:29)
323 ALFREDO BARBERIS, «Mi è tornata la fantasia del narratore»: Pasolini cinquant'anni fa, cit., p. 4.
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vediamo l’applicazione trasversale del pastiche: un personaggio viene delineato tramite la
musica, le canzoni, i dialoghi doppiati, le immagini di corpi in movimento, di oggetti.
324 MANUELE GRAGNOLATI, Rifare e disfare Dante. Dalla Mortaccia alla Divina Mimesis, in ID., Amor che
move: linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante, Milano, Il saggiatore, 2013,
p. 39.
325 EMANUELA PATTI, La Divina Mimesis come progetto popolare, cit, p. 191.
326 RICCARDO CAMPI, Riscritture dantesche nell'ultimo Pasolini. Note su La Divina Mimesis, cit., p. 78.
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dettagliati carratteristici dei due canti danteschi: a partire dall'incontro con le tre fiere, che
diventano una modalità di autoesame da parte dell'autore per tenere in conto i vizi che
attanagliavano la sua vita e la società intera, all'incontro con la guida, ossia la “versione degli
anni Cinquanta” del protagonista stesso. Anche nella struttura, ossia nella disposizione degli
elementi narrativi (salita al colle, incontro con le fiere, discesa dal colle, incontro con la
guida), il testo pasoliniano ricalca fedelmente il modello dantesco. Come nota Gragnolati 327 il
primo canto è maggiormente focalizzato sulla confusione del protagonista, il secondo canto
risulta metapoetico e si ritrovano alcuni degli elementi teorizzati nel saggio La volontà di
Dante.
Secondo Barański «Thus, in La divina mimesis, the Comedy's original structure is the
guarantor of the seriousness of Pasolini's enterprise and is the bulwark against the forces of
darkness and despair which threaten the author»328. Secondo Vezzana «La Divina Mimesis è
certamente il più autorevole e sincero richiamo a Dante nella letteratura più recente […] La
Divina Mimesis è molto di più; è la riscrittura della Divina Commedia sull'esperienza dell'
italiano di oggi»329. Il passaggio all' autobiografismo è giustificato in relazione
all'impostazione dell'ipotesto dantesco, in un impianto che Riccardo Campi definisce
«arbitrario e stravagante, nonché contrario alla buona creanza ermeneutica»330, come dichiara
nel saggio critico Intervento sul discorso libero indiretto: «se mai ci fu libro scritto in prima
persona, questo è il libro di Dante: essendo un libro esplicitamente saggistico: implicante una
visione del mondo istituzionale, l'adesione ad essa dell'autore, e il suo parteciparvi sotto la
specie, diremmo noi, extra-letteraria, dell'impegno più sincero e totale»331.
Ciò si evince in particolar modo nell'impostazione narratologica dei personaggi del pellegrino
e della guida.
Il pellegrino è il Pasolini degli anni Sessanta:
Intorno ai quarant'anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita. Qualunque
cosa facessi nella «Selva» della realtà del 1963, anno in cui ero giunto, assurdamente impreparato a
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quell'esclusione dalla vita degli altri che è la ripetizione della propria, c'era un senso di oscurità. 332
A trentacinque anni ancora non c’era arrivata, che non ne aveva manco trenta, ma era come se n’avesse
sessanta: altro che mezza foja s’era magnata, ormai! E, insomma, dai a questo e dai a quell’altro, in
mezzo alla selva dei peccati ci stava, e ecchela là! (c.4)333.
Lo smarrimento morale del pellegrino viene rappresentato da Dante nell’immagine del sonno
nei celeberrimi versi del primo canto:
“Ah non so dire, bene, quando è incominciata, forse da sempre. Chi può segnare il
momento in cui la ragione comincia a dormire, o meglio a desiderare la propria fine?
Chi può determinare le circostanze in cui essa comincia a uscire, o a tornare là dove non
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era ragione, abbandonando la strada che per tanti anni aveva creduto giusta, per
passione, per ingenuità per conformismo? Ma come giunsi in quel mio sogno fuori dalla
ragione[…] ai piedi di un «Colle»”335
Il sonno! Mamma mia! Un sonno che proprio se la stava a fà sotto, pora Teresa: capirai, co'
quella giornata ch'aveva passato, n'aveva fatti pochi d'impicci! […]
Scese tutta sonno, coll'ossa rotte: imboccò il vicolo, che ci si vedevano dietro tutte le lucette
della ferrovia, e più dietro quelle del Quadraro, e più dietro quelle di Cecafumo, e più dietro
quelle di Cinecittà: ma tutte sbattute, perse, perché era notte alta e, da quando Marzano aveva
preso Roma, a mezza notte, da quelle bande, c'era il coprifuoco 337.
Ne La Mortaccia a fare da guida alla prostituta Teresa sarà Dante Alighieri in persona, che nel
frammento viene descritto in questi termini:
Era infatti un uomo non tanto alto di statura, secco, con la fronte sporgente, un naso a becco, e
le labbra strette, che, si capiva, non ridevano mai. 338
Secondo Riccardo Campi «queste poche righe permettono di udire come la voce di Pasolini si
sovrapponga a quella di Dante senza assumere tuttavia i toni ironici del falsetto: i frammenti
citazionali (lessicali danteschi), pur vistosi e riconoscibili, vengono inseriti da Pasolini nel
proprio discorso e rifunzionalizzati, ossia caricati di un significato che è strettamente
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connesso alle sue personali esigenze espressive»339.
Ne La Divina Mimesis vediamo una diversa trasposizione dei versi incipitari del poema:
Intorno ai quarant'anni mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita.
Qualunque cosa facessi, nella «Selva» della realtà del 1963, anno in cui ero giunto,
assurdamente impreparato a quell'esclusione dalla vita degli altri che è la ripetizione della
propria, c'era un segno di oscurità340.
Mentre ne La Divina Mimesis vediamo Pasolini stesso nel ruolo di guida, ma nella sua
versione di poeta marxista negli anni Cinquanta, in una sorta di sdoppiamento della
personalità e instaurando perciò, secondo l'interpretazione di Campi, un dialogo con sé
stesso341:
E disse: “sono settentrionale: in Friuli è nata mia madre; vissi a lungo a Bologna, e in altre città
e paesi della pianura padana – come è scritto nel risvolto di quei libri degli Anni Cinquanta, che
ingialliscono con me...”[…] “Sono nato sotto il fascismo, benché fossi quasi ancora un ragazzo
quando cadde. E vissi poi a lungo a Roma, dove del resto il fascismo, con un altro nome,
continuava: mentre la cultura della borghesia squisita non accennava a tramontare, andando di
pari passo ( si dice così?) Con l'ignoranza delle sconfinate masse della piccola borghesia” […]
Fui poeta aggiunse rapido, quasi ora volesse dettare la sua lapide “cantai la divisione nella
coscienza, di chi è fuggito dalla sua città distrutta, e va verso una città che deve essere costruita.
E, nel dolore della distruzione misto alla speranza della fondazione, esaurisce oscuramente il
suo mandato...” […] “È perciò” aggiunse “che sono destinato a ingiallire così precocemente:
perché la piaga di un dubbio, il dolore di una lacerazione, divengono presto dei mali privati, di
cui gli altri hanno ragione di disinteressarsi.” 342
Il personaggio della guida ne La Divina Mimesis viene descritto in questi termini, con i tratti
che caratterizzano il volto del poeta friulano:
91
occhi tiepidi e castani sotto lo zigomo pronunciato, la guancia magra e infantile, la bocca dal
brutto sorriso pieno di dolcezza: tirata dal ghigno dell'impaccio di chi deve farsi perdonare
un'antica colpa. Così con quel sorriso che lo deformava, assomigliava un po' a un povero
bandito scalcagnato e sporco.343
Un elemento che accomuna Virgilio e il Pasolini poeta civile, nei loro ruolo di guida, risiede
nel fatto che entrambi possono accompagnare il pellegrino solo in un punto del viaggio.
Virgilio lascerà Dante alle soglie del Paradiso Terrestre invece la guida pasoliniana può
accompagnare il protagonista solo nel mondo:
“Per il tuo bene ora, mi pare la cosa migliore condurti in un luogo che altro non è che il mondo. Oltre
io e te non andremo, perché il mondo finisce col mondo. Quanto alle prospettive della Speranza (per
cui si muore) e ai progetti di Colui che verrà, io sono prematuro alle loro leggi. Non sono dunque
autorizzato a condurti in quei due Regni: uno, appunto, sperato, l’altro progettato” 345.
Secondo Bàrberi Squarotti il momento più alto della riscrittura pasoliniana sta
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nell’identificazione tra l’autore e le tre fiere che prelude a quella successiva con la guida.
Secondo il critico l’oggettività del poema di Dante viene ribaltata dal testo pasoliniano con
questa operazione di riflessione su sé stesso346. Il modello dantesco fornisce valore universale
a un’esperienza privata e singolare, che per non sfociare nel patetico si serve di questa patina
letteraria dantesca. A questo proposito Bàrberi Squarotti sostiene che «il personaggio che
parla è, al tempo stesso, lo straziato uomo in preda a sussulti, terrori, dubbi, entusiasmi, che si
vede riflesso nelle tre bestie, e il dimesso e ingiallito poeta civile che presenta la sua
autobiografia ironica e logorata, ma non più come contenuto dell’inconscio o frutto delle
tensioni e delle nevrosi dell’inconscio stesso […] bensì come “esempio”, modello di
un’esistenza e di un’azione esemplari di una superiore dignità […] che non vuole farsi
perdonare una colpa, ma, appunto per questo, più chiaramente proponibile come guida alla
salvezza dalla degradazione della storia e dai fantasmi dell’inconscio»347.
Un'altra sostanziale differenza risiede nella connotazione delle tre fiere. Se nei frammenti de
La Mortaccia l'allegoria viene totalmente annullata a favore di una rappresentazione realistica
che porta la pellegrina Teresa a trovarsi di fronte a «tre canacci lupi […] secchi allampanati,
con le code dritte sulle cosce spelacchiate piene di rogna» 348 invece che affrontare la Lonza, la
Lupa e il Leone. Al contrario ne La Divina Mimesis troviamo nuovamente l'allegoria delle
fiere ma caricata di nuovi valori allegorici, corrispondenti ai vizi del poeta stesso, in una
nuova attuazione del rispecchiamento autobiografico. Al riguardo Bàrberi Squarotti sostiene
che «le allegorie animalesche sono riportate molto acutamente ai diversi aspetti di sé e
valgono come figure efficaci dell’inconscio, che se ne serve come delle necessarie strutture
letterarie per manifestarsi in modo evidente ed esplicitato»349:
Così la “Lonza” (in cui non ebbi, subito, la difficoltà a riconoscermi) con tutti quei colori che le
maculavano la pelle, non si muoveva davanti ai miei occhi, come una madre-ragazzo, come una chiesa-
ragazzo. […] Ma ecco farsi avanti, accanto alla “Lonza”, il sonno e la ferocia riuniti insieme in una sola
forma di “Leone”; che, benché spelacchiato, fetido di stallatico bestiale, pigro, vile, prepotente, stupido,
privo di altro interesse che non fosse il poltrire, solo, e il divorare, solo – aveva tuttavia la potenza di chi
non sa il male, essendo per sua natura soltanto bene ciò in tutto lui stesso consiste. Del suo essere sonno e
ferocia, egoismo e fame rabbiosa, il “Leone” traeva una ispirazione a vivere che lo distingueva, con
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violenza addirittura brutale, dal mondo esterno. […] sia pure parzialmente, anche in quel “Leone”, come
in uno sproporzionato segno premonitore, io mi riconobbi.
[…] venne fuori una “Lupa”, che si affiancò alle altre due bestie. I suoi connotati erano sfigurati da una
mistica magrezza, la bocca assottigliata dai baci e dalle opere impure, lo zigomo e la mascella allontanati
tra loro: lo zigomo in alto, contro l'occhio e la mascella in basso, sulla pelle inaridita del collo. E tra loro
una cavità oblunga, che rende il mento sporgente, quasi appuntito: ridicolo come ogni maschera di morte.
E l'occhio secco in uno spasimo; tanto più abietto quanto più simile agli spasimi dei santi: un'aridità
allucinata, che dove posa la sua luce pare si attacchi come colla colata dalla pupilla fatta tonda, ora troppo
diritta ora sfuggente; e in mezzo il naso, ingrossato nella pelle e nei buchi, sopra il labbro superiore quasi
sparito, per consunzione: il naso umano della bestia, che fa di se stessa una cavia delle proprie brame
divenute, incancrenendo, sempre più naturali.
Quella “Lupa” mi faceva paura […] La sua presenza era così indiscutibile da togliere ogni speranza di
poter giungere mai a quella cima misteriosa che intravedevo davanti a me, nel silenzio. 350
Come nota Steno Vezzana: «In tutte e tre le fiere Pasolini si riconosce, ma la lupa la dipinge
con i suoi stessi caratteri fisiognomici»351. Cristina Montilli nota la corrispondenza tra Pasolini
e la Lupa sotto il segno della lussuria. Questa corrispondenza è evidente grazie ad alcuni
elementi: quali la «mistica magrezza», già indicativa della cupiditas nella lupa dantesca
«carca ne la sua magrezza». Il legame con la lussuria è ribadito anche da espressioni quali «la
bocca assottigliata dai baci e dalle opere impure». Il rispecchiamento è dato dalla
corrispondenza di alcune caratteristiche fisionomiche, in particolare «lo zigomo in alto» della
Lupa che corrisponde allo «zigomo pronunciato» di Pasolini. È necessario sottolineare come,
sotto questo aspetto, Pasolini si discosti dalla corrispondenza canonica dei vizi con le fiere che
prevede la lussuria attribuita alla Lonza, la superbia attribuita al Leone e l’avarizia attribuita
alla Lupa. Quella che è indubbiamente una innovazione pasoliniana trova un riscontro nel
commento alla Commedia di Luigi Pietrobono 352, in cui alla Lonza corrisponde
l’incontinenza, il Leone simbolo della violenza e alla Lupa la cupidigia. Quindi in Pietrobono
non abbiamo una corrispondenza per vizi ma in base alla tripartizione delle sezioni in cui è
diviso l’Inferno.
Facendo il confronto con le terzine dantesche è evidente come Pasolini abbia mantenuto le
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caratteristiche peculiari delle tre fiere del poema e che l'aspetto originale risulti essere il
rispecchiamento del pellegrino in esse:
[…]
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve di un leone.
L’elemento autobiografico di Pasolini si scinde nel personaggio della guida e del viaggiatore e
nelle tre fiere. Nella scissione tra personaggio e guida vediamo come esito l’autoapologia:
“Ah sei tu!” Dissi allora “ti riconosco, ti riconosco! Eh” e arrossii nel dirlo, non per il vizio confessato,
ma per il fatto che, ancora una volta, mi confessavo “ti ho molto amato. Mi sei sempre sembrato, in
fondo, devo ammetterlo, il “più alto dei poeti del nostro tempo”, la loro vera guida, effettivamente. Ho
letto e riletto i tuoi volumi, con grande soddisfazione: mi valga ora, per uscire da questa ‘impasse’, ah, ah,
ah” risi “ il lungo lavoro critico operato su di te, nel segno, senza prestigio sociale, del narcisismo! Tu sei
95
colui il cui stile è stato ragione per me di affermazione e successo!” 354
Mettiamo a confronto questo passo con la corrispondente apologia di Virgilio come guida da
parte di Dante:
Per quanto riguarda la guida ne La Divina Mimesis è importante sottolineare come questa non
sia la guida migliore, ma quella necessaria per compiere questo viaggio:
Ma santo cielo! in una circostanza come quella, in cui la mia vita pareva implicare cielo e terra,
presentandosi come una gran favola edificante - addirittura un’esperienza dell’al di là, un’ ascesa su per
erte mistiche con una paradisiaca luce di sole - come succede ai santi quando sono già personaggi delle
loro canzoni sacre - in una circostanza come quella, poteva capitarmi un incontro un po’ migliore, o
almeno un po’ più romanzesco! Tutto era fatto per questo, mi pareva: per presupporre una guida, venuta
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su lungo le vie del necessario, con lo splendore della poesia, dal fondo della mia storia, della mia cultura.
Poteva essere, ad esempio, Gramsci stesso…, lui, venuto fuori dalla piccola tomba del Cimitero degli
Inglesi a Testaccio, con la sua schiena di piccolo, eretto Leopardi, la fronte rettangolare della madre
sardegnola, la capigliatura un po’ romantica degli anni venti, e quei poveri occhiali d’intellettuale
borghese…Oppure ecco, poteva capitarmi Rimbaud, il mio Rimbaud dei diciotto anni, mio coetaneo, e
castratore, col suo destino e la sua lingua già divini, come quelli di un classico che fosse coperto di nastri
come Alcibiade, e non per fare l’amore con lui, ma per ammirarlo con tutta l’anima infantile…Oppure
infine poteva essere Charlot.
Non avevo invece davanti a me che lui, un piccolo poeta civile degli Anni Cinquanta, come egli
amaramente diceva: incapace di aiutare sé stesso, figurarsi un altro. Eppure era chiaro che al mondo - nel
mio mondo - non avrei potuto trovare - benché così misera, così, come dire, paesana, così timida - altra
guida che questa.358
Nel confermare l’inadeguatezza della guida vediamo come Bàrberi Squarotti definisce la
suddetta come una «figura antifrastica», che non ha altri meriti rispetto al viaggiatore se non
quello di poter condurre questo viaggio. La configurazione del ruolo della guida permette di
cogliere il senso profondo di questa operazione letteraria compiuta da Pasolini, ossia quella di
dare credito, tramite l’ipoteso dantesco, da un lato all’autobiografia dell’autore, dall’altro al
giudizio sulla storia e sul mondo.
Anche il secondo canto prevede l’invocazione alle muse, il protagonista della Divina Mimesis
percepisce come Dante la propria inadeguatezza e non autosufficienza:
Vecchia ispirazione, abituata a compilare mescolanze di luoghi, interi panorami volanti su Italie e Europe,
e altre croste al mondo, aiutami tu, come una donna ripudiata, che non serve più a niente, ma, per una
qualche vecchia amicizia, continua a frequentare il marito preso da altri amori (impossibili, se mai ce ne
furono, e leggermente ridicoli e infamanti) a rendergli gli antichi, indispensabili vizi! 359
97
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate360.
Al contrario ne La Mortaccia l’inizio del secondo canto è totalmente privo di questo aspetto,
in quanto la riscrittura punta al depotenziamento dell’allegoria e alla trasposizione in chiave
realistica della vicenda:
Dante andò dallo spiazzo del monte del Pecoraro, e, giunto sulla Tiburtina, anziché andare verso Roma,
prese a sinistra, verso l’Aniene: e cominciò a pedalare di buon passo, con Teresa dietro come un cane 361.
L'inadeguatezza di Dante di fronte ai predecessori della catabasi, Enea e Paolo in Inf. II 32 362,
viene trasformata nell'inadeguatezza che il poeta friulano sente nei confronti di Dante, che
aveva descritto l'Inferno prima di lui:
Non so se ti rendi conto … che questo viaggio l'hai già fatto, per dirla prudentemente, chi «corruttibile
ancora, ad immortale secolo andò». «A parte il fatto», continuai, nascondendo la mia accidia sotto
l'argomentazione, scorato «che egli era sostenuto da una ideologia di ferro» dissi proprio così «la più
potentemente unitaria di tutta la nostra cultura, prodotto finale di tutto il Medioevo ecc. E poi,
stilisticamente, pensa, tu che sei maestro di queste cose, pensa che caso unico: lo spostamento del punto
di vista in alto, che aumenta smisuratamente il numero delle cose e dei loro nomi, proprio nel momento in
cui restringe e sintetizza tutto … […] Ecco, insomma, volevo dire semplicemente … che rifare questo
viaggio consiste nell'alzarsi, e vedere insieme tutto da lontano, ma anche nell'abbassarsi e vedere tutto da
vicino – per continuare a esprimermi senza il minimo pudore. Tu sai cos'è la lingua colta; e sai cos'è
quella volgare. Come potrei farne uso? Sono ormai un'unica lingua: la lingua dell'odio363
98
della coesività, introduzione teppistica”»365.
Un altro dettaglio narrativo conservato da Pasolini è quello della figura che appare nel
secondo canto al fine di esortare il pellegrino a fidarsi della guida e a proseguire il viaggio.
Nell'opera dantesca è Beatrice mentre in quella pasoliniana è Guido, il fratello partigiano:
Avevo, davanti a me, la faccia di un partigiano condannato a morte, che nel pallore del terrore,
conserva – nell'occhio bruno, nello zigomo virile - la durezza della sua speranza, ormai inutile
per lui. Gli andavo dietro, e guardavo a terra. Guardavo a terra come chi deve covare, senza
mostrarlo a nessuno, l'ingenuità del suo fervore: una speranza, un desiderio di fare (in questo
inutile mondo), che rinasce, richiedendo ancora più pudore 366.
Nonostante la forma frammentaria in cui si presentano gli appunti sui canti III e IV, questi
mantengono comunque un legame con l'ipotesto dantesco. Nel terzo canto l'uso
dell'anonimato, è una scelta perfettamente coerente con l'arrivo nel cerchio degli ignavi, che
nella vita scelsero di non schierarsi mai e quindi di rimanere nella massa indistinta. Viene
adottato da Pasolini il modello dantesco degli accidiosi per descrivere gli “anonimi”, i quali
hanno rinunciato ad essere sé stessi per conformarsi alla massa. Per contrappasso, come gli
ignavi danteschi, sono destinati a rincorrere la bandiera del potere in vigore, qui resa da
Pasolini in uno “Stronzo”:
Non mi fu difficile accorgermi che in realtà tutta quella gente, lungo le strade del loro mondo di
impiegati, di professionisti, di operai, di parassiti politici, di piccoli intellettuali, in realtà correvano come
matti dietro a una bandiera. Per le viuzze medioevali, o per le grandi strade burocratiche, liberty o infine,
per i quartieri nuovi, residenziali o popolari, essi non si agitavano trascinati - come pareva - dall’orgasmo
del traffico o dei loro doveri: ma correvano dietro a quella bandiera. Si trattava, in realtà, di uno straccio
che sbatteva e si arrotolava ottusamente al vento. Ma, come tutte le bandiere, aveva disegnato nel suo
centro, scolorito, un simbolo. Osservai meglio, e non tardai ad accorgermi che quel simbolo non
consisteva in nient’altro che uno Stronzo367.
La dinamica della pena degli anonimi pasoliniani ricalca perfettamente quello degli ignavi
danteschi descritto nei versi che seguono:
99
E io, che riguardai, vidi una ‘nsegna
Che girando correva tanto ratta,
Che d’ogne posa mi parea indegna;
E dietro le venìa, sì lunga tratta
Di gente, chi non avrei creduto
Che morte tanta n’avesse disfatta368.
La sezione intitolata Appunti e frammenti per il IV Canto è la più densa e disomogenea del
testo intero; di conseguenza l’interpretazione risulta più complessa delle altre parti. Possiamo
notare una ripresa fedele della situazione iniziale del quarto canto dell’Inferno, in cui il
pellegrino si intimorisce a causa della paura manifestata dalla sua guida ed evidenziata dal
pallore del volto:
E gli chiesi come avrei potuto andar giù con lui, se anche lui, di solito così coraggioso - quasi
invulnerabile - era contaminato da quel pallore che contraddistingue gli sfruttati, i poveri, i passivi, i cristi
che si trovano a un tratto senza vita dopo non aver vissuto mai.
Rispose: “questo mio pallore non è che la pietà per tutta quella gente che laggiù, che vive nella
confusione. Va bene, forse è una scusa, ma è anche la verità. La pietà infatti in me è solamente l’aspetto
che prende la mancanza di libertà…”369
Nel quarto canto la riflessione sulla poesia e sul ruolo del poeta è perfettamente in linea con il
canto degli spiriti magni. Pasolini riflette sull’idea e sul ruolo della poesia nella società
capitalistica e in quella socialista con un riferimento al “giardino dei poeti”:
100
Dove avevo questo qualcosa di simile a questo giardino pieno di poeti, che avevo ora davanti agli occhi?
Certo l’avevo visto: e se non sbaglio, se la memoria non mente per qualche impedimento che io non so, si
tratta della villa di S., a qualche chilometro da Praga. Era una villa del Settecento […] C’era un alto,
elegante ma anonimo muro di cinta, verso la strada statale […] Oltre questo muro di cinta e il suo
cancello, c’era subito un grande cortile (coperto di aiuole simmetriche di un verde intenso ma pallido) il
cui colore generale era un rossiccio scolorito […] In fondo a questo cortile, sorgeva la villa, esposta a
Nord. […] Al di là della villa si stendeva il vero e proprio giardino: i cui confini erano la campagna
deserta e il cielo. Tale giardino consisteva in uno sconfinato gioco geometrico di aiuole rotonde e ovali, di
piante arricciate, forse ginepri, tra sempreverdi nodosi e raccolti in se stessi come in uno spasimo
tranquillo. Quei vialetti, quelle aiuole erano pieni di poeti che, approfittando di un po’ di solicello,
passeggiavano e chiacchieravano dolcemente e senza impegno, aspettando di andare a tavola. Erano poeti
cechi e poeti slovacchi, e, tra loro, qualche poeta italiano, ospite di quella villa: che era appunto, una villa
per i poeti371.
Ritroviamo nel giardino dei poeti pasoliniano, anche se con uno sviluppo autonomo,
alcuni degli elementi presenti nella descrizione del castello degli spiriti magni:
Saltando i canti V e VI, passando direttamente agli Appunti e frammenti per il VII canto si
101
nota che viene rotto il legame strutturale con la Commedia.373 È necessario segnalare un
aspetto cronologico: il frammento in questione è datato 1963 nella versione a stampa;
probabilmente è stato iniziato in quel periodo ma concluso nel 1965, come tutto il resto del
materiale testuale successivo ai primi due canti.
Lo stacco dal modello dantesco qui è netto: nei frammenti al canto VII abbiamo tutta una
serie di frammenti che alternano dei focus sulla struttura del girone e altri sui personaggi che
lo popolano. L’ambientazione è totalmente inventata ed è caratterizzata da elementi legati allo
sviluppo tecnologico incentivato dal neocapitalismo (motel, parcheggi, cartelli indicatori). Il
cartello indicatore segnala che il protagonista e la sua guida si trovano nella «Zona Troppo
Continenti (o Riduttivi)-Settore 1: Conformismo»374. Vediamo quindi da parte di Pasolini
anche una spinta innovativa di adattamento alla situazione descritta, non un mero esercizio di
imitazione del poema dantesco. In questo settore sono puniti coloro i quali «non furono dei
piccolo borghesi se non per nascita, per definizione sociale ecc. In realtà, essi avevano, come
si dice, gli strumenti necessari per conoscere il loro “peccato”: seppero come non essere
conformisti e lo furono»375. Un’altra spiegazione di poco successiva del peccato di
conformismo è particolarmente interessante a fini dell’analisi dei rimandi danteschi in quanto
riporta un calco dantesco ribaltato:
“Tutta questa gente” disse il maestro “ha peccato contro la grandezza del mondo quasi per istinto. La
riduzione di tutto è avvenuta in loro per una specie di difesa […] “ e così furono vas di riduzione”376
102
Ma il Signore replicò: “ Vai, perché costui è uno strumento scelto da me, per portare ai pagani, ai regnanti
e ai figli d’Israele a nome mio.”379
Se in Dante pellegrino c’è una totale inconsapevolezza della propria scelta, da parte di Dio,
nel compiere questo importante viaggio, nei conformisti pasoliniani la consapevolezza della
propria individualità viene ignorata di fronte alla convenienza della scelta di vivere
nell'omologazione, secondo i dettami imposti dall’autorità vigente.
Come sottolinea Giuseppe Ledda, in una definizione più recente
La formula biblica vas electionis è intesa da Dante nel senso di ricettacolo della scelta divina, di
recipiente nel quale, al di là dei meriti dell’uomo, penetra gratuita e insondabile la scelta di Dio, la sua
volontà di rendere certi uomini strumenti per attuare i suoi disegni 380.
“Oh Pasolini!” Sentii chiamarmi, come per l’appunto ci si chiama tra la folla di un cocktail; con
gentilezza speciale - quella che allude a un rapporto particolare, da qualche tempo interrotto, e ora,
appunto, in quel momento ripreso381.
La differenza fondamentale tra La Mortaccia e La Divina Mimesis risiede nel fatto che ne La
Divina Mimesis è l'autore stesso a compiere il viaggio in prima persona, mentre ne La
Mortaccia l'autore mette in atto il tentativo di immedesimazione mimetico gramsciano-
continiano in un personaggio appartenente ad una classe sociale diversa dalla propria, quella
del sottoproletariato urbano.
379 Atti degli Apostoli, 9, 15, in La Sacra Bibbia, cit., vol. 2, p. 2020.
380 GIUSEPPE LEDDA, Modelli biblici nella Commedia: Dante e San Paolo, in La Bibbia di Dante: esperienza
mistica, profezia e teologia biblica in Dante : atti del Convegno internazionale di studi, Ravenna, 7
novembre 2009, a cura di Giuseppe Ledda, Ravenna, Centro dantesco dei Frati minori conventuali, 2011, pp.
179-217, p. 182.
381 PIER PAOLO PASOLINI, La Divina Mimesis, cit. p. 41.
103
Emanuela Patti propone un parallelismo tra Ragazzi di vita, come più alto compimento del
periodo mimetico, e La Divina Mimesis come suo definitivo superamento. Secondo la
studiosa, nel primo romanzo romano l'intento è quello di attuare un vero e proprio mimetismo
nel mondo delle borgate operato sul piano sintattico ricorrendo al discorso indiretto libero e
sul piano semantico con la riproduzione della visione del mondo dei ragazzi delle borgate. In
questo contesto:
ancora una volta, l’esperienza di regresso nell’altro viene associata alla catabasi dantesca nell’ Inferno.
Diversi sono i riferimenti alla Commedia in Ragazzi di vita:
un amen non saria potuto dirsi | tosto cosi com’ei furo spariti’382
Traiti Avanti, Alichino, e Calcabrina | -comincio egli a dire – e tu, Cagnazzo ; | -E Barbariccia guidi la
decina.
Libicocco venga oltre, e Draghignazzo, | Ciriato sannuto, e Graffiacane,
E Farfarello, e Rubicante pazzo383
Il prestito, tuttavia, ha in primo luogo il senso di una marcatura per sottolineare la comune
“operazione mimetica” (visiva, acustica, olfattiva, tattile) di Dante nell’Inferno e di Pasolini
nelle borgate384.
Dopo il poemetto In morte del realismo, in cui vengono enunciate le ragioni del superamento
del progetto mimetico da parte di Pasolini stesso, con il secondo romanzo Una vita violenta e
l'approdo al cinema, vediamo la maturazione di una nuova fase che è quella in cui viene
concepita La Divina Mimesis in cui «in occasione del centenario dantesco Pasolini era tornato
a riflettere sul suo più grande modello letterario, ma alla luce di quella di una “nuova
questione della lingua”»385. In realtà questa declinazione dell'ipotesto dantesco è ancor più
evidente, a parere di chi scrive, in relazione al primo fallimentare progetto dantesco La
Mortaccia. Questo avviene perché partendo da una medesima base, ossia i primi due canti
della Commedia, si percepiscono in maniera ancor più evidente questi cambiamenti sul piano
linguistico, anche se il progetto mimetico viene affinato e portato alla sua massima
espressione nei Ragazzi di vita.
382 PIER PAOLO PASOLINI, Ragazzi di vita, in RR I, p. 596 cfr. Inf., XVI, 88-89
383 PIER PAOLO PASOLINI, Ragazzi di vita in ID., Romanzi e racconti. 1946-1961, a cura di W. Siti e S. De Laude,
vol. I, Milano, Mondadori, 1998, p. 272.
384 EMANUELA PATTI, La Divina Mimesis come progetto popolare, cit., pp. 189-190.
385 EMANUELA PATTI, La Divina Mimesis come progetto popolare, cit., p. 191.
104
Alcuni elementi comuni possono essere ravvisati tra La Divina Mimesis e il progetto, di pochi
anni successivo, di per un film dedicato alla figura di San Paolo, a cui Pasolini ha lavorato nel
Maggio-Giugno 1968. Pasolini era affascinato dalla percezione duplice che aveva avuto del
personaggio di Paolo di Tarso, da un lato santo e dall'altro prete (quindi figura istituzionale
della nascente Chiesa di Roma). Questa doppiezza percepita è frutto di una proiezione del
personaggio su di sé e sulle proprie contraddizioni, in particolare quella tra l'esperienza del
sacro e la sua organizzazione pragmatica nel linguaggio. È stato sottolineato dai critici lo
specchiamento di Pasolini nella figura di San Paolo 386 e in particolare come raffigurazione
della propria “assoluta e irrisolvibile schizofrenia” 387. Un'altra forma di specchiamento che
Pasolini ha in San Paolo sta nella figura del Poeta Vate, il quale è profondamente ispirato
dalla visione spirituale e allo stesso tempo fortemente animato dal suo impegno civile.
Emanuela Patti istituisce un parallelismo tra il progetto sul film su San Paolo e La Divina
Mimesis nella misura in cui «we clearly notice an analogous identification with the prophetic
figure of the Poet»388. Ad esempio come accade nel film, lo scenario poetico dell'Inferno è
trasposto in chiave moderna, così come avviene ne La Divina Mimesis.
Pasolini, tenendo a mente il saggio dantesco del ’65, mette alla prova sia nella Divina
Mimesis che in Petrolio, opere entrambe edite negli anni Settanta, il principio per cui l’autore
è incorporato all’interno dell’opera. L’incorporamento avviene su più livelli. Un primo
riguarda lo sdoppiamento dell’autore sia nel ruolo di pellegrino (Pasolini – Dante) sia nel
ruolo di guida ( Pasolini – Virgilio, che corrisponde all’autore negli anni Cinquanta). Un altro
livello è quello legato all’incontro con le tre fiere che non sono altro che «tre autoritratti
leggermente deformati»389. In ultima istanza, in chiusura del volume, abbiamo un’appendice
intitolata Iconografia Ingiallita, composta da ventidue fotogrammi, che costituisce una
ricostruzione ideale dell’autobiografia dell’autore. Ritroviamo in questa duplicità anche
386 NAOMI GREENE, Pier Paolo Pasolini: Cinema as Heresy, Oxford, Princeton University Press, 1990, p. 178.
387 ROBERT GORDON, Pasolini: Forms of Subjectivity, Oxford, Clarendon Press, 1996, p. 202.
388 EMANUELA PATTI, A “poetic idea”: (Re)sacralizing the Wor(l)d. Pasolini's project for a film about St. Paul,
in Politcs and culture in Post War Italy, edited by Linda Risso and Monica Boria, Newcastle, Cambridge
scholar press, 2006, pp. 78-87, p. 86.
389 M.A.BAZZOCCHI, Buona e mala mimesi, cit., p. 61.
105
l’attuazione del “doppio registro” continiano: un registro lento, dato dalla pagina scritta; un
ritmo veloce dato dall’immagine. In Petrolio, secondo Riccardo Campi, «il dispositivo
allegorico dantesco verrà ripreso per esprimere, ancora una volta, gli effetti alienanti e
conformistici della società dei consumi»390. Secondo Manuele Gragnolati391 l'Iconografia
ingiallita è un elemento di legame tra Petrolio e La Divina Mimesis: è la sezione posta al
termine del testo composta da venticinque fotografie che ricoprono un arco temporale che va
dagli anni quaranta ai primi anni sessanta. Alcune immagini sono poste in ordine cronologico
e riguardano diversi ambiti: la vita dell'autore, alcuni dei temi indagati nel testo e alcune
immagini che si ricollegano alla scrittura dantesca di Pasolini (nello specifico sono: «L'autore
e Gadda»; «Gianfranco Contini»; «La tomba di Gramsci a Testaccio»; «Frontespizio di Poesia
in forma di rosa»). Marco Antonio Bazzocchi sostiene per questa sezione una chiave di lettura
dantesca nella descrizione di questa sezione dell’opera:«Sono ventidue fotografie, ventidue
fotogrammi che compongono un’ideale autobiografia dell’autore, esibita così come Dante
esibisce sé stesso, i suoi amici e i suoi nemici nella Commedia»392. Davide De Rei, nella sua
analisi a La Divina Mimesis, nota come la fotografia della scena del Battesimo di Cristo, tratta
d a l Vangelo secondo Matteo, posta di fianco a quella di Contini stia ad indicare
simbolicamente come Pasolini sia stato battezzato alla letteratura da Contini, così come
Giovanni Battista ha battezzato Gesù393.
L’inclusione dell'Iconografia Ingiallita, decisione presa all'ultimo momento poco prima della
pubblicazione da Pasolini, sancisce il legame tra La Divina Mimesis e Petrolio che trova il
suo riscontro nella citazione contenuta in Petrolio «ingiallita come una vecchia fotografia»,
che porta con sé un'eco dantesca nell'espressione «chi per lungo silenzio parea fioco»394. La
citazione in questione si trova in una sezione del testo di forte ispirazione dantesca intitolata
La Visione del Merda. In questo episodio il protagonista Carlo segue un giovane, chiamato
appunto “Il Merda”, e la fidanzata Cinzia attraverso la periferia romana che viene
rappresentata in una serie di gironi e bolge infernali. Spiega Gragnolati che:
106
è una riscrittura ironica e dissacrante dell'Inferno dantesco, i cui peccati tradizionali sono sostituiti dai
nuovi modi di essere che, come Pasolini continua a ripetere nei primi anni settanta, il processo di
omologazione messo in moto dal neocapitalismo e dalla nuova società dei consumi ha imposto […] al
sottoproletariato, facendogli perdere le caratteristiche del passato e trasformandolo in una imitazione
patetica della piccola borghesia395
Nella scena finale de La Visione del Merda (Appunto 72G) troviamo la citazione dantesca
«cade come corpo morto cade» riferita al Merda che sviene per lo sforzo sostenuto
nell'abbracciare con virilità la fidanzata.
I gironi dell'Inferno sono strutturati in maniera duplice: in primo luogo viene presentato ciò
che il testo presenta come la «Realtà», che descrive la condizione del sottoproletariato urbano
prima della mutazione antropologica, e nella parte presentata come «Visione» la sua versione
corrotta, quindi il passaggio dai ragazzi di vita dei romanzi romani al personaggio del Merda
i n Petrolio. Nella prima Bolgia la dimensione degli odori è predominante, nella scena della
Realtà si parla di «odori di sudore e polvere […] di povertà e innocenza […] odore di natura e
di popolo» mentre nella scena della Visione si parla di «un odore tutto uguale, di barbiere e di
corpo lavato male. […] È l'odore dell'impiegato fascista o dell'avvocato clericale: del
bottegaio che esce sbarbato, fresco, abbronzato dal bagno; dal capo d'azienda giovane e
efficiente che adopera dell'acqua di colonia francese». L'espressione «ingiallita come una
vecchia fotografia» si riferisce a questo genere di cambiamenti avvenuti negli anni sessanta.
Un altro dei cambiamenti evidenziati da Pasolini è quello linguistico: il dialetto romanesco,
precedentemente fonte di ammirazione per lo scrittore, ora corrotto dalla nascente lingua
nazionale. Vediamo che negli scritti degli anni Cinquanta il plurilinguismo e il discorso libero
indiretto manifestano un intento di fusione empatica nell'altro, nel diverso da sé («regressione
del parlante»). In Petrolio questo approccio di fusione con l'altro è presente in alcuni episodi,
quali gli Appunti il «Pratone della Casilina» e l' «Incontro con Carmelo», ma secondo
Gragnolati «l'atmosfera spettrale degli episodi li rende l'espressione di un rimpianto per
qualcosa che è scomparso per sempre»396. La condizione presente, quella dell'omologazione e
del genocidio culturale, è invece esemplificata dal suddetto episodio La Visione del Merda. In
Petrolio «dato che il desiderio di “con-fusione” intersoggettiva nell'altro non è più possibile,
esso implode in/su se stesso e rimane solo il piacere paradossale del movimento di
395 MANUELE GRAGNOLATI, Una performance queer. Petrolio e l'orgoglio del fallimento, cit., p. 53.
396 MANUELE GRAGNOLATI, Una performance queer. Petrolio e l'orgoglio del fallimento, cit., p. 60.
107
autodissoluzione»397. Se abbiamo nei romanzi degli anni Cinquanta una «appassionata
vocalità polifonica» in Petrolio, secondo la definizione di Maria Antonietta Grignani, una
«monovocalità malinconica»398. Abbiamo la scomparsa della contaminazione linguistica e del
discorso libero indiretto, tipici degli anni Cinquanta, e rimane la sola voce del narratore-
scrittore che si distacca anche dalla voce narrante della tradizione romanzesca. Come afferma
Gragnolati «In Petrolio viene a mancare quell'alterità che era ancora possibile negli anni
cinquanta, per cui la disintegrazione di sé non è più inscritta nel con-fondersi in qualcun
altro»399. Il passaggio dalla letteratura ideologica degli anni Cinquanta a quella degli anni
Settanta, dopo il genocidio culturale, è il passaggio a una «scrittura priva di scopi pratici, che
si propone unicamente di produrre irritazione»400.
Un altro aspetto comune alle due opere è l'incompiutezza. Secondo Gragnolati: «il titolo
Divina Mimesis potrebbe così finire per essere ironico e non solo sottolineare il contrasto tra il
successo dell'operazione dantesca e la messa in scena del proprio fallimento» 401. Vediamo
quindi da parte di Pasolini la prosecuzione del progetto dantesco, in una chiave differente
rispetto a quella intrapresa durante gli anni Cinquanta segnati dall'impegno ideologico, quella
dell'orgoglio del fallimento rispetto a una società che propone l'omologazione nella
prospettiva del progresso.
Nella sua ultima opera, Petrolio, vediamo un totale ribaltamento della figura dell’auctor
rispetto a Ragazzi di vita: se nel romanzo degli anni Cinquanta l’auctor tentava di attuare
l’operazione mimetica nel personaggio narrato, in Petrolio vediamo il personaggio che cerca
di liberarsi dell’ingombro della figura autoriale, sancendone la morte.
In conclusione «questo “ritorno” a Dante è dunque, per Pasolini, la possibilità stessa di
continuare a scrivere e a praticare la letteratura proprio quando la letteratura e le istituzioni gli
sembrano essere ormai impraticabili»402.
397 MANUELE GRAGNOLATI, Una performance queer. Petrolio e l'orgoglio del fallimento, cit., p. 60.
398 MANUELE GRAGNOLATI, Una performance queer. Petrolio e l'orgoglio del fallimento, cit., p. 60.
399 MANUELE GRAGNOLATI, Una performance queer. Petrolio e l'orgoglio del fallimento, cit., p. 61.
400 MANUELE GRAGNOLATI, Una performance queer. Petrolio e l'orgoglio del fallimento, cit., p. 65.
401 MANUELE GRAGNOLATI, Una performance queer. Petrolio e l'orgoglio del fallimento, cit., p. 67.
402 RICCARDO CAMPI, Riscritture dantesche nell'ultimo Pasolini, cit., p. 80.
108
CONCLUSIONI
Sulla base delle analisi argomentazioni portate avanti nel presente lavoro di tesi si possono
presentare una serie di considerazioni finali.
La Mortaccia, il primo progetto di riscrittura dantesca steso durante tutto l'arco degli anni
Cinquanta, rimane incompiuto a causa del cambiamento operato nella società italiana dal
boom economico degli anni Sessanta, descritto da Pasolini in termini di omologazione
linguistica e sociale. Nella prima versione di questi frammenti osserviamo uno specifico
trattamento del testo dantesco; i versi vengono riportati in una forma che congiunge la
parafrasi del testo e la sua esegesi. Ciò è esemplare nell'espressione «la selva dei peccati» in
cui il termine dantesco viene accostato immediatamente allo scioglimento dell'allegoria ad
esso sottesa. Questo approccio muta nella versione a stampa in cui i rimandi espliciti vengono
mediati dalla narrazione. Un altro aspetto cruciale relativo alla prima versione è legato al tema
della cornice onirica, totalmente eliminata nella versione definitiva. Nella prima versione,
invece, il plot prevede un meccanismo tipico delle visioni medievali: Teresa dopo aver letto
una versione a fumetti del poema dantesco, si addormenta e sogna le vicende che sono state
oggetto della sua lettura. L'omissione di questo aspetto nella versione a stampa è
particolarmente significativa in quanto porta a un avvicinamento della riscrittura al modello,
in cui non viene esplicitata la dimensione onirica del viaggio di Dante.
In ultima istanza si è precisato come, data la corrispondenza tra la Porta del Carcere di
Rebibbia e la Porta dell’Inferno, il viaggio di redenzione della protagonista non sia mai
iniziato. Forse, a differenza di Dante pellegrino che ottiene la salvezza eterna al termine del
proprio viaggio, Pasolini intuisce che per Teresa, e per la classe sociale di cui fa parte, non ci
sarebbe stata alcuna possibilità di redenzione e che il boom economico, che stava per iniziare,
ne avrebbe sancito la completa eliminazione.
Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, Pasolini abbandonerà la scrittura narrativa e anche
la poesia diventa sempre più strumentale e meno lirica. Al contempo emerge l'interesse per il
cinema, concepito come “lingua scritta della realtà”, come ricerca di un linguaggio che superi
quello convenzionale della letteratura. Secondo Carla Benedetti,
La crisi […] non colpisce una poetica in particolare, ma la poetica in generale, la possibilità stessa di
109
vedere affidata a una certa soluzione stilistica e di impostazione di voce il senso della propria attività
letteraria. E se una strada potrà di nuovo aprirsi per la scrittura letteraria sarà […] una “nuova assurda
strada” che non ha più nulla in comune con quella degli anni Cinquanta – una scrittura che quasi
scommette sulla propria impossibilità: in assenza di un sistema di certezze per lo scrittore, in assenza di
una poetica403.
Nella fase degli anni Cinquanta, in una prospettiva di superamento rispettivamente del
neorealismo e della neoavanguardia, Dante costituisce per Pasolini un modello con la sua
forma di plurilinguismo. Durante la crisi degli anni Sessanta l'opera dantesca costituisce una
guida, un fondamento alla base di un nuovo modo di concepire la scrittura letteraria
tradizionale. La Commedia, l'opera capitale della tradizione letteraria italiana, viene quindi
riutilizzata come modello per attivare un nuovo modo di fare letteratura. La poesia di Dante
costituisce un nuovo strumento per approcciarsi alla realtà, in primo luogo a livello
linguistico, data la varietà e l'ampiezza del repertorio dantesco. A tale proposito Riccardo
Campi sostiene che
questa per Pasolini è l'etica della scrittura, e questa è la sua profonda “fedeltà” al mito dantesco (dunque
meno alla lettera del testo di Dante che all'ethos che informa la sua scrittura). Nella strategia pasoliniana
infatti la Commedia funziona, strutturalmente, come un mito, ossia come una forma attraverso cui, a
causa della sua autorità indiscussa e trasmessa da una tradizione ormai secolare, Pasolini ha la possibilità
di esprimere la realtà che sembrava sfuggire alla lingua di convenzione 404.
Tuttavia questo ritorno a Dante non potrà mai essere realmente compiuto, in quanto solo lo
stesso Dante aveva la possibilità di ricondurre la realtà a una ideologia che Pasolini definiva
“ideologia di ferro”, di tipo astorico e teologico. Per Pasolini questo tipo di operazione, a
partire dallo stesso abbozzo de La Mortaccia, non è più possibile: non ha a disposizione un
sistema ideologicamente solido, né sul piano della fede religiosa né su quello politico (come
invece accadeva negli anni Cinquanta). Data questa mancanza costitutiva, il progetto dantesco
è destinato a rimanere sempre a un livello progettuale, in quanto il suo sviluppo privo di una
base ideologica forte sarebbe sfociato inevitabilmente in una forma di manierismo. Di fatto
Pasolini porta a compimento la riscrittura dei soli primi due canti dell'Inferno, sia ne La
403 Carla Benedetti, Pasolini contro Calvino, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 33.
404 Riccardo Campi, Riscritture dantesche nell'ultimo Pasolini. Note su La Divina Mimesis in Storia e memoria
nelle riletture e riscritture letterarie, a cura di J. Bessière e F. Sinopoli, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 69-87, pp.
77-78.
110
Mortaccia sia ne La Divina Mimesis. Nel caso della seconda però altri tre canti della prima
cantica (il terzo, il quarto e il settimo) vengono sviluppati in forma di appunti, inframmezzati
da note dell'autore, a cui si aggiunge la sezione finale dell' Iconografia ingiallita. Questo testo
viene dato alle stampe circa dieci anni dopo la sua composizione in forma frammentaria, in
base alla volontà dell'autore. Il modello dantesco viene interpretato da Pasolini come un'
“opera mondo” in grado di dare forma ed espressione al reale nella sua totalità. In Petrolio
l'ipotesto dantesco viene ripreso nuovamente per dimostrare gli effetti deleteri della società
dei consumi mentre a livello strutturale viene presentato con una disposizione dei materiali
caotica e irrisolta. Qui il rimando dantesco, svuotato del valore ideologico, mantiene un valore
puramente estetico.
Vediamo quindi nelle tre riscritture in prosa dell'Inferno, seppur in modalità diverse, un
aspetto che ricorre: il tentativo da parte di Pasolini di forgiare una espressività linguistica
composta da più livelli e l'impossibilità di realizzare questa sua intenzione. L'opera di Dante,
nelle riscritture pasoliniane, sopravvive solo in funzione di un paradigma sempre presente ma
che in nessun modo può essere recuperato o imitato.
In particolare dall'analisi de La Mortaccia emergono alcuni elementi interessanti in
prospettiva dantesca, in particolare la resa della cornice onirica del poema dantesco nel
passaggio dalla prima versione dattiloscritta a quella edita. Questi aspetti, permettono di
rivalutare questo testo come una tappa specifica della sperimentazione dantesca di Pasolini,
nel periodo realistico gramsciano-continiano, degli anni Cinquanta.
111
APPENDICE
Questa sezione contiene le riproduzioni delle due pagine cassate da Pier Paolo Pasolini dalla
prima versione dattiloscritta de La Mortaccia, che corrispondono alle carte 3 e 4 dell'inserto 5
contenuto nella Cartella Alì dagli azzurri, conservata nell’Archivio Contemporaneo
“Alessandro Bonsanti” del Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze. La prima metà della carta 3 è
stata trascritta nella sezione Note e notizie sui testi, dedicata a La Mortaccia, del secondo
volume dei Romanzi e Racconti. La parte rimanente della carta 3 e la successiva carta 4 sono
state trascritte integralmente e divulgate per la prima volta nel presente lavoro di tesi.
(Per gentile concessione di Graziella Chiarcossi, erede del “Fondo Pasolini”, e di Gloria
Manghetti, direttrice dell'Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto G.P.
Vieusseux di Firenze)
112
Carta 3
113
Carta 4
114
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sotto la direzione del rev. p. Bonaventura Mariani delle Università pontificie di Propaganda
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opere/Enciclopedia_Dantesca
124
RINGRAZIAMENTI
L'esperienza di questo lavoro di tesi è stata senza dubbio una delle più corali e condivise della
mia vita. Ci tengo particolarmente a dedicare queste poche righe a tutte le persone che mi
hanno accompagnata alla conclusione del mio percorso universitario.
Ringrazio di cuore il professor Giuseppe Ledda per essere stato il mio punto di riferimento in
questi anni. Anche questa volta con la sua guida paziente e saggia una delle mie idee
strampalate ha trovato compimento. Se nella vita ho avuto un “maestro fatto per essere
mangiato” è proprio lui.
Ringrazio il professor Marco Antonio Bazzocchi per il confronto sempre costruttivo e per i
consigli. Ringrazio il professor Andrea Dini per la disponibilità e la gentilezza con cui si è
prestato, nonostante la distanza transoceanica, alla collaborazione e allo scambio d'opinioni.
Ringrazio la dottoressa Gloria Manghetti, direttrice dell' Archivio Contemporaneo
“Alessandro Bonsanti” del Gabinetto G.P. Vieussex di Firenze, e la professoressa Graziella
Chiarcossi, erede del Fondo Pasolini del Gabinetto Vieusseux, per avermi permesso di
consultare le carte pasoliniane e di conseguenza di aver potuto dare luce a questo lavoro.
Ringrazio inoltre per la disponibilità e la gentilezza i responsabili del “Centro Studi-Archivio
Pier Paolo Pasolini” della Biblioteca Renzo Renzi-Cineteca di Bologna, la cui collaborazione
è stata preziosa per lo svolgimento di questa tesi.
Ringrazio i miei genitori Anna e Gianni. È un privilegio e una fortuna essere vostra figlia e
spero tanto di avervi resi fieri della giovane donna che sono diventata. Ringrazio poi tutta la
mia famiglia per il supporto costante in questi anni. In particolare ci tengo a ringraziare
Cecilia per essere l'altra faccia della mia stessa medaglia, sono una cugina fortunata.
Grazie alle mie amiche Cristina, Giovanna e Carmen per avermi supportata e sopportata in
tutti questi anni, siete il mio centro di gravità permanente. Grazie a Francesca per la vicinanza
nella distanza, che non mi hai mai fatto mancare. Ringrazio le mie amiche Elena, Alessia,
Martina e Sara, aver vissuto questi anni universitari insieme a voi è stato bellissimo.
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Ringrazio tutti gli amici e i bibliotecari della Biblioteca “Ezio Raimondi” del Dipartimento di
Filologia Classica e Italianistica dell'Università di Bologna e della Biblioteca Comunale
“Norberto Turriziani” di Frosinone. Queste pagine portano anche le vostre tracce materiali e
non, vi voglio un gran bene.
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