Sei sulla pagina 1di 13

CAP 8 – CANONE E CANONI (scritto da Antonio Bibbò) – I.

IACCARINO

I classici e il canone

Il canone letterario può essere definito come la lista, il repertorio delle opere sulle quali si fonda una
tradizione letteraria. Una definizione così stringata spiega il dibattito sul canone iniziato negli Stati Uniti
d’America negli anni 60-70 del secolo scorso.

La parola “classico” individua fin dall’inizio quegli autori appartenenti ad una “classe superiore”, le cui
opere veicolano i valori sui quali si deve fondare la società. La sua origine è classista perché presuppone
una gerarchia dei poeti e pone l’accento sui migliori, sul “cittadino di classe superiore” (i classici). Ad una
classificazione sono stati sottoposti nella storia anche i generi e i sottogeneri letterari. Queste gerarchie,
che in parte risalgono alla Poetica di Aristotele, avevano diffuso l’idea di un legame tra argomento e forma:
all’epica, che è una forma “alta”, corrispondono argomenti alti ed eroici. Solo chi si confrontava con le
forme alte, come Virgilio, poteva entrare a far parte del canone. Chi, invece, come Marziale, si confrontava
con le forme basse come l’epigramma, non aveva speranze di farvi parte. Il canone classico, latino e greco,
è una testimonianza di questa stratificazione gerarchica. Stabilire quali sono i classici è un passo necessario
di autodefinizione di una comunità letteraria nazionale o una minoranza (sessuale, linguistica, politica).
Voltaire, che riporta in auge la parola ‘classico’, fu soddisfatto della creazione da parte dell’Académie
Francaise di un canone classico francese perché questo definiva il suo popolo e dava forma alla sua lingua. I
classici, i libri da leggere per una corretta formazione, sono fondamentali perché, attraverso lo studio del
passato, degli “antenati”, si forma la comunità di moderni. Il classico ha, infatti, un alto valore pedagogico.

Negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Irlanda l’idea di classico è legata al mondo greco e latino. In Italia non è
propriamente così. Ecco perché nel dibattito degli anni 60-70 si è cominciato a parlare di ‘canone’ e non più
di ‘classico’. Le due parole infatti non sono proprio uguali, anzi, canone veicola anche connotati politici. Il
sostantivo latino canon deriva dal greco antico e ha due significati principali:

 un’unità di misura (da qui la parola “canna”);


 una lista.

I due significati sono legati, infatti, la parola passò a definire non solo l’insieme delle regole da rispettare
per conseguire la bellezza o la perfezione (fisica o artistica) – ecco perché parliamo di “canone di bellezza” –
ma anche l’elenco dei testi ereditati da una comunità, organizzazione, collettività. Nel secondo caso il
canone seleziona libri legati da caratteristiche formali, linguistiche, morali. Un chiaro esempio è quello della
Bibbia che accetta in sé solo testi ortodossi, che ben si addicono alla dottrina cristiana. Quelli che non sono
accettati vengono chiamati “apocrifi”. Almeno fino alla prima metà del XX secolo il canone per eccellenza
era proprio quello dei testi sacri, il canone biblico, formato da quei testi che, nei primi concili (come il
Concilio di Nicea), erano stati ritenuti portatori del messaggio originale di Dio. Non si tratta di un canone
fisso e dato una volta per tutte, anzi, esso si è modificato nei secoli, ha una storia di selezione e di
esclusione così come il canone letterario. Nel canone sono importanti: l’inserimento dei libri (funzione in
entrata), l’esclusione (funzione in uscita) e la disposizione di questi al suo interno. McConnell parla del
canone come prodotto di una dialettica storica. Ma la parola ‘canone’, nonostante sia stata impiegata per
molto tempo in ambito religioso, non si è mai staccata del tutto dalla storia letteraria. Quando è stata
ripresa nel dibattito novecentesco, infatti, è stato fondamentale il contributo dei biblisti Frank Kermode,
Robert Alter e Harold Bloom.

In età ellenistica il canone indicava il “catalogo” di libri degni si essere studiati e tramandati. Il concetto di
canone ha fatto un giro completo: dai libri canonici dell’età ellenistica, al canone delle Sacre Scritture e
nuovamente ai libri degni di essere studiati nella storia letteraria. Nell’Ottocento e nel Novecento le opere
appartenenti ad un catalogo di autori canonici erano definite in modo diverso dai vari critici: Sainte-Beuve
parla di “classique”, Eliot di “tradition” e Arnold di “touch-stone” (‘pietra di paragone’, quasi una pietra
miliare). Sebbene le definizioni differenti, la caratteristica condivisa dai tre è quella del classico come opera
dall’alto valore morale, investito quasi da una missione civilizzatrice.

La letteratura, come sostiene il sociologo Bourdieu, negli anni 30, comincia a farsi carico di alcuni compiti
riservati alla religione e alla filosofia. Addirittura Arnold definisce la poesia, considerandola loro sostituta,
come l’unica forza capace di portare uguaglianza tra gli uomini. Richards, invece, definisce il critico
letterario come un medico che deve curare la società dal male assoluto di quest’ultima: il cattivo gusto. I
critici sono come legislatori ed il canone è stato definito come legge universale. In realtà il canone non può
essere né legge né perfetto né immutabili perché ci saranno sempre continui cambiamenti ed evoluzioni.

Eliot, invece, ha uno sguardo più moderno e lo dimostra anche nelle sue opere. Egli ispira New Criticism
perché in Tradition and the Individual Talent (1919) sosteneva una visione trans-storica del canone: le
grandi opere della tradizione sono sempre presenti nelle opere dei grandi autori del presente così come le
grandi opere del passato, i “monumenti”, rivivono e si modificano nelle riscritture, negli adattamenti, nell’
“opera veramente nuova” a cui danno origine. Quando Eliot scrive ciò ha sicuramente in mente un autore
davvero moderno che ha creato un’opera veramente nuova: Joyce di Ulisse che riscrive la tradizione
omerica, la modifica e le rende omaggio.

Kermode sostiene che ci sono due modi per leggere un classico: filologico e, dunque, immaginando il
canone come qualcosa di fisso e immutabile, e uno in cui l’opera viene ‘adattata’ alle nostre esigenze,
quindi, considerandolo come qualcosa che si rinnova pur rimanendo uguale.

Nel secondo dopoguerra le cose cambiano e si apre una nuova stagione di crisi del canone. Di crisi in realtà
ce ne sono state tantissime e continueranno ad esserci. Spesso esse servono a rafforzare lo stesso canone.

Canoni

Eliot dà la sua definizione di classico in What is a classic?, saggio letto davanti alla platea della Virgil Society
nel 1944 e pubblicato l’anno successivo. Per Eliot il classico è l’opera che esprime il momento di maggiore
maturità di una cultura. “Un classico può esistere sono quando una civiltà è matura, quando una lingua e
una letteratura sono mature; e esso deve essere un lavoro di una mente matura”. È una grande opera
quella “veramente nuova” che rileggeva la tradizione. Quelle di Shakespeare, per esempio, sono grandi
opere, ma non sono classici (come li vede Eliot) perché la società elisabettiana non era sufficientemente
matura.

La maturità di un classico è la sua caratteristica fondamentale, ma Eliot riesce a spiegarla solo facendo
ricorso alla capacità di una “persona matura e colta” di riconoscere tale qualità. Ma qual è la persona
“matura e colta” alla quale affidiamo la scelta dei nostri classici? È il lettore, il critico, che deve riconoscerne
le qualità. Si pone attenzione alla ricezione, al modo in cui un lettore recepisce l’opera. Quest’attenzione è
stata introdotta dalla “scuola della ricezione” di Jauss. Per giudicare il fatto letterario era importante
concentrarsi non solo sulla produzione, come faceva in Germania la scuola filologica, ma anche su aspetti
legati alla ricezione, alla comunicazione e al suo riverbero nel tempo.

La storia della letteratura si basa sul dialogo tra autore e lettore. Ecco perché è importante considerare le
istituzioni che trasmettono le opere: università, accademie, scuole. Cruciale è la nozione di orizzonte
d’attesa: insieme di convenzioni che fanno parte dell’esperienza condivisa di lettori e produttori delle
opere letterarie che si articola su tre elementi: l’esperienza che il pubblico ha del genere letterario in cui si
inserisce l’opera; l’opposizione tra linguaggio poetico e linguaggio pratico; le forme e i temi recuperati
dall’opera in questione.
La centralità del concetto di genere letterario nello studio del canone letterario è ribadita con forza da Jauss
e soprattutto da Fowler. Lo studio di Fowler è tuto interno alla letteratura alta, ma può comunque essere
utile per una definizione di canone. Secondo lui il canone, in accezione molto più ampia del catalogo di libri
canonici (migliori e dall’alto valore morale stabiliti dall’accademia o da istituzioni interne al campo
letterario: critica, mercato editoriale, lettori), è l’insieme del corpus letterario. Egli studia questo corpus
attraverso la fortuna o la crisi dei generi letterari: ogni epoca vive momenti di svalutazione o di
rivalutazione dei generi. Per esempio oggi un genere in declino è l’epica il cui eroe rivive nell’anti-eroe del
romanzo. Il canone, quindi, è qualcosa di non universale, oscillante, che si modifica in base alla fortuna
oscillante dei generi.

La storia stessa del canone ci insegna che alcuni generi prima esclusi dall’ambito letterario, come la
diaristica o lo stesso romanzo, siano poi diventati parte integrante del canone, mentre altri, come la
speculazione filosofia e il saggio storico, rientrino sempre meno nel canone della letteratura (piuttosto,
specializzandosi, in quello filosofico o storico).

Che cos’è la letteratura?

Nel celebre dizionario di Johnson (1775), la parola literature ha il significato ristretto di ‘apprendimento’
(learning) e ‘competenze letterarie’ (skills in letters). Accanto a questo significato limitante c’è quello più
ampio e molto generico dato da Tiraboschi nella Storia della letteratura italiana: egli si riferisce all’Italia
come entità geografica, non nazionale, inserisce anche opere scritte in lingue diverse dall’italiano e fa
riferimento a saperi extraletterari (filosofia, diritto, politica). È dal Romanticismo in poi che la parola
letteratura si restringe e si specializza. Bordieu indica il 1830 come la data in cui la letteratura si specializza
e diventa indipendente dal campo economico. Questo implicava una divisione all’interno dello stesso
campo letterario tra letteratura alta e letteratura bassa. Ma negli anni 60-70 comincia a venir meno la
divisione degli stili e dei generi. C’è un rinnovato interesse, grazie ai cultural studies, per ambiti spesso
ritenuti bassi e di minore importanza o esclusi per ragioni pratiche come la difficoltà di conservazione
dovuta all’oralità.

Terry Eagleton, in Literary Theory (1983), sostiene che il canone non è solo definito dall’estetica, dal gusto
per il bello, dalla qualità dell’opera, ma anche da ragioni extraletterarie di carattere politico. Egli crede che
il canone non sia altro che un modo per imporre determinati valori della classe dominante formata
soprattutto da uomini bianchi. È necessario, quindi, smascherare gli abusi di potere alla base della
formazione del canone stesso. Quest’idea ha avuto molto successo nel ‘900 tanto che Kermode parla di
“decanonizzazione”.

Proprio l’imposizione di classici scelti da autorità politiche o dai ‘potenti’ ha scatenato la rivolta di Stanford
del 1987: gli studenti protestarono per la presenza di un’unica lista di testi classici obbligatoria per tutti. La
rivolta portò alla moltiplicazione delle liste di lettura (ben 8) tanto che vennero inserite anche opere
rappresentative di minoranza fino ad allora senza voce. È interessante considerare il valore sociale e
politico del canone che può aiutare a legittimare, se non sul piano sociale, sul piano letterario, minoranze e
subalterni. Negli anni 60-70 nascono dei veri e propri canoni alternativi, anticanoni, che si proponevano il
compito di far sentire la voce degli esclusi ed emarginati. Un esempio è il canone delle scrittrici donne che
nasce dall’idea di una tradizione letteraria femminile nata in opposizione ad una cultura patriarcale e
maschilista. Da qui si evince quanto il valore della letteratura sia estetico, ma anche ideologico (portatrice
di idee e valori). L’opera non viene più concepita come qualcosa capace di veicolare un valore universale,
ma di dare voce a tutti: da questo processo democratico nascono gli anticanoni. Si dà voce agli immigrati,
alle ballate popolari, agli scrittori afroamericani, indiani, cinesi e polacchi, si mette in discussione
l’importanza del canone occidentale. Il rischio è quello di un relativismo estremo. Si garantisce inoltre
rappresentanza a chi non ne ha con la letteratura gay, femminista, proletaria, ecc. Si fa un passo avanti
verso il multiculturalismo.
Ma c’è anche chi si scaglia contro questa decanonizzazione. Harold Bloom difende il canone occidentale e si
scaglia contro questa prospettiva multiculturalista che sembra annullare il valore estetico del canone.
Kermode, meno conservatore di Bloom, esprime preoccupazioni simili seppur in toni smorzati e denuncia
un distacco dal ‘piacere estetico’. Egli adotta una posizione intermedia. In Pleasure and Change: the
aesthetics of canon vede il canone come qualcosa per natura mutevole, destinato a collidere con il potere e
a cambiare a seconda del gusto e del caso. Kermode ribadisce che c’è una differenza palpabile tra grandi
testi e spazzatura e adduce il problema del gusto e del valore da un aspetto inevitabile: la limitatezza del
tempo e della memoria e la conseguente necessità di selezionare creando gerarchie perché non si può
salvare tutto. Barbara Hernstein Smith e Northrop Frye pongono l’accento sul piacere che nasce dalla
lettura dell’opera, sul giudizio di valore, sul gusto. Kermode parla anche di una conciliazione tra il docere
(l’insegnamento dei libri canonici derivante dal loro aspetto ideologico, culturale, quasi politico) ed il
delectare (il diletto dovuto al gusto e al piacere della lettura).

Le storie letterarie e il canone

Stabilire un canone significa selezionare ciò che è importante ricordare nel corso dei secoli. La selezione
non può essere casuale, ma deve dar vita ad una creazione coerente, che ordina in una gerarchia
condivisibile il materiale a disposizione. Questo è anche il compito delle storie letterarie.

Il Romanticismo è l’epoca delle storie letterarie. Esistevano anche prima, ma è in questo periodo e con la
formazione degli Stati-nazione, che la storia letteraria di un popolo diventa la sua autobiografia. La storia
letteraria definisce un popolo, il suo costituirsi, la lingua, la mentalità. Il canone nazionale, quello appunto
di ogni nazione, non solo diffonde la mentalità e la cultura di un popolo, ma ne tramanda anche la
tradizione, il suo passato. Per formare l’essenza di una nazione non bastano solo le storie letterarie e così si
è provveduto a fissare feste per celebrare anniversari della nascita e della morte degli autori, si sono istituiti
premi letterari e si sono dati nomi di autori famosi alle strade. Che la toponomastica (nome dei luoghi)
corrisponda ad un principi o nazionalistico è riscontrabile nel fatto che in Italia ci sono ben sedici vie
dedicate ad Arrigo Boito e solo sei a Shakespeare.

Analizziamo alcune storie letterarie:

 Irlandese: la formazione del canone irlandese, a cavallo tra ‘800 e ‘900, risulta un’operazione
eminentemente politica. Viene effettuata attraverso il recupero di una tradizione folklorica
dimenticata che si unisce a quella della letteratura in lingua irlandese. Gli autori irlandesi, spesso
associati al canone britannico più influente, rivendicavano la loro autonomia. Ecco perché Swift,
autore irlandese che scriveva in lingua inglese, viene rivendicato dal canone irlandese;
 Americana: anche in questo caso la formazione del canone è politica ed è successive alla Guerra di
secessione che porta alla separazione dall’Inghilterra. Nonostante ciò il canone americano è sempre
stato associato a quello inglese almeno fino al ‘900 nonostante i testi americani fossero ricchi di
idee nazionalistiche e patriottiche.
 Inglese: la formazione di un canone inglese risale al 700, ma è solo nell’800 che si comincia a
studiarlo nelle università di Edimburgo e Glasgow e più tardi ad Oxford e Cambridge.
 Italiana: interessante il caso italiano che vede l’unità nazionale derivante dall’unità letteraria. È la
condivisione della stessa letteratura e degli stessi modelli che favorisce l’unità politica. Francesco
De Sanctis, infatti, in Storia della letteratura italiana (1870) descrive la storia letteraria come un
cammino dello “spirito” italiano verso la costituzione dello Stato, è un vero e proprio romanzo di
formazione. Non è un caso che egli riprenda i padri (Dante, Petrarca, Boccaccio), nei quali si
individuano i caratteri utili alla costruzione della nazione italiana: la letteratura e la lingua. Dante,
come Shakespeare, è stato recuperate durante il Romanticismo dopo un period di oblio ed è
divenuto modello sul quale fondare il canone nazionale.

Fare la storia letteraria di una nazione è un’operazione che richiede esclusioni ed inclusioni all’interno del
canone di opere e di autori. Un caso particolare è quello di Casanova che scrive in francese (lingua franca
dell’Europa colta del ‘700) la Storia della mia vita, che viene esclusa sia dal canone francese che italiano
perché in bilico tra i due. Un problema simile è quello di Svevo, a cavallo tra la cultura italiana e quella
mitteleuropea. Inoltre non tutta la produzione di un autore entra nel canone. Tasso, per esempio, è nel
canone della letteratura italiana, ma di lui accettiamo e consideriamo canonica non la Gerusalemme
conquistata bensì la Gerusalemme Liberata. Quindi è importante capire quali aspetti della produzione di un
autore entrino nel canone.

Canone, censura, traduzione

Even-Zohar spiega il canone letterario con la teoria dei polisistemi (cfr. cap. 5) immaginando che il
cambiamento del gusto letterario sia spiegabile con l’alternanza di generi e modi diversi al centro e alla
periferia del sistema letterario. Quando un genere è centrale nel sistema letterario significa che è
predominante e di moda, quando è alla periferia significa che è marginale e poco utilizzato. Quando un
elemento del sistema diventa centrale (tipo il romanzo nel XVIII secolo), esso prende il posto di ciò che
prima occupava il centro e lo relega al margine, nella periferia. Alla base di questa teoria c’è, dunque, una
dinamica continua tra centro e periferia e tra canonicità e non-canonicità. Quindi non è l’opera in sé ad
essere canonica, ma di volta in volta è importante stabilire quali forme, generi, opere, modo siano
esemplari. Sono soprattutto gli elementi esterni al testo letterario (istituzioni, dinamiche politiche, sociali e
culturali) che lo canonizzano oppure no.

Fondamentali per il canone sono le traduzioni: importando e traducendo opere straniere è possibile
accrescere il valore e la canonicità dell’opera in questione e modificare il proprio sistema letterario interno.
La storia della letteratura è ricca di casi in cui una traduzione ha influenzato un’intera generazione di autori.
Per esempio, le traduzioni di Foscolo di alcune opere di Sterne sono fondamentali per noi e sono decisive
per la nascita del romanzo umoristico. La riscrittura di opere letterarie classiche può portare a una
riconferma dell’opera canonica, attraverso l’omaggio, ma anche a una sua ridiscussione attraverso la
parodia e la critica. Ciò che è indiscutibile è la continua attualizzazione dei classici, che sono tali proprio
perché risultano attuali in ogni epoca. Un esempio è il romanzo Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen che
viene riattualizzato secondo il gusto per l’horror dello young adult novel in Orgoglio e Pregiudizio Zombies.
La funzione della traduzione in questo caso è conservatrice perché contribuisce a confermare la supremazia
delle opere canoniche.

Sicuramente interessante è vedere che cosa accadeva durante il fascismo italiano. È vero che si parla di
censura dei testi, ma è anche verso che il governo italiano, almeno fino agli anni Trenta, non prese
provvedimenti contro le traduzioni, anzi, l’Italia tradusse come nessun atro Stato europeo. Solo nel 1934 ci
fu una censura preventiva, che impediva dunque le traduzioni, ma in precedenza c’era stata una censura a
posteriori, successiva alla pubblicazione, quindi, al massimo gli autori si autocensuravano, ma non venivano
censurati. Alcuni autori avevano una certa fortuna in Italia, è il caso di Swift o Wilde, ma loro dimensione
satirica o socialista era stata del tutto oscurata. La censura è un esempio di come il canone possa essere
modificato da elementi extra-letterari. Il canone non censura solo opere già scritte, ma detta anche le
regole per le opere ancora da scrivere, definendone i temi, le forme, i generi, le tecniche da impiegare (è
quello che Luperini chiama il canone a parte obiecti). Quando il libro viene accettato nel canone inteso
come repertorio, Luperini parla di a parte subiecti.
Il canone determina anche quali generi sopravvivono e quali scompaiono. Un esempio di genere scomparso
è quello del romanzo collettivo italiano: un sottogenere che avrebbe dovuto essere “il racconto dei fatti
collettivi”. Era nato negli USA ed era poi stato importato in Italia con insuccesso. Fu ritenuto da Bompiani
come il romanzo d’elezione del regime fascista perché mediava tra l’individualismo (forte attenzione al
soggetto) e l’impersonalità. Dunque la censura di un canone, anche quando non è dovuta ad un regime
totalitario, è continua perché anche nei regimi democratici alcuni generi e temi sono censurati dal canone e
spariscono. Il campo letterario viene sempre in qualche modo regolato o amministrato.

Tutte queste problematiche e caratteristiche elencate in relazione al canone interessano anche la


formazione di un canone per la letteratura comparata che si muove in un campo (quello della weltliteratur)
molto più ampio rispetto a quello nazionale. Proprio per questo motivo è ancora più difficile l’operazione di
esclusione e di inclusione delle opere.

CAP 9 – LA DIMENSIONE CULTURALE DEI TESTI (di Giulio Iacoli)

Le idee di cultura: le fondamenta degli studi umanistici

Gli ultimi studi della critica sono volti ad indagare il legame tra il testo e l’extratesto, ovvero, una terza
dimensione che si interroga sul significato culturale dell’opera letteraria, sulla cultura dell’autore, sugli
elementi della sua formazione come uomo e come artista, sui valori personali e quelli della società a cui
appartiene o alla quale l’opera si riferisce.

È necessario prima di studiare questa terza dimensione capire che cosa si intende effettivamente per
“cultura”. Questo termine è sottoposto a modificazioni e a reinterpretazioni da epoca ad epoca e da luogo
a luogo. Terry Eagleton, in un suo libro dedicato all’idea di cultura, dice che questa parola è tra le più
complesse della lingua inglese dopo “natura”. “Natura” e “cultura” sono da sempre stati legati soprattutto
se si pensa al significato originario di “cultura”: dal lat. colere = coltivare. È un concetto che coinvolge idee
di crescita e sviluppo, coltivazione, conservazione e salvaguardia delle messi, o di allevamento e di
nutrizione degli animali.

Williams, uno dei padri di cultural studies di marca inglese, nel suo vocabolario Keywords (1976), ha
reinterpretato la parola “cultura” in senso metaforico e ne ha fornito il significato di “coltivazione attiva
della mente”. Attraverso una ricerca comparativa (tra inglese, francese e tedesco), Williams ha sintetizzato
tre macrocategorie di significato:

a. Umanistica (dal XVIII secolo): un ampio processo di sviluppo intellettuale, spirituale ed estetico.
Riguarda una condizione personale di sviluppo intellettuale, indica “una persona di cultura,
istruita”. È una concezione elitaria;
b. Antropologica o sociologica (XIX secolo): il particolare modo di vivere proprio di una popolazione,
di un periodo storico o di un gruppo. È il complesso di valori, costumi, credenze e pratiche che
costituiscono il modo di vivere di un gruppo specifico. È una concezione forse troppo generale;
c. Semiotica (tra XIX e XX secolo): le opere e le pratiche dell’attività intellettuale, e in modo
particolare di quella artistica. Cultura è ciò che ha un senso per qualcuno, qualunque cosa sia
questo senso e qualunque oggetto possa di volta in volta veicolarlo. In realtà si pone l’accento non
sua una specifica cultura, ma su una pluralità di culture.

Cammini (in parte) coincidenti: l’avvento del postmoderno

Il concetto di cultura comincia ad essere modificato soprattutto quando emergono altre espressioni
artistiche, come la pop art, che fanno spostare l’attenzione su quelle espressioni artistiche considerate
minoritarie e relegate nei settori di: intrattenimento popolare, fenomeni di costume, fumetto, televisione,
moda. Oltre la pop art si teorizza un’espressione “vernacolare” dell’architettura americana: modi di abitare
e decorare il territorio, simboleggiati dal particolare rapporto tra infrastruttura autostradale, illuminazione
al neon e stili architettonici. Un caso esemplare è Las Vegas.

E poi, sempre più diffuso nella cultura di massa del secondo Ottocento, il camp: è un gusto che si lega a
elementi di teatralità, gioco, travestimento, gusto ampolloso e puramente decorativo, smisurato,
provocatorio. Secondo Susan Sontag si lega alle arti omosessuali.

Tutti questi nuovi elementi e categorie estetiche hanno in comune la sovversione degli stili che annulla la
differenza tra alto e basso. Si può parlare di politiche culturali “democratiche” tipiche dei cultural studies.
Le nuove espressioni artistiche derivano da una nuova condizione storia, esistenziale e culturale
(soprattutto a seguito del ’68) che chiamiamo “post-moderno”.

Alcune caratteristiche tipiche delle espressioni artistiche di questo periodo:

 La componente ludica: la riproposizione creative delle forme del passato proiettate sul presente;
 La combinazione libera e spesso irriverente tra l’originale e le sue riscritture;
 La commistione tra alto e basso, la riscoperta di generi artistici popolari rivalutati e affiancati a
quelli della cultura alta.

Perimetrare gli studi culturali

Con il post-moderno abbiamo nuovi orientamenti critici, ovvero, gli “studi culturali” (cultural studies). La
loro origine si fa risalire al contesto britannico del secondo dopoguerra, e in particolare datare al 1964,
anno di fondazione del Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) all’Università di Birmingham e
esordio di un progetto di ricerca condotto da due anglisti: Hoggart e Williams. Il primo si interessa della
cultura del lavoro nell’Inghilterra fra le due guerre, il secondo dell’esplorazione della cultura inglese, intesa
come modo di vivere, dalla rivoluzione industriale in avanti. Tali indagini, che indagavano dunque il modo di
vivere e la società, rompevano con la nozione elitaria della cultura come arte e anteponevano all’attenzione
per la singola opera d’arte, espressione individuale di valori universali, il fenomeno culturale. In questo
modo l’oggetto d’analisi, l’opera d’arte, veniva riconnesso alla società, alla cultura, alla mentalità di cui era
espressione e in cui era stata concepita. Questa svolta che pone la cultura al centro del dibattito è stata
definita “cultural turn”.

In una seconda fase, i cultural studies ricevono nuovi stimoli provenienti dal marxismo e dallo
strutturalismo, dagli studi di psicanalisi e semiotica. Essi portano ad un approfondimento della dimensione
politica e interdisciplinare.

Negli anni ’70, grazie al CCCS, si diffonde un’attenzione alle problematiche della razza e del gender, verso i
mass media, verso le minoranze, (etniche, sessuali, religiose). C’è anche una revisione del sistema del
sapere euroamericano. Si assiste, inoltre, ad una proliferazione di studi, di ambiti di ricerca che uniscono
diversi approcci e ambiti di indagine. Tra i più interessanti:

 I subaltern studies: nati in India, colonia Britannica, a partire dagli anni Ottanta. La loro origine è
data dalla necessità di riformulare il racconto della storia del paese, che si era fatta portavoce degli
interessi dei colonizzatori britannici. Ora, invece, gli indiani cercano di far sentire la loro voce da
subalterni, troppo spesso calpestata dai colonizzatori;
 I border studies: sono rivolti a interrogare l’idea di confine (border) e la sua importanza in termini
geopolitici, storici, artistici. Un’artista chicana, Gloria Anzaldùa, nel libro La frontiera (Borderlands),
si è soffermata sul concetto di patria e di mestizia (razza mista). Lei, infatti, è una donna che vive
nel mezzo, tra il Sud del Texas e il Messico, ma è anche legata alle origini indie e azteche. Da lei la
frontiera è sentita come “herida abierta”, ferita aperta. L’autrice si interessa anche delle diverse
forme di oppressione razziale e sessuale (l’autrice, lesbica, spiega di essere stata ripudiata dalla sua
cultura).
 La geocritica: è un nuovo campo di studi, alternativo rispetto alle tradizionali indagini della
geografia letteraria, intente a soffermarsi sul valore di alcuni luoghi in un’opera oppure sul
significato che essi hanno avuto nella vita e nella poetica di un autore. La geocritica, nata in Francia
sul finire degli anni Novanta inaugurata dal critico Westphal, studia e compara le rappresentazioni
di un determinato luogo fatte da diversi autori (letterati, ma anche pittori, fotografi, registi, ecc.).
Anche la geocritica si avvale di quella interdisciplinarietà utile alle letterature comparate. Proprio
perché si muovono tra più campi disciplinari e non hanno una loro specificità, gli studi culturali
sono definiti da Johnson come “antidisciplina” perché, inserendosi di soppiatto in saperi già
consolidati, li rivoltano, li scompaginano e li contraddicono.

Studi culturali, studi letterari

Tale ventata di innovazione ha investito il campo dello studio letterario provocando reazioni vivaci, ma
anche atteggiamenti di strenua difesa del canone euro-nordamericano e di chiusura. A Stanford, accanto ai
classici greci e latini, si cominciano a leggere opere delle tradizioni afroamericane e latinoamericane, delle
letterature postcoloniali. In altre città, invece, si levano le proteste contro coloro che minano al patrimonio
storico della letteratura sinora trasmesso dalle università. L’accusa è quella di un impoverimento
dell’educazione letteraria. un testo chiave di tale posizione critica, Il canone occidentale. I libri e le scuole
delle età di Harold Bloom, si rivolge polemicamente agli studiosi della cultura materiale, ai portavoce delle
istanze nere, femministe, gay, lesbiche e alle altre voci subalterne, unificando le loro posizioni nella
denominazione di “scuola del Risentimento”. Con questa espressione adduce la loro entrata nel canone
letterario ad una motivazione politica (la valorizzazione del subalterno) e ad una sorta di spirito vendicativo:
coloro che non hanno avuto voce in ambito sociale e politico, pretendono ora di averne nel campo
letterario. La prospettiva di Bloom è palesemente anglocentrica. Molti contrari agli studi culturali hanno
fatto leva sull’idea di perfezione del canone letterario di alcune fasi della civiltà occidentale. Tale canone
risulterebbe, pertanto, immutabile se non per pochissime revisioni.

La stessa letteratura comparata è percorsa al suo interno da tensioni e contrapposizioni. Spivak,


rappresentante di spicco della critica post-coloniale, ha parlato in un pamphlet di “morte della
comparatistica” a meno che questa non si realizzi adottando una prospettiva “planetaria”. La storia della
comparatistica è tutt’altro che immune da condizionamenti eurocentrici. Il progetto di Spivak però propone
sia uno sguardo mondiale che un rispetto per le specificità delle singole culture. Guillén nel prologo de’
L’uno e il molteplice parla degli studi culturali come una “febbre” che ha colpito gli Stati Uniti e che si è
trasformata in crisi. Tuttavia la letteratura comparata incontra un favore crescente. Chi ha ragione? Spivak
che parla di morte della comparatistica oppure Guillén che la difende?

Un’altra posizione è quella di Jonathan Culler che ha posto in rilievo la differenza qualitativa nei metodi e
nelle finalità di due approcci:

 studi culturali: a questi spetta il compito di “analisi sintomatica”, ovvero, gli tocca intervenire su
testi spesso dal valore letterario meno lampante, minimo, e darne una valutazione meno
approfondita da un punto di vista letterario. Gli studi culturali indagano quel “di più” che c’è nel
testo, vanno oltre l’estetica e si interrogano sulle questioni politiche, sociali e culturali che in esso si
possono rinvenire.
 studi letterari: a questi spetta l’ “interpretazione valutativa”, ovvero, una lettura particolareggiata
e accurata dei testi attenta all’estetica e alle dinamiche di produzione di un testo.

Questa suddivisione in realtà appare troppo schematica perché, specialmente negli ultimi anni, la
prospettiva culturalista (degli studi culturali) si è integrata a quella letteraria (studi letterari). Inoltre il
materiale su cui questi due approcci lavorano può essere lo stesso. Un esempio è Hard Times di Dickens che
è considerata opera dal grande valore estetico, ma viene anche letta da Nussbaum, con una prospettiva
culturalista, alla luce delle teorie economiche classiche e contemporanee che caratterizzano il personaggio
di Gradgrind. Egli ha grande fiducia nella politica economica che tenta di applicare, ottusamente, all’essere
umano così come agli oggetti inanimati.

Sicuramente l’interpretazione culturalista, mettendo in relazione testo e cultura/società, ha la capacità di


presentarci i testi da una prospettiva nuova e farcene cogliere aspetti dapprima inesplorati.

Ipotesi di lettura

La cultural turn ha portato alla riscoperta, rilettura e reinterpretazione culturale di alcuni testi nodali. I
nuovi studi hanno influenzato le pratiche di lettura dell’antico, dei classici greci e latini e questo è dovuto al
cambiamento nei modi di vedere e sentire accanto a noi la classicità. Fondamentali in questo senso sono gli
studi sulla ricezione (reception studies), termine che sostituisce “fortuna” e “tradizione”. La sostituzione
indica chiaramente la prospettiva dei reception studies che introduce una particolare attenzione ai processi
di appropriazione e di rimodellamento delle caratteristiche del classico all’interno di una nuova società.
Alcuni studiosi criticano l’idea di ricezione in quanto suggerirebbe una certa passività, un passaggio che va
solo dai classici a noi. Ma oggi si parla di ricezione come qualcosa che ha un ruolo attivo perché i classici
possono essere riscritti e fatti interagire con una nuova realtà, con un nuovo orizzonte culturale, proiettati
sul presente. Viceversa è possibile intuire i segni del nostro presente nei testi dell’antichità. Il passaggio non
è più solo dai classici a noi, ma anche da noi ai classici. La teoria della ricezione è legata agli studiosi della
“scuola di Costanza”, come Iser e Jauss, che tra i primi formulano l’idea del ruolo cooperativo del lettore nel
dare forma all’interpretazione testuale.

Il testo antico è recepito, oltre che con le attualizzazioni, anche con le letture “controllate”, ovvero quelle
scolastiche. I classici sono oggetti di studio: si parla dell’allusione all’antico nella letteratura italiana da
Petrarca a Pascoli, si colgono le forme dell’antico (epica) nel romanzo e quelle dell’epica nel genere
cavalleresco, si studiano le forme del teatro greco e latino riflesse nel teatro moderno, ecc.

Un esempio che ci aiuta a capire come un classico si può modificare nel presente è il “caso Medea”. Il
dramma di Euripide racconta la vicenda che vede protagonista Medea, donna di cui si è innamorato
Giasone, da lui portata in Grecia a seguito della conquista del Vello d’oro. Medea, sedotta, tradita e
abbandonata, uccide i suoi due figli per vendetta. La vicenda è tra le più rappresentate a teatro ma, rispetto
ad altre tragedie, ha goduto di minore centralità nella teorizzazione critica e nell’analisi psicanalitica dei
testi teatrali antichi (si parla spesso di complesso di Edipo e di Elettra, ma mai di “complesso di Medea”).

Fusillo fornisce i motivi per cui gli studiosi sono stati spinti a confrontarsi con il mito di Medea:

1. il carattere soprannaturale del personaggio (Medea demonica);


2. il conflitto tra civiltà occidentale e civiltà orientale (Medea barbara);
3. la violenza del sentiment amoroso (Medea inamorata).

Al secondo motivo, quello di una Medea barbara, straniera, si è rifatta la maggioranza delle riscritture
recenti del mito. Medea è una straniera in Grecia, è una donna isolata, emarginata. Non è un caso che nel
corso della storia ci siano state Medee nere, asiatiche, africane, latinoamericane, tutte vittime di sentimenti
xenofobi. L’interpretazione di Corrado Alvaro, in Lunga notte di Medea, vede la donna come una profuga,
moglie rimasta da sola all’interno di case bombardate (la vicenda è ambientata nel 1949, quindi durante la
guerra).

In Cara Medea (2004) di Antonio Tarantino, il mito di Medea viene smitizzato, c’è una rivisitazione
parodica. Questa volta Medea proviene dall’Est, liberata dall’Armata Rossa, torna a casa a piedi dal campo
di sterminio e si ricongiunge al suo Giasone, un buono a nulla, invecchiato, che l’ha tradita con una
“befana”.

È molto interessante anche la Medea. Stimmen di Christa Wolf (1996), romanzo in cui è presente il
tentativo novecentesco di riabilitare Medea, di giustificare la sua follia omicida con l’odio xenofobo da lei
subito. L’autrice dà prove al lettore dell’innocenza di Medea, spiegata con il maschilismo dominante,
incarnato dal re Creonte e dall’astronomo di corte Acamante, nemico della protagonista. C’è in questa
riscrittura un’appassionata difesa del personaggio tragico in cui è possibile trovare anche echi
autobiografici: Medea incarna l’intellettuale dell’Est (Christa Wolf) emarginata per le sue idee comuniste.

Anime del popolo nero di Du Bois (1903) è un testo di innegabile importanza. Du Bois compie un’analisi
delle condizioni delle scuole rurali e della povertà sulla base di un’altra corrente di studi nata tra gli anni 60-
70: i black studies. Sono incentrati sul problema dell’identità e della disparità etnica, sulla “razza” e sulla
promozione della cultura afroamericana, portata avanti soprattutto dai protagonisti del Rinascimento di
Harlem. È una rivoluzione culturale che esplode nel quartiere nero di New York e ha per motore il jazz.

Un accenno particolare va fatto ai gender studies, studi sul genere, dai quali si sviluppa anche la teoria
“queer”. Il termine indica un sapere aperto, provocatorio, produttivo; è un concetto complesso e in
costante redifinizione. Indica ciò che è “strano”, “obliquo”, “deviante”, “incomprensibile”. Queer viene
adottato dalla comunità intellettuale LGBT (Lesbica, Gay, Bisessuale, Transessuale) con accezione positiva,
in precedenza aveva anche avuto anche un chiaro valore omofobico e spregiativo. Il queer è sempre in
costante evoluzione tanto che ora si potrebbe quasi parlare di un post-queer.

Due sono state le linee di ricerca dei queer studies:

 da un lato ci si è occupati di leggere opere legate alla rappresentazione dell’amore omosessuale,


riscoprendo autori “laterali”, non normativi;
 dall’altro si sono condotte letture trasgressive di classici della letteratura occidentale.

Un caso interessante è quello di Dante letto come “Dante queer”. Nell’opera dantesca, infatti, è possibile
ritrovare riferimenti alla sodomia (sodomita era Brunetto Latini, maestro di Dante, che si trova nel canto XV
dell’Inferno). Nella Firenze del 2-300 la sodomia era particolarmente diffusa, inoltre, Dante non dà un
giudizio completamente negativo del peccato di Brunetto. Sicuramente Dante è combattuto tra l’accusa e
l’affetto che prova per il maestro tanto da non nominare la colpa. Il rapporto pedagogico di maestro-
discepolo che lega Dante e Brunetto viene letto in modo queerizzante come rapporto che va oltre la
formazione culturale, quasi come un apprendistato erotico (sicuramente c’è un richiamo alla pederastia
greca). La lettura queer ha evidenziato altre falle nell’eterosessualità di Dante in quanto Beatrice appare
nell’opera come figura idealizzata, ma non come figura erotica, mentre appaiono nella Commedia immagini
di “pulsioni omoerotiche”. Non è un caso forse che Gemma Donati, moglie di Dante, sia assente dalla sua
poesia.

I queer studies in ogni caso indagano gli affetti e le passioni di chi scrive, siano esse omosessuali o
eterosessuali. C’è quel che Williams chiama “struttura del sentimento” (structure of feeling).

CAP 10 – LE TEORIE E I METODI (di Ugo M. Olivieri)

Una ridefinizione di metodi e di oggetti

È chiaro che oggi la teoria della letteratura è una disciplina “in crisi”, anche se è possibile intendere con il
termine “crisi” sia l’arretramento, la difficoltà, lo stato di permanente instabilità sia la revisione di concetti
e di abitudini che può preludere ad innovazioni e a miglioramenti. Il venir meno delle certezze può essere
proficuo, può portare a nuova certezza. Sarebbe comunque impossibile immaginare una letteratura senza
teoria tanto più che, a partire dal Romanticismo, una delle caratteristiche della letteratura nella modernità
è proprio la stretta relazione tra testo e riflessione metateorica sui testi stessi. Più che parlare di teoria della
letteratura bisognerebbe parlare di “teorie”, differenti nei presupposti scientifici e metodologici. Non solo è
in crisi la teoria, ma anche l’oggetto testuale: si è modificato nella modernità proprio il campo letterario e
l’oggetto al suo interno, il testo.

La mappatura della teoria

Non esiste oggi, a differenza dei primi anni ’60, una teoria critica che coincida con un’area culturale e
linguistica omogenea, con una “scuola”. È possibile identificare come anno del cambiamento (annus
mirabilis) il 1966: è l’anno di pubblicazione di numerosi testi centrali ed è anche il periodo in cui si
cominciano a teorizzare formalismo russo e linguistica generale di Saussure, fondamentali per lo sviluppo
dello strutturalismo.

Da un lato, quindi, abbiamo la grande tradizione del comparatismo europeo che diviene in Saussure
metodo d'analisi della forma più alta e complessa di categorizzazione della realtà: il linguaggio;
dall'altro abbiamo una contiguità, dal formalismo in poi, con le sperimentazioni e i testi delle
avanguardie della modernità. Un metodo innovativo la cui ambizione di comprendere l'intera
società umana è evidente nei lavori di Levi-Strauss, dove l'antropologia è contaminata dal paradigma
linguistico-semiologico di Saussure.

Non a caso, negli anni Sessanta, Levi-Strauss insieme a Roman Jakobson, produce un'analisi di un
sonetto di Charles Baudelaire, Les chats, che rimane uno dei testi di riferimento per un'analisi
formalizzata della poesia. È un'analisi molto significativa poiché sarà il modello per una lunga serie di
applicazioni dello strutturalismo all'analisi della poesia.
Due sono i principi metodologici che guidano l'analisi: l'idea che un uso delle funzioni espressive e foniche
del significante consenta la realizzazione sul piano del significato di una serie di equivalenze e di
letture simboliche; dall'altro, una correlazione tra i vari piani dell'analisi (piano fonico, piano metrico,
piano retorico) sino a trasformare l'approccio descrittivo in una volontà interpretativa innovativa.

Ancora sentieri e mappe

La traduzione in francese di Todorov dell’antologia dei formalisti russi si inserì in un momento di particolare
effervescenza della critica francese. La pubblicazione tra il 1965 e il 1966 di Critique et vérité di Barthes e
Les mots et les choses di Foucault aveva segnato l’affermazione della nouvelle critique (la nuova critica)
d’impostazione formale contro la vecchia critica accademica contenutistica ed erudita. A questo periodo
appartengono anche gli studi di narratologia di Genette (Figure I, II, III).

Due nomi determinati per la storia dello strutturalismo sono Barthes e Foucault. Lo strutturalismo francese
arriva a teorizzare un processo senza soggetto, addirittura si parla di morte dell’autore nel testo. Questo
porta ad una valorizzazione non più delle strutture ma dei testi (Barthes scrive Il piacere del testo). Foucault
invece sembra evolvere verso la filosofia politica. La critica strutturalista italiana ha avuto una genealogia
meno filosofica e più influenzata dal pensiero di Gianfranco Contini. La tradizione italiana, pur nutrendosi di
suggestioni straniere ha ben presto elaborato e adattato alla tradizione italiana i metodi della teoria
letteraria europea. Umberto Eco ha avuto il merito di introdurre e sistematizzare in Italia gli studi di
semiotica teorica.
Il nesso tra storia e testo non è mai venuto meno in Italia. Da Luckacs a Benjamin la teoria letteraria è stata
combinata al marximo.

Dal segno al testo

A partire dagli anni '80 viene posto l'accento sul testo più che sul segno. Per testo si intende non solo
un'aggregazione di segni o di enunciati né solo un'attualizzazione di un codice preesistente all'atto
enunciativo. Il testo è il risultato di un'interazione tra aspetti superficiali e profondi del codice in vista
dell'organizzazione del senso. Importante è anche il fenomeno dell'enunciazione. Mentre nel modello
della comunicazione, in auge fino a qualche anno fa, il messaggio aveva un valore essenzialmente
informativo e constatativo, l'attenzione all'enunciazione introduce la soggettività nella lingua come
fenomeno che interviene sulla forma e sulla funzione del messaggio. La centralità dell'aspetto testuale ha
riportato in auge, specie tra gli anni '70 e '80, un aspetto della teoria letteraria che sembrava
abbandonato, quello dei generi, delineati non più secondo un parametro normativo ma come modelli
tematici e al contempo enunciativi.

Un testo viene analizzato contemporaneamente dal punto di vista dell'atto enunciativo (azione
raccontata, riportata o rappresentata) e del soggetto trattato come insieme dei contenuti utilizzati.
Inoltre, una terza questione viene considerata: i mezzi formali usati nel testo (la prosa, il verso, un certo
registro linguistico, ecc.).

Medvedev individua nel genere il livello in grado di organizzare, grazie a un sistema di selezioni e di
scelte formali e tematiche, l'unità compositiva dell'opera in quanto atto di parola pragmaticamente e
storicamente orientato. Per Medvedev il genere è un modo discorsivo con un duplice orientamento:
da un lato un principio di selezione e di creazione dei modi di ricezione e dall'altro un modello del
mondo che padroneggia forme determinate di visione e di organizzazione del materiale linguistico.

Verso il lettore

Con la moderna teoria della letteratura si pone l’accento sul rapporto tra il lettore e il testo, tra la scrittura
e l’interpretazione e la soggettività. Non a caso vengono coniati da Genette termini riferiti al lettore come
“narratario”, “lettore ideale”, “lettore modello”, ma anche riferiti all’autore come “autore implicito”.

Lettore ideale = pubblico che l’autore si prefigura come destinatario della propria opera, dotato di tutte le
competenze necessarie per capire ogni implicazione di significato del testo e collaborare in modo corretto
alla sua interpretazione.

Narratario = destinatario al quale il narratore si rivolge direttamente nell’opera.

Autore implicito = dalle informazioni presenti nel testo si può avere un’immagine dell’autore che può
essere più o meno corrispondente al reale. Un esempio è Manzoni che, dalla lettura dei Promessi Sposi,
appare una persona serena, ma nella realtà egli fu tormentato da problemi psicologici.

Il canone, la teoria, il mercato

Il campo della critica parla oggi del tramonto della teoria come della letteratura. Con la morte della
letteratura, per i critici, nasce la modernità e sostenendo ciò dimostrano di avere difficoltà
nell'affrontare teoricamente le trasformazioni antropologiche e sociali che sono intervenute tra gli anni
Ottanta e il Duemila. A partire dagli anni '70 i testi letterari sono stati oggetto di letture sociologiche,
psicanalitiche, semiologiche. In Italia si è fatta avanti una riflessione sul canone che ha avuto come
centro il giudizio sulla modernità. Le scuole e i curricula formativi hanno provveduto a introdurre nei
loro programmi una curvatura “contemporanea”, cosa sentita maggiormente in Italia che in altri paesi.
Non a caso, in altri contesti la formazione di un canone è vista come un tentativo di salvare delle opere
delle quali conservare la memoria e critici come Harold Bloom nel suo saggio sul canone occidentale
hanno fondato il repertorio dei loro autori memorabili su una letteratura senza mediazioni testuali
(commenti, storia critica, ecc.) o extratestuali (contesti storici, storia dell'editoria, ecc.) da parte di un
lettore individuale.
Con l'avvento della rete, inoltre, è venuto meno anche il concetto di autore: mentre prima l'autore era
il produttore solitario e geniale visto dai romantici, adesso si fa sempre più strada l'idea dei romanzi
collettivi.

Potrebbero piacerti anche