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Domanda 3 - Italo Calvino, Perché leggere i classici

Può essere utile, prima di leggere questo saggio, partire da una distinzione importante: cosa
significa essere un lettore Middlebrow, Highbrow o Lowbrow? In che senso nel Novecento, con i
grandi mutamenti culturali e della comunicazione, si è rotto il diaframma tra Highbrow e Lowbrow,
grazie alla nuova dimensione del mercato globale e al ruolo del ceto borghese e delMiddlebrow
Reader? Quali mutamenti ha prodotto la rivoluzione del ceto medio? È possibile dire che oggi
questo diaframma si sta in qualche modo, almeno parzialmente, ricostruendo a causa di una serie
di fattori congiunti (analfabetismo di ritorno, calo delle pratiche di lettura, allargamento della
forbice tra ceti sociali e parti del mondo,etc…)?

Chi è Italo Calvino? Quando scrive questo saggio (1981)? Perché parla con intelligenza (e acume),
in una attenta operazione di sociologia culturale, al “lettore medio”?

Poi chiediamoci: Cos’è il Canone, cosa sono i classici? Cos’è il canone dei classici? Partiamo
dall’etimologia dei due termini…

Poi diamone una definizione: il canone dei classici è quella lista di autori e di opere “eccellenti”,
ma anche di temi e di norme retorico-stilistiche fondamentali, per una lingua, una cultura, una
nazione.

Come sono nati i canoni: l‘esempio italiano, con “Le prose della volgar lingua” di Bembo (1525) tra
gloria e contraddizioni…

Struttura del testo di Calvino: Calvino costruisce il testo come una parodia del discorso scientifico:
14 postulati e altrettante o quasi dimostrazioni. Una dissacrazione intelligente dei tabù costruiti da
scuola e agenzie educative sulla letteratura…

Lettura del testo: lenta, circolare, capace di seguire paradossi e ironia, fino al finale, più complesso
di quanto si possa intendere a una prima e seconda e terza lettura…

Siete d’accordo con la posizione di Calvino in favore di un “canone aperto”? Cosa vuol dire che “la
biblioteca del Conte Monaldo è esplosa”? Che significa l’aneddoto finale? Pensi che Calvino sia
vicino alla teoria della ricezione di Jauss?

Confrontiamo la posizione di Calvino nei confronti del canone dei classici e della lettura con quella
del Manuale (1.3.3, pp. 47-51). Vi sembrano posizioni affini o divergenti?

Calvino difende la funzione della letteratura e lo fa in modo intelligente, positivo, propositivo; è


consapevole che non è tanto la letteratura a essere in pericolo, ma la funzione tutta umana,
conoscitiva ed empatica che la letteratura veicola. Su questo tema, ultimamente, è intervenuto
TzvetanTodorov, un critico letterario Bulgaro-francese, nel suo La letteratura in pericolo (2007).
Citiamone un brano: “Come la filosofia e le scienze umane, la letteratura è pensiero e conoscenza
del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La realtà che la letteratura vuole conoscere è
semplicemente (ma non vi è nulla di più complesso) l’esperienza umana (…) Quando mi chiedo
perché amo la letteratura mi viene spontaneo rispondere: perché mi aiuta a vivere (…) Più densa,
più eloquente della vita quotidiana ma non radicalmente diversa, la letteratura amplia il nostro
universo, ci stimola a immaginare altri modi di concepirlo e organizzarlo (…) Aldilà dell’essere un
semplice piacere per persone più o meno colte, la letteratura permette a ciascuno di rispondere
meglio alla propria vocazione di essere umano.”

Kant sostiene (Critica del giudizio) che “pensare mettendosi al posto dell’altro” è lo scopo
dell’uomo e della cultura. Hegel (Enciclopedia delle scienze filosofiche) che “cultura è guardare il
mondo con gli occhi di un altro”. Che ne pensate?

Perché Calvino giudica la letteratura italiana una “letteratura minoritaria” in una “lingua
minoritaria”? Pensaci bene; perché questo ci porta al saggio successivo…

Domande 4 e 5 (La traduzione e la lingua italiana) - Italo Calvino e Primo Levi

Occasione in cui il testo di Calvino “Tradurre è il vero modo di leggere un testo” viene scritto: un
convegno Unesco con traduttori e interpreti…

La traduzione come “scommessa ermeneutica”, pratica interpretativa, così come il commento, il


riassunto, ma anche la semplice lettura…

Storia della traduzione: un dibattito lungo 2000 anni: dalla distinzione ciceroniana tra Interpres (o
mediatore, da inter+pretium) e Orator (Traduzione dell’Orazione della corona di Demostene, 50 a.
C., nota come De optimo genere oratorum) all’Epistola a Pammachio di San Gerolamo (393 d. C.,
nota come De optimo genere interpretandi); dal decalogo del buon traduttore nel De
interpretazione recta (1400 d. C.) di Leonardo Bruni all’Epistola sulla traduzione di Lutero (1527
ca); fino alla riflessione dei romantici tedeschi sulla difesa dell’estraneità (Fremdende) del testo
originale (Goethe, Schleiermacher, Von Humboldt) e ai Translation Studies del ‘900 (dalla Scienza,
alla Teoria agli Studi sulla traduzione).

Nonostante elementi di continuità e similitudini, le antropologie della traduzione antica


differiscono notevolmente da quelle medievali e moderne; ciò per diversi fattori: tra questi
l’innovazione rappresentata dalla cultura giudaico-cristiana e dalla traduzione dei testi sacri come
Bibbia e Vangeli e la cultura della traduzione dei testi a stampa…

I tre dilemmi storici della traduzione

1) Fedele/infedele (letterale/non letterale; source/target)


2) Traducibilità/Intraducibilità (dal Dante del Convivio fino al ‘900 con Croce)
3) Visibilità/invisibilità del traduttore

Il saggio di Calvino sintetizza in poche pagine 2000 anni di dibattito; anche per questo è un
modello assoluto.
Calvino sviluppa 3 temi principali (dopo un incipit in cui con ironia “tira le orecchie” al sistema
editoriale e culturale internazionale…):

1) Cos’è la traduzione? E dà una risposta mirabile…


Alla luce della risposta di Calvino possiamo fornire un primo tentativo di definizione della
traduzione:

Cos’è la traduzione? La traduzione è un’antichissima pratica ermeneutica e comunicativa,


interlinguistica e interculturale, in cui il traduttore mette in gioco tutto se stesso per negoziare
e trasferire i valori semantici e culturali tra due lingue e due culture, e così tradurre
l’intraducibile e confrontarsi col residuo semantico, inevitabile, che ogni atto stesso di
interpretazione e di traduzione genera. La traduzione dunque, come scommessa ermeneutica
e come atto interpretativo, è sempre aperta, perfettibile, incontentabile, utopica…

2) Che rapporto è necessario tra editor-autore-traduttore?


3) Perché è difficile tradurre, ma anche scrivere,e persino pensare, in italiano? Su quali
fratture, storiche e geografiche, culturali e sociali, si costruisce la nostra identità
linguistica?

Cosa ne pensate delle tre conclusioni che Calvino trae? Vi convincono? Credete anche voi che noi
italiani viviamo in una condizione di nevrosi e afasia linguistica?

Che rapporto, dunque, avete con la lingua italiana? Con le lingue italiane, anzi, sarebbe meglio
dire…

Perché possiamo e dobbiamo parlare delle “lingue” d’Italia? Calvino riprende questa riflessione da
due saggi precedenti, e fondamentali, dal titolo “L’italiano, una lingua tra le altre lingue” e
“L’antilingua”, entrambi del 1965, dunque degli anni del boom economico e della trasformazione
antropologica italiana. In questi saggi Calvino affronta la situazione “drammatica” della lingua
italiana nel contesto internazionale e globale delle lingue naturali. Anche questi due saggi furono
pubblicati – come il saggio sui classici – in delle riviste.

“L’italiano, una lingua tra le altre lingue” risponde a un saggio (“Nuove questioni linguistiche”) in
cui Pier Paolo Pasolini annunciava polemicamente la nascita dell’italiano industriale e commerciale
dell’età del boom economico, un linguaggio orientato sui modelli del marketing aziendale e della
cultura settentrionale e milanese.

Calvino amplia l’orizzonte della riflessione e invita (pp. 146-147) a guardare alla situazione della
lingua italiana in un contesto più ampio, internazionale e globale (il che è già una grande
intuizione). L’italiano, egli dice, è una lingua particolare, per certi versi unica: duttilissima, dunque
valida come lingua in cui tradurre; ma anche evanescente e fragile, dunque ostica come lingua da
tradurre(p. 147)anche per la natura frammentata e caotica del suo sistema culturale e per la
pluralità e incomunicabilità dei suoi codici comunicativi (p. 149). È dunque necessario, spiega
Calvino, che il parlante e lo scrivente italiano siano consapevoli della forte entropia linguistica che
il nostro linguaggio contiene in sé e moltiplica nel momento della traduzione (p. 150). L’appello
finale che Calvino formula è quello di costruire – scuola, università, politica, comunicazione – una
lingua moderna nel vero senso della parola, uno strumento espressivo maturo, vitale ed efficace,
ovvero una linguaconcreta e precisa (p. 153).

Nel secondo saggio sulla questione linguistica - “L’antilingua” – Calvino compie un’analisi spietata
della crisi e delle debolezze della lingua italiana, ormai diventata un’antilingua, burocratica e
astratta, in conflitto con la realtà e con l’esperienza viva del mondo e della società (pp. 154-155).
Per Calvino identità linguistica e identità culturale vanno di pari passo.L’italiano per essere una
lingua moderna capace di animare la vita di una società moderna e avanzata, in un contesto
globale, deve essere capace di promuovere la comunicazione su più registri, tanto quello della
“comunicazione traducibile” quanto quello della “profondità espressiva”. Ma l’antilingua è
sempre in agguato, come simbolo della nostra incompiutezza storica, morale e culturale… (pp.
158-159).

Condividete o no le conclusioni di Calvino?

E che rapporto avete, dunque, con l’italiano orale ma anche scritto? Scrivete? Quando, come,
perché?

Da questo momento in poi la vostra identità linguistica è in discussione. E ricordate: “L’umanista è


colui il quale crede nel potere della mente umana di indagare se stessa” (Spitzer). Ma anche nella
possibilità del linguaggio di trasformare il mondo, all’interno e all’esterno di sé.

Passiamo adesso, sempre all’interno delle domande 4 e 5, che sono “gemellate”, come abbiamo
visto, ai saggi di Primo Levi.

Il primo saggio si intitola “Dello scrivere oscuro” ed è del 1976. È scritto in modo ironico, elegante
digressivo. È dunque più difficile, in Levi, ricostruire uno schema chiaro. Eppure lo schema
argomentativo c’è ed è molto solido. Va cercato con attenzione.

Levi ritiene che lo scrivere non possa essere conciliato col prescrivere, ovvero sia e debba essere
un atto libero; eppure sostiene che vi debba essere una regola di base, quella di “non scrivere in
modo oscuro” (676-677). Scrivere è infatti un “servizio pubblico”, si dovrebbe scrivere sempre con
intento comunicativo e per un lettore ideale che stia vicino a noi, metaforicamente, durante la
costruzione del discorso scritto (677-678). La scrittura è per lui dunque una responsabilità, mentre
la chiarezza argomentativa e linguistica sono gli unici strumenti per attraversare il caos e la
complessità del mondo (680-681).

Col secondo saggio di Levi, ironico raffinatissimo,“Tradurre ed essere tradotti”(della fine degli anni
’70) torniamo in pieno dibattito sulla traduzione (il saggio è per molti aspetti affine a quello di
Calvino, anche nella ripresa dei dilemmi storici della traduzione). Partendo dal paradosso di Babele
(730), Levi mostra le illusioni e le trappole della traduzione (731-733):

a) L’intreccio delle aree semantiche


b) I cosiddetti False Cognates (o falsi amici)
c) Le frasi idiomatiche
d) I termini locali e dialettali, difficilmente traducibili talvolta anche nella stessa lingua
nazionale di riferimento
e) Il residuo semantico inevitabile, nonostante l’opera sovrumana e la sensibilità linguistica
che ha anche il migliore traduttore

Eppure, spiega Levi nel finale, tradurre – “opera di civiltà e di pace” - è un atto interpretativo ed
ermeneutico appagante e completo, tanto quanto difficile e scivoloso. Esso genera una profonda
ridiscussione di sé e produce una sincera apertura intellettuale (734).

Confrontiamo adesso la riflessione di Calvino e Levi sulla traduzione con il manuale (1.2.3, pp. 35-
41; e in particolare – ma il manuale va letto, compreso e memorizzato tutto – la riflessione su
traduzione “straniante” e “naturalizzante”, a p. 38…).

Questa riflessione può essere utilmente integrata con quella di Umberto Eco il quale ha
sintetizzato alcuni dei temi centrali del dibattito sulla traduzione nelle sue “Riflessioni teorico-
pratiche sulla traduzione” (1993).

Per Eco ogni traduzione è una scommessa ermeneutica, che non tollera regole astratte e fisse. Ha
però la semiotica della fedeltà come metaregola della traduzione e dell’interpretazione in
generale. Ogni traduzione si muove, per Eco, tra due poli: Source e Target:Eco si schiera, in modo
equilibrato, per un approccio traduttivo transfer-oriented…

La riflessione di Eco si lega a una celebre distinzione tra livelli diversi di traduzione introdotta dal
linguista Roman Jakobson. La traduzione è intesa come atto di comunicazione tra culture diverse.

Jakobson infatti nel suo “Aspetti linguistici della traduzione” (1959) distingue tra:

1) Traduzione intralinguistica (parafrasi, riassunto…)

2) Traduzione interlinguistica (la traduzione propriamente detta)

3) Traduzione intersemiotica (le trasposizioni, tra un medium artistico e l’altro, tra letteratura e
arti visive, musica, etc…)

Jakobson a proposito della traduzione interlinguistica parla di «equivalenza nella differenza» e di


ricerca del «nucleo invariante» del testo originale.

Infine, dato che siete tutti traduttori-comparatisti, dopo una definizione (possibile) di traduzione
(vedi sopra), due citazioni che devono restare nel vostro bagaglio intellettuale:

“La forza di una lingua non sta nel respingere l’estraneo, ma nel divorarlo” (Goethe)

“Nella traduzione non bisogna impegnarsi in una lotta immediata con la lingua straniera. Si deve giungere
fino all’intraducibile e rispettarlo; poiché è qui che risiedono il valore e il carattere di ogni lingua (…) Nella
traduzione si deve giungere fino all’intraducibile; è allora soltanto che si prende coscienza della nazione
straniera e della lingua straniera” (Goethe)

Oggi il dibattito sulla traduzione ha assunto dimensione planetaria, come mostra la riflessione sull’arte
della traduzione di molti autori postcoloniali, come Ngugi Wa thiong’o o Edouard Glissant… Anticipiamo
una domanda: perché non insegnare traduzione nelle scuole? Lo si fa? Come? Riflettete sulla vostra
esperienza scolastica.

Bibliografia di base sui Translation Studies:

- M. Bettini, Vertere. Un’antropologia della traduzione nella cultura antica, Torino, Einaudi,
2012.
- A. Berman, La prova dell’estraneo, Macerata, Quodlibet, 1997
- U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano, Bompiani, 2009.
- S. Neergard (a cura di), Le teorie della traduzione nella storia, Milano, Bompiani, 1993.
- S. Neergard (a cura di), Teorie contemporanee della traduzione, Milano, Bompiani, 1995
- G. Steiner, Dopo Babele (1974), Milano, Garzanti, 2001.

Bibliografia di base sul tema dell’identità linguistica italiana:

- G.L. Beccaria, Il mare in un imbuto. Dove va la lingua italiana, Torino, Einaudi, 2010
- C. Marazzini, Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattito sull’italiano, Roma,
Carocci, 2000

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