Loretta Innocenti
Introduzione
1 «Ho visto Il sogno di una notte di mezza estate, che non avevo mai visto prima, e
che non vedrò mai più, perché è la commedia più insipida e ridicola cui abbia mai
assistito in vita mia. C'erano, lo confesso, buona danza e belle donne, e questo è
stato l'unico divertimento» (S. PEPYS, The Diary, Bell and Sons, London 1921,
vol.II, p. 347).
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di «testi sacri», e tendere all'universalità facendo appello a criteri idealmente
ritenuti «oggettivi».
Il drammaturgo inglese e le sue opere sono infatti passati attraverso tutte le
possibili fasi: dall'avvio della canonizzazione che secondo Hugh Kenner data
dalla pubblicazione dell'In folio del 1623 a cura di due dei suoi attori, Heminge e
Condell, alle trasformazioni, talvolta mostruose, subite dai plays in epoca
neoclassica proprio perché giudicati irregolari e non raffinati secondo i nuovi
criteri estetici, al recupero sulla scena dei testi originali, proseguito fin
nell'Ottocento, al lavoro filologico con cui dal diciottesimo secolo si è cercato di
stabilire la lezione più attendibile, muovendosi, in assenza di manoscritti
autografi o di stampe autorizzate dall'autore, tra copie pirata, pubblicazioni in
quarto, copioni annotati; alla propaganda, che ha accompagnato il progressivo
consolidamento dell'immagine del genio nazionale, a partire da quello Stratford
Jubilee che l'attore David Garrick organizzò con metodi pubblicitari da
impresario per celebrare il secondo centenario della nascita di Shakespeare, e che
ne avviò l'idolatria.
Il sorgere dell'idea di storia letteraria, e quindi della scelta degli autori che
siano degni di memoria, assegnò definitivamente il drammaturgo elisabettiano al
Pantheon della poesia, in una posizione di immortalità da cui non sarebbe più
stato rimosso. Fino al punto che al giorno d'oggi, secondo un critico come Harold
Bloom, Shakespeare è non tanto un autore canonico, bensì il Canone stesso: un
Canone che, ovviamente, parla inglese. Se nel volume Il canone occidentale
Bloom ancora inseriva nell'«elenco dei superstiti» (p. 33) Dante, Milton, Omero, i
Vangeli, Don Chisciotte e Chaucer, nel suo ultimo ponderoso lavoro2 sembra aver
ridotto l'intero panorama della tradizione a Shakespeare: unico autore, centrale
per lui al pensiero culturale canonico. Bloom ha pugnacemente combattuto contro
l'idea marxista che il Canone sia un «capitale culturale» e che il valore di un testo
stia nella sua funzione politica, di lotta di classe; contro il neostoricismo e gli
studi culturali e contro quella che chiama la «Scuola del Risentimento», per i
quali i testi sono per così dire percorsi da tensioni ideologiche, dal conflitto tra
autorità – e quindi Canone – e sovversione, marginalità o, meglio, per i quali è il
discorso sociale stesso ad essere carico di energie estetiche. A una selezione
canonica operata sulla base del potere dominante di istituzioni, di autorità e di
tradizioni, Bloom oppone l'idea di un Canone che si forma su basi qualitative,
estetiche, che è «metro di misura di vitalità, un campione che mira a cartografare
2H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, Fourth Estate, London
1999.
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l'incommensurabile»3. Porre Shakespeare al centro del Canone occidentale è però,
a mio parere, un'altra forma proprio di quel «platonismo» contro cui Bloom si
scaglia, e sembra un gesto autoritario, che sa di propaganda anglocentrica più
che essere il risultato di una seria riflessione estetica. Solo in un programma di
esportazione – per non dire colonizzazione – culturale il genio inglese, il «bardo»
nazionale, può essere definito autore più grande di tutti gli altri di tutte le altre
nazioni e di tutte le altre lingue. Shakespeare è incontestabilmente grande, ma la
sua grandezza non può essere misurata sulla base della diffusione della sua
opera, o del numero di rappresentazioni di cui gode, né tanto meno su motivi
impressionistici di identificazione soggettiva, come invece sembra fare Bloom:
3 H. BLOOM, The Western Canon. The Books and School of the Ages, Riverhead
Books, New York 1994; trad. it. Il canone occidentale. I Libri e le Scuole delle Età,
Bompiani, Milano 1996, p. 34.
4 Ivi.
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seguendo le variazioni del gusto e dei sistemi culturali. Come scrive Luperini, «in
questa seconda accezione il canone riflette, e nello stesso tempo aggiorna
ininterrottamente, la memoria selettiva di un popolo»5. Non è sempre facile
distinguere i due sensi del termine nella discussione contemporanea sulla
nozione di valore e su quella di canone letterario, nozioni strettamente connesse
l'una all'altra. La questione in gioco è se quello che determina il successo o
l'insuccesso di un'opera, la sua inclusione o l'esclusione dal canone, sia una
proprietà intrinseca del testo, oppure se sia da ricercare fuori da esso, in valori
ideologici, politici, sociali, che la lettura vi sovrappone.
E' possibile stabilire dei criteri oggettivi sui quali giudicare un'operazione
artistica? Intendo, qualcosa di più solido delle impressioni soggettive di Pepys,
ma anche della quantità di spettatori e delle loro angosce di cui parla Bloom:
qualcosa che sia nel testo e non fuori da esso, nel contesto culturale o sociale, o
nell'orizzonte d'attesa dei lettori e degli spettatori? Di fatto, ogni epoca ha dato
una risposta diversa al problema, situando il valore ora nell'imitazione del
passato, o nel rispetto di regole e di canoni estetici, ora nell'originalità e nella
ribellione a norme e prescrizioni; talvolta nel pensiero e nel controllo razionale,
tal'altra nell'emozione e nella sensibilità. A volte è stata apprezzata la
naturalezza, la schiettezza e la voluta semplicità di espressione, altre volte
invece il suo contrario, cioè la costruzione dell'artificio, è sembrato meglio
rappresentare la complessa articolazione del reale e l'ineffabilità del
trascendente.
Non voglio certo ripercorrere la storia dell'estetica o del valore letterario;
quello che mi preme è indicare che in ambito assiologico è la relatività a
imperare, anche laddove si fa appello all'oggettività e a criteri universali. Una
relatività culturale e storica, però, e che quindi ha la parvenza di una
condivisione di valori. Voglio dire che ogni giudizio è figlio del suo tempo, e
persino l'astensione dal giudizio lo è.
Il Novecento ha negato la legittimità della valutazione estetica, in un caso
accantonando il problema del valore di un testo a favore della sua
«interpretazione», della conoscenza dei suoi meccanismi formali e delle sue
funzioni strutturali, nell'altro giudicandone la funzione sociale, ideologica e
politica, in una parola, extratestuale. I due atteggiamenti diversi – uno formale e
l'altro ideologico – che hanno segnato la critica letteraria e la posizione di
sospensione del giudizio estetico hanno di fatto influenzato e condizionato la
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lettura del passato, oltre a rivelarsi omologhi alle poetiche del loro tempo. La
discussione sul canone ne è un esempio. Assieme al giudizio di valore, New
Criticism e Formalismo avevano messo in subordine anche la dimensione
diacronica della storia, per concentrarsi sulla lettura ravvicinata dei testi e del
fenomeno letterario; e quindi la memoria, la conservazione di un passato, era per
essi diventata problema testuale di influenze, echi, scelte autoriali, non di
gerarchie e di centralità di certe figure contro la marginalità di altre. Per lo
strutturalismo e la semiotica degli anni sessanta, generi «minori», letteratura
popolare, linguaggi effimeri costituivano oggetto di analisi e di riflessione teorica,
almeno quanto autori ed opere indiscutibilmente «canonici»; anzi, più di questi,
dal momento che nelle forme semplici i procedimenti si manifestano in modo più
evidente.
Se l'attenzione all'aspetto formale dei testi diluisce il concetto di canone, ne
distrugge i confini, relativizza le posizioni di centro e di periferia, e in un certo
senso rende tutto canonico, l'atteggiamento ideologico di molta parte della critica
più recente invece riprende l'idea di canone, per attaccarla e demonizzarla. Dal
neostoricismo che vede il testo come il luogo di un discorso sociale, di una lotta o
di una continua e instabile negoziazione tra autorità e sovvertimento, fino alle
recenti tendenze a riscoprire la storia dei vinti, degli emarginati, e a sostituirla a
quella dei vincitori, il canone sempre di più si è identificato con il discorso
dell'autorità, con la mappa di nazionalismi e di classi sociali dominanti, con la
conservazione e il conservatorismo di gruppi culturali. Comunque, con qualcosa
da cancellare. E, magari, con qualcosa di cui appropriarsi. Distruggere un canone
non è però mai un gesto liberatorio; equivale ambiguamente al tentativo di
frantumare vecchi monumenti per rimpiazzarli con dei nuovi.
Del resto, questo è ciò che ha sempre fatto il tempo: la storia letteraria,
come voleva Shklovskji, è un processo di continua canonizzazione del marginale.
Ma è altrettanto vero l'inverso: che la storia letteraria è un continuo processo di
marginalizzazione del canonico.
Sulla mia scrivania sono allineati in un cofanetto quattro volumi
elegantemente stampati tra il 1828 e il 1831; contengono le opere complete di
una trentina di poeti di lingua inglese. Evidentemente l'antologia voleva fornire
al lettore un ampio panorama della poesia da Milton fino alla contemporaneità,
in un'edizione compatta, da portare con sé in viaggio. Accanto ai nomi di
Thomson, Collins, Gray, Gay, Pope, Dryden, ce ne sono molti altri di poeti ormai
caduti nell'oblio, come Kirke White, Shenstone, Hayley, Logan, Gifford,
Bloomfield, ecc. Evidentemente costoro, cui le storie letterarie di oggi accennano
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appena, relegandoli in quella che potremmo chiamare con Curtius la «tradizione
della mediocrità», erano considerati allora dei poeti «canonici» e, all'inverso,
alcuni non inclusi, forse perché ritenuti marginali, sono invece ormai parte
integrante del canone. Tra i romantici, per esempio, compare solo una selezione
di poesie di Lord Byron, che al tempo era già morto; ma erano morti anche
Shelley e Keats, e se il canone era concepito come un Parnaso di poeti ormai
defunti, potevano a buon diritto entrarvi anche loro. Eppure non ci sono.
Il canone, più che a un monolite, una costruzione fortemente centralizzata e
immobile, arroccata in difesa, somiglia al sistema della cultura delineato da J.
Lotman,
6J. LOTMAN et al., Tesi sullo studio semiotico della cultura, Pratiche Editrice,
Parma 1980, pp. 39-40.
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corrisponde quello bloomiano di «angoscia dell'influenza»7, della lotta o della gara
che i figli conducono per affrancarsi nei confronti dei padri.
Un tipo diverso di imitazione, non quella classica intesa come criterio
estetico, bensì quella appartenente alla sfera individuale dell'autore, mi porta a
considerare un'altra idea di canone: la memoria soggettiva, la mappa che ogni
artista disegna attorno al proprio operare artistico, i predecessori che egli si
sceglie e che corrispondono alla sua concezione dell'arte. Rapporto ansioso, come
vuole Bloom, o illuminante, o dialogico: in tutti i casi, è però un canone che non
appartiene alla critica letteraria, se non laddove la storia della letteratura venga
considerata storia di genealogie e di percorsi artistici e non di periodizzazioni
canoniche, o nei casi in cui il critico mostri di rinunciare a un'impossibile
oggettività e si faccia artista per dare forma ad antologie personali. Si tratta in
questo caso di scelte operate per così dire sul campo e non a distanza, dalla
posizione distaccata dello spettatore e dell'interprete.
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pertinenti e leggendone la rilevanza ora idealisticamente in quanto poeta
visionario e profetico, ora materialisticamente come rivoluzionario ribelle.
Alla crisi del canone nel Novecento sono dedicati in particolare i saggi di
Franco Marenco e di Alberto Castoldi; entrambi considerano lo sgretolamento
della tradizione letteraria e la mercificazione della cultura come fenomeni
recenti. Per Marenco l'odierna disseminazione dell'autorità crea un
appiattimento di gerarchie e pertanto relativizza i valori e dilata e diluisce il
letterario in culturale. Al riconoscimento modernista del testo letterario come
simbolo dei valori di una società organica, si è recentemente sostituito il
paradigma postmoderno di «pratiche culturali» sotto la cui etichetta tutto viene
inglobato e omologato. Nel considerare la storia letteraria come romanzo
familiare, cioè di genealogie e di padri, Castoldi identifica il canone con uno
spazio al tempo stesso di stabilità e di pulsionalità, uno spazio destinato alla crisi
da quando l'universo delle merci omologa il desiderio. La proliferazione di canoni,
tipica della nostra epoca, è effetto della disintegrazione di un nucleo elitario di
autorità e della riaggregazione di diversi «romanzi familiari» che dà sempre più
spazio, come il sistema della moda, al mutevole e all'effimero.
L'opera come merce è un concetto esplicitamente chiamato in causa come
criterio che influisce sul giudizio di valore, nel saggio di Ernesto Franco dedicato
all'ambito dell'editoria. Il problema è qui rovesciato e visto da un'ottica diversa,
non critica, ma produttivo-imprenditoriale: nei confronti del canone l'editore si
muove adeguandosi e resistendo, e proprio i condizionamenti del mercato lo
rendono spregiudicato e libero nei confronti della rigidità della tradizione e di
valori «alti» che egli non può mai considerare assoluti perché proietta l'opera
nella contemporaneità.
Gli altri tre interventi si interrogano su giudizio di valore e canone in
termini sincronici e astorici. Lucien Dällenbach e Franco Moretti entrambi
considerano il canone come problema formale e non ideologico; sono gli elementi
costitutivi del testo a determinarne la possibile canonicità o l'effettivo successo.
Per Dällenbach la mise en abyme è lo strumento che consente di fissare i criteri
per riconoscere la letterarietà di un testo, riconducibile sempre ad un medesimo
tratto distintivo: la passione per l'ignoto, e la forza di trasformazione. L'opera che
si autodefinisce, riflette sulla letteratura, dà giudizi di valore e offre al lettore il
metro con cui essere valutata. Butor e Céline forniscono qui gli esempi della
scoperta dell'estraneo e di una lingua inaudita.
Moretti indaga invece il rapporto che sussiste tra elementi morfologici e
mercato, alla ricerca di forme di successo e forme che hanno fallito, mosse
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sbagliate e mosse che invece talvolta casualmente si sono rivelate quelle giuste
per fare di un'opera un bestseller. La sua è una visione della storia letteraria di
tipo evoluzionista, dove il giudizio di valore viene sospeso a favore di verità
empiriche e di rilevazioni statistiche, e i canoni sono elenchi di sopravvissuti a
una lotta con il tempo e il mutare dei contesti e del mercato.
Infine, la relazione di Paolo Fabbri offre una riflessione semiotica e
metalinguistica sugli strumenti tattici a disposizione per definire la canonicità di
un testo; nella nostra cultura questa definizione passa attraverso la
conflittualità, la guerra, di cui due strategie esemplari sono l'epigramma e la
satira. Le trasformazioni del canone non avvengono per spostamenti di giudizi di
valore, bensì per mutamenti di «valenze», cioè del valore che viene attribuito ai
valori, e quindi per costruzione di soglie passionali.
Per concludere, credo che una discussione sul problema del canone non
possa prescindere dal porsi una questione etica, deontologica direi, circa la
funzione della critica. Interrogarsi sulla memoria è anche sempre parlare del
presente e di un possibile futuro; la selezione operata per preservare il passato è
di fatto un modo per renderlo moderno, attualizzarne la comprensione e l'uso.
Sono sicura che è solo dalla conoscenza del testo che può scaturire un eventuale
giudizio di valore e non, viceversa, dall'applicazione sul testo di ideologie o di
criteri extratestuali. Maggiore è la competenza e più profonda la conoscenza del
testo, più ricco e articolato il giudizio; Frye, che molto teneva a distinguere tra
valutazione e intepretazione, ha scritto che «I giudizi di valore si basano sullo
studio della letteratura; lo studio della letteratura non può mai basarsi sui
giudizi di valore»8.
Naturalmente, corriamo il rischio di essere intrappolati in un circolo
ermeneutico per cui le nostre idee sui canoni sono condizionate dai nostri sistemi
culturali in parte costituiti da nozioni del canonico, e altrettanto si può dire per il
valore. In ogni caso però, la responsabilità morale del critico risiede
nell'interrogarsi sulla validità degli strumenti a disposizione per indagare i testi,
per comprenderne l'intima struttura e le strategie retoriche che esso mette in
atto allo scopo di condizionare la propria lettura, così come nel ricostruire la rete
di rapporti storici e di intersechi di sistemi culturali che possano illuminare la
comprensione del testo e farne il catalizzatore di conoscenza e di valori umani.
Soprattutto all'inizio del terzo millennio, che, in nome di una globalizzazione
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postmoderna, vede preferiti il facile e il semplice o l'esplicito a un difficile piacere
del testo e a esperienze più ricche e intense ma anche più faticose.
Tutto questo comunque, sempre nella consapevolezza che i valori estetici
così come quelli ideologici attribuiti o imposti ai testi sono relativi e
appartengono in misura più o meno rilevante al nostro mondo di interpreti.
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