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STANZA 6 ( verso 50-60) si svolge in paradiso, dio rimprovera Guinizzelli per questo amore per la sua
donna, raccontato attraverso un ricorso di similitudini.
- Donna , un giorno dio mi dirà , essendo la mia anima davanti a lui ( quando sarò morto ) ,
che presomisti come ti sei permesso ( dio rimprovera ik poeta )
- ( ora parla dio ) Hai attraversato i cieli e sei giunto fino a me
- E mi hai sostituito ( tu poeta) con un amore sbagliato basato sulle apparenze
- Poiché le lodi , conven si adattano , soltanto a me
- E alla Madonna che regna sul regno del paradiso
- Per cui cessa ogni male
- Io potrò dirgli a dio : ‘ sembrava un angelo che venisse dal paradiso
- Non ho commesso nessun errore se ho posto amore in lei
Rivendicazione della donna in quanto realtà terrena bella. La donna angelo non esiste. Amore che si
inserisce nel sistema della filosofia naturale dell’amore, amore come macchina del cosmo. Questa canzone
manifesto, l’immaginario del paradiso che avrà una strada lunga nella poesia d’amore delle origini.
SONETTO Guinizzelli 15 versi endecasillabi , schema rimico ABAB nelle due quartine; nelle terzine
schema rimico CDE. In Jacopo da Lentini le quartine erano uguali AB AB , le terzine erano CDCD, sono
diverse da questo testo. Questo sonetto fu aspramente criticato, il giglio e la rosa sono elementi
iconografici della madonna, ed è come se essa fosse assimilata alla Madonna. In alcuni testi si accusa
Guinizzelli di aver avvizzito la donna paragonando ad elementi naturali.
QUARTINE
- Io voglio in verità lodare la mia donna
- e assimilare la rosa e il giglio
- Risplende e si ,manifesta pare (idea della rivelazione, ierofania , la manifestazione del
sacro)
- Piu che la stella Diana ( il pianeta venere , la steella del mattino )
- Io somiglio assimilo,a lei tutto ciò che lassù in cielo è bello
- Io a lei ,rasembro ’assimilo, un prato verde e l’aria
- E tutti i colori dei fiori, il giallo e il rosso
- L’oro e l’azzurro e ricchi molini (pietre preziose)
- Lo stesso amore per lei si raffina meglio. ( le quartine sono tutte similitudini, la donna viene
assimilata a cose belle ,ma di diversi regni naturali.)
TERZINE tema della passeggiata della donna per strada
- Passa per strada e così nobile
- Che abbassa l’orgoglio a tutti coloro a cui dona, salute si tratta del saluto,ma porta con
sé anche l’idea della salvezza e del benessere ( rende felici coloro a cui dona il suo saluto)
- E llo rende della nostra fede se non crede nella nostra religione
- Non le può avvicinare un uomo che sia, vile nella tradizione è il plebeo, ma ora è colui
che non è nobile, che non s’innamora ( rima vile- gentile, in contrapposizione)
- Ha una grande virtù
- Nessun uomo può pensar male finché non la vede
Usciamo da una dimensione cortese per spostarci in una dimensione virtù. Tutti gli uomini quando la
vedono hanno pensieri malvagi
BONAGIUNTA ORBICCIANI,Guido Guinizzelli l’uomo che Dante incontra nel purgatorio e parla del dolce
stilnovo. Dante nella commedia fa dire a Orbicciani che lui ha rotto la storia della poesia lasciando tutti
indietro. Orbicciani è della scuola di Guittone in forte contrasto con Guinizzelli. Quest’ultimo è talemtne
importante che in purgatorio Dante lo incontra e lo chiama ‘Padre mio’, dice di essere un suo figlio poetico.
( grande riconoscimento ) . Dante lo incontra tra i lussuriosi , dove hanno peccato di erotismo. Lussuria
poetica , aveva dedicato le proprie lodi a una donna e non a dio. Bonagiunta viene scelto come persona che
riconosce l’eccellenza di dante.
Attacco poetico via sonetto, in modo elegante. È un attacco a Guinizzelli :
- Voi che avete cambiato il modo di fare poesia d’amore ( bonagiunta riconosce un
innovazione in Guinizzelli)
- Per essere più bravo di ogni altro poeta
- (verso 1Non) si può trovare chi ben la esponga
- Da tanto parlate scuro ( difficile da capire, perché troppa filosofia)
Guido cavalcanti
Leggerezza dello stile,poeta eccezionale ,riso spinto per via di Dante il quale lo definisce come il suo primo
amico. Ci spostiamo a Firenze, città importante in quel periodo. Cavalcanti appartiene a una nobile famiglia
di Firenze, è ricco e aristocratico , Dante fa l’amico povero. Cavalcanti è anche un filosofo, è entrato nella
storia della letteratura come personaggio, ci sono una serie di novelle in cui viene descritto come il classico
filoso con la testa fra le nuvole. Novella in cui Cavalcanti viene descritto quando gioca a scacchi ed è
talmente concentrato che un giovane lo inchioda. ( ridicolizzazione del filosofo). Nel decameron di
Boccaccio viene citato in una novella : Cavalcanti bello e aristocratico s’aggira in un cimitero, I popolani di
Firenze dicono che sta cercando di mostrare che dio non esiste e l’anima muore. La brigata lo ridicolizza, ma
cavalcanti li ‘ insulta’. Boccaccio lo descrive in altro modo. Cavalcanti in poesia segue una scuola filosofica
molto particolare, l’averroismo, ‘Donna me prega’ canzone , trattato in versi di filosofia averroistica o
aristoclismo radicale. Aristotele viene letto attraverso dei commentatori , ma essi possono indirizzare
aristotele in direzioni completamente diverse , ad esempio possiamo avere Tommaso d’Aquino,grandissimo
commentatore di Aristotele in direzione cristiana. Averroismo viene da un filoso arabo Averroè , talmente
importante chg Dante nella commedia lo mette nel limbo, Date lo definisce come ‘colui che fece il grande
commento’ ad aristotele. L’averroismo dice che l’anima è mortale , none siste un’anima immortale e non
esiste un dio individuale, dio è l’insieme dell’intelligenza Cosmica. Quando si muore l’anima perde la
propria individualità. Ciò che un cristiano chiama anima viene vista da cavalcanti e Averroè un sistema
fisiologico che si interrompe.
Cavalcanti passa alla tradizione come un personaggio strano tenebroso, dedito alla filosofia e ai pensieri
sulla morte, nonché ateo. In filosofico cavalcanti segue la scuola dell’averroismo o aristoclismo radicale. Il
centro di questa rappresentazione aristotelica è l’anima , non eterna , ma un interpretazione medico-
fisiologica. Nel pensiero medioevale ci sono tre anime, l’anima vegetativa ,animale e razionale. Nel pensiero
cristiano queste anime sono correlate fra loro, sono tre funzioni di un anima. Queste tre anime sono
connesse da funzioni fisiologiche , degli scambi neuronali: cose che in cavalcanti e nel pensiero medievale
vengono chiamati spiritello, che permette alle tre anime di essere collegate. Questi eidola, che si collega
alle nostre immagini si depositano in noi, nel nostro cuore, per l’aristoclismo radicale queste immagini
hanno un effetto: vanno ad inibire i collegamenti fra queste tre anime. L’amore per Cavalcanti e
l’aristoclismo non è un esperienza positiva , va a inibire questi collegamenti, provoca uno svuotamento
dell’anima, al punto che può portare alla morte. La donna non è più vista come nella poesia delle origini,
che nobilita l’uomo
SONETTO di Cavalcanti
Voi che per li occhi mi passaste ’l core voi : si riferisce alla donna con un tono di rimprovero
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore.
E’ vèn tagliando di sì gran valore, e amore arriva di cosi grande violenza
che’ deboletti spiriti van via: che gli spiritelli fuggono
riman figura sol en segno in mio controllo
e voce alquanta, che parla dolore.
Questa vertù d’amor che m’ha disfatto questa capacità
10 da’ vostr’occhi gentil’ presta si mosse: qualcosa che parte per colpire
un dardo mi gittò dentro dal fianco.
Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto, in modo diretto e forte
che l’anima tremando si riscosse che l’anima si risvegliò tremando
veggendo morto ’l cor nel lato manco. vedendo il cuore ucciso dal lato sinsitro
È cambiato lo schema rimico rispetto a quello delle origini ora è ABBA ABBA. Il sonetto si è aperto, da un
punto di vista sintattico è meno bloccato. La metrica è parte integrante del sistema del testo. Più linearità
rispetta alla poesia delle origini lì ,vincolata dalle rime, maggior è linearità sintattica e immagine che parlano
di un diverso tipo di concezione d’amore filosofica-medica.
- Voi donne che attraverso gli occhi mi siete arrivati al cuore l’idea dell’innamoramento
che passa attraverso un riferimento fisico-ottico, la micro-immagiine della donna che
attraverso gli occhi entra e si deposita nell’uomo producendo quegli effetti negativi di cui
parlavamo prima. Idea dell’attacco della donna che vedremo dal lessico
- E avete risvegliato la mente che dormiva
- Guardate la mia vita angosciosa che amore distrugge
- Facendola sospirare
SECONDA QUARTINA
- Amore arriva di così grande violenza che gli spiritelli fuggono immagine di guerra e
violenza, di fuga dei proprio spiriti
- In mio controllo rimane soltanto la figura rimane verbo che regge tutto
- E la mia voce poetica che esprime dolore
PRIMA TERZINA
- Questa mia capacità di amore che mi ha distrutto disfatto le tre anime
- Partita infretta dai vostri occhi nobili
- Il colpo fu così diretto e forte
- Un dardo mi colpi al fianco
- Che l’anima si risveglio tremando
- Vedendo il cuore ucciso del lato sinistro
SONETTO
Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, citazione dal cantico dei cantici, testo biblico ed erotico
che fa tremar di chiaritate l’âre tremar : tradisce un senso di paura dell’uomo è l’entità superiore
e mena seco Amor, sì che parlare mena: portare
null’omo pote, ma ciascun sospira?
O Deo, che sembra quando li occhi gira,
dical’Amor, ch’i’ nol savria contare: dical: prendilo/dimmelo/dammelo/lo dica
cotanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira.
Non si poria contar la sua piagenza, poria: condizionale
ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute, virtù : capacità
e la beltate per sua dea la mostra. mostra si ricollega al mostrum, al prodigio che spezza la quotidianità
Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute, salute: salvezza
che propiamente n’aviàn canoscenza.
Questo sonetto è una sorta di monologo interiore. La prima quartina è una domanda retorica fatta
interiormente. Comincia con una domanda che produce stupore. Il lettore percepisce questo testo da un
contenuto erotico, forte e ricco di suggestioni. Immagine ancora della donna che cammina per strada,
dell’uomo che vede arrivare la donna di fronte a se, elemento tipico della poesia delle origini la donna che
arriva
- Chi è questa donna che sta arrivando, che ogni uomo la guarda( con stupore) om forma
francese che serve a fare l’impersonale. MIRA etimologia che deriva da miraculos,
stupore davanti a qualcosa di sorprendentemente bello
- Che (soggetto) fa tremare di luminosità l’aria ci ricolleghiamo alla filosofia, l’uomo ha
paura
- Porta con sé amore così che nessun uomo può parlare ,ma può sospirare l’immagine
della donna ha inibito le funzioni fisiologiche e non si riesce più a parlare. Per Cavalcanti
questa donna ha alcuni tratti della donna angelo,ma è una donna che annienta.
- Oh dio che cosa significa quando gira gli occhi ( si guarda attorno) si interrompe la fissità
- lo dica amore, poiché io non lo saprei raccontare( la bellezza di questa donna io non sono in
grado di dirla,deve dirlo amore) secondo elemento di negatività , l’uomo non riesce a
poralre
- sembra una donna umile che ogni altra al suo confronto io la definisco ira
TERZINE iniziano con non , chiamate anafore. Abbiamo già trovato nelle quartine questi elementi di
negatività, la figura femminile ha degli effetti negativi di inibizione del sistema fisiologico , è importante
dire dell’anafora perché al posto di avare una figure femminile che nobilita
- non si potrebbe contare la sua bellezza
- ogni virtù (capacità di fare qualcosa ) di fronte a lei cede
- e la bellezza stessa dice questa donna è la mia espressione mostra si ricollega a mira,
qualcosa di superiore
- la nostra mente non è mai stata così profonda
- e non è stata posta in noi tanta salvezza elemento negativo
- che possiamo averne conoscenza di lei e della sua bellezza
l’idea è quella del limite del l’uomo che viene manifestato a pieno della figura femminile, effetto opposto di
ciò che dirà Dante. Sonetto dedicato al passeggio della donna pe strada abbiamo vertute e salute,
collegamento al testo precedente. Cavalcanti ribalta l’uso che Guinizzelli da a quelle parole, la salute è la
salvezza, in negativo.
Cavalcanti riecheggia le canzoni dell’oltremare,il modello tipico che scrive la canzone struggente d’amore ,
per la donna, poiché non tornerà mai a casa. Sono modelli letterari.
In questa ballata modula l’idea dell’amore da lontano. Giocata sul dialogo con elementi, sta parlando alla
ballata. Tema dell’amore tragico. All’ultima stanza cavalcanti si rivolge alla propria voce. Il dialogo di
Cavalcanti con elementi interiore, un suo tratto tipico, l’aspetto importante è il dialogo interiore, mostra la
propria anima come un palcoscenico interiore. Primo caso di vera e propria analisi interiore della poesia
DANTE
Esordisce sulla scena fiorentina, nell’epoca di cavalcanti. Figura la storia dell’amore per Beatrice , figura
storica. Si innamora di lei quando ha 9 anni fanciulla muore presto e qui Dante decide di costruire la
propria storia. La Vita Nova che racconta questo amore giovanile è più tarda 1291/92.
Vita Nova
Testo rivoluzionario canzoniere siamo difronte a un testo poetico che si presenta come storia continua
diacronicamente seguibile con l’amore. Fino a Dante abbiamo semplicemente testi singoli. Con Guittone
non sono testi singoli che raccontano una storia, questo nasce con dante, un sonetto che ha una fine e un
inizio. Dante raccoglie i testi che aveva scritto dall’incontro con Beatrice fino a quel momento ( e anche
qualche testo non l’aveva scritto per Beatrice ) li dispone in modo da costruire il racconto di una storia
d’amore, dall’inizio alla conclusione, questi testi li lega con una prosa. Da un punto di vista formale la Vita
Nova si definisce un prosimetro un testo che presenta prosa e metro,cioè verso. I prosimetro precedenti
erano in latino, la Vita Nova è il primo in volgare.
Queste parti di prosa hanno funzioni diverse, soprattutto tre:
1. raccontano la vita
2. spiega come è nato un teso, ne da la causa
3. lo commenta, si autocommenta
Dante sta riutilizzando le vidas,le vita, le biografie dei trovatori. Estremamente romanzata. Vite romanzate.
Le razos,le ragioni, perché il poeta ha scritto questa specifica canzone e cosa vuol dire? Il lettore dell epoca
quando prende in mano la vita Nova, si accorge che Dante ha preso degli elementi precedenti e li ha
rivoluzionati.
VITA NOVA espressione latina, che vuol dire vita giovanile , ‘La mia vita giovanile’. Novità, vita rinnovata
dall’amore per Beatrice. Macro testo
CAPITOLO 1 proemio al testo. Incipit giocato sulla metafora della scrittura, della copiatura del
manoscritto. Cioè Dante dice ‘ la mia memoria è un libro, il libro della mia memoria’, il libro che tu lettore
hai nelle mani è la trascrizione di quel libro della sua memoria. Dante fonda il rapporto tra vita e
letteratura, è un testo autobiografico, ma letterario che lui ha fatto. Ricordi della propria vita solo da un
certo momento in poi, Dante dice che quando nel libro della memoria i ricordi cominciano a infittirsi si
trova una rubrica, la sua inzia con incipit Vita Nova, qui comincia la sua vita giovanile e anche qui comincia
la sua vita rinnovata dall’amore. Dante fa un operazione letteraria . Rapporto tra autobiografia e
narrazione
CAPITOLO 2 inizio della narrazione. Incontro con Beatrice.
Dante dice che aveva nove anni quando incontra Beatrice,ma non ce lo esplicita. La prima parola del
racconto e 9 nonché numero sacro, poiché è tre ( trinità ) alla seconda. Sotto la creazione di dio c’è un
sistema matematico,dio è matematico. Dante dice che la nostra vita è calcolabile, ma dio non può essere
misurato. Ogni cosa nel mondo è un numero, tutto è numero nel mondo. Anche Beatrice è un numero, lei
è il 9, la trinità per sé stessa. Dante da una definizione della proprietà, su una base astronomica dice che il
sole era tornato quasi nello stesso punto nove volte, erano passati nove cicli solari , anche se lui e lei ne
avevano 8, ma ha costruito le date in modo da dire quasi nove. La donna , vuol dire domina , la padrona
della sua mente, in Cavalcanti è colei che devasta, in Dante è colei che guida una mente razionale. Lei non
si chiama Beatrice, all’anagrafe si chiama Bice. La chiamavano Beatrice non sapendo quale fosse il nome
perché lei era una Beatrice, quella era la sua essenza. Si usa un senahl, per occultare l’identità, che ha
cambiato senso, rivela un’identità più profonda.
Beatrice ha appena compiuto otto anni. Qui Dante si basa sulla precessione degli equinozi per Beatrice,
fenomeno astronomico raffinatissimo, richiede dei calcoli complicatissimo , Beatrice viene riportata su una
base astronomica,sul cosmo e su una base fortemente intellettuale. Beatrice è un entità inviata dall
paradiso e solo la matematica la può comprendere. Per Dante è la dimensione intellettuale.
2/03 lezione 6
Dante usa un verso dell’iliade ‘ella non pareva figliuola d’uomo mortale, ma di Deo’ Dimensione
Cristologica di Beatrice, inviata celeste. L’intera vita Nova sarà un testo sacro dedicato a Beatrice.
CAPITOLO XIX secondo incontro
Incontro con Beatrice dopo 9 anni. Dante scriverà altre poesie per altre donne cercando di celare il proprio
amore verso due donne che potessero schermare il suo amore per Beatrice,che arriverà al punto di
togliergli i saluto ( per Dante è salvifico)in Guinizzelli e cavalcanti è importante . Momento per Dante in cui
decide di scrivere poesie senza alcuna speranza di cambio da parte di Beatrice ‘ poesia della lode’, laude in
senso religioso per Guinizzelli, gioia della poesia.
Dante cammina in riva a un fiume. Questo testo ha come destinatario le donne, coloro non gentili e che
non sono pure femmine. Fin da Guinizzelli il termine gentile che rimanda alla nobiltà è importante, non più
politica ma interiore, solo le donne nobili interiormente sono in grado di comprendere l’amore di Dante.
Scelta semplice e in volgare perché le stesse donne lo possano comprendere
Donne ch’avete intelletto d’amore canzone lunga. Qui sono presente due prime stanze. Ricostruire la
disposizione naturale delle parole nella prosa,anche se in poesia alcune parole possono essere a distanza
diverse. Nella parafrasi non si va a capo.
PRIMA STANZA
- Donne che avete conoscenza dell’amore ,
- Io voglio parlare con voi della mia donna ,
- Non perché io creda di poterla lodare pienamente
- Ma voglio ragionare ( tutto ciò è sempre retto mal i’vo ) per sfogare la mente
- Io dico che pensando al suo valore
- Sento con tanta dolcezza l’amore
- Che io se non perdessi il parlare
- Farei innamora la gente
- E io non volendo parlare
- Che io poi per timore di non portare termine la lode
- Io perdessi il coraggio
- Ma io tratterò la sua nobilita
- In maniera semplice rispetto a quanto lei lo è vermanete con voi
- Donne e donzelle,poiché la sua nobiltà non è cosa da parlarne con altre persone
SECONDA STANZA
- Un angelo di fronte a dio si lamenta
- E dice ,signore giù sulla terra sii vedono le azioni meravigliose
- Di un’anima che risplende fin quassù
- Il cielo che non ha nessuna mancanza
- se non quella di non avere lei ,la chiede
- E tutti i santi chiedono la grazia
- Soltanto l pietà difende la parte di noi uomini
- Che dio parla che conosce Madonna
- O adorati adesso sopportate in pace che Beatrice
- sia per tutto il tempo che a me piace
- la dove c’è qualcuno che si aspetta di perderla
- E che nell’inferno dirà o dannati io ho visto la speranza dei beati
Questo è un testo fondamentale nella storia della poesia di Dante è nelle letteratura italiana . Due episodi
importanti che c’è lo dicono, il primo è un trattato di Dante il ‘De vulgari eloquentia’, che tratta di metrica e
stilistica ,DANTE indica questa canzone esemplare nel genere nobile, viene individuata come parametro di
riferimento e suo testo esemplare.
Il secondo episodio si svolge nel purgatorio. Dante incontra il poeta bonagiunta orbicciani, della vecchia
scuola, lui chiede a danti se sia veramente lui, per farlo trova una formula un po lunga ‘ tu sei colui che ha
innovato la poesia donne ch’avete e intelletto d’amore ‘. Dante indica in questa canzone un testo
rivoluzionario.
COMMENTO PRIMA STANZA Questa canzone è tutta in soli endecasillabi, è il segno di un eccezionale
livello stilistico/nobiltà. Il primo verso è fondamentale perché contiene tre termini donne- intelletto—
amore, donna ovvero Beatrice come figura centrale, amore come le poesia che per Dante è un elemento
salvifico, intelletto perché l’amore di Dante per Beatrice è un’amore nel segno della ragione non irrazionale
ma all’insegna dell’intelletto. Si riferisce a delle donne che hanno una conoscenza razionale dell’amore, che
amano secondo la ragione, dicitura importante. Questa canzone si presenta come una lode, Dante dice
che vuole parlare con le donne della sua donna, non con la speranza di completare la lode. Comincia la
poesia della lode come termine tecnicamente religioso per una donna terrena. Tema del coraggio, in
contrapposizione con la viltà , problema importante perché quando nel secondo canto dell’inferno Dante
dirà di non essere degno di fare questo viaggio ultraterreno, Virgilio lo accuserà di peccare di viltà.. quel
viaggio è voluto da dio e da Beatrice. Il tema coraggio / viltà colloca questa canzone nel rapporto tra uomo
e divino. Il punto del fare poesia non difficile, Dante dice che non sarà una canzone alta né dal punto di
vista stilistico né filosofico. Con Guittone abbiamo visto la sua poesia difficile, mentre questo è dolce stil
novo,una poesia facile, polemizza anche con quella di cavalcanti una poesia filosofica complessa, anche in
Dante c’è una filosofia ,ma più facile. Questa canzone è una sorta di dichiarazione, un manifesto di un
nuovo modo di fare poesia. La prima parola è donne, ma donna come invocazione è anche nella canzone
manifesto di guido cavalcanti Donna me prega, due testi manifesto che cominciano con l’invocazione
donna, contrapposizione evidente. Tratterò : parola del linguaggio filosofico è una trattazione filosofia
dell’amore , o meglio della nobiltà di Beatrice e sarà comunque una trattazione filosofica semplice, Dante
parlerà della nobiltà di Beatrice in maniera superficiale rispetto a quanto è veramente nobile; altro aspetto
che rimanda al divinino poiché dio è in commisurato, dio non può essere totalmente espresso. Questa è
una cosa che Dante dirà alla fine del paradiso, lui non è riuscito a comprende e descrivere la visione che ha
avuto. Altro collegamento tra Beatrice e dio.
COMMENTO SECONDA STANZA SI svolge in paradiso, sonetto di Jacopo da Lentini o stanza del cor gentil
in cui il poeta si strrova di fronte a dio. Qui siamo al termine di quel percorso. Abbiamo l’angelo e dio che
viene espresso tramite l’astrologia. Tutti gli angeli o le intelligenze angeliche contemplano dio, il divino
intelletto, un dio u cosmo completamente intellettuale. Il primo verso di entrambe le stanza comincia
con intelletto. Questo angelo di fronte a un dio che è puro intelletto svolge il ruolo di pubblico ministero, di
accustaore,, si lamenta, ‘clama’ indica una richiesta, ovvero che Beatrice muoia, perché dal paradiso in fin
quassù si vede la maraviglia di Beatrice ( qualcosa che rimanda al miracolo) in un atto che procede d’un
anima che risplende fino a quassù, procede si usa per la trinità, l’atto di Beatrice procede dalla sua anima, il
paradiso richiede Beatrice perché è l’unica cosa che manca alla sua perfezione. Per la concezione mediale I
tempi saranno conclusi quando anche l’ultimo scranno del paradiso sarà beato. Dire che al paradiso manca
Beatrice vuol dire dire che lei ha un ruolo nella storia dell’umanità ,con la morte di Beatrice comincerà la
fine dei tempi, accenno alla morte di beatrice. Se l’angelo è il pubblico ministero, il pubblico difensore è
la pietà, la madonna è l’avvocata nostra, difende gli uomini di fronte a dio. La pietà parla a favore degli
uomini, che di Madonna intende, ci colleghiamo etimologicamente a intelletto, solo dio comprende
veramente beatrice, gli uomini non sono in grado. Dio dice ai suoi beati, amati miei aspettate che Beatrice
colei in cui sperate resti sulla terra quanto mi piace. Beatrice viene concessa da dio alla terra dove c’è
qualcuno che si aspetta di perderla. Questi ultimi ddue versi sono abbastanza ambigui, qualcuno dice che è
un vero preannuncio della divina commedia. Dante all’altezza della vita Nova sapeva già che avrebbe scritto
la divina commedia. Ipotesi che colui che sarà all’inferno sarà un uomo come tanti, vissuto nella Firenze
dell’epoca e un giorno potrà dire agli altri dannati di aver visto Beatrice , idea di lei come salvezza degli
uomini che però non colgono l’occasione.
CAPITOLO XXVI
Tanto gentile e tanto onestà pare sonetto di Dante
Il più importante, Dante dice che è un sonetto facile, però uun critico nota che ogni parola vuole dire una
cosa diversa da quella che sembra significare.
- La mia donna si manifesta tanto nobile spiritualmente e ricca di grazia
- Che quando saluta altri uomini ogni lingua ammutolisce per timore
- E gli occhi di coloro che sono presenti non osano, guardarla
- Lei procede ascoltando le lodi che le sono rivolte
- adornata di umiltà
- e si manifesta come un’inviata del celo sulla terra
- incaricata di produrre un miracolo
- si manifesta così bella e leggiadra a chi la guarda
- che attraverso gli occhi da al cuore una dolcezza
- che non la può comprendere chi non la prova
- e è evidente che dal suo volto ssi muova
- uno spirito soave e pieno d’amore
- che dice all’anima : sospira.
Gentile è diventato la nobiltà spirituale; onestà che non ha nulla a che fare con quella odierna, è un modo
decorso ed elegante di presentarsi. Pare non vuol dire sembra, vuol dire manifestarsi. Nella lingua delle
origini vuol dire rivelarsi, nei vangeli gli angeli appaiono. È molto marcato l’idea dell’inviata celeste. Siamo
di fronte all’ennesimo caso dei sonetti della passeggiata,dedicata alla passeggiata per strada. La lingua
ammutolisce col tremore, Dante quando nel purgatorio incontrerà Beatrice, tremerà.
Benignamente d’umiltà vestuta vestuta rimanda al linguaggio della bibbia, è l’abitus latino, un
comportamento che si assume. L’umiltà noi l’abbiamo vista in cavalcanti in contrapposizione con l’ira.
Lei si manifesta come tale, come un inviata. È un ente inviato dal cielo sulla terra per mostrare il miracolo,
sono due termini forti, noi sentiamo dentro la parola mostro , ma il monstrum nel latino è il prodigio, quindi
mostrare vuol dire manifestare qualcosa di prodigioso. E miracolo è collegato al guardare con meraviglia, a
mirare. Beatrice è prodigio celeste che è giunto sulla terra per compiere qualcosa di meraviglioso. Se
guardiamo il primo verso delle terzine troviamo che la parola mostrare che chiudeva le due quartine è
anche la parola mostrarsi che apre le due terzine. La penultima parola delle quartine, miracol, ritorna
etimologicamente nella prima parola delle terzine. L’importanza del mostrarsi prodigiosamente e del
miracolo. Dante sta creando volutamente un collegamento con Guinizzelli per inserirsi in quella tradizione,
ma per manifestare anche la nuova dimensione del suo sonetto.
Attraverso gli occhi passa una dolcezza nel cuore, con cavalcanti passava una ferita, ora il cuore prova
dolcezza. E par ideaa della manifestazione, dal suo volto si muove uno SPIRITO, altra parola tecnica
usata da cavalcanti ma che qui viene riletta in un senso nuovo, più spirutale, uno spirito pieno di amore
soave che dice all’anima sospira, il tema dello spirito santo, tutto ciò si collega a linguaggi alti e a una forte
marcatura religiosa.
Introduzione del nuovo genere, il romanzo d’amore. Beatrice dopo la vita Nova muore, sono presenti
alcuni indizi nella vita Nova stessa. Dopo il secondo incontro tra Dante e Beatrice a 18 anni, dopo 9 anni,
Dante ha un sogno che ha degli elementi che preannunciano la morte di Beatrice. Dante si ammala ha una
forma di delirio e vede di nuovo la morte di Beatrice, una morte che sconvolge la natura, come la morte di
cristo. Muore anche il padre di Beatrice nella vita nova. Dante aveva indicato le età sua e di Beatrice
attraverso delle indicazioni astronomiche, così fa anche per la morte, quella di Beatrice viene indicata
attraverso un combinato del calendario crsitiano, arabo e siriaco, Dante può dire che Beatrice è morta il
nono giorno,del nono mese del 1290. Trionfo del numero 9, ma anche i tre calendari servono per conferire
alla morte di Beatrice un valore universale. La morte di Beatrice non è l’ultimo episodio della vita nova,
Dante in primo luogo viene consolato da una donna gentile (Beatrice è la gentilissima). Per ella Dante scrive
dei testi poi inseriti nella vita nova. Un giorno Dante ha una visione , alla nona ora del giorno, in cui vede
Beatrice vestita come la prima volta che la vide, inducendolo a pensare nuovamente a lei e a distaccarsi
dalla donna gentile, di cui provava un malvagio desiderio. Dante a questo punto si proietta verso l’eterno
pensiero per Beatrice. L’ultimo testo poetico della vita nova ‘ Oltre la spera che piu larga gira’ la spera
più ampia del cosmo, la dimensione astronomica, teologica, cosmologica, in questo sonetto Dante vede
Beatrice in paradiso, sonetto che ci collega al nostro inizio di percorso.
CAPITOLO XLII finale. Dante ha una mirabile visione, la vita Nova è ricca di questi momenti. È piena di
canali che si aprono tra la dimensione terrena e paradisiaca. Dante già pensava ad una grande opera
dedicata a Beatrice. Dimensione di dio come centro dell’universo. Finale quasi apocalittico, cupo ‘ e quando
io avrò composto quest’opera in cui io parlerò di Beatrice in maniera come nessuno ha mai fatto, allora io
potrò morire’. Lui potrà vedere Beatrice nella gloria e la guarda attraverso colui che è benedetto nei secoli
dei secoli. Sceglie di chiudere un testo volgare in latino, cosa importante poiché troviamo un innalzamento
della lingua con l’utilizzo di quella sacra del vangelo. Dimensione mortale forte inn questo testo, Dante si
sbaglia perché prima della morte vedrà Beatrice nella gloria del paradiso ,nel finale della commedia.
RIME raccolta di tutti i testi sparsi di Dante, alcuni sono dell’epoca della vita nova, alcuni precedenti o
successivi. Tutto ciò che è rimasto di Dante viene raccolto in questo titolo RIME.
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io testo giovanile e semplice
Guido io vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi quasi per magia, e messi in una barchetta che andasse per
il mare ad ogni vento secondo la vostra e mia volontà, cosi che una tempesta o altro cattivo tempo non ci
potesse dare nessuno ostacolo, anzi vivendo sempre accumunati da un unico desiderio, di stare insieme.
E monna vagia e monna Lagia e poi con quella donna che ha il numero trenta il buon mago mettesse
insieme a noi, e qui su quella barca potessimo parlare sempre d’amore e ciascuno di loro fosse contenta
come credo che saremmo contenti anche noi.
Testo leggero, il primo verso presenta la scuola stilnovistica, Guido come cavalcanti ,Lapo come Gianni e
dante stesso. Sta presentando la Jones d’ore della Firenze dell’epoca, giovani poeti certi della propria
qualità poetica, belli e allegri. Nota doverosa da quella V della vita nuova. L’auspicio è quello di essere
preda di una magia, al verso due abbiamo l’incantamento e al verso 11 abbiamo il buon incantatore, un
mago buono che può creare una navicella incantata che si muove secondo la volontà dei suoi passeggeri.
Dante sta pensando a mago merlino, al ciclo arturiano e bretone, ricchissimo di magia, dove ci sono navi
incantate come quella che porta Artù morente verso Avalon. Clima da romanzo d’amore ,arturiano. Questa
barca non può essere ostacolata dalle tempeste, immagine gioiosa di una spensierata gioventù. Su questa
barca i tre giovani avevano il pensiero di stare insieme. Le quartine sono dedicate alle figure maschili. Nelle
terzine abbiamo le figure femminili primo verso due nomi e la triade, il primo verso delle terzine nomina
l’amante di guido e lapo, la terza figura femminile è nel secondo verso, che è sul numero delle 30. Dante
stesso nella vita nova ci dice che aveva scritto un sirventese per le belle donne fiorentine, a ogni donna
viene associato un numero particolare, il 30 non può essere associato a Beatrice. Uno dei tanti casi di
poesie d’amore scritte per donne che non sono lei. Tutti e sei parlerebbero sempre d’amore su questa
barca, questo ‘ragionar d’amore’ è ricco di ammiccamenti, coloritura mondana. Su questo testo notiamo il
primo verso che si chiude con io e l’ultimo con noi, l’ultima parola del sonetto si contrappone all’io di Dante
e racchiude i tre. C’è una perfetta strutturazione che abbiamo visto anche nella ripartizione maschile e
femminile. I suoni delle rime sono importanti, abbiamo una rima in io, senza nemmeno una consonante e
poi la rima in oi, senza nemmeno una consonante; le vocali sono le stesse ma invertite, consuorano.
L’aspetto più important è l’assenza di consonanti all’interno di queste rime, vuol dire che sono rime facili e
dolci, però tutti questi versi hanno una grandissima musicalità. Un altro aspetto è la rima delle quartine in
-ento, nelle terzine -enta: c’è una continuità musicale. La terza rima delle terzine è incantatore d’amore,
-ore: rima più facile del mondo.
FORMA DELLA CANZONE (scheda in drive) la canzone è la forma nobile per eccellenza della lirica, ed è
rigorosamente teorizzato da Dante nel de vulgari eloquentia, Dante formalizzare la canzone, dopo di lui la
canzone non sarà più la stessa cosa, e dante crea le norme per la canzone, ma essa esiste molto prima di
dante, ha un origine provenzale ed è presente nella poesia delle origini: ‘al cor gentil’ è una canzone un po
particolare. Prima di Dante c’è un grande sperimentalismo, Dante taglia via tutte le forme anomale, e dopo
Dante la canzone viene formalmente regolata. La canzone è costituita da una successione di strofe o meglio
di stanze, ogni stanza è uguale a tutte le altre stanze della stessa canzone, nel senso che ha lo stesso
schema rimico e metrico, ciò significa che basta fornire lo schema della prima stanza e quello si applicherà
uguale per tutte le altre. La cosa importante è il ritmo del singolo verso e la rima, bisogna sempre
cominciare dalla rima, ricostruire lo schema delle rime.
Così nel mio parlar voglio esser aspro il primo verso è in A, il secondo in B, il terzo in b minuscola
poiché è un settenario, se uun verso è endecasillabo va la lettera maiuscola, se settenario minuscola. Il
verso quattro con C, e via dicendo..
- In questi primi otto versi troviamo due sequenze uguali ABbC ABbC , chiamate piedi, i due
piedi insieme costituiscono la fronte. Una canzone è composta da una sequenza di stanze
che hanno tutte lo stesso schema e ogni stanza è dipartita in una fronte e in una sirma,
ogni fronte si divide in piedi omologhi e con rime che li collegano, il primo piede collegato
al secondo da una rima. Non occorre che tutti i versi abbiano una corrispondenza nel
secondo piede , ma almeno una deve esserci. Questo caso è il più diffuso, ma non è
obbligato. Potremmo avere una fronte non divisibile, che non è possibile riconoscere due
elementi uguali e ripetuti
- La seconda metà della stanza si chiama sirma, ripetiamo la rima C, abbiamo D, e d
minuscolo poiché è un settenario, infine abbiamo due versi baciati che hanno la stessa
rima in comune e sono uno dopo l’altro EE. In questo caso la sirma non è divisibile, non
abbiamo due moduli uguali, sono cinque versi forma assolutamente dominante, ma
possono esserci casi in cui anche la sirma è divisa in volte. Il primo verso della sirma si
chiama concatenazio o chiave, perché collega la fronte alla sirma, cioè permette di avere
una continuità musicale, se non ci fosse si sentirebbe un distacco. Questa chiave è un
innovazione di Dante. Infondo abbiamo due versi baciati, combinazio, altra innovazione di
Dante.
È importante che lo schema sia uguale in ogni stanza, all’origine c’è una base musicale che si ripete
stanza per stanza, è inevitabile che la lunghezza del verso debba essere sempre uguale. All epoca di
Dante è necessario avere lo stesso ritmo i ognuna di esse. Le stanze possono essere illimitate,
tendenzialmente sono tra le 5 e le 7 stanze per ogni canzone. Una canzone è tanto più nobile quanto
più sono le stanze, perché la maggiore grandezza è segno di maggiore nobiltà, lo stesso equivale per i
versi e per gli endecasillabi maggior dimensione permette un maggior sviluppo del pensiero della
canzone, permette una maggiore libertà del periodo. Se ci sono tanti versi lunghi le rime sono più
lontane, è meno forte il vincolo della rima e il poeta a più margini nello sviluppo della canzone.
- Ogni canzone è conclusa da un congedo che non ha lo stesso schema delle stanze, è uun
elemento che si stacca. È il punto in cui il poeta si congeda dalla sua canzone, momento
formalizzato in cui il poeta chiarisce i destinatari, lo stile, l’argomento. Momento di
contrattualizzazione. Dante qui inizia con ‘canzon’ parla con la sua canzone e la manda
alla destinataria, alla donne che gli ha ferito il cuore. Per il congedo si utilizzano sempre le
ultime lettere dell’alfabeto, ci fa capire che quello è il congedo. Abbiamo XYyZZ ,lo schema
rimico è uguale allo schema rimico della sirma. Il primo verso di entrambi non ha una rima
all’interno della strofa.
Donne ch’avete intelletto d’amore è una canzone fondamentale, sotto l’aspetto stilistico e tematico.
Dante la porta ad esempio massimo della canzone di stile elevato, lui dice tragico, fatta solo di
endecasillabi, la stanza era lunga e perché non c’è un congedo ma un ultima stanza con funzione di esso
elementi che si iscrivono all’interno della categoria della grandezza.
Ha la fronte e la sirma, parliamo sempre di una stanza di canzone bipartita, la fronte a sua volta è divisa in
due piedi con schema ABBC ABBC, se guardiamo la sirma troviamo una sirma non divisa CDD CEE. La prima
particolarità è che questa canzone è solo in endecasillabi (solo lettere maiuscole), canzone molto alta
proprio perché l’ endecasillabo è un verso più nobile. La seconda particolarità è che il primo verso della
sirma presenta la stessa rima che chiude la fronte, apparentemente è una concatenazio, ma la chiave
canonica è isolata all’interno della sirma, non rima con nessun altro verso all’interno di essa. In questo caso
invece il verso rima con un altro e quindi non è una vera chiave. Qui non abbiamo il congedo perché esso
non esiste tecnicamente, non esiste una strofa più piccola che risponde alla sirma. L’ultima stanza della
canzone ha la funzione di congedo ma tecnicamente non lo è, comincia con il vocativo ‘canzone’. La scelta è
anomala, però è un ulteriore segno della nobiltà di questo testo, proprio perché è costituita da grandi
stanze.
Chiare fresche et dolci acque PETRARCA, fronte sirma e congedo. Lo schema rimico presenta lettere
minuscole e poche maiuscole: l’ultimo verso di entrambi i piedi, il quinto e l’ultimo verso della sirma.
Dominanza di settenari che indica una canzone facile di livello inferiore. I due piedi sono solo di tre versi ( in
donne ch’avete… c’è ne sono 4 con 44 sillabe) con 11 sillabe, è meno corposa. La sirma presenta una serie
di aspetti tecnici regolari, ad esempio c’è la chiave Cc. Gli ultimi due versi della sirma sono baciati fF
settenario+ endecasillabo. L’argomento della canzone è ambientata in una dimensione boschereccia. La
poesia d’amore come l’abbiamo vista finora è una poesia urbana. Il classico episodio della donna che
cammina per strada e dona il suo saluto agli uomini che incontrano, qui ci spostiamo dalla scena urbana a
quella silvestre, c’è un abbassamento di registro voluto. A questo cambiamento di scenario deve
corrispondere uno stile più semplice e a livello metrico corrisponde piedi più corti, versi più brevi,
settenario+ endecasillabo. Se guardiamo al congedo ci accorgiamo che in primo luogo ha soli tre versi, la
brevità è segno di stile basso. Il congedo non è più l’intera sirma, esso corrisponde a una parte della srima,
gli ultimi tre versi DfF, XyY . e il primo verso non rima con niente. Petrarca non usa il vocativo canzone
nonostante si stia riferendo ad essa, e dice ‘ se tu canzone avessi tanti ornamenti stilistici quanti ne vorresti,
allora ( canzone) potresti con coraggio uscire nel bosco e andare fra la gente’, qui Petrarca sta dicendo che
la sua è una canzone bassa priva di ornamenti stilistici.
Al cor gentil rempaira sempre amore Guinizzelli , abbiamo due piedi AB AB , che insieme compongono
la fronte e poi abbiamo una sirma non divisa, non c’è una chiave e manca la combinatio finale. Questa
canzone è prima di dante, prima della normatizzazione creata da lui,che sarà vincolante per i poeti
successivi. Siamo ancora in una fase sperimentale.
04/03
RIME PETROSE
Così nel mio parlar voglio esser aspro testo che ci introduce un Dante diverso, un Dante cristiano e
mondano. Siamo di fronte a una canzone che appartiene alla rime, estranea alla vita nova. La particolarità è
che si inserisce in un piccolo ciclo di 4 testi che vanno sotto il nome di rime petrose, incluse nelle rime di
dante. Petrose perché sono dedicate a una donna chiamata Petra, stiamo parlando di un amore diverso da
quello di Beatrice o la donna sul numero delle 30. L’elemento unificante di questo ciclo delle petrose è il
grande modello provenzale che è dietro questo ciclo, cioè il grande poeta provenzale Arnau Daniel , di
eccezionale qualità,nel de vulgari Dante lo indica come il più grande poeta d’amore della letteratura
provenzale, ma nel purgatorio quando Dante incontra Guinizzelli, che viene indicato come il padre di Dante,
e di tutta la sua generazione, lui indicherà Arnau Daniel come il più grande poeta di qualsiasi lingua
neolatina, come il più grande autore sia nella prosa, sia nella poesia. Riconoscimento eccezionale che nelle
commedia Daniel parlerà in provenzale, non in italiano, in un testo in cui tutti i personaggi parlano il
volgare. Le sue parole sono opera di dante, dimostra di avere una profondissima conoscenza della
letteratura provenzale. Arnau Daniel è nella cornice dei lussuriosi proprio perché la sua poesia è
profondamente erotica e sensuale, in certi passaggi persino morbosa. Nel purgatorio Daniel sta scontando
un peccato di lussuria, ma non della persona stessa, bensì della sua poesia. Anche l’amore scritto nel ciclo
delle rime petrose sarà un amore erotico e violento,un amore aspro amaro, come dice la prima parola rima
della canzone ‘aspro’, modello diverso, la donna è aspra è una pietra , e quindi lo stile deve essere a sua
volta tale. Un altro elemento unificante di questo ciclo delle rime petrose ispirato ad Arnau, cioè la
dimensione invernale, negli altri testi di questo ciclo ci sono dei meraviglioso scenari invernali con questa
natura ghiacciata eppure il fuoco dell’amore devasta l’animo del poeta. In questa canzone il clima è lo
stesso anche senza scene invernali. Esse ci permettono di datare questo ciclo petroso con qualche
incertezza, testi scritto tra il 1296/98, Dante diverso. C’è una dimensione realmente autobiografica? È
esistita davvero una donna Petra? No , Dante sta prendendo possesso di uno stile usato fino ad ora. Stile
aspro per lui lo stil novo è dolce, in contrapposizione. In ‘Guido io vorrei’ due delle rime sono prive di
consonanti ‘io’ e ‘oi’, le altre sono ‘ento’ ed ‘enta’, rime che consuonano c’è una musicalità. Nello stile
aspro al contrario noi troviamo dei termini foneticamente foneticamente duri, ‘petra’,’cruda’,’diaspro’….
Un po’ di parole anche presenti nel corpo del testo, stesso gioco fonetico. Uno stile è aspro quante sono più
le consonanti tra le due vocali della rima. Anche lo stile aspro dipende da quali sono i suoni le ‘r’ le ‘t’, suoni
duri : ‘rm’,’zz’, elementi fonetico che caratterizzano uno stile che corrisponde a una qualità. Nella poesia
delle origini c’è un principio estetico importantissimo la convenienzia impone che a un argomento
debba corrispondere uno stile ( no parlare di cose basse con stile alto e vice),se la donna è crudele e dura
userò uno stile aspro e duro. Questo dichiara la canzone, una canzone visiva in cui le immagini si
susseguono alle immagini una più violenta dell’altra in una sorta di delirio visivo.
PRIMA STANZA Una donna cruda che assimila sempre più durezza, e una natura sempre più cruda che la
trasforma in pietra, veste di diaspro(pietra dura, non come Beatrice che veste di umiltà), questa donna non
è scalfibile dalle frecce d’amore. Immagini di violenza e amore molto diffuse. Stanza che dichiara che si
tratta di un amore aspro e crudele, e la crudeltà di questa donna richiede uno stile corrispondente.
QUINTA STANZA la più aspra sia foneticamente che come immagini, ‘borro’,’soccorro’…
Nella quarta si parla di una violenza nei confronti di dante, questa comincia con l’auspicio:
così vedessi io amore spaccare a metà (per mezzo) il cuore alla crudele che squarta il mio cuore; e allora
( se io vedessi questa scena,in cui il cuore di pietra viene squartato) allora non mi sarebbe dura la morte alla
quale io corro, a causa della sua bellezza(la bellezza della donna spinge l’uomo alla morte),poiché questa
donna assassina (scherana o sicario) e crudele colpisce tanto alla luce quanto all’ombra. In questi due versi
Dante si chiede perche la donna non latri per lei, si sta assimilando a un cane e confida che lei possa essere
una cagna, il caldo borro o fossato qualcuno lo paragona all’inferno, ‘perché non latra nell’inferno per me’ o
‘perché non vive lo stesso inferno che vivo io’ oppure questo caldo borro potrebbe essere anche l’inferno
femminile. Se ciò avvenisse allora io griderei <<io vi aiuto>> e lo farei volentieri, perché allora metterei
mano a quei biondi capelli che amore muove e rende biondi, soltanto per consumarsi di desiderio e allora
io le piacerei. si parla in concreto dell’atto sessuale, di una violenza. Testo difficile da presentare, lo stile
deve corrispondere a una determinata immagine dell’amore, un’amore opposto a quello stilnovistico, un
amore profondamente sensuale. ( Arnau Daniel lussurioso)
ULTIMA STANZA /CONGEDO ritorna il linguaggio della violenza, la donna ha ferito il cuore, il poeta
chiede alla canzone di colpire il cuore della donna con una saetta, di attraversare il cuore. Linguaggio molto
forte. Quella cosa che mi ruba ciò di cui io ho più gola si riferisce al corpo, l’atto sessuale; gola termine
forte che rimanda alla dimensione animale del cibo. È particolare che un testo d’amore termini con la
parola vendetta. Testo non stilnovistico di dante, potremmo dire che abbia attraversato l’intero patrimonio
degli stili della lirica d’amore, dei temi, e progressivamente si sia formato come in un laboratorio e abbia
acquisito tanti tipi di linguaggi e poesie, e tutto ciò verrà proiettato nella commedia.
Tre grandi trattati di Dante oltre ad essere un grande poeta e ad aver innovato la poesia italiana , è
stato il primo grande narratore di prosa, ma è stato anche l’autore del primo grande trattato scientifico in
prosa, grande teorizzatore. Dante ci ha lasciato tre trattati, due di questi incompleti, che affrontano aspetti
diversi: poesia,lingua,filosofia,politica,etica… Dante crea un senso unitario di tutta la cultura del medioevo,
Dante raccoglie il meglio della produzione precedente e al contempo la innova e la presenta in maniera
geniale, con accostamenti e confronti geniali. I tre trattati di dante sono tre trattati militanti, è un Dante
impegnato, anche quando si occupa di cose non politiche come la poesia o la metrica, è un Dante
impegnato poiché sta costruendo un immagine della società, e creare un tipo di lettore
CONVIVIO primo trattato, l’unico dei tre grandi trattati in volgare,gli altri due sono in latino.
- Il convivio è il banchetto, in questo caso il banchetto del sapere,che nella concezione
medievale è un cibo, la forma più nobile di nutrimento intellettuale, l’idea è che con il suo
convivio Dante appronterà un banchetto dove distribuirà il sapere, il ruolo di dante non è
quello del grande sapiente, anzi nega di esserlo, Dante diventa il divulgatore, cioè di colui
che distribuisce il pane degli angeli, cioè il cibo intellettuale più puro, a tutti coloro che non
hanno potuto studiare per tante ragione : distanza dai grandi centri intellettuali, impegni o
doveri famigliari che impediscono lo studio. Dante dice che la sua è un opera di
divulgazione, il convivio come una grande enciclopedia di tutto lo scibile a disposizione.
Opera grossa, ma incompleta.
- L’idea della divulgazione si lega alla scelta della lingua, infatti è l’unico dei tre in volgare.
Nell’introduzione dante esplicita che il latino è superiore al volgare, era la concezione
comune, il volgare era senza grammatica. Il latino è la lingua della scienza, dei grandi
sapienti, ma questo convivio è destinato a coloro che non frequentano l’università ecco
perché è scritto in volgare. Dante dice che il volgare è formalmente inferiore al latino, ma
qui lo elogia,dice che lui con la sua poesia ha fornito una regola al volgare, lo ha dotato d
una grammatica rendendola simile al latino, dice ‘il volgare è luce nuova e sole nuovo’,
metafore comuni per il sapere, il volgare potrà essere la lingua che diffonde il sapere e
quindi pari al latino.
- Il convivio è un prosimetro, testo misto di prosa e poesia, perché è l’autocommento alle
proprie canzoni dottrinali. Dante preannuncia che raccoglierà 14 sue canzoni filosofiche,
dottrinali, e le fornirà di un proprio commento, quindi il convivio sarà fornito da un trattato
introduttivo di sola prosa, più 14 trattati formati da una canzone di dante più
l’autocommento, il quale sarà l’occasione per creare l’enciclopedia, perché ogni singolo
verso, metafora, parola sarà occasione per aprire gigantesche parentesi che saranno dei
trattati specifici sui singoli aspetti.
- Dante compone il convivio si suppone tra il 1304/07. Viene lasciato incompiuto, dante
scrive solo il trattato introduttivo e i primi tre di autocommento. Si suppone perché ormai
avesse incominciato la commedia.
- Rapporto con la vita nova lo vedremo nei ‘Libri II ( Voi ch’intendendo il terzo ciel
movete)’ e il ‘Libro III (Amor che nella mente mi ragiona)’ ,si legano al finale della vita nova.
Il convivio è in contraddizione con la vita nova, in quest’ultimo l’amore per la donna pietosa
alla fine viene schiacciato, il desiderio viene definito vile e malvagio. Le due canzoni
commentate nel libro II e III, sono composte per la donna pietosa della vita nova, la donna
gentile che aveva consolato dante; sono canzoni positive con commento positivo. Questa
contraddizione si spiega originariamente dal fatto che la vita nova si concludesse col nuovo
amore della donna gentile di dante dopo la morte di Beatrice, ma no. Dante chiarisce che I
due testi appartengono a periodi differenti, la vita nova appartiene alla giovinezza, mentre
il convivio è temperato e virile e appartiene alla maturità, in quest’ultimo Dante spiega
come per ogni testo ci sia una lettura allegorica da dare, ogni testo significa più cose
insieme in contraddizione tra loro. Nel trattato II e III nel convivio, questa donna gentile che
consola Dante dopo la morte di beatrice è la filosofia. Elogio alla filosofia, preso dal trattato
di Boezio che elogiava la filosofia e la sua capacità di consolare l’uomo nel dolore. Inoltre i
due trattati sono una grande occasione per parlare di angeli, cosmologia e astronomia.
Il libro IV è un trattato più politico poiché si parla della nobiltà, la gentilezza; qui Dante
nega che esita una nobiltà di sangue, poiché la nobiltà è solo individuale. ‘La nobiltà è un
seme di felicità ‘: un occasione che viene data all’uomo per essere felice, questa felicità è il
sapere, la conoscenza, che si può sviluppare solo con la filosofia, chiave di tutto il convivio
poche si apre con la frase che rimanda ad Aristotele ‘ l’uomo desidera conoscere’. La
conoscenza è un bisogno che deve essere sfamato con il cibo del sapere e l’unico modo per
Dante è la filosofia o anche lo stesso testo del convivio
DE VULGARI ELOQUENTIA secondo trattato sull’eloquenza della lingua volgare, cioè dell’italiano.
Parlare di italiano per il medioevo è sbagliato, questo termine non sarà usato fino al 500, che allora
significherà comunque qualcosa di diverso rispetto ad oggi.
- Trattato in lingua latina, nonostante sia dedicato all eloquenza della lingua volgare, è una
cosa abbastanza logica poiché dipende dal destinatario. Il convivio era in volgare perché
dedicato a persone che non avevano un percorso universitario, il de vulgari è dedicato ai
dotti, è destinato a quelle persone che ritengono che il latino sia la lingua della cultura e il
volgare sia una lingua per incolti, infatti è proprio a loro che bisogna mostrare la qualità
della lingua volgare.
- È un trattato di linguistica, di dialettologia, stilistica, metrica è un trattato che vuole dare
esplicitamente delle regole certe per i poeti, vuole insegnare qual è il modo migliore per
scrivere poesia.
- Viene composto si suppone tra il 1303/05, doveva essere composto da 4 libri, ma a noi è
arrivato un libro e mezzo, una brusca interruzione,infatti Dante ha interrotto a metà frase il
secondo libro. Ormai era un testo superato, Dante è già proiettato verso la commedia,
molte teorie del trattato sono in contrasto con la commedia stessa, la commedia è scritta in
maniera diversa da ciò che il de bulgari eloquentia presupporrebbe per la poesia.
- Il Libro I è il più strano, comincia a presentare la storia della lingua umana e la presenta
come un uomo medievale farebbe, partendo da Adamo, dalla bibbia, l’idea di una lingua
data da dio ad Adamo, perfetta e immutabile : ‘l’ebraico’ ; Dante abbandonerà questa idea.
Anche l’ebraico è una corruzione della lingua originaria. Le lingue hanno cominciato a
corrompersi con il peccato originale, li comincia la storia, e poi c’è il grande evento della
corruzione : la torre di babele, Dante modifica il mito, ogni tipologia di lavoratore della
torre di babele si ritrova a parlare una propria lingua. Solo l’ebraico si mantiene, poiché gli
ebrei si rifiutano di partecipare alla costruzione e loro continuano a parlare la lingua
originaria di Adamo. A questo punto succede che i costruttori della torre non potendosi più
comprendere si disperdono per il mondo e una comunità arriva in Europa.
Progressivamente la lingua si corrompe in tre grandi lingue: il greco ; lingua da cui derivano
il francese, il provenzale, lo spagnolo e le lingue italiane (presentano parole molto simile
come AMORE, questo significa che tutte queste lingue hanno una lingua originaria che
ormai non esiste più, non il latino ma un’altra che ormai si è persa secondo Dante; lingua
da cui derivano tedesco, inglese,ungherese e le lingue slave. Dante pensa a tre lingue, di
nuovo l’importanza della numerologia. Dante dice la lingua si trasforma nella storia, ma
anche nella geografia; a Bologna il bolognese che si parla alla porta orientale è diverso da
quello che si parla alla porta occidentale. Dante dice : se i pevesi vissuto qualche secolo fa
risorgessero crederebbero che la loro città sia stata invasa da un popolo straniero. Nel
tempo e nello spazio c’è un continuo cambiamento delle lingue, e per Dante questo è
negativo, anche se per la letteratura è diverso, ha bisogno di una lingua stabile. Allora
Dante elabora una teoria che per noi è stupefacente: i dotti italiani, francesi,
spagnoli ..avrebbero creato a tavolino una lingua di cultura, il latino. Questa lingua è
artificiale, non sono le lingue neolatine che discendono dal latino , ma è il latino che
discende dalle lingue neolatine; ecco perché il latino ha una grammatica e quindi non
cambia mai secondo Dante. Idea sbagliata e antistorica, questa però è la concezione
medievale. Noi oggi possiamo elaborare una lingua per la poesia partendo dai volgari
italiani di oggi. Dante per cercare di trovare una lingua adatta alla poesia e alla cultura
passa in rassegna tutti i volgari italiani in un vero trattato di dialettologia, citando tutti i
volgari italiani (i dialetti) e mostra quanto siano rozzi, goffi, passa in rassegna il romano, il
pugliese, il marchigiano, il milanese, il fiorentino. Dante elabora questa idea : occorre una
lingua artificiale, un volgare aulico,cardinale ( come il cardine della porta, una lingua
attorno alla quale ruotano tutte le altre lingue volgari italiane), curiale (idea della reggia del
re)
illustre.
- Nel Libro II si parla degli argomenti adatti al volgare illustre, i più nobili : la guerra, l’amore e
l’etica. Date indica anche i poeti migliori: poesia provenzale, Cino da Pistoia, Dante stesso.
Egli si riserva il ruolo del più grande poeta morale, nel sistema dantesco la poesia morale è
un atto intellettuale, l’amore si lega a una dimensione più bassa dell’anima, Dante si dice di
essere il più grande poeta della poesia volgare. La forma metrica più alta per il volgare
illustre è la canzone, il volgare illustre è la lingua più nobile, alla lingua più nobile si
adattano solo gli argomenti più nobili che possono essere trattati solo con la forma metrica
piu nobile, la canzone. Il sonetto per lui è una forma bassa.
DE MONARCHIA terzo trattato sul potere universale, ultimo trattato e l’unico portato a termine.
Trattato politico sul ruolo dell’impero, molto problematico per l’epoca e anche successivamente. Nel 1329
fu condannato e bruciato, nel 500 entro nell’indice dei libri proibiti, lettura vietata ai cattolici. Questo
trattato nasce nel 1312, durante la discesa in Italia dell’imperatore Enrico VII, si coagula contro di lui un
insieme di comuni capeggiata da Firenze , la stessa che aveva cacciato dante, questa alleanza di comuni è
guidata dal papato. Qui affiora un conflitto, quello tra impero e papato per la supremazia politica. Sia
l’Impero sia il papato rivendicano la supremazia sull’altro. Nasce una guerra ideologica anche in Europa, con
gli intellettuali che prendono parte per l’impero o per il papato attraverso trattati, Dante è fra questi con il
de monarchi a sostegno dell’impero, questo spiega la condanna papale e il perché il testo sia in latino. È un
trattato che parla agli intellettuali e ai politici europei, che affronta argomenti di diritto e teologia. Diviso in
3 libri.
- I parla della necessità di un potere universale per la felicità umana, l’impero è necessario
alla felicità, ovvero lo studio, la filosofia, ma sappiamo anche che il grande ostacolo è la
guerra. Quando c’è una guerra I giovani partono per i fronti, guerre, uni ecc… si chiudono.
Guerra primo nemico. Dante dice che la guerra nasce da conflitti d’ambizioni, ma
se c’è un potere superiore , l’impero, che possiede tutto allora non ha senso che ci siano le
guerre. L’impero serve per garantire la pace universale, non annulla gli stati e i regni, ma
sono subordinati ad esso trovando il proprio equilibrio.
- II parla del ruolo provvidenziale dell’impero, Dante non distingue tra sacro romano
impero e impero romano, sono due momenti dello stesso impero. Questo libro è molto
importante, i teologi medievali , a partire da Sant’Agostino in poi hanno condannato
l’impero, egli diceva che le invasioni barbariche erano la punizione divina per l’impero
romano, che non era solo pagano , ma ingiusto e violento, nato sull arbitrio. Dante ribalta
questa situazione dicendo che l’impero è voluto da dio, ha un ruolo provvidenziale. Dante
lo dimostra sulla base di elementi tratti dalla storia romana e dalla bibbia, su due grandi
eventi della storia umana per un cristiano: la nascita e la morte di cristo, atti giuridici
dell’impero romano. La nascita perché è legata al famoso censimento su tutto l’impero, la
crocifissione è legata a un atto giuridico dell’Impero romano. Questi due atti garantiscono
che nascita e morte di cristo abbiano un valore universale, perché l’impero è universale.
- III rapporto tra impero e papato, entrambi rivendicano la priorità sull’altro. ‘ l’uomo non
appartiene a un'unica dimensione, l’uomo appartiene alla dimensione terrena e a quella
celeste e l’uomo ha diritto ad avere la felicità terrena e quella celeste.’ Secondo Dante, e
queste due felicità vengono raggiunte da elementi distinti, la filosofia che permette il
raggiungimento della felicità terrena e la teologia che permette il raggiungimento della
felicità terrestre, ma ci sono due istituzioni l’impero e il papato. Queste due istituzioni sono
indipendenti nella propria sfera, l’immagine che Dante usa è quella die due soli, la metafora
all’epoca era quella del sole e della luna, il sole è il papato e l’impero è la luna, che vive
della luce riflessa del sole, quindi l’impero è subordinato, ma Dante dice no. Le due
istituzioni sono due soli, ognuna ha la propria luce e illumina una dimensione diversa della
vita umana. È un trattato politico, vediamo convergere concezioni che abbiamo ritrovato
nella lirica di dante,nel convivio, nel de vulgari e nella commedia.
COMMEDIA
- Tre cantiche per un totale di 100 canti : 34 canti per l’inferno, 33 canti per il purgatorio e 33
canti per il paradiso. Anche l’inferno si articola in un canto proemiale per l’intera opera e 33
canti come gli altri. Anche qui vediamo il trionfo nel numero 3, che ritorna nella forma
metrica scelta da Dante, la terzina ABA BCB DCD: blocchi di tre versi endecasillabi in cui il
verso centrale rima con i due versi estremi della terzina successiva.
- I modelli di viaggiatori dell’oltretomba di quest’opera ce li dice Dante stesso : Enea , il
grande protagonista dell’Eneide di Virgilio che scende negli inferi e San Paolo che dichiara
di avere visitato il paradiso, nella seconda lettera ai corinzi. Loro due sono anche precursori
di due veri e propri generi letterari : le catabasi pagane, ovvero i viaggi negli inferi dei
personaggi dei poemi classici e le visioni cristiane, nel medioevo è pieno di visioni cristiani
con viaggiatori che visitano l’oltretomba e al ritorno raccontano ciò che hanno visto. Sono
due mondi diversi e due registri differenti, le catabasi sono la grande poesia epica latina,
mentre le visioni appartengono a una letteratura popolare o rozza ; il combinato di questi
due grandi generi caratterizza la commedia, come testo intermedio tra più mondi, stili e
generi. In primo luogo il grande ruolo della cultura classica/pagana non è scontato, Dante
nel limbo decide di collocare tutti i grandi pensatori, filosofi e scienziati, letterati del mondo
classico e pagano, dante decide di indicare la cultura classica come elemento costitutivo
della propria formazione, della commedia, ma anche dell’intera cultura medievale. La
stessa cultura classica ha un ruolo iniziale per la salvezza umana. Dall’altro c’è la cultura
cristiana, non a caso nel paradiso Dante definisce la commedia poema sacro, o sacrato
poema, termine importante poema: è la grande tradizione classica dei poemi, dall’Eneide
in giù; Dante sta dicendo che la sua opera appartiene al genere del poema, la sua è l’ultima
della grande tradizione classica, ma è anche un poema sacro, sintagma inventato da Dante
che chiarisce la rivoluzionalità di questo testo. Inferno – purgatorio - paradiso: il percorso di
Dante attraverso l’oltretomba e dell’uomo
- INFERNO strutturato secondo l’etica di Aristotele, su tre livelli : incontinenza, violenza e
malizia (inganno). Dante per un inferno cristiano all’interno di un testo cristiano sceglie
l’etica di un pagano? Perché l’etica di Aristotele per Dante rappresenta l’etica naturale, cioè
l’etica di tutti gli uomini, per sapere che non si deve uccidere non occorre essere cristiano
ecc… basta la ragione , l’etica di Aristotele rappresenta l’etica naturale, l’etica che è in dio.
Se finisci all’inferno non è perché non sei cristiano, ma perché non hai agito secondo la
ragione.
- PURGATORIO strutturato secondo i vizi capitali che nel pensiero cristiano sono gli
stimoli del peccato, gli strumenti attraverso i quali il diavolo ci spinge a peccare. Il purgante
non viene punito e non espia un’azione, ma espia l’impulso che lo ha spinto a commettere
quell’azione. Se non ci si pente di ciò che si ha fatto si finisce all’inferno e si viene puniti per
l’atto. Nel purgatorio esistono i vizi che spingono a fare determinate coser. Nel purgatorio
gli espianti attraversano tutte le cornici, perché gli uomini nel pensiero cristiano sono
colpevoli di tutti i vizi capitali, è il regno del divenire, ci si trasforma, cambia il rapporto di
dante rispetto i personaggi del purgatorio, nell’inferno Dante è superiore a tutti loro perché
sarà salvato, nel purgatorio Dante è impegnato anche lui in un percorso di purificazione,
all’inizio della montagna dl purgatorio il corpo è pesante e poi si fa sempre più leggero
perché si sta purificando.
- PARADISO costruito attraverso un sistema tolemaico,la terra al centro e le sfere
concentriche di tutti i pianeti la circondano sempre più distanti. Dante nel suo viaggio passa
da una sfera all’altra, perché in realtà tutti i beati sono in paradiso, ma incontrano Dante
nel cielo di cui hanno subito più l’influsso. Es: venere produce un influsso d’amore, Marte
guerresco… questi hanno influito sulla vita degli uomini sulla terra, le anime incontrano
Dante nel cielo in cui più forte è stato l’influsso, perché in realtà il paradiso non è un luogo,
non ha né tempo né spazio come dio. Il paradiso, l’empirio, la famosa rosa dei beati in cui
finalmente Dante arriva è un non luogo perché è ovunque,è l’ingresso in un dio
completamente immateriale e intellettuale, di una luce completamente intellettuale,
perché la commedia non è un testo mistico, ma intellettuale, come dice Dante stesso prima
c’è la conoscenza è poi l’amore. Il dio della commedia è un dio d’amore, ma è un dio
intellettuale.
- La commedia è una grande enciclopedia, noi abbiamo visto che il convivio lo era e anche il
de vulgari è il de monarchia ( enciclopedia storica e politica), tutto questo affluisce nella
commedia, si presenta come un grande testo enciclopedico in cui c’è tutto , politica, storia,
filosofia, scienza, medicina ,astronomia, geografia… tutto. Percepiamo di essere di fronte a
un testo globale, un mondo, ma al contempo c’è anche una forte dimensione
autobiografica, siamo di fronte all’ultimo caso in cui Dante rilegge la propria vita, come
nella vita nova. La commedia comincia nella selva oscura, nello smarrimento che Dante dice
reale, uno smarrimento che non chiarisce e comincia il suo viaggio, è un viaggio a Beatrice
che lo aspetta nel paradiso terrestre. È un viaggio attraverso l’intera propria esistenza,
attraverso le proprie letture, i propri desideri… è un viaggio in cui incontra i suoi modelli
letterari, i suoi nemici e i suoi amici. Dante fa un viaggio personale, il fulcro è Beatrice e
quando la incontra qui c’è il passaggio di consegna. Virgilio scompare perché lui in quanto
poeta pagano non può accedere al paradiso (pagine più malinconiche) , Beatrice lo guiderà
in tutto il Paradiso fino alla visione finale. È un viaggio che Dante fa per tutti gli uomini.
Viene dato a Dante l’incarico,quando sarà tornato sulla terra di raccontare a beneficio di
tutti gli uomini, perché il viaggio di dante è un viaggio individuale ma anche universale.
- La commedia è un testo allegorico, leggibile su più livelli o polisemici, si possono leggere a
tanti livelli e ognuno è giusto, la persona con più strumenti sa leggere il testo su tutti i livelli,
si può leggere l commedia come il viaggio di un uomo attraverso i tre regni oppure posso
leggerla anche come il viaggio dell’umanità dalla perdizione alla salvazione, dalla selva
oscura alla luce divina di dio.
- Nel de vulgari Dante si sofferma sullo stile tragico. La commedia è in stile comico, presenta
tutti gli stili, lo stile più rozzo e volgare ( merdosi, trulla), lo stile aspro, lo stile stilnovistico,
ma anche uno stile altissimo, filosofico, in cui Dante crea una lingua potentissima che gli
serve per esprimere il nodo del creato, una lingua rivoluzionaria che ha influenzato i poeti
successivi. Il paradiso è l’opera più incredibile. Nella commedia si attraverso l’intero spettro
della lingua umana.
06/03
PETRARCA
Di una generazione più giovane di dante, suo padre era esule da Firenze con dante. Petrarca stesso dice di
aver conosciuto Dante da bambino. È però cambiato tutto, il modo di pensare della letteratura, di sé stessi,
la società, la cultura ecc… sono accadute cose che hanno cambiato il modo di percepire la vita.
LETTERE FAMILIARI raccolta di lettere, la raccolta originaria è in latino. Petrarca è il primo autore di un
gigantesco epistolario,solo questa raccolta conta 350 lettere. È il racconto di se, un aspetto fondamentale
per Petrarca che ritroveremo in tutta la sua gigantesca produzione
Al suo Socrate sta scrivendo al suo Socrate, un appellativo che diede a Ludwig van penpen, un cantore
fiammingo che Petrarca considerava il suo vero amico. Petrarca fa riferimento all’anno 1348, celebre nella
nostra letteratura dal Decameron di Boccaccio, l’anno della peste nere che uccise in un anno e mezzo quasi
la metà delle popolazione europea. Nel caso di Petrarca stiamo parlando della morte della donna amata e
dei suoi amici, parliamo di vuoti enormi aperti nella vita di tutti.
- Il punto è la percezione del tempo, che è fuggito trascinandosi via amici e familiari,
portando tanti dolori. Citazione di dante : ‘ questa attesa io non so quanto sia per esser
breve; ma so che può esser lunga.’ Viene inglobata in un sistema diverso, si parla della vita
come dolore e sofferenza. La vita non è un percorso verso la salvezza, da questo punto di
vista Petrarca è un uomo moderno, Dante lo cogliamo come uomo medievale, lui chiude il
medioevo, il suo sforzo è quello di dare compattezza a questo mondo. Al contrario in
Petrarca c’è un anima cristiana, ma c’è di più la percezione di un’anima divisa e
tormentata. Petrarca sta sempre parlando della quiete, ma è un riferimento a un grande
pensatore cristiano cioè sant’agostino. Tipo diverso di cristianesimo rispetto a quello di
dante , in Petrarca c’è più l’idea del rifugio, del riposto ultimo nelle sofferenze e nei
tormenti umani. Questa percezione è importantissima, la concezione del tempo ( idea di
agostino) è una nuova idea: il tempo per un cristiano medievale è una linea continua, dalla
creazione verso la fine dei tempi;il tempo di Petrarca invece è molto più incerto e instabile,
questo aspetto del tempo lo vediamo nel rapporto con i classici, come abbiamo visto nel de
vulgari per Dante non c’è una differenza tra il latino degli antichi e il latino medievale,
Dante non ha la percezione di parlare un latino diverso. Per Petrarca è molto diverso, lui ha
l’assoluta percezione del fatto che il latino medievale non è più quello degli antichi, c’è stat
un interruzione. Il latino di Petrarca è una lingua storica che quindi si è corrotta, anche
questo si inserisce nell’idea del tempo come perdita, il latino si è perso. Un aspetto
fondamentale di Petrarca è che anticipa l’umanesimo, cioè lo studio della cultura e della
letteratura latina di Petrarca è moderno perché lui ha una conoscenza della letteratura
latina superiore a quella di Dante, lui stesso anticipa la grande stagione della ricerca, del
recupero dei manoscritti degli autori latini e soprattutto è consapevole che nel corso dei
secoli si sono introdotti delle corruzioni anche nei testi degli autori latini. Nel corso dei
secoli molti testi sono stati copiati male, il suo compito è quello di ricostruire il testo latino
originario, che studia. Il suo impegno è quello di scrivere nel latino degli antichi, di scrivere
come scriveva Virgilio o Cicerone, è una from a di risarcimento. Ciò implica una cosa
importante: a questo punto il latino diventa una lingua morta, senza Petrarca o gli umanisti
il latino medievale avrebbe continuato a trasformarsi nel tempo. Petrarca è gli umanisti
proprio perché riavvolgono il tempo e riportano il latino ad essere quello di 1300 anni
prima creano una distinzione tra il volgare in evoluzione e il latino come lingua morta.
Aspetto fondamentale : conoscenza molto più approfondita della lingua latina, una
dimensione in cui nella sua poesia letteratura volgare e latino si mischiano perché Petrarca
fa affluire nei suoi testi la letteratura latina in maniera più sottile, questo è un aspetto della
diversa concezione dell’uomo moderno, del tempo come perdita.
- Una seconda grande differenza è lo spazio, Dante resta fiorentino per tutta la vita anche
quando è esule ormai da molti anni firma le sue lettere definendosi esule senza sua colpa,
oppure definendosi fiorentino per nascita, ma non per costumi, Dante per tutta la vita
sognerà di tornare a Firenze. Petrarca è diverso, lui è un esule di seconda generazione,
appartiene veramente al mondo. Lui non vive a Firenze, è un intellettuale cosmopolita,
passa di corte in corte. È poco noto perché Petrarca viene associato di più ad avignone,
valchiusa,Este, ma in realtà la città in cui è vissuto più a lungo è Milano. Milano era la
capitale nemica dei fiorentino, fino al 1400 Firenze e Milano erano le due potenze, quindi
Petrarca andando a Milano passa al nemico. Lui appartiene al mondo. Cambia anche il
profilo dell’intellettuale, Petrarca è un intellettuale che viene conteso dalle corti e non va a
fare il segretario ma il grande diplomatico, scrive le lettere agli imperatori, cambia profilo.
- L’ultima cosa che possiamo dedurre da questo breve testo è un tono un po’ lamentoso.
Dante ha una posizione militante, anche il suo cristianesimo lo è, un cristianesimo
guerriero. Petrarca è molto più egocentrato, proiettato nell’analisi interiore. Petrarca è
molto più moderno
SECRETUM de scretu conflict curarum mearum o sul segreto conflitto dei miei tormenti.
Da questo titolo emerge l’idea della segretezza, questo è un testo che si presenta come un testo riservato
all’autoanalisi e non alla divulgazione. Non sappiamo l’anno di esecuzione forse 1342/43,anche la
commedia di Dante si pone a un momento di passaggio nella vita umana stiamo sbagliando, gioco del
ripensamento su di me. Un'altra data è 47/53 poiché Petrarca è tornato indietro a rimettere mano a un
testo precedente, anche le sue lettere sono scritte e riscritte. Il SECRETUM non fu reso pubblico fino alla
morte di Petrarca.
- Ciò che ci interessa è la forma, la forma della segretezza.
‘’ Tu dunque, libretto, evita d’incontrarti con altri, e statti contento di rimanertene con me,
memore del tuo nome. Sei infatti il mio segreto,e così sarai chiamato.’’ passaggio del
segreto, questo passo è costruito sul modello letterario del congedo della canzone,
consideriamo questo duplice piano di lettura autobiografico e letterario.
- La vera lingua d’uso di Petrarca è il latino. Del canzoniere ci è arrivato il manoscritto di
prova, il manoscritto degli abbozzi, il ‘quadernone’ su cui Petrarca provava le varie formule.
Abbiamo i testi in volgare, ma le annotazioni che Petrarca fa a se stesso sono in latino.
- Questo SECRETUM è un dialogo, costituito da un proemio e tre libri. Il fatto stesso che sia
un dialogo ci dice molto, Dante non ha mai scritto dialoghi ma trattati, Petrarca ricorre a
questa forma perché il dialogo è la forma dei testi filosofici classici per eccellenza, da
Platone a cicerone i testi filosofici antichi molto spesso sono costituiti da dialoghi. Il grande
modello filosofico di Petrarca non è più Aristotele il filosofo del medioevo ma è Platone il
filosofo della modernità, pensa più alla dimensione ideale, all’anima. Il dialogo permette
molto di più di inscenare il conflitto che c’è nel titolo stesso. Noi assistiamo al dialogo tra
Francesco e Agostino, questo dialogo avviene difronte alla verità, che è la donna. L’idea
della verità esteriore è un conflitto interiore. Compare la Verità che affida Francesco ad
Agostino ( Virgilio con dante e Beatrice), ma questo viaggio non è destinato alla salvezza.
Un dialogo che si sviluppa in tre giorni, ogni giorno si sviluppa in un libro, tipico dei dialoghi
di cicerone. Agostino perché è l’autore delle confessioni, questo testo fondamentale che è
insieme tra biografia e filosofia, siamo nel segno della lettura di se, di passare al vaglio le
proprie colpe, le proprie debolezze, le proprie fragilità insieme. Agostino è anche un grande
scrittore e filosofo all’insegna del tempo,della domanda ‘ che cos’è il tempo?’. Petrarca
sostituisce Virgilio poeta con Agostino filoso che indaga sul tempo.
Libro I tema della debolezza della volontà, che da Dante non ci aspetteremmo, ma per Petrarca è
dominante. ‘ Che fai pover'uomo? che sogni? che aspetti? Ti sei proprio dimenticato delle tue miserie?
O forse
non ti ricordi che dovrai morire?’ Punti di domanda e punti interrogativi, ma anche la lettera a Socrate
cominciava con delle domande segno dell’inquietudine e dell'incertezza. Qui Agostino fa il ruolo dell ‘es
di Freud, l’elemento di controllo esterno che però non riesce a guidare concretamente l’uomo, però
che aspetti e sogni, tema del sogno importante per Petrarca, è l’incertezza, la confusione della vita
umana. Punto fondamentale è la riflessione sulla morte,tema costante di questo primo libro. Il pensiero
della morte dovrebbe esortare Francesco ad abbandonare ogni dimensione mondana e proiettarsi
verso l’eternità. Francesco dice che assolutamente ci pensa alla morte, ed è anche spaventato da essa;
la morte non è più la promessa che dopo ci sarà il paradiso è il ricongiungimento a Dio, qui è un
pensiero costante ma inquietante, è lo spavento. Agostino dice ‘Magari te lo ricordassi così come dici, e
ti cominciassi a preoccupare di te stesso! Mi risparmieresti una gran parte di fatica, dal momento che è
assolutamente vero che non esiste niente di più efficace della coscienza della propria infelicità e della
assidua meditazione intorno alla morte per disprezzare le lusinghe di questa vita e per comporre il
proprio animo in mezzo alle tante tempeste di questo mondo: a patto che tale pensiero non serpeggi
lieve e superficiale, ma penetri invece ben dentro il midollo delle ossa. Che in quanto a questo ho una
gran paura che anche tu inganni te stesso, come ho visto fare a tanti altri.’ La morte deve indurre alla
riflessione su di se, il tema della assidua meditazione, che prepara alla morte in modo da poter
accedere poi al paradiso; tema della consapevolezza della propria infelicità. Lontano da dante, lui
parlava dalla felicità su questa terra data dalla filosofia, questo passo consuona con quello che
vedevamo nell’epistola a Socrate: la vita è infelice. Agostino dice che questa idea della morte deve
essere il pensiero costante e deve essere una consapevolezza meditata, profonda, cosa che veramente
non si fa, Agostino dice ‘tu inganni te stesso come ho visto fare a tanti altri’. Tema dell’autoinganno, in
realtà l’uomo non è veramente in grado di pensare alla morte.
Libro II Agostino passa in rassegna tutti i vizi capitali di Petrarca. E coglie Petrarca sempre in fallo,
ma la colpa più grave, nonché aspetto particolare e importante per il canzoniere è l’accidia. L’accidia è
un peccato sempre difficile da definire, all’origine i vizi nascono pensati per gli eremiti. Soprattutto per
loro ad un certo punto c’è il rischio che subentri una stanchezza e una noia a causa della ripetitività che
producono una forma di inquietudine si ché non si riesce più a concentrarsi sui testi o sulla preghiera è
l’insofferenza per cui luoghi, per quel tipo di vita e allora subentra una voglia di fuggire impotente,
un’inerte inquietudine, abbiamo visto quanto sia importante della quiete ricercata e dell’inquietudine
provata da Petrarca. L’accidia è un vizio strano che assimiliamo alla depressione, è la mancanza di
volontà , il sapere che dovremmo saper fare certe cose, ma allo stesso tempo manca la forza per
reindirizzare la propria vita, l’incapacità di vivere a pieno la propria vita, l’insoddisfazione e
l’autocompatimento. L’accidia è un vizio estremamente moderno, è un vizio cristiano ma a un certo
punto nel pensiero cristiano, gli elementi stessi vengono sovrapposti a elementi della filosofia classica,
come nel caso della medicina. Per la medicina antica ci sono varie tipologie psicologiche dell’uomo, una
di queste è quella malinconica, la quale ha molti tratti in comune con l’accidia. Nel pensiero occidentale
i malinconici sono gli artisti, questo è un aspetto che risale al problema trentesimo primo di Aristotele
‘L’artista è malinconico per eccellenza’. La cosa importante è che nel secondo libro Petrarca si riconosca
colpevole di accidia, di mancanza di volontà,di pessimismo e di fragilità.
Libro III Agostino si concentra sugli elementi maggiori del peccato cioè le cause effettive che sono
l’amore per Laura e l’amore per la gloria. L’amore per Laura è una colpa, sotto questo punto di vista
siamo lontani da Dante. (testo) Agostino parla del tema della quiete che è necessaria per l’uomo ,ma
che non può essere data dall’amore e non durano. Diverso dall’amore di dante per beatrice eterno.
Francesco risponde a queste accuse nei confronti dell’amore che prova per Laura, parla dell’idea
dell’amore nobile e spirituale, ma non solo, si parla di un amore per una donna angelo, il suo è un
amore nobile. Agostino dice che questo è un errore, si parla dell’autoinganno dell’uomo, l’uomo che si
costruisce il proprio errore. Alla fine del passo infatti Agostino parla di Laura come una donnetta.
Nel passo 10, Agostino dice che Laura ha tolgo a Francesco tutto. Mentre Dante quando raggiunge
Beatrice nel paradiso lei dice agli angeli che Dante aveva avuto tutti i doni necessari da dio e lei l’aveva
guidato nel sentiero giusto. In questo caso è la donna che ha impedito l’esito felice della vita di
Petrarca. Agostino dopo parla della frustrazione della propria incapacità, anche questo è un aspetto
moderno : il senso di esser il colpevole del proprio sperpero sperpero.
Nel passo 21 Petrarca da quando si è innamorato ha iniziato ad autocommiserarsi, inizia l’accidia di cui
parlavamo prima. Si parla dell’idea del cercare la solitudine dagli uomini mentre si piange, di cui si
parlerà nel canzoniere. Si parla di altre caratteristiche dell’accidia, del conflitto interno, con Agostino
che presenta la saldezza medievale e Francesco che rappresenta l’incertezza moderna.
Ci avviamo verso la fine del scretum, si parla della fuga del tempo. Rispetto al viaggio di salvezza di
dante nel rispetto alle confessioni di Agostino, che lo hanno portato a una conoscenza piena di sé e a
una conversione, che con Petrarca non avviene. Tema della vergogna ripetuta, un amore che provoca
scherno tra gli uomini.
27. Passo fondamentale. Francesco infine si è convinto e si rivolgerà a dio. Si parla dell’idea della
frammentazione interiore, cosa moderna e non dantesca rispetto alla sua compattezza dell’anima.
Mediterà sulla morte e su di sé, ma dopo, ora ha altro di più importante da fare, ovvero finire il
canzoniere.
Passo 30 come sconfitta della volontà che per l’accidia non riesce ad uscire nella rocca di errori in cui si
è racchiuso, uno tra i quali è di credere che il proprio amore sia positivo.
CANZONIERE
Opera più importante di Petrarca, il vero titolo è ‘Rerum vulgarium fragmenta’, l’uso di chiamarlo
canzoniere è perché il canzoniere per antonomasia, cioè è il primo grande caso di un macrotesto poetico
soltanto, senza la prosa come per la vita nova, che ha una sua unitarietà logica, stilistica e narrativa; ogni
singolo testo contribuisce al significato globale dell’opera, ogni testo è in dialogo con tutti gli altri testi.
- Il titolo vero significa ‘frammenti di cose volgari’. La cosa strana è quella di utilizzare un
titolo latino per un testo volgare, anche se parlando di Petrarca non è poi così strano. Nei
propri appunti personali Petrarca utilizza il latino, il titolo non può che essere nella lingua
stessa. Petrarca chiama i suoi testi come nuge, vuol dire ‘cosette da nulla’, già questo da
l’idea della gerarchia interna di Francesco quando pensa alle proprie opere, i testi volgari
sono di livello inferiore e questo spiega perché comunque il titolo è in latino. Se guardiamo
i termini in sé vediamo qualcosa di interessante : ‘frammenti’, si parla di raccogliere i
frammenti dell’anima come nel secretum. In un certo senso il canzoniere si presenta come
la raccolta dei frammenti dell’anima, ogni singolo testo rappresenta un frammento
dell’anima, un aspetto di quella psicologia ascissa che abbiamo imparato a conoscere nel
secretum.
- Il canzoniere è la storia di una vita, la raccolta di un’anima. Petrarca ha incominciato a
scrivere testi molto giovane. Nel 1342 probabilmente c’è la prima idea di una raccolta, ci
sono nove forme, sostanzialmente il canzoniere è andato aumentando di dimensioni;
Petrarca ha ossessivamente studiato la collocazione dei testi spostandoli avanti e
indietro,proprio perché l’idea è quella di trovare la maggiore coerenza possibile, di creare
giochi di bilanciamento e contrapposizioni sia a livello tematico che formale/stilistico,
dobbiamo pensare al canzoniere come un macrotesto. L’ultima di queste forme risale al
1373/74 , anno in cui muore Petrarca. Noi di dante non abbiamo nessun documento,
neanche un manoscritto vergato da lui, ma solo copie, non abbiamo un suo libro, non
abbiamo un foglio o una firma; di Petrarca abbiamo tantissimo, i suoi libri, i suoi manoscritti
o gli appunti e tra questi abbiamo il ‘Vaticano Latino 3195’, testo finale in cui ci sono sue
annotazioni, e poi il ‘Vaticano Latino 3196’ il codice degli abbozzi, in cui non sono tutti i
testi del canzoniere ma ci sono vari stadi di scrittura di alcuni dei testi del canzoniere;
vediamo l’officina di Petrarca.
- Il canzoniere è una raccolta di 366 testi, 1+365, un testo al giorno più un testo proemiale.
Questa scelta è asintomatica, non sono i 100 della commedia, ma si parla dell’idea
dell’intero anno, l’idea della ciclicità. Idea del ritmo continuo, usciamo dalla linearità
perfetta della commedia. Questo canzoniere si divide in due parti: dall’1 al 236 in vita; 264
(Natale) al 366 in morte, questo perché Laura muore ( morte di beatrice nella vita nova che
segna un passaggio dal prima al dopo). In vita e in morte non significa che fino al 263 sono
stati composti quando Laura era in vita e dal 264 quando era morta, perché noi sappiamo
che in realtà ci sono testi in entrambi le parti scritti prima e dopo. Da parte di Petrarca c’è
un lavoro stilistico, alla ricerca di un macrotesto.
- Estensione narrativa. Per ora Laura assumiamo che sia vissuta e morta. Lei sarebbe stata
incontrata da Petrarca il 6 aprile del 1327, morta il 6 aprile del 1348 ( anno della grande
peste). Petrarca gioca in continuazione sulle date, che permettono di ricostruire un profilo
generale del tempo del suo amore. Le date fondamentali sono 6 aprile 1327,6 aprile 1348,
6 aprile 1358(decimo anniversario). Troviamo due dimensioni temporali diverse: 365 testi
che ripercorrono un anno, però scritti in un arco temporale di 31 anni. Il punto è che il
primo testo è il proemio, quindi è con il secondo che comincia il racconto; il secondo testo
ci parla dell’incontro con Laura, se a questo punto per ogni testo del canzoniere
aggiungiamo una data, arriviamo al 264, cioè il primo testo della sezione in morte. Il testo
264 corrisponde al 25/12, il giorno della rinascita, perché questo ci permette di creare
un’altra nesso. La prima parte è la parte dell’incertezza, della confusione, dei dolori, della
sofferenza; la seconda parte in morte permette a Petrarca di ricostruire un percorso che lo
riporterà al ritorno a Dio. Laura da figura turbante diventa una sorta di consolatrice, non è
la figura salvifica della commedia, però è una figura che concilia nel ritorno a Dio; infatti è
importantissimo che l’ultimo testo del canzoniere è una canzone, una preghiera alla vergine
‘Vergine bella che di sol vestita’, per avere la pace finale. La commedia si conclude con un
canto che si apre con una preghiera alla vergine, sotto questo punto di vista abbiamo un
ulteriore parallelismo.
- La stragrande maggioranza dei testi sono sonetti, 317, forma dominante. Questo spiega
perché dopo Petrarca sarà il sonetto il testo più usato, le canzoni sono 29. Arriverà il
periodo del petrarchismo, una grande stagione poetica tra 1500 in cui si useranno solo i
Sonetti. 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine,7 ballate e 4
madrigali.
- Laura alcuni contemporanei di Petrarca hanno messo in dubbio l’esistenza di Laura,
abbiamo delle lettere in cui lui si offende è perché degli amici ne hanno messo in dubbio
l’esistenza. Gli amici dicevano che con Laura ,Petrarca intendeva la gloria terrena. Questo
era uno dei rimproveri di Agostino. Effettivamente il nome Laura è ambiguo: l’aurea (l’auro
o d’oro, rimanda ai capelli biondi di Laura); l’aura (il vento ); laurea ( lauro o alloro). Laura
rimanda all’ alloro perché dietro c’è un mito famosissimo di Dafne inseguita da Apollo,
perché lui se n’è invaghito, la ninfa richiede agli dei di sottarla alla violenza di Apollo
trasformandola in alloro. È un mito di amore irraggiungibile, un mito in cui l’amore non può
essere raggiunto. Apollo è il dio della poesia, tormentato prende questo ramo di alloro e si
fa la corona di alloro, la corona laurea. Effettivamente Laura è mito di amore
irraggiungibile, destinato ad essere eternamente frustrato, ma è anche la gloria poetica.
- Stile mediano, lontano da quello di dante , passa da termini rossi a termini aulici e filosofici
(pluristilismo). Petrarca usa un vocabolario più ristretto anche perché i temi sono costanti
cioè: la sofferenza amoroso, il dolore, la fuga del tempo, il pentimento. Ci sono anche delle
‘sacche’ di politica, ma parti caratterizzate. La parte amorosa del canzoniere è nel segno di
uno stile mediano.
13/03
MACHIAVELLI
È importante perché se noi italiano all’estero abbiamo un immagine negativa, astuti, falsi, … è dovuto
anche a Machiavelli.
PRINCIPE
È un trattato politico dedicato alla figura del principe. Però lo studiamo come testo letterario.
Machiavelli da una definizione di sé stesso ‘storico,comico e tragico’ Machiavelli scrive un opera sulla
storia di Firenze e biografie su personaggi storiche,è uno storico; Machiavelli è un grande autore comico,ad
esempio La Mandragola, une delle più belle commedie del rinascimento europeo; il problema è il tragico
poiché lui non ha scritto nessuna tragedia, il nucleo della tragedia greca è l a lotta tra uomo e destino, sotto
un certo punto di vista il principe è una tragedia, perché studia la lotta tra l’uomo e la fortuna.
Machiavelli scrive in una maniera stupenda, è un autore con un vigore stilistico e una forma impressive
impressionante, studiamo Machiavelli per la stessa ragione in cui nella letteratura italiana studiamo Galileo
Galieli, un grande astronomo e fisico. Loro due per le loro discipline foggiano un linguaggio e un epoca in lui
la letteratura italiana è ancora informazione e quindi contempla ogni disciplina al suo interno, perché può
essere esposta con ogni linguaggio letterario.
Machiavelli non è un politico è un funzionario, un amministrativo, perché è vero che la repubblica
fiorentina, ma una repubblica in cui le famiglie aristocratiche hanno un potere enorme, fanno gli
ambasciatori, tessono i rapporti con le grande potenze straniere. Machiavelli non è aristocratico, è un
amministrativo di grandissima intelligenza, soprattutto perché è un funzionario che da un suo sostegno a un
personaggio politico importantissimo , il Soderini. Lui è il gonfaloniere, termine tecnico che potrebbe
indicare il Presidente del Consiglio odierno, colui che ha il potere esecutivo, un potere che
progressivamente cresce sempre di più, anche come durata, tanto che diventa una sorta di dittatore
democratico. Al fianco di Soderini, Machiavelli prende un potere enorme, è il cervello di Soderini, tant’è che
Machiavelli viene dato visceralmente dall’opposizione aristocratica delle grandi famiglie aristocratiche,
viene considerato il burattinaio, però l’ astutissimo Machiavelli in politica non ne ha azzeccata una, aveva
molto meno naso per il vento che cambiava. Nel 1513 La Repubblica Fiorentina cade, c’è un nuovo
sconvolgimento che lentissimo dovuto a completi internazionale e i medici tornano in quella Firenze da cui
erano stati espulsi già con la calata di Carlo VIII.( i medici vengono espulsi mia Firenze si instaura una
repubblica democratica, in cui il Soderini e Machiavelli prende sempre più potere ; nel 1513 ci sono dei
nuovi sconvolgimenti internazionali, La Repubblica Fiorentina cade e i medici tornano).M.
Machiavelli è un nemico e quindi viene espulso dal suo impiego è perde il lavoro, viene poi arrestato e
viene torturato e quando viene poi scarcerato viene mandato al confine, in un posto che si chiama
l'albergaccio. Questo è il momento in cui viene scritto Il Principe, Machiavelli cercherà in tutti i modi di
rientrare nelle Grazie dei medici, sarà un lavoro di riavvicinamento lunghissimo e umiliante, ma finalmente
riuscirà a ottenere degli incarichi dei Medici, ma ovviamente lui non ha piovuto i medici vengono espulsi la
seconda volta è instaurata nuovamente una repubblica democratica, ma ormai Machiavelli non è più un
martire della Repubblica, ma è un nemico della Repubblica e quindi viene espulso nuovamente e muore
subito dopo.
La lettera al Vettori (10 dicembre 1513) stesso anno in cui Machiavelli ha perso l’impiego, viene
confinato e si trova all’Albergaccio, ma corrisponde con un suo amico, il Vettori, il destinatario di questa
lettera. Il Vettori è un uomo vicinissimo ai Medici , potentissimo, tant’è che è l’ambasciatore a Roma presso
il papà Leone X, papa della famiglia dei Medici. Vittori fa la cinghia di trasmissione tra i medici a Firenze e il
papà medici a Roma. Il Vettori scrive una lettera a Machiavelli in cui racconta la propria giornata che passa
tra grandi incontri al vertice, chiacchierate con il papa, incontri con Ambasciatori, letture storiche piacevoli
e chiede a Machiavelli di raccontargli la sua giornata, Machiavelli racconta una giornata che passa
sostanzialmente all’osteria, a giocare a carte col macellaio, una giornata in cui dice ‘ mi abbrutisco’; una
giornata noiosa, bassa. Uno dei passi più importanti della letteratura italiana.
È il momento in cui l’uomo torna in contatto con sé stesso, nello studio, si è rivestito ed entra nelle corti
degli antichi uomini, cioè comincia a studiare i testi di storia che ama, ‘si nutre di quel cibo per il quale è
nato’. Non solo studia, ma bisogna riprodurre e dare un senso a ciò che si è studiato, allora Machiavelli dice
di aver composto un opuscolo, ‘De Principatibus’,sui principati. Siamo di fronte al principe, ma abbiamo una
differenza: il titolo che menziona Machiavelli, o meglio l’argomento, parla dei principati, delle istituzioni ed
è in latino. Siamo in un momento di continui stravolgimenti politici, in cui agli occhi degli uomini gli Stati
nascono e muoiono, con continue alternanza di potere. Si tratta di una relazione di Machiavelli di fronte
alla storia, il bisogno di riflettere su ciò che è successo in quegli anni. Le parti che vediamo in grassetto nel
testo della slide in un certo senso è l’indice, con un piccolo problema. È l’indice fino al capitolo 11…. Il
principe però ha 26 capitoli. Machiavelli dice che ‘lo indirizzo alla Magnificenza di Giuliano’, si parla di
Giuliano de Medici , uno dei rampolli dei Medici, ultimo figlio del grande Lorenzo il Magnifico de Medici.
Machiavelli nell’ultimo passe dice ‘ questo principe io tutta volta lo ingrasso e lo ripulisco’, cioè ci lavora su,
lo rifinisce e lo ingrandisce. Passo importante. Fine della lettera, Machiavelli si sta ancora interrogando sulla
necessità, sull’opportunità di presentare a Giuliano de’ medici il principe e sta affrontando le ragioni che
spingono. Lui ha un problema di povertà e c’è una ragione concreta che lo spinge a presentare il principe e
a regalarlo, ma l’aspetto più importante è il bisogno di operare, anche a fare il lavoro più umile al servizio
dei medici. Leggendo questo testo si vede che i 15 anni che ha passato al servizio dello Stato lui ha avuto
una dedizione totale al proprio impegno politico; in secondo piano: questi 15 anni li ha passati in università
a studiare, Machiavelli sta presentando se stesso come uno che ha studiato i grandi testi storici sta
lavorando a una sua elaborazione teorica di ciò che è successo nel passato e nel presente e a fianco
all’esperienza, l’arte dello Stato (arte: si intende artigianato nella Firenze dell’epoca); due aspetti che
devono esserci la teoria e l’esperienza.
Principe : capitolo I breve, ed è una sorta di indice. C’è un titolo in latino Quot Sint genera principatuum
et quibus modis acquirantur, o quanti sono i generi di principato e in quale modo si acquistano. In latino
perché all’epoca è una cosa canonica, il latino sì serve in certe forme del linguaggio della cancelleria
Fiorentina in cui Machiavelli si è formato, però se già guardiamo il titolo ci accorgiamo che suona
strettamente con il Passo della lettera al Vettori e che avevamo definito una sorta di indice del Principe
‘ Che cosa e’ Principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si
perdono’. Abbiamo i generi e come dice il titolo in ‘quale modo si acquistano’, che nella lettera al vettori
Machiavelli distingueva meglio Come ‘ si acquistano come si mantengono e perché si perdono’.
Se guardiamo il testo del capitolo, notiamo che è un indice più esteso e dettagliato, comincia dicendo ‘tutti
gli stati, tutti e’ Domini che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono republiche o
Principati’. In un certo senso Machiavelli comincia subito a definire il campo delle indagini, gli stati Domini,
parla al presente e al passato, cioè affronta l’intera storia dell’umanità. È come se Machiavelli stesse
saturando le possibilità di un Principato, Infatti sono un repubbliche o Principati. Le repubbliche per
Machiavelli non interessa, il principe si interessa solo ai Principati. Machiavelli nel principe abbandona la
questione delle Repubbliche e si concentra sui Principati. Analisi delle forme
- Prima fase argomento definizione dell'argomento e l’idea che le forme politiche storiche
siano sempre quelle. Varia la specie ma le forme sono quelle.
- Comincia un percorso dicotomico, ‘o,o’. tutto il resto del capitolo è costruito su questo
sitema,Machiavelli presenta una seri di bivi, ne imbocca uno e nuovamente procederà ad
imboccare una delle due strade. Poiché si concentra sui principati dice che essi o sono
ereditari oppure sono nuovi, Principati neoformati. Dopo dice i nuovi o sono nuovi
completamente (nasce da 0, come Milano in cui Francesco sforza passo da semplice
capitano di ventura e signore di Milano), oppure sono come stati aggiunti( regno di Napoli,
nel 400 inglobato nel regno di Spagna e poi di nuovo nel 500 si ricrea la stessa situazione).
Machiavelli affronta un altro aspetto ancora, un’altra tipo di forma, lo stato precedente com’era? Sarà
diverso il rapporto tra i principi e i sudditi se si impone la dove c’era una repubblica oppure se subentra
dove c’era un altro principe, ma siamo all’interno delle forme del potere. La questione era però sul
modo in cui venivano acquistati questi principati, che potremmo dire sia la vera questione del Principe.
Machiavelli crea delle contrapposizioni binarie, in realtà sono due gli elementi che si contrappongono
per ogni parte, cioè: vengono acquistate con le armi d’altre o con le armi proprie? Il principe nella
conquista dello stato aveva un proprio esercito o faceva affidamento su un esercito che non era
personale? Il primo modo in cui si può avere un principato era l’esercito; il secondo modo è la fortuna o
la virtù, entra in gioco la fortuna che abbiamo detto essere un elemento fondamentale.
Struttura del Principe Il principe è strutturato su 26 capitoli, prima però c’è una dedica a Lorenzo de
Medici, nipote di Lorenzo il magnifico figlio di Piero. Machiavelli voleva dedicare il principe a
Giuliano ,l’ultimo genito di Lorenzo, è cambiata la dedica perché Giuliano muore nel 1516 e Machiavelli
aveva bisogno di dedicare il principe a un vivo e quindi il passaggio di dedica. La lettera al Vettori è datata
10 dicembre 1513, Machiavelli dice che sta ancora lavorando sul principe, lo sta pulendo e ampliando, ma il
principe è finito. Noi sappiamo che per la metà di dicembre il principe c’è, la composto nel 1513 e forse ci
ha lavorato per i primi mesi del 1514. Viene pubblicato dopo la morte di Giuliano. L’indice che era
contenuto nella lettera al vettori, e anche il primo capitolo del principe che fa da indice in realtà non
corrisponde esattamente al principe come lo abbiamo noi oggi, perché arriva in buona sostanza fino al
capitolo dici, O se vogliamo fino al capitolo 14. Un forte sospetto che in realtà il principe si è stato scritto in
due tempi, una prima volta fino al capitolo 11 in questo entro il 1513, e poi sia stato ripreso in anni
successivi, circa fino al 1518 e siano stati aggiunti gli altri capitoli.
Se il primo capitolo è l’indice, i capitoli dal due all’undicesimo affrontano le varie specie dei Principati. Il
capitolo 2 è dedicato ai Principati ereditari, il capitolo 3 è dedicato ai Principati misti, nel capitolo 4
abbiamo un caso specifico di ribellione.
- l’ aspetto interessante è il capitolo 11. Perché è dedicato ai Principati ecclesiastici, il papa
e il papato, il papa è un Medici e ci sono tutte le ragione di finire così un trattato di politica,
è una sorta di encomio nei confronti dei medici. Il capitolo 11 si conclude con il riferimento
alla santità di papa Leone X che rifugle per bontà e infinite altre virtù, c’è farà grandissimo e
venerando il papato, è una chiusura encomiastica, Machiavelli dice che il principato
ecclesiastico proprio perché è sorretto da dio prescinde dalle leggi della politica. Il capitolo
11 costituirebbe un ottima fine per il trattato.
- Al cuore del trattato ci sono due capitoli 6 e 7 che sono gemelli, due capitoli
complementari perché affrontano il cuore dell’altro nucleo del principe che Machiavelli ha
già indicato nell’indice, cioè il modo in cui gli stati vengono acquisiti : il capitolo sesto è
dedicato ai capitoli che si acquisiscono con le armi proprie e le virtù, che si acquisiscono
per meriti ; il capitolo settimo, l’opposto, è dedicato ai Principati che si acquisiscono con
armi altrui, su cui non c’è un controllo diretto del principe e che si acquisiscono con la
fortuna, Principati che sono dovuti a una forza su cui il Signore non ha un controllo. Qui
finisce il principe prima, quello composto ai tempi della lettera al vettori.
- C’è un altro blocco dedicato alle milizie,il capitolo 12 e 14.
Ci stiamo avventurando nella parte del principe, in cui non parliamo più di principati, ma del Principe,
sulle sue caratteristiche. Sotto questo punto di vista Il principe non è una novità assoluta nella storia del
pensiero politico, Anzi soprattutto 400 è ricchissimo di opere che vanno sotto il titolo di specula
principis, cioè specchi del principe, perché l’idea era che il principe si sarebbe rispecchiato in questi
testi e si sarebbe riconosciuto in questi testi. Questi specchi del principe ritraggono Un principe
modello, esemplare, un principe ricco di ogni virtù, di ogni valore e di ogni eleganza. Vedremo che Il
Principe di Machiavelli è molto lontano da questi specula. In questi specula principis si descrivono tutte
le capacità in cui principi devono eccellere, esempio la poesia, la cultura, anche nella guerra. Però è
uno dei tanti aspetti in cui un principe deve eccellere. Machiavelli inserisce il blocco dedicata alle
Milizie, cioè alla guerra nel cuore del principe, cioè nel passaggio tra la parte dedicata ai principati e la
parte dedicata al principe in se, questo perché l’idea è proprio quella della guerra come parte
costitutiva del potere, della storia, non solo L’idea è quella della violenza, cioè il principe e, lo Stato,
deve avere il controllo assoluto sulla presenza. Dopo di che comincia la parte che definiamo per ora
delle Virtù dei Principi, dal capitolo 15 al capitolo 24 Machiavelli capitolo per capitolo affronterà le virtù
che un principe deve possedere. Un capitolo dedicato alla fortuna e infine capitolo 26 il capitolo finale,
un capitolo dedicato a esortare i medici, i dedicatari del libretto, un esortazione a liberare l’Italia dai
barbari.
Il principe: capitolo VI ( armi proprie e virtù) dedicato ai principi che hanno acquisito il principato
con le armi proprie e la virtù. Machiavelli parlerà dei principi che hanno acquisito il potere con la virtù e
non con la fortuna portando quattro esempi: Mosè, Ciro, Romulo e Teseo. Loro perché sono i fondatori
dei 4 grandi stati modelli per un uomo rinascimentale, qui Machiavelli sta andando a coprire la storia
dell’umanità, quindi tutte le possibili forme del potere. Mosè fondatore dello stato ebraico, Ciro di
quello persiano, Romolo di Roma e Teseo dello stato ateniese. Di Mosè dice che in realtà dovrebbe
parlare perché non fu un vero fondatore dello stato, fu semplicemente l’esecutore di Dio, sarebbe
estraneo da questo discorso sui fondatori nello stato. Ne parlerà perché comunque la stessa Grazia che
lo faceva parlare con Dio fa sì che possa essere interessante. L’idea è di principi solitari, Mosè viene ad
essere Paradossalmente il principe perfetto. Machiavelli non crede affatto che parlasse con Dio, però in
realtà noi nella storia mondiale recentissima abbiamo già visto uomini di Stato che danno avvio a una
guerra dicendo di essersi consultati con dio, non è una cosa strana. Lui dice che il principe perfetto è
quello che può presentarsi legittimato da Dio con legittimazione Divina, che agisce sulla base di ordine
superiore e riesce a creare intorno al proprio potere una dimensione sacrale. In un certo senso è Mosè
il principe perfetto, il fatto che il principe originario, cioè quello attestato per il 1513 finisse parlando
del Principato ecclesiastico assume ancora più rilevanza, perché il Principato ecclesiastico è al sicuro da
una serie di problemi di insoddisfazione di sfiducia, ad esempio da parte della popolazione.
Machiavelli dice che questi principi sono arrivati al potere soltanto grazie alle virtù, virtù e armi proprie
sono strettamente connessi in questo capitolo, così come nel capitolo successivo, ma qui l’ Attenzione è
alla virtù. È il contrasto tra virtù e fortuna a costituire veramente il cuore del trattato. Qui Machiavelli
parlerà dei principi che hanno raggiunto il potere senza l’aiuto della fortuna, quindi grazie alla casualità,
Ma hanno raggiunto il potere soltanto con il proprio detto. Quali dice una cosa: Il principe che
raggiunge il potere con la virtù fa molto più fatica del principe che raggiunge il potere con la fortuna.
Perché a quest’ultimo principe va tutto bene e raggiunge il potere facilmente, mentre il principe della
virtù deve lottare, deve conquistarsi ogni passo. Machiavelli dice il principe che raggiunge il potere con
la fatica e con la virtù una volta che sarà al potere era molto più stabile, il principe che raggiunge il
potere con la fortuna invece sarà instabile come la fortuna arrivata, la fortuna se ne va. Machiavelli dice
che il principe che conquista il potere con la virtù ha dovuto scontrarsi con una situazione già
cristallizzata, ha dovuto scontrarsi con delle strutture di potere, ha dovuto confrontarsi con dei blocchi
anche di potere, con delle forme istituzionalizzate. È difficile farsi strada in questo tipo di percorso, peró
proprio per questo, il principe così facendo ha potuto introdurre dei nuovi ordini, cioè delle nuove
forme del potere, ha potuto creare leggi diverse, perché ha dovuto spezzare quelle precedenti, ha
potuto creare nuovi gruppi di potere, perché ho dovuto combattere contro Quelli precedenti, ha potuto
creare nuove istituzioni, ha potuto creare ad esempio un nuovo team di eserciti. Mentre quello proprio
potere con la fortuna non hanno avuto modo di svezzare la situazione precedente, disgregarla e
introdurne una nuova e quindi non saranno mai veramente nel controllo della situazione. Quindi è
bene tradurre nuovi ordini è bene arrivare al potere con la virtù, chi non ha la virtù soccombe di fronte
a situazioni precostituite. Anche qui Machiavelli dice in concreto che la fortuna è importante, è il passo
centrale, ‘esaminando lezioni e vita loro’, cioè di principi che hanno raggiunto il potere con la virtù,’non
si vede che quelli avessino altro della Fortuna che la occasione, la quale dette loro, un materia ha potere
introdurvi dentro quella forma che parse loro’, scioglie denominazione che parte loro,’ e senza
quell’occasione la virtù dello animo loro ci sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe
venuta invano’. Machiavelli dice che questi principi hanno raggiunto il potere con la virtù, ma qualcosa
in realtà hanno avuto dalla fortuna,l’occasione. È paradossale perché in realtà questo capitolo dedicato
alla virtù affronta la fortuna, il capitolo successivo dedicato alla fortuna in realtà ha pronta la virtù.
Questa occasione, questa fortuna che ha il principe virtuoso del capitolo 6 è la situazione di difficoltà,
cioè la fortuna, per un virtuoso è trovare una situazione di estrema difficoltà, ad esempio Mosè:
quando prende il potere Trova gli ebrei che sono schiavi in Egitto e quindi alla difficoltà; quando
Romolo prende il potere lui è stato espulso e condannato a morte, questo gli ha permesso poi di
fondare Roma e di prendere il potere ; così Ciro Quando fu fondato l'impero persiano; e così Teseo
quanto fonda lo Stato ateniese non trova Atene ma trova una dispersione di villaggi per tutta l’attica.
Il punto è proprio questo avere l'occasione, perché altrimenti la propria virtù smarrita, Non basta la
virtù da sola, occorre l'occasione, ma l'occasione è il momento della difficoltà, perché è proprio nei
momenti della difficoltà e si vede la qualità di una persona.
Il principe: capitolo VII ( armi altrui e fortuna) in dialogo con il sei. Machiavelli parla di principi che
acquisiscono potere con armi altrui e fortuna, cioè gli elementi deboli rispetto ad armi proprie e virtù
Machiavelli dice che questi principi arrivano al potere facilmente, però il loro potere è destinato anche
a collassare molto facilmente perché, probabilmente non sono personaggi di grande ingegno virtù, In
concreto non sanno comandare e anche per l’appunto non hanno una forza individuale, una forza
propria o una forza militare. Per Machiavelli il principe quindi lo Stato deve avere un pieno controllo
sulla forza, che acquisisce il potere con le armi altrui non ha questo controllo. Qui Machiavelli a questa
metafora dello Stato come una pianta, cioè lo Stato deve avere le radici profonde, qui Machiavelli parla
di barbe, l’idea dell’abbarbicarsi; Se una pianta ha radici profonde impegna moltissimo a crescere, Ma
quelle radici lo radicano a terra, una pianta con radici superficiali cresce più in fretta, ma poi al primo
tempo avverso, al primo fortunale, cade più in fretta. Fortuna e fortunale, la tempesta, sono
etimologicamente collegati. L’idea della tempesta è un’immagine topica per l’idea della fortuna avversa
Machiavelli fa una cosa strana, dice chi arriva al potere con le armi altrui e con la fortuna, quelle radici
che non ho messo prima deve metterle poi, è adesso che bisgona operare e quindi gli ordini che non ha
introdotto prima, deve introdurle adesso. Il paradosso è questo, nel capitolo 6 sulle virtù e le armi
proprie, in realtà Machiavelli parla del l'occasione e quindi parlo della fortuna; nel capitolo 7 dedicato
alle armi altrui e alla fortuna, in realtà poi Machiavelli parla della virtù e dell’ingegno, perché si
concentra sul comportamento che con principe ingegnoso e virtuoso deve avere una volta che ha
raggiunto il potere con la fortuna e armi altrui. Machiavelli prendi in esempio un personaggio molto
poco noto, se Machiavelli non ne avesse fatto protagonista nel suo principe non si conoscerebbe.
Questo personaggio è Cesare Borgia, detto il duca Valentino, che acquistò lo stato con la fortuna del
padre e con quella lo perdè. Cesare Borgia appartiene alla grande famiglia dei Borgia, una famiglia
spagnola, una famiglia che improvvisamente verso la fine del Quattrocento si impone sulla storia
mondiale perché dà alla chiesa due papi il secondo papa Alessandro Sesto è il padre di Cesare Borgia.
Qui nasce questa leggenda nera dei Borgia, hanno un’immagine negativa,che un papa delle
rinascimento avesse dei figli non era un’anomalia, però non ho vita rivoluzionaria di Papa Borgia e che
era l’impudenza con cui dichiarava che quelli erano i suoi i figli, e il potere che dava a loro. Immagine
dei borgia presa da altri aspetti,Cesare Borgia era il secondogenito quindi come tutti i secondogenito di
grandi famiglie, era stato avviato alla carriera ecclesiastica, tant’è che era diventato cardinale. Chi era
destinato alla carriera politica era il primogenito, lui viene ucciso e i sospetti cadono su Cesare Borgia,
così a questo punto Cesare Borgia abbandona la vita religiosa e abbraccia con la politica per sostituire il
fratello maggiore nella vita politica. Cominciano a correre i sospetti che Cesare abbia fatto uccidere il
fratello, non solo, ai incomincia a sospettare che Cesare Borgia ha ucciso il fratello maggiore perché
entrambi erano amanti della sorella la celebre Lucrezia Borgia. Lei sarebbe stata anche l’amante del
padre, anzi, lei conquisterà una propria Gloria nera autonoma come l’avvelenatrice. Parliamo di figure
potentissime e senz'altro molto violente nell’ esercizio del potere, anche senza scrupoli, spagnoli e
percepiti come invasori in un certo senso, il fatto stesso di avere un papa non italiano viene concepito
come invasione in un territorio proprio. C’erano tante ragioni per odiare questa famiglia, Lucrezia
Borgia senz’altro era una donna di grande intelligenza, emancipata rispetto alle donne dell'epoca.
L’aspetto importante perché Cesare Borgia è una persona assolutamente negativa, nell’immaginario
italiano dell’epoca Cesare Borgia è una persona odiata, ma non solo, è stato detto che per Machiavelli
prendere Cesare Borgia come modello da seguire sarebbe stato un po’ come prendere come modello
Hitler dopo la Seconda guerra mondiale, per due regioni: la prima il papa tra i suoi progetti ha proprio
quello di creare uno Stato indipendente autonomo, proprio per il figlio, effettivamente Cesare bordo
riesci a costruire un proprio stato, lo riesce a costruire con una velocità impressionante, qualcosa che
atterrisce tutti all’epoca. Infatti Machiavelli dice Valentino acquistò lo stato con la fortuna del padre,
perché il padre è in grado di innescare dei grandi giochi diplomatici, di potere, ad esempio di avere il
sostegno del re di Francia, il re di Francia fornisce gli eserciti, fornisce le armi altrui per l’appunto, Il
Valentino costruisce un proprio stato con la fortuna, il fatto di essere semplicemente il figlio del papa e
le armi altrui ovvero quelle del Re di Francia. A Firenze il Valentino è odiatissimo perché comincia a
inglobare tutte le romagne, che sono il nucleo del suo potere, ma poi comincia a inglobare Siena, Pisa,
Lucca ecc… Firenze si trova accerchiata, e nota che Valentino ambisce a impadronirsi di Firenze. Il
Valentino qualcuno che Firenze stato tantissimo,anzi Machiavelli conosce il Valentino proprio perché
viene inviato da Firenze presso il Valentino per cercare di captare Quali sono i progetti politici del
Valentino. Machiavelli conosce molto bene Valentino, però c’è un’altra grande stranezza: quando
Machiavelli scrive il principe, Il Valentino si è perso tutto il suo potere, lo stato del Valentino è crollato,
In brevissimo tempo, anzi è anche già morto, la cosa importante è che lo stato del Valentino è crollato
con la morte del padre come dice Machiavelli stesso, ‘acquistò lo stato con la fortuna del padre e con
quella lo perde’. Perché indicarlo Valentino Come modello? Perché il Valentino cerca di introdurre delle
innovazioni, degli ordini nuovi nello stato dopo che ha preso il potere, quindi cerca di mettere quelle
radici dopo, Machiavelli in questo capitolo lunghissimo, racconta sostanzialmente come il Valentino per
ampliare il suo potere e per radicarsi, ed emerge come un vero eroe nero, un personaggio violento,
crudele, doppio, subdolo. Alla fine del capitolo Machiavelli dice che il Valentino ha perso il suo potere
perchè dopoo la morte del padre commette un errore madornale: il Valentino è in grado di controllare
un alto numero di cardinali nel conclave , quindi è in grado di reindirizzare l’elezione del nuovo papa,
non ostile, invece commette l’errore clamoroso di allearsi con il cardinale della Rovere, perché fanno un
accordo, ma questo Cardinale lo odia e quando sarà finalmente eletto papa con i voti del Valentino, lo
attaccherà, è un errore clamoroso da parte del Valentino e Machiavelli commenta ‘e chi crede che gli
personaggi grandi i benefici nuovi facciano dimenticare le giocate vecchie inganna. Era Dunque il duca E
questa elezione, e occasione dell’ultima Rubina sua.’
Il principe è costruito continuamente sul paradosso, il suo modello positivo di eroe che combatte
contro la fortuna che si scontra con la fortuna per dominarla, in realtà è un personaggio sconfitto e
sconfitto per un errore clamoroso.
Principe: capitolo 15 ( qualità lodate e vituperate) Siamo al Blocco finale del principe, i capitoli 12 13
14 sono dedicati alla milizia. Machiavelli condanna le armi altrui, cioè aver eserciti prestati da uno
stato alleato, ma anche Le Milizie mercenarie perché erano la percentuale Maggiore degli eserciti
dell'epoca, perché semplicemente I Mercenari rispondono a chi li paga, Quindi se il tuo nemico le paga
di più le truppe mercenarie sono pronte a tradire. L'idea è quella di avere un esercito Nazionale, un
esercito proprio, perché questo garantisce il controllo della forza, il controllo della violenza, che è una
parte fondamentale della storia. Col capitolo 15 comincia la parte finale, notiamo il titolo: di quelle cose
per le quali gli uomini ,specialmente i principi sono lodati o vituperati. Qui Machiavelli comincia ad
affrontare le virtù del principe o i vizi, è più un ritratto psicologico, è la parte che fa sì che questo
trattato lo chiamiamo principe e non de Principati. Machiavelli dice che moltissimi hanno già detto su
questo argomento, questo capitolo in un certo senso è una sorta di proemio interno, sta cominciando
una nuova sezione del trattato, quindi Machiavelli pone una questione metodologica, qui allude ad altri
autori che hanno scritto su questo tema, ad esempio gli specula principis che sono così diffusi nel 400,
specchi dei principi che descrivono dei principi di eccezionali virtù e qualità, dei Principi modello, dei
Principi ideali, ma non solo. La storia del pensiero occidentale è ricca di stati ideali, si comincia
quantomeno con la Repubblica di Platone, in cui Platone racconta e descrive uno stato governato da
filosofi, e quindi giusto, gli anni in cui Machiavelli scrive sono gli anni in cui Tommaso Moro scrive la sua
utopia, in cui descrive uno stato utopico, governata da uomini Giusti con regole giuste e morali.
- Il punto è che Machiavelli dice, gli uomini non sono giusti ne morali, nei razionali, quindi
non ci si può comportare come se gli uomini fossero tali. Per machiavelli gli uomini sono
stupidi, credono all’apparenza, gli uomini non sanno controllare e controllarsi, e si fanno
dominare dalla paura. Lui guarda alla realtà delle cose, non come ci piace
immaginarle. Qui Machiavelli si sta riferendo a tutti quei teorici dello Stato che si sono
basati su principi utopici, immaginari. C’è una grande differenza tra la realtà della vita, da
come si vive a come si dovrebbe vivere, cioè a una vita ideale c’è una distanza non
superabile e colui che decide di vivere non secondo i principi reali, ma secondo i principi
ideali, è destinato a cadere. ‘Un uomo’ o un principe in questo caso ‘che voglia fare in tutte
le parti professione di buono conviene che Ruini Fra tanti che non sono buoni’, se un
principe vuol essere buono cade, perché gli uomini non sono buoni. È necessario che un
principe che voglia conservare il potere impari a usarlo, e non usarlo secondo le necessità,
cioè la bontà stessa è uno strumento politico, Ci sono dei momenti in cui il principe deve
sapere essere buono perché tutto ciò Aiuta lo Stato e ci sono dei momenti in cui al
contrario il principe deve usare la non bontà.
- Machiavelli nella seconda parte crea una sorta di indice interno. Machiavelli elenca le
qualità che arrecano biasimo o lode: qualcuno liberale, qualcuno avaro, qualcuno crudele,
qualcuno pietoso …. Machiavelli arrivato alla fine di questo elenco dice che
Sarebbe bello se un principe fosse sempre buono o lodevole, l’elenco precedente è sempre
giocato sulla contrapposizione, qualità positiva e negativa. Machiavelli dice una cosa
completamente diversa cioè che le virtù e i vizi sono soggettivi, dipende dalla condizione,
sono degli strumenti, quindi è bene che il principe si astenga dai vizi, ma se astenersi da
essi vuol dire perdere il potere allora il principe deve seguire quei vizi, perchè allora non
sono più vizi ma sono uno strumento. La cosa importante è che il principe sia tanto
prudente, che sappia fuggire la infamia da quei vizi che gli toglierebbero lo Stato.
L’idea sarebbe che vizi e virtù non esistono in astratto,sono degli strumenti. Devono essere
usati; se una qualità serve a mantenere lo stato è una virtù, anche se nell'immaginario un
vizio. Però ci sono delle cose che devono essere evitate, perché quelle tolgono il potere. Ad
esempio Machiavelli chiaramente fa un discorso che non si basa su un fondamento morale,
qui abbiamo il distacco profondo tra politica e morale. La politica prescinde dalla morale
perchè gli uomini non sono morali, però lui dice che ci sono due cose che l’uomo non deve
fare: a un uomo piuttosto uccidi il padre, ma non toccargli due cose, la donna e la casa. È
una riflessione che possiamo applicare alla nostra realtà politica, ma alla nostra vita
quotidiana, si collega alla dimensione bestiale, la femmina e la tana.
Principe: << nondimanco>> inizio dei capitoli 16 e 17. Alla fine del cap.15 Machiavelli crea una sorta
di qualità contrapposte,ad esempio crudele contro pietoso. È una sorta di indice per ciò che succederà
dopo. Col cap.16 Machiavelli inizia ad affrontate qualità per qualità. Questi capitoli hanno sempre la
stessa struttura, Machiavelli dice in concreto che sarebbe ottimo che il principe avesse la qualità
positiva, ad esempio che fosse liberale, non di meno.. oppure nel capitolo 17 sarebbe ottimo che un
principe fosse pietoso, non di meno…. L’aspetto del nondimeno è fondamentale perché Machiavelli
riconosce il valore positivo di alcune caratteristiche, la liberalità, essere pietoso, però politicamente
dice Machiavelli sono caratteristiche perdenti, nondimeno è meglio essere avari, nondimeno è meglio
essere non ritenuti pietosi. Es. del cap 16: è bellissimo essere liberali, cioè munifici, cioè costruire
grandi magnifici Palazzi, sovvenzionare poeti, sovvenzionare artisti, si passa alla storia come grandi
mecenati. Il punto è che quando arriva il momento di difficoltà, che per Machiavelli è una guerra , chi è
stato liberale si trova senza soldi in cassa, si ritrova impreparato a una guerra costosissima e quindi
deve ricorrere a tasse molto pesanti, E questa provoca insoddisfazione nella sua popolazione e si
indebolisce. Se è stato avaro, non ha speso,quando arriva una guerra il principe ha a disposizione gli
strumenti finanziari per pagare la guerra senza ricorrere ai cittadini, che quindi non vengono toccati,
non toccare un uomo negli interessi. Il punto è avere l’autonomia economica, esattamente come un
principe deve avere le armi proprie per avere l’autonomia militare, quindi non bisogna dipendere da
nessuno, allo stesso modo per la Pietà. Va bene essere considerati pietosi ma a volta politicamente è
pericoloso perché a volte bisogna avere la durezza Per intervenire radicalmente in alcune situazioni.
Capitolo 18: la sincerità capitolo più scandaloso perché Machiavelli viene a parlare della fedeltà alla
parola data, del mantenere la fede vivere con integrità e non con astuzia. Qui Machiavelli dice che è
bene vivere con integrità e con astuzia, nondimeno l’esperienza mostra che il potere viene mantenuto
dai principi che della fede hanno tenuto poco conto, cioè che non hanno rispettato la parola data.
- Machiavelli crea una piccola divagazione, si sofferma sui modi di combattere e dice: si può
combattere in due modi con le leggi e con la forza, le leggi sono il modo di combattere
dell’uomo e la forza è il modo di combattere delle bestie. Il primo a volte non basta e quindi
bisogna ricorrere alla forza. Machiavelli dice che Bisogna sapere usare la bestia e l’uomo,
l’idea dello strumento.
- Machiavelli va oltre, nuovamente distingue le bestie in due in due: la volpe , da sempre
metafora dell’astuzia e il leone, la forza vera e propria. Volpe e leone vengono usate per
due cose diverse e di nuovo dice: Bisogna saper usare sia la volpe in alcune situazioni, sia il
leone in altre, ma attenzione perché la volpe, cioè l’astuzia e l’ipocrisia, è ancora più
importante del leone. Qui Machiavelli dice ciò che Cicerone aveva detto nel de officiis: ci
sono le leggi c’è la forza, uno dell’uomo e l’altro è degli animali, proprio per questa bisogna
usare le leggi, Cioè l’uomo. Cicerone va oltre e dice che ci sono due tipi di combattimento
da animale: la volpe e il leone, l’astuzia e la forza, ma ancora peggio del leone è la volpe,
perché essa vuol dire usare in maniera immorale qualche cosa, cioè l’intelletto che è quello
che ci distingue dagli animali.
- Machiavelli riprende un caposaldo del pensiero politico occidentale e lo sta completamente
ribaltando per dire l’opposto, non esiste il bene e non esiste il male, Ma esiste l’uso che si
fa dell’uomo e delle regole, la cosa più importante per un politico è, come viene detto Nel
quarto brano essere simulatore, cioè dare l’apparenza di avere una caratteristica, e di
dissimulatore, cioè essere capace di nascondere che si è fatto qualcosa. Qui traspare
l’immagine negativa dell’uomo, che traspare dal principe, gli uomini sono tanto semplici,
stupidi e tanto qui il cono alle necessità presenti, Cioè non sanno ricordare ciò che è stato
detto e ciò che è stato fatto e non sanno prevedere il futuro, ubbidiscono al presente come
gli animali, che colui che inganna troverà sempre e si lascerà ingannare.
- L’ultimo brano è il più Cupo, perché Machiavelli dice: il principe deve avere grande cura, la
qualità più importante che un politico deve non avere, ma sembrare di avere è la
religiosità, cioè lo spirito religioso, perché la religione è Un collante politico, la religione fa
credere ciò che altrimenti non sarebbe credibile, a una forte spinta di vincolo e anche di
retorica
Capitolo 25: la fortuna penultimo capitolo, l’ultimo capitolo è quello in cui si parla dell’esortazione a
liberare l’ Italia dai barbari. In questo capitolo, molto importante, si parla della fortuna in un certo senso
abbiamo visto che è il grande tema di fondo del principe è il tema della fortuna. Lo abbiamo visto anche nei
capitoli 6 e 7, dedicati al modo in cui i principi conquistano il potere, abbiamo visto il grande esempio del
Valentino, che prende il potere con la fortuna, cerca di conservarlo e di rafforzarlo con la virtù, ma poi la
fortuna prevale. Questo è un aspetto molto importante, se Machiavelli e il principe sono tragici, la lotta
contro la fortuna è perdente. Machiavelli dedica l’ultimo capitolo prima dell’ esortazione finale alla fortuna,
Ricordiamoci che sta vivendo in un’epoca sconvolta da avvicendamenti, e in un’epoca che sembra essere
dominata dalla fortuna. Lui ha un problema, vive in una società Cristiana in cui la fortuna non può avere
cittadinanza, perché vorrebbe dire presupporre un’entità superiore all’uomo ed esterna a Dio, Questo è un
problema. Machiavelli dice che in realtà l’uomo per il 50% può, e per il 50% può fortuna; l’uomo può
contrastarla. Subito dopo crea questa similitudine: la fortuna è uno come di quei fiumi rovinosi che quando
si adirano vanno in piena, allagano i piani, rovinano gli alberi, lievano da questa partr terreno, pongno da
quell’altra… possiamo notare come qui Machiavelli faccia riferimento a stati che muoiono e stati che
nascono, dice che però il buon contadino costruisce la diga, il buon contadino sa prevedere con l’esperienza
Dove è più probabile che un fiume esondi e li costruire la diga. Allo stesso modo il principe di fronte a
questo fiume metaforico, è un principe di ingegno e di virtù, quando i tempi sono quieti può costruire dei
ripari e degli argini, Machiavelli dice sì la fortuna contrattabile.
Machiavelli rende più complesso il problema, lui osserva, perché tutti lo osservano, che due politici che
agiscono in maniera diversa possono ottenere il medesimo effetto, magari due politici agiscono in maniera
diversa e tutti e due trionfano oppure falliscono, oppure due principi agiscono nello stesso modo e uno
fallisce e l’altro no. Questo è un problema perché se il principe è un trattato in un certo senso tecnico, Cioè
che vuole insegnare a fare il principe, che vuole insegnare a Come si gestisce la vita politica, e poi
improvvisamente si arriva a dire che due principi che fanno la stessa cosa ottengono effetti diverse oppure
ottengono lo stesso esito facendo cose diverse, allora stiamo dicendo che non possiamo insegnare il modo
giusto di agire in politica, non possiamo dire come si deve fare perché le stesse identiche azioni possono
portare a risultati diversi, non c’è un percorso insegnabile e quindi la politica Non può essere insegnata.
Paradossalmente il principe stesso non ha alcun senso se non possiamo insegnare a gestire la politica, allora
scrivere il principe non ha senso. Machiavelli per risolvere questa cosa crea una metafora con due facce
diverse, che si collega ad una concezione biologica, cronologica della politica e del carattere. Dice che ci
sono due caratteristiche umane dominanti nel comportamento, c’è il comportamento impetuoso, che
aggredisce le situazioni ,che si attacca alla gola delle situazioni e c’è il comportamento rispettivo,
attendista, che aspetta come le cose si evolvono. Non lo fai in questo capitolo ma in un altro, Machiavelli
costruisce degli esempi, basati sul modo in cui i romani ai tempi delle guerre contro Annibale hanno
affrontato questo pericolosissimo nemico Annibale, che è arrivato in Italia si è insediato per anni sconfigge
gli eserciti romani e mette la Repubblica a gravissimo rischio, Machiavelli dice che ci sono stati due
comportamenti diversissimi. Abbiamo avuto quello di Quinto Fabio Massimo passato alla storia come il
temporeggiatore, che rispettivo perché lui non attacca più Annibale vuole lasciare che le tue energie si
consumino. Poi abbiamo Scipione che dice visto che Annibale ha qui in Italia con i suoi eserciti che minaccia
Roma, Allora la cosa da fare è andare con il loro esercito contro Cartagine in Africa, lui è l’impetuoso, colui
che aggredisce la situazione, osa tantissimo. Lodiamo due generali perché hanno fatto cose completamente
diverse. Gli impetuosi sono i giovani e gli anziani sono rispettivi, lui non dice che tutti siano così non
generalizza, sono metafore. In concreto il punto è quello che Machiavelli chiama Il riscontro, Cioè non
importa se sei impetuoso o rispettivo, il punto è se vivi nell’epoca adatta alle tue caratteristiche, Cioè se vivi
in un’epoca che richiede un comportamento impetuoso e tu sei impetuoso vincerai, se vivi non è che
chiedo un atteggiamento rispettivo e tu sei impetuoso sarai sconfitto e viceversa. Scipione ha vinto perché
era un impetuoso in un epoca che richiedeva di essere impetuosi, perché la situazione era ormai mutata dai
tempi di Quinto Fabio Massimo, ai suoi tempi la situazione chiedeva di essere rispettivi. Il problema è che
essere impetuosi e rispettivi sono caratteristiche nostre, e quindi noi non siamo in grado di modificare il
nostro comportamento, Se sei impetuoso non sei in grado di essere rispettivo, viceversa. Finale Cupo e
negativo, è come dire l’uomo non può nulla contro la fortuna, l’uomo vince semplicemente se riscontro tra
la condizione storica e la propria caratteristica interiore. Machiavelli probabilmente si rende conto di
questo finale cupo e introduce una metafora che lascia una prospettiva: Comunque è meglio essere
impetuosi che rispettivi, perché la fortuna è donna e quindi per battere la fortuna, per essere superiori
occorre tenerla sotto, batterla e urtarla, perché la donna è amica dei giovani e quindi La donna preferisce i
giovani e quindi preferisce gli impetuosi.(immagine sessuale tra le righe) Il problema è che tutto ciò non è
dimostrato, perché è una metafora. Dubitare sempre di chi in politica utilizza delle metafore perché le
metafore sono delle forme retoriche e quindi adattabile ad ogni situazione. Se l’assunto è che la fortuna è
donna e la donna preferisce gli impetuosi e gli audaci e allora è meglio essere impetuose o baci, ci
rendiamo conto che questa non è un'argomentazione razionale. La fortuna è donna: metafora misogina.
Testo condannato da tutti.
16/03
La questione della lingua
Nei primi decenni del Cinquecento si accende un grandissimo dibattito, che tecnicamente chiamiamo
questione della lingua, e che attraversa l’orizzonte culturale italiano per decidere quale debba essere la
lingua da usare nella letteratura.
Questo dibattito in seguito e soprattutto nell’800 è stato visto in termini molto negativi perché è fiorito e
ha avuto la maggior forza proprio nel periodo del collasso politico italiano, tra la discesa di Carlo VIII (1494)
e il trionfo dell’egemonia spagnola in Italia, quindi alla metà del quarto decennio del 1500. In realtà la
polemica che nell’800 colpisce la questione della lingua è legata a ragioni politico-morali: l’idea era che
l’Italia stava perdendo la sua indipendenza, la sua libertà e gli intellettuali italiani conducevano delle
polemiche sull’uso dell’articolo, di una desinenza, quale forma dare a un verbo, su minuzie linguistiche, non
percependo ciò che stava accadendo, o, peggio, percependolo e rifiutandosi di opporsi a tutto ciò.
La questione è in realtà un po’ più complessa: è proprio per ciò che stava accadendo a livello politico che
aveva molto più senso che questa questione della lingua diventasse un problema centrale nella nostra
cultura e identità. D'altronde possiamo ricordare che il problema di quale lingua usare nella letteratura è un
problema che alle idee degli intellettuali italiani si affaccia fin da subito: abbiamo visto quanto fosse
importante per Dante individuare quello che lui chiamava il volgare illustre, cioè una lingua adatta alla
letteratura; abbiamo visto come passava in rassegna tutte le lingue italiane e come le analizzava anche per i
loro usi letterari; Dante escludeva tutte queste varianti locali e proponeva una lingua che potremmo dire
“astratta”, il volgare illustre. Dante, inoltre, già allora legava questa ricerca di un volgare illustre a una
dimensione politica: il volgare illustre – diceva Dante – deve essere anche aulico e curiale, cioè deve essere
il sostitutivo di quell’aula, quella curia, quella sede politica centrale di un regno unico che in Italia è assente.
Quindi in realtà gli intellettuali che dibattono sulla questione della lingua nel ‘500 ragionano in un più ampio
orizzonte politico.
Ci sono tre grandi teorie, le quali tentano di dare ognuna una risposta diversa alla domanda: Quale lingua
bisogna usare in letteratura?
1. Teoria fiorentina
2. Teoria cortigiana
3. Teoria bembiana, o «classicismo volgare»
N.B. L’ordine scelto non è quello cronologico giusto, è un ordine che facilita la comprensione.
1. La teoria fiorentina (nasce in contrasto con quella cortigiana del secondo punto)
- Indica nel fiorentino vivo (effettivamente parlato a Firenze dall’epoca) la lingua da usare in letteratura.
Si parte da un assunto comune a qualsiasi intellettuale dell’epoca e cioè il fatto che Dante, Petrarca e
Boccaccio sono i grandi autori che hanno modellato per sempre la letteratura italiana ed erano
direttamente o indirettamente fiorentini.
L’idea è che poiché Dante, Petrarca e Boccaccio hanno scritto in fiorentino si deve utilizzare il fiorentino
nelle sue trasformazioni, cioè il fiorentino vivo.
Bisogna fare una precisazione: il fiorentino naturalmente è una lingua storica e, come tutte le lingue della
storia, si modifica nei secoli.
Per di più Firenze già nel ‘300 e poi anche nel ‘400 è il centro di una grandissima immigrazione dall’ovest e
dal sud della Toscana. Quindi il fiorentino era profondamente mutato, era mutato nella morfologia, nella
fonetica; era sicuramente molto diverso il fiorentino parlato nel ‘500 da quello usato nel ‘300.
Poi bisogna distinguere la lingua del parlato da quella scritta.
- Presenta una funzione politico-culturale fin da subito, e che poi soprattutto con la metà del ‘500
diventerà importantissima.
L’idea è quella che la letteratura e la grande storia letteraria diventano uno strumento proprio di rilevanza
politica, e in un certo senso Firenze e il ducato di Toscana poi, si presenteranno come centro della cultura
di tutta Italia, e anzi, poiché la letteratura italiana nel ‘500 è la letteratura di riferimento di tutta Europa, è
chiaro che allora poter rivendicare l’egemonia linguistica vuol dire rivendicare una centralità culturale in
Europa, quindi siamo di fronte veramente a una strategia politica.
A questo punto è ovvio che se si parla di possesso del fiorentino vivo, questo vuol dire che soltanto chi è
naturalmente fiorentino potrà valutare, giudicare, essere arbitro della lingua, rivendicare una centralità
politica. Non è molto diverso da ciò che accadrà con la storia della pittura del Vasari, con l’idea di
rivendicare in ogni campo dell’arte (nella pittura come nella letteratura) una centralità e quindi anche una
proprietà.
Questa esclusività arriverà a dei vertici quasi divertenti, di cui ne riportiamo uno che è quasi un aneddoto,
ma è molto significativo: intorno alla metà del ‘500 un autore, Giambullari, teorizzerà che il fiorentino
discende dall’etrusco, questo perché ciò gli permetteva di ampliare la distanza tra il fiorentino e tutte le
altre lingue italiane legate invece al latino, quindi in un certo senso rafforza ancor di più l’idea della
diversità della lingua fiorentina e quindi l’inevitabile necessità che solo un fiorentino possa avere un pieno
possesso della lingua.
- Il trattato probabilmente più importante è il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua,
probabilmente del 1515 e attribuito a Machiavelli.
Notiamo in primo luogo che non si parla né di fiorentino, né di italiano, né di volgare, ma semplicemente di
nostra lingua.
Da cosa nasce questo trattato? È in sostanza una confutazione delle teorie del De vulgari eloquentia di
Dante. Dante, alla ricerca della lingua da usare, escludeva tutte le parlate locali, fiorentino incluso e
proponeva per l’appunto un volgare illustre, un volgare che in un certo senso fosse sovra-nazionale; e ciò
era in contrasto con la teoria fiorentina.
Il De vulgari eloquentia era riemerso, era stato ripubblicato da Trissino (un autore e intellettuale vicentino,
quindi non di Firenze, che vedremo meglio dopo). Trissino pubblica però la traduzione del testo, non la
versione in latino di Dante.
Il problema, invece, per un intellettuale fiorentino è doversi contrapporre a un testo sulla lingua del grande
autore fiorentino per eccellenza, quindi c’è la necessità di confutare le posizioni di Dante. Più avanti alcuni
intellettuali fiorentini negheranno che il De vulgari eloquentia sia di Dante e molti accuseranno il Trissino
proprio di un falso.
Nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua l’opera è invece considerato di Dante. L’autore,
probabilmente Macchiavelli, dimostra come Dante stesso in realtà nella Commedia abbia utilizzato una
lingua che è in contrasto con le teorie del De vulgari eloquentia, cioè che Dante abbia teorizzato una
posizione e che al contempo lui stesso non l’abbia applicata; quindi ragiona sulla natura propria delle
lingue, sulla morfologia (cioè per esempio la coniugazione di un verbo, le declinazioni dei pronomi, ecc.)
affermando che siano proprio questi gli aspetti che fanno parlare di una lingua e non di un'altra e non ad
esempio il lessico. Sotto questi punti di vista – dice Macchiavelli – è in dubbio che la lingua usata nella
Commedia sia la lingua fiorentina e, a questo punto, polemizza con tutti quegli intellettuali del nord che
vogliono mescolare il fiorentino con quelle che lui chiama le “bestemmie di Lombardia”, espressione
molto forte, ma che fa comprendere con chiarezza come un fiorentino di inizio ‘500 dovesse percepire le
parlate settentrionali.
2. La teoria cortigiana
N.B. In realtà è una teoria con moltissime sfaccettature, a spettro molto ampio, noi qui stiamo
semplificando e quindi utilizziamo questa etichetta di “teoria cortigiana”.
Naturalmente siamo ancora nel primo Rinascimento e sono moltissime le corti presenti in Italia, e non ci
sono soltanto le corti degli stati capitali, ma ogni signore, ogni aristocratico ha una propria corte. Il punto è
che in queste corti, grandi o piccole, non si raccolgono soltanto gli aristocratici e gli intellettuali del
territorio, ma arrivano da tutta Italia; l’effetto è ovvio: nelle corti viene parlata una lingua alta e che
presenta i tratti migliori delle varie lingue italiane, per la semplice ragione che i parlanti sono tutti persone
colte.
Vedremo tra qualche lezione il caso emblematico della corte di Urbino, una corte indubbiamente minore
rispetto ad altre, ma che eserciterà un ruolo importantissimo nella cultura italiana.
- C’è una corte che, all’interno della teoria cortigiana, riceve più attenzione rispetto alle altre e che viene
identificata come un caso particolarmente positivo, ed è la corte papale, la corte del Pontefice a
Roma.
Ecco un esempio un po’ più tardo, ma divertente: meglio un morto in casa che un marchigiano alla porta,
è un’espressione tipicamente romana e si trova qualcosa di molto simile anche a Firenze: meglio un morto
in casa che un pisano all’uscio (e ogni città a la sua variante). In realtà tutte queste forme in Toscana sono
adattamenti perché la forma originale è quella romana: a fine del 1500 diventa papa un nuovo Pontefice,
papa Sisto V, che si trova a dover fronteggiare una situazione finanziaria disastrosa e soprattutto un sistema
di esazione delle tasse che fa acqua da tutte le parti; quindi decide di mettervi mano. Non fidandosi
dell’amministrazione già presente, decide di affidare questo incarico ai suoi conterranei, che gli saranno
fedelissimi. Questo Papa è marchigiano, della provincia di Ascoli Piceno; quindi capiamo bene cosa voglia
dire il detto: meglio un lutto che avere l’esattore delle tasse.
Altro piccolo aneddoto: è diffusa la dichiarazione dei romani di Trastevere di essere i veri “romani de
Roma”, questo semplicemente perché con questi flussi di gente a Roma dall’esterno c’è una carenza di case
e abitazioni, e quando si presenta questo problema i costi salgono enormemente. Il punto è che i ricchi,
cioè coloro che possono permettersi l’affitto, sono coloro che arrivano al seguito del Papa, i “romani de
Roma” non possono più permettersi di abitare a Roma centro e devono andare oltre Tevere , ma
ricorderanno sempre che sono loro i “romani de Roma”.
Questi sono esempi minimi, ma che ben danno l’idea dell’impatto di un Pontefice che viene da fuori, sulla
società, la demografia e ovviamente anche la lingua di Roma.
Tra ‘400 e ‘500, grazie a questa sequenza di papi, prima toscani e poi fiorentini (Leone X, papa Medi ci, ecc.),
arrivano a Roma tantissimi toscani e fiorentini e la lingua si toscanizza, si fiorentinizza (non a caso i dialetti
fuori Roma del resto del Lazio sono ancora oggi molto diversi dalla lingua che si parla a Roma).
In più, non solo Roma si è toscanizzata e fiorentinizzata, ma nella corte del Papa naturalmente affluiscono
vescovi e cardinali da tutta Italia, e ognuno di essi porta i propri intellettuali da tutta Italia a costituire una
corte gigantesca. Ecco allora che la corte del Papa a Roma diventa il massimo esempio della teoria
cortigiana.
C’è anche un altro aspetto della corte papale che riguarda la lingua: come abbiamo detto affluiscono
intellettuali e persone da tutta Italia e inevitabilmente le parole si scrivono in maniera diversa nelle varie
parlate, magari il suono è simile, ma cambia la grafia. Roma, con la corte papale, ha un vantaggio in più,
cioè l’uso del latino. Questo vuol dire che la lingua che si parla nella corte viene poi scritta con una grafia
latina. Per questo a volte troviamo strani i testi del ‘400, inizio ‘500: perché scritti con una grafia latina
(anche se poi questo non comporta che debbano essere pronunciati come se fossero latini).
Esempio: la parola ‘azione’ nel ‘400 si scrive come l’avrebbero scritta i latini, cioè ‘actione’, ma la pronuncia
era comunque ‘azione’.
Quindi, teoria cortigiana: il meglio delle lingue italiane spesso scritte con una grafia latineggiante e
l’esempio migliore è quello della corte papale.
Il Trissino propone anche di inserire delle nuove lettere nell’alfabeto con risposte durissime da parte dei
suoi contemporanei fiorentini.
Noi siamo abituati a dire che l’italiano ha 5 vocali: A, E, I, O, U. In realtà non è vero, l’italiano, o meglio il
fiorentino, ha 7 vocali, cioè: A, I, U, E aperta (è), E chiusa (è), O aperta (ò), O chiusa (o). Il problema è che
le parlate settentrionali hanno effettivamente soltanto 5 vocali: A, E, I, O, U.
Un fiorentino sa esattamente quando pronunciare la E aperta e quando la E chiusa, e così per la O, non ha
bisogno quindi di distinguere graficamente la vocale aperta da quella chiusa. Per il settentrionale invece,
questo è un grosso problema perché si torva di fronte un unico segno grafico per due vocali diverse, e
tendenzialmente sbaglia.
Esempio: (verso della Commedia) O Tosco che per la città del foco vivo t'en vai, cioè “Oh tu che sei della
Toscana e che da vivo attraversi l’inferno”. Pronunciando Tosco con la prima O chiusa il significato è
totalmente diverso: “Oh veleno che sei della Toscana e che da vivo attraversi l’inferno”; mentre Tosco con
la O aperta (ò) significa toscano. Questo era un problema di tutti i settentrionali.
Il Trissino, vicentino, propone di introdurre delle lettere che possano chiarire quando si tratti della E/O
aperta e quando si tratti della E/O chiusa; e propone di introdurre dei caratteri dell’alfabeto greco: la
epsilon (E; ε) e la omega (Ω; ω). La cosa singolare è che effettivamente il Trissino nelle sue opere usa
effettivamente quei caratteri.
È una scelta che ovviamente non avrà alcun futuro, ma è estremamente significativa del problema di
pronuncia per i settentrionali.
Il Trissino non era poi così “matto”: noi siamo abituati a trovare la U e la V come due caratteri grafici ben
distinti, ma era così, la distinzione grafica non c’era fino ad allora perché i latini utilizzavano lo stesso segno
grafico.
Rimarchiamo il fatto che sia veneziano perché abbiamo visto il Trissino, vicentino, ora vediamo il Bembo,
veneziano, e possiamo già dire che i grandi linguisti di questo periodo, e non solo, sono veneti o per di più
friulani, o addirittura dalmati; cioè vengono da zone in cui è molto forte la distanza tra la propria lingua e il
fiorentino. Quindi è proprio la forte distanza linguistica a creare gli interessi linguistici teorici più forti.
Il fatto che Bembo sia veneziano avrà però, anche un’altra implicazione: in un’epoca in cui l’editoria è
ancora giovanissima, pioneristica (si cercano forme nuove, il sistema non si è ancora cristallizzato), Venezia
è la capitale dell’editoria europea, e questo essenzialmente perché:
A. È un porto quindi
- Le materie prime arrivano molto più facilmente e quindi il loro costo è basso;
- Il prodotto finito, libro, può arrivare in tutti i mercati e quindi è più basso anche il costo della
distribuzione;
(Questo rende il libro veneziano assolutamente concorrenziale rispetto a qualsiasi altro libro in Italia).
B. È una Repubblica. Questo significa che gli intellettuali italiani tendenzialmente sanno che a Venezia
potranno avere dei margini di autonomia e di libertà di pensiero (NON travisare! Venezia è
rigidissima verso qualsiasi idea che possa attentare alla solidità delle strutture della Repubblica,
cioè strutture aristocratiche. Però è anche vero che è estremamente tollerante nei confronti di
tutte le altre idee).
Tra l’altro la Repubblica sa benissimo che l’editoria e l’indotto che gira attorno ad essa è una fonte
importantissima del bilancio dello stato e quindi a maggior ragione garantisce una serie di tutele e sicurezze
agli intellettuali, che quindi preferiscono ritirarsi a Venezia.
Pietro Bembo è un caso anomalo perché, pur di grande famiglia aristocratica, si impiega nel mondo
dell’editoria, che per buona parte è ancora un mondo molto disordinato, di sfruttamenti, un mondo anche
sporco fisicamente, artigianale.
Ma a Venezia ci sono delle nicchie di altissima cultura e di editoria raffinatissima, ad esempio Aldo
Manuzio, un editore rivoluzionario che avrà un impatto fondamentale nella storia dell’editoria e della
cultura mondiale. Presso Aldo Manuzio lavora anche un intellettuale importantissimo della scena europea
come Erasmo da Rotterdam, che essendo un grande conoscitore delle lingue classiche trova impiego
presso di lui.
Pietro Bembo collabora strettamente con Aldo Manuzio, e collabora come filologo. Aveva dei ricchissimi
studi alle spalle della letteratura latina, aveva studiato anche la trasmissione dei testi, aveva lavorato per
ricostruire il modo in cui i testi latini si erano deformati progressivamente per cercarne la versione
autentica.
Perché è così importante che Pietro Bembo, veneziano, lavori nell’editoria veneziana?
Venezia era un po’ la Silicon Valley dell’editoria e l’editoria ha bisogno di un’interfaccia come un computer.
Un libro stampato a Venezia ha bisogno di essere smerciato in tutta Italia, ma, per assurdo ipotizziamo un
libro stampato a Venezia in dialetto veneziano, questo potrà essere venduto praticamente solo in città;
invece l’editoria ha bisogno di una lingua stabile, sicura, universale per tutta Italia che garantisca che il
libro possa essere venduto e magari anche per parecchi anni: questa è la ragione per cui è così importante
Venezia, centro editoriale, per la questione della lingua.
Pietro Bembo è il protagonista di un’edizione eccezionale, cioè nel 1501 pubblica presso Aldo Manuzio il
Petrarca. È una piccola edizione del Canzoniere e de I trionfi e quest’edizione viene pubblicata con il titolo
Cose volgari; l’anno successivo pubblica anche la Commedia. Oltre al fatto che simbolicamente questa
edizione di Petrarca curata da Pietro Bembo apre il secolo, perché è così importante? Perché Pietro Bembo
stacca completamente questa edizione dalla tradizione dell’editoria precedente, cioè pubblica queste
edizioni nello stesso formato, nello stesso modo in cui erano pubblicati i classici latini: crea, si potrebbe
dire, una sorta di collana, cioè pone una continuità tra i due autori volgari moderni e i grandi autori classici
latini.
Non solo, Pietro Bembo era un filologo. Ciò che fa con Petrarca è lavorare anche sugli autografi, cioè in un
certo senso (e questo è fondamentale) tratta Petrarca come se fosse un grande classico del mondo antico e
non del mondo moderno.
Qui si inserisce nel problema della questione della lingua anche un altro grande problema e cioè quello
dell’imitazione: posto che bisogna imitare un modello (questo è il principio del Rinascimento in qualsiasi
arte), quale autore prendiamo a modello?
Bembo si pone questa domanda, ma parte da un problema ancora precedente: già nel ‘400 c’era stata una
questione sui modelli latini; cioè, in un’epoca come il ‘400 in cui il latino è tornato ad essere la lingua della
cultura, o ancor di più della poesia (venivano scritti molti più testi in latino che in volgare), il problema era:
quali grandi autori latini prendiamo come modello?
Nel ‘400 c’è una famosissima polemica tra due grandi intellettuali: Cortese e Poliziano. Le due idee, di
questi due intellettuali, ma anche di molti altri nell’orizzonte culturale dell’epoca, sono:
- Il Cortese dice che si deve usare come modello il migliore tra tutti gli autori latini, cioè Cicerone;
- Poliziano contesta questa idea del modello unico ciceroniano e dice che bisogna guardare a molti
modelli, molti autori: il principio della dotta varietà. Poliziano dice: io non sono una scimmia,
non sono un pappagallo (classiche metafore dell’arte imitativa in senso pedestre e ripetitivo); un
autore deve fare come l’ape che passa per molti fiori diversi e il miele che produce (la poesia
che il poeta produce) avrà il sapore di tutti questi fiori.
Nuova parentesi:
Il ‘500 è un’epoca che conosce il ciceronianesimo, cioè l’imitazione pedante di Cicerone; addirittura
abbiamo dei testi satirici, di cui il più famoso è di Erasmo da Rotterdam, in cui viene sbeffeggiato
l’intellettuale di poco respiro, ottuso, che dice che si può usare soltanto Cicerone e che si può usare
soltanto nel senso che persino nella coniugazione di un verbo si può usare un verbo usato da Cicerone
soltanto nelle persone di cui si trova attestazione in Cicerone (ovviamente è una satira, un’estremizzazione,
ma dà l’idea della fedeltà rigorosa al modello di Cicerone).
Questo problema dell’imitazione si trasferisce nel ‘500 al volgare e di nuovo ci sarà la bipartizione: tanti
modelli o uno unico? Abbiamo dei modelli chiarissimi dominanti: i grandi autori del ‘300.
Bembo prende posizione sul il modello unico: un unico modello per la prosa volgare e un unico modello
per la poesia volgare (così com’era anche per la letteratura latina: c’era un unico modello per la prosa,
ovvero Cicerone; e un unico modello per la poesia, ossia Virgilio):
- Il Boccaccio del Decameron, ma non tutto il Decameron: non vanno bene tutte quelle novelle in cui è
più forte la coloritura fiorentina locale, tutte quelle in cui si parla di temi bassi (non
dimentichiamoci che Bembo è un grande aristocratico veneziano) e quelle con dialoghi molto
serrati, molto colloquiali, molto orali; Bembo guarda alla prosa ampia, distesa, retorica, un po’ una
prosa sul modello dei latini, quella della cornice del Decameron, cioè quel Boccaccio che descrive la
vita di una giovane, elegante e raffinata brigata che ricostruisce un modello di vita cortese, oppure
il Boccaccio della IV giornata, cioè il Decameron che parla degli amori tragici che finiscono male,
perché lì ci saranno grandi sentimenti, grandi discorsi, il tema d’amore e una riflessione dolorosa
sull’amore che ben si sposa con la poesia delle origini (ad esempio il lamento di Petrarca sulla
morte di Laura).
e
- Petrarca
Perché non Dante? Bembo guarda a Dante un po’ con sospetto perché presenta un’escursione di stili molto
forte (lo abbiamo visto: si avventura in un linguaggio filosofico estremo, intellettuale potentissimo, ma
anche in un linguaggio molto basso).
Bembo per dimostrare come sia meglio evitare Dante cita una similitudine tratta dall’Inferno. È una
similitudine riferita a dei dannati che nell’inferno sono colpiti da una malattia dermatologica, sicché
passano tutto il tempo a grattarsi furiosamente. Dante dice che questi dannati si grattano furiosamente
strappandosi via la pelle a squame esattamente come un pescivendolo col coltello gratta via le squame di
un pesce, questa è un’immagine sgradevole, perché nell’immaginario d’epoca quello del pescivendolo è un
lavoro basso, sporco, che comporta anche odori sgradevoli; quindi è un’immagine assolutamente da
evitare. Ma, ricordiamo anche che Dante nella Commedia usa anche parole come ‘merdoso’, ‘merda’,
‘trullare’; Bembo avrebbe avuto ben altri strumenti che la similitudine del pescivendolo per dire che Dante
è troppo basso, ma quei termini non vengono nemmeno menzionati, non possono affacciarsi alla mente di
un aristocratico veneziano. Però per l’appunto è questo il problema di Dante: è troppo materiale, fisico,
volgare, o anche troppo estremo verso l’alto.
Petrarca invece garantisce un linguaggio più ristretto, ma al contempo più selezionato, più raffinato, forse
più monotono, ma più sicuro.
Se il modello della poesia diventa Petrarca comprendiamo meglio perché la poesia italiana dei secoli
successivi abbia difficoltà ad affrontare certi temi, perché banalmente manca il linguaggio per affrontare
certi temi più bassi.
Quindi, tornando alla questione sulla lingua, Bembo propone come lingua il fiorentino, ma il fiorentino dei
grandi autori del ‘300, Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. A Bembo vengono mosse due
obiezioni:
L’obiezione ha senso perché il volgare viene visto effettivamente come una lingua morta, proprio perché
viene modellato su una lingua che non esiste più (il fiorentino dell’epoca di dante, Petrarca e Boccaccio).
L’idea è quella di creare una lingua letteraria partendo da testi letterari di 200 anni prima.
Risposta: Bembo dice che in realtà lui parla ai i vivi del futuro, cioè se la lingua che lui propone è una lingua
costruita su modelli che ormai sono fuori dalla storia, questo significa che la lingua che sta creando non
sarà modificata dalla storia.
Bembo rimprovera a sua volta ai suoi oppositori di parlare ai morti, perché essi parlano ai contemporanei
e quindi non saranno più in grado di parlare agli uomini del futuro, per la semplice ragione che gli uomini
del futuro non comprenderanno più la lingua del loro oggi.
Bembo dice che la sua è una lingua solida, stabile, che ha costruito artificiosamente, è quindi una lingua che
non si modificherà, che tutti gli uomini del futuro, studiandola, potranno comprendere.
Bembo trasforma il volgare in qualcosa di parallelo al latino, si potrebbe dire. Infatti, c’è una ragione se oggi
tutti riescono a leggere un testo del ‘500 e un testo di dante senza alcun problema o con pochissimi
problemi. In altre lingue, per esempio il francese, non è possibile leggere un testo dell’epoca di Dante o del
rinascimento senza vocabolario, senza studio.
Questo perché la lingua della letteratura, alta, è stata sostanzialmente cristallizzata da Bembo. Ci sono state
modifiche minime nel corso dei secoli, proprio perché il modello era unico: quello petrarchesco e quello di
Boccaccio. Bisognerà aspettare la Prima Guerra Mondiale con gli scambi nelle trincee e poi ancora di più la
radio e la televisione perché l’italiano si stacchi veramente dall’italiano letterario, altrimenti per secoli
l’italiano è stato, per così dire, la faccia letteraria dell’italiano.
Bembo aveva perfettamente colto che l’unitarietà sarebbe stata data per via di lingua, per via di
letteratura, ed è un’unità nello spazio e nel tempo.
Risposta: Bembo dice che gli ultimi in grado di possedere veramente la lingua sono proprio i fiorentini, cioè
ribalta il principio di priorità, perché i fiorentini imparano questa lingua da bambini, per loro è naturale, ma
in un certo senso imparano questa lingua con tutti gli errori, le volgarità, le imperfezioni. Per fare
un’analogia: gli stranieri che imparano l’italiano sicuramente hanno un repertorio lessicale più piccolo di un
italiano, ma di contro non sbagliano mai per esempio le coniugazioni dei verbi, o le ipotetiche.
Quindi Bembo, veneziano, studia l’italiano come una lingua straniera, come una lingua morta,
grammaticalmente; e crea un percorso attraverso cui tutti gli italiani studieranno l’italiano, la lingua,
grammaticalmente, come una lingua straniera.
Il secondo grande padre della lingua italiana non è un parlante italiano: usa il francese o il milanese
(Manzoni); l’italiano è una lunga conquista e così è anche per un altro grande autore come Alfieri.
Quindi la lingua italiana che noi parliamo nasce assolutamente per via letteraria.
Prose della volgar lingua, Pietro Bembo (NON in programma, vediamo solo alcuni elementi)
Si tratta dell’opera vincente di tutta la questione sulla lingua, viene pubblicata nel 1525, ma è probabile che
la composizione abbia richiesto in realtà diversi anni; ci sono ipotesi diverse: alcuni dicono che i primi due
libri forse erano già stati cominciati nel 1512-13. Insomma, è stata una stesura che ha richiesto tempi
lunghi.
L’opera è un dialogo in 3 libri tra più personaggi nobili e importanti. C’è ad esempio il fratello di Pietro
Bembo, Carlo, che è il portavoce dell’autore; c’è Giuliano de Medici, il figlio di Lorenzo de Medici; e poi altre
figure importantissime, ma magari poco note come Federico Fregoso (un aristocratico e intellettuale del
‘500).
Un dialogo in 3 libri perché, come già detto, il dialogo è la forma classica del trattato, quindi dietro queste
Prose c’è nuovamente un grande modello classico: in primo luogo i dialoghi ciceroniani o addirittura i
dialoghi di Platone.
Viene messa in scena un’elegante, raffinata e coltissima discussione all’interno di un ambiente
aristocratico che corrisponde all’elevatezza della lingua proposta.
I primi 2 libri, in concreto, espongono quanto già detto sulle teorie bembiane:
- C’è la difesa del volgare rispetto al latino (siamo in un’epoca in cui il volgare “non ha ancora vinto la
battaglia”);
- Si fa una storia del volgare;
- La scelta di modelli trecenteschi perché l’uso della lingua contemporanea non garantisce la
permanenza nel tempo: la lingua viva di oggi non sarà più viva, mentre usare la lingua di modelli
letterari di secoli prima garantisce una cristallizzazione morfologica, garantisce che la lingua più
di tanto non cambi (cosa effettivamente avvenuta con la letteratura italiana);
- L’individuazione dei due grandi modelli trecenteschi fiorentini, Petrarca e Boccaccio, come volgari
da usare rispettivamente per la poesia e per la prosa;
- Analisi retoriche sulla base dei grandi testi petrarcheschi e decameroniani.
Il 3° libro è molto particolare perché in un certo senso presenta una vera e propria grammatica, o meglio
Bembo descrive le caratteristiche morfologiche (coniugazioni, declinazioni, ecc.) nella lingua del ‘300 e
quindi come debbano essere usati nella nuova letteratura.
Se parliamo di grammatica non dobbiamo pensare alle grammatiche che intendiamo oggi con tabelle,
sequenze, ecc. perché siamo sempre di fronte a un dialogo, a un’elegante conversazione tra raffinati
intellettuali. È quindi una grammatica poco fruibile, non può essere uno strumento anche perché manca
ancora un linguaggio tecnico, o meglio, Bembo lo evita perché troppo piatto, troppo basso.
Passo d’esempio:
Ragionare oltre a questo de’ verbi, che sotto regola non istanno, non fa lungo mestiero; con ciò sia cosa che
essi son pochi, e di poco escono; sì come esce Vo, che Ire e Andare ha per voce senza termine parimente, e
del quale le voci tutte del tempo, che corre mentre l’uom parla, a questo modo si dicono, Va Vada. Le altre
tutte, da questa, che io dissi Andare, formandosi, così ne vanno, Andava Andai Anderò e più toscanamente
Andrò e Andrei. Gire e Gìa e Gìo e Girei e Gito e simili sono voci del verso, quantunque Dante sparse l’abbia
per le sue prose. Esce ancor Sono, che Son e So’ alle volte s’è detto e nel verso e nelle prose, e Se’ in vece di
Sei nella seconda sua voce, del quale è la voce senza termine questa Essere, che con niuna delle altre non
s’aviene, se non s’avien con questa Essendo, che si dice eziandio Sendo alcuna volta nel verso. Il qual verbo
ha nel passato Fui e Sono stato e Suto, che vale quanto Stato; e nella terza voce del numero del più Furono,
che Fur s’è detto troncamente, e Furo, che non così troncamente disse il Petrarca. Quantunque Stato è
oltre acciò la voce del passato, che di verbo e di nome partecipa, e torcesi per li generi e per li numeri. […]
Non occorre parlare oltre sui verbi irregolari (verbi che sotto regola non istanno abbastanza
comprensibile); poiché sono pochi e hanno poche differenze; esattamente come vado che ha per infinito
(voce senza termine richiede più sforzo per essere compreso oggi) ire e andare, e del quale tutte le voci
del tempo presente (tempo che corre mentre l’uom parla) si dicono va, vada.
Bembo costruisce la sua grammatica sempre partendo dai testi dei grandi del Trecento e anche distingue
chiaramente tra la lingua della prosa e la lingua della poesia cristallizzandole nel tempo:
Gire e Gìa e Gìo e Girei e Gito e simili sono voci del verso: sono voci che si usano in poesia.
quantunque Dante sparse l’abbia per le sue prose: anche se Dante le ha usate nelle sue prose.
che con niuna delle altre non s’aviene, se non s’avien con questa Essendo, che si dice eziandio Sendo alcuna
volta nel verso: il gerundio sarebbe ‘essendo’, ma si può usare la forma ‘sendo’ in poesia.
È chiaro che se la persona che compra quel libro ha bisogno che gli venga detto che il mare è azzurro, siamo
di fronte a una difficoltà linguistica forte, cioè manca proprio la strumentazione di base.
Quando studiamo la questione della lingua, le raffinatissime teorie di Bembo e i suoi riferimenti ai grandi
autori del ‘300, dobbiamo pensare che il tessuto sociale (non gli analfabeti) era a tutt’altro livello:
dobbiamo pensare che c’era una situazione di enorme dispersione linguistica e l’assenza di un centro
unico come lingua.
Il ‘500 presenta una quantità enorme di testi grammaticali o para-grammaticali. Liburnio ad esempio scrive
anche dei formulari di lettera stampa, un fenomeno editoriale enorme nel ‘500 (es. se si deve scrivere una
lettera di condoglianze, si cerca il modello nel formulario, si inserisce il nome tale nel punto giusto e la
lettera è pronta).
Questo è il modello diffuso, le teorie bembiane sono il livello più alto, più raffinato e intellettuale.
Poi proprio dalle Prose della volgar lingua in seguito qualcuno trarrà delle grammatiche più strutturate, con
tabelle e con schemi, quindi di consultazione più immediata e facile, ma al centro di tutto questo cosmo
linguistico c’è proprio l’opera di Pietro Bembo, un intellettuale che ha giocato un ruolo determinante nella
nostra storia letteraria, linguistica, sociale e persino politica.
18/03
LUDOVICO ARIOSTO
ORLANDO FURIOSO
L’opera di cui parliamo oggi non è solo una delle due grandi opere della letteratura italiana, l’altra
naturalmente è la “Commedia”, ma è anche un’opera che ha lasciato il segno nella storia della cultura
europea occidentale ma non solo, è anche un’opera che indubbiamente presenta al suo interno la morte, il
dolore, la vacuità del senso della vita, la confusione in cui tutti noi ci aggiriamo, ma è anche un’opera che
tutto ciò lo traspone in un’altra dimensione, una sorta di dimensione di leggerezza, anche di grande piacere
ed è questo, in un certo senso, il segreto della sua grande fortuna.
Con l’“Orlando Furioso” ci siamo spostati a Ferrara, quella che abbiamo già individuato come una vera e
propria capitale della letteratura rinascimentale, lo abbiamo visto con Boiardo in particolar modo con
“l’innamoramento de Orlando” (“Orlando innamorato”).
Ferrara, avevamo detto, è un ambiente profondamente aristocratico, un ambiente, anzi, che si proietta
sulla cultura cavalleresca del modello francese quindi si può anche dire che modella la propria identità, il
proprio modo di vivere su quei modelli sociali francesi dove il concetto di aristocrazia è molto forte e anche
sui modelli letterari maturati successivamente quindi in primo luogo, per l’appunto, il ciclo bretone o ciclo
arturiano, quello legato a Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda.
Boiardo dà, sotto questo punto di vista, un indirizzo molto forte alla cultura e all’ambiente ferrarese però,
come sappiamo, l’”innamoramento de Orlando” resta incompleto al terzo libro, Boiardo stesso dice che
interrompe la composizione dell’opera perché non è più il momento di cantare proprio perché sono
cominciate le guerre d’Italia quindi questa grande e dolorosa stagione per l’Italia di mire delle potenze
straniere sulla penisola e in cui l’Italia diventa una plancia da gioco dei grandi giochi degli stati stranieri.
Ovviamente un capolavoro come l’innamoramento de Orlando rimasto interrotto provoca un grande senso
di vuoto letterario: il bisogno di sapere come si conclude.
Quando comincia Ariosto la composizione del suo “Orlando furioso”? Noi non lo sappiamo esattamente
quando abbia cominciato la scrittura però una cosa è certa ossia che già nella seconda metà della prima
decade del secolo ci sono diverse attestazioni del fatto che Ariosto stia scrivendo e, anzi, sia già a buon
punto della composizione quindi diciamo che sicuramente tra il 1506 e il 1510 ci sono varie indicazioni che
lui abbia cominciato. La cosa estremamente interessante è che queste testimonianze ci parlando
chiaramente di un Orlando furioso inteso come un’aggiunta (una gionta), una prosecuzione
all’innamoramento de Orlando del Boiardo: quindi nella percezione comune l’Orlando furioso è il
proseguimento dell’innamoramento de Orlando.
Questa non è una cosa sorprendente non è affatto una novità anzi ci sono tantissime opere di altri autori
che si presentano come il 4° libro dell’innamoramento di orlando e poi ci sono opere, magari di autori
ancora diversi, che si presentano come il 5 libro cioè si attaccano all’opera che a sua volta si era attaccata
all’innamoramento de Orlando come se l’innamoramento de Orlando continuasse a produrre opere su
opere, una che dà vita all’altra; non dobbiamo sorprenderci perché è una cosa che succede anche nel
nostro cinema: pensiamo a quanti sequel ci sono di grandi film, a quanti prequel , crossover, incroci, spin-
off, è una cosa normale nella letteratura di consumo e poi anche nel cinema di consumo.
L’Orlando furioso, apparentemente, si inserisce in questa produzione: si presenta come una delle tante
opere che nascono sulla radice dell’innamoramento de Orlando.
L’Orlando furioso sarà ben altro, sarà un testo autonomo, rivoluzionario, animato da scelte stilistiche etiche
e narrative completamente diverse esempio:
Ariosto non cita mai Boiardo, non cita l’innamoramento di Orlando ma vi allude, fa
riferimento ad alcune cose che sta raccontando siano già note al lettore che ovviamente
aveva letto Boiardo ma esplicitamente non lo cita mai, come se Ariosto stesso vuole
interrompere la catena.
Abbiamo visto quando Ariosto comincia a comporre l’Orlando furioso, ma quando lo pubblica?
Nella slide vediamo tre date:
1516;
1521;
1532.
Queste sono date CHE BISOGNA SAPERE, sono date delle 3 edizioni dell’Orlando furioso; l’edizione che
hanno tutti è sempre quella del ‘32 che è più gande delle altre due e decisamente diverse anche dal punto
di vista linguistico. Il punto è che l’Orlando furioso è un’opera che richiese tempi lunghissimi, non è
un’opera scritta di getto.
Orlando furioso si presenta come una “gionta” all’innamoramento de Orlando questo ci dice qualche cosa
di ovvio ossia che il sistema dei personaggi sarà lo stesso del sistema dell’innamoramento con un’opera di
grandissima estensione, quella del 1532 arriva a 46 canti, inevitabilmente da un certo punto in poi
cominciano ad introdursi nuovi personaggi però l’aspetto fondamentale è che il sistema dei personaggi è lo
stesso ma i personaggi un pochino cambieranno.
Ovviamente non sono solo i personaggi che si modificano o che restano rispetto all’innamoramento, ma
sono anche i temi, il modo di trattarli perché abbiamo detto che l’innamoramento de Orlando ibrida il ciclo
carolingio con il ciclo arturiano, bretone, i personaggi erano quelli del ciclo carolingio ma venivano trattati
in modo coerente con il ciclo arturiano quindi importanza dell’amore, della magia.
Questa dimensione, la magia e l’amore, li ritroveremo nell’Orlando furioso ma in maniera diversa e non a
caso il titolo dell’innamoramento è sull’amore e il titolo dell’Orlando furioso è sulla follia.
IL PROEMIO I 1-2
Stiamo parlando di un testo in ottave esattamente come l’innamoramento de Orlando e come in ottave
sono tutti quei testi che derivano dall’innamoramento perché l’ottava è la forma narrativa per eccellenza
ormai nel 500 ma già anche nel 400 e lo sarà ancora nel 600.
Prime 4 ottave dell’interno orlando furioso tra l’altro ricorda che son ottave che possono essere oggetto
di esame nella prova scritta, seconda parte della prova scritta.
Il proemio, lo ricordiamo, è il momento della contrattualizzazione tra l’autore e i lettori e il proemio
presenta sempre alcuni aspetto l’argomento l’invocazione alle muse l’appello in quest’epoca al signore,
mecenate colui che paga i conti dell’edizione e insomma fornisce una serie di chiavi di lettura per tutto il
testo che seguirà.
Prima ottava
“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.”
Questo è l’argomento.
Lo capiamo perché qui l’autore sta dicendo che “io canto”, alla fine del vv.2, e tutto ciò che lo precede è il
complemento oggetto. In un testo che si chiama l’Orlando furioso sarebbe naturale che ci aspetteremmo
quanto meno che Ariosto dicesse io canto Orlando, io canto la sua furia, la sua follia, non c’è niente di tutto
ciò, c’è solo nell’ottava due. Orlando, possiamo dire, non è il vero centro dell’Orlando furioso, non è l’unico
argomento, anzi, la cosa interessante è che l’argomento sono “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori” cioè
abbiamo un plurale e termini indefiniti, nessun nome proprio e questo ci dice che l’Orlando furioso sarà un
testo, in certo senso, plurale dove il vero soggetto non è un singolo personaggio ma è un insieme di
personaggi, tutte le donne, tutti i cavalieri che saranno raccontanti, che saranno descritti.
Qui abbiamo anche una costruzione retoricamente importante perché il vv.1 è forse il chiasmo più famoso
della letteratura italiana.
Chiasmo figura retorica in cui ci sono 4 elementi che vengono enumerati, menzionati in un odine tale per
cui i 2 elementi esterni si richiamano tra di loro e i due elementi interni si richiamano tra di loro. Le donne
richiama gli amori e i cavalieri richiama le armi, altro elemento interno.
Potremmo dire che l’argomento dell’Orlando sia amore e guerra e infatti al vv.2 troviamo le cortesie e le
audaci imprese di nuovo amore e guerra. Assistiamo a una rielaborazione di quanto aveva addetto Boiardo
nell’innamoramento di Orlando, un’ibridazione di ciclo carolingio e ciclo bretone, di guerra e amore però la
cosa più importante è la pluralità, idea che l’Orando furioso non affronta un singolo personaggio ma un
sistema di personaggi.
Io canto, questo io canto che segue, che chiude la sequenza di complementi oggetto.
Importante perché un buon lettore riconosce il modello di questa costruzione perché dietro c’è l’Eneide di
Virgilio che comincia con “le armi e l’eroe io canto” importante il fatto che Ariosto costruisca il proprio
incipit sul modello dell’Eneide, certo aggiunge donne, cortesie, amore, ma il modello è questo. Importante
perché è già uno dei primi elementi che segnala il fatto che Ariosto si sta staccando da tutte le altre opere
che stavano dietro all’innamoramento di orlando.
IL GENERE
È un problema abbastanza forte perché in un certo senso rifugge ogni categorizzazione.
La grande tradizione è quella del romanzo arturiano, romanzo di guerra e di amori, che nel ‘400/’500
mantiene la sua forza, però questa citazione di Virgilio fa sì che per l’Orlando non sia facile parlare solo di
romanzo. Romanzo cavalleresco, etica cavalleresca, NON EPICA.
Ariosto si stacca rispetto all’orizzonte del romanzo cavalleresco contemporaneo e lo fa attraverso una serie
di richiami alla tradizione latina in particolar modo all’Eneide; Ariosto sta trasformando il genere del
romanzo cavalleresco in un genere più alto, più nobile.
PRIMA OTTAVA
“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano”.
Dal vv.3 al vv. 8 Ariosto chiarisce l’epoca, l’ambientazione, quindi la guerra tra Carlo Magno e i mori di
Spagna, mori d’Africa.
Ariosto ci dice tutte quelle cortesie, quelle audaci imprese che avvennero al tempo in cui i mori d’Africa
attraversarono il mare e in Francia procurarono un danno cosi grande seguendo le ire e giovani furori del
loro re Agramante che si gloriò invano di poter vendicare la morte di suo padre Troiano contro Re Carlo
imperatore romano. È un’indicazione cronologica perché l’Olando furioso, come abbiamo detto, si svolge su
questo sfondo pero è uno sfondo anti-storico, è una storia pretestuosa, non è mai esistito un re Troiano, la
maggior parte dell’Orlando furioso si svolge mentre i mori assediano Parigi; storicamente i mori si sono
spinti molto all’interno della Francia ma al limite sono arrivati a Poyet non a Parigi e questa battaglia
avvenne durante i tempi di Carlo Martello, diciamo che si svolge due generazioni prima di Carlo Magno, non
siamo di fronte ad un vero racconto storico.
I mori entrarono in Francia seguendo “le ire e i giovenil furori” del loro re Agramante: Agramante è il primo
nome che viene formulato nell’Orlando furioso ma soprattutto questo re che avvia l’intera storia
dell’Orlando viene connotato con due termini “ire” e “giovenil furori”, ira e furore sono due modi nobili di
dire follia, anzi il furore si lega etimologicamente alla parola furioso che entra nel titolo.
Questo vuol dire che la follia si affaccia fin dalla prima ottava quindi vuol dire che nell’intera storia la follia
sarà dominante e sarà la follia che dà avvio alla storia.
LA STRUTTURA
I-XII Palazzo di Atlante
XIII-XXIII Follia di Orlando
XXIV-XXXIV Guarigione di Orlando
XXXXV-XLVI Finale
Sono 46 canti. In quale canto impazzisce Orlando? Orlando impazzisce esattamente alla fine del 23° canto
cioè impazzisce alla fine della prima metà dell’opera. Attraverso questa dimensione numerica strutturale
riacquisisce quella centralità che gli era stata negata dallo stesso proemio. L’episodio della follia di Orlando
diventa quasi il simbolo di una follia generale.
Perché impazzisce Orlando? Lui è “innamorato” di Angelica e la insegue tanto che abbandona Parigi
assediata dai mori, per amore viene meno ai propri doveri militari, è un Orlando lontanissimo da quello del
ciclo carolingio, vero e proprio soldato cristiano. Se non che un giorno Orlando giunge in un boschetto e
trova degli alberi con incisi dei nomi, una grotta che si apre su un cristallino laghetto e anche questa grotta
porta incisi dei nomi, scritte in arabo; lui sa l’arabo, legge e non vuole credere a ciò che crede ossia che
Angelica si è concessa a Medoro, un nubile fante. Orlando non crede a tutto ciò ed è indotto a cercare una
serie di motivazioni per quelle scritte che vede, ad esempio che Medoro sia il modo in cui Angelica chiami
proprio Orlando nei suoi sogni amorosi, dopodiché suppone che qualcuno voglia inquinare l’onesta di
Angelica e provare danno a lui stesso, fino a che la realtà è evidente ma lui riesce ancora a tenerla sotto
controllo. Trova rifugio a casa di un pastore il quale vedendolo cosi depresso ritiene giusto confortarlo con il
racconto di una bellissima fanciulla che portò in quella casa un povero fante gravemente ferito e lo accudì
amorevolmente fino a che si innamorò, s’innamorò di lui e vissero una meravigliosa storia d’amore. Per
dimostrare che è vero, mostra ad Orlando un bellissimo bracciale d’oro che la fanciulla gli donò quando se
ne andò con il suo amato, glielo donò come ringraziamento per la sua ospitalità; a questo punto Orlando
vede che era il bracciale d’oro che lui aveva regalato ad Angelica. Un po’ depresso orlando sale in camera, si
sdraia sul letto e vede che le pareti della stanza sono piene di scritte e ad un certo punto si rende conto che
il letto in cui è sdraiato è lo stesso letto in cui erano sdraiati Angelica e Medoro e quindi abbandona la
stanza, abbandona le armi e la sua follia esplode, proprio nel cuore dell’Orlando furioso.
Abbiamo degli elementi importanti: il pericolo del voler conoscere. Orlando vuole sapere, conoscere con
una serie di altri personaggi e, per l’appunto, la conoscenza nell’Orlando furioso porta alla follia. Ci sarà un
altro personaggio Rinaldo (che non faremo) a cui verrà offerta una coppa che gli permetterà di scoprire se
la moglie gli è fedele o no e che bevendo il vino non si macchierà significa che la moglie gli è fedele e,
invece, se si macchierà i vestiti con il vino vuol dire che la moglie gli è infedele, Rinaldo prende in mano la
coppa e poi la ripone sul tavolo, si comporta in un modo completamente opposto quello di Orlando, voler
conoscere è segno di follia.
Guardando lo schema nella slide (all’inizio sotto il “STRUTTURA”) si vede che la struttura è più articolata
perché possiamo riconoscere anche una segmentazione uguale tra 1 2 parte e al centro della 2 parte 24-34
vuol dire che alla fine di questo segmento c’è la guarigione di Orlando esattamente come alla fine del
segmento 13-23 c’è la follia di Orlando: al centro ella 2 parte ce la guarigione di Orlando che guarisce
perché un personaggio, Astolfo, va fin sulla luna a recuperare il senno, ma al centro della 1 parte c’è il
palazzo di Atlante che è una sorta di mise en abyme dell’Orlando furioso (gioco narrativo per cui vediamo
sempre all’interno di un quadro, di un contesto, di un opera, vediamo in miniatura la stessa opera più in
piccolo e a volte si può andare avanti all’infinito). Il palazzo di Atlante è una mise en abyme dell’Orlando
furioso perché tutti quasi i personaggi si ritrovano in questo palazzo incantato e accorrono lì perché sono
entrati ognuno cercando il proprio oggetto di desiderio (una donna, un cavallo, uno scudo, un nemico) e
nessuno lo troverà mai. Questi personaggi che, all’interno del palazzo di Atlante, percorrono
forsennatamente il palazzo, come dice il narratore “di qua di là, di su e di giù” (ricordare), rappresentano
l’entrelament, l’intreccio dei personaggi, tutti i personaggi che in questa mise en abyme, che è il palazzo di
Atlante, si incrociano ancora più strettamente e nessuno si accorge degli altri, magari un personaggio sta
inseguendo l’altro e non si accorge che quel personaggio è lì.
Questo palazzo di Atlante è anche una metafora della vita umana in cui tutti cerchiamo qualcosa ma in
realtà non la cerchiamo veramente, cerchiamo un simulacro di qualcosa che è molto più profondo; è
questo l’aspetto geniale e rivoluzionale dell’Orlando furioso perché Ariosto parte da un normale romanzo
cavalleresco e ne fa una grande metafora della confusione, della ricerca, dell’instabilità e dell’inquietudine
della vita umana.
IL PROEMIO ALLA SECONDA PARTE (Canto XXIV, ott. 1-3)
Proemi ai canti
Ogni canto dell’Orlando furioso presenta un proemio e i proemi ai canti possono avere tantissime tipologie.
I proemi sono uno degli elementi più profondamenti rivoluzionari, innovati dell’Orlando furioso.
Esempio
possiamo avere una riflessione morale sui personaggi, quindi, il narratore può fare
osservazioni morali, può desumere dei comportamenti di vita da quello che hanno fatto o
non hanno fatto i personaggi;
il narratore può istituire dei rapporti con la propria contemporaneità, mostrando come
quest’epoca non sia poi così diversa dalla propria per tanti aspetti.
Il narratore vuole chiarire, quindi, l’importante funzione metaforica dell’Orlando furioso.
Ci sono molti casi e alcuni di questi canti sono molto lunghi ad esempio un caso in cui il narratore parla
dettagliatamente estesamente del ruolo e del valore della donna.
Questo proemio è eccezionalmente importante perché è il proemio al canto 24° cioè il proemio alla
seconda parte del romanzo ed è il proemio che segue il canto 23, la follia di Orlando.
Vedremo un altro aspetto importante dell’Orlando furioso (come abbiamo già visto ma lo ripetiamo):
l’importanza rivoluzionaria del ruolo del narratore che diventa un vero e proprio personaggio dell’Orlando
furioso, una sorta di parallelo di Orlando perché, come quest’ultimo diventa folle per amore, anche il
narratore è costantemente a rischio di diventare folle per amore.
“Chi mette il piè su l’amorosa pania, -->chi mette il piede
cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale; --> su questo vischio cerchi di ritrarlo
che non è in somma amor, se non insania, --> che cosa è l’amore se non la follia
a giudizio de’ savi universale:
e se ben come Orlando ognun non smania, --> nessuno fa fuori di matto come Orlando
suo furor mostra a qualch’altro segnale. --> eppure qualcuno mostra un segnale di follia
E quale è di pazzia segno più espresso
che, per altri voler, perder se stesso?”
C’è appena stata la follia di Orlando e il narratore dice che bisogna stare attenti dall’idea dalla trappola
perché la pania è lo strumento con cii si catturano gli uccellini, infatti al vv.2 viene detto “e non v’inveschi
l’ale” cioè non metta le ali sul vischio, questa materia appiccicosa che serve per catturare. Chi mette il piede
su questo vischio, cerchi di ritrarlo. L’attenzione va subito sull’amore, pericoloso, bisogna tenersi lontani
dall’amore poiché amore, dice il narratore, non è altro se non follia (“se non insania”).
Al vv.5 il narratore dice che non tutti danno fuori di matto come Orlando eppure tutti mostrano la propria
follia (“il proprio furore”); l’idea è di nuovo che la follia domina ovunque.
Ricordiamo che nel ‘500 è veramente il secolo in cui domina l’idea che tutto sia folle; se non avete mi letto
“l’Elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam andate a leggerlo è la follia che tesse il proprio elogio e
dimostra che tutto è folle, tutti sono animati dalla follia. Ma, dice, è la follia che fa andare avanti il mondo,
senza follia il mondo si ferma, è la follia il motore delle cose. Nell’Elogio della follia c’è un’immagine
bellissima “è come essere a un banchetto e pretendere di non bere, se sei al banchetto devi bere, se vivi
allora anche devi accettare di essere folle perché tutti sono folli e colui che in un teatro si alzasse
improvvisamente in piedi e dicesse che non è vero ciò che sta succedendo sul palco, che non è vero che
quella persona è veramente Ercole piuttosto che Zeus, ma è soltanto un attore con una maschera, dice
Erasmo, verrebbe preso a sassate da tutti gli altri perché è pazzia pretendere di rinunciare” si vive e si
accetta la follia.
Questo è un aspetto fondamentale che ritroviamo anche nell’Orlando furiosoOrlando diventa matto
perché ha voluto guardare sotto la maschera mentre Rinaldo mantiene la sua ragione perché si rifiuta di
farlo.
(riprende il proemio)
“E quale è di pazzia segno più espresso --> qual’è il miglior segno di pazzia
che, per altri voler, perder se stesso?”--> se non amare gli altri e perdere se stessi
Il volere avere altri, cioè amare altri, e perdere sé stesso è follia e il narratore dice che ci sono numerosi
effetti della follia ma c’è un’unica pazzia e il narratore dice:
“Gli è come una gran selva, ove la via
conviene a forza, a chi vi va, fallire:
chi su, chi giù, chi qua, chi là travia.”
Siamo di nuovo alla selva su cui si è aperto l’Orlando furioso, la selva che è lo scenario di tutti gli incroci
degli incontri dei personaggi perché la selva è la metafora della vita, la vita è una selva in cui
inevitabilmente ci si perde, ci si incrocia, notare gli avverbi di luogo che danno l’idea del continuo
movimento dei personaggi (come nel palazzo di Atlante), tutti i personaggi si muovono per l’intero globo,
una sorta di fuga precipitosa alla ricerca di qualcosa, ma di che cosa? Del simulacro del proprio desiderio
perché ognuno è mosso da un desiderio che può prendere una forma o un’altra, è semplicemente la spinta
che ci spinge a cercare.
Il narratore prosegue accentuando l’attenzione su di sé:
“Per concludere in somma, io vi vo’ dire:
a chi in amor s’invecchia, oltr’ogni pena,
si convengono i ceppi e la catena.”
Chi invecchia in amore è un pazzo che bisogna essere messo alla catena.
“Frate, tu vai
l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo”
Tu mostri che l’amore è una follia ma tu stesso sei folle e sei innamorato.
“Io vi rispondo che comprendo assai,
or che di mente ho lucido intervallo;
et ho gran cura (e spero farlo ormai)
di riposarmi e d’uscir fuor di balloosso;
che ’l male è penetrato infin all’osso.
Il narratore non si pone sopra gli altri uomini, anche lui fa parte del ballo dei folli e gli piacerebbe poterne
uscire ma non può perché il male, la follia, l’amore sono penetrati fino all’osso quindi, di nuovo, l’idea di un
narratore folle che in un testo folle racconta un mondo di folli.
L’EDIZIONE DEL 1532
È quella definitiva e la più importante per due ragioni principali (che sono le stesse ragioni per cui poi
Ariosto rimette mano all’Orlando furioso).
Primo intervento vengono aggiunti ben 6 canti si passa da 40 canti a 46, viene aggiunto tantissimo
materiale, vengono aggiunti nuovi episodi. A cosa sono dedicati soprattutto questi nuovi episodi? Gli
argomenti sono vari, vengono creati dei giochi di raddoppiamenti, dei giochi di specchi che da un lato
rendono ancora più difficile per il lettore seguire la linearità della vicenda, il lettore si trova ancora più
confuso.
Si crea ancora di più un testo labirintico attorno al nostro lettore.
Si creano poi questi giochi di specchi, ce n’è uno significativo e amaro su Orlando perché lui ha
un’intuizione, intuizione che potrà trovare in un certo luogo Angelica e va in quel luogo per salvarla ed è
vero che lei si trova lì, è incatenata ad una rupe e sta per essere divorata da un mostro. Mentre Orlando va
a salvare Angelica, si imbatte in un muovo personaggio “Olimpia” (introdotta nell’edizione del 1532) la salva
e la fa ricongiungere al proprio amato ma nel frattempo Ruggero va a salvare Angelica.
Quando finalmente Orlando raggiunge là dove c’era Angelica, si ritrova di nuovo Olimpia, nella condizione
in cui si trovava Angelica, e di nuovo la salva e la fa ricongiungere con un nuovo innamorato perché Olimpia
era stata abbandonata e tradita dal primo.
Se non fosse stato per Olimpia, Orlando avrebbe potuto salvare Angelica, mentre si è dovuto accontentare
di salvare un’altra fanciulla, non solo, Orlando continua a salvare fanciulle per tutta l’opera e non riesce mai
a salvare e trovare Angelica.
Quando Orlando incontrerà realmente Angelica? Soltanto quando lui è matto e Angelica con Medoro si sta
avviando verso il suo regno, dove Medoro sarà re. Orlando ormai è pazzo, lui non riconosce lei, lei non
riconosce lui, ma Orlando prova comunque desiderio sessuale per Angelica e tenta di “aggredirla” ma lei
riuscirà a salvarsi grazie ad un anello magico.
Qual è il senso di tutto ciò? Ariosto ci sta dicendo che il nobilissimo e purissimo amore di Orlando in realtà
non era altro che pulsione sessuale.
Secondo importante intervento (tra il ’21 e il ’32) sono uscite nel ‘25 le “prose della volgar lingua” di
Pietro Bembo, questo comporta che Ariosto riscriva l’Orlando furioso seguendo il modello bembiano ossia
attenendosi ai principi del classicismo volgare quindi ha i precetti linguistici di Bembo.
Perché? Perché ancora nel 1516 la lingua dell’Orlando furioso era molto simile a quella dell’innamoramento
de Orlando cioè era ancora una lingua con una forte coloritura padana, con una forte coloritura cortigiana,
risentiva ancora dell’uso letterario delle corti padane dell’Italia settentrionale.
Dopo Bembo non può più essere così e Ariosto riscrive totalmente la propria opera e l’Orlando furioso
diventa, in un certo senso, il primo grande capolavoro della letteratura italiana nel senso moderno, nel
senso attuale.
E l’innamoramento de Orlando? Anche l’innamoramento de Orlando viene riscritto, ovviamente da altri
autori nel ‘500, secondo i nuovi principi linguistici e, infatti, ad esempio il titolo diventa “Orlando
innamorato”. Certo, il titolo “Orlando furioso” ormai era così importante e cosi efficace che ha avuto anche
l’effetto all’indietro. Per quanto riguarda il testo (dell’innamoramento de Orlando) nessuno l’ha più letto
nella versione originale e tutti per secoli sono andati avanti a leggere l’Orlando innamorato con la nuova
stesura linguistica e soltanto nell’800 è venuta fuori una rarissima copia dell’edizione originale, edizione con
la prima stesura. È un caso strano ma estremamente significativo dell’effetto delle “prose della volgar
lingua”, le quali hanno tagliato via tutti i testi quattrocenteschi dalla nostra più alta tradizione, li hanno resi
difficili e antiquati.
20 03
PETRARCHISMO
Per ‘’Petrarchismo’’ si intende semplicemente la lirica del ‘500 che prende Petrarca come modello
dominante e ‘’dittatoriale’’. In realtà, non tutte le liriche si configurano, come spesso si crede, come una
banale e sterile ripetizione dei motivi e delle tematiche petrarchesche.
Già nel ‘400 si parlava di ‘’petrarchismo’’, seppur sotto la denominazione di ‘’petrarchismo eclettico’’, però
con un Petrarca spesso ibridato con altri modelli, che veniva ‘’deformato’’; nel ‘500 si può parlare, invece, di
‘’petrarchismo ortodosso’’, che prende come data di riferimento il 1530, anno in cui vengono pubblicate
‘’Le Rime’’ di Pietro Bembo e ‘’Sonetti e Canzoni’’di Jacopo Sannazzaro; la forza di questa coincidenza è
evidente , sono due fuochi culturali nel sistema della letteratura, seppur uno veneziano ed uno napoletano
che operano in ambito lirico, favorendo forme brevi e non narrative.
Il 1530 è anche un anno convenzionalmente esemplare e sommativo, perché già nel 1525 erano uscite le
‘’Prose’’ di Bembo, con il loro impatto radicale e rivoluzionario sulla storia della letteratura italiana e,
soltanto due anni dopo, nel 1532, è stata pubblicata l’ultima edizione dell’ ‘’Orlando Furioso’’ , con il suo
impatto nuovamente importantissimo e profondamente influenzato dal contesto culturale e
dall’andamento della letteratura del periodo.
Potremmo quasi dire, infatti, che il 1530 è un anno cardine, da cui dipenderà la storia della letteratura
italiana e in cui se ne definirà il suo percorso.
Sannazzaro nel 1530 era già morto ed anche la sua produzione poetica, di conseguenza, è molto
precedente (della fine del 1400); ma questo è ancora più significativo perché le Rime ed i Sonetti e Canzoni
risuonano tra di loro, in un certo senso, presentando lo stesso tipo di rilettura, sensibilità e gusto
petrarchesco che i due poeti hanno sviluppato per vie diverse; è il periodo che facilita e legittima la
pubblicazione di testi così particolari, seppur talvolta anteriori tempisticamente.
Sannazzaro è un poeta napoletano ed introduce un aspetto che poi sarà caratterizzante della poesia
napoletana, che influenzerà anche Tasso e Marino: una sensibilità musicale, quasi una morbidezza testuale;
i suoi sono verbi vibranti e delicati, la dimensione amorosa è palpitante ed, al contempo, c’è una percezione
della morte più sottile e più cupa.
Tutta la questione delle Prose della Volgar Lingua nasce dagli interrogativi in merito all’imitazione e dal
problema ‘’autore unico o pluralismo di modelli’’ e, Bembo, in una prospettiva classica indica Petrarca come
modello unico della poesia, esattamente come Virgilio lo era per la poesia latina. Petrarca diventa, quindi,
lo strumento linguistico dominante. E’ necessario chiarire un aspetto fondamentale: per quanto possa
sembrare strano, il petrarchismo ha una funzione quasi sociale, perché la lirica diventa il codice linguistico
di scambio all’interno della scena culturale italiana e non soltanto di quella alta, persino di quella medio-
bassa. I grandi autori vengono ‘’utilizzati’’ e presi d’esempio per creare degli strumenti per comporre, come
liste di parole, liste di frasi, sintagmi ricorrenti e rimari proprio perché con la lirica, nel ‘500, i sonetti
diventano il metro dominante a causa della loro più semplice gestione. Inoltre, il fenomeno sociale della
poesia lirica vede un’impressionante quantità di antologie di tanti autori, ognuna delle quali presenta
moltissimi nomi, importanti e meno, passati alla storia della letteratura talvolta con unici sonetti; è un
fenomeno quindi di massa, in un certo senso, di auto rappresentazione, che ne testimonia la gran fortuna.
Forse il tratto più interessante è la lirica al femminile: in questo frangente abbiamo moltissime autrici
donne, con un’antologia di sole voci femminile, il che è sintomatico dell’esistenza di un mercato, testimonia
l’interessamento del pubblico nell’acquistare volumi riservati a poetesse.
In primo luogo, per capire meglio il Petrarchismo, è esemplare questo sonetto di Bembo.
E’ molto lineare, parla della partenza da Roma, per trasferirsi a Padova ( la pianura padana), esplicitato al
v.3 ‘’che cesse in parte al buon seme Troiano’’, in quanto questa città, secondo la tradizione, era stata
fondata da Antenore, uno dei tanti esuli da Troia e, appunto, Bembo dice di esserci arrivato ‘’già grave di
pensieri e danni’’ e di essersi allontanato dalla corte papale, dagli inganni della curia e dagli occhi del
popolo. Tuttavia dice che non è stato necessario allontanarsi dalla corte di Amore (v. 7) , poiché Amore a
poco a poco l’ha ricondotto a piangere; e lì, proprio quando credeva di essere al sicuro, Amore è tornato ad
assalirlo ed a pungerlo in modo ancor più feroce (v. 11). Al v. 13 esplicita quanto un uomo non possa mai
allontanarsi dal suo destino: è una poesia sull’allontanamento. Brembo costruisce la poesia in modo poco
lineare: ci si aspetterebbe un allontanamento piuttosto che dalla curia papale, da un altro tipo di amore da
cui, però, poi, è stato comunque raggiunto. L’idea del ‘’gran tempo’’ (v. 2) ricorre con lo stesso identico
costrutto del sonetto 1, così come i ‘’grandi affanni’’ (v. 1) che ritorna, con lo stesso sintagma. O ancora, al
v. 9, ‘’qui tra le selve ed i campi’’, con una dittologia che in entrambi i casi richiama l’enumerazione.
Siamo di fronte ad un vero e proprio recupero di materiali petrarcheschi, ad un livello alto, è qui che si
riscontra l’opera degli strumenti come rimari e antologie, utilizzati e riapplicati con le teorie bembiane
esplicitate nelle Prose della Volgar Lingua; talvolta si dice anche che questa sia una dimostrazione vera e
propria e voluta, dell’applicabilità delle sue teorie linguistiche.
Non sono solo sintagmi, in realtà, perché in lavoro di Bembo è più sottile. Ad esempio, nel v. 11, ‘’m’assali
e pungi’’, collegato al ‘’il core punge et assale’’, presenta lo stesso dittico, seppur ribaltato, con una
desinenza diversa. Ci sono degli addensamenti di termini petrarcheschi, nel sonetto di Bembo ed ogni
singolo termine di questo sonetto è riscontrabile in Petrarca. Ci sono anche ritorni fonetici, come
anagrammi, c’è un’altra dimensione più nascosta, che in alcuni poeti è ancor più marcata.
Non è un gran sonetto di Bembo, ma è una bella descrizione di una bellezza femminile. E’ un elenco
paratattico di caratteristiche: i capelli, il modo in cui canta, la bocca, la leggiadria, tutto ciò fa la massima
bellezza unita all’onestà e tutto ciò fu lo stimolo per la nascita del fuoco d’amore, che sono grazie che il
cielo destina a poche donne con tanta larghezza (vv. 12-14). I primi due versi rappresentano l’apoteosi
della ripresa di Petrarca, l’ ‘’a l’aura’’ (v.2) richiama l’elemento petrarchesco per eccellenza. In questo
sonetto si può addirittura parlare di ‘’centone’’, che consiste nel prendere dei versi di una poesia
interamente e montarli così come sono, con un altro senso, ed ottenere un nuovo testo di diverso
significato. Non è un proprio e vero centone, ma il gioco di combinazione è veramente forte: tutto è
petrarchesco, talvolta mescolando elementi che in origine non erano correlati.
Il Petrarchismo presenta voci profondamente originali, di cui il poeta ‘’Della Casa’’ ne è l’esempio massimo.
‘’O dolce selva solitaria, che sei così in sintonia con i miei pensieri stanchi e affannati, mentre la bora
stringe l’aria e la terra di un orrido gelo, nei giorni ormai brevi e tormentati dal vento e la tua verde chioma
ombrosa, antica, sembra come la mia che si imbianchi tutt’attorno, adesso che invece di fiori rossi e
bianchi, ogni tua costa ha neve e ghiaccio, io penso a questa poca luce nebbiosa che mi resta e anche io
sento gli spiriti, la linfa e le membra farsi di ghiaccio: ma io ho ghiaccio più di te dentro ed intorno, poiché il
mio inverno mi porta un vento più freddo ed una notte più lunga e giorni più corti e freddi.’’ La selva si
imbianca, viene raggelata dal freddo, il vento del nord morde il terreno e gli alberi… allo stesso modo
l’uomo si addentra nel suo inverno ed anche lui sente la linfa vitale, le energie farsi di ghiaccio e spegnersi.
Qui c’è uno scarto profondamente pessimista: se per la selva giungerà poi nuovamente la primavera,
l’uomo si addentra in un inverno sempre più aspro e freddo, verso la morte. Siamo in una dimensione
petrarchesca con un forte senso della morte, che incalza, una morte umana, per cui non c’è un paradiso
(nonostante Della Casa fosse un vescovo), il precipitare dell’uomo in un vuoto buio e freddo: siamo qui di
fronte ad un petrarchismo cupo, non c’è il senso del peccato, della perdita umana, ma solamente quello
della vita che finisce.
Il sonetto viene declinato con uno stile particolare, che viene ricondotto sotto l’etichetta della ‘’gravitas’’,
della gravità, che consiste nel combinato di temi tragici, profondamente cupi e di stile alto nel rifiuto di
musicalità e ricerca di asprezza. Due esempi che esplicitano le intenzioni del poeta: un fenomeno formale
che prende il nome di enjambement che è l’idea di rompere in concreto la dimensione versale (il verso) e la
dimensione sintattica, non ci sono pause ritmiche, come un carmen continuum, il periodo si stacca dalla
ripartizione in versi.
Nel primo sonetto c’è un altro aspetto di ‘’gravitas’’: le rime. Esse rispondono allo stile ‘’aspro’’ di Dante,
che era stato da lui applicato per le rime petrose che avevano come motivo caratterizzante gli scenari
invernali; si può affermare, di conseguenza, che Della Casa, in questo sonetto, integra anche un elemento
fonetico dantesco all’interno del proprio sistema, staccandolo dal tema amoroso, correlandolo
all’immagine profondamente negativa della vita umana.
•
Il secondo sonetto presenta moltissimi accenti interni che fanno si che in un
endecasillabo possa anche riconoscersi un settenario, nascosto, all’inizio o alla fine.
Guardando bene, però, ci accorgiamo che non è sempre così. Questo perché Della
Casa cerca di fuggire da qualsiasi musicalità, operando proprio tramite
l’enjambement, formando dei macro-versi.
23/03
BALDASSAR CASTIGLIONE
IL CORTEGIANO
Tra tutti i capolavori del rinascimento italiano, probabilmente “Il Cortegiano” è quello che oggi gode di
meno fortuna.
Ma in realtà il libro del Cortegiano, è un libro che nel nostro rinascimento (quindi quello europeo), ha avuto
una fortuna enorme, forse superiore a quella dell’Orlando furioso; è un testo che ha avuto immediate
traduzioni in tutte le lingue europee.
Il testo è un trattato su come deve comportarsi un cortigiano, su quali caratteristiche deve avere, su come
deve regolarsi e interagire con il principe; insomma sarebbe facile concludere che questo sia un testo
inattuale e decisamente superato nella nostra condizione e che quindi “il Cortegiano” abbia un valore
storico, in realtà Il Cortegiano è qualcosa di molto di più, oltre che al trattato di comportamento per il
cortigiano.
Vediamo alcuni degli aspetti del suo autore, cioè Baldassar Castiglione: Castiglione è un autore
settentrionale del mantovano, area molto importante nel rinascimento italiano, e potremmo anche dire
che Mantova insieme a Ferrara costituisce una sorta di “polo” di corti minori, tra l’altro Mantova e Ferrara
sono alleate politicamente e diplomaticamente e le due grandi famiglie i Gonzaga e gli Este sono anche
strettamente imparentati tra loro.
Castiglione è un diplomatico (questa è una cosa assolutamente normale), appartiene alla piccola
aristocrazia padana e per parte di madre è in parte legato ai Gonzaga di Mantova e come tipico dei piccoli
aristocratici dell’epoca abbraccia la vita del diplomatico del cortigiano (le due cose non sono sempre
facilmente distinguibili).
Il ruolo del diplomatico per Castiglione ha una sua importanza; quanto invece il fatto che sia stato un
cortigiano ci fa comprendere quanto il Castiglione conoscesse dall’interno in sistema delle corti.
Castiglione ci ha lasciato anche un enorme “Carteggio”, (proprio perché con il suo profilo sociale e politico
ha legami con figure fondamentali in Italia e in Europa) al cui interno tra l’altro, dev’essere considerata una
lettera che scrive con Raffaello, a Leone X sull’arte; Castiglione quindi è una figura ben collegata
all’ambiente artistico e non solo a quello politico e questo ci permetterà di capire che ad esempio nel
Cortegiano si parlerà anche di arte.
Ma l’attenzione per il mondo dell’arte largamente intesa, la vediamo anche per il fatto che Castiglione ha
messo in scesa una commedia, “La Calandria” che è una delle prime, delle più importanti e divertenti
commedie del rinascimento.
“Il Cortegiano” ha una storia compositiva piuttosto lunga e articolata, è una storia in più stesure, la prima è
sicuramente del 1513 (stesso anno della lettera al Vettori); l’ultima redazione è del 1524, in realtà Il
Cortegiano viene pubblicato soltanto nel 1528, e Castiglione stesso ci dice che la pubblicazione a stampa
del Cortegiano è in qualche modo pubblicata contro voglia, perché il Cortegiano fino a quel momento aveva
avuto soltanto una ridottissima circolazione manoscritta, quindi una copia copiata da un’altra, ma gli era
giunta voce che questa diffusione di stava allargando troppo e soprattutto che si stava preparando un
edizione stampa (naturalmente pirata), quindi in un certo senso Castiglione si è sentito costretto ad
anticipare questa edizione pirata con la propria ufficiale.
Quindi il Cortegiano viene pubblicato nel 1528, ed è chiaro che siamo in una fase storica di estrema
importanza, in cui si addensano i grandi capolavori; ma ci sono due grandi associazioni importanti a questo
periodo:
1. L’ultima redazione del 1524, cioè l’anno prima delle Prose
2. Il 1528 è l’anno che viene dopo il 1527, che era un anno cruciale, traumatico, non solo per
la storia della letteratura italiana, ma per la storia italiana, per la politica, la cultura, la
società, la psicologia italiana; perché nel 1527 accade quello che noi chiamiamo “Il sacco di
Roma”, un evento che ormai è assai poco noto, ma fu un evento traumatico.
Eravamo in un periodo di forti attriti tra l’imperatore Carlo V e il papa che all’epoca era Clemente VII; la
situazione era talmente tesa che in nord Italia c’era un grosso esercito imperiale che a un certo punto di
mosse verso Roma e la prese d’assalto, la città fu presa al “sacco” quindi al saccheggio.
Il saccheggio delle città espugnate non era assolutamente un’anomalia, ma per certi versi era un aspetto
giuridico, perché quando una città si arrendeva prima che cominciasse l’assedio, da un punto di vista
giuridico stava riconoscendo l’autorità del condottiero che era giunto sotto le mura, cioè aprendo le porte si
riconosceva come parte integrante dello stato al quale apparteneva l’esercito e quindi si metteva sotto al
diritto del conquistatore.
Però in genere in questi saccheggi avveniva che il condottiero o il re vincitore concedeva, 1/2/3 giorni di
saccheggio, cioè c’era una figura che regolava il saccheggio; nel caso di Roma non accade nulla di tutto ciò,
anche perché quest’esercito perde lungo la strada i suoi due comandanti, quindi l’esercito che entra a
Roma è un esercito senza regole, infatti parliamo di settimane e mesi di saccheggio.
Vedremo quindi come il Cortegiano parli di un mondo che non esiste più, è un testo retrospettivo, e
profondamente malinconico.
Il Castiglione era l’ambasciatore del papa presso la corte di Spagna e infatti fu accusato di non aver saputo
prevedere ciò che poi sarebbe successo; quindi il Cortegiano in un certo senso ha anche un testo che viene
pubblicato quasi come un’autodifesa.
Abbiamo visto che la composizione del cortegiano risale a qualche anno prima della pubblicazione a
stampa, ma in realtà è ambientato in anni ancora precedenti rispetto anche all’inizio della composizione,
perché il Cortegiano è ambientato nel 1506; il Castiglione non fa altro che seguire un modello tipico dei
dialoghi classici, perché il Cortegiano è un trattato in forma dialogica esattamente come le prose della
volgar lingua, quindi la scelta stessa del dialogo rimanda alla grande cultura classica e per l’appunto in
questi dialoghi nel mondo classico era un elemento costante quello di ambientare il dialogo in un epoca
remota, precedente, a qualche evento traumatico come ad esempio la morte.
Quindi il Cortegiano è ambientato nel 1506 a Urbino, piccolissima cittadina del Montefeltro.
La corte di Urbino è una corte che ha attirato alcuni dei più grandi intellettuali italiani dell’epoca.
Alcuni dei nomi dei personaggi del Cortegiano: Pietro Bembo; Bibbiena; Federico Fregoso; Ludovico di
Canossa; marchese Pallavicino; Giuliano de’ Medici; sono i personaggi che animano nella breve stagione la
corte di Urbino, il Castiglione non è tra i personaggi, perché in quel momento è lontano per questioni
diplomatiche, si trova in Spagna, e allora lui racconta ciò che gli è stato raccontato.
Il duca di Urbino è Guidobaldo da Montefeltro, neanche Guidobaldo è uno dei personaggi del Cortegiano, o
al meno non lo è direttamente, ma il punto è che Guidobaldo è malato e morirà nel 1508 per una lunga
malattia e Castiglione stesso per la morte di Guidobaldo scriverà in latino una sorta di elogio per questa
figura; ma il punto è che l’intero Cortegiano ruta intorno a questa figura assente e malata, se già stavamo
parlando del Cortegiano come un testo malinconico qui ne vediamo un altro aspetto perché è come se
l’occhio di Guidobaldo fosse sempre presente ma è assente, e le parole dei personaggi del Cortegiano
ruotano attorno a una figura che dovrebbe affiancare il personaggio che in realtà non è affiancabile perché
malato.
Quindi potremmo dire che l’intero Cortegiano ruoti attorno alla moglie Elisabetta Gonzaga.
Che cosa è il Cortegiano? È la trasposizione di un gioco, che la corte di Urbino fa per quattro notti, quindi in
quelle notti i personaggi del Cortegiano di trovano per fare un gioco un po’ strano, cioè quello di formare
con le parole il perfetto cortigiano; cioè l’idea è proprio quella di elaborare tutti insieme un modello
perfetto di cortigiano.
Capiamo quindi di trovarci in quel periodo in cui la letteratura propone dei modelli, nel rinascimento
potremmo dire che abbiamo trattati che propongono modelli per qualsiasi cosa.
Questo modello ideale è precettistico, è un modello che viene ideato sulla base del contributo di tutti,
quindi in un certo senso anche sull’esperienza e quindi avremo anche modelli ideali composti partendo da
esempi concreti e negativi come nei veri e propri trattati di comportamento, ma anche l’idea stessa del
dialogo in sé contribuisce a questa idea del modello che deve essere formato con il contributo di tutti,
purché ognuno fornisse il proprio pezzettino.
Come abbiamo già detto il Cortegiano è un trattato in forma dialogica, in quattro libri, ogni libro di per sé è
un dialogo.
LIBRO I
Il libro I è quello dedicato in un certo senso alle fondamenti, in questo libro I Castiglione affronta i
parametri fondamentali dell’immagine e della formazione fisica e morale del cortegiano ed è un cortegiano
che progressivamente assume un aspetto complessivo, tant’è che viene affrontata la formazione del
cortegiano che dev’essere pronto tanto alle armi quanto all’amore, e viene seguita progressivamente tanto
la formazione morale interiore del cortegiano quindi l’acquisizione di una nobiltà dell’animo, quanto
l’armonia del corpo.
Quindi anima e corpo, interiorità ed esteriorità; nuovamente siamo difronte a un principio estetico-morale
che ha una matrice classica.
Un’armonia generale che è finalizzata a un aspetto fondamentale di questa nuova figura, la grazia; qui
bisogna fare però una breve contestualizzazione storica, perché il cortegiano è ovviamente un aristocratico
e il grande modello dell’aristocratico è l’aristocratico guerriero; le armi sono il primo campo di applicazione
dell’aristocratico che si identifica con la guerra e ovviamente ne consegue anche un determinato tipo di
modello comportamentale dell’aristocratico, quindi del cortigiano.
Castiglione riconosce questa dimensione delle armi, e lui stesso appartiene all’aristocrazia, ma a ciò affianca
il ruolo delle lettere e delle arti in genere come ad attutire il ruolo della guerra e delle armi, è un aspetto
fondamentale perché in realtà il cortegiano sta proponendo un tipo nuovo di aristocratico, all’interno di
una società che è profondamente mutata; ecco allora la cultura umanistica dice che il cortigiano è uno
strumento altrettanto importante, anzi la cultura umanistica deve intervenire a modificare il modello
umano dell’aristocratico che naturalmente comunque aveva anche una dimensione di presunzione e di
superbia, che sono vizi tipici dell’aristocratico anche nella trattatistica delle lettere.
Le lettere e la cultura servono a fornire anche un diverso rapporto con il mondo, un rapporto che passa
anche attraverso la conoscenza, la delicatezza, la diplomazia, quindi un tipo diverso di gestione del reale e
infatti il cortegiano per il Castiglione deve saper dominare anche le arti e la letteratura.
Abbiamo già visto l’attenzione del Castiglione per le arti, e abbiamo già visto la lettera scritta con Raffaello
sull’arte classica, e comprendiamo allora più facilmente come in questo cortegiano ci sia un nucleo dedicato
proprio alle arti.
Un aspetto canonico della cultura rinascimentale è il tema di quale arte sia superiore alle altre, ad esempio
ne grande contrasto scultura-pittura, Castiglione prende le parti della pittura perché è vero che la pittura
non può riprodurre la tridimensionalità, quindi sotto questo punto di vista è più lontana dal vero ma la
pittura riesce al suo interno a comprendere ogni altro aspetto; la pittura suggerisce per suggestione, ingloba
in se una serie di altri elementi che la scultura con la sua evidenza non può avere.
Tutta questa parte del primo libro del cortegiano, ovviamente è all’insegna dell’imitazione, altro elemento
che è assolutamente classico.
Un passo del primo libro che forse è il più noto, affrontiamo quell’aspetto della grazia che dev’essere in un
certo senso la vera nota del cortegiano, dev’esser ciò a cui il cortegiano ambisce.
“E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi
con quel bon giudicio” il cortegiano deve sempre usare il buon giudizio.
“che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose” non ci sono
modelli rigidi, ma l’individuo deve saper scegliere.
“E come la pecchia” il Castiglione istituisce una similitudine, cioè il cortegiano dovrà fare come la
pecchia cioè come l’ape che nei verdi prati va carpendo i fiori, la similitudine con l’ape gioca un ruolo
fondamentale nelle teorie estetiche e letterarie dell’epoca, serve proprio per indicare quell’autore che non
ha un unico modello ma prende il polline da tanti fiori diversi; non è un caso che su un trattato sul
comportamento il Castiglione scelga una similitudine che deriva dal mondo dell’estetica.
!così il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que' che a lui parerà che la tenghino” dovrà
appunto avere tanti modelli concreti.
Subito dopo c’è un modello negativo, questa è una tecnica tipica del Castiglione, cioè inserire esempi
negativi, che è un elemento che da leggerezza per l’appunto alla lettura, perché alcuni esempi negativi sono
anche piacevoli e molto divertenti, e in concerto però ci riporta in quella dimensione per cui non c’è il
modello fissato e unico, ma elaboriamo la nostra idea per l’appunto confrontando con il nostro buon
giudizio, guardando ciò che è buono e ciò che è sbagliato.
“e non far come un amico nostro” si è preso un modello unico, il Re Fernando Minore di Aragona, lo
imita tanto che addirittura ne imita una strana torsione della bocca che in realtà a quel Re deriva da
un’infermità, e quindi è grottesca quest’imitazione di un unico modello.
Il cortegiano poi va avanti e dice che una regola c’è ed è quella di “fuggir quanto più si po, e come un
asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione”
fuggire all’affettazione, cioè all’esibizionismo, fuggire all’ostentazione di qualche cosa.
“sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza
pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia” Il cortegiano deve usare la sprezzatura
cioè la capacità di ascondere l’arte e di dimostrare che ciò che si fa e si dice viene fatto senza fatica, da
questo deriva la grazia, è una forma di mediocritas, cioè di non essere rozzi, di essere si raffinati ma senza
farlo vedere, in un certo senso bisogna saper far assimilare una conoscenza.
Nell’ultimo esempio c’è un modello negativo “Qual di voi è che non rida quando il nostro messer Pierpaulo
danza alla foggia sua, con que' saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se
tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi?”
Questo è proprio l’aspetto negativo ciò che bisogna evitare, il “Messser Pierpaolo” fa vedere che sta
contando i passi, ciò che ci sta mettendo impegno e che ha studiato; invece no, la vera grazie è quando in
certo senso si riesce(non è un pensiero del Castiglione, ma del prof), difronte a qualche cosa ci vien da dire
“ma questo lo saprei fare anche io”, cioè quando qualche cosa è stato studiato cosi tanto, elaborato cosi
tanto, assimilato cosi tanto che diventa un elemento assolutamente naturale, ma perché dietro ci sono ore
e ore di studio e di fatica.
Prima dell’esempio del Pierpaolo c’è un altro esempio, quello degli antichi oratori che riuscivano a produrre
l’effetto dell’assoluta naturalezza, anzi che sembravano addirittura persone senza alcuna notizia di lettere,
non conoscevano l’oratoria, la retorica, ma che parlavano spontaneamente.
Qui abbiamo un altro evidente legame con il principe, nascosto ma c’è, perché in realtà stiamo sempre e
comunque nel regno dell’assimilazione e dissimulazione; cioè nell’idea che il cortegiano debba dissimulare
lo studio esattamente come il principe di Machiavelli deve dissimulare alcune sue idee, e al contempo il
cortegiano deve sapere simulare altri aspetti.
LIBRO II
Il libro II si apre con la difesa del presente, può essere un inizio un po’ strano, un libro che ha una nota
malinconica marcata, che descrive un mondo che infondo non esiste più.
Il cortegiano in un certo senso qui affronta un aspetto fondamentale della riflessione rinascimentale cioè il
rapporto con gli antichi, ovviamente appartiene a ogni epoca dire una volta si che tante cose erano
superiori e questo è un tema che nel rinascimento è molto forte, proprio perché il rinascimento vive del
fascino del mondo classico, il libro II invece si apre con la difesa del presente.
Attenzione però perché questa difesa del presente ha poi varie declinazioni, perché nuovamente il Bembo
propone una lingua letteraria sul modello di 200 anni prima e quindi nuovamente questa difesa del
presente ha delle applicazioni, però questa difesa muove da una posizione di relativismo culturale, cioè
semplicemente ogni epoca è diversa, ha dei modelli diversi , aspetti diversi e sta all’uomo nuovamente con
l’uso buon giudizio decriptare queste differenze, leggerle e adeguarsi a esse.
In un certo senso l’inizio di questo libro è un grande elogio della capacità di accogliere la mutevolezza e la
variazione del mondo, è la capacità di riconoscere quelle che nella cultura anche politica dell’epoca
vengono chiamate le “circostanze”.
Le circostanze sono veramente dei grandi temi del pensiero politico rinascimentale, però l’idea è che il
mondo in un certo senso si parcellizzi in tante micro-variabili e ogni micro-variabile debba essere
riconosciuta, che l’uomo che ha “discrezione” cioè è in grado di distinguere il discreto, e lui sopravvive,
perché bisogna essere in grado di cogliere ogni minima differenza rispetto al modello teorico.
Ecco un passo del secondo libro:
“consideri ben che cosa è quella che (il cortegiano ideale) egli fa o dice e 'l loco dove la fa, in presenzia di
cui, a che tempo, la causa perché la fa, la età sua, la professione, il fine dove tende e i mezzi che a quello
condur lo possono; e così con queste avvertenzie s'accommodi discretamente a tutto quello che fare o dir
vole (II 7)”
Troviamo una serie di parole che abbiamo già incontrato parecchie volte come il “discretamente”, che non
è il nostro essere discreti ma la capacità di saper distinguere e scegliere; “mezzi” è proprio il linguaggio
Machiavelliano, politico, il cortegiano deve saper fare questo, riconoscere la mutevolezza, è un mondo
instabile e non possono esserci delle forme astratte.
Questo secondo libro è dedicato al comportamento pratico del cortegiano in tutte le diverse situazioni
speciali ad esempio la scelta degli amici, come vestirsi, come comportarsi nella conversazione e
quest’aspetto delle regole della conversazione è importantissimo perché in buona sostanza qui abbiamo il
cuore e il nucleo dell’intero cortegiano come momento della conversazione, il cortegiano nella
conversazione deve sapere applicare tutto se stesso come sprezzatura, come grazia, come capacità di
distinguere; c’è una parte molto estesa dedicata alle “facezie” cioè ai motti di spirito, che deriva dritta dalla
VI giornata del Decameron.
Questa trattazione è affidata a Bibbiena, l’autore di quella commedia al cui allestimento Castiglione ha
preso parte, che è fondamentale perché la conversazione prevede anche la leggerezza ma deve anche
corrispondere a dei modelli di eleganza e discrezione.
Questa parte che è anche molto divertente, Castiglione la costruisce partendo dai testi latini proprio sulle
facezie, sull’arte di conversare amabilmente.
LIBRO III E IV
Il libro III è dedicato alla controparte femminile del cortegiano, che non è la cortigiana (che nel linguaggio
dell’epoca è la prostituta), ma è la dama di palazzo.
È un libro particolare, al quale Castiglione ci ha lavorato su costantemente, e un altro aspetto importante è
che le donne non parlano, questo libro è dedicato alla definizione della dama di palazzo ed è tutto affidato
alle parole di uomini e perfino la difesa della dignità delle donne è affidata a un uomo.
Siamo in un’epoca molto importante nel dibattito sulla figura femminile, infatti questo terzo libro del
cortigiano critica profondamente le posizioni più misogine dell’epoca, posizioni che risalgono al mondo
antico, in cui la donna è materia e l’uomo è forma e quindi superiore.
Queste posizioni vengono confutate dal Castiglione, ma l’aspetto forse più rilevante è che la dama di
palazzo assume progressivamente un ruolo sempre più importante come elemento sempre più necessario
alla grazia, la grazia non avrebbe senso senza la figura femminile.
Alla figura femminile vengono assegnate tre qualità: discrezione, prudenza e decoro, che è un elemento di
un’etica conservatrice, e si associa al principio della mediocritas, alla capacità di essere intermedi e allo
stesso tempo discrezione e prudenza comunque sono qualità politiche.
Il quarto e ultimo libro è dedicato al rapporto tra il principe e il cortegiano, in un certo senso il libro IV è
l’esito finale di una serie di linee che è possibile rintracciare nel cortegiano, perché stiamo parlando di un
principe ideale che è il vero perno di tutto il cortegiano.
Il cortegiano è colui che attraverso i primi due libri ha saputo acquisire agli occhi del principe
un’autorevolezza e ha saputo conquistare la fiducia, perché in un certo senso il cortegiano deve essere per
il principe una sorta di specchio di sé stesso ma anche della realtà, cioè il cortegiano a questo punto
acquisisce una sorta di dovere etico di dire la verità.
L’idea del Castiglione è una polemica molto forte nei confronti di qualsiasi tipo di adulazione cortigiana.
In un certo senso il cortegiano si fa veicolo di verità e diventa il perno di un mondo che comunque
riconosce il principio della verità.
Infine c’è l’ultima parte, un’importantissima divagazione finale sull’amore che è affidata a Bembo, perché il
Bembo giovane è anche autore di un testo molto importate che si intitola “Gli Asolani” in cui vengono
affrontati i vari tipi di amore e anche qui c’è una conclusione in cui si mostra la forma vera di amore sia
platonico, quella forma di amore che porta per l’appunto alla sublimazione, tant’è che negli Asolani si
conclude con una scelta, è un eremita che prende l’ultima parola, perché l’amore platonico poi porta
all’amore per Dio.
Quindi ha senso il motivo per cui Castiglione affida il testo sull’amore e sull’amore platonico al Bembo,
“l’ideologo” dell’amore platonico e dell’amore abilitante.
Ma qui si crea un altro legame con il terzo libro, quello dedicato alla dama di palazzo, perché siamo nella
dimensione del bello, la donna all’interno della corte è la forma più alta di quel bello che il cortegiano cerca
in tutti gli aspetti della sua vita e del suo comportamento.
Si potrebbe dire che il cortegiano aspira al bello.
“Ricordandomi la maggior parte di coloro, che sono introdutti nei ragionamenti’, esser già morti”
se andiamo avanti nel testo troveremo in continuazione “è morto”, il Castiglione morirà nell’anno dopo
quindi nel 1529, però i personaggi sono già morti tutti, quel mondo non esiste più.
“m’hanno lasciato in questa vita come in una solitudine piena d’affanni”
25/03
TORQUATO TASSO
GERUSALEMME LIBERATA
Può essere considerata l’opera di tutta una vita. Il lavoro sull’argomento, ovvero la prima crociata dal 1096
al 1099, inizia molto presto. Tasso è nato nel 1544 e inizia il lavoro sulla prima crociata a 15 anni con un
poema che noi chiamiamo “Gierusalemme” 1559-60 ma poi lo abbandona; alcuni aspetti però saranno
ripresi nella Gerusalemme liberata, soprattutto nel primo canto. Tasso abbandona l’opera perché sta
tentando un nuovo genere, non più il romanzo cavalleresco (come era invece l’Orlando furioso di Ariosto),
ma quello che chiamiamo poema epico. Successivamente si dedica ad un altro testo “Rinaldo” scritto tra il
1561 e 1562 (data di pubblicazione). Rinaldo è più sul filone dell’Orlando furioso, Tasso ha rimandato ad
un’altra epoca il filone del poema, qui possiamo parlare di romanzo o poema cavalleresco. Anche in questo
testo Tasso non è un puro e semplice emulo di Ariosto; sta già lavorando su problemi teorici molto seri,
come il problema della rivoluzione aristotelica. Tasso sta già sottoponendo il romanzo cavalleresco ad un
problema teorico. La nascita della Gerusalemme liberata è datata nel 1565: questo dato è possibile grazie
ad una lettera a Ferrante Tassoni in cui Tasso dice di aver sottoposto ad un suo signore dei possibili
argomenti per un suo poema. Gli argomenti proposti da tasso in questa lettera sono:
1. Guerra greco-gotica, 535-553: è la guerra con cui l’imperatore romano d’oriente
Giustiniano riconquisterà l’Italia strappandola ai goti
2. Guerre di Carlo Magno contro Longobardi o Sassoni
3. Prima crociata, 1096-1099 (sarà poi l’argomento vincente)
Tutti questi argomenti hanno qualcosa in comune che ci permette di vedere la differenza rispetto
all’Orlando furioso, che prenderemo come modello negativo.
a. Sono guerre vere, accadute realmente. Tasso farà sempre riferimento alla storia: ad
esempio per la prima crociata Tasso seguirà una cronaca di Guglielmo di Tiro “storia della
guerra sacra”. Il furioso tratta sì della guerra di Carlo Magno contro i mori, ma questa
guerra non ha un vero e proprio fondamento storico. Non a caso l’Orlando furioso si svolge
mentre Parigi è assediata dai mori, una cosa mai successa.
b. Sono tutte guerre che presentano una chiara polarizzazione tra la parte protetta dalla
divinità e la parte che ostacola il bene religioso. Con la prima crociata abbiamo cristiani
contro i musulmani. Con la guerra greco-gotica abbiamo da una parte i greci, che fanno
parte dell’impero romano e che quindi sono cristiani. Dall’altra abbiamo i goti, che sono
ariani e quindi eretici. Per le guerre di Carlo Magno abbiamo da una parte il grande
protettore della chiesa, lo stesso Carlo Magno, contro i longobardi (pensiamo ad esempio
all’Adelchi di Manzoni), grandi nemici della chiesa e i sassoni, che sono pagani. Quindi
polarizzazione etnica e religiosa. Quest’ultima polarizzazione porta ad una verticalità,
fattore importante nell’epica: idea di un legame tra Dio, uomo e le potenze avverse a Dio.
Mentre l’Orlando furioso è più un romanzo basato sull’orizzontalità, con uomini che si
muovono in modo confusionario sulla terra, uomini tutti uguali.
Con la Gerusalemme liberata siamo a Ferrara, stessa città in cui è stato prodotto l’Orlando furioso. A
differenza di Ariosto, però, Tasso non è nato nell’ambiente ferrarese e non è cresciuto in questo stesso
ambiente. La famiglia di Tasso è bergamasca, più precisamente di Cornello, ma lui è napoletano, di
Sorrento, e cresce in questo ambiente fino alla prima adolescenza. Viene considerato un poeta meridionale
perché condivide molti degli aspetti della lirica e poesia meridionale. Succede però che il padre resta
coinvolto in una guerra di potere all’interno del regno di Napoli, ma si schiera con la parte perdente e viene
esiliato. Tasso attraversa così varie corti: quella di Ferrara sarà la più importante e quella in cui resterà più a
lungo, ma non sarà l’unica. Cambia profondamente il profilo del poeta tra Ariosto e Tasso: Ariosto, un
ferrarese a tutti gli effetti, era un funzionario della corte di Ferrara, addirittura governatore della
Garfagnana; veniva poi la poesia. Per tasso il profilo sociale è completamente diverso: Tasso è il poeta di
corte, l’intellettuale di corte. Tasso si sente un estraneo alla corte ferrarese, perché tecnicamente è uno
straniero, tanto che in alcune sue opere si definirà “forestiero napoletano”. La sua produzione poetica, il
suo successo poetico, diventano una parte fondamentale per lui.
Confronto tra l’epoca di Tasso rispetto a quella di Ariosto. Questo cambiamento possiamo ricondurlo a
due aspetti: il nuovo trionfo dell’aristotelismo e il concilio di Trento.
Trionfo dell’aristotelismo: Intorno alla metà del secolo Aristotele diventa il pensatore di riferimento
assoluto. Aristotele non è mai scomparso, il medioevo stesso si basa sul modello aristotelico. La differenza
assoluta si basa sulla poetica aristotelica, che nel medioevo era sconosciuta. In questi anni viene pubblicata
la poetica di Aristotele e vengono prodotti tantissimi commenti riferiti alla sua poetica, ricordiamo fra i tanti
il commento di Robortello del 1548. Sono queste le letture che Tasso vuole approfondire ed è per questo
motivo che decide di abbandonare il “Gierusalemme”. È Tasso stesso a scrivere testi teorici sulla poetica,
come “i discorsi dell’arte poetica” 1587(data di pubblicazione di quella che può essere definita un’edizione
pirata), anche se in realtà è un testo giovanile; successivamente Tasso rielabora il testo e lo ripubblica nel
1594 con il nome di “discorsi del problema eroico”. Aristotele è importante per tantissimi aspetti e avrà
un’influenza determinante fino al Romanticismo. Ci sono due aspetti prevalenti della poetica di aristotelici
che influenzano il mondo di pensare degli uomini alla poesia.
Rapporto tra vero e verosimile: Aristotele distingue tra vero, ovvero testi storici, e il
verosimile, che è l’argomento della poesia. A questo va aggiunto un altro livello: quello del
particolare, associato al vero, e quello dell’universale, associato al verosimile. Questo
perché la storia è il racconto di eventi particolari. La poesia è ricamata su un tessuto di
vero, dove vengono inseriti degli elementi di invenzione che si armonizzano con il vero, che
risultano credibili. Il poeta quindi aggiunge degli elementi verosimili ed è creando il
verosimile che il poeta rende ciò che prima era particolare universale, ossia rende il
particolare dotato di un significato valido per tutti gli uomini, per tutti i tempi, per tutti i
luoghi e quindi risulta universale.
Le tre unità: l’intera poetica di Aristotele insiste sulla necessità di trovare unità. La poetica
di Aristotele indica il genere massimo nel poema e nell’Iliade ma anche alla tragedia poichè
la tragedia greca, in un certo senso, era il genere per eccellenza nel mondo greco.
Aristotele teorizza tre unità (definite pseudo aristoteliche perché in realtà non sono state
elaborate direttamente da Aristotele ma sono delle elaborazioni successive, sono il
prodotto dei suoi commenti) e sono: il tempo, spazio e azione. Quindi gli eventi raccontati
in teatro devono avere unità di tempo, spazio e azione. Ed è facile comprenderli se
pensiamo al teatro greco, alle tragedie greche: unità di tempo perché le tragedie si
svolgono nell’arco della giornata. Unità di spazio perché si svolgono all’interno di una corte.
Unità di azione perché c’è una sola azione all’interno della tragedia. Queste unità
successivamente diventano fondamentali anche per il poema, diventano una sorta di
imposizione all’epoca di Tasso. Ci accorgiamo però che l’Orlando furioso non si accorda per
nulla a questi tre principi:
1. Nessuna unità di spazio perché i personaggi dell’Orlando si muovono sul tutto globo
terrestre, addirittura vanno nell’inferno e sulla luna. Nella Gerusalemme liberata invece
l’unità di spazio è rappresentata dalla Palestina, da Gerusalemme.
2. Nessuna unità di tempo, sono spesso presenti delle distorsioni temporali nell’Orlando
furioso, c’è un tempo labirintico. Nella Gerusalemme liberata c’è un’unità di tempo,
identificata come l’ultimo anno della crociata.
3. Nessuna unità di azione: nell’ Orlando furioso la molteplicità di filoni narrativi che si
intrecciano è per definizione la negazione dell’unità di azione. Nella Gerusalemme liberata
è presente l’unità di azione ed è la conquista di Gerusalemme: è l’unica azione compita da
un unico corpo, l’esercito crociato.
Tasso non può fare a meno dell’Orlando furioso poiché sa che ha avuto un enorme successo; sa anche che
c’è una continua variazione di spazio, tempo e azione. Allo stesso tempo è consapevole che nella sua opera
deve mantenere salde le tre unità aristoteliche. Questa lotta tra l’esigenza di presentare la varietà
dell’Orlando furioso e l’unità imposta da Aristotele persisterà per tutta la vita del Tasso.
Il Concilio di Trento: Il secondo grande evento epocale è il Concilio di Trento, iniziato nel 1545 e che finirà
dopo molte vicissitudini nel 1563. È un concilio convocato per trovare una conciliazione tra mondo cattolico
e mondo protestante. Il concilio di Trento si rivelerà in realtà un fallimento, in quanto la spaccatura tra le
due parti si accentuerà e produrrà un irrigidimento da entrambe le parti. Nel mondo cattolico produce
quell’irrigidimento che va sotto il nome di controriforma o riforma cattolica, ossia una maggior
penetrazione della pastorale, una maggior controllo sull’aspetto sociale e sulla territorializzazione. Questo
porterà la censura della stampa, con l’indice dei libri proibiti. Il nucleo di questa censura riguarda l’aspetto
teologico, ma andrà a coprire altri temi come l’eros, la magia, la morale. Questi ambiti di controllo sono
fortemente in contrasto, ad esempio, con il Furioso: aspetti come l’eros e la magia sono spesso presenti nel
poema. La rinascita aristotelica e riforma cattolica presentano un aspetto comune: il principio
dell’autorità, un dogma superiore. Abbiamo descritto fino ad ora il mondo in cui Tasso scrive la
Gerusalemme Liberata: questo ha un forte impatto poiché la conclusione del suo poema avverrà nei
primissimi mesi del 1575, ma qui accade qualcosa di inaspettato per il poeta (cosa che per l’ Orlando
Furioso di Ariosto non sarebbe mai successo): la Gerusalemme liberata viene sottoposta alla lettura di
quella che è definita la commissione romana, una commissione di saggi e dotti a Roma, presieduto da
Scipione Gonzaga, importante figura della chiesa e intellettuale. Questa commissione romana comprende
quattro esperti che garantiscono che il poema sia conforme alle nuove direttive culturali e che sia
stampabile senza problemi. I quattro esperti sono:
Barga, poeta latino ai tempi di fama conosciuta che valuta l’efficacia poetica
Nobili, un filosofo
Antoniano, un curiale, uomo di chiesa. È noto inoltre per un libro dedicato all’educazione
dei figli. Rappresenta quindi appieno il controllo da parte della Chiesa sulla vita quotidiana
del credente
Sperone Speroni: un aristotelico, importante teorico della letteratura
Antoniano e Speroni sono il principale problema poiché vanno a ricoprire gli ambiti più delicati: il problema
religioso e il problema della teoria di Aristotele. Tasso inizia a mandare alla commissione romana dei
manoscritti che presentano dei blocchi di canti. Questi manoscritti vengono sottoposti alla commissione, la
quale provvede a fare delle osservazioni a riguardo. Infine questi manoscritti vengono rinviati a Tasso a
Ferrara. Tasso legge i suggerimenti, correzioni e spesso imposizioni e cerca di trovare un bilanciamento, di
raggirare il problema. Intanto manda a Roma un altro blocco di canti e si continua con questi via vai di
manoscritti. Nel frattempo Tasso ha una corrispondenza epistolare con la commissione romana e cerca di
giustificare e difendere le proprie posizioni. Gli anni 1575-76 sono due anni quindi molto delicati, anche da
un punto di vista diplomatico in quanto la Gerusalemme liberata non può avere l’approvazione da parte
della commissione per una questione principalmente politica (ricordiamo che Tasso non sta scrivendo a se
stesso ma sta scrivendo per il Duca D’Este, possiamo dire che è quasi un testo ufficiale per il ducato). Sono
due anni difficili psicologicamente: succede che il lavoro di revisione si arena e qua inizia la parte più nota
della biografia del Tasso. Ad un certo punto il poeta viene rinchiuso in un vero e proprio ospedale
psichiatrico di sant’Anna e ne uscirà sono nel 1586. Questo avviene perché probabilmente Tasso era
umanamente fragile (elisi, abbandoni, questi ultimi due anni gli avranno creato un “collasso nervoso”.
Esistono tante teorie a riguardo). Tasso comunque in questo ospedale trascorre 7 anni. Nel frattempo in
questi anni in Italia girano i suoi manoscritti. Questi manoscritti inevitabilmente vanno incontro a delle
edizioni pirata, come è successo per “Il Cortegiano” di Baldassarre Castiglione, dove il poeta decide ad un
certo punto di pubblicarlo perché era convinto che si stesse preparando un’edizione pirata. Cominciano
così delle edizioni pirata della Gerusalemme liberata, in maniera a volte grottesca: canti isolati, canti
sostituiti dalla parafrasi in prosa. Nel 1581 abbiamo quella che definiamo “edizione ingegneri”, la prima
vera edizione della Gerusalemme liberata. Nella realtà la Gerusalemme liberata “non esiste” (cit. del prof),
nel senso che non esiste un vero e proprio testo per il cui possiamo dire “Tasso la voleva così”. Abbiamo
tantissime forme diverse, abbiamo manoscritti di epoche diverse, diverse fasi di elaborazione e tutte queste
edizioni sono dei copia incolla di fasi diverse. Non a caso il titolo “Gerusalemme liberata” non è il vero titolo
che Tasso voleva perché il titolo che voleva per il suo poema era “Gottifredo”; possiamo dire che
“Gerusalemme liberata” è il titolo redazionale. Quindi, per l’appunto, la Gerusalemme liberata non esiste.
Questo poema viene studiato per due motivi:
1. È bellissima (cit. del prof)
2. Ha avuto un impatto misurabile non solo sulla letteratura italiana, ma anche su tutte le
letterature europee
Esiste un poema che riguarda l’ultima volontà dell’autore. Infatti, Tasso quando esce dall’ospedale riscrive
quasi completamente il poema, pubblicandolo con il titolo “Gerusalemme conquistata” nel 1593. Ancora
oggi viene letta e studiata la Gerusalemme liberata per il semplice fatto che è molto più bella e vivace.
Tasso riscrive la Gerusalemme conquistata assorbendo tutte quelle proposte e linee molto rigide della
commissione romana. Il risultato è un poema più bloccato, spento, dogmatico. Parleremo quindi della
Gerusalemme Liberata, che possiamo definire un cantiere sempre aperto, mai concluso e che presenta dei
canti ed episodi meravigliosi e personaggi realmente moderni e contemporanei.
Cinque ottave proemiali
Canto l’arme pietose e ’l capitano
che ’l gran sepolcro liberò di Cristo
Molto egli oprò co ’l senno e con la mano,
molto soffrì nel glorioso acquisto;
e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i cavalieri erranti.
Parafrasi: io canto le armi cristiane e il capitano che liberò il nobil sepolcro di Cristo. Egli fece molto col
senno, intelletto e con la mano. Patì molto nella gloriosa conquista e invano l’inferno si oppose e invano
contro di lui si armò il popolo misto di Asia e Africa. Il cielo gli manifestò il suo sostegno e lui ricondusse i
cavalieri erranti sotto i santi segni.
Commento: rispetto all’Orlando furioso notiamo che il fulcro è evidente: il capitano che liberò il santo
sepolcro, ovvero Goffredo di Buglione. Come sappiamo Tasso prima di scrivere il poema aveva proposto
degli argomenti, tutti storici, tutti basati su fatti realmente accaduti e inoltre aveva avuto la possibilità di
leggere le cronache delle crociate, come quella di Guglielmo Di Tiro pubblicata del 1649, una sorta di novità
editoriale. Fin da subito quindi notiamo che la storia è vera, nessuna invenzione.
“Canto l’arme pietose e ’l capitano”: questo verso è un incipit dell’ Eneide “Arma virùmque canò” (= canto
le armi e l’eroe). Per l’Eneide è Enea e per la Gerusalemme è Goffredo. Pietose è un altro collegamento con
Enea, definito nell’Eneide “pius” (Pio= colui che manifesta fedeltà alla religione, stato, ai doveri di uomo).
Goffredo viene disegnato come un nuovo Enea: come Enea attraversa il mare e va a fondare un regno
voluto dagli Dei, ovvero Roma, alla stessa maniera Goffredo attraversa il mare e va a fondare il regno voluto
da Dio, ovvero Gerusalemme. Goffredo diventa il personaggio assoluto della Gerusalemme liberata. Gli altri
personaggi non compaiono se non nel finale “Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi segni ridusse i cavalieri
erranti”. I Santi segni sono i segni della croce e con cavalieri erranti s’intende tutti gli altri combattenti.
Tasso è consapevole del fatto che il Furioso sia piaciuto soprattutto per la pluralità degli elementi, è questo
il fascino che lo caratterizza ed è consapevole che allo stesso tempo la Gerusalemme liberata deve essere
fedele alle unità aristoteliche. Nell’Orlando quindi i personaggi vagano, vanno alla ricerca di obiettivi
personali, ma allo stesso tempo da un punto di vista morale sono delle colpe. Tasso ha bisogno di
introdurre di personaggi che sbagliano, di personaggi che si muovono nel mondo. È un bisogno narrativo,
un bisogno del pubblico, ma teoricamente non lo può fare. Quindi ecco la chiave: questi cavalieri sono
erranti sotto due punti di vista: sono erranti perché effettivamente vagano per il mondo; sono erranti
perché la loro erranza è un errore morale. Goffredo riesce a ricondurre questi cavalieri sotto il segno della
croce e quindi riesce ad andare alla conquista di Gerusalemme. Tasso cerca così di andare incontro verso il
gusto del pubblico per la variazione ma tutto ciò viene legittimato come un errore morale che deve
assenteessere recuperato. Ed ecco qua i personaggi della Gerusalemme Liberata, come Rinaldo, uno fra i
tanti.
Questa è la storia di una conquista di una città che alla fine cade. C’è un’altra grande opera che è la storia di
una città assediata: l’Iliade, che Aristotele indica come il massimo modello letterario. La Gerusalemme
liberata si presenta come l’Iliade moderna; si presenta non più come romanzo cavalleresco ma come
poema epico, che guarda alla grande tradizione classica del poema (Rinaldo corrisponde ad Achille
nell’Iliade).
Nella Gerusalemme c’è qualcosa che manca: l’amore. Nell’ Orlando Furioso viene messa come prima parola
in rima, quindi c’è sempre un rimando alla sfera amorosa. In questa prima ottava invece l’amore non è c’è.
Si presenta inizialmente come un testo riguardante la guerra religiosa, invece è in realtà un poema pieno
d’amore, il quale però non può esserci all’interno di un poema cristiano perché non è accettabile;
ricordiamoci che si sta parlando di una guerra sacra e quindi deve essere espulso. L’amore viene integrato
come una forma di errore, come elemento turbativo, che allontana i cavalieri dal loro dovere. Ed è per
questo che l’amore è sempre irrisolto, infelice problematico e turbato.
Bisogna sottolineare un altro aspetto: la traduzione arturiana del poema. L’amore, le avventure, elementi
tipici del romanzo arturiano. Non vengono presentati come argomenti di questo poema, ma sono presenti.
Il terzo elemento è la magia: nel poema è presente la magia, però ricordiamo che siamo in epoca di riforma
cattolica, quindi l’inizio della caccia alle streghe e la magia è sospetta. Vengono messi all’indice o censurati
testi che fanno riferimento alla magia in modo innocente. Allora Tasso sostituisce la magia con il
meraviglioso cristiano: il miracolo e l’intervento satanico. In questa prima ottava infatti vediamo il conflitto
tra forze sataniche e forze divine. L’intera Gerusalemme liberata sarà perennemente un conflitto tra cielo e
inferi che combattono attraverso gli uomini: il cielo attraverso i crociati e gli inferi con i musulmani.
Commento: Qui emerge il rapporto tra il narratore e il destinatario. Notiamo che il narratore si presenta
come un pellegrino errante. La parola “erranti” l’abbiamo già incontrata come termine che chiudeva la
prima ottava e qui ritorna ancora. Il narratore stesso si presenta come una figura errante e fragile. Anche
nell’Orlando furioso il narratore si presenta come figura prossima alla pazzia, ma era chiaro che era in una
dimensione ironica. Qui no: siamo di fronte ad una figura di narratore socialmente ed emotivamente
debole. Ricordiamoci che Tasso stesso era effettivamente un esule, un errante. Sotto questo punto di vista
si riflette molto di più sui suoi personaggi. Non solo i crociati sono erranti, nel senso che abbandonano il
campo e quindi sono erranti moralmente, ma anche gli stessi musulmani sono degli esuli. Questo è un
aspetto che accomuna il narratore ai suoi personaggi: il narratore debole, fragile tra i suoi personaggi,
anch’essi deboli, fragili, solitari, isolati. È un aspetto che caratterizza l’intero poema. Successivamente
troviamo il tema della fortuna: il fortunale, la tempesta, il naufragio. È una dimensione realmente
esistenziale: viene presentato un narratore naufrago tra gli scogli della vita. La Gerusalemme si presenta
quasi come un ex voto; Tasso porterà la sua Gerusalemme al signore Alfonso II quasi come un ex voto di un
navigante sfuggito al naufragio. Questo permette di creare un altro lungo ponte: la Gerusalemme liberata si
conclude con Goffredo nel tempio di Gerusalemme e scioglie il voto: sorge l’idea dell’impegno, della
militanza.
È ben ragion, s’egli averrà ch’in pace
il buon popol di Cristo unqua si veda,
e con navi e cavalli al fero Trace
cerchi ritòr la grande ingiusta preda,
ch’a te lo scettro in terra o, se ti piace,
l’alto imperio de’ mari a te conceda.
Emulo di Goffredo, i nostri carmi
intanto ascolta, e t’apparecchia a l’armi.
Parafrasi: Ed è giusto, se mai avverrà che il buon popolo cristiano sia in pace e cerchi di togliere la grande e
ingiusta preda (il sepolcro) di cristo al feroce turco con navi e con cavalli che conceda a te il potere assoluto
delle truppe di terra o, se preferirai, il potere sulla flotta. Emulo di Goffredo intanto ascolta i nostri carmi e
preparati alle armi.
Commento: Qua Alfonso viene presentato come il futuro capo dei crociati, se avverrà una nuova crociata.
Se ci sarà una nuova crociata, cosa che ovviamente non avverrà, ad Alfonso verrà dato il potere sulle truppe
di terra o sulla flotta (cosa assolutamente improbabile visto quanto poco sia importante il ducato di
Ferrara). È importante notare un’altra differenza con Ariosto: Ariosto implorava il signore di concedergli un
poco di orecchio tra tutte le sue attività importanti, le sue preoccupazioni più pressanti. Mentre Tasso dice
proprio che Alfonso sarà l’emulo di Goffredo e l’ascolto della Gerusalemme liberata sarà una preparazione
alle armi, alla crociata. Quindi è anche una sorta di rivendicazione del proprio ruolo.
30/03
GIOVAN BATTISTA MARINO
L’ADONE
Ci troviamo nel 1600 nel pieno del periodo barocco. Giovan Battista Marino (Napoli, 1569-1625) ha dato
origine ad uno stile che va sotto il nome di Marinismo. Il Marinismo si trova in ogni grande lingua europea
perché esiste in ogni tradizione letteraria europea.
L’Adone è l’ultima grande opera della letteratura italiana, l’ultimo testo che realmente si impone
nell’orizzonte europeo come testo guida.C’è un aspetto molto particolare: l’Adone è un poema in ottave
(stessa forma metrica di Poliziano, dell’Orlando innamorato e furioso e della Gerusalemme liberata) e segue
la tradizione formale. Non si tratta dell’ultimo testo in ottave, Marino stesso ha cominciato un poema
intitolato la Gerusalemme distrutta e il poemetto in ottave è molto frequente anche nell’Ottocento e
Novecento, ma è nascita di un nuovo filone.
L’Adone è indubbiamente un crinale. Quest’opera è conosciuta come modello per le letterature europee,
non viene però pubblicato in Italia, bensì in Francia, per la prima volta a Parigi nel 1623 con inclusa una
dedica al re francese Luigi XIII. Con la pubblicazione all’estero, si intuisce bene che è cambiato
completamente il fulcro della letteratura europea, e dall’Italia la nuova capitale si sposta a Parigi. Si tratta di
un testo importante nell’orizzonte europeo, perché di grande dimensione.È infatti più lungo dell’Orlando
furioso e della Gerusalemme liberata e addirittura uno dei poemi più lunghi della letteratura italiana.
L’opera completa è di 20 canti.Questo testo si presenta con una strutturazione molto articolata che
chiarisce l’eccezionalità del prodotto e la sua rivoluzionarietà. È proprio un testo avanguardista su tutti i
punti di vista: la struttura, i modelli, il tema e lo stile.
Marino e l’ambiente attorno a lui è consapevole che l’Adone sta completamente rompendo rispetto ai
principi aristotelici così importanti per la tradizione. In primo luogo c’è la prefazione di Jean Chapelain che
definisce l’Adone un “poema di pace”, una formula attualmente molto utilizzata, ma che in passato aveva
un forte valore; è viene assegnata a questo testo come segnale di un’anomalia, proprio perché in esso
manca la componente bellica, all’epoca molto diffusa.
Vi sono varie innovazioni. La prima è che ogni canto si apre con un titolo: potrebbe sembrare un aspetto
secondario, ma gli altri poemi non presentano un titolo per ogni canto o libro, il titolo è un elemento del
romanzo contemporaneo. Il titolo assegnato ad ogni canto è qualcosa che troviamo con l’Adone, evidente
segno di rottura.
La seconda è che ogni canto presenta un proemio di sei ottave (dodici per il primo canto), degli argomenti
in prosa (utilizzati per raccontare cosa avviene) e infine delle allegorie molto “moraliste”. Gli argomenti in
prosa e le allegorie non fanno parte dell’Adone, ma sono un dettaglio che vuole rimarcare l’eccezionalità.
Queste allegorie permettono di lavorare su più argomenti del senso; ce ne sono alcune molto facili che però
aprono la porta a elementi più perturbanti, quando si ricorre ad allegorie è uno strumento per legittimare
ciò che accettabile non è. Queste stesse allegorie moralizzatrici rivelano un poema che non si inserisce in un
disegno morale, ma un testo con elementi di profonda immoralità.
L’opera viene pubblicata nel 1623 dopo moltissimi anni di lavoro. Le prime attestazioni risalgono al 1584 e
la sua evoluzione può essere seguita da una serie di lettere che Marino stesso inviava ai conoscenti. Questa
elaboratissima opera era pensata all’inizio solo di quattro canti, per poi passare a ventiquattro e infine a
venti, come la conosciamo noi ora. Questo è segno di un progetto che cambia progressivamente.
Una domanda sorge spontanea: com’è possibile che uno dei poemi più lunghi della storia italiana ha una
trama così misera? Marino trae la storia dalle Metamorfosi di Ovidio, un racconto particolarmente corto (X
519-559,708-739), ma che, con tanti dettagli riesce ad arricchire al massimo. Il seguente è un passaggio
della lettera al Sanvitale del 1616 nella quale Marino spiega all’amico di cosa tratta l’opera:
«La favola è angusta ed incapace di varietà d’accidenti; ma io mi sono ingegnato d’arricchirla d’azioni
episodiche»
(Letteralmente: La trama è davvero poca, non ci si può aggiungere molto, però sono riuscita a gonfiarla
inserendo diversi elementi.)
Da poche decine di versi ha tratto un capolavoro gigantesco, ma come? Marino ha letteralmente creato
l’Adone. Usa come filo conduttore la storia di Ovidio, ma allega ad esso moltissime altre storie ed elementi
così da creare un verso personaggio ma anche uno sfondo infinito.
Il modello formale di questa opera non è come il resto della tradizione legato ad Omero, Marino guarda
come modello Ovidio. Le opere di Ovidio erano molto elaborate perché usava una forma particolare; i suoi
racconti erano un susseguirsi di storie diverse, una vagamente legata all’altra secondo una sorta di
complessi nuclei che si succedono. L’esempio più lampante è il passaggio delle metamorfosi che ha
interessato Marino per questo poema, la vicenda di Adone. Perché la storia di Venere e di Adone è divisa in
due blocchi (vv. 519-559,708-739)? Cosa succede nel mezzo? Venere racconta ad Adone una storia, quella
di Atalanta ed Ippomene. Questo gioco di “scatole cinesi” è ciò che Marino stesso farà con l’Adone.
Queste sezioni e inserti vengono continuamente riproposti e trattano di temi completamente differenti uno
dall’altro come: l’elogio della vita bucolica; l’intero racconto del giudizio di Paride; l’elogio della rosa; il
racconto di Amore e Psiche; una sezione di storie d’amore tragico maschile per figure femminili; ampie
descrizioni degli spazi come i giardini dei sensi; un personaggio ad un certo punto racconta l’autobiografia
di Marino; oppure una visita sulla Luna, su Mercurio, su Venere; le Lodi a Galileo; infiniti inserti mitologici.
Ci sono inoltre molti giochi di rispecchiamenti interni, la stessa scena viene raccontata più volte da punti di
vista diversi che creando molti giochi di richiami che amplificano ancora di più la struttura del testo.Un altro
importante metodo che utilizza Marino per ingrandire la sua storia è il furto, l’imitazione e il recupero di
altre opere. Come prima cosa prende interi testi dai suoi lavori non finiti (come Trasformazioni, Polifemo,
Polinnia, Gerusalemme distrutta, Fantasie) e li ingloba nell’Adone, è proprio per questo che l’opera
presenta molti generi differenti.
Un’eccezionale estensione viene raggiunta da parte di Marino di propri testi e frammenti di sue opere
abbandonate, ma non è solo quello. Non integra solo i propri testi, l’Adone è un grande inno al plagio,
perché va oltre all’imitazione, ruba e rivendica. Gioca sull’accostamento di elementi diversi e dello
stupore/riconoscimento di opere passate. Integra fattori tratti dalla intera poesia latina e greca (Marino non
sapeva il greco così copia dalle traduzioni); guarda a grandi poemi anche aristotelici, come Ovidio o Nonno
di Panopoli introducendo anche la poesia moderna e sua contemporanea. Non c’è un grande autore che
non venga saccheggiato dallo stesso Marino, egli ruba testi anche allo Stigliani, il suo più grande nemico.
Gli elementi caratterizzanti sono chiaramente la meraviglia creata con una perizia stilistica estrema, o la
riformulazione dello stesso elemento in modi diversi, gli accostamenti straordinari, la ricerca di passaggi
stupefacenti, il muoversi tra lo straordinariamente grande (il cosmo) e il micro (la fisiologia dell’occhio e
dell’orecchio). C’è inoltre una forte definizione dell’eros espresso attraverso un’audace finezza metaforica;
molto erotismo che serve per rendere incredulo il lettore. C’è addirittura un canto che s’intitola i Trastulli.
Inoltre c’è una particolare attenzione all’ekphrasis (genere in cui viene descritta attraverso una parola
un’opera d’arte figurativa come un quadro). In molti passaggi analizza delle particolari opere artistiche e il
lavoro degli autori. C’è un chiaro accenno ud una sua altra opera, Galeria, che è un vero e proprio museo in
versi articolato in corridori piani e sale in cui ogni testo corrisponde ad un’opera.
Infine quest’opera è ricca di aspetti provocatori, ma il più lampante sono le fattezze e i tratti dell’Adone
estremamente cristologici e l’accostamento della sua morte con la morte di Cristo, un aspetto molto
perturbante. Per questo motivo è chiaro che il testo finisce immediatamente all’indice e graverà la
condanna morale di generazioni e generazioni di serissimi studiosi della letteratura.
(VIII 131)
Citazione tratta da Trastulli. Non sono le ottave più spinte dell’opera, ma nonostante ciò rendono bene
l’idea dell’immagine che ha in mente. Marino sta raccontando l’amplesso tra i due personaggi principali.
Nei due versi colorati parla esplicitamente di come si cerchi di ritardare l’orgasmo per godere di più.
(VI 33)
Un altro aspetto che si integra nell’opera è l’amor per la scienza. Come già detto in precedenza c’è l’Elogio
a Galileo Galilei e al suo Cannocchiale, una meraviglia che caratterizza l’intero poema. Nel passaggio tratto
da Il Giardino del Piacere analizza l’anatomia dell’occhio includendo termini molto tecnici come: tuniche,
uva (l’uvea), corno (cornea), reti (retina), albume (albuginea).
Qui in particolare si nota la capacità metaforica utilizzata per descrivere la nuova scienza. È estremamente
moderno, senza confini perché abbandona la guerra ma accoglie le nuove forme di sensibilità.
Giuseppe Parini,
Il Giorno
Ci troviamo Milano nel 1700. Notoriamente non occupa una posizione importantissima nella letteratura
italiana e non viene quindi associata all’arte e alla cultura, è proprio in questa stagione però che Milano
rivendica la sua cultura. In questo periodo non è soltanto capitale della cultura italiana, ma capitale della
cultura europea. È la grande stagione dell’illuminismo milanese che ha un grandissimo rilievo nell’intero
continente. Un facile esempio è Le osservazioni sulla tortura di Verri, conte milanese, che da un contributo
fondamentale all’eliminazione della tortura. Quest’opera viene seguita a ruota da Dei delitti e delle pene
(1764), l’importantissimo trattato di Beccaria contro la pena di morte. Entrambi con una fame e risonanza
talmente europea che influiscono sugli ordinamenti di tutti gli stati più evoluti dal punto di vista giuridico. Il
Giorno di Giuseppe Parini (Bosisio/Milano 1729-1799) nasce proprio in questo contesto.
Il Giorno di Parini può riduttivamente essere definito un poemetto didascalico satirico. Perché? È un
poemetto che si presenta come un insegnamento impartito da un precettore ad un “giovin signore”, ma
con un minimo di attenzione si nota quanto sarcastico e aspramente ironico sia nei confronti della decaduta
aristocrazia.Il poemetto è pensato con una struttura che segua l’intera giornata del giovin signore ed è
diviso in cinque parti: Il Mattino, Il Mezzogiorno, La Sera, Il Vespro, La Notte. Sono poemetti molto brevi,
ognuno è lungo più o meno 1000. L’idea iniziale era di dividerlo in tre parti, ma poi decide di aggiungere il
Vespro e la Notte, Parini inoltre pubblica ufficialmente solo le prime due parti, scritte rispettivamente nel
1763 e 1765. Mettendo in paragone Il Mattine e Il Mezzogiorno con le altre tre parti del Giorno si notano
estreme differenze, tanto che sembra che siano opere completamente staccate.
Il giovin signore nel corso di tutto Il Giorno non parla mai, è solo il precettore che racconta la sua giornata e
non gli cede mai la parola. È una sorta di marionetta vuota alla quale il precettore muove i fili conducendolo
attraverso il nuovo giorno, metafora della polemica che Parini vuole esporre nei confronti dell’aristocrazia
milanese. Questa giornata è un lento succedersi di vacuità mondane e oziose, perché per ogni attività che
si presenta di fronte al ragazzo, lui l’affronta con lentezza e noia.
Il Giorno è scritto in endecasillabi sciolti, un metro che non abbiamo ancora affrontato. Gli endecasillabi
sciolti sono lunghe sequenze di endecasillabi che non sono legati da alcuna rima. L’endecasillabo sciolto
nasce nel 1500 e viene adottato dagli studiosi dei testi antichi. L’Eneide, Iliade e Odissea sono testi scritti in
esametri, forma metrica che presenta lunghe sequenze di versi non unite dalla rima, proprio per le sue
caratteristiche somiglia all’endecasillabo. Quando nel Cinquecento si è cercata una forma metrica che
potesse riprodurre l’esametro, sia come acusticamente che visibilmente si è pensato di creare
l’endecasillabo. L’endecasillabo sciolto viene usato anche per testi che vogliono ispirarsi ai modelli classici.
È una forma metrica molto complessa e raffinata, ma proprio per questo motivo si inizia ad usarla nel
Settecento, alla ricerca di un’innovazione elegante. Viene però usata per testi brevi e due esempi
importanti sono appunto Il Giorno e Il Carme dei Sepolcri di Foscolo.
[Tasso era figlio d’arte, tant’è che all’inizio veniva chiamato il Tassino. Torquato era un’apprendista, ma in
pochi anni riesce ad oscurare il padre Bernardo. L’Amadigi, un’opera molto importante di Bernardo Tasso
venne scritta inizialmente in endecasillabi sciolti per poi essere trasformata in ottave, proprio perché gli
endecasillabi sciolti richiamano la metrica classica. Torquato racconta, in un episodio, una festa, la quale al
centro dell’attenzione c’era il padre che avrebbe letto il primo canto del suo Amadigi che all’epoca era
ancora in endecasillabi sciolti. il padre cominciò la lettura in una sala tutta piene ma la concluse in una sala
completamente vuota. Dato l’episodio traumatico, Bernardo decise di cambiare il metro della sua opera e
Torquato si promise di non utilizzare mai l’endecasillabo sciolto.]
Il Giorno si presenta come un testo classico. I modelli sono diversi, in primis bisogna analizzare i più
importanti testi didascalici della storia della letteratura come le Georgiche di Virgilio, oppure l’Ars Amandi
di Ovidio, le Satire di Orazio, i testi epici (la giornata del giovin signore viene raccontata come un episodio
epico), nel rinascimento Api di Alamanni e infine, contemporaneo a Parini è Il riccio rapito di Pope
La trama del Giorno è inconsistente, principalmente si susseguono i momenti della vita mondana del
signore. Quest’opera è molto descrittiva, c’è difatti un’amplissima analisi dei costumi nobiliari da parte del
precettore. Il precettore non condanna mai la vita del signore, ma la sua criticità emerge da questo cosmo
vacuo ma pienamente organico che si percepisce nell’opera. In questo momento storico ci troviamo di
fronte a due grandi orizzonti culturali di riferimento: l’Illuminismo da un lato e il cristianesimo dall’altro
(Parini è sacerdote). Proprio per questo motivo si possono leggere tra le righe due forti idee di Parini: il
fastidio di questa aristocrazia che non vuole avanzare con il progresso (idea prettamente illuminista) ma
allo stesso tempo la dimensione cristiana con la pietà per gli umili che va da il povero contadino che lavora
fin dall’alba al povero servo che viene schiaffeggiato e scacciato. Siamo di fronte ad una polarizzazione, da
un lato la noia vacua di questa aristocrazia ottusa e dall’altro la vita semplice affaticata dall’infinito lavoro, il
lusso come ingiustizia etica nei confronti dei meno fortunati e morale nei confronti della chiesa. Il
Mezzogiorno, ad esempio è molto più esplicito e descrittivo, è meno precettistico rispetto al Mattino.
Il ruolo delle mode è enfatizzato al massimo, viene spiegato fin da subito durante la colazione, ma anche
con la vestizione e il trucco del giovin signore, sempre con un forte sfondo parodico e ironico delle inutili
scelte della nobiltà dell’epoca.
Un altro aspetto importante del Giorno è che è ricco di favole, un elemento che deriva dai poemetti classici
con un gusto alessandrino, molto simile all’Adone, tutti inserti che arrivano dalle Metamorfosi di Ovidio. Le
favole inserite da Parini richiamano le favole antiche come le seguenti: Amore e Imene (spiega perché tra i
poveri ci sia un matrimonio funzionalizzato alla riproduzione e tra gli aristocratici ci sia l’amore); la favola
della cipria; la favola del piacere; il tric-trac.
Il linguaggio del Giorno è estremamente raffinato e selezionato; dev’essere ovviamente coerente con
l’argomento e con la metrica. È un linguaggio costruito sul lessico latino e francese e profondamente
creativo e inventivo, ricco di neologismi. Ha una sintassi preziosissima, piena di inversioni e spostamenti. È
uno dei testi più difficile da leggere.
Il Mattino
Giovin Signore, o a te scenda per lungo
di magnanimi lombi ordine il sangue
(vv. 1-8)
All’interno del gioco ironico l’io poetico sta assumendo il ruolo del “precettor d’amabil rito” (mondano). Il
precettore invoglia il ragazzo ad ascoltarlo: “sia che tu venga da una nobile famiglia di lunga tradizione, sia
che il tuo titolo nobiliare sia stato acquisito con ricchezze, ascoltami”. Dal verso uno al sei si crea una lunga
disgiuntiva: ci sono un “o” al verso uno e al tre che sono semplicemente le condizioni del giovin signore.
Come detto in precedenza il lessico e a sintassi sono fortemente ricercati, ci sono ad esempio svariate
inversioni/iperbati:
Del sangue emendino il difetto i compri onori dovrebbe essere: il difetto del sangue.
Emendino viene introdotto tra il complemento di specificazione del sangue e il complemento oggetto.
Emendino è il verbo, difetto è il complemento oggetto e i compri onori sono il soggetto.
il sangue purissimo celeste: il sangue blu (nobile); celeste ⟶ il nobile è come un semidio
ti dà il Guatimalese e il Caribbèo
(vv. 125-157)
Tutto ciò che accade è filtrato dal sarcastico precettore. In questi versi si nota quanto ricercato sia il testo.
Vi sono diverse perifrasi per arricchire il testo come per il caffè.
In questa scena il giovin signore deve scegliere cosa bene come colazione e il precettore ironizza sulla fatica
e i sacrifici che sono stati fatti solo per portargli due diverse bevande.
Le provenienze sono dei prodotti sono tutte differenti: India, Medioriente e Sudamerica.
Cortes, e Pizzarro umano sangue non istimàr quel ch’oltre l’Oceàno scorrea le umane membra ⟶ fu giusto
uccidere tutti quei popoli solo per nuove delizie.
Anche qui, la perifrasi utilizzata è lunghissima: inizia al vv.144 con il soggetto Regno, il primo verbi uscisse e
superasse.
03/03
UGO FOSCOLO
Foscolo è un autore rivoluzionario, profondamente innovativo nell’orizzonte italiano
La sua grande opera giovanile fu “LE ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS”
Si tratta di un romanzo epistolare, cioè un romanzo costruito sulla raccolta fittizia di lettere, questo è bene
noto che non è un’invenzione di Foscolo il quale ha dei modelli europei ben chiari:
I dolori del giovane Werther di Goethe
Nouvelle Héloise di Rousseau
Il romanzo epistolare è un genere di grande moda in Europa e quindi è chiaro anche Foscolo lo abbia
adottato . Ci sono anche altre cose da dire, in primo luogo quest’opera è il primo vero romanzo moderno
cioè Foscolo manca di un vero e proprio modello italiano è l’Orlando furioso” è l’unico modello a cui lui può
guardare . In concreto gli mancano le strutture narrative e linguistiche su cui costruire il suo testo. Il
romanzo epistolare è molto più facile quindi può fare a meno di grandi strutture ma vive per nuclei ed
ognuno di essi è una lettera che tollera anche scarti di stile e può permettersi di avere anche una
dimensione un po' più poetica e lirica - È più facile per chi deve dissodare un terreno nuovo
La trama in soldoni tratta di: Un giovane si innamora di una bellissima giovane che però è promessa ad un
altro uomo che appartiene a un partito migliore di lui, e in conclusione il giovane si suicida . La trama è la
stessa sia in quest’opera che per i dolori del giovane Werther, però Foscolo introduce una serie di novità
In primo luogo introduce novità che si concentrano sula figura del Editore-Destinatario cioè ogni lettera
presuppone una persona a cui sia destinate e entrambe le due opere presentano effettivamente un
destinatario, nel caso di Goethe si tratta di una figura chiama Guglielmo invece per Foscolo è Lorenzo
Alderani
La figura dell’editore rappresenta colui che pubblica e fa scelte editoriali per presentarlo al lettore , quindi
nella funzione narrativa dei due romanzi l’editore è la figura che raccoglie le lettere e le presenta al
pubblico
Qui c’è una differenza profonda, nell’opera di Goethe la figura dell’editore è diversa da quella del
destinatario per le ultime lettere di Jacopo Ortis no perciò l’editore coincide con il destinatario
Nella percezione del lettore introduce una profonda differenza cioè il lettore è indotto a una identificazione
molto più forte con il destinatario
Quindi nei dolori del giovane Werther in un certo senso il lettore è indotto a guardare i casi raccontati dal
romanzo raccontati dall’esterno, in Foscolo c’è una completa identificazione perché il lettore si sente il
destinatario ma c’è anche il gioco inverso perché di identifica anche in Jacopo, proiezione molto più forte e
piena compartecipazione del lettore alle idee e sentimenti di Ortis. Un aspetto importante, Jacopo Ortis è
un esule sui colli Euganei e incontra la giovanissima Teresa
Il sentimento tra i due è ricambiato reciprocamente, il problema è che l’uomo, Eduardo, a cui Teresa è
destinata dal padre è una sicurezza economica, sociale e politica
La donna ha bisogno di questa sicurezza perché anche suo padre è un esule e affronta le difficoltà
economiche, politiche e sociali e Teresa sa di tutto ciò e sa che non può fidanzarsi ad un altro esule
Qua abbiamo un’altra differenza perché l’uomo che sposerà la donna amata da Werther cioè Carlotta, non
è un gelido burocrate della quotidianità ma un uomo per cui può esserci una simpatia, non come per
Eduardo che ha molti tratti negativi
Jacopo si ritrova ad essere un uomo isolato dall’intero sistema sociale e infatti mentre lui è esule e povere,
Werther non è così, è di buona famiglia, ha delle possibilità di carriera diplomatica ; Foscolo calca di più il
pedale riguardo all’uomo in conflitto con il modo di vivere nel mondo contemporaneo
Il matrimonio tra Teresa e Eduardo è molto più tragicamente obbligato dalla condizione scoiali
Anche Werther abbandona il paese dove ha incontrato Carlotta ma è un viaggio breve e con un'unica
destinazione
Jacopo abbandona il paese dove ha incontrato l’amata e si avventura in un lungo viaggio per l’Italia del
nord; è un viaggio di conoscenza del mondo e Jacopo sa già che si concluderà con il suicidio, in un certo
senso è la scoperta di un mondo in cui non può avere spazio
Questa parte del viaggio è estremamente importante perché le lettere che scrive riflettono pienamente il
tipo di romanzo che Foscolo vuole scrivere che non è un romanzo di amore o politico ma un romanzo
filosofico ed esistenziale
STRORIA EDITORIALE DEL TESTO
Foscolo inizia giovanissimo a scrivere le lettere di Jacopo probabilmente a 18 anni, e sono gli anni della
rivoluzione francese che sta dilagando e trasforma il mondo
Foscolo abbraccia gli ideali giacobini tant’è che si arruola nell’esercito
Si trova a bologna e sta preparando le ultime lette… ma succede che le armate rivoluzionare francesi in
Italia subiscono delle sconfitte, l’esercito francesi abbandona bologna quindi Foscolo abbandona la città e le
catte e le pagine restano lì
Vengono pubblicate nel 1798 Foscolo non è bologna ma vengono bloccate dalla censura; l’anno dopo
l’opera viene ripubblicata senza che Foscolo lo sappia con dei forti interventi da parte di un forte bolognese
il Sassoli con il titolo “vera storia di due amanti infelici”
Quando Foscolo lo apprende scrive una lettera di denuncia che disconosce quest’opera perché l’opera era
stata trasformata in una storia tragica melodrammatica tra due amanti priva di dimensione politica
Questa trasformazione avviene perché nel 1799 a Bologna ci sono gli austriaci cioè l’esercito dello
schieramento conservatore contrario a qualsiasi spirto rivoluzionario e giacobino
Viene pubblicata a Miano nel 1802 un’edizione con nuovi materiali
Poi una quarta edizione nel 1816 a Zurigo ma con data falsa cioè che rimanda a prima della caduta di
napoleone e con un apparato bibliografico che dice che si tratta una riedizione introvabile del 1802 – è un
falso clamoroso perché ha aggiunto delle lettere di violenta condanna contro napoleone, il quale ha
assunto un ruolo di tiranno e oppresso dell’Italia
Il punto è che la dimensione politica riconosce in Napoleone il tiranno come figura politica
Foscolo aveva bisogno di datare questa edizione post napoleonico agli anni del trionfo napoleonico al modo
di essere al di sopra di accusa e di facile vendetta
Nel 1817 a Londra ultima edizione . L’edizione di Zurigo e di Londra sono dovuto al fatto che Foscolo dopo
la caduta di napoleone è esule e andato in esilio a Londra dove morirà poverissimo
Tutto ciò che scatti un altro aspetto cioè alla DIMENSIONE AUTOBIOGRAFICA perciò è presente un
continuo collegamento tra Jacopo e Foscolo
Foscolo non nasce in Italia ma a Zante e abbandona il luogo di nascita da ragazzino e non tornerà mai più;
arriva a Venezia ma dovrà andarsene dopo il trattato di Campoformio perché la città viene ceduta
all’Austria Quindi Foscolo diventa doppiamente esule da zante e Venezia, poi si aggiunge l’esulanza
dall’Italia
Apparentemente Foscolo lavora su un doppio binario perché da un lato continua a rivendicare che il
romanzo sia un romanzo di invenzione di finizione però al contempo continua a ripetere che la storia di
Jacopo sia ispirata a quella di uno studente padovano che alla fine si suicida di cognome Ortis – voluta
ambiguità finzione/biografia ma al contempo proietta la propria biografia
E questo lo vediamo in alcune lettere sono effettivamente lettere reali e proprie che lui aveva scritto a una
delle sue amanti, la Fagnani Arese, ma anche inserisce delle proprie opere quindi affida alla lettere di
Jacopo una serie di riflessione politiche e filosofiche
L’edizione si apre con un ritratto del povero Jacopo se non che quello è un ritratto vero di Fosco lo, con il
passaggio delle varie edizioni cambia anche il ritratto rappresentante sempre il poeta
Il romanzo non è solo d’amore e patriottico ma anche civile-filosofico perché quelle lettere che scrive
durante il viaggio tratta dei grandi temi come la lettera che scrive dopo l’incontro con Parini e quest’ultimo
indica Jacopo come un suo successore per l’impegno politico se non che c’è una parte sulla riflessione dei
meccanismi della stori delle politica e nella violenza presenta in essa ; anche la lettera dei Ventimiglia sul
senso del suicidio e il ruolo dell’uomo nella società, un passaggio esistenziale fantascientifico dove l’intera
storia viene vista come violenza e successione di violenza che punisce una violenza precedente – l’Italia è
vittima e ovviamente nel risorgimento il senso di popolo oppresso è fortissimo però Foscolo lavora su un
senso più profondo, l’Italia è oppressa ma sta espiando del male compiuto precedentemente e un giorno
sarà espiato da qualcun altro
Tutto ciò si trasmetta una dimensione fantascientifica fino a pensare che il mondo un giorno espierà il male
a favore di un altro pianeta
L’intera macchina della natura viene vista come una macchina che ciclicamente fa espiare le pene
Il viaggio di Jacopo è un viaggio all’insegna della morte delle illusioni, Jacopo si suicida non perché la sua
patria è perduta o perché Teresa sposa un altro uomo ma perché il matrimonio di Teresa è la caduta
dell’ultima illusioni
È un viaggio alla scoperta che ogni valore umano non ha senso ed è destinato alla sconfitta, l’unico valore è
la compassione cioè la pietà di un uomo nei confronti di un altro in una dimensione di materialismo
pessimista. Non a caso le lettere si apre con una frase latina “naturae clamat ab ipso vox tumulo” con l’idea
che la natura sia una macchina superiore e che prevale sempre
La dimensione espiativa è il fatto che la storia sia sempre un espiare di un sangue precedente Jacopo
diventa una figura cristologica perché lui stesso deve espiare e diventa un agnello sacrificale per il male del
mondo . Questa dimensione cristologica la riconosciamo nelle prima parole di Jacopo con cui si apre il
romanzo “il sacrificio della patria nostra è consumato” Venezia è stata appena ceduta quindi tutto è
perduto; “è consumato” è la traduzione delle ultime parole di Gesù sulla croce “consumatum est” quindi
Jacopo prende questa dimensione cristologica
MORTE DI JACOPO
Werther muore con un colpo di pistola alla tempia – suicidio borghese. Jacopo si pugnala al costato e viene
trovato sanguinante – suicidio presentando lo stesso tipo di ferita del crocifisso ma anche la morte per
pugnale è la morte dell’eroe tragico in scena quindi modello diverso di Werther
Altro espetto espiativo perché Jacopo in realtà è un assassino, c’è una lettera in cui viene espressamente
detto che ha ucciso un uomo involontariamente travolgendolo con un cavallo ma c’è questa idea
dell’espiazione a cui stesso si deve sottoporre per questo atto
Jacopo è lui stesso è portatore di un male del mondo che pervade tutto il mondo e quindi deve espiare lui
stesso con il suicidio
POESIE
Raccolta lirica molto piccola che corre sotto il titolo di “poesie”. Può sembrare un titolo banale, ma non lo è
perché la prassi all’epoca era soprattutto quella di indicare nel titolo la forma metrica usata, qui invece no -
perché le forme metriche sono due: sonetti e odi
Sonetti forma metrica tipicamente italiana
La forma dell’ode è di tradizione antichissima greca e latina che nel 700 ha avuto una
grande fortuna soprattutto con le “odi di Parini”; è una forma che richiama, anche
visivamente, la dimensione classica e vuole rievocare quel mondo
Quindi abbiamo un’ibridazione di dimensione moderna e tradizionale italiana + dimensione classica .
Sono solo 14 testi (12 sonetti e 2 odi), ed è molto strano perché molto spesso le raccolte comprendevano
anche più di 100 testi, perché anche questa è una scelta di Foscolo di presentare testi brevissimi all’insegna
dell’alessandrinismo: perfezione formale, la brevità garantisce la perfezione formale secondo il modello
classico
Anche i sonetti sono una scelta particolare perché Foscolo è l’ultimo grande a scrivere grandi sonetti, poi si
ricomincerà a fine 800 e 900, ma con Foscolo si interrompe la tradizione dei sonetti, tant’è lui stesso
pubblicherà da critico letterario un’antologia dei sonetti italiani e una storia del sonetto italiano “vestigi
della storia del sonetto italiano” che si conclude con i suoi sonetti e si autodetermina con fine della
tradizione del sonetto
Le poesie presentano una citazione latina di apertura tradotta in “oblio di una vita agitata”
La vita agitata è quella di Foscolo stesso; ha 25 anni e sta già costruendo il proprio personaggio di poeta
esule figura rivoluzionaria e tenebrosa
Però l’idea è quella che la poesia sia l’oblio di una vita agitata, quindi può essere il conforto e la
consolazione; la data stessa in cui vengono pubblicate le poesie è importante perché nel 1803 è iniziato il
reflusso napoleonico cioè sono finite le grandi aspettative e illusione politiche rivoluzionarie di Foscolo,
Napoleone ha ormai una figura imperiale perciò si è spenta una stagione e quindi le sofferenze, le
frustrazioni sconfitte di una vita agitata possono trovare conforto solo nella poesia nell’amore e nella
bellezza che accumuna bellezza e poesia
Le due odi, “a Luigia Pallavicini caduta da cavallo” e “all’amica risanata”, vediamo che l’elemento che le
accumuna, già solamente osservando il titolo, è l’infermità e la poesia è il medicamento di essa
NÉ PIÙ MAI TOCCHERÒ le sacre sponde è uno dei dodici sonetti
Parafrasi:
Né più mai toccherò le sacre sponde Non toccherò mai più le sacre sponde su cui
Ove il mio corpo fanciulletto giacque, fanciullo giacqui, o mia Zacinto, che ti specchi nelle
Zacinto mia, che te specchi nell’onde onde del mare greco dal quale Venere nacque
Del greco mar da cui vergine nacque vergine e quando sorrise per la prima volta
Venere, e fea quelle isole feconde fecondò quelle isole così che e tue nubi luminose e
Col suo primo sorriso, onde non tacque la tua vegetazione furono celebrati dal canto di
Le tue limpide nubi e le tue fronde Omero che cantò le acque dei mari sui quali fu
L’inclito verso di colui che l’acque spinto dal fato Ulisse e cantò l’esilio per molte
Cantò fatali, ed il diverso esiglio terre così che Ulisse bello di fama e di sventura
Per cui bello di fama e di sventura baciò infine la sua petrosa Itaca. Tu o materna mia
Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. terra non avrai altro che il canto del figlio; a noi il
Tu non altro che il canto avrai del figlio, fato ha prescritto una sepoltura senza lacrime
O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.
Questo sonetto fu profondamente criticato per una scorrettezza formale perché non rispetta quello che
viene chiamata “la teoria dei punti” – dovrebbe esserci un punto al termine di ogni sezione, invece siamo di
fonte un unico periodo che comincia al vv.1 e finisce al vv.11 a Ulisse e poi ne comincia un altro
Tutti e due i periodi sono giocati su un “tu”, come in tutti i testi di Foscolo, che è l’isola natale che ha la
particolarità di essere vicina a Itaca, la patria di Ulisse; l’elemento particolare è che in un certo senso si
parte da Itaca (sacre sponde) all’inizio del sonetto e si torna a Zacinto (materna mia terra) in mezzo c’è però
una sorta di divagare della mente
Il sonetto è costruito interamente sulle perifrasi cioè la principale è “né più mai toccherò le sacre sponde”,
sacre perché è la terra natale ma anche perché ci stiamo proiettando nel mondo del mito
“giacque” perché c’è l’idea del bambino che dorme per terra e abbraccia la terra quindi una perfetta
connessione con essa
Il punto è che arrivati a “zacinto mia” vv.3 inizia una relativa, “che ti specchi”, ed è assolutamente
accessoria e non necessaria perché la frase è già finita, ma con questa frase inizia un’immagine dell’isola
greca che emerge dalle onde
“dal greco mar” è la seconda relativa che attraverso una perifrasi chiarisce che mare è “dal quale nacque
vergine venere” – l’immagine dell’isola natale ha già creato una seconda immagine ossia quella della
nascita di venere vergine
Viene usato il termine “vergine” per rappresentare l’idea del mondo incontaminato e del primo apparire
della natura nella storia del mondo
Una terza immagine è quella di Venere che con il suo sorriso fa nascere la natura, quindi essa rappresenta
una forza creatrice e generatrice
“nacque passato remoto e poi “fea” imperfetto – altro tempo altra immagine e due idee distinte su un
piano diverso
“onde non tacque” è una litote, classica forma retoriche per dire che parlò e cantò
Soggetto “l’inclito verso” (= il famoso verso) per dire di chi fosse dobbiamo osservare un’altra relativa “di
colui che l’acque”; complemento oggetto “le tue limpide nubi e le tue fronde
Il punto è che noi abbiamo il verbo poi il complemento oggetto e il soggetto dopo l’altra relativa che ci
spiega di chi sai l’inclito verso cioè colui che non tacque cioè “colui che l’acque cantò fatali” poi di nuovo
complemento oggetto, un’epifrasi, poi “ed il diverso esilio” cioè per terre lontane per cui, nuova relativa
“per cui Ulisse bello di fama e di sventura” fama letteraria e sventura della sua vita “baciò la sua petrosa
Itaca”
Quindi in realtà da “che ti specchi nelle onde” fino a “Ulisse” non ci serve, perché il senso è compiuto già al
vv.3
Il senso in realtà potrebbe esserci ma tutto ciò che c’è tra il vv.3 a vv.11 è il vagare del pensiero non per
forza logico
Idea che da un’immagine ne nasca un’altra:
1. Foscolo pensa all’isola su cui è stato bambino
2. Venere che nasce dalle acque
3. Venere che feconda la natura
4. Omero che canta il mare greco
5. Ulisse che vaga nell’odissea per il diverso esilio
6. Ulisse che torna a Itaca e la bacia
Questo sonetto non rispetta l’idea dei punti proprio perché rispettarla avrebbe significato bloccare lo
scorrere del pensiero, invece questi 11 versi riproducono il succedersi naturale delle immagini e del pensare
1vv. è il futuro – “non toccherò mai più” – poi iniziano i passati, è come se lo stesso tempi dei verbi
riproduce il penetrare in un tempo passato nel tempo del mito abbandonando la storia del presente; però
poi nell’ultimo blocco di 3 versi finale di nuovo abbiamo il futuro
“tu non altro che il canto avrai del figlio a noi prescrisse” è la nuova riflessione del futuro che è nata dallo
sprofondare nel ricordo dei versi centrali del sonetto
Il sonetto si apre e si chiudo con la proiezione del futuro, al centro lo sprofondamento della memoria ella
felicità e del mito dove Ulisse torna ma Foscolo non ritornerà mai a Zacinto
Altro passato è “a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura” in contrapposizione ad Ulisse – nel passato del
mito c’è la felicità, idea che il presente è il tempo in cui non si possa avere la felicità del mito
Altro aspetto Foscolo insieme si contrappone a Ulisse ma si proietta su omero che ha cantato Itaca mentre
Foscolo a Zacinto – rivendicazione di un ruolo poetico – però il poeta è anche il nuovo Ulisse bello di fama a
e di sventura ma destinato a non tronare mai nella propria terra
Secondo aspetto, le parole rima della quartina rimano tutte in –onde e in –acque, cioè sono parole che
anche foneticamente richiamano il mare greco di zacinto su cui si svolge il mito
Questo un ottimo sonetto che permette di vedere come la struttura di un sonetto possa essere declinata in
molti modi ma può assumere forza significante e forza poetica propria
DEI SEPOLCRI
È un carme – parola che rimanda al mondo classico e indica una forma classica del testo- ma sono anche
un’epistola a Ippolito pindemonte, poeta dell’epoca contemporanea
Abbiamo una dimensione classica ma anche interlocutiva del tu – elemento costante
Forma: endecasillabi sciolti – verso neoclassico per eccellenza e che manifesta una volontà di riprodurre il
modello dei testi antichi infatti questo testo ambisce a presentarsi come un testo classico
Anche graficamente si presenta con un’eleganza formale, è un’edizione neoclassica ma anche che si
presenta come l’edizione di un testo antico tant’che Foscolo al fondo pone delle note culturali e di
commento esattamente come si faceva con i testi classici. Viene pubblicato nel 1807, avviene un evento
molto importante ossia l’Editto di Saint-Cloud in Francia nel 1804 poi applicato nel 1806 e in Italia ci si
aspetta che venga presto riapplicato
Al momento l’Italia è il regno di Italia con a capo napoleone con capitale Milano ma sostanzialmente
Francia e Italia sono unite in un regno personale perché il capo dello stato è di entrambi gli stati
Nel nostro paese si discuto di questo editto e i sepolcri si inserisce in questa discussione perché questo
editto prevedeva norme che rimandano ai principi illuministi e igieniche come i cimiteri fuori dalle città,
norme di buon senso razionalista, con in più che le tombe debbano essere tutte uguali con una
commissione che valuterà gli epitaffi da apporre per i personaggi celebri
Foscolo aveva dimostrato la sua indifferenza di fronte a questo editto ed effettivamente l’incipit dei sepolcri
inizia con “ cipressi…..” Cioè la tomba non ha nessuna importanza per il defunto
Poi avvia una riflessione sul valore fondante dei sepolcri nella società umana e produce questo piccolo,
perché sono 295 endecasillabi, capolavoro
Dei sepolcri – il tema del sepolcro importante per Foscolo, ultime lettere di Jacopo Ortis finiscono con il
seppellimento e a zacinto con l’illacrimata sepoltura – idea foscoliana ma anche dell’epoca
Il carme dei sepolcri si inserisce nella poesia sepolcrale – un genere fortunatissimo nell’Europa dell’epoca
soprattutto in Inghilterra (esempio Elegia scritta in un cimitero di campagna di Gray) ma anche in Francia e
in Italia
Il carme si inserisce in questo genere ma con uno scarto eccezionale che viene espresso nel 1807 da un
certo Abate Guillon che scrive una scontratura “dei sepolcri” dicendo che non si capisce nulla perché lo stile
è oscuro e il fuoco del carme si sposta in continuazione da un’epoca all’altra e da un luogo all’altro e in più
rimpiange che Foscolo non abbia scritto come nella poesia cimiteriale inglese
Il poeta risponde subito e porta all’attenzione sulla dimensione politica del testo e chiarisce che la sua
intenzione non è riflettere sulla resurrezione dei corpi ma su quella delle virtù; l’abate Guillon aveva capito
qual era il punto del testo che è un testo politico e che risponde a una dimensione atea meccanicistica
materialistica e non religiosa
Infatti il testo di Foscolo rappresenta una grande macchina della natura distruttiva in cui tutto è destinato
a un’eterna distruzione e trasformazione, la materia è in continuo cambiamento
Il punto è che in questa dimensione ciclica in cui un impero subentra all’altro ecc.. ci sono degli elementi
ferrei per l’appunto il sepolcro ha un ruolo civile, l’elemento di continuità della memoria e tradizione
Il sepolcro è il momento del passaggio dall’animale all’uomo ma anche un luogo di identificazione
personale. Idea che il sepolcro abbia un ruolo civile, di memoria e di tradizione ma anche luogo del dialogo
dell’uomo con l’estinto affettivamente e civilmente quindi gli antichi - Il dialogo attraverso il tempo
Modello di sepoltura privilegiata:
Modello della Grecia pagana
Modello inglese
L’abate Guillon rimprovera a Foscolo che continui a cambiare luogo e tempo, descrivere riti funebri diversi,
di popoli diversi, di tempi diversi e sta facendo una sorta di studio antropologico del fenomeno della
sepoltura all’interno di una società e non può accontentarsi del cimitero di campagna
Per questo la sepoltura per eccellenza sono le due prima menzionate proprio perché la sepoltura da un lato
ha un valore civile politico e unitario di compattezza di un popolo – per i greci la tomba dei caduti a
maratona, per gli inglesi la tomba Nelso eroe di trafalga, ma anche i cimiteri di questi due sono realmente
cimiteri nella natura a contatto con essa e avere un dialogo naturale con il defunto
Possiamo dire che il sepolcro è un elemento di resistenza e di morte che c’è nella natura così come la
bellezza amore e amicizia sono forma di resistenza e continuità della vita ma anche i sepolcri un giorno
verranno distrutti dal tempo che distrugge tutto
L’unica resistenza sarà la poesia in quando immateriale ha il potere di eternare e superare il tempo e di
tramandare la memoria e modelli degli antichi molto più dei sepolcri - ma non per sempre
IL GRAN FINALE DEI SEPOLCRI
Non sta parlando il poeta
Il carme nasce come epistola infatti Foscolo si rivolge con il tu a Pindemonte, quindi l’io è Foscolo
Succede un fenomeno particolare – progressivamente l’io si trasfigura e assume funzioni diverse e diventa
un io sublime mitico sprofondato nel tempo, infatti il finale si allontana dalla contemporaneità per
proiettarsi nell’antico
In questo caso non è più Foscolo a parlare ma Cassandra, la profetessa della sventura – Foscolo ha assunto
la fisionomia di una profetessa antica destinata a non essere creduta cioè di una sconfitta
I sepolcri si chiudono sulle parole di cassandra e sono una profezia:
E voi palme e cipressi che le nuore Secreti, e tutta narrerà la tomba
Piantan di Priamo, e crescerete ahi! Presto Ilio raso due volte e due risorto 285
Di vedovili lagrime innaffiati. Splendidamente su le mute vie
Proteggete i miei padri: e chi la scure 275 Per far più bello l’ultimo trofeo
Asterrà pio dalle devote frondi Ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,
Men si dorrà di consanguinei lutti Placando quelle afflitte alme col canto,
E santamente toccherà l’altare, I prenci argivi eternerà per quante 290
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete Abbraccia terre il gran padre Oceàno.
Mendico un cieco errar sotto le vostre 280 E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
Antichissime ombre, e brancolando Ove fia santo e lagrimato il sangue
Penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne, Per la patria versato, e finchè il Sole
E interrogarle. Gemeranno gli antri Risplenderà su le sciagure umane. 295
PARAFRASI:
E voi palme e cipressi che le nuore di priamo stanno piantando e crescerete purtroppo annaffiati dalle
lacrime delle vedove. (cassandra profetizza che le 50 figlie di priamo resteranno vedove e con le loro
lacrime annaffieranno queste piante funerarie) proteggete i miei padri: e chi ha sterrato con devozione
religiosa la scure dalle vostre fronde si dorrà di meno di lutti di parenti e toccherà l’altare da puro,
proteggete i miei padri. Un giorno vedrete (cassandra parla alle palme e cipressi) un cieco mendicante
(Omero che per la tradizione è cieco; cassandra profetizza il giorno che arriverà a Troia e interrogherà le
tombe dei troiani che gli racconteranno quello che è successo e omero potrà cantare l’Iliade) errare sotto le
vostre antichissime ombre e penetrare nelle tombe brancolando e abbracciare le urne e interrogarle.
Gemeranno gli altri segreti e la tomba intera narrerà di Troia rasa a terra per due volte e due volte è risorta
in maniera orgogliosa per rendere più bella ai greci (Pelìdi) inviati dal fato la vittoria. Il sacro vate (omero),
placando con il suo canto le anime afflitte dei troiani renderà eterni i principi greci (che hanno vinto la
guerra di Troia) per tutte le terre che il grande padre oceano abbraccia. E tu Ettore avrai l’onore dei pianti
dove il sangue versato per la patria sarà santo e riceverà lacrime, finché il sole risplenderà sulle sciagure
umane
Idea che la poesia stessa non è onnipotente contro l’oblio perché il sole non risplenderà sempre sulle
sciagure umane, un giorno anche l’umanità sparirà e quindi anche la memoria di Ettore si perderà –
umanità è sciagura ed è l’elemento principale e tutto il carme dei sepolcri è stato un attraversamento della
grande storia umana con l’attraversarsi di sciagure e vittorie e di sconfitto che servono per espiare le
precedenti vittorie
La conclusione è su Ettore, lo sconfitto per eccellenza della letteratura umana. Cassandra, profetessa
destinata a non essere ascoltata ci parla di Ettore, lo sconfitto per eccellenza . Anche l’iliade si chiudeva con
i funerali di Ettore e il carme dei sepolcri termina con il funerale di Ettor e e sotto questo aspetto il carme si
presenta proprio come un grande testo classico che affronta la radice della storia del mondo
08/04
LEZIONE 19
GIACOMO LEOPARDI
Leopardi è un autore che ricorre molto a banalizzazioni e schematizzazioni
Canti = titolo finale di una storia che inizia nel 1816, con la conversione al bello, ovvero il superamento di
Leopardi degli studi filologici (studio delle letterature antiche) e quindi il passaggio dalla filologia alla poesia.
I primi veri grandi testi lirici che affluiscono poi nei Canti sono le canzoni civili composte nel 1818, in
particolare All’Italia e Sopra il monumento di Dante, due testi che si possono inserire nel clima
risorgimentale. Questo rappresenta uno stacco notevole rispetto alla formazione di Leopardi, poiché
Leopardi non solo appartiene ad una famiglia aristocratica, ma ad una famiglia aristocratica profondamente
papalina/filopapale: Leopardi è cresciuto in una piccola cittadina delle Marche (Recanati), quindi nello Stato
pontificio, e il Leopardi giovanissimo nel solco della sua famiglia ha celebrato la Santa Alleanza, un’alleanza
internazionale politica profondamente conservatrice, in un’Italia profondamente cattolica.
Le due canzoni civili sono sì risorgimentali, ma l’elemento caratterizzante non è l’esortazione agli italiani
alle armi, alla riconquista e alla difesa dell’indipendenza italiana, bensì un elemento che si vedrà costante
nella produzione di Leopardi: la contrapposizione tra un presente meschino, gretto, degradato e invece un
passato più felice, più nobile, più vigoroso moralmente e fisicamente.
Nel 1819 avviene una seconda conversione, la conversione dal bello al vero, ovvero la conversione alla
filosofia e quindi un passaggio verso gli studi filosofici che presenta alcuni elementi principali che
caratterizzeranno, con declinazioni diverse, tutta la produzione di Leopardi:
Superamento dell’idea che l’infelicità sia dovuta ad una separazione dalla Natura, ovvero
dell’idea che gli uomini moderni si siano inciviliti e che con questo incivilimento si siano
allontanati dalla Natura, distaccandosi totalmente e procurandosi una condizione di
infelicità;
Superamento della concezione della Natura benigna: il superamento della concezione
della natura assolutamente benigna si evolverà e toccherà l’apice nel 1823;
Vero = nulla, noia, vuoto: il vero come riscoperta di una dimensione che porta inevitabili
implicazioni nella poesia;
Idea di poesia moderna “sentimentale” e filosofica (dal vero) che si inquadra bene nella
conversione alla filosofia, al contrario della poesia antica che era immaginativa e non si
basava sulla ragione ma sull’immaginazione. Nell’idea di Leopardi, le due canzoni civili
All’Italia e Sopra il monumento di Dante sarebbero due tentativi di riprodurre la poesia
immaginativa alla maniera degli antichi, ma ora c’è la percezione che le due poesie siano
totalmente inconciliabili e che la poesia degli uomini moderni sia inevitabilmente
sentimentale;
Resistenza delle illusioni (contrapposta al vero), termine quasi tecnico per Leopardi,
perché Leopardi contrappone due tipi di inganno (importante distinzione: ragione è
filosofica e intelletto produce inganni):
inganno dell’intelletto: l’inganno più grande è l’antropocentrismo, ovvero l’idea che uomo
sia importante e che abbia un ruolo prevalente nel sistema della natura;
inganno dell’immaginazione: le illusioni, ovvero inganni positivi perché permettono di
contrastare il nulla, la noia e il vuoto, di evadere dal vero;
Idea di poesia della vanità delle cose, quindi una poesia altamente filosofica.
Tutte queste elaborazioni hanno una loro sede fin dal 1817 nello Zibaldone, uno “scartafaccio” di appunti
personali in cui Leopardi deposita impressioni, idee, ragionamenti, riflessioni, e non un trattato filosofico
organico. Questo perché è sempre difficile in Leopardi avere un’immagine chiara, organica, coerente e
compatta, e perché, quella di Leopardi, è una filosofia che vive di impressioni, poi elaborate in posizioni
filosofiche, e che quindi presenta contrapposizioni, ondeggiamenti e ritorni.
Produzione poetica che segue alla conversione dal bello al vero: gli idilli
Bisogna in primo luogo indicare una prima sezione prodotta tra il 1819 e il 1821 di sei idilli in endecasillabi
sciolti (in greco “idillio” = piccolo quadro o piccola scena pastorale), dove l’idea è quella di creare brevi testi
che forniscano un’immagine naturale di quiete. I testi più famosi sono L’infinito, Alla luna, e La sera del dì di
festa (già di una certa estensione).
Tutti i testi sono in endecasillabi sciolti, ovvero una forma metrica già vista con Il giorno di Parini e con Dei
sepolcri di Foscolo e che serve a riprodurre un’immagine di antico e di grecità.
Gli idilli, sulla base dell’etimologia della parola stessa, sono quindi testi che vogliono riprodurre l’idea di
testi naturali, ma il punto è che in questi idilli dominano illusioni, immagini notturne e immagini di sogno, e
che si tratta di idilli che portano un’illusione sempre estremamente fragile, momentanea e precaria.
Accanto a quella degli idilli, procede la produzione delle canzoni. Le più importanti sono Canzone ad Angelo
Mai (1820), Bruto minore (1821) e Ultimo canto di Saffo (1822).
Importante chiarire un aspetto fondamentale sull’uso del termine “canzone”, perché noi ormai ci siamo
abituati a considerare la canzone come la canzone dantesca e poi petrarchesca, quindi una canzone
fortemente formalizzata (stanze, fronte, sirma, ecc..). Ecco, nel caso leopardiano la canzone ha qualcosa di
fortemente diverso, perché le canzoni civili Alla luna e Sopra il monumento di Dante hanno più aspetti
particolari e il punto è che: le strofe pari e le strofe dispari sono diverse tra di loro, ma al contempo tutte le
strofe pari e tutte le strofe dispari sono tutte uguali tra di loro (molto semplificato). Per questo si può dire
che con Leopardi siamo già verso una notevole libertà dello schema metrico nelle canzoni, perché, in un
certo senso, il percorso di Leopardi è un percorso verso una libertà metrica.
Di fatti, le tre canzoni prodotte tra il 1820 e il 1822 sono diverse, perché in queste ogni stanza presenta lo
stesso schema rimico delle altre stanze della canzone, ma lo schema è in realtà decisamente libero rispetto
allo schema petrarchesco, cioè non riflette ad esempio la ripartizione in fronte sirma o i piedi (ecc..). Questo
sarà visibile con la particolarità dell’ultimo canto di Saffo, la canzone più estrema nella ricerca di libertà di
rime.
Si possono menzionare tre aspetti diversi tra le tre canzoni (uno per ogni singola canzone):
Canzone ad Angelo Mai: dedicata ad un grande filologo bergamasco che aveva ritrovato un
codice antico, questa canzone rappresenta una sorta di storia dell’umanità all’insegna della
caduta e dell’inevitabile morire delle illusioni e, in un certo senso, anche all’insegna di un
invecchiamento dell’umanità fino alla noia attuale;
Bruto minore: questa canzone mette in scena un suicidio, quello appunto di Bruto minore, il
tirannicida di Cesare che, secondo l’immaginario, ha agito in un grande impeto di desiderio
di libertà, essa stessa un’illusione, e per rispetto nei confronti dell’idea di una virtù
interiore.
Quando ormai tutto è perduto e la sconfitta dei repubblicani o libertari è inevitabile, Bruto dice “stolta
virtù”, affermando che anche la virtù è semplicemente un’illusione, e che quindi lui ha vissuto tutta la sua
vita nel segno di un’illusione destinata a essere frustrata, poiché meschinità, violenza e arbitrio trionfano
sulle virtù.
Ultimo canto di Saffo: questa canzone inscena il suicidio di Saffo, grande poetessa greca
tradizionalmente bruttissima, che lascia il suo ultimo lamento prima del suicidio a causa di
un’infelicità amorosa, ricollegabile al tema principale della morte delle illusioni le ultime
illusioni per Saffo sono state le “sperate palme”, ovvero la speranza nella fama poetica, e
l’amore, una delle illusioni che permette di combattere contro il vero.
Questa seconda produzione approda nel 1824 a un’edizione che ha nome Canzoni, composta da 10 testi
(tutti quelli menzionati ma non l’infinito). Questa non è la primissima edizione in assoluto di Leopardi,
perché alcuni testi erano già usciti in precedenza, ma è la prima ad avere una certa consistenza.
Notare il titolo “Canzoni” e non “Canti”: l’aspetto importante è che Leopardi utilizza ancora un termine che
ha una dimensione chiaramente metrica, tecnica, e in cui, per l’appunto, le canzoni, pensate come testi
propri di un poeta civile, prevalgono sugli idilli, invece visti come un momento privato e riservato, anche se
sono comunque pubblicati in canzoni.
Ultimo canto di Saffo: ultime due stanze
La lunghezza delle stanze è costante, ma attenzione: questo non è un aspetto generalmente costante in
Leopardi, infatti più avanti si troveranno testi in cui le stanze hanno lunghezze diverse.
Se si guardano scorrendo le stanze, ci si accorge che non ci sono rime (es. eccesso: la rima in esso non
compare all’interno dell’intera stanza, come per torvo, ecc..). L’unica rima presente è la rima baciata finale
(canto e ammanto - diva e riva) e, visto che il distico baciato finale (sempre e solo settenario-endecasillabo)
è un tratto tipico della canzone formalizzata, è possibile dire che questo sia l’unico elemento della canzone
tradizionale che si sia conservato nell’Ultimo canto di Saffo.
Quindi, si può affermare che l’Ultimo canto di Saffo è composto da stanze di endecasillabi sciolti, ad
eccezione dell’ultimo endecasillabo che rima sempre e solo con l’unico settenario presente nella stanza ,
ovvero il penultimo verso.
Parafrasi 1a stanza:
Quale colpa mai, quale così indicibile peccato mi ha macchiata prima del mio giorno natale, così che il cielo
mi fosse così torvo e che così torvo mi fosse il volto della fortuna? In che cosa peccai ancora bambina,
quando la vita è ignara delle colpe, così che poi già arrivata nella giovinezza e dopo aver perduto il fiore
della giovinezza il filo di ferro della mia vita si avvolgesse intorno al fuso della Parca indomita? La tua bocca
diffonde parole incaute: c’è una decisione arcana che muove gli eventi. Tutto è sconosciuto a parte il nostro
dolore. Siamo nati al pianto come dei figli trascurati e la ragione di tutto ciò si posa in grembo ai celesti. Oh
cure, oh speranza della mia giovinezza! il Padre diede un potere eterno sugli uomini alle sembianze, alle
belle sembianze, al bell’aspetto, e la virtù non traspare in un corpo brutto, anche se associato a grandi gesta
militari, alla poesia nobile o al canto.
Saffo inizia il suo lamento chiedendosi quale sia la colpa che l’ha resa infelice così che il cielo e il destino
(quindi gli Dei, chi decide) si mostrassero così cattivi e torvi nei suoi confronti, in un modo tale che quasi
sembra esserci l’idea di un peccato originale, un peccato però individuale.
Si ripete l’immagine dell’idea di una colpa che ha reso impossibile la felicità di Saffo, così che il filo di ferro si
avvolgesse intorno al fuso di Parca (divinità che governa la vita e la morte), decidendo così per la sua
infelicità.
In un secondo momento Saffo si ammonisce, rimproverandosi per essersi data la colpa della sua infelicità
ed affermando che gli eventi della sua vita sono stati voluti dal destino, decisi da una forza sconosciuta,
forse dal volere degli Dei. Inoltre, afferma che “il Padre” ha assegnato le virtù senza guardare a ciò che un
uomo ha fatto, ma guardando solo al bell’aspetto, e per questo, lei stessa non ha potuto essere felice.
Saffo passa poi dalla prima persona (io) alla quinta persona (voi): questo indica che sta parlando per sé, ma
anche per tutta l’umanità, umanità che è nata piangendo, che è costretta a soffrire e il cui destino è in mani
sconosciute.
fallo = errore, colpa
nefando = non dicibile (qui anche in senso sacro)
eccesso = colpa contro la divinità
natale = giorno natale
arcano = sconosciuto
celesti = Dei
Parafrasi 2a stanza:
Moriremo. L’anima priva del corpo scapperà al corpo brutto abbandonato per terra, fuggendo verso gli
inferi, e così espierà il crudele errore della divinità che dispensa tra gli uomini i destini. E tu (Faone), a cui
sono stata stretta invano da un lungo amore, da una lunga fedeltà e dal vano furore di un mai placato
desiderio, vivi felice se un essere umano è mai stato felice in terra. Giove, dopo che sono morti gli inganni e
il sogno della mia giovinezza, non mi ha cosparsa con il dolce liquido di quel vaso che lui usa poco. Ogni
giorno più felice della nostra età fugge, e subentrano la malattia, la vecchiaia e l’ombra della morte. Ecco, il
tartaro è tutto ciò che mi resta di tutte le palme in cui ho sperato e di tutte le illusioni che mi avevano dato
piacere. E ora la dea degli inferi e la nera notte e la riva silenziosa dell’oltretomba possiedono il mio
generoso ingegno.
L’incipit della seconda stanza è chiaro e diretto e preannuncia la morte della stessa Saffo, la quale non si
suicida perché è brutta o perché il suo amore è stato rifiutato, ma si suicida perché il suo suicidio produce
una riflessione sul destino umano, infatti la sua conclusione è che neanche il bellissimo Faone potrà mai
vivere felice. Inoltre, secondo Saffo, Il suicidio dell’uomo è una punizione per gli Dei.
Alla fine della stanza, Saffo si suicida, precipitandosi nella morte.
tu = Faone, l’uomo di cui Saffo è innamorata, colui che l’ha rifiutata
licor del doglio avaro = felicità rara
Tartaro = Inferno
sperate palme = fama poetica
Nel 1823 si verifica il terzo passaggio fondamentale per Leopardi, ovvero la conversione al pessimismo
cosmico, uno snodo fondamentale che porta ad un’interruzione nella poesia lirica e ad uno stimolo nella
prosa delle operette morali, prose filosofiche che andremo ad analizzare.
Qual è il nucleo di questo pessimismo cosmico? infelicità a-storica = infelicità che non dipende
esclusivamente dall’epoca moderna e dall’incivilimento degli uomini moderni, ma che è un problema che è
legato all’umanità intera e che è caratterizzante di tutta la natura.
Il pessimismo cosmico si lega a tre elementi principali:
1. teoria del piacere: teoria fondamentale per cui ogni essere vivente è spinto dal proprio
bisogno di piacere che però è destinato a rimanere frustrato e questa frustrazione provoca
dolore e, quindi, la dimensione del dolore è qualcosa di naturale in sé, non è un elemento
dell’incivilimento, ma è una cosa che accomuna tutti;
2. infelicità degli antichi: la scoperta, o meglio, l’osservazione che anche i grandi del mondo
greco e latino denunciavano sofferenza e dolore dimostra che non era vero il fatto che il
contatto con la natura producesse una maggiore adesione alla vita e, quindi, che la Natura
non è benigna;
3. materialismo e meccanicismo: studi della grande filosofia del sensismo e dell’illuminismo,
in cui non c’è spazio per una Natura benigna e in cui, invece, la Natura appare
semplicemente come una grande macchina distruttiva.
Produzione che segue alla conversione al pessimismo cosmico: le Operette morali
Con la crisi del 1823, per Leopardi subentra quindi una nuova stagione che vede aprirsi un diverso orizzonte
letterario, in cui si interrompe momentaneamente la stagione lirica e si apre invece quella della prosa, in
particolare quella delle Operette morali. Queste hanno una loro “archeologia” già nel 1820, ma la loro
“grande composizione” avviene nel 1824, quando Leopardi compone infatti ben 20 operette.
Che cosa sono le Operette morali? Dal loro nome si può comprende che sono testi brevi (operette) con una
forte dimensione morale (morali) anche se il morale è un concetto da chiarire, perché in primo luogo
bisogna osservare all’orizzonte che Leopardi sta guardando, prendendo spunto da tre diversi modelli:
1. modello dell’apologo morale classico, quindi del racconto che serve a veicolare una morale;
2. modello di Luciano di Samosata, autore greco del II secolo d.C., molto famoso soprattutto
per i suoi dialoghi (Dialoghi dei morti e Dialoghi degli Dei), brevi testi in cui Luciano smonta
e ironizza alcune credenze e alcuni facili modi di pensare della sua epoca, e lo fa con uno
stile estremamente brioso, vivace e divertente;
3. modello dei racconti filosofici tipici del Settecento illuminista , un Settecento illuminista che
non a caso prende sempre a modello i dialoghi di Luciano di Samosata.
Insomma, le Operette morali sono dei testi con una fortissima ricerca del linguaggio, che fanno perno
proprio sull’ironia, un’ironia però non acre e amara, poiché siamo di fronte a dei casi di prosa umoristica
che vanno a colpire, proprio sul modello di Luciano di Samosata, i falsi miti intellettuali sull’individuo e sulla
società: miti sull’evoluzione della società, sul ruolo dell’uomo nel mondo, sull’esistenza della natura, sulla
possibilità di raggiungere la felicità, sulla vanità delle cose e degli sforzi umani e sul progressivo
decadimento del mondo.
È questa, quindi, l’opera dedicata alla caduta delle illusioni e ad una concezione di una natura come grande
macchina indifferente, per la quale l’uomo è assolutamente indifferente.
Le Operette morali, però, si segnalano anche per una grande ricerca nella lingua, una lingua adatta per la
prosa che possa essere nobile e allo stesso tempo vivace, brillante e con molti elementi di familiarità. La
lingua delle Operette morali è infatti una lingua fortemente arcaizzante, ricca di frasi morbide e
assolutamente non affettata, ovvero evita l’esibizione della letterarietà.
Per la questione della lingua, è interessante osservare che il 182 è anche l’anno in cui viene pubblicata
l’opera di Manzoni de I promessi sposi, anch’essa fondamentale appunto per la ricerca di una lingua adatta
alla prosa. Naturalmente, però, Leopardi e Manzoni trovano due soluzioni completamente differenti, quasi
opposte, seppur rispondendo alla stessa necessità di fornire alla letteratura italiana una lingua per la prosa.
Cosa c’è in queste Operette morali? Si trova un po' di tutto: ci sono grandi favole mitologiche, come la
storia del genere umano, una sorta di grande storia dell’umanità volta a comprendere se mai ci sia stato un
momento di felicità nella storia umana, ma soprattutto ci sono dialoghi immaginari tra attori
assolutamente non realistici. Questo è un altro tratto fondamentale preso dal modello di Luciano di
Samosata, per cui i dialoghi sono sempre inverosimili, dato l’evidente distacco dal principio della
verosimiglianza (elemento invece fondamentale in Manzoni).
L’inverosimiglianza è possibile notarla in alcuni dialoghi, quali: Dialogo di un folletto e di uno gnomo, che è
sulla vacuità della credenza umana di essere il centro del mondo e in cui l’uomo sparisce improvvisamente
e la Natura indifferente non si accorge della sua scomparsa; Dialogo della Natura e di un islandese, in cui la
Natura ha perso ormai completamente il suo ruolo di Natura benigna, e in cui, nuovamente, si mostra una
natura assolutamente indifferente ad un uomo a cui affligge inevitabilmente fatiche, sofferenze e ambienti
inadatti; Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, in cui il centro del dialogo è lo spegnersi delle
illusioni, perché Colombo, ormai consapevolmente prossimo a trovare la terra, si rende conto che l’unico
elemento di conforto nella noia della vita umana è proprio l’incertezza, l’insicurezza.
Nel 1827 subentra una nuova stagione, nuova anche per le stesse Operette morali (Barucci la presenta ora
per dare un quadro generale, anche se cronologicamente andrebbe dopo), infatti, dopo la prima edizione,
Leopardi torna a scrivere altre operette, anche se alcune di queste erano già pronte con la prima edizione
ma non sono state pubblicate (es. Dialogo di Plotino e di Porfirio). Queste nuove operette troveranno il loro
approdo nel 1834, quando però si apre una stagione faticosa, perché Leopardi tenta due edizioni: una nel
‘34 ed una nel ‘35.
L’edizione del ‘34 presenta una serie di lacune, dovute in realtà alla scelta di Leopardi di non inserire alcune
operette e ciò si può intendere come una sorta di autocensura, dovuta al timore che la sua edizione
sarebbe stata censurata, e non aveva tutti i torti, perché l’edizione del ‘35 viene effettivamente censurata,
interrotta. Quindi, in realtà, il volume delle Operette morali come siamo abituati a leggerlo è quello di
un’edizione postuma del 1845, pubblicata da un amico di Leopardi nella forma voluta da Leopardi stesso,
morto nel 1837, e che conta in tutto 24 dialoghi.
Si può dire che sostanzialmente i dialoghi composti dopo il 1824 hanno un destino faticoso , in particolare
tre dialoghi.
I primi due, Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827) e Dialogo di un venditore di almanacchi e di un
passeggere (1832), sono dialoghi di socialità che riguardano in un certo senso la relazione tra esseri umani,
infatti, in questa “seconda stagione” di operette, alcune note più sarcastiche si sono attenuate, è cresciuta
la radicalità della negatività di leopardi, ma al contempo è subentrato anche un senso di compassione
umana.
es. 1: nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, un dialogo sul suicidio, il suicidio viene rifiutato non per ragioni
religiose, morali o eroiche, ma perché la morte comporterebbe dolore e sofferenza per altre persone ®
senso di comunità umana.
es. 2: nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, il passeggere (passante) è
autonomamente in grado di cogliere l’assurdità di acquistare almanacchi e calendari che promettono un
futuro migliore, poiché la consapevolezza è quella che non ci sarà un futuro migliore, ma c’è comunque una
proiezione tra gli uomini, una sorta di identificazione e di consapevolezza della reciproca sofferenza e della
necessità di non negare totalmente l’illusione di un futuro migliore.
Il terzo dialogo importante è il Dialogo di Tristano e di un amico, un dialogo metaletterario, in cui Leopardi
assume la fisionomia di Tristano, personaggio leggendario del ciclo arturiano dell’amante infelice e folle che
porta già nel nome la tristezza, per parlare delle operette morali e spiegarne la funzione e la natura. Questo
dialogo è posto in conclusione alle Operette morali, in quanto appunto dialogo conclusivo in cui Leopardi
difende le proprie scelte letterarie e filosofiche.
Analisi del Dialogo di Tristano e di un amico (Barucci ha detto che è meglio leggerlo tutto):
Primo estratto
1 AM. Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
2 TRIST. Sì, al mio solito.
3 AM. Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
4 TRIST. Che v’ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
5 AM. Infelice sì forse. Ma pure alla fine...
6 TRIST. No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella
pazzia in capo, come vi dico. E n’era tanto persuaso, che tutt’altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi
volgere in dubbio le osservazioni ch’io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d’ogni lettore
dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse.
…
poi risi, e dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario
che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero è
tutt’altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo
crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale
la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perchè in sostanza il genere umano crede sempre, non il
vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante
scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a
sperare.
Il dialogo comincia proprio con l’evocazione di un libro che deve essere inteso come il libro che il lettore ha
letto fino ad ora, quindi le operette morali stesse, appunto perché questa è l’operetta conclusiva delle
Operette morali, e in un certo senso è il congedo dell’autore.
Nell’estratto analizzato, il lettore, ovvero l’amico di Tristano, ha trovato il libro malinconico, sconsolato e
disperato, e questo scaturisce l’ironia e il sarcasmo di Tristano sul fatto che abbia potuto pensare a questa
pazzia che la vita umana sia appunto infelice, quindi subentra una forte palinodia da parte di Leopardi, da
parte di Tristano, che simula di avere abbandonato le idee sull’infelicità umana e di essersi persuaso che
l’umanità sia destinata alla felicità (ironia).
Con “esse” Tristano si riferisce alla vacuità della vita umana, alla nullità, alla noia, alla non centralità
dell’uomo nella natura e all’infelicità, e si possono notare elementi di ironia e di satira del costume, infatti,
Tristano, per spiegare la sua posizione, dice di aver riso inizialmente di coloro che negavano l’infelicità
umana, dicendo anche che gli uomini sono come i mariti, che se vogliono vivere felici devono credere che le
loro mogli siano fedeli, quando tutto il mondo sa che invece la moglie è infedele. Quindi, è in questo modo
che gli uomini, per vivere, devono credere che la vita sia bella e pregevole.
Secondo estratto
Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli
uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni
speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana,
ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro,
procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa
crudeltà del destino umano.
…
15 AM. Credete ancora, già s’intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente.
16 TRIST. Certissimo. Sebbene vedo che quanto cresce la volontà d’imparare, tanto scema quella di studiare.
Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano contemporaneamente
cencinquant’anni addietro, e anche più tardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello
dell’età presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi perché in generale le cognizioni non sono più
accumulate in alcuni individui, ma divise fra molti; e che la copia di questi compensa la rarità di quelli.
…
18 TRIST. Sicuro. Così hanno creduto di sé tutti i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, ed io
con lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo o in
ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi.
19 AM. In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle
cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello che ne pensano i giornali?
20 TRIST. Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de’ giornali, i quali uccidendo ogni altra
letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell’età presente.
Non è vero?
La posizione di Tristano, quindi di Leopardi, rivendica eroicamente la dimensione della ragione che indaga
il vero, anche perché in effetti questo dialogo è un dialogo sulla filosofia del vero, come si può vedere al
primo capoverso.
A questo punto subentra veramente la palinodia: Tristano dice in continuazione che è assolutamente
convinto della felicità umana e addirittura arriva all’ironia contro la profonda filosofia dei giornali che sono
maestri e luce dell’età presente. Si tratta quindi di una polemica contro una cultura vacua, superficiale e
ottimista sul futuro.
Terzo estratto
34 TRIST. Verissimo. E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo
al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla
sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia
desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto
non ismentirà le mie parole; perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un
sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l’ora ch’io dico non sia lontana.
…
Libri e studi, che spesso mi maraviglio d’aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria e
d’immortalità, sono cose delle quali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di
questo secolo non rido: desidero loro con tutta l’anima ogni miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed
onoro altamente e sincerissimamente il buon volere: ma non invidio però i posteri, né quelli che hanno
ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran
concetto di sé medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti
né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei.
…
Naturalmente la palinodia ironica, sarcastica, non dura a lungo, perché questo dialogo tra Tristano e l’amico
si conclude con la rivendicazione dell’infelicità e della salda serenità con cui si guarda a questa infelicità,
con lo sguardo ormai distaccato con cui viene contemplata la vita, vita che ormai non ha più nessun fascino
e che può avere come conclusione soltanto il desiderio di una prossima morte.
Ripresa della produzione della poesia lirica: i Canti
Dopo la pubblicazione delle Operette morali, si apre una stagione nuovamente lirica, che porta ai famosi
Canti del 1831. Inaugurata da un breve periodo a Pisa (primavera del ’28), la stagione pisana è
contraddistinta dalla rinascita delle illusioni e dalla rinascita della poesia, tanto che lo stesso Leopardi la
attesta e celebra nelle sue lettere come una risorgenza di un vecchio modo di fare poesia, con il cuore
antico ma in una nuova dimensione.
Questa stagione è chiamata anche “dei canti pisano-recanatesi” (perché prodotti in parte a Pisa e in parte a
Recanati) oppure “dei grandi idilli”, testi che vengono composti tra il 1828 e il 1830 e che per l’appunto
affluiranno, insieme ai testi precedenti, nei Canti del 1831, la prima edizione che porta il titolo a cui noi
siamo abituati quando pensiamo a Leopardi.
Le opere più importanti da ricordare di questa stagione sono: A silvia (‘28), Le ricordanze (‘28), La quiete
dopo la tempesta (‘29), Il sabato del villaggio (‘29) e Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (’29-‘30).
Cosa si può dire dei Canti? Sicuramente, si può dire che la dimensione dell’idillio, in sé è una dimensione
autobiografica, in questa stagione dei grandi idilli si allarga ad una dimensione universale, intraprendendo
una riflessione sull’umano, sull’umanità, sul senso del vivere. Questa caratteristica è visibile già nella poesia
A Silvia, il primo dei grandi idilli in cui il ricordo della vita e della giovinezza di Silvia, ragazza ormai morta, si
proietta su una riflessione sull’intera umanità, ma, soprattutto, è ben chiara nel capolavoro Canto notturno
di un pastore errante dell’Asia, in cui Leopardi assume la fisionomia di un pastore analfabeta e ignorante
appartenente ad un mondo totalmente remoto, che lo stesso Leopardi ha conosciuto attraverso un articolo
di antropologia.
Bisogna fare una riflessione sul titolo Canti: mentre i titoli delle prime due raccolte di testi poetici, Canzoni e
Versi (seconda versione solo accennata perché non in programma), rimandano ad un aspetto metrico
formale, il titolo Canti rimanda invece ad un canto assolutamente non formalizzato, un canto primitivo,
senza regole e senza forme che deve esprimere la dimensione primordiale, il dolore e la speranza.
Quindi, in questo caso, il pastore dell’Asia diventa portavoce dell’intera umanità e si può parlare di mise
en abyme, espressione che in letteratura indica un particolare tipo di “storia nella storia”, in cui la storia di
livello più basso (canto del pastore) riassume alcuni aspetti della storia di livello più alto (condizione
dell’intera umanità). Questo rappresenta il segno di un tentativo di Leopardi di approssimarsi ad una poesia
che possa realmente riflettere la natura prima dell’uomo, ma anche di un tentativo di riprodurre quel canto
anche nella forma metrica.
La stagione del 1831 è caratterizzata da una nuova forma innovativa, ovvero la canzone libera o canzone
leopardiana (anche canzone a selva perché “nasce” con A Silvia), perché, anche se non è Leopardi il suo
creatore, è indubbio che sia stato Leopardi a portarla alla massima resa con Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia.
A Silvia: ultime due stanze (è utile un confronto con le ultime due stanze dell’Ultimo canto di Saffo)
Visibili nelle ultime due stanze di A Silvia, le caratteristiche principali della canzone leopardiana sono:
tutte le stanze sono di misura diversa
1. penultima stanza: 9 versi
2. ultima stanza: 15 versi
libera alternanza di endecasillabi e settenari
rime senza schema fisso, e molte rime irrelate
1. penultima stanza: schivi con festivi (vv. 46-47)
2. ultima stanza: eventi con genti (vv. 57-59)
forte presenza di assonanze e consonanze
1. penultima stanza: core e amore con chiome (vv. 44-47-45), schivi e festivi con vedevi (vv.
46-47-42)
l’ultimo verso di ogni stanza rima sempre con un verso interno, che però può essere
sempre in posizioni diverse
1. penultima stanza: amore con core (vv. 48-44)
2. ultima stanza: lontano con mano (vv. 63-61)
Controprova con Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: ultime due stanze
La prima stanza va da <<O greggia mia che posi, oh te beata,>> a <<me, s’io giaccio in riposo, il tedio
assale?>>
La seconda stanza va da <<Forse s’avess’io l’ale>> a <<è funesto a chi nasce il dì natale>>
Questa canzone è una canzone sulla noia, non sul dolore, come è ben visibile dalle numerose ripetizioni:
tedio, noia, fastidio, ancora tedio, ecc. e nell’ultima stanza è chiaro che la noia sia una caratteristica della
vita umana, dell’intera umanità e, quindi, non solo del pastore errante.
Tutte le caratteristiche principali della canzone leopardiana che si sono viste nelle ultime due stanze di A
Silvia sono presenti anche qui, anzi, l’ultima stanza presenta una maggior quantità di rime rispetto all’ultima
stanza di A Silvia.
Particolarità rispetto alle ultime due stanze di A Silvia: gli ultimi versi di entrambe le stanze rimano allo
stesso modo, una scelta di Leopardi per riprodurre volutamente il canto primitivo di cui si è parlato in
precedenza.
1. penultima stanza: assale con animale (vv. 132-131)
2. ultima stanza: natale con quale (vv. 143-133)
Ultima edizione in vita: il Ciclo di Aspasia
L’ultima edizione in vita di Leopardi è pubblicata nel 1835 e si caratterizza per l’inserzione di un ciclo
importantissimo, ovvero il Ciclo di Aspasia, ciclo dedicato ad una figura incontrata a Firenze, che, in un
certo senso, segue l’evolversi di questo ultimo innamoramento, quest’ultima illusione della vita di Leopardi.
Inizialmente, infatti, il ciclo presenta l’esplosione dell’ultimo grande desiderio d’amore, dell’ultima grande
illusione e dell’ultima grande risorgenza, ma, in un secondo momento e con un linguaggio di estrema
asprezza che si lega al recupero dei poeti delle origini (pre-petrarcheschi: linguaggio aspro, scavato e duro),
segue la perdita definitiva delle illusioni, la quale porta ad un testo quasi autoriflessivo, disincantato, che è
Aspasia.
Il timbro dell’opera è da subito rivelato dal titolo, infatti il nome Aspasia corrisponde ad una donna che è
stata una celeberrima prostituta del mondo greco, e il fatto che Leopardi abbia scelto di attribuire all’amata
questo appellativo, chiarisce molto.
Noi però vedremo quello che (per Barucci) è uno dei massimi capolavori della letteratura italiana, A se
stesso del 1833, che è veramente un testo tanto affascinante quanto anomalo, anche nelle sue scelte
stilistiche.
Analisi di A se stesso:
Ciò che appare immediatamente in questo testo è l’estrema asprezza dei suoni e l’estrema anti-musicalità
del verso, e ciò che affiora con la massima evidenza è la continua spezzatura dei versi e il mancato rispetto
della relazione verso-sintassi: ci sono periodi con un unico verbo, periodi brevissimi, addirittura ci sono
periodi con una sola parola (v.3) o con due parole (vv.6-7). L’asprezza fonetica (es. disprezza, brutto, te
vv.13-14) è un ricordo delle rime aspre dantesche.
Apparentemente questi versi si presentano quasi assolutamente liberi, quasi assolutamente casuali, ma c’è
qualcosa che si può osservare: la densità di enjambement in questo testo è fortissima (<<Assai -
palpitasti>> vv.6-7, <<è degna - la terra>> vv.8-9, <<dispera - l’ultima volta>> vv.11-12, <<disprezza - te>>
vv.13-14). Insomma, questi sono proprio enjambement anche fortissimi e questo è un aspetto fortemente
ripetuto.
Ci sono però dei casi in cui, in realtà, dei punti fermi a fine diverso si possono trovare (es. <<Non che la
speme, il desiderio è spento.>> v.5, <<La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.>> v.10). Si presentano
quindi due sequenze/blocchi di 5 versi con stessa lunghezza versale: settenario - endecasillabo -
endecasillabo - settenario - endecasillabo, stessa lunghezza versale che poi si ritrova anche nella terza
sequenza (vv.11-16). La stessa sequenza versale viene quindi ripetuta tre volte (ora lasciamo un attimo da
parte l’ultimo verso).
Qui, l’aspetto veramente interessante è naturalmente la densità sia fonetica che lessicale, infatti sono
molti i giochi fonetici che si possono ritrovare nella poesia: guardando al primo blocco (vv.1-5): spento rima
con sento, c’è un’assonanza tra estremo e spento e sento e anche una consonanza tra sempre ed estremo;
guardando al secondo blocco (vv.6-10: c’è una fortissima assonanza fonetica tra Assai e noia, perché le
vocali sono le stesse, quindi c’è una fortissima materialità vocalica; guardando all’ultimo blocco (vv.11-16):
impera rima con dispera, c’è un’assonanza tra disprezza e impera e dispera e ci sono delle allitterazioni
molto forti con i suoni delle lettere P, R e T.
Importante: il primo verso del primo blocco presenta <<Or poserai per sempre>>, il primo verso del
secondo blocco <<Posa per sempre>> e il primo verso del terzo blocco <<T’acqueta omai>>. Si può vedere
che c’è la stessa materia lessicale e che addirittura, nei primi due blocchi, v.1 e v.6 presentano anche la
stessa struttura anaforica, perché ci sono anche le stesse parole ma con una struttura diversa.
Questo canto è naturalmente il canto dell’ultimo lamento, perché è morto l’inganno estremo, è perito
anche l’inganno dell’amore e non solo non c’è più solo la speranza, ma non c’è più neanche il desiderio dei
“cari inganni”.
Questo testo è un testo tutto di verbi e di sostantivi: gli aggettivi sono pochissimi (inganno estremo, cari
inganni) e per il resto, per l’appunto, sono sostantivi e cose, cioè amaro, noia, nulla, fango.
Questa è per l’appunto l’ultima estrema visione sul vero, quindi con l’ultimo blocco c’è l’ultimo invito allo
stanco cuore ad acquetarsi e a disperare un’ultima volta e tutto ciò che è stato donato all’uomo è il morire.
Nel finale c’è una sequenza di complementi oggetti in espansione: il primo complemento oggetto è te, il
secondo complemento oggetto, da disprezzare, è la natura e il terzo complemento oggetto è quel “potere
nascosto che governa sul mondo per il danno comune”.
Il v.16 si stacca, non solo perché non è inseribile nello schema di blocchi di 5 versi con la stessa lunghezza
versale, ma perché è l’unico verso che non presenti al suo interno alcuna cesura ad esempio di
punteggiatura, non presenta quindi nessuna cesura sintattica. È semplicemente una lunghissima
espansione, è un’infinita vanità del tutto e anche foneticamente questo verso insite sull’allitterazione della
T e delle vocali I ed U, lettere che producono l’idea sia del chiudersi che dell’espandersi e che rimangono
impresse nella mente del lettore, infatti la parola tutto (tratto tipico dei canti leopardiani) rima con la parola
brutto, appena due versi sopra, ed è ovvio che nella mente del lettore risuona facilmente l’accostamento
brutto – tutto.
L’idea è di una connotazione associata al Cosma, all’Universo, al tutto in senso filosofico contrapposto a un
nulla, al nulla che è il tutto, e ovviamente “l’infinita vanità del tutto” è un verso che riecheggia un passo
importantissimo del Qohelet (si pronuncia Coelit), testo biblico della negazione del pessimismo celeberrimo
con il famoso verso “vanitas vanitatum et omnia vanitas” (vanità della vanità e tutto è vanità).
Quindi, A se stesso è un testo di profondissimo materialismo negativo che assorbe in sé uno dei più celebri
passi biblici come riflessione sapienziale sul destino umano.