Sei sulla pagina 1di 92

Matteo Navone

12
Epica italiana*

12.1. Il genere epico, destinato nel Rinascimento a essere protago-


nista di una delle stagioni più auree della nostra letteratura, conosce in
Italia un avvio lento e incerto, nel quale occorre distinguere tra una pro-
duzione in lingua latina e una in lingua romanza. Nel primo caso il la-
tino, forte di una supremazia letteraria conservata più a lungo che in al-
tre aree – come per esempio la Francia –, è la veste linguistica in cui si
presentano, dal X secolo, diverse cronache storiche versificate, nelle qua-
li si nota una volontà di imitare le forme e le intonazioni dell’epica lati-
na (Virgilio, Lucano, Stazio sono spesso echeggiati), di cui si recupera
anche il metro caratteristico, l’esametro. Scopo di queste scritture è la

*
Le edizioni di riferimento delle opere citate in questo contributo sono le seguenti: Luigi Alaman-
ni, Avarchide, Firenze, Giunti, 1570; Id., Girone il cortese, Venezia, Comin da Trino di Monferra-
to, 1549; Dante Alighieri, La Divina Commedia, a c. di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze
2002, 3 voll.; Id., De vulgari eloquentia; introd., trad. e note di V. Coletti, Garzanti, Milano 1991;
Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a c. di C. Segre, Mondadori, Milano 1976; Id., Cinque canti,
in Id., Orlando furioso e Cinque canti, a c. di R. Ceserani e S. Zatti, UTET, Torino 2006, 2 voll.,
vol. II; Matteo Maria Boiardo, L’inamoramento de Orlando, ed. crit. a c. di A. Tissoni Benvenuti e
C. Montagnani, introd. e commento di A. Tissoni Benvenuti, Ricciardi, Milano-Napoli 1999, 2
voll.; Francesco Bracciolini, Lo scherno degli dei, Mascardi, Roma 1626; Carlo de’ Dottori, L’asino,
a c. di A. Daniele, Laterza, Bari 1987; Teofilo Folengo, Baldus, in T. Folengo, P. Aretino e A. F. Do-
ni, Opere, I. Opere di Teofilo Folengo, a c. di C. Cordié, Ricciardi, Milano-Napoli 1977; Giambat-
tista Giraldi Cinzio, Dell’Hercole, Gadaldini, Modena 1557; Id., Discorso intorno al comporre dei ro-
manzi, in Id., Scritti critici, a c. di C. Guerrieri Crocetti, Marzorati, Milano 1973; Giovanni Bat-
tista Lalli, La moscheide e La franceide; introd. e note di G. Rua, UTET, Torino 1927; Lorenzo Lip-
pi, Malmantile racquistato, Stamperia alla Condotta, Firenze 1688; Giambattista Marino, L’Adone,
a c. di G. Pozzi, Mondadori, Milano 1976, 2 voll.; Giovan Battista Pigna, I romanzi, ed. crit. a c.
di S. Ritrovato, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1997; Id., Gli Heroici, Gabriel Giolito
de’ Ferrari, Venezia 1561; Angelo Poliziano, Stanze – Orfeo – Rime; introd., note e indici di D. Puc-
cini, Garzanti, Milano 20045; Luigi Pulci, Morgante e opere minori, a c. di A. Greco, UTET, Tori-
no 2006, 2 voll.; Bernardo Tasso, Amadigi, Gabriel Giolito de’ Ferrari, Venezia 1560; Torquato Tas-
so, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a c. di L. Poma, Laterza, Bari 1964; Id., Gerusalem-
me liberata, a c. di F. Tomasi, Rizzoli, Milano 2009; Id., Lettere poetiche, a c. di C. Molinari, Guan-
da, Parma 1995; Id., Rinaldo, a c. di L. Bonfigli, Laterza, Bari 1936; Alessandro Tassoni, La secchia
rapita e scritti poetici, a c. di P. Puliatti, Panini, Modena 1989; Gian Giorgio Trissino, La Italia li-
berata da Gotthi, Valerio e Luigi Dorici, Roma 1547.

297
Matteo Navone

celebrazione di glorie cittadine – come nel caso del Liber Maiorichinus,


su una spedizione pisana contro i Saraceni delle Baleari del 1113-1114
– o di imprese di illustri condottieri e sovrani, come avviene nei Gesta
Roberti Wiscardi di Guglielmo di Puglia, in cinque libri (fine XI-inizio
XII secolo), nei Gesta Friderici I, cinque libri in esametri composti da
un anonimo tra il 1162 e il 1164 ca., o ancora nel Carmen de rebus Si-
culis (fine XII secolo), nel quale Pietro da Eboli celebra la conquista del-
la Sicilia da parte dell’imperatore Enrico VI, preferendo però all’esame-
tro il distico elegiaco. Più interessante per il nostro discorso è la produ-
zione in volgare, che non nasce tuttavia da fermenti propriamente au-
toctoni, ma deriva piuttosto da modelli, storie e personaggi importati
dalle terre d’Oltralpe, e più precisamente dai due generi principe della
narrativa medievale, che avevano preso forma proprio in Francia: da un
lato quello più propriamente epico, e più direttamente legato alla cele-
brazione degli ideali eroico-militari della società feudale, la chanson de
geste, che attingeva al ciclo carolingio e aveva il proprio capostipite nel-
la Chanson de Roland (composta probabilmente tra la fine dell’XI e l’i-
nizio del XII secolo), e dall’altro il romanzo arturiano, la cui mescolan-
za di motivi avventurosi, magici, esotici e amorosi aveva trovato uno
straordinario interprete in Chrétien de Troyes, attivo tra il 1160 e il 1190.
Sono proprio queste forme della letteratura medievale francese, gra-
dualmente penetrate al di qua delle Alpi, a costituire i semi dai quali
germoglierà l’epica italiana in volgare: se le prime attestazioni della dif-
fusione, nelle varie zone della penisola, della materia di Francia e di
quella di Bretagna risalgono già alla prima metà del secolo XII – si pen-
si, per esempio, agli appellativi che compaiono in documenti giuridici
degli anni quaranta-cinquanta, modellati sui nomi di personaggi delle
saghe arturiane e carolingie, o alle testimonianze iconografiche fornite
dalle decorazioni di edifici quali il duomo di Modena e quelli di Otran-
to e Brindisi – è solo a partire dalla fine della seconda metà che si può
parlare di una circolazione in Italia di testi francesi, accompagnati dal-
la presenza di giullari e cantastorie, che raccontavano nelle piazze le ge-
sta dei paladini di Carlo Magno. È però dal Duecento che la penetra-
zione di questa cultura narrativa si fa in Italia sempre più gravida di fe-
condi sviluppi, che si irradiano a partire da alcuni centri propulsivi, tra
i quali spicca cronologicamente la corte sveva di Federico II. A essa con-
duce infatti la prima testimonianza esplicita della circolazione dei testi
francesi nel territorio italiano, una lettera inviata dalla curia dell’impe-
ratore nel febbraio 1240, nella quale si ringrazia per l’invio di una co-
pia del «liber Palamides» – ovvero il Guiron le courtois, uno dei più im-
portanti romans in prosa del XIII secolo – assieme al quale furono cer-
tamente raccolte anche altre opere dello stesso genere, come dimostra-
no i numerosi riferimenti ai personaggi dei romanzi cavallereschi pre-
298
Epica italiana

senti nei testi dei poeti della corte di Federico II, riferimenti che pas-
seranno poi anche nei versi dei cosiddetti rimatori siculo-toscani. La
trascrizione e circolazione dei romanzi arturiani in prosa è poi assicu-
rata da altri centri, come per esempio Genova, mentre cominciano a
comparire i primi testi di questo genere composti in Italia – seppur non
ancora in italiano, ma in lingua d’oïl – come il Meliadus (1272-1274
ca.), summa delle vicende degli eroi della Tavola Rotonda e della Tavo-
la Vecchia, composta dal futuro trascrittore del Milione di Marco Po-
lo, Rustichello da Pisa, e le Prophécies de Merlin (1276-1279 ca.), ope-
ra di un anonimo autore veneziano incentrata sulla figura del mago pro-
tettore di Artù. A questa fase si accompagna anche quella dei primi vol-
garizzamenti, ancora in prosa, tra i quali i più significativi appaiono il
cosiddetto Tristano Riccardiano, risalente al tardo Duecento, e la già tre-
centesca Tavola Ritonda – la più importante summa arturiana realizza-
ta in Italia –, ambedue incentrate sul personaggio di Tristano, le cui vi-
cende, soprattutto nelle seconda, vengono abilmente inserite nel ciclo
della Tavola Rotonda, secondo un’interpolazione già introdotta in fon-
ti come il Tristan en prose. Nonostante l’indiscutibile rilevanza di que-
sti e altri volgarizzamenti – nei quali, superata l’iniziale ossequiosità ai
modelli, cominciano a profilarsi margini sempre più ampi di origina-
lità nella trattazione della materia – va precisato che, almeno fino al pri-
mo Quattrocento, saranno i testi in francese a essere ancora preferiti,
secondo una consuetudine che, come scrive anche Dante nel De vul-
gari eloquentia, identificava nella lingua d’oïl il veicolo espressivo con-
sacrato alla narrazione delle «Arturi regis ambages pulcerrime» (I 10, 2).
In effetti, nel medesimo passo, Dante inserisce nel ‘dominio’ della lin-
gua d’oïl, accanto ai racconti arturiani, anche le composizioni «cum
Troianorum Romanorumque gestibus», altro settore della produzione ro-
manzesca che godette di particolare successo nell’Italia centro-meri-
dionale – di contro a un centro-nord decisamente più orientato verso
la materia bretone – sempre in collegamento con ben precisi modelli
transalpini, come il Roman de Thèbes, il Roman de Troie di Benoît de
Sainte-Maure, l’Eneas, il Roman de Brut di Robert Wace. I più antichi
e significativi tra i testi italiani incentrati sulla materia antica sono tut-
tavia composizioni in prosa non ascrivibili al genere epico: ciò vale sia
per le romanesche Storie de Troia e de Roma, anonimo volgarizzamen-
to duecentesco di una compilazione latina di un secolo più antica – che,
oltre a documentare una tradizione del mito troiano diversa da quella
del Roman de Troie, costituisce il più antico testo di argomento ‘stori-
co’ nella nostra lingua –, sia per l’Historia destructionis Troiae (1272-
1287 ca.) di Guido delle Colonne (con ogni probabilità coincidente
con il poeta della ‘scuola’ siciliana), opera colta e raffinata che presen-
ta però, stavolta, forti debiti nei confronti del romanzo di Benoît de
299
Matteo Navone

Sainte-Maure, e che è in ogni caso, assieme ai suoi numerosi volgariz-


zamenti, più importante per gli sviluppi della prosa narrativa italiana.

12.2. Più che in questa sparsa e frammentata produzione, legata in


primo luogo, come si è visto, a modelli romanzi, è altrove che vanno ri-
cercati i dialoghi più interessanti intrattenuti dagli autori del Due-Tre-
cento con le grandi auctoritates dell’epica antica, e più precisamente nel-
le opere di Dante, Petrarca e Boccaccio, che rivelano, con differenti mo-
dalità, la medesima ambizione di misurarsi con uno dei più nobili ge-
neri antichi, che per di più non aveva ancora trovato interpreti capaci di
trapiantarlo nella nostra letteratura in forme pienamente originali.
Tale ambizione è evidente già nella Commedia dantesca, testo noto-
riamente di non facile definizione, ma che mantiene molti aspetti del
‘poema epico’, seppur tale denominazione non possa essere applicata al-
l’opera in maniera esclusiva e indiscriminata. Gli elementi che spingo-
no in direzione dell’epos sono molteplici, a cominciare ovviamente dal-
la dichiarata elezione di Virgilio e della sua Eneide tra i modelli fondan-
ti del libro. Si tratta di un tributo che va in una duplice direzione, quel-
la del Virgilio personaggio, scelto come guida del viaggio attraverso i pri-
mi due regni dell’oltretomba – in quanto emblema sia di tutti i valori
positivi che ha potuto esprimere un mondo pre-cristiano, sia delle vet-
te conoscitive che una sapienza solo umana può raggiungere – e quella
del Virgilio-auctor, verso il quale Dante riconosce, fin dal primo canto,
i suoi debiti, anzitutto a livello stilistico:
‘Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?’
[…]
‘O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,


tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore. (Inf. I 79-80 e 82-87)

Il bello stilo è ovviamente quello tragico – classificato dal De vulgari


eloquentia (e dalla retorica medievale) come il più alto ed elevato, depu-
tato agli argomenti più gravi – così come il volume è appunto l’Eneide,
non a caso definita altrove «alta […] tragedìa» (cfr. Inf. XX 112-14), mo-
dello autorevolissimo al quale Dante accosta la sua «comedìa» (Inf. XXI
2). Recuperata all’interno delle terzine dantesche, la lezione dell’epos clas-
sico, e virgiliano in primis, viene così innovata e attualizzata, dapprima
nella direzione della comedìa – e dunque dell’apertura a una varietà con-
300
Epica italiana

tenutistica, stilistica e linguistica, contrapposta al carattere selettivamen-


te ‘alto’ della tragedìa – e infine nella direzione, ancor più significativa,
del «sacrato poema» (Par. XXIII 62), definizione (come quella di Par.
XXV 1-2) da intendersi probabilmente riferita alla sola terza cantica. E
se anche in quest’ultimo caso torna forte il parallelismo con l’Eneide, de-
finita sacrum poema da Macrobio (e investita, in effetti, di un alone sa-
cro e profetico dai suoi lettori medievali, Dante compreso), certo emer-
ge anche la volontà di recuperare l’epos classico all’interno di un epos pie-
namente cristiano, consacrato alla glorificazione di Dio e alla veicolazio-
ne di un messaggio di conversione rivolto all’umanità intera.
Ma quali sono, in concreto, gli oggetti specifici attorno ai quali si ar-
ticola questa riscrittura dell’epica pagana? Per ovvie ragioni, non è pos-
sibile qui soffermarsi su singole citazioni o su loci specifici, ma interes-
sa piuttosto procedere per campiture più ampie, osservando come il rac-
conto della Commedia sia strutturato, in termini generali, secondo i trat-
ti tipici di due tradizionali tópoi epici. Il primo è addirittura uno dei mo-
tivi archetipici del genere, quello del viaggio, fondato dall’Odissea e già
più volte ripreso dagli autori antichi (non ultimo proprio il Virgilio del-
la prima esade dell’Eneide), ma anche da quelli romanzi, nella variante
della quête cavalleresca. Tradizionalmente, il tema del viaggio, nei suoi
sviluppi, epici e non solo, prevede alcuni elementi ricorrenti: esso arti-
cola anzitutto il racconto secondo una struttura aperta, con un’am-
bientazione variata nel tempo e, soprattutto, nello spazio (i vari luoghi
del Mediterraneo per esempio, oppure le diverse parti dell’aldilà cristia-
no), nella quale il protagonista persegue un obiettivo, un oggetto del de-
siderio, una meta finale (il ritorno in patria, la fondazione di una nuo-
va patria, o ancora la riconquista della ‘patria’ celeste attraverso la puri-
ficazione dalle colpe terrene), il cui raggiungimento può avvenire solo
dopo una serie di prove, di avventure o di incontri, grazie ai quali il pro-
tagonista stesso acquisisce nuove esperienze e conoscenze, cambiando la
propria condizione rispetto alla situazione iniziale (quella di esule, per
Enea, oppure di peccatore, nel caso di Dante). Come si vede, si tratta di
‘ingredienti’ facilmente riconoscibili anche nella Commedia, con le op-
portune integrazioni legate sia alle fonti medievali (come le cosiddette
visiones, leggende e racconti sull’aldilà) con cui Dante contamina le re-
miniscenza classiche, sia alla dimensione allegorica nella quale si inscri-
ve il viaggio dantesco, senza dimenticare però il valore simbolico che gli
esegeti medievali riconoscevano già nello stesso viaggio di Enea, letto,
secondo le indicazioni di commentatori come Fulgenzio e Bernardo Sil-
vestre, come figura della parabola della vita umana, con ognuno dei li-
bri del poema corrispondente a un ben preciso stadio di età. È proprio
in virtù di questo tipo di interpretazione che Dante può non solo sce-
gliere Virgilio come guida del suo ritorno alla retta via, ma anche acco-
301
Matteo Navone

stare fin dall’inizio il suo iter a quello dell’eroe troiano («Io non Enëa,
io non Paulo sono»; Inf. II 32): se già quello di Enea era stato un per-
corso salvifico dalle fiamme del «superbo Ilïón […]» (Inf. I 75) alla sal-
vezza della nuova patria italica, anche il Dante viator, innalzandosi dal-
la selva del peccato alla beatitudine della visione divina, ripropone un
analogo itinerario esemplare, seppur nell’ambito di una risemantizza-
zione cristiana del tópos. Se dunque il paradigma epico di riferimento è,
come si è visto, Enea, quello antitetico corrisponde invece al primo pro-
tagonista di un’epopea di viaggio, Ulisse, grande protagonista del rac-
conto (dantesco però, non omerico) di Inf. XXVI. La contrapposizione
tra il percorso dell’eroe greco e quello di Dante è, com’è noto, resa evi-
dente da una serie di rimandi intratestuali: «folle volo» (Inf. XXVI 125)
e «varco / folle […]» (Par. XXVII 82-83) è qualificata l’impresa di Ulis-
se, non sorretta dal Cielo perché animata da un ardore di conoscenza fi-
ne a se stesso e incurante di ogni freno, con un’insistenza sul motivo del-
la follia (da intendersi come atto di superba travalicazione dei limiti im-
posti da Dio all’uomo), già umilmente paventata da Dante per il suo
viaggio ultramondano («Temo che la venuta non sia folle»; Inf. II 35,
ma cfr. anche Inf. VIII 89-91), timore infondato, trattandosi nel suo ca-
so di «alto volo […]» (Par. XV 54) voluto dalla grazia divina, che già
aveva guidato, seppur per altri scopi, il pellegrino Enea. Al di là dei tan-
ti altri legami verbali e tematici che sono stati osservati tra i personaggi
di Dante, Enea e Ulisse, importa rilevare come, già a livello di questa ri-
presa del motivo del viaggio, la Commedia dimostri di voler portare avan-
ti un dialogo con la tradizione epica classica svolto in termini originali,
dialogo che continua sul piano del recupero di un altro tópos canonico,
quello della catabasi.
Anche in questo caso, è il precedente virgiliano a fare scuola: par-
tendo dal modello della nékuia del libro XI dell’Odissea, il poeta latino,
nel VI dell’Eneide, aveva sviluppato ulteriormente il tópos, facendo en-
trare il suo Enea direttamente nell’Ade – senza arrestarlo semplicemen-
te sulla soglia a compiere un rito di evocazione delle anime dei defunti
– e caricando inoltre di un’ulteriore valenza quella centralità narrativa e
strutturale dell’episodio già ravvisabile nel precedente omerico. Tale cen-
tralità, evidenziata dalla tradizionale collocazione di questi racconti in
prossimità (nell’Odissea) o in coincidenza (nell’Eneide) della metà del-
l’opera, è legata al fatto che l’incontro con i morti segna sempre, per l’e-
roe, un momento di svolta nel proprio percorso, di conquista conosci-
tiva capace di dare un senso all’esperienza passata e, soprattutto – me-
diante l’espediente, anch’esso topico, della profezia – di illuminare il
cammino futuro: se questi elementi, nell’Odissea, sono legati esclusiva-
mente al destino individuale del protagonista (tutto ciò che Ulisse ap-
prende dall’ombra di Tiresia riguarda infatti il suo ritorno a Itaca e gli
302
Epica italiana

eventi successivi), nell’Eneide si passa a una dimensione di più ampio re-


spiro, con l’anima di Anchise che, mostrando al figlio i futuri splendo-
ri di Roma, lo rende consapevole della reale portata del suo compito,
che trascende la conquista di una nuova patria per trovare il suo senso
ultimo nella gloriosa discendenza romana che nascerà dalla sua stirpe.
Ed è proprio questa la dimensione nella quale anche Dante vuole in-
scrivere la sua esperienza, allargando ancora di più il raggio. Ciò che in
Omero e Virgilio era una semplice parte del racconto, nella Commedia
si dilata fino a occupare l’intera opera e ad assumere le forme di «una
catabasi esistenziale da cui scaturisce una liturgia di purificazione che si
carica dei più diversi significati antropologici, allegorici e spirituali» (Ser-
gio Zatti, Il modo epico, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 55). Come la ca-
tabasi di Enea, agli occhi di Dante, era stata autorizzata da Dio per ga-
rantire la fondazione provvidenziale dell’Impero Romano (cfr. Inf. II 13-
27, ma anche ovviamente il discorso di Giustiniano in Par. VI), così an-
che il suo viaggio nell’aldilà è presentato come parte di un disegno di-
vino di portata universale: gli incontri con le anime dannate, espianti e
beate si propongono come sintesi non solo dell’esperienza dell’autore,
ma anche di quella umana in generale, e allo stesso modo lo scopo per
il quale il viaggio è stato concesso si profila chiaramente come la con-
quista di una salvezza individuale che porti a sua volta a una palingene-
si collettiva. Centrale, in questo senso, è l’incontro con Cacciaguida (Par.
XV-XVII), dietro al quale riappare, in controluce, proprio quello tra An-
chise ed Enea nei Campi Elisi: nel cielo paradisiaco di Marte, Dante
ascolta dalle parole non più del padre, ma di un avo più remoto, la pro-
fezia finale e chiarificatrice sul suo destino personale (l’esilio), ma viene
anche investito, novello Enea, della sua missione, quella del racconto:
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
[…]
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento. (Par. XVII 127-29 e 133-35)

Anche nel quadro di questa catabasi cristiana, l’eroe acquista così co-
scienza del compito che gli è stato destinato (anticipato e ribadito an-
che altrove, per es. da Beatrice in Purg. XXXII 103-105 e da S. Pietro
in Par. XXVII 64-66), compito che implica ancora una sublimazione,
in direzione sacra, del dichiarato precedente classico, visto che pertiene
all’ammaestramento morale di un’umanità intera corrotta dal peccato,
attraverso la testimonianza della sorte ultraterrena delle «anime che son
di fama note» (Par. XVII 138), rivelata agli occhi del viator.
303
Matteo Navone

Si è visto dunque come Dante, nella Commedia, cerchi di attestarsi


come erede di Omero e Virgilio costruendo in realtà qualcosa di nuo-
vo, un poema che è anche, ma non solo, epico, dove determinati tópoi
del genere vengono rimodellati in chiave allegorico-cristiana. Diverso
appare invece il recupero dell’epos tentato, pochi anni dopo, da Petrar-
ca e Boccaccio. Basterà qui limitarsi a notare solo pochi punti essenzia-
li. Sia Petrarca sia Boccaccio lavorano, pressappoco nello stesso periodo,
a opere che si propongono come poemi epici tout court, modellati sui
più illustri precedenti latini: tuttavia, mentre il primo tenta, nella sua
Africa, quello che possiamo definire un recupero in toto dell’epos latino,
del quale riprende la lingua e il metro (l’esametro), gareggiando con es-
so anche sul piano dell’intonazione alta, densa di episodi tragici e pate-
tici, il secondo sceglie di trapiantare la lezione epica latina nella lingua
e nella metrica volgare, tentando una strada differente anche da quella
della Commedia, che consiste nel riattualizzare l’epos nella sua dimen-
sione più caratteristica – quella di poesia delle armi – alla luce dei nuo-
vi modelli romanzi ormai penetrati nei gusti della cultura italiana del
tempo. Il suo Teseida delle nozze d’Emilia – composto tra la fine degli
anni trenta e i primi anni quaranta del Trecento, e presentato orgoglio-
samente dall’autore, nel finale dell’opera, come primo esempio di poe-
ma epico in volgare (cfr. XII 84-85) – consegna al nascente epos italico
due elementi di primaria rilevanza: l’ottava (quella di tipo toscano, com-
posta da otto endecasillabi rimati ABABABCC, già utilizzata nel prece-
dente Filostrato), che resterà il metro prediletto della poesia epica (e più
genericamente narrativa) italiana, e la combinazione tra tema guerresco
e tema amoroso, annunciata nella duplice invocazione proemiale a Mar-
te e Venere, che segue quella obbligata alle Muse (cfr. I 1-3). In realtà,
il reale rapporto di forze tra i due temi all’interno dell’opera segna una
prevalenza dei motivi elegiaci e sentimentali, mentre l’epica rimane un
involucro esteriore, con i suoi elementi topici (duelli, discorsi agli eser-
citi, invocazioni agli dèi, cataloghi, scudi istoriati, similitudini, giochi
funebri, ecc.) recuperati più in funzione scenografica che non sostan-
ziale: ma resta un primo, ancor acerbo approccio a quell’intreccio tra ar-
mi e amori che – grazie anche all’influsso determinante di altri modelli
– diventerà, nelle sue varie realizzazioni, un importantissimo fil rouge
della produzione epica nostrana, di cui il Teseida, inoltre, rivela già la ca-
ratteristica natura ‘ibrida’, marcata da un epos quasi mai recuperato in
forme pure, ma piuttosto in convivenza, come si vedrà, con altri codi-
ci: il burlesco, il romanzesco-cavalleresco, il lirico.

12.3. Prima di arrivare a parlare delle letteratura cavalleresca rinasci-


mentale, occorre riannodare i fili del nostro discorso su ciò che sta all’o-
rigine di tale esperienza, ovvero la diffusione in Italia delle leggende bre-
304
Epica italiana

toni e arturiane. Si è visto come esse, dal Duecento, circolino ormai in


quasi tutto il territorio della penisola, come testimoniano anche i nume-
rosi riferimenti ai loro personaggi e alle loro trame che si leggono nelle
opere di Dante, Petrarca e Boccaccio. All’iniziale sudditanza verso i mo-
delli che giungevano d’Oltralpe subentrano approcci sempre più auto-
nomi, che trovano la loro definitiva affermazione nell’ambito della co-
siddetta letteratura franco-veneta. Con questa etichetta si designa una
produzione caratterizzata dall’uso di una forma linguistica ibrida (che
mescola, in forme non omogenee, il francese medievale con i dialetti ve-
neti) diffusasi tra la metà del secolo XIII e l’inizio del XV nell’area pada-
na orientale, dove già dal Duecento era molto diffusa la presenza, sulle
pubbliche piazze, di cantastorie che raccontavano le vicende di Carlo Ma-
gno e dei suoi paladini. In questo contesto, dall’iniziale impiego della lin-
gua d’oïl si passò poi ad adottare – probabilmente per esigenze di com-
prensione da parte dei pubblici locali – quella singolare koiné nella qua-
le ci sono giunti diversi testi, tutti legati alla tradizione delle chansons de
geste, ripartibili grosso modo secondo tre fasi cronologiche. A un primo
periodo, che vede la realizzazione di redazioni abbastanza fedeli di ‘clas-
sici’ carolingi (primo fra tutti la Chanson de Roland), ne segue, dalla me-
tà del secolo XIII, un secondo, caratterizzato da trascrizioni più rielabo-
rate a livello linguistico e non solo, nelle quali una dimensione indivi-
duale e ‘borghese’ dell’agire degli eroi si sostituisce a quella collettiva e
feudale delle chansons, in contemporanea con l’ascesa di nuove realtà so-
ciali; infine, il terzo periodo vede, a partire dalla prima metà del Trecen-
to, la realizzazione di testi originali in versi e prosa, tra i quali spiccano
l’anonima Entrée d’Espagne (1320-1340 ca.), che racconta, in sedicimila
versi, gli antefatti di Roncisvalle, e la Guerra d’Attila (1358-1368) del no-
taio bolognese Nicola di Giovanni da Casola, che narra delle imprese
compiute contro il signore degli Unni da Foresto e dal figlio Acarino, im-
probabili antenati estensi con i quali si inaugura la tradizione dell’omag-
gio encomiastico alla casata degli Este (l’opera è infatti dedicata a Boni-
fazio Ariosti, zio di Aldobrandino III d’Este). Proprio questi ultimi, as-
sieme ad altri testi, rappresentano una «cerniera importante fra la pro-
duzione cavalleresca medievale in lingua d’oïl e le rielaborazioni toscane»
(Marco Villoresi, La letteratura cavalleresca. Dai cicli medioevali all’Ario-
sto, Roma, Carocci, 2000, p. 48) dalle quali fiorirà l’epica rinascimenta-
le. Anche se non sappiamo con certezza se questi testi siano effettivamente
finiti tra le mani di lettori come Pulci, Boiardo e Ariosto, in essi sono an-
ticipati molti elementi che saranno poi sviluppati nei capolavori di que-
sti autori, a cominciare da quello fatidico dell’intreccio armi-amori: que-
sto motivo, quasi ignoto negli esemplari carolingi transalpini (è attesta-
to solo in un paio di testi tardi), è presente invece nell’Entrée, e per di più
già in relazione al personaggio di Orlando che, nel corso delle sue pere-
305
Matteo Navone

grinazioni in Oriente, deve resistere, non senza difficoltà, alle lusinghe


della bella Dionés, figlia del sultano di Persia. Maggiore spazio dato alla
materia amorosa significa ovviamente maggior peso riconosciuto ai per-
sonaggi femminili, che incarnano qui tipologie di seduttrici pagane e ma-
ghe, come Dionés, o di donne fulcro di diverse avventure sentimentali
(come la Gardena dell’Attila, innamorata prima del condottiero unno e
poi attratta da Acarino), che non possono non far pensare già alle Ange-
liche, alle Alcine, alle Armide che popoleranno le pagine di Boiardo, Ario-
sto, Tasso e dei loro epigoni. Bisogna ovviamente esser cauti nel pro-
muovere questi poemi franco-veneti al rango di fonti, ma resta indiscu-
tibile il fatto che l’innesto di elementi bretoni e arturiani (cioè erotico-
avventurosi) nella materia carolingia comincia a realizzarsi in territorio
italiano ben prima del Boiardo, e che ben prima di Pulci e Ariosto auto-
ri come l’anonimo «Patavian» dell’Entrée compresero le potenzialità co-
miche e ironiche delle storie dei paladini di Francia.
Nel frattempo, il costume che vedeva i cosiddetti cantori in panca
recitare, nelle piazze cittadine, talvolta con accompagnamenti melodi-
ci, racconti in versi di vario soggetto davanti a folle sempre nutrite, si
era diffuso non solo nell’Italia nord-orientale, ma ormai un po’ in tut-
te le zone della penisola, alimentando la fortuna dei cosiddetti canta-
ri, come vengono designati i testi che erano recitati durante questi spet-
tacoli. Questa dei cantari fu certamente una produzione di consumo,
altamente codificata e senza troppe ambizioni artistiche (alle carenze
formali i canterini sopperivano del resto con le loro abilità performa-
tive), che ebbe però il merito di veicolare la diffusione, presso le mas-
se popolari, di temi narrativi che erano rimasti legati, fino a quel mo-
mento, a una circolazione per lo più elitaria e colta; metro prediletto
di questa letteratura fu l’ottava toscana, attestata già nel più antico can-
tare a noi noto, quello, anonimo, intitolato a Fiorio e Biancifiore – re-
datto entro il 1349 e conservato nel codice Magliabechiano VIII 1416
della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze –, che si contende or-
mai da anni con il Filostrato di Boccaccio il primato dell’invenzione
dell’ottava rima. Se l’origine di questo cantare appare con ogni proba-
bilità veneta, è piuttosto in Toscana che, sin dal Trecento, le letteratu-
ra canterina trovò il suo centro più importante, in un rapporto di con-
correnza, ma anche di reciproco interscambio, con il nord franco-ve-
neto. Toscano è, per esempio, il primo importante nome che emerge
dalla massa di anonimi compilatori di cantari, ovvero Antonio Pucci
(1310 ca.-1388), autore, tra l’altro, del Bruto di Brettagna e del Gi-
smirante (quest’ultimo composto da due cantari), entrambi di argo-
mento arturiano. Proprio le vicende bretoni sono quelle che, durante
il XIV secolo, sembrano incontrare il successo maggiore, mentre con
il XV è la materia carolingia – riorganizzata tra la fine del Trecento e il
306
Epica italiana

primo Quattrocento nei romanzi in prosa di Andrea da Barberino – a


conquistare decisamente il primato, con la produzione toscana che la
fa sempre da padrona: si pensi a testi come i celebri Cantari di Rinal-
do, dedicati al paladino noto per le intemperanze del suo carattere e
per le sue avventure amorose, che ne fecero uno dei personaggi di mag-
gior successo presso il pubblico, o ancora alla Spagna, nelle sue reda-
zioni ‘maggiore’ e ‘minore’, corrispondenti probabilmente a due can-
tari autonomi, incentrati l’uno sul famoso duello tra Orlando e Ferraù
e l’altro sulla rotta di Roncisvalle. Come testimonia però il Cantare dei
cantari – come viene chiamato questa sorta di repertorio versificato
della letteratura canterina, conservato in due manoscritti risalenti alla
prima metà del Quattrocento – i canterini non sfruttavano solo le vi-
cende degli eroi arturiani o francesi, ma anche, tra le altre, quelle trat-
te dalla storia e dalla mitologia antiche. È possibile infatti individua-
re, in questa caotica produzione, una sezione di cantari di argomento
classico, composti fra Tre e Quattrocento ancora soprattutto in Tosca-
na (o in altri territori dell’Italia centrale, come l’Umbria), tra i quali si
possono ricordare i Cantari della guerra di Troia, il volgarizzamento in
ottava rima della Pharsalia (dove però il poema di Lucano è mescola-
to con altre fonti medievali), il Cantare di Lucrezia e Collatino, i can-
tari di Piramo e Tisbe o ancora la Historia de Giasone e Medea. Si trat-
ta di testi per lo più di non grande valore, che rivestono in abiti caval-
leresco-cortesi materiali desunti, più o meno fedelmente, da autori la-
tini (Virgilio, Lucano, Ovidio), non sempre peraltro consultati sugli
originali, ma spesso su compilazioni di età medievale.

12.4. La materia orlandiana non fornì alimento solo alle performance


dei cantori di piazza: come inevitabile effetto del suo crescente succes-
so, tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento, tra la Firenze
medicea e la Ferrara estense, essa giunse nelle mani ben più abili e av-
vertite di poeti come Luigi Pulci, Matteo Maria Boiardo, Ludovico Ario-
sto, autori di diversa estrazione e cultura, ma egualmente pronti a crea-
re, dai tanti ‘ingredienti’ letterari a loro disposizione, un genere pro-
fondamente nuovo, che sa recuperare, quando necessario, la lezione clas-
sica, mantenendo però ben salde radici nelle forme più nuove della nar-
rativa medievale: i romanzi in prosa e in verso, i cantari, le opere fran-
co-venete. Non di epica semplicemente bisognerà dunque parlare, ma
di poema epico-cavalleresco (o romanzo cavalleresco), etichetta utile a
qualificare la più peculiare accezione con cui il modo epico appare de-
clinato nella nostra letteratura.
Prima di analizzare singolarmente i testi, vale allora la pena di getta-
re uno sguardo generale e introduttivo su questo genere, evidenziando
gli scarti che, a livello strutturale e contenutistico, ne marcano la distanza
307
Matteo Navone

dai poemi di Omero e Virgilio e dalle indicazioni della Poetica aristote-


lica. Com’è noto, nell’epos eroico antico il racconto riguarda general-
mente un’unica azione, narrata in maniera continuata e secondo una te-
leologia ben precisa, mai compromessa dalle necessarie parentesi episo-
diche; l’azione individua un eroe protagonista – pur affiancato da altri
personaggi – le cui imprese vengono cantate con uno stile sempre so-
lenne, che si impunta soprattutto nei momenti topici delle battaglie e
dei duelli, mentre il narratore deve evitare, ammonisce Aristotele (cfr.
Poetica, 1460a 5-10), di intervenire in prima persona nell’esposizione,
per non compromettere la tenuta della fictio.
Questi appena elencati sono ovviamente solo alcuni degli aspetti che
si possono estrarre dalla fisionomia dell’epica eroica classica, richiama-
ti inoltre in termini generali (senza soffermarsi cioè su casi particolari,
come quelli della Pharsalia o della Tebaide, che richiederebbero ulte-
riori precisazioni circa lo status dell’eroe protagonista e la compattezza
unitaria della struttura poematica), ma ciò che preme ora dimostrare è
che, se si cerca di ritrovarli in opere come il Morgante, l’Inamoramento
de Orlando o il Furioso, ci si accorge facilmente di come in esse il rac-
conto si articoli secondo moduli ben più liberi. Anzitutto, l’azione non
appare più unitaria: seguendo il precedente dei cantari, l’impianto die-
getico si costruisce per accumulo e accostamento di molteplici storie –
per lo più strutturate come venture e inchieste, derivate dall’aventure e
dalla quête dei romanzi arturiani, che vedono i paladini impegnati ad
affrontare prove di valore o a inseguire oggetti del desiderio variabili –
poste tutte al medesimo livello, e non più ridotte a semplici inserti epi-
sodici lungo un asse narrativo principale facilmente individuabile. Cer-
to, resta pur sempre un tessuto connettivo di base – le guerre di Carlo
Magno, la lotta contro gli infedeli – ma tale connessione appare più che
altro dovuta alla tradizione, e comunque non abbastanza forte per or-
dinare gli avvenimenti attorno a un evento centripeto forte. I fatti d’ar-
mi si svolgono in scenari che, grazie alle continue peregrinazioni degli
eroi, spaziano liberamente tra Francia, Italia e i vari luoghi dell’esotico
europeo e mediorientale – impostando così una dinamica sovrapposi-
zione tra gli archetipi epici della guerra e del viaggio, anch’essa ignota,
almeno in questa accezione, ai classici –, mentre sui fini unitari e cora-
li dell’epos omerico-virgiliano prevalgono molteplici esiti provvisori,
spesso individuali, che una volta conseguiti lasciano spazio all’insegui-
mento di nuovi traguardi, secondo un continuo rigenerarsi del racconto
potenzialmente iterabile all’infinito. Anche per i personaggi non si può
più parlare di un unico eroe protagonista: perfino il principe dei pala-
dini, Orlando, sia nel poema di Pulci che in quelli di Boiardo e Ario-
sto, è solo uno dei personaggi principali, costretto a dividere la scena
con un numero consistente di comprimari, cedendo magari a qualcu-
308
Epica italiana

no di essi, il preferito del pubblico, lo status di eponimo, come pare sia


accaduto per il titolo del Morgante. Questo policentrismo strutturale,
derivato certo in primo luogo dalle tradizione romanzesca medievale,
induce a pensare che almeno alcuni di questi autori (certamente Boiar-
do e Ariosto) possano aver guardato anche a un modello classico altro
rispetto alle epopee di Omero e Virgilio, ovvero le Metamorfosi di Ovi-
dio, esempio di epos mitologico (e summae di mitologia cavalleresca so-
no pur sempre questi poemi) costruito come un perpetuum carmen,
un’opera poetica di ampie dimensioni che non racconta una vicenda
unitaria. Va tuttavia subito precisato che, se si può legittimamente ipo-
tizzare una suggestione ovidiana a livello di disegno generale, diverso è
il discorso per quanto riguarda la tecnica costruttiva di queste opere,
dove vengono impiegati strumenti di collegamento tra i vari segmenti
narrativi sconosciuti a Ovidio, e di chiara matrice moderna. Più che
Pulci, sono soprattutto Boiardo e Ariosto a collegare le vicende dei lo-
ro poemi secondo la tecnica, di derivazione arturiana, dell’entrelace-
ment, l’intreccio molteplice: in sostanza, mentre sta seguendo l’avven-
tura di un cavaliere, il poeta può interrompere provvisoriamente il rac-
conto, lasciando in sospeso l’esito di un duello o il profilarsi di un nuo-
vo sviluppo della trama, con conseguente effetto suspense, per passare a
occuparsi di un’altra storia, e proseguire con questa serie di sospensio-
ni e riprese che, pur consentendo di saldare insieme molteplici fili nar-
rativi, rappresenta evidentemente un’opzione ben differente dal rac-
conto continuo, intervallato tutt’al più da qualche digressione, di un
Omero o un Virgilio.
Da questa varietà costitutiva dell’intreccio ne nasce quasi automati-
camente un’altra, quella dei personaggi, delle situazioni narrative, dei
racconti secondari, dei registri stilistici, derivati spesso da generi diver-
si, come la lirica o la novella, liberamente mescolati alla componente più
propriamente epica. Tra questi registri non manca un’ampia disponibi-
lità verso il comico che, seppur già contemplato episodicamente nell’e-
pica classica, conosce adesso, sulla scorta dei precedenti canterini, mag-
giore spazio e varie modalità espressive: se in autori come Pulci e Fo-
lengo prevalgono il burlesco e il grottesco, sovente connessi all’irruzio-
ne di squarci di realtà quotidiana e popolaresca, più articolate strategie
ironiche prendono invece corpo nel Furioso di Ariosto. Queste intona-
zioni, è bene chiarirlo, non danno mai luogo a esiti interamente paro-
dici nei confronti dell’epos tradizionale, o anche solo di quello cavalle-
resco, ma piuttosto arricchiscono il quadro di ulteriori sfumature, crea-
no contrasti di serio e faceto, figure di eroi che alternano imprese glo-
riose a burle e furfanterie; gli accenti eroici e tragici sono sempre pre-
senti, anche in Pulci e Folengo, semplicemente non si impongono in
maniera monocorde.
309
Matteo Navone

Un’ultima precisazione va fatta in rapporto al ruolo del narratore. Se


nell’epica classica l’autore resta tendenzialmente dietro le quinte del rac-
conto, affacciandosi solo occasionalmente, magari per manifestare, come
avviene in Virgilio, un coinvolgimento emotivo negli eventi narrati, nel
romanzo, e soprattutto nell’Inamoramento de Orlando e nel Furioso, il nar-
ratore si pone invece all’interno della rappresentazione. Boiardo e Ariosto
infatti, ispirandosi ai modi rapsodici dei cantori di piazza, penetrati nella
letteratura canterina, immaginano di recitare i loro versi davanti a un pub-
blico di dame, cavalieri e signori (che è poi quello della corte estense, pres-
so la quale si tenevano effettivamente pubbliche letture di questi poemi),
cui si rivolgono direttamente segnalandogli le svolte nell’intreccio e coin-
volgendolo in riflessioni su questioni di comportamento suggerite dalle
vicende dei personaggi. Si tratta di un modo di raccontare radicalmente
diverso da quello proprio dell’epos antico, che infrange l’illusione della fic-
tio poetica esibendo, anziché nascondendo, i meccanismi del narrare.

12.5. Un primo tentativo di rifunzionalizzazione del repertorio can-


terino, all’interno di un’opera destinata all’intrattenimento di un pub-
blico socialmente elevato e a un’immediata circolazione a stampa, è
quello rappresentato dal Morgante di Luigi Pulci. Iniziato probabil-
mente già all’inizio degli anni sessanta, in coincidenza con l’ingresso
del poeta all’interno della cerchia medicea, esso circolava in forma ma-
noscritta già dalla metà degli anni settanta, anche se in una versione che
non sappiamo quanto corrispondente a quella che noi oggi leggiamo;
di certo una prima redazione in ventitre cantari comparve a stampa pri-
ma del novembre 1478, mentre una successiva edizione (il cosiddetto
Morgante maggiore), che vede l’aggiunta dei cantari XXIV-XXVIII, fu
pubblicata nel 1483. La composizione dell’opera, protrattasi all’incir-
ca per un ventennio, fu incoraggiata da una congiunzione storico-po-
litica particolare: se la continua paura di un’invasione turca assicurava
in tutta Italia una costante fortuna del mito di Carlo Magno e dei suoi
paladini, eroici difensori della cristianità, nella Firenze laurenziana ta-
le culto era alimentato anche da ragioni di ordine politico – l’omaggio
all’alleata monarchia francese – e rientrava in un ben preciso program-
ma culturale, portato avanti dal governo mediceo attraverso l’organiz-
zazione di giostre e tornei e la commissione di opere letterarie. Tra i
poemi cavallereschi, oltre al Morgante – la cui stesura fu ispirata al Pul-
ci, come ammette il poeta stesso (cfr. XXVIII 2), da Lucrezia Torna-
buoni, madre di Lorenzo il Magnifico e protettrice del poeta – vanno
brevemente menzionati almeno il Ciriffo Calvaneo – al quale misero
mano in tre, Luca Pulci, fratello di Luigi, Luigi stesso e ancora il Giam-
bullari – che racconta una vicenda ambientata al tempo del figlio di
Carlo, Ludovico il Pio, e la Carlias di Ugolino Verino, poema in latino
310
Epica italiana

destinato al raffinato pubblico degli umanisti, dove il racconto della


guerra di Carlo contro i Longobardi di Desiderio si accompagna a for-
ti suggestioni virgiliane e dantesche, con tanto di catabasi del re dei
Franchi nei tre regni ultramondani.
Il racconto del Morgante non si discosta dalle consuetudini diege-
tiche della letteratura cavalleresca e canterina: partendo da uno spun-
to di sapore omerico – Orlando che, come Achille irato contro Aga-
mennone, abbandona la corte di Carlo per l’eccessiva accondiscen-
denza del sovrano verso Gano, imbattendosi subito in Morgante, gi-
gante neo-convertito al cristianesimo da un sogno, che diventerà suo
compagno di avventure –, Pulci inanella una serie di sequenze narra-
tive che vedono protagonisti anche altri paladini (Rinaldo, Ulivieri,
Ricciardetto, ecc.) e che appaiono per lo più giustapposte in succes-
sione le une alle altre più che intrecciate tra loro: quando un segmen-
to di storia si conclude, l’azione viene rimessa in moto attraverso espe-
dienti consueti – una nuova minaccia musulmana o l’ennesima mac-
chinazione di Gano – fino a giungere, nei cantari aggiunti nel 1483,
alla rotta di Roncisvalle, all’esecuzione di Gano e alla morte e apoteo-
si di Carlo. Pulci, per quanto riguarda sia l’articolazione della trama,
sia il recupero dei materiali narrativi, si rifece certamente molto da vi-
cino alla tradizione dei cantari, e, stando a ciò che egli stesso dichiara
(cfr. XIX 153) in particolare a un cantar d’Orlando che Pio Rajna, in
un suo articolo del 1869, credette di aver individuato all’interno del
codice Mediceo Palatino 78. Anche se la cronologia stabilita dallo stu-
dioso ottocentesco è stata recentemente rimessa in discussione dalla
critica (quello individuato dal Rajna sarebbe in realtà un testo d’età
laurenziana e non trecentesco, forse addirittura derivato dal poema
pulciano), è indubbio che la rilevanza del Morgante non consiste nel-
la novità della materia, ma nel modo in cui tale materia viene tratta-
ta, ovvero nella rivitalizzazione a cui Pulci sottopone i tradizionali ca-
novacci cavallereschi, arricchiti di un’intonazione comico-burchielle-
sca che certifica l’alto livello di consapevolezza letteraria di questa ope-
razione. Un tono propriamente epico è presente all’interno dell’ope-
ra, in stretto legame con l’esaltazione del valore e delle virtù degli eroi
cristiani, che raggiunge il culmine nella descrizione, nel cantare XXVII,
del martirio di Orlando e degli altri paladini a Roncisvalle. Ma il re-
gistro epico viene di continuo ravvivato da tutta una serie di contri-
buti burleschi, sovente collegati a personaggi ben precisi: Morgante
anzitutto, caratterizzato come un novello Ercole dalle cui spesso inge-
nue manifestazioni di forza scaturiscono effetti comici (si veda per es.
la scena in cui il gigante cerca di montare un malcapitato cavallo in I
67-69), e ancora il proto-picaresco Margutte, gigante mancato, la cui
celeberrima ‘professione di fede’ (cfr. XVIII 115-42) sostituisce alle
311
Matteo Navone

tradizionali virtù cristiane la gola, il gioco, il sesso, il furto, la miscre-


denza e ogni genere di inganno. Ma lo sguardo divertito dell’autore si
appunta anche sui cliché cavallereschi più istituzionalizzati – i fatti d’ar-
mi – non tanto con intenti pienamente parodistici, quanto con la vo-
lontà di abbassare ironicamente la solennità epica di duelli e battaglie,
variandone la resa narrativa rispetto alle monotone carneficine di pa-
gani tipiche dei cantari. Tale obiettivo viene conseguito con moltepli-
ci mezzi espressivi, dalle accese ingiurie che molti cavalieri si scam-
biano prima di incrociare le lance (cfr. l’alterco tra Berlinghieri e Mat-
tafolle in VIII 73-81) alle battute dei personaggi («Costui non vuol
che ’l mio caval più pasca: / veggo che lo guarrebbe dal restio» escla-
ma Orlando in I 27, a proposito di un masso scagliato da un gigante
che ha di poco mancato il suo destriero) o ai contrappunti ironici del
narratore – che rivolge quest’apostrofe ai Maganzesi di cui Berlinghieri
sta facendo strage:
Guardisi ognun dove col brando aggiunga,
ché le corazze parén di lasagne;
guarda che questa pecchia non ti punga:
lo scudo e l’arme tue sien le calcagne,
[…]
fuggitevi, ranocchi, ecco la biscia,
che fischia forte quando il brando striscia. (XXII 134)

Alla stessa finalità mirano i doppi sensi osceni (presenti anche nelle se-
quenze belliche, come nel combattimento tra paladini e Amazzoni in
XXII 165-70, tutto giocato sulla sovrapposizione tra scontro armato e
rapporto sessuale), le descrizioni di bevute, abbuffate, beffe di stampo
novellistico (come quella tesa da Malagigi a Orlando e Rinaldo nel can-
tare X, o quella portata a segno da Margutte ai danni dell’ostiere Dor-
mi nel XVIII), furfanterie varie cui neanche paladini come Rinaldo si
sottraggono, e ancora le tante metafore e similitudini che attingono di
preferenza a un repertorio quotidiano – proverbi, usanze e persino gio-
chi popolari – piuttosto che ai modi gravi e solenni più convenziona-
li nell’uso epico di queste figure. Anche negli ultimi cinque cantari –
pur più sorvegliati e stilisticamente sostenuti dei precedenti – risulta
chiaro come Pulci non ricerchi mai un’intonazione epica pura: così an-
che il racconto di Roncisvalle è intervallato da squarci comico-realisti-
ci (le feste e le danze con cui Lucifero e i diavoli festeggiano il gran nu-
mero di anime pagane che Orlando e compagni fanno precipitare agli
Inferi, in XXVII 54-55), mentre l’immagine del campo di battaglia
inondato di sangue viene resa, tra l’altro, mediante iperboli grottesca-
mente macabre:

312
Epica italiana

E Runcisvalle pareva un tegame


dove fussi di sangue un gran mortito,
di capi e di peducci e d’altro ossame
un certo guazzabuglio ribollito
[…]
La battaglia era tutta paonazza,
sì che il Mar Rosso pareva in travaglio,
ch’ognun per parer vivo si diguazza; (XXVII 56-57)

senza che si rinunci neanche in una simile cornice al riso


Terigi era rimasto per un piede
in terra avviluppato in certa stretta,
e il suo signore Orlando non lo vede,
sì che nel sangue si storce e gambetta
che pareva un tocchetto di lamprede. (XXVII 99)

E un contributo decisivo a tutto questo deriva, come si vede anche da-


gli esempi proposti, dalla straordinaria ricchezza linguistica del Mor-
gante, che mescola cadenze popolari e famigliari a latinismi e riprese scrit-
turali, dantesche e petrarchesche.

12.6. Se il Morgante, con le sue parentesi irriverenti (il credo di Mar-


gutte), i suoi disinvolti interventi in materia religiosa (la teologia messa
in bocca al diavolo Astarotte in XXV 136-67 e 232-44), le sue incaute
confessioni (in particolare quella dell’interesse per le pratiche magiche
e divinatorie di Cecco d’Ascoli in XXIV 112-13), risultò alquanto sgra-
dito sia a Marsilio Ficino – e alle figure a lui vicine, come il sacerdote
Matteo Franco –, sia al Savonarola, i quali, con la loro ostilità, fecero
perdere a Pulci il favore di Lorenzo e lo costrinsero a lasciare Firenze,
una ben diversa sorte arrise, presso i circoli intellettuali della Firenze lau-
renziana, ad Angelo Poliziano. Le sue Stanze ci interessano qui soprat-
tutto alla luce del particolare sottogenere in cui si inseriscono – o avreb-
bero dovuto inserirsi –, quello della giostra, ulteriore declinazione della
poesia cavalleresca praticata nella Firenze laurenziana. Si potrebbe dire
che questa tipologia di componimento astrae e dilata due luoghi topici
della materia epico-guerresca, il catalogo e il duello, costruendo una sor-
ta di cronaca in versi – opportunamente idealizzata – dei tornei orga-
nizzati nelle città dell’Italia rinascimentale, fotografati appunto nei mo-
menti della sfilata dei cavalieri partecipanti e delle varie singolar tenzo-
ni. Il motivo della giostra aveva del resto incontrato fortuna nell’ambi-
to della letteratura cavalleresca romanza fin dai suoi esordi, dapprima
come semplice momento narrativo, e poi come tema centrale di testi ap-
positamente composti per queste occasioni: in ambito italiano, pensia-
313
Matteo Navone

mo al passaggio dal Teseida di Boccaccio – dove la risoluzione della con-


tesa amorosa tra Arcita e Palemone viene affidata a un certame tra le
‘squadre’ guidate dai due amici/rivali – alle prime vere e proprie giostre
quattrocentesche, tra le quali spicca quella composta dal Pulci per cele-
brare la vittoria del giovane Lorenzo, futuro Magnifico, in un torneo fio-
rentino del 1469. Ma se Pulci si sofferma lungamente – e monotona-
mente – sulla descrizione degli stendardi, delle armature, dei cavalli e
sul resoconto dei singoli duelli, con qualche occasionale paragone tra i
giostranti ed eroi cavallereschi o classici come Orlando ed Ettore, ben
più complessa è la costruzione mitologico-allegorica (in direzione uma-
nistica e neoplatonica) orchestrata da Poliziano in onore della vittoria di
Giuliano de’ Medici, fratello minore di Lorenzo, nel torneo svoltosi in
Piazza Santa Croce il 29 gennaio 1475. Nel loro progetto originario le
Stanze – lasciate interrotte, secondo l’opinione critica prevalente, a se-
guito dell’uccisione di Giuliano nella congiura dei Pazzi del 1478 – do-
vevano probabilmente diventare un poemetto epico-cavalleresco incen-
trato sul percorso di ‘formazione’ dell’eroe Iulo (in cui è trasfigurato il
fratello di Lorenzo), giovane ribelle all’amore che, colto dalla vendetta
di Cupido, si innamora di una ninfa che si rivelerà in realtà essere Si-
monetta Cattaneo, per conquistare la quale, ispirato da un sogno invia-
togli per volontà di Venere, Iulo decide di prendere parte alla giostra.
Proprio a questo punto si interrompe il racconto, lasciando fuori tutta
la parte più propriamente marziale – che non sappiamo dunque come
Poliziano intendesse affrontare – e consegnandoci di fatto solo l’ampio
preambolo della vicenda, sviluppato con un evidente gusto del partico-
lare e della digressione, che rappresenta comunque un esito incompara-
bilmente superiore a quello di qualunque altra giostra precedente. Cer-
to, è innegabile che nelle Stanze, almeno così come noi oggi le leggia-
mo, manchi una componente propriamente epica, e che l’opera vada
piuttosto ricollegata «al genere del poemetto encomiastico, con ampi ex-
cursus mitologici e descrittivi, propri della latinità argentea» (Davide Puc-
cini, introduzione a Poliziano, Stanze Orfeo Rime, Milano 2000, p. XLIV);
è inoltre probabile che il registro epico non fosse particolarmente nelle
corde del Poliziano, come parrebbe confermare un altro suo lavoro in-
compiuto, la traduzione dell’Iliade, intrapresa attorno alla metà degli
anni settanta. Ciononostante, tale indubbia realtà testuale non impedi-
rà alle Stanze di costituire un punto di riferimento importantissimo – a
livello stilistico e non solo – per tutti i maggiori interpreti della succes-
siva letteratura cavalleresca, a cominciare da Ariosto e Tasso, in virtù for-
se anche di una convergenza che non va dimenticata. Anche Poliziano,
almeno a livello di intenti proemiali, dichiara la volontà di cantare gli
amori e le armi di Iulo,

314
Epica italiana

E se qua su la fama el ver rimbomba,


che la figlia di Leda, o sacro Achille,
poi che ’l corpo lasciasti intro la tomba,
t’accenda ancor d’amorose faville,
lascia tacer un po’ tuo maggior tromba
ch’i’ fo squillar per l’italiche ville
e tempra tu la cetra a’ nuovi carmi,
mentr’io canto l’amor di Iulio e l’armi (I 7)

all’insegna proprio di quel nesso caratterizzante della nostra tradizione


epica, riferito qui all’eroe guerriero per eccellenza, Achille, del quale si
ricordano le leggendarie nozze post mortem con Elena, mentre la «trom-
ba» che risuona per le «italiche ville» è un’allusione alla traduzione po-
lizianea dell’Iliade. Come avverrà, seppur in circostanze narrative diver-
se, nei poemi di Boiardo e Ariosto, l’amore viene presentato, nel libro
II, come la radice e la finalità primaria dell’ardore guerriero: Iulo parte-
ciperà alla giostra come campione di Amore (cfr. II 44), la sua «alta vit-
toria» (II 46) sarà sì conquista di gloria marziale, ma finalizzata a far
breccia nel cuore di Simonetta, vincendo ogni sua ritrosia. Un lessico e
un’iconografia epica (si veda anche il sogno inviato da Venere a Iulo in
II 28-34) sono così qua e là applicate a una vicenda sentimentale, an-
che se le Stanze – per rifarsi ancora all’invocazione proemiale ad Achil-
le – restano modulate sulla cetra della poesia amorosa piuttosto che sul-
la tromba di quella epica.

12.7. La fusione tra il motivo amoroso e quello guerresco trovò la sua


più matura formulazione nell’altro centro propulsivo della letteratura
cavalleresca italiana, quella Ferrara estense dove questo genere conobbe
la sua più laboriosa e duratura officina. Ferrara presentava tutte le cre-
denziali per garantire una tale fioritura, a cominciare ovviamente dal-
l’illuminata famiglia regnante, gli Este, che seppe creare attorno a sé una
delle corti culturalmente più avanzate d’Europa, attivissima in ogni am-
bito artistico, dalle arti figurative alla musica, e presso la quale il genere
poetico prediletto, assieme alla lirica, era proprio quello dell’epica ca-
valleresca. Fin dal Trecento i signori di Ferrara avevano raccolto, nella
loro biblioteca, testi francesi e franco-veneti, e la passione si era poi tra-
smessa a ferventi lettori e collezionisti come il duca Borso (1413-1471)
o la marchesa di Mantova Isabella d’Este (1474-1539), figlia di Ercole
I, successore di Borso. A Ferrara, inoltre, l’amore per la letteratura vol-
gare conviveva strettamente con un radicato culto per la classicità, ani-
mato non solo dall’università – rinata per impulso di Guarino Verone-
se (1370-1460), uno dei più importanti intellettuali del tempo, che qui
fondò la sua celebre scuola umanistica – ma anche dalla corte stessa che,
315
Matteo Navone

oltre ad attrarre, in sinergia con lo Studio, vari illustri umanisti, com-


missionava ai suoi poeti volgarizzamenti dei più importanti autori lati-
ni e greci: un’attività quest’ultima molto importante anche per le sue ri-
cadute sulla riforma del poema cavalleresco, visto che tra i traduttori più
attivi troviamo proprio Matteo Maria Boiardo.
Già autore di varie opere latine e volgari, Boiardo si dedicò, dalla me-
tà degli anni settanta (o forse già dalla seconda metà dei sessanta), alla ste-
sura dell’Inamoramento de Orlando (si utilizza qui questo titolo, diverso
da quello finora più diffuso di Orlando innamorato, accogliendo la pro-
posta della più recente edizione critica del poema, curata da Antonia Tis-
soni Benvenuti e Cristina Montagnani: Matteo M. Boiardo, L’inamora-
mento de Orlando, Milano-Napoli, Ricciardi, 1999, 2 voll.), dedicato al
duca Ercole I, i cui primi due libri, rispettivamente di ventinove e trentu-
no canti, uscirono a stampa nel 1483, mentre il terzo (rimasto incompiuto
al nono canto) comparve per la prima volta nel 1495. Al di là della sua fi-
nalità encomiastica, legata al personaggio di Ruggiero – valoroso guerrie-
ro musulmano discendente di Ettore, destinato, per amore di Bradaman-
te, a farsi cristiano e paladino di re Carlo, e a essere ucciso poi a tradi-
mento, non prima però di aver dato origine alla stirpe da cui fioriranno
gli Este – l’Inamoramento vale soprattutto come esempio di riformulazio-
ne di un genere popolare realizzata da un autore colto, che è sia un uma-
nista, sia un profondo conoscitore della letteratura volgare e romanza. Il
primo e fondamentale articolo di questa ‘riforma’ del poema cavalleresco
è arcinoto: Boiardo, nel riprendere per l’ennesima volta le imprese di Or-
lando e compagni, sceglie di offrire ai suoi lettori «cose diletose e nove» (I,
I 1), mescolando al tradizionale repertorio carolingio di battaglie e duelli
una serie di elementi tratti dal ciclo arturiano: avventure di cavalieri er-
ranti, magie e incanti di ogni sorta e, soprattutto, gli amori, inscindibil-
mente saldati alle armi. La passione boiardesca per le storie bretoni – con-
fessata dall’autore stesso, quando dichiara di preferire la «glorïosa Berta-
gna la grande», che ebbe «una stagion, per l’arme e per l’amore», alla cor-
te di Carlo, che «tiéne ad Amor chiuse le porte / e sol se dete ale bataglie
sante» (II, XVIII 1-2) – porta così alla cosiddetta ‘fusione’ tra i due più
importanti cicli della mitologia medievale, con tanto di trasferimento del-
l’arturiana «mensa ritonda» (I, I 13) alla corte dei Franchi che, a sua vol-
ta, con il suo sistema di valori cortesi, si offre come proiezione idealizzata
della corte ferrarese, prima destinataria dell’opera.
Questo intreccio armi-amori (che non era, come sappiamo, una no-
vità assoluta nella letteratura cavalleresca, trovandosi attestato già nei
poemi franco-veneti e in alcuni cantari, oltre che nel Teseida di Boc-
caccio, ristampato nel 1475 proprio in quel di Ferrara) costituisce un’in-
novazione molto forte in rapporto alla tradizione epica classica. In es-
sa infatti il tema amoroso, pur essendo presente sia in Omero (si pen-
316
Epica italiana

si all’episodio dell’incontro di Ettore e Andromaca nel VI dell’Iliade)


sia, in misura più ampia, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio e nel-
l’Eneide (senza dimenticare opere come le Metamorfosi di Ovidio, che
non appartengono però al filone propriamente eroico), non era mai ri-
uscito a conquistare un ruolo veramente centrale. Di norma l’amore (e,
conseguentemente, la figura della donna) si configurava come elemen-
to concorrente al tema delle armi, in quanto fonte di distrazione del-
l’eroe dal compimento della sua missione (vedi Enea e Didone), e dun-
que di una stasi della sua azione epica che doveva necessariamente es-
sere superata, restando così confinata in zone episodiche e ben delimi-
tate dei poemi. E anche quando l’amore aiutava il compimento della
missione (vedi Medea e Giasone), esso restava pur sempre una passio-
ne ‘secondaria’, vissuta esclusivamente dal punto di vista femminile ed
estranea al codice di comportamento eroico: erano Medea e Didone a
vivere tormenti sentimentali, non certo i loro rispettivi amati.
Nell’Inamoramento de Orlando questo rapporto di forze è completa-
mente stravolto. L’amore non è più un elemento di scarso rilievo nella
trama generale dell’opera, ma diventa anzi motore narrativo primario
della macchina poematica, messa in moto dall’arrivo di Angelica, prin-
cipessa orientale, alla corte di re Carlo, e dalla sua successiva fuga, che
scatena l’inseguimento da parte di Orlando, Rinaldo, Ferraù e degli al-
tri campioni cristiani e pagani innamoratisi di lei, inseguimento da cui
nascono molte delle peregrinazioni dei vari personaggi, seppur intrec-
ciate con altre linee d’azione, connesse prevalentemente alle guerre tra
il regno di Carlo e le forze saracene. Inoltre, amore e armi non sono più
semplicemente accostati in maniera oppositiva, ma diventano inestrica-
bilmente intrecciati: con la complicità determinante dell’ideologia cor-
tese, l’amore entra prepotentemente nel codice d’onore dei paladini ca-
rolingi, finora limitato, come quello dei loro antenati classici, alla di-
mostrazione del valore guerriero e alla conquista della gloria che ne de-
rivava, seppur con l’aggiunta della fedeltà al re e a Dio. L’amore non è
più una passione puramente femminea, ma è anzi la virtù che rende il
cavaliere perfetto, che lo sprona a dimostrare le sue abilità e a conqui-
stare la fama («Però ch’Amor è quel che dà la gloria / e che fa l’omo de-
gno et onorato; / Amor è quel che dona la vitoria, / e dona ardir al ca-
valier armato»; II, XVIII 3), e che viceversa punisce chi si dimostra re-
frattario a esso (si veda il supplizio cui Rinaldo è sottoposto da Amore
e dalle Grazie nel canto XV del libro II). Gli effetti di questo intreccio
si fanno evidenti nella trasformazione cui Boiardo sottopone il perso-
naggio di Orlando, annunciata fin dai primissimi versi («Non vi para,
signor, maraviglioso / odir contar de Orlando inamorato»; I, I 2) come
principale elemento di novità dell’opera. Forse ispirandosi all’Innamo-
ramento di Carlo Magno – poema edito a ridosso dell’Inamoramento de
317
Matteo Navone

Orlando, dove già il re dei Franchi cadeva vittima d’amore –, Boiardo


trasforma il paladino della tradizione, ligio al dovere e alle virtù cristia-
ne, in un eroe che vaga alla ricerca dell’amata, incurante dei suoi doversi
verso re Carlo. All’inizio, Orlando vive la sua passione con un dissidio
petrarchesco,
«Ahi pacio Orlando!» nel suo cor dicìa
«Comme te lassi a voglia traportare!
Non vedi tu lo error che te disvia
e tanto contra a Dio te fa fallare?
[…]
Or non mi vale forcia né lo ardire
contra de Amor, che m’ha già posto il freno,
né mi giova saper, né altrui consiglio,
che io vedo il meglio et al pegior m’apiglio» (I, I 30-31)

ma alla fine è l’invincibile forza d’amore che prevale, diventando la nuo-


va ragione del suo combattere, come confessa ad Agricane:
«Molte fiate son stato per onore
e per la fede mia sopra alla sella;
or sol per acquistar la bella dama
facio bataglia, e d’altro non ho brama!» (I, XVIII 48)

Non essendo più impermeabile alle umane debolezze, il personaggio of-


fre anche una serie di spunti comici, giocati sui ‘cortocircuiti’ che tal-
volta Boiardo crea tra il suo Orlando e quello tradizionale, come nella
celebre scena in cui l’eroe cerca di preservare il suo casto contegno non-
ostante i delicati massaggi di Angelica (cfr. I, XXV 39). Per di più, di
contro a questo Orlando preda d’amore e gelosia, troviamo un Rinaldo
molto più disciplinato di quello descritto dalla tradizione, Pulci com-
preso, e addirittura, almeno per una parte del racconto, insensibile al-
l’amore, anche se per effetto dell’acqua della fonte dell’odio. La suddet-
ta centralità del motivo sentimentale si esprime poi nell’identificazione
del leitmotiv principale del poema con una riflessione sull’amore, sulla
sua potenza e sulla sua fenomenologia, articolata attraverso la casistica
offerta dalle vicende narrate: basti pensare al reiterato espediente narra-
tivo delle due fontane – l’una che fa disinnamorare e odiare, frutto di
un incanto di Merlino, e l’altra che fa innamorare, frutto di natura (cfr.
I, III 32-38) – emblema di una concezione dell’amore come forza co-
smica e naturale, contrapposta all’innaturalità dell’odio.
Dai romanzi arturiani Boiardo ricava anche altri ingredienti del rac-
conto. In primo luogo la magia, perno di un meraviglioso popolato di
fate e negromanti, oggetti fatati e luoghi magici (spesso provvisti di si-
gnificati allegorici, come nel già ricordato caso delle due fontane dell’a-
318
Epica italiana

more e del disamore, o in quello della ventura di Orlando nel regno del-
la fata Morgana, personificazione della Fortuna), che arricchisce la tra-
ma con continui e fantasiosi sviluppi, facendo di questa componente –
che anche Ariosto importerà abbondantemente nel Furioso – uno degli
elementi più graditi al pubblico che decreterà il successo del romanzo
cavalleresco. In secondo luogo l’entrelacement, preziosissimo strumento
di regia narrativa che Boiardo riprende in maniera originale, sia sfrut-
tandolo abilmente per creare effetti di suspense, sia legandolo sempre agli
interventi della voce narrante, che segnala al suo pubblico i passaggi da
una storia all’altra, nel quadro di quella finta dimensione orale, connes-
sa alla maniera canterina, di cui si è detto (un esempio tra i tanti possi-
bili: «E lui [Rinaldo in balia di un mostro] lasciamo in quela gran pau-
ra, / ché bisogna che altrove io mi converta: / hor de una dama [Ange-
lica] lo amoroso caldo / contar convensi, e poi torno a Renaldo»; I, IX
1). L’uso dell’entrelacement impone ai personaggi percorsi non indiriz-
zati linearmente verso una meta, individuale o collettiva, ben definita,
ma segnati piuttosto dall’erranza, da un continuo precipitare in venture
(questo meccanismo, per cui il paladino di turno viene coinvolto, spes-
so per amore, in una vicenda avventurosa che prevede il superamento di
varie prove, prevale qui sulla più unificante inchiesta) che alimentano un
intreccio sempre pronto a rigenerarsi ogni volta che si esaurisce un filo-
ne narrativo. Tale struttura, pur nel suo policentrismo, appare comun-
que attentamente calibrata, e non priva di un disegno generale che solo
l’incompiutezza dell’opera ci impedisce di afferrare a pieno.
I temi magici e amorosi costituiscono solo un aspetto del raffinato
eclettismo che caratterizza l’Inamoramento, improntato a una docta va-
rietas (Villoresi, La letteratura… cit., p. 157) sulla quale può aver eserci-
tato un certo ascendente anche un’opera come le Metamorfosi ovidiane.
Boiardo integra le fonti romanzesche e volgari con una cospicua compa-
gine classica (Omero, Virgilio, Ovidio, Stazio e molti altri), introdotta
all’evidente scopo di variare e nobilitare i popolareschi materiali cavalle-
reschi, arricchiti anche dalla mescolanza di motivi di diversa provenien-
za e intonazione, che spaziano dal guerresco al lirico, dal comico all’alle-
gorico, dal bucolico all’orroroso, senza dimenticare gli inserti novellisti-
ci, modellati su racconti di Ovidio, Apuleio, Boccaccio. È presente ov-
viamente anche una misura epica, che contraddistingue episodi specifi-
ci, come i duelli tra Orlando e Agricane nel primo libro, anche se biso-
gna ammettere che Boiardo non dà il meglio di sé nelle scene di batta-
glia, spesso rese con monotone sequenze di armature infrante e lance spez-
zate. In generale, più che un registro propriamente epico, prevale un gu-
sto divertito di recuperare, per l’intrattenimento del proprio pubblico,
gli ingredienti tipici del genere cavalleresco, dai quali l’autore conserva
però un evidente distacco, lasciando non di rado intravedere un sorriso:
319
Matteo Navone

non mancano infatti spunti comici che abbassano lo status eroico dei per-
sonaggi, presentando, per esempio, un Orlando innamorato impacciato
o un Carlo Magno che inveisce trivialmente contro il nipote, che lo ha
abbandonato nel momento del bisogno (cfr. I, II 64-65).
L’Inamoramento de Orlando impresse una tale svolta al genere caval-
leresco da diventarne l’imprescindibile modello di riferimento per oltre
un ventennio, dall’ultimo decennio del Quattrocento agli anni venti del
Cinquecento. Tale centralità è manifestata dalla capacità dell’Inamora-
mento di generare continuazioni, emulazioni, e perfino riscritture, quel-
le di Francesco Berni e Ludovico Domenichi che, dagli anni quaranta
del Cinquecento fino all’Ottocento, finirono per eclissare il testo origi-
nale di Boiardo, pesantemente modificato da tutta una serie di ripuli-
ture linguistiche, aggiunte di personaggi e censure moralistiche. Il fe-
nomeno più interessante resta però quello delle ‘giunte’ all’Inamora-
mento: il capolavoro boiardesco non si limitò infatti a influenzare auto-
ri che seguivano altri filoni della narrativa cavalleresca (è il caso, ad esem-
pio, di Francesco Cieco da Ferrara e del suo Mambriano, del 1509, che
riprende l’Inamoramento sul piano della ricchezza intertestuale e degli
inserti novellistici, rifiutandone però altri aspetti, come l’esaltazione po-
sitiva dell’amore), ma attrasse anche una schiera di continuatori pronti
a colmare lo spazio bianco lasciato da Boiardo in coda al suo poema. Si
tratta di operazioni dettate certo da un mercato librario ansioso di trar-
re profitto dal successo dell’Inamoramento, e abbastanza spregiudicato
per accorpare poema e appendici spesso omettendo di specificare la di-
versa paternità di queste ultime; ma esse testimoniano anche come la ci-
clicità, quella capacità di originare circuiti di narrazioni dimostrata già
dai poemi omerici, si confermi caratteristica storica del genere epico an-
che nell’ambito della sua variante cavalleresca, tutta fondata, del resto,
su un continuo raccordarsi dei nuovi racconti con quelli preesistenti. Per
limitarsi adesso al caso specifico di Boiardo, tra il 1505 e il 1521 com-
parvero i tre libri aggiunti da Niccolò degli Agostini, il Quinto libro di
Raffaele Valcieco da Verona, continuazione del Quarto dell’Agonistini,
e il Sesto libro di Pierfrancesco de’ Conti, collegato al Quinto del Valcie-
co: opere per lo più dozzinali e scialbe, facilmente surclassate dall’unica
‘giunta’ capace di proseguire il percorso innovativo aperto dall’Inamo-
ramento, ovvero l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto.

12.8. Ariosto infatti, dopo aver messo da parte un primo tentativo


epico (l’Obizzeide, poemetto storico-encomiastico in terzine sulle gesta
di un antenato estense), già dal primo decennio del Cinquecento aveva
scelto di assolvere ai suoi doveri cortigiani verso gli Este proseguendo il
racconto di Boiardo, da cui recupera l’intreccio di materiali carolingi e
arturiani, la caratterizzazione di Orlando (sempre innamorato, assieme
320
Epica italiana

ad altri personaggi della saga, della sfuggente Angelica) e la rilevanza


conferita all’eroe dinastico Ruggiero. La prima edizione del Furioso, in
quaranta canti, esce a Ferrara nel 1516, ed è subito premiata da un con-
sistente successo di pubblico; a essa segue una seconda edizione (1521),
che presenta piccoli cambiamenti, per lo più di carattere linguistico, e
una terza (1532) – sulla quale si baserà il nostro discorso – che si di-
stingue abbastanza nettamente dalla prima per modifiche più sostan-
ziali, a livello sia contenutistico – l’aggiunta di quattro nuovi episodi,
che fanno crescere a quarantasei il numero totale dei canti, e ulteriori
aggiunte e soppressioni di singole ottave – sia formale, all’insegna di una
revisione, in direzione petrarchista, della lingua e dello stile del poema,
compiuta sotto l’ormai già autorevole guida di Pietro Bembo e delle sue
Prose della volgar lingua, del 1525.
L’Orlando furioso può trasmettere facilmente ai suoi lettori l’impres-
sione di un’opera dove l’invenzione prevale sulla costruzione, nella qua-
le cioè la fantasia dell’autore si esprime in un racconto che fluisce libero,
all’insegna del puro piacere del narrare. Si tratta, per l’appunto, di un’im-
pressione, che verrebbe quasi da ascrivere, per dirla con il Castiglione del
Cortegiano, a un caso di sprezzatura letteraria, di abile nascondimento del
notevole sforzo compositivo – protratto del resto per un trentennio – che
l’opera richiese al suo creatore. Il Furioso è in realtà un libro complesso a
più livelli, e anzitutto dal punto di vista della struttura narrativa, fonda-
ta su un sorprendente equilibrio tra romanzo ed epos.
Uno sguardo d’insieme alla trama, arduamente sintetizzabile, ci ri-
porta subito al primo di questi due domini. Molteplici sono i filoni nar-
rativi principali, coincidenti, oltre che con la solita guerra tra cristiani e
musulmani, con le storie dei personaggi di primo piano: Angelica anzi-
tutto, la cui fuga anche stavolta dà il la alla ‘sinfonia’ poematica, e poi
l’inchiesta di Orlando alla ricerca della principessa del Cataio e quelle re-
ciproche di Bradamante e di Ruggiero, tutte vicende intrecciate tra lo-
ro e con i movimenti di altre figure (tra cui Rinaldo, Astolfo, i pagani
Rodomonte e Mandricardo), oltre che con altre vicende secondarie, tra
cui non mancano sei novelle, introdotte alla maniera boiardesca. Anco-
ra policentrismo, ancora varietas di contenuti e registri
Signor, far mi convien come fa il buono
sonator sopra il suo instrumento arguto,
che spesso muta corda, e varia suono,
ricercando ora il grave, ora l’acuto, (VIII 29)

ancora un impasto dal sapore ovidiano, ma sempre con il fondamenta-


le discrimine dell’entrelacement e della suspense, utilizzate da Ariosto con
una maestria per certi versi prossima a quella dei linguaggi seriali odier-
321
Matteo Navone

ni. Il suo metodo narrativo (fortemente debitore di quello di Boiardo)


consiste, come egli stesso precisa in un celebre passo, nell’ordire «varie
fila a varie tele» (II 30), nell’alternare il racconto delle varie storie la-
sciando il lettore sospeso nei momenti di maggior tensione, differendo
così lo svelamento degli esiti e delle svolte decisive. Anche qui è sempre
la voce del narratore a governare la rete di interruzioni, intermissioni e
riprese, venendo in soccorso del pubblico con opportune ricapitolazio-
ni e accentuando, rispetto all’Inamoramento, l’esibizione metanarrativa
della sua funzione ‘registica’, talora legata a sprazzi ironici modernissi-
mi (l’autore che, in XII 66, viene sollecitato da un suo personaggio, Or-
lando, a tornare a occuparsi di lui).
Oltre all’entrelacement, il Furioso recupera anche un altro ingredien-
te tradizionale del romanzesco, la quête, declinata e moltiplicata dall’A-
riosto in una pluralità di inchieste individuali portate avanti dai perso-
naggi principali del poema, tutti alla ricerca di un oggetto del desiderio
(se non Angelica o il proprio innamorato, un’arma ambita, il proprio
cavallo, o altro ancora) che quasi mai riescono a raggiungere, o che con-
quistano solo provvisoriamente, disturbati dall’intervento di un altro
personaggio o coinvolti in un imprevisto volgere degli eventi. Nel Fu-
rioso infatti ogni inchiesta finisce per interferire con un’altra, e ogni per-
sonaggio entra in conflitto con i progetti e le mire degli altri, come av-
viene in alcuni luoghi chiave del poema, come la sequenza di incontri e
scontri tra Angelica, Rinaldo, Ferraù e Sacripante nella selva del c. I, o
l’intricato conflitto di desideri da cui nasce la serie di contese tra i vari
campioni pagani nel c. XXVII. Questi schemi, oltre ad assolvere a una
funzione diegetica, assurgono anche a un livello simbolico, rappresen-
tando l’esperienza umana come perpetuo inseguimento di oggetti illu-
sori e irraggiungibili (si pensi a un altro luogo emblematico del testo, il
palazzo di Atlante, dove gli eroi, vittime di un incanto, inseguono finti
simulacri di ciò che ricercano, specchio dell’umano desiderare come gab-
bia che imprigiona e offusca le capacità razionali), e ancora come regno
del discorde voler, formula utilizzata nell’incipit del c. II per designare l’a-
more non corrisposto di Rinaldo per Angelica, e che diventa regola uni-
versale di un mondo dove i sentimenti e le aspirazioni individuali ap-
paiono inconciliabilmente in conflitto tra loro.
Questo impianto aperto e polimorfo, tipicamente romanzesco, vie-
ne tuttavia sottoposto, nel Furioso, a un processo di ‘disciplinamento’
che certifica la complessità del progetto narrativo portato avanti da Ario-
sto. Tale ‘disciplinamento’ è garantito, in primo luogo, da una serie di
soluzioni strutturali che ordinano la materia del poema. Già la premi-
nenza data al meccanismo dell’inchiesta consente di conferire alle pere-
grinazioni dei personaggi principali un asse unificante, lungo il quale si
dispongono occasionali venture che non fanno mai perdere di vista agli
322
Epica italiana

eroi la ricerca dei loro oggetti del desiderio. Inoltre, nel passaggio dalla
prima alla terza edizione, Ariosto definisce meglio il ruolo nodale rico-
perto dalla caduta di Orlando nella follia. Collocato poco prima della
metà esatta dell’opera, alla fine del canto XXIII (nel primo Furioso si tro-
vava poco oltre la metà, alla fine del c. XXI), l’evento viene a segnare un
autentico spartiacque, esaurendo definitivamente quello che era stato fi-
no a questo momento lo spunto narrativo principale, che perdurava ad-
dirittura dall’Inamoramento de Orlando (la fuga di Angelica, con l’eroi-
na che, dopo un’ultima apparizione nel c. XXIX, esce definitivamente
di scena), inaugurandone di nuovi (le contese per le armi disseminate
dal paladino) e segnando l’ingresso nella seconda parte dell’opera, dove
i motivi avventuroso-romanzeschi lasciano sempre maggiore spazio a
quelli epico-guerreschi. Non mancano poi simmetrie e giustapposizio-
ni che istituiscono significativi parallelismi tra diverse parti dell’azione,
come avviene per le vicende dei due eroi, l’eponimo Orlando e l’enco-
miastico Ruggiero. Al di là delle più evidenti corrispondenze – il salva-
taggio di Olimpia dall’orca marina, compiuto da Orlando nel c. XI (rac-
conto questo aggiunto nel terzo Furioso) è una duplicazione variata del-
l’analogo episodio del c. X, che vede Angelica minacciata dallo stesso
mostro e soccorsa da Ruggiero – sono i percorsi dei due eroi a essere co-
struiti in maniera specularmente opposta. Entrambi attraversano mo-
menti di caduta, in cui un amore malriposto li porta a macchiare il lo-
ro decoro guerriero (Ruggiero ridotto a effeminato drudo della lussu-
riosa Alcina, Orlando reso pazzo dalla gelosia), recuperato solo grazie al-
l’ausilio di altri personaggi (Melissa e Logistilla nel primo caso, Astolfo
nel secondo); tuttavia, mentre il percorso più progressivamente virtuo-
so viene riservato al capostipite estense – che passa dal paganesimo al
cristianesimo e, soprattutto, dall’amore lussurioso (Alcina) alla conqui-
sta della virtù (Logistilla) e dell’amore consacrato e coniugale (Brada-
mante) – a Orlando tocca quello più alienante, segnato dall’allontana-
mento dai suoi doveri verso Dio e verso Carlo e dall’ossessivo insegui-
mento di una donna sorda ai suoi sentimenti, culminante nella degra-
dazione della follia e della bestialità.
Ma in questo processo di ordinamento e nobilitazione del genere
cavalleresco, Ariosto guarda soprattutto ai maestri latini, non recupe-
rando in toto le strutture dell’epica antica, ma comunque cercando di
ordinare le forme romanzesche entro argini di classica chiusura. Così,
il Furioso corregge lo schema ciclico del romanzo, fondato su un cir-
cuito di storie sempre aperto a continue ripartenze, cercando, nella sua
seconda metà, di chiudere i filoni narrativi principali – molti dei qua-
li ereditati, incompiuti, dall’Inamoramento de Orlando –, e dandosi co-
sì una forma che è sì variegata, ma comunque conclusa, dotata di una
sua compattezza e persino di una sua peculiare unità, rilevabile se si
323
Matteo Navone

guarda non alle singole fila dell’intreccio, ma alla tela, all’ordito strut-
turale del poema nel suo complesso (cfr., su questa parte, S. Zatti, Il
Furioso tra epos e romanzo, Lucca, Pacini Fazzi, 1990, pp. 9-37). A Or-
lando e Ruggiero, in particolare, spettano degli esiti che possiamo de-
finire epici: da un lato il paladino, recuperato il senno e liberatosi fi-
nalmente dell’amore per Angelica, può tornare ad assolvere ai suoi do-
veri di campione della cristianità, trascurati fin dalle prime pagine del-
l’Inamoramento («Ogni suo studio, ogni disio rivolse / a racquistar quan-
to già amor gli tolse», dice il poeta di lui rinsavito in XXXIX 61), gui-
dando l’espugnazione di Biserta (cc. XXXIX-XL) e partecipando alla
battaglia di Lipadusa (cc. XLI-XLII), che dà la vittoria definitiva ai cri-
stiani, ponendo fine alla guerra contro Agramante; dall’altro Ruggiero
accetta la conversione e il battesimo e, superato l’ultimo ostacolo (Bra-
damante promessa dai genitori a Leone), sposa l’amata realizzando il
suo destino dinastico. Seppure non si possa ancora parlare di un fina-
le epico di respiro unitario e collettivo, gli esiti delle vicende di Orlan-
do e Ruggiero – entrambi prescritti dalla provvidenza divina – per-
mettono di rintracciare nell’opera una teleologia che ordina almeno una
parte dei fatti narrati: gli errori romanzeschi dei due eroi, gli impedi-
menti vari (come gli interventi del mago Atlante), le avventure colle-
gate di altri personaggi (il viaggio di Astolfo sulla luna, concesso da Dio
per far sì che Orlando recuperi il senno: cfr. XXXIV 67) si configura-
no sì come digressioni, ma collegate a un asse narrativo che procede in
una direzione ben determinata. Ariosto realizza ciò che ancora manca-
va in Boiardo (al quale va però sempre riconosciuta l’attenuante del-
l’incompiutezza, visto che è alquanto probabile che il finale nuziale di
Ruggiero fosse già previsto nel suo disegno encomiastico): accoglie le
divagazioni richieste dal codice romanzesco, utilizzandole (si ripete, in
parte) come dilazioni del realizzarsi di finali epici, anticipando in nuce
una soluzione che Tasso svilupperà ulteriormente. Anche la Liberata in-
fatti recupererà l’apporto del romanzesco, seppur all’interno di una
struttura più compatta, affidandogli una funzione ‘ritardante’ rispetto
alla conclusione della vicenda epica; e non appaia peregrina questa bre-
ve proiezione verso la Liberata, visto che lo stesso Tasso, nell’Apologia
in difesa della ‘Gerusalemme liberata’, riconoscerà, pur imputandoglie-
lo a difetto, che Ariosto «s’assomigliò a gli epici molto più degli altri
che avevano scritto [romanzi] innanzi», definendo il Furioso «animal
d’incerta natura e mezzo» tra l’epos e il romanzo.
A questo va aggiunto che tutta la seconda metà del poema presenta
un progressivo intensificarsi di una fisionomia epica, con la componen-
te guerriera (e dunque carolingia) che acquista sempre maggiore spazio
rispetto a quella bretone-avventurosa prevalente nei primi canti, tanto
che si assiste anche a un notevole diradamento dell’impiego dell’entre-
324
Epica italiana

lacement. Il tema delle armi è in effetti presente in tutta l’opera, accom-


pagnato a riferimenti alla realtà storica contingente, che fanno spesso
della guerra narrata uno specchio di quella reale, come avviene nell’in-
cipit del c. XIV, che accosta la battaglia di Ravenna (1512) a una vitto-
ria dei Saraceni, entrambe contrassegnate da troppe perdite. Quello che
cambia però, nella seconda parte, è il modo in cui l’autore tratta la ma-
teria bellica. Nella prima grande sequenza di battaglia – l’assalto sarace-
no a Parigi che si apre col c. XIV – la generale tragicità della scena, che
culmina nella violenza cieca di Rodomonte che
non riguarda né al servo né al signore,
né al giusto ha più pietà ch’al peccatore.
Religïon non giova al sacerdote,
né la innocenzia al pargoletto giova:
per sereni occhi o per vermiglie gote
mercé né donna né donzella truova
[…]
Non pur nel sangue uman l’ira si stende
de l’empio re, capo e signor degli empi,
ma contra i tetti ancor, sì che n’incende
le belle case e i profanati tempî, (XVI 24-26)

è inframmezzata da inserti comici di ascendenza canterina e pulciana (il


particolare del cavallo che «riferì in mente sua grazie a Rinaldo» che lo
aveva liberato della «grave salma» del suo cavaliere pagano; cfr. XVI 48).
Passando alla seconda parte, questa commistione di toni viene meno, e
i racconti di duelli e battaglie si fanno via via più tesi e drammatici, co-
me mostrano bene la disfida risolutrice di Lipadusa e il duello conclu-
sivo tra Ruggiero e Rodomonte.
Le ambizioni epiche presenti nel Furioso vanno ovviamente ricolle-
gate anche alla finalità encomiastica del poema. Con il suo Orlando,
Ariosto realizza l’intento, manifesto fin dai tempi dell’Obizzeide, di pro-
porsi come novello Virgilio, cantore della fama della nuova gens Iulia,
gli Este, e del nuovo Augusto, il cardinale Ippolito, fratello del duca Al-
fonso e dedicatario del Furioso, esplicitamente equiparato al primo im-
peratore romano in III 56, passo che, nell’edizione 1516, suggeriva tra
le righe l’auto-investitura di Ariosto quale Virgilio estense: «A la cui bel-
la etade [quella di Ippolito] era più giusto / che nascesse Maron che sot-
to Augusto». Non a caso, nell’Eneide trovano notoriamente la loro ra-
dice diversi passaggi ed episodi del Furioso, come Astolfo trasformato in
mirto come Polidoro, o ancora la sortita notturna di Cloridano e Me-
doro, ‘emuli’ di Eurialo e Niso. I prelievi si fanno ancor più rilevanti
nelle vicende relative a Ruggiero e Bradamante, che condividono tra l’al-
tro con Enea l’origine troiana (cfr. III 17): il duello finale tra Ruggiero
325
Matteo Navone

e Rodomonte è modellato su quello tra Enea e Turno, mentre dal sesto


dell’Eneide deriva la rassegna degli spiriti dei futuri estensi fatta da Me-
lissa a Bradamante nel terzo del Furioso, che pur segue una modalità –
la convocazione delle anime alla presenza del destinatario della visione,
che non entra nel mondo dei morti – che ricorda più da vicino la né-
kuia dell’Odissea. E va anche brevemente osservato come Ariosto tratti
in maniera singolare questa sua ‘catabasi’, sia dislocandola dalla sua tra-
dizionale posizione centrale (dove pone invece, come si è visto, la ‘cata-
strofe’ della pazzia di Orlando) alla periferia iniziale del testo, sia relati-
vizzandola attraverso il vero viaggio ultraterreno del poema, quello, sta-
volta dantesco, di Astolfo (cfr. cc. XXXIV-XXXV). Il paladino – asceso
a cavallo dell’ippogrifo dall’Inferno al Paradiso Terrestre e di qui, con la
guida di San Giovanni Evangelista, alla Luna, dove recupera il senno di
Orlando – ascolta, durante il suo viaggio nel regno lunare, il discorso
del santo sui poeti cigni, la cui autentica poesia è l’unica capace di eter-
nare la fama dei signori cui tributa i suoi elogi. Il discorso rientra nel-
l’ambito della riflessione ariostesca sul rapporto tra poesia e potere, e
vuole anzitutto essere una rampogna contro i principi moderni che, in-
capaci di riconoscere la vera arte, si circondano di poeti-corvi, meri adu-
latori per interesse, il cui canto nulla può eternare. Ma l’ironia dell’au-
tore sottolinea anche il potere della poesia di alterare la realtà, qualità
fondamentale per l’attuazione dell’‘inganno’ encomiastico:
Non sì pietoso Enea, né forte Achille
fu, come è fama, né sì fiero Ettorre;
[...]
Non fu sì santo né benigno Augusto
come la tuba di Virgilio suona.
L’aver avuto in poesia buon gusto
la proscrizion iniqua gli perdona. (XXXV 25-26)

Questi versi – che, non a caso, chiamano in causa, tra gli altri, proprio
Virgilio – gettano un’ombra scherzosa e, al tempo stesso, maliziosa su
tutti gli elogi estensi contenuti nell’opera, dalla vicina profezia su Ippo-
lito d’Este (cfr. XXXV 4-9) alla genealogia inclusa, appunto, nella ‘ca-
tabasi’ del c. III.
Nel variegato quadro del Furioso, Ariosto riesce anche – riprenden-
do ed enfatizzando modalità narrative già impiegate da Boiardo – a ri-
tagliarsi una fisionomia del tutto particolare di narratore epico, che as-
sume il profilo di un vero e proprio personaggio interno al testo, i cui
interventi vengono a costituire un altro dei principali garanti della co-
esione dell’opera. Si è già detto come alcuni di questi di interventi ab-
biano finalità ‘di servizio’, connesse alla gestione dell’intreccio, ma an-
che a un voluto svelamento della natura fittizia delle storie narrate, re-
326
Epica italiana

cuperando in questo anche modi ovidiani (cfr. Maria Cristina Cabani,


Ovidio e Ariosto: leggerezza e disincanto, «Italianistica», 2008, 3, pp. 13-
42). Ma se si può parlare di un ironico distacco dell’Ariosto da ogni vo-
lontà di preservare una salda tenuta dell’illusione letteraria, differente è
il suo atteggiamento nei confronti del mondo che ci rappresenta, verso
il quale dimostra anzi, accanto ai toni giocosi, singolari forme di com-
partecipazione, come quando si presenta, al pari del suo Orlando, pe-
trarchescamente soggetto alla potenza d’amore:
Che non può far d’un cor ch’abbia suggetto
questo crudele e traditore Amore,
poi ch’ad Orlando può levar del petto
la tanta fé che debbe al suo signore?
[…]
Ma l’escuso io pur troppo, e mi rallegro
nel mio difetto aver compagno tale;
ch’anch’io sono al mio ben languido et egro,
sano e gagliardo a seguitare il male. (IX 1-2)

Un gioco di specchi che accentua l’umanizzazione del personaggio – co-


mune peraltro a tutti gli eroi del Furioso, distanti da ogni idealizzazio-
ne, e sempre pronti a mostrare umane debolezze –, ma che rivela anche
quella presenza interna dell’autore di cui si diceva; ritagliandosi spazi di
commento e riflessione sulle vicende narrate, nei celebri esordi o all’in-
terno dei canti, Ariosto non si propone come superiore dispensatore di
lezioni morali, ma si pone al fianco dei personaggi e della loro fallibili-
tà, mettendo in relazione la fictio con la sua esperienza individuale, e in-
vitando implicitamente i lettori a fare altrettanto. Alcuni di questi in-
terventi ritagliano nel corpo del poema quasi una sorta di trattato sul-
l’amore, che si misura con le varie questioni connesse al tema (gelosia,
fedeltà femminile e maschile, incostanza dei giovani amanti), spesso sce-
neggiando diverse posizioni, senza mai imporre soluzioni univoche: co-
sì per esempio, sul tema ricorrente della fedeltà muliebre, Ariosto dà vo-
ce all’invettiva di Rodomonte, abbandonato da Doralice, contro il fe-
minile ingegno (cfr. XXVII 117-21), ma ne prende poi le distanze, an-
che se maliziosamente («Se ben di quante io n’abbia fin qui amate, / non
n’abbia mai trovata una fedele, / perfide tutte io non vo’ dir né ingrate,
/ ma darne colpa al mio destin crudele»: XXVII 123), offrendo nel rac-
conto esempi di volubilità (Angelica, Doralice) ma anche di devozione
e onestà tradita (Olimpia, Isabella). In questo e in tanti altri casi simili,
la voce dell’autore, per quanto pronunciata spesso col sorriso sulle lab-
bra, ci restituisce un punto di vista insolito per l’epica, che è, almeno in
linea di massima, il genere dei valori e degli ideali assoluti. Il Furioso por-
ta avanti tra le righe una riflessione più complessa, in stretto dialogo con
327
Matteo Navone

i fermenti culturali coevi (anzitutto Erasmo da Rotterdam), che esplo-


ra l’esperienza «nella sua pluralità, in una prospettiva conoscitiva che
non punta a capire l’assoluto della natura umana e della realtà del mon-
do, ma a interrogarsi sulle forme che essa di volta in volta assume» (S.
Jossa, Ariosto, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 126). Di fronte alle molte-
plici sfaccettature del reale, cade ogni verità, ogni criterio etico che si
pretenda assoluto e sempre valido, mentre resta l’unica opzione di sce-
gliere e misurare comportamenti e giudizi caso per caso, sempre consa-
pevoli dell’inestricabile e necessario laccio che unisce tra loro verità e
menzogna, bene e male.
Nell’orbita del Furioso gravita però anche un abbozzo distante da que-
sta complessità, quello, enigmatico, dei cosiddetti Cinque canti ritrova-
ti tra le carte del poeta e pubblicati postumi nel 1545, in coda a un’e-
dizione aldina del poema. Gli studiosi ancora oggi si interrogano se es-
si, composti probabilmente dopo la seconda edizione dell’Orlando, va-
dano interpretati come una giunta al Furioso, oppure come l’inizio di
una nuova opera rimasta interrotta. Certo le differenze rispetto al poe-
ma maggiore sono molte: il narratore rinuncia quasi completamente ai
suoi interventi ironici e metaletterari, mentre il racconto mette da par-
te l’entrelacement per compattarsi attorno a un unico filo narrativo, in-
centrato sulla nefasta alleanza tra Alcina e Gano, che cercano di di-
struggere l’impero di Carlo scatenandogli contro una quantità impres-
sionate di eserciti nemici (tra cui, oltre ai soliti infedeli, i Longobardi di
Desiderio) e seminando discordie tra i suoi paladini. Prevale in questi
canti la visione cupa e pessimistica di un mondo in disfacimento, con
l’impero cristiano di Carlo travolto da guerre e divisioni interne (in con-
troluce traspaiono l’Italia e l’Europa del tempo di Ariosto, percorse da
conflitti e scismi religiosi), mentre i valori cavallereschi sembrano ormai
al tramonto, come testimonia icasticamente l’immagine finale dell’eser-
cito carolingio sconfitto e in fuga che travolge lo stesso Carlo, facendo-
lo precipitare in un fiume, senza che nessuno
si fermi a darli aiuto;
[…]
quivi la cortesia, la caritade,
amor, rispetto, beneficio avuto,
o s’altro si può dire, è tutto messo
da parte, e sol ciascun pensa a se stesso. (V 92)

Il racconto si interrompe subito dopo, riferendo di come il sovrano ven-


ga infine tratto in salvo dal suo cavallo: non sappiamo quali sviluppi nar-
rativi dovessero far seguito a questa disfatta, ma resta la testimonianza di
un singolare esperimento che propone un’epica più compatta di quella
del Furioso, che tuttavia non è anticipo dell’epos tassiano, ma semmai re-
328
Epica italiana

cupero del romanzo carolingio pre-boiardesco e pulciano – come testi-


moniano vari aspetti, tra cui la rinnovata centralità delle trame di Gano,
messe da parte nell’Inamoramento e nel Furioso –, mentre tra le ascendenze
classiche si distingue l’epos della guerra civile di Lucano e Claudiano.
I Cinque canti, qualunque fosse la loro destinazione, restano un dis-
corso a parte: il loro tetro pessimismo sarà superato dallo sguardo più
fiducioso del terzo Furioso, che ben presto si sostituisce all’Inamoramento
come modello principe del genere cavalleresco, tanto che quella che era
nata come una ‘giunta’ al capolavoro boiardesco originerà a sua volta un
ciclo, costituito da opere come il Sacripante di Lodovico Dolce (1536),
le Lagrime d’Angelica di Pietro Aretino (1538) e l’Angelica innamorata
di Vincenzo Brusantini (1550; su queste opere cfr. Ulrich Leo, Angeli-
ca ed i «migliori plettri». Appunti allo stile della Controriforma, Krefeld,
Sherpe, 1953). Ma il Furioso, proprio per questa sua centralità, diven-
terà oggetto non solo di ammirazione, ma anche di discussioni e criti-
che, soprattutto da parte di quella cultura di metà Cinquecento che di-
chiarerà esaurita l’esperienza del romanzo cavalleresco, spingendo l’epi-
ca italiana in una nuova direzione.

12.9. Il genere cavalleresco conosce un’ulteriore formulazione nel-


l’opera di Teofilo Folengo, che per primo declina in forme epiche quel-
la poesia macaronica (fondata cioè sull’impiego di una lingua ibrida, il
macaronico appunto, coniata dai goliardi padovani di fine Quattrocen-
to mescolando latino e volgare) che vantava già una tradizione lettera-
ria abbastanza nutrita, inaugurata dalla Macaronea di Tifi Odasi. Due
sono i testi dell’Opus macaronicum (ovvero la raccolta degli scritti ma-
caronici folenghiani, edita per la prima volta nel 1517, e poi incessan-
temente rivista e ripubblicata) coinvolti in questa operazione: la Mo-
schaea, poemetto eroicomico in distici elegiaci (inserito nell’Opus dal-
l’edizione 1521) che riprende dalla Batracomiomachia pseudo-omerica
l’idea di narrare con stile solenne un’inverosimile guerra tra animali (qui
formiche e mosche), e soprattutto il Baldus (presente fin dalla stampa
del ’17), che si connette più da vicino al genere cavalleresco, unendo al-
la fresca lettura del Furioso la memoria dei cantari.
L’approccio di Folengo è però diverso da quello di Boiardo e Ario-
sto: l’intento qui non è più quello di nobilitare culturalmente un gene-
re popolare, ma semmai di perseguire quel divertito contrasto tra alto e
basso che è caratteristica programmatica della poesia macaronica. Nel
Baldus, Folengo mescola così la struttura e la veste esteriore del nobile
esametro virgiliano con volgarismi sintattici e lessicali (questi ultimi non
di rado di carattere osceno), e l’eroismo cavalleresco con il registro bur-
lesco e con l’apertura alla realtà popolare, descritta con scherno nei suoi
tratti più crudi e materiali, tenendo nel mirino obbiettivi satirici ben
329
Matteo Navone

precisi (il mondo contadino, ritratto con divertito distacco, ma anche i


governanti di provincia, e un clero ridotto a una massa di truffatori e
crapuloni). Una compresenza, insomma, di serio e faceto, con la secon-
da componente che, come nel Morgante, non determina una parodia ge-
neralizzata della prima, ma solo, tutt’al più, localizzati effetti umoristi-
ci, come nel caso dei tanti, deformanti calchi macaronici di versi di Vir-
gilio o di altri autori latini che si riconoscono nel testo.
L’impianto del Baldus non è a entrelacement, e anzi il poema dimo-
stra una certa linearità di sviluppo data dalla parabola del protagonista
eponimo (la cui centralità non è però assoluta, visto che è assente nei
primi due canti, incentrati sui suoi genitori Guidone e Baldovina, e che
nei libri VI-X il vero protagonista è Cingar, fraterno amico di Baldo),
di cui Folengo si propone di tracciare il cammino di formazione dal-
l’eroismo scapestrato e teppistico dei primi libri a quello più maturo
dell’ultima parte dell’opera, indirizzato alla lotta contro le forze stre-
gonesche e demoniache. La mescolanza di cui si diceva è già evidente
in relazione alla sua figura: già dalle prime prove infantili, Baldo sta al-
la pari di un Orlando o un Rinaldo – personaggi cui è spesso equipa-
rato, e delle cui imprese è appassionato lettore (cfr. III 94-116) – per
perfezione corporea, coraggio, facilità nello sbaragliare i nemici. Tutta-
via, almeno nella prima parte dell’opera (libri I-XI), il suo eroismo non
si manifesta negli scenari magici ed esotici dei paladini di Pulci, Boiar-
do e Ariosto, ma nella realtà ristretta e contadina di Mantova e del vi-
cino borgo di Cipada, né si esprime in grandi imprese, ma in braverie
e contese con i potenti locali: si tratta delle strategie tipiche del burle-
sco, che degradano entro contesti narrativi e forme stilistiche ‘basse’
una materia di per sé alta (in questo caso, quella cavalleresca). Anche i
personaggi che fanno parte della brigata di Baldo rispecchiano la me-
scidanza di livello alto e ludico: se il prode e sventurato Leonardo in-
carna l’ideale del cavaliere puro e perfetto, cui tende, in fondo, anche
il più grezzo Baldo – che, non a caso, resta fortemente affascinato dal
giovane, piangendone la morte, causata da un incantesimo della maga
Pandraga, con accenti autenticamente drammatici (cfr. XVII 628-714)
– decisamente più alternativo a quel modello è il pulciano Cingar, del
quale non a caso si dice che «suam duxit Margutti a semine razzam» (IV
129). Come Margutte, Cingar è ladro e truffatore, ma ha anche una
sua etica, fondata su una lealtà assoluta verso i compagni e, soprattut-
to, verso Baldo; quando quest’ultimo è incarcerato, Cingar lo vendica
e lo libera in maniera ‘anti-epica’, contando più sulla sua scaltrezza di
eroe da strada che non sulla forza, tanto che, nei citati libri VI-X a lui
dedicati, la burla e la beffa prendono il posto dei fatti d’armi. Come in
Pulci, questi diversi codici di comportamento possono tranquillamen-
te convivere tra loro, quasi a suggerire una necessaria complementari-
330
Epica italiana

tà: Baldo può essere sodale tanto di Leonardo che di Cingar (e dei suoi
altri compagni pulciani, il gigante Fracasso e il mezz’uomo e mezzo ca-
ne Falchetto), come Morgante poteva accompagnarsi tanto al santo Or-
lando che allo scampaforca Margutte.
Non solo le consuetudini del cavalleresco, ma anche alcuni motivi
dell’epos antico vengono rivisitati nel Baldus, a cominciare dall’invoca-
zione iniziale alle muse, qui trasformate nelle «pancificae […] Musae» (I
13) intente a cucinare – nel loro Parnaso alternativo, fatto di fiumi di
brodo e laghi di zuppa, in cui si pescano gnocchi e salsicce – cibi sem-
plici ma gustosi (cfr. I 17-61) con cui alimentare il «pancificum […] poë-
tam» (I 63), che a sua volta predilige la popolaresca ma saporita mistu-
ra della poesia macaronica (la metafora culinaria è, fin dal nome, carat-
teristica di questa produzione poetica) all’insipido e monotono registro
aulico delle Muse ufficiali. Un altro tópos, quello della catabasi, conosce
un imprevedibile sviluppo nel finale del poema, nella cui seconda par-
te (libri XII-XXV), la scena si sposta dal mantovano a luoghi fantastici,
percorsi da un meraviglioso virato stavolta in direzione demoniaca, po-
polato da streghe e diavoli che Baldo e compagni combattono appunto
fin dentro l’Inferno, trovando finalmente uno scopo più alto per le lo-
ro imprese. In un contesto di epica seria, l’impresa della discesa agli in-
feri avrebbe dovuto completare la crescita eroica di Baldo, rendendolo
cosciente della sua missione, la sconfitta delle forze del male. Tuttavia,
la catabasi abdica qui ai suoi compiti istituzionali: nel loro viaggio infe-
ro, gli eroi giungono prima nella domus Phantasiae (cfr. XXV 476-579),
dove tutti tranne Baldo sono resi folli, preda di deliri sofistici che vo-
gliono satireggiare la filosofia scolastica, e poi in una gigantesca zucca
(XXV 580-641), dove sono puniti in eterno per le loro menzogne astro-
logi e poeti. Tra questi si pone lo stesso autore (celato sotto lo pseudo-
nimo di Merlin Cocai, con cui Folengo firma i suoi lavori macaronici),
che interrompe la narrazione e si congeda dal suo eroe, affidando alla
penna di un altro cantore il prosieguo delle sue gesta nel regno di Luci-
fero, di cui è comunque rivelato l’ovvio lieto esito, il ritorno san salvum
di Baldo nel mondo dei vivi (XXV 642-58). Il trionfo di Baldo sul re-
gno del male assoluto, evento potenzialmente foriero di importanti im-
plicazioni (l’inizio di una generale renovatio?), doveva probabilmente ap-
parire a Folengo un tema troppo sublime per la sua semplice penna ma-
caronica. Così la catabasi stavolta non illumina il destino dell’eroe con
un disegno profetico e provvidenziale, ma contiene semmai una diver-
tita riflessione allegorica che presenta, ambiguamente, la poesia come
un qualcosa di lieve e vano, paragonabile appunto a una zucca vuota al-
l’interno, e al tempo stesso riduce il poeta a un buffone, un matto, un
tessitore di menzogne; e nel mirino sembra esserci soprattutto la poesia
epica, con Omero e Virgilio anch’essi inseriti idealmente nella zucca:
331
Matteo Navone

non mihi conveniens minus est habitatio zucchae


quam qui grechettum quendam praeponit Achillem
forzibus hectoris;quam qui alti pectora Turni
spezzat per dominum Aeneam, quem carmine laudat
moeonia mentum mitra crinemque madentem. (XXV 644-48)

Un ultimo abbassamento macaronico di ogni istituzionale celebrazione


della poesia, che chiama in causa, in primo luogo, il suo genere più al-
tisonante. Ma questo «si è giocato e si è scherzato, non prendiamoci trop-
po sul serio», esclamato a conclusione dell’opera, lascia il legittimo so-
spetto di un Folengo che strizza l’occhio, ben conscio, in primo luogo,
delle verità che in realtà il poeta può comunicare (e che egli stesso ha
sparso qua e là, a cominciare dalle ironiche denunce sulla corruzione del
clero) mescolandole a burle e invenzioni, e indossando quindi l’abito del
giullare; ma conscio forse anche, in secondo luogo, della riuscita co-
munque vana, dell’impossibilità di far nascere palingenesi dai versi.
Va infine ricordato che Folengo tenta anche la strada dell’epica caval-
leresca in volgare con l’Orlandino (1526), poemetto in otto ‘capitoli’ sul-
la storia dei genitori di Orlando e sull’infanzia di quest’ultimo: ancora
sulla scia del Morgante, prevale la combinazione burlesca tra cavalleresco
e comico, con una riuscita che però non pareggia quella del Baldus.

12.10. Attorno al 1530 – anche se questa data va ovviamente presa


con tutta l’elasticità del caso – si verifica, nella nostra letteratura, una
svolta culturale tra le più epocali, sintetizzabile, prendendo a prestito il
titolo di un celebre saggio di Ezio Raimondi (ora in Id., Rinascimento
inquieto, Torino, Einaudi, 1994, pp. 5-17), in un passaggio dalla natu-
ra alla regola, ovvero da una prima stagione del Rinascimento, caratte-
rizzata da un classicismo moderato e aperto, che riconosce alla facoltà
immaginativa dell’autore un’ampia libertà di movimento nei confronti
dei generi e dei modelli poetici, a una seconda stagione, nella quale si
impone un approccio ai fatti letterari decisamente più definitorio e re-
golistico. Se il primo canone che riesce ad affermarsi in questo contesto
culturale, quello delle Prose della volgar lingua del Bembo (edite nel 1525,
ma progettate già dagli inizi del secolo), persegue una regolarizzazione
della poesia volgare sostanzialmente limitata all’ambito dell’elocutio, e
dunque alle questioni linguistiche e stilistiche, il punto di riferimento
relativo all’inventio e alla dispositio viene invece ben presto individuato
nella Poetica di Aristotele, oggetto (assieme ad altri testi teorici classici,
come la Retorica, sempre di Aristotele, o l’Ars poetica di Orazio) di un
processo di riscoperta che si prolunga per tutto il secolo XVI, sostenu-
to dalla comparsa di una serie di traduzioni latine e volgari (accompa-
gnate spesso da esposizioni e commenti, come quelli di Ludovico Ca-
332
Epica italiana

stelvetro, del 1570, e di Alessandro Piccolomini, del 1575) che fanno


seguito alla pubblicazione del testo greco della Poetica, avvenuta a Ve-
nezia nel 1508, presso la tipografia di Aldo Manuzio.
Ma come tutto questo riguarda il nostro discorso? Come si accen-
nava, la Poetica fornisce finalmente agli studiosi e ai letterati una sorta
di guida, di ‘manuale d’istruzione’ che svela la ratio, cioè la logica in-
terna e i meccanismi tecnici – fissati in definizioni e schemi ritenuti og-
gettivi e sempre validi – dei generi letterari di cui si era occupato Ari-
stotele, ovvero tragedia, commedia e poema epico. Ma mentre il filoso-
fo greco anteponeva il dramma all’epos, nel Cinquecento è invece al se-
condo che viene riconosciuto lo status di genere principe, ed è dunque
su di esso che si esercita principalmente il confronto critico e la speri-
mentazione pratica. Era su questo terreno, d’altronde, che la letteratu-
ra contemporanea si era maggiormente distanziata dai parametri anti-
chi, imboccando la strada piena di deviazioni del romanzo cavalleresco.
Il recupero di Aristotele diventa dunque anche un modo, per i palati più
raffinati, di reagire alla saturazione ormai raggiunta nella letteratura di
consumo, che dagli anni venti e trenta sfornava a getto continuo ro-
manzi di ispirazione ariostesca, che riprendevano i personaggi del Fu-
rioso in forme ripetitive e stantie (l’invasione di «Orlandi e Rinaldi» di
cui parla Giraldi Cinzio nel suo Discorso intorno al comporre dei roman-
zi). L’alternativa a questa moda ariostesca viene ricercata nel passato re-
moto, e il confronto tra la trattazione aristotelica, spesso fraintesa, e le
forme contemporanee, fa emergere la volontà di rieducare lo stile epico
alle norme classiche, depurandolo dalla barbarie romanzesca. Se il Fu-
rioso aveva potuto dotarsi di un progetto strutturale soggettivo, costrui-
to da Ariosto su misura per il suo poema, in base alla sua immaginazio-
ne e alla sua personale visione del mondo e della letteratura, ora diven-
ta inevitabile per ogni autore adattare le proprie idee all’oggettivo e ca-
nonico modello aristotelico: non sarà più possibile proporre un’idea di
unità strutturale come quella ariostesca, elaborata autonomamente da
ogni codice, pur con le sue immancabili ascendenze, ma bisognerà ri-
farsi all’idea di unità propugnata dalla Poetica.
Non a caso, il primo ambito in cui l’aristotelismo comincia a far sen-
tire i suoi effetti è proprio quello della ricezione del Furioso. Per nulla
intimoriti dal grande successo ottenuto dall’opera, liquidato come con-
senso tributato da un pubblico incompetente («Col Furioso suo che pia-
ce al volgo»: così, con evidente tono dispregiativo, Trissino presenta Ario-
sto in un verso del libro XXIV dell’Italia liberata dai Goti), molti lette-
rati cercano di far valere il loro giudizio di intenditori rilevando le mol-
teplici lacune del Furioso sul piano etico e poetico. Se nel primo caso a
fare scandalo è la presunta licenziosità di alcuni episodi e la mancata
esemplarità morale dei personaggi, nel secondo il centro del problema
333
Matteo Navone

è il mancato rispetto delle regole basilari della Poetica: il titolo del poe-
ma è incoerente con la materia narrata, la componente magica e mera-
vigliosa eccede i limiti del verosimile, l’azione non è unitaria ma molte-
plice, non è continua ma interrotta da ripetuti salti e divagazioni che
creano confusione nel lettore, e infine l’autore si comporta da predica-
tore più che da narratore (per usare le parole di Castelvetro), in quanto
commenta di continuo le vicende in prima persona anziché attraverso
lo schermo dei personaggi, spezzando così l’imitazione mimetica del rea-
le. Per questi detrattori, l’opera di Ariosto non rientra in alcun modo
nella classificazione aristotelica dei generi, e dunque non è affatto un
poema epico, ma piuttosto un tentativo fallito di epos, o un’aberrante
deviazione moderna dalla retta via tracciata dagli antichi. Ed è interes-
sante osservare come, nelle critiche al Furioso, il piano morale e quello
poetico si saldino assieme a quello storico-sociale: l’apertura e il relati-
vismo del Furioso appaiono ormai ideologicamente rischiosi a un senti-
re diffuso nell’Italia di metà Cinquecento, che avverte gli effetti del ge-
nerale clima di irrigidimento dell’autorità politica e religiosa portato dal-
la Controriforma e dal trionfo dell’assolutismo.

12.11. Sotto la spinta di tali orientamenti critici, attorno alla metà


del Cinquecento comincia a delinearsi, nella nostra letteratura, una nuo-
va forma epica, il poema eroico. Per gli autori del tempo – che usavano
comunemente quest’espressione per indicare, a seconda dei casi, sia l’e-
pos antico, sia quello moderno alternativo al romanzo – comporre un
poema eroico significava tentare un’epica moderna più vicina alle for-
me classiche, o meglio ancora agli schemi che gli eruditi del tempo ave-
vano tratto da alcune di quelle forme. Nella prospettiva ormai classici-
stica degli interpreti di questo nuovo genere, la poesia italiana appariva
ancora priva di opere che parlassero al pubblico moderno con lo stesso
linguaggio dell’Iliade e dell’Eneide. La lacuna lamentata da Dante nel
De vulgari eloquentia (cfr. II 2, 8) era ancora tutt’altro che colmata, non-
ostante le ambizioni dei vari Boccaccio, Pulci, Boiardo e Ariosto: il ro-
manzo cavalleresco aveva usato un linguaggio diverso da quello di Ome-
ro e Virgilio, affine magari nella radice, ma altro nello sviluppo, e a li-
vello non solo strutturale. Azione guerriera, esaltazione delle virtù mar-
ziali e virili, celebrazione di eroi esemplari, legati agli uomini del pre-
sente in virtù di un rapporto di contiguità genealogica, politica o reli-
giosa: tutti questi motivi, che fondavano da sempre lo ‘spirito’ epico,
erano sì rintracciabili nel Morgante, nell’Inamoramento e nel Furioso, ma
in forme non esemplari, contaminate da troppe concessioni al sorriso,
all’abbassamento tonale, al gusto plebeo. Si avverte insomma ormai il
bisogno di un’epica che sappia esprimere gli ideali politici, morali e re-
ligiosi del presente nella forma solenne delle sue origini antiche, recu-
334
Epica italiana

perando un registro espressivo autenticamente ‘eroico’ a livello di temi,


personaggi, stile: in questo processo di rifondazione, il richiamo all’ere-
dità classica diventa fondamentale come mai prima, anche se l’orizzon-
te d’attesa del pubblico rende comunque ineludibile il confronto con il
più recente patrimonio del romanzo.
Questa ambizione di fondo viene inizialmente perseguita attraverso
una serie di proposte che, pur potendo genericamente confluire sotto
l’etichetta comune di ‘poema eroico’, si rivelano in realtà non esatta-
mente sovrapponibili. Sono essenzialmente due gli orientamenti fonda-
mentali individuabili nell’ambito dell’eroico cinquecentesco (da accet-
tare sempre con la consueta avvertenza di non intenderli in senso trop-
po rigido): uno più aristotelico e filo-omerico, rappresentato esemplar-
mente da L’Italia liberata dai Goti di Giovan Giorgio Trissino, e un al-
tro più moderato, sempre attento al codice antico, ma più disponibile
verso la lezione romanzesca, che trova il suo primo punto di riferimen-
to nell’Ercole di Giraldi Cinzio.
Di quest’ultima tendenza, certamente la più gravida di sviluppi, par-
leremo nel prossimo paragrafo, visto che il primato cronologico spetta,
sotto diversi aspetti, al Trissino. Lo scrittore vicentino fu infatti uno dei
più precoci nel dar voce ai nuovi fermenti classicistici, se si pensa che
già al 1514-1515 risale la stesura della Sofonisba (edita poi nel ’24), tra-
gedia fedelmente aderente ai modelli tragici greci, e che agli anni venti
– dunque ancor prima del terzo Furioso – risale il primo progetto del
poema regolare, appunto L’Italia liberata dai Goti, pubblicato poi tra il
1547 (i primi nove libri) e il 1548 (i restanti diciotto). L’opera rivela fin
dal titolo e dall’argomento una coraggiosa volontà di diversificazione dal
romanzo ariostesco allora imperante. La prima importante differenza
consiste nel fatto che L’Italia liberata racconta una vicenda storica (i pri-
mi cinque anni della guerra voluta nel VI secolo da Giustiniano per ri-
annettere al suo Impero d’Oriente l’Italia, allora sotto il dominio dei
Goti), oculatamente scelta da Trissino per schierare la sua epica moder-
na a sostegno del progetto ‘neo-imperiale’ di riunificazione dell’Europa
perseguito dal dedicatario Carlo V, non a caso presentato, nella dedica,
come un novello Giustiniano. Ma al di là di questa finalità politico-en-
comiastica, l’utilizzo della materia storica – ovviamente ripresa con una
certa libertà da Trissino, autorizzato in ciò dal principio aristotelico del
verosimile – vuole soprattutto porre un netto discrimine ideologico tra
L’Italia liberata e i romanzi cavallereschi: da un lato la maniera boiar-
desca e ariostesca, regno della finzione, e dall’altro il poema di Trissino,
posto sotto il segno della ‘verità’, una verità ricostruita su fonti storiche
ben precise (in particolare la Guerra gotica di Procopio di Cesarea) e vi-
sta come riflesso della volontà divina che, come rivela il proemio, guida
fin dall’inizio la spedizione contro i Goti verso il suo scontato esito vit-
335
Matteo Navone

torioso. Una scelta insomma, questa della storia, dotata di una forte con-
notazione etica e persino religiosa.
Ma a parte la storia, ci sono altre due autorità ancora più scrupolo-
samente seguite da Trissino, come lui stesso dichiara nella dedica:
Né solamente nel constituire la favola di una azione sola, e grande, e che
abbia principio, mezo, e fine, mi sono sforzato servare le regole d’Aristote-
le, il quale elessi per Maestro, sì come tolsi Omero per Duce, e per Idea; ma
ancora, secondo i suoi precetti, vi ho inserite in molti luoghi azioni formi-
dabili, e misericordiose, e v’ho posto recognizioni, revoluzioni, e passioni,
che sono le parti necessarie de le favole […]. E se ben non mi sono potuto
approssimare a la eccellenza di così divino Poeta; pur ho tentato di segui-
tarlo da la lunga, imitando, et adorando le sue pedate, e cercando, a mio
potere, esser come lui, copioso e largo.

Trissino aveva grande familiarità sia con la Poetica, di cui aveva com-
posto un’esposizione in sei parti (la Sesta divisione, relativa al poema eroi-
co, fu edita postuma, con la Quinta, nel 1562, ma la sua stesura risali-
va al 1549), sia con l’Iliade; la prima gli fornisce i principi teorici (uni-
tà d’azione, narrazione continuata e ordinata, contrapposti al racconto
molteplice, digressivo e non lineare dei romanzi), la seconda lo «sche-
ma» pratico, come scrisse Benedetto Croce (cfr. Poeti e scrittori del pie-
no e del tardo Rinascimento, vol. I, p. 308) su cui ricalcare il suo poema.
Il legame tra queste due opere era già inscritto nella Poetica stessa, ma
Trissino manifesta comunque una notevole indipendenza nell’adottare
l’Iliade come modello principe, una scelta che, saltando quasi del tutto
la mediazione latina, cui l’epica nostrana aveva finora prevalentemente
guardato, voleva risalire direttamente alla fase primigenia dell’epos. L’I-
talia liberata imita tuttavia l’Iliade con una fedeltà ingenua e quasi ‘de-
vozionale’, anticipata del resto già dalla terminologia usata nella dedica
(«Adorando le sue pedate»). Dal poema omerico Trissino recupera an-
zitutto una gran quantità di situazioni narrative: dall’assedio – buona
parte del racconto si svolge attorno a Roma occupata dai Bizantini e as-
sediata dai Goti – ai giochi funebri, dalla sortita notturna in campo ne-
mico alla diserzione del campione di uno dei due schieramenti, per ta-
cere di tante altre. Inoltre, diversi protagonisti dell’Italia liberata sono
ricalcati molto da vicino sui personaggi dell’Iliade: se Belisario, capo del-
la spedizione bizantina, corrisponde ad Agamennone, Corsamonte, il
più valente guerriero dell’esercito imperiale, riprende Achille, così come
Paulo, saggio consigliere di Belisario, è controfigura di Nestore, mentre,
tanto per complicare le cose, c’è anche un Achille, amico di Corsamon-
te, che qui fa le veci di Patroclo, ma con una variatio: nel Trissino è Cor-
samonte a morire e Achille a incaricarsi della vendetta. C’è poi la fami-
gerata equivalenza tra olimpo pagano e cristiano, con Dio e la Vergine
336
Epica italiana

che prendono il posto di Zeus e di Era, ereditando però dai loro prede-
cessori pagani il vizio di infliggere, secondo il loro capriccio, dolori e
stragi agli uomini (anche ai Bizantini che teoricamente proteggono),
mentre anche gli interventi soprannaturali a favore dell’una o dell’altra
parte in lotta sono garantiti dalla divisione tra angeli «celesti», favore-
voli alle truppe imperiali, e «nocivi», favorevoli ai Goti e fautori della lo-
ro dominazione «per penitenza de i commessi errori» (I 31) dell’Italia;
una divisione evidentemente ridicola che, onde evitare pericolose deri-
ve ereticali, deve rientrare nel finale, con la schiera dei «nocivi» che si in-
china alla saggezza del volere divino. A questa imitatio estremistica non
potevano sottrarsi il metro e lo stile: dall’esametro omerico (e virgilia-
no) Trissino ricava la preferenza per l’endecasillabo sciolto – con aboli-
zione delle terzine e delle ottave che, come spiega nella Sesta divisione
della sua Poetica, ostacolano il racconto continuato con il loro creare uni-
tà strofiche separate e gruppi di versi concatenati dalla rima – riprodu-
cendo maldestramente dei versi omerici anche la caratteristica formula-
rità e l’enárgeia (il descrivere le cose in maniera particolareggiata, tanto
da dare al lettore l’impressione di vederle davanti ai suoi occhi), ridotta
dal poeta vicentino a pedante minuzia descrittiva.
Nonostante questi eccessi, Trissino dimostra talvolta di saper trarre
dall’Iliade soluzioni più rielaborate, destinate per di più a essere riprese
anche in altri poemi eroici. In questo senso, particolarmente interessanti
si rivelano le dinamiche connesse al personaggio di Corsamonte, impa-
rentato, oltre che con l’Achille omerico, anche con i paladini dei ro-
manzi: contrapposto a un Belisario ligio al dovere guerresco, e dunque
incarnazione del codice eroico più puro, Corsamonte porta all’interno
dell’Italia liberata la tendenza alla ventura e all’erranza. Due volte egli
abbandona il campo di battaglia, quando resta prigioniero del lussurio-
so giardino delle maghe Acratia e Ligridonia (c. V), e soprattutto quan-
do si allontana da Roma dopo essersi scontrato con Belisario, che non
vuole concedergli la mano dell’amata Elpidia (cc. XI-XIX), una vicen-
da quest’ultima che fonde la sua evidente matrice omerica (la diserzio-
ne di Achille, causata dalla perdita di Briseide) con il tópos romanzesco
del cavaliere che si ribella all’ordine militare per amore. Di questa fu-
sione si ricorderanno sia l’Alamanni sia il Tasso (che la riproporranno
nelle analoghe diserzioni del Lancillotto dell’Avarchide e del Rinaldo del-
la Gerusalemme liberata), in virtù soprattutto di una sua ben precisa fun-
zionalità. Trissino infatti, così come gli altri autori di poemi eroici, è pie-
namente consapevole della necessità di ‘movimentare’ l’unità d’azione
aristotelica, variando il racconto con opportuni inserti episodici lungo
l’asse principale della narrazione, secondo una prassi autorizzata da Ari-
stotele stesso (cfr. Poetica, 1455b, 15-24 e 1459a 17ss.), e per la quale
era facile trovare riscontri nei poemi classici. Un episodio strutturato co-
337
Matteo Navone

me la defezione di Corsamonte serve perfettamente a un tale scopo: es-


so da un lato permette di aprire, nella narrazione epica, spazi di erranza
romanzesca e fantastica (ad esempio, durante il suo volontario esilio,
Corsamonte combatte contro un drago per risanare la vista della fata
Plutina), e dall’altro resta comunque connesso all’azione principale che,
come nell’Iliade, l’eroe disertore continua a influenzare sia con la sua as-
senza, sia imprimendovi una svolta al momento dell’immancabile ri-
torno alle armi. Questo esempio rappresenta bene quella ricerca di un
compromesso tra epos e romanzo, tra unità e varietà, che costituisce una
delle caratteristiche essenziali del poema eroico: esso, se rifiuta il romanzo
inteso come genere storicamente determinato, non può mai respingere
del tutto il romanzesco, inteso come tipologia di narrazione e contenu-
ti, e avverte anzi la necessità di recuperarne alcuni tratti (fondamental-
mente la varietà, argine alla potenziale monotonia del racconto conti-
nuato) per condurli entro forme poetiche, ma anche ideologiche, più
unitarie e controllate. Le deviazioni cavalleresche di Corsamonte, come
quelle dei suoi epigoni, vengono infatti alla fine sempre ricondotte al-
l’ordine epico, mentre similmente si fa sempre più connotata ideologi-
camente la predisposizione agli slanci amorosi.
Infatti, anche se il nesso armi-amori era troppo forte nella tradizio-
ne italiana per essere accantonato del tutto, a partire dall’Italia liberata,
e fino alla comparsa del poema di Tasso, la materia guerresca e quella
amorosa si assestano su rapporti di forza più vicini a quelli dell’epos an-
tico che a quelli dei poemi cavallereschi. L’amore perde la sua centrali-
tà e viene nuovamente espulso dal concetto di onore: non può più pre-
valere sulle ragioni del dovere militare, né essere causa determinante del-
l’azione guerresca, ed è quindi marginalizzato a inserto episodico e de-
scritto in forme più sorvegliate e moralistiche, quando non viene pre-
sentato addirittura come esperienza negativa e ingannevole, che condu-
ce l’eroe a una deviazione pericolosa dal suo cammino epico. Ancora la
vicenda di Corsamonte è esemplare al riguardo: diversamente da Beli-
sario – che, in un passo del c. VIII, rifiuta di vedere la bella prigioniera
Cillenia, temendo il potere deviante della contemplazione della bellez-
za, e descrive poi l’«amorosa forza» come ottenebramento pernicioso del-
la ragione, che fa gli «afflitti amanti» «servi de la donna amata» – Cor-
samonte lascia che il sentimento per Elpidia guidi le sue azioni: per amo-
re di lei si allontana dalla battaglia e per lo stesso motivo vi ritorna, quan-
do apprende che è stata rapita dai Goti, giurando sì fedeltà a Belisario,
ma affiancando, nella sua lotta, l’ideale privato a quello politico («Per la
cui morte [del re dei Goti] arei ferma speranza / di porre in libertà l’I-
talia afflitta / e racquistar la mia perduta donna»; c. XX). Questa fedel-
tà al nesso armi-amori gli costerà cara, visto che proprio per il suo desi-
derio di liberare l’amata cadrà ucciso nel tranello tesogli dal traditore
338
Epica italiana

Burgenzo (c. XXII), nel quale si può peraltro scorgere un’altra conta-
minazione tra un ricordo classico (la morte di Achille) e uno moderno
(il tradimento di Gano nella saga carolingia): l’immagine di Corsamonte
che cade in trappola è presentata ancora nei termini di un offuscamen-
to dovuto ad amore:
Il parlar di Burgenzo a Corsamonte
non spiacque, e non pensò d’alcuno inganno:
che ’l Re del ciel gli avea la mente ingombra
di tanto amor, che vedea poco lume. (c. XXII)

L’Italia liberata dai Goti fu uno degli insuccessi più clamorosi della
letteratura cinquecentesca, ma rappresentò anche un primo esperimen-
to da cui gli autori successivi (e in particolare Tasso) sapranno trarre pro-
fitto, analizzandone il fallimento e perfezionandone gli esiti. Trissino in-
fatti, se fallisce come poeta, non fallisce del tutto come teorico: molti
elementi cardinali del poema eroico (il ritorno all’epica classica, e se-
gnatamente a quella omerica, il ricorso alla storia, la ritrovata centralità
della materia guerresca, l’apertura verso il romanzesco) si ritrovano già
nella sua Italia liberata, in attesa di una realizzazione meno impacciata
e più consapevole delle ragioni del diletto e delle esigenze del pubblico
contemporaneo.

12.12. Altre proposte di poema eroico giungono, negli stessi anni,


da due brillanti eruditi e scrittori ferraresi, Giambattista Giraldi detto
Cinzio e Giovanni Battista Nicolucci detto il Pigna, che prendono le
mosse da una posizione di difesa del romanzo cavalleresco contro i suoi
detrattori classicisti, espressa in due trattati (intitolati rispettivamente
Discorso intorno al comporre dei romanzi e I romanzi) editi nello stesso
anno (1554), e per i quali i due studiosi si accuseranno vicendevolmen-
te di plagio. Diversamente da altri difensori dell’Ariosto – come per
esempio Simone Fornari, autore di un’Apologia brieve sopra tutto l’ Or-
lando Furioso (1549) – che inseguivano un’improbabile concordanza
tra poema ariostesco e Poetica aristotelica, Giraldi e Pigna intendono di-
mostrare che opere come l’Inamoramento de Orlando e il Furioso appar-
tengono – come scrive Giraldi – a una nuova «maniera di comporre»,
cioè a una forma poetica, il romanzo, distinta dall’epica classica, sulla
quale avevano basato le loro osservazioni Aristotele e Orazio: i princìpi
da loro stabiliti, seppur corretti finché si parla di Omero e Virgilio, non
possono pertanto essere imposti agli autori di romanzi, che dovranno
semmai seguire l’autorità di coloro che si sono espressi ai massimi livel-
li in questo nuovo genere, e cioè Boiardo e Ariosto, ma non Pulci. Gi-
raldi e Pigna sono insomma i primi a rivendicare con forza l’alterità e la
339
Matteo Navone

novità, rispetto alla tradizione classica, del poema cavalleresco, del cui
sistema di regole (commisurato sulle sue peculiarità narrative, in primis
il racconto di più azioni di diversi personaggi) i loro trattati offrono una
prima teorizzazione critica, unendo all’intento apologistico una dimen-
sione analitica.
Nonostante ciò, Giraldi e Pigna non ignorano le sostanziali analogie
di fondo tra epos e romanzo (espressione di valori e comportamenti eroi-
ci, imitazione verosimile della realtà unita ad aperture al meraviglioso,
solennità stilistica), ma avvertono che i precedenti antichi dell’Inamo-
ramento e del Furioso vanno cercati tra i poemi più aperti alla varietà di
personaggi e situazioni (che è già per questi suoi primi studiosi il prin-
cipio basilare della tecnica compositiva romanzesca), come l’Odissea e le
Metamorfosi. Su questo punto, tuttavia, le posizioni dei due eruditi ap-
paiono tutt’altro che coincidenti. Giraldi, più prudente, punta sulla con-
tinuità tra antico e moderno, presentando il romanzo come una sorta di
evoluzione dell’epos, tanto che il suo stesso nome deriverebbe dal greco
rhóme, forza, mentre quello di ‘canto’, dato alle singole parti, si spie-
gherebbe col fatto che gli autori italiani «hanno sempre finto di cantare
dinanzi ai principi ed a nobile brigata i loro poemi», a imitazione del
«costume antico […] di cantar colla lira ne’ conviti e nelle mense […] i
gloriosi fatti e le grandi imprese degli uomini virtuosi e forti» (p. 48; si
cita dall’ed. degli Scritti critici, a c. di C. Guerrieri Crocetti, Milano
1973). Al contrario Pigna – che assegna un’origine medievale sia al ter-
mine ‘romanzo’ (dai ‘Remensi’, popolo francese noto per la sua fierez-
za) sia all’uso di ‘canto’ (dalle performance dei cantori di piazza) – trac-
cia un solco più profondo tra le due forme, ad esempio sotto il profilo
del verosimile. Se Giraldi fa rientrare sia epos che romanzo nell’ambito
del verosimile poetico (aristotelicamente contrapposto al ‘vero’ della sto-
ria) senza particolari distinzioni, Pigna precisa invece che mentre «l’epi-
co sopra una cosa vera fonda una verisimile, e vera intendo […] o in ef-
fetto vera o vera sopposta», i romanzi «alla verità risguardo alcuno non
hanno» (pp. 24-25: si cita dall’ed. di S. Ritrovato, Bologna 1997). Epos
e romanzo utilizzano dunque due tipologie diverse di verosimile, nel pri-
mo caso ancora confinante con la storia e con il suo modo letterale e
consequenziale di esporre i fatti, nell’altro decisamente più orientato ver-
so il racconto mitologico e fantastico, ma non per questo fallace, e anzi
pronto a esprimere le sue moralità con modalità diverse, mediante si-
gnificati nascosti e procedimenti allegorici.
In questi scritti, e particolarmente in quello di Giraldi, c’è però an-
che qualcosa di più di quanto visto finora: nel momento stesso in cui la
forma del romanzo cavalleresco viene fissata criticamente, essa comin-
cia infatti a dissolversi, a veder profilarsi accanto a lei l’ombra del poe-
ma eroico. Nel Discorso, Giraldi a un certo punto precisa che chi si ac-
340
Epica italiana

cinge a cimentarsi nella scrittura di un poema, ha di fronte a sé tre pos-


sibilità, e cioè comporre «poema di una sola azione, o di molte di mol-
ti, o tutte quelle di un uomo solo» (p. 57). Il ferrarese condensa qui tre
tendenze identificabili nella letteratura del suo tempo: la prima è quel-
la più propriamente aristotelica che, precisa subito Giraldi, non ha an-
cora prodotto «nella nostra lingua» poema «che meriti loda» (ibidem),
stoccata evidentissima al Trissino, la cui Italia liberata è aspramente ri-
gettata anche altrove nel Discorso, nonché nello scritto di Pigna. La se-
conda è evidentemente quella dei romanzi di Boiardo e Ariosto, men-
tre la terza appare come una sorta di compromesso tra le altre due. A es-
sa viene dato rilievo anche in altre pagine: per esempio, subito dopo aver
lodato l’entrelacement romanzesco, Giraldi puntualizza che è pur sem-
pre vero che
s’altri si desse a comporre le azioni di un uomo solo, si potrebbe continua-
re un canto con l’altro senza rompere le materie e tralasciarle per ripigliar-
le poi e seguirle di novo. […] E forse è più lodevole modo di legar questo,
che non è il primo, che abbiam detto [l’entrelacement], perché quella va-
ghezza che si cerca d’indurre da tali compositori, con la variazione delle
azioni di molti, si può ella con vari modi acconciamente indurre nel poe-
ma, che contenga molte azioni di un solo e così levare la sazietà al lettore
di sempre leggere una medesima cosa. (p. 68)

Pur affrettandosi subito a chiarire di non voler criticare i ‘rompimenti’


dell’Inamoramento e del Furioso – in quanto Boiardo e Ariosto, una vol-
ta scelta la seconda delle tre opzioni di cui sopra, «non potevano altri-
menti fare per condurre al fine le opere loro» (p. 69) – Giraldi lascia in-
tendere, tra le righe, che sia in realtà preferibile la soluzione delle tante
azioni di un solo eroe, capace di coniugare il racconto continuato, alla
maniera antica, con la vaghezza portata dalla varietà. Tale modello, spie-
ga altrove Giraldi, implica l’adozione di un modo di esporre i fatti più
ordinato e vicino all’impostazione cronologica del racconto storico:
e come la composizione della istoria si comincia dal principio delle cose,
così i componimenti delle azioni di tutta la vita di un uomo hanno origi-
ne dal principio de’ suoi fatti illustri. E se nella cuna diede segno della sua
grandezza, dalla cuna si devono cominciare le azioni della sua vita. (p. 56)

Su questo punto è evidente la distanza dal pensiero di Pigna, per il qua-


le la poesia si distingue dalla storia proprio per la sua libertà di alterare
l’ordine logico degli eventi, tanto che la «maniera di procedere» di co-
loro che «infino alla morte colui conducono di che hanno pigliato a par-
lare principalmente» (tale è appunto la proposta giraldiana) viene nei
Romanzi rifiutata come «più tosto istorica che poetica» (p. 31). Giraldi
appare invece decisamente più legato a un’esigenza di disposizione or-
341
Matteo Navone

dinata della materia, che lo porta a ribadire che «le parti e gli episodi»
devono «avere o necessaria o verisimile dipendenza una dall’altra» (pp.
75-76), condicio sine qua non perché la poesia realizzi il suo duplice in-
tento di dilettare e giovare. E di fronte all’obiezione che per Aristotele
«chi si desse a fare simile componimento, il farebbe infinito» (p. 56) –
anche perché tale modello infrange la regola aristotelica e oraziana del-
l’inizio in medias res e non ab ovo (cfr. Poetica, 1459a 30-1459b 5) – Gi-
raldi ribadisce che la ‘giurisdizione’ della Poetica è limitata ai poemi di
una sola azione.
Tutte queste affermazioni non hanno un valore meramente specula-
tivo, ma mirano a legittimare a livello teorico il poema cui Giraldi sta
lavorando, l’Ercole, che vedrà la luce nel 1557 in ventisei canti (ma il
progetto originale ne prevedeva quarantotto). In esso vengono ripropo-
ste le imprese dell’eroe mitologico, il cui nome offriva un facile appiglio
per celebrare come novello Alcide il duca di Ferrara Ercole II, presen-
tando al tempo stesso l’Ercole greco come progenitore estense. Non-
ostante l’innegabile limitatezza del suo valore artistico (giudizio esten-
dibile, del resto, alla totalità dei poemi di metà cinquecento di cui ci stia-
mo occupando), l’Ercole riveste una certa importanza dal punto di vista
storico, per il contributo che esso dà all’evoluzione del genere eroico, del
quale è proposto addirittura come fondatore in un testo ospitato in ap-
pendice alla princeps del poema giraldiano, ovvero uno dei capitoli let-
terari di Francesco Bolognetti, Un medesmo pensier credo che fosse. Già
Stefano Jossa (cfr. La fondazione di un genere. Il poema eroico tra Ariosto
e Tasso, Roma, Carocci, 2002, p. 19) ha recentemente sottolineato il ca-
rattere programmatico di questo capitolo, nel quale Bolognetti – che
stava all’epoca lavorando a un suo poema, il Costante, affine struttural-
mente e tematicamente all’Ercole, che vedrà la luce soltanto tra il 1565
e il 1566 – ascrive a sé e a Giraldi il merito di una svolta impressa al mo-
do di far poesia delle armi in lingua italiana:
Un medesmo pensier credo che fosse,
nobil Giraldi, quel (s’io non mi inganno)
ch’a far poema Eroico ambi ne mosse.
Questo è, perciò ch’i Toschi ancor non hanno
Marte cantato con Eroici carmi
ma rozzi, e inculti fra Romanzi stanno. (1-6)

Con accenti fortemente simili a quelli utilizzati da Antonio Minturno


nella sua Arte poetica del 1551 («Né infino ad ora la tromba di Marte /
post’ha la bocca alcun con pieno spirto, / e chiunque de’ nostri al suon
de l’arme / volto ha la mente, parmi essere intento / al dilettar le femi-
ne e la plebe»), Bolognetti definisce l’eroico non solo in antitesi al Fu-
rioso e dunque al romanzo («Quel vostro [Ariosto], che cantò gli amo-
342
Epica italiana

ri, e l’armi / de Galli erranti, andar cinto d’Alloro / senza ragione (a mio
giudicio) parmi»; 7-9) ma anche all’Italia liberata, liquidata con un’im-
magine già usata da Giraldi nel Discorso («Colui [Trissino] non men, che
con nessun decoro / trovate nuove lettre, al fin d’Omero / colse lo ster-
co, e non conobbe l’oro»; 10-12), e al Girone il cortese di Luigi Alamanni,
che, come vedremo, aveva già tentato un orientamento simile a quello
dell’Ercole e del Costante, ma, dice qui Bolognetti, con risultati ancora
incerti («Di Giron lo scrittor forse il pensiero / ebbe lontan di voler gi-
re a quella / meta, ch’io dico, e prese altro sentiero»; 13-15). Evidente è
l’intento di distinguere la propria operazione in particolare da quella del
Trissino, certificando così l’esistenza di quelle due tendenze da cui sia-
mo partiti.
Ma torniamo all’Ercole: già il proemio conferma il disegno che ave-
vamo visto tracciato nel Discorso:
Le fatiche, i travagli, i fatti egregi
d’Ercole, i’canto e le sue fiamme accese,
e quante palme egli ebbe e quali pregi
e per lo colto e per lo stran paese;
[…]
E ciò comincerò sin dalle fasce,
ché da le fasce Ercol mostrò quel ch’era:
perch’uom simile a lui sin quando nasce
indicio dà de la natura altiera;
ché, se bene ad alcun par che si lasce,
nel cantar de gli eroi, l’età primiera,
questi fanciul mostrò sì la sua viva
virtù, che degno è che sen parli e scriva. (I 1-2)

La materia prescelta è dunque antica, in primo luogo per differenziarsi


dalle usurate trame cavalleresche. Nel caso di Giraldi, antico vale pro-
priamente come mitologico, mentre Bolognetti, come Trissino, sceglie di
rifarsi alla storia propriamente detta, nello specifico romana, sebbene non
manchino neppure qui interventi di divinità pagane: il Costante è infat-
ti incentrato sulla figura del patrizio romano Conio Albonio, ribattezza-
to il Costante per la sua determinazione nel cercare di liberare l’impera-
tore Valeriano, fatto prigioniero dai Persiani. La differenza tra queste due
scelte si riduce in realtà a una pura sfumatura: Giraldi infatti tratta la sua
materia «in guisa d’istoria» (Discorso, in Id., Scritti critici, a cura di Ca-
millo Guerrieri Crocetti, Milano, Marzorati, 1973, p. 56), adottando del-
la storia la prospettiva cronologica (i fatti di Ercole sono narrati dalle fa-
sce) e l’ambizione di completezza (il progetto originario prevedeva di nar-
rare tutta la vita di Ercole, fino all’apoteosi sul monte Eta). Giraldi e Bo-
lognetti s’intendono su questo punto con Trissino: decisivo è ancora l’ap-
343
Matteo Navone

prodo alla storia, depositaria di verità e, in quanto tale, garante di un al-


tro punto essenziale, il fine educativo e morale, come si leggeva già nel
Discorso, là dove Giraldi elogiava il poeta che sa «come scrivere si devo-
no le vite degli eroi ad esempio del mondo in verso in guisa d’istoria (ibi-
dem, c.n.)». Storia e fine didattico, l’utile orazianamente mescolato al di-
letto: elementi che mettiamo da parte, e ritroveremo in Tasso.
Giraldi e Bolognetti sono accomunati a Trissino anche dalla volontà
di conferire ai loro poemi un’impostazione classicamente regolare, che
deve però tener conto del gusto per il romanzesco dei lettori del tempo.
La soluzione non può che essere, ancora un compromesso tra le due esi-
genze, ricercato però stavolta attraverso una formula diversa: se L’Italia
liberata provava a coniugare unità e molteplicità sfruttando le sua im-
postazione corale (le vicende individuali di alcuni guerrieri alternate al-
l’impresa collettiva), ispirata sempre all’Iliade e traghettata verso la Li-
berata, l’Ercole e il Costante giocano invece la carta, già anticipata nel
Discorso giraldiano, delle tante azioni di un solo eroe; un’impostazione
‘biografica’, in cui la molteplicità delle avventure è compattata attorno
a un unico protagonista, determinando una struttura narrativa lineare e
ordinata, che evita i salti dell’entrelacement. È una soluzione pienamen-
te coerente con le tentazioni classicheggianti già espresse da Giraldi nel
Discorso, ma che produce anche in questo caso un equilibrio alquanto
precario: se l’operazione di Trissino, ingabbiata nella sua assoluta fedel-
tà al modello, è decisamente sbilanciata dal lato della norma e dell’epos
antico, in Giraldi e Bolognetti, viceversa, non c’è ancora un completo
superamento dell’orizzonte del romanzo; semplicemente, le tante azio-
ni, anziché intrecciate tra loro e assegnate a diversi personaggi, vengono
poste in una più monotona successione di prima e dopo, per cui finita
una ventura ne inizia a ruota un’altra, secondo un meccanismo non chiu-
so, ma iterabile come quello del romanzo.
L’unità d’eroe serve anche a un ulteriore scopo: il policentrismo ro-
manzesco, che dava voce a tanti personaggi e a diverse visioni del mon-
do, viene ormai prudentemente accantonato, e ogni poema (come av-
veniva nell’epica classica) trova il suo centro in un personaggio ben pre-
ciso, che diventa portatore dell’unica visione ideologica e dell’unico co-
dice morale del poema: un aspetto questo che Giraldi, seguito da Bolo-
gnetti, accentua rispetto all’Italia liberata. Visto il ruolo di cui si fanno
carico, eroi come Ercole e Costante non possono che essere perfetti, ov-
viamente in base ai canoni moderni. Soprattutto Ercole si comporta in-
fatti come un perfetto cavaliere più che come l’eroe tramandato dal mi-
to: campione di gentilezza e cortesia, fedele al suo indegno signore (Eu-
risteo) e prono al destino prescrittogli dal cielo, salva fanciulle in peri-
colo e dirime questioni e contese, mentre le sue imprese assumono i trat-
ti di autentiche venture, dove le prove di valore sono però finalizzate al
344
Epica italiana

perfezionamento morale (i mostri eliminati nel corso delle fatiche sono


anche simboli dei vizi e dei mali che possono contaminare l’uomo), ol-
tre che all’accrescimento del suo status eroico. Anche questi eroi esem-
plari possono ancora cadere nell’errore romanzesco, ma senza contami-
narsi troppo. Per esempio, nel c. XVII dell’Ercole, troviamo l’Alcide –
come era accaduto a Ruggiero nel Furioso e a Corsamonte nell’Italia li-
berata, e come accadrà a Rinaldo nella Gerusalemme – perso nell’amore
per la bella Onfale e ridotto in abiti e atteggiamenti femminili; tornato
in sé per intervento del padre divino, Ercole scopre che ciò che ha vis-
suto era un inganno frutto dell’ennesima macchinazione ostile di Giu-
none, che rientra però nei piani della
providenza eterna
[…]
acciò che l’uom conosca
che mente così chiara in questa inferna
parte non è che non si trovi fosca,
se non l’illustra la virtù superna,
sì che mirando sé si riconosca
e lasciate le cose umane e frali,
rivolga ogni suo studio a l’immortali. (XVII 2)

Al di là della stanca riproposizione di un tópos, resta ben poco: l’errore


qui non è più statutario come nel Furioso, ma è occasionale sbanda-
mento, per di più autorizzato dall’alto, mentre l’unico amore legittima-
to altrove resta, in definitiva, quello consacrato dalle nozze, sia nell’Er-
cole (Ippolita che, per amore di Teseo, lascia la società delle Amazzoni,
descritta come inaccettabile anomalia sociale, come già nel Teseida di
Boccaccio), sia nel Costante (il matrimonio tra Costante e la regina dei
Galli Vittoria).
Un ultimo accenno va riservato ancora al Pigna. Se nei Romanzi egli
aveva sostanzialmente affermato l’impossibilità di una via per un epos
moderno alternativo al romanzo, alla fine anche lui approda all’eroico,
fornendone una ricetta destinata a far caso a sé. Nel suo Gli Eroici (1561)
Pigna abbina teoria e pratica, esemplificando la sua proposta su una sor-
ta di abbozzo di poema, cinquanta ottave intitolate L’eroico e incentra-
te su un evento minimo e realmente accaduto, una caduta da cavallo che
aveva rischiato di porre fine prematuramente alla vita di Alfonso II d’E-
ste, dedicatario del testo. In perfetta sintonia con la distinzione, intro-
dotta nei Romanzi, tra verosimile epico e romanzesco, Pigna dichiara
qui di aver costruito «sopra una cosa vera» (la caduta) «una verisimile»,
ovvero l’intervento dell’arcangelo che presiede al cielo di Marte – ribat-
tezzato «Arcangelo marziale», con una sovrapposizione vagamente tris-
siniana tra angelo e dio pagano – che, mosso dalle straordinarie qualità
345
Matteo Navone

del giovane principe, implora Dio di salvargli la vita. La realtà viene poe-
ticamente trasfigurata in miracolo, e la lunga orazione dell’angelo, che
occupa la quasi totalità delle ottave, permette di svolgere l’elogio enco-
miastico della virtù di Alfonso, proclamata fin dal proemio:
Qual celeste virtù del gran Monarca
avesse di pietà le voglie accense,
sì ch’aggiungesse fila a la sua Parca
d’Ercol secondo il primo figlio Estense;
Quand’ella a lui di lunga vita parca
spintolo dal corsier quasi lo spense;
tu ch’a la mente eterna t’avicini
dimmi intelletto fuor de tuoi confini. (I)

Il modello proposto è evidentemente alquanto singolare: un poe-


metto di ridotte dimensioni, che non racconta una storia con un ampio
sviluppo temporale, ma si focalizza sull’attimo del miracolo, su un’uni-
tà di tempo («Questa azione di Marte è da me ristretta in un punto, non
che in un giorno»), d’azione e d’eroe («Questa poesia è una imitazione
d’una sola azione d’una sola persona illustre»), intese in senso radicale.
Alfonso II non conta qui come figura drammatica, ma come idea in sen-
so platonico, incarnazione esemplare di un ideale, la «vera idea d’un prin-
cipe eroico», come Achille, retrospettivamente, era «l’imagine del per-
fetto valore» e Ulisse «l’essempio della perfetta prudenza». In questo, per
Pigna, l’epopea è affine alla tragedia, aristotelicamente intesa: essa mo-
stra una «grandezza meravigliosa», una «perfezione» messa in pericolo
dalla «mutazione di fortuna», ma infine trionfante, così da accendere,
catarticamente, «i piccioli a desiderio d’onore e i grandi a magnanimi-
tà». Cercando di sintetizzare l’essenza dell’epico, Pigna estremizza quel
processo di idealizzazione del personaggio che abbiamo visto in atto an-
che nei poemi di Trissino e Giraldi, e propone di rinunciare a uno dei
presupposti dell’epica di ogni tempo, il racconto, preferendo all’azione
vera e propria un’impostazione contemplativa e allegorica.

12.13. L’incertezza nella quale si muovono i poeti in una fase in cui


si trovano sul tavolo diverse soluzioni operative, (romanzo, epica alla
Trissino, poema eroico alla Giraldi) ma nessun modello indiscutibile, è
testimoniata esemplarmente dalle parabole di Luigi Alamanni e Ber-
nardo Tasso. Il primo, progettando un rifacimento in versi del Guiron
le courtois, testo medievale in prosa di argomento bretone, si orienta ini-
zialmente verso il romanzo sia nel titolo (I cavalieri erranti), sia nell’im-
postazione tematico-narrativa (intreccio di diverse storie, sinergia tra ar-
mi e amori cortesi). Tuttavia questo disegno iniziale viene ben presto ab-
bandonato, e il poema effettivamente dato alle stampe nel 1548, dal ti-
346
Epica italiana

tolo Girone il cortese, anticipa di fatto di alcuni anni la ‘ricetta’ giraldia-


na dell’unità d’eroe:
narrerò di Giron l’alte avventure:
il qual di Gallia errante cavaliero
del gran re Pendragon passato in corte,
d’esso, e d’Artù sotto ’l famoso impero
ebbe fermo il valor, varia la sorte. (I 1-2)

Alamanni avverte dunque autonomamente l’impulso ad andare ver-


so un’epica più unitaria, sebbene anche il suo Girone si riveli non poco
compromesso col romanzo, come dimostrano le tracce di entrelacement
e il susseguirsi di inchieste e venture. Alamanni stesso appare non del tut-
to soddisfatto del risultato quando annuncia, già nella dedica del Giro-
ne al re di Francia Enrico II, «altra nuova opera di poesia meno indegna
del valore di tanto re, fatta secondo la maniera e disposizion’antica, al-
l’imitazion (quanto in me sarà) di Omero, di Virgilio e degli altri mi-
gliori». Alamanni cambia dunque ancora strada ponendosi, in nome di
una maggiore fedeltà ai classici, sulla scia dell’epica corale alla Trissino:
è infatti all’Italia liberata che guarda molto da vicino l’opera che deve
assolvere all’impegno preso nella dedica al Girone, l’Avarchide, cui il let-
terato fiorentino lavora per anni senza mai pubblicarla, tanto che essa
giungerà alle stampe solo dopo la sua morte, nel 1570. Alamanni resta
qui fedele alla materia bretone – spostandosi dalla tavola vecchia di Pen-
dragon a quella di Artù, e dal Guiron al Lancelot du Lac – plasmandola
però con la forma dell’Iliade, riprodotta, sotto certi particolari, ancor
più fedelmente di quanto avesse fatto Trissino. Omero è ricalcato osse-
quiosamente fin dall’incipit, con l’azione del canto attribuita alla Musa
e non al poeta, come già nell’esordio dell’Italia liberata:
Canta, o Musa, lo sdegno e l’ira ardente
di Lancillotto del re Ban figliuolo
contra ’l re Arturo, onde sì amaramente
il britannico pianse e ’l franco stuolo;
e tante anime chiare afflitte e spente
lasciar le membra in sanguinoso duolo
d’empi uccelli e di can rapina indegna,
come piacque a Colui che muove e regna. (I 1)

L’assedio di Troia si trasforma in quello di Avarco (l’odierna Bourges),


Artù, Lancillotto e Galvano diventano controfigure di Agamennone,
Achille e Patroclo, mentre Clodasso e Segurano, rispettivamente re e cam-
pione dei germani assediati, raccolgono l’eredità di Priamo ed Ettore; e
oggetto di questa fedele imitazione, magari appena movimentata da qual-
che variazione, sono anche i luoghi topici dell’Iliade, come la Dolonea
347
Matteo Navone

che, da avventurosa sortita notturna di un paio di eroi, diventa, nel c. XV,


vera e propria spedizione militare che coinvolge più soldati.
L’Avarchide presenta inoltre tutti i connotati ideologici fondamen-
tali del poema eroico, dalla marginalizzazione del tema amoroso (diver-
samente dall’Italia liberata, qui l’ira di Lancillotto non nasce dall’éros,
ma da ragioni interne al codice guerresco, ovvero l’offesa del maligno
Gaveno e la mancata difesa di Artù, situazione che ricorda molto da vi-
cino l’incipit del Morgante) alla trasformazione del cavaliere romanzesco
(che dimostra il proprio valore nel gesto eroico individuale) al guerrie-
ro epico, che sublima il suo onore nel perseguimento di un fine collet-
tivo e nella fedeltà al suo dovere e al suo signore; una trasformazione,
come ha mostrato Jossa (cfr. La fondazione di un genere… cit., pp. 191-
94 e 199-200), ben sintetizzata nella parabola di Lancillotto che, supe-
rata la ribellione iniziale, torna alla fine braccio fedele di Artù, ottenen-
do da quest’ultimo una riconoscenza adeguata ai suoi servigi.
Ancor più significativo appare il percorso di Bernardo Tasso, padre
dell’autore della Liberata, che dai primi anni quaranta comincia a lavo-
rare all’Amadigi, poema che riprende – basandosi liberamente sull’A-
madis de Gaula di Garcia Ordónez de Montalvo, romanzo spagnolo di
inizio Cinquecento – una leggenda popolare proveniente dalla peniso-
la iberica, ma di matrice bretone, incentrata sulle avventure cavallere-
sche e sentimentali dell’eroe Amadis. Come per il Girone, anche qui il
progetto originario del poema, che prevedeva unità d’azione e d’eroe e
uso dell’endecasillabo sciolto, viene modificato in corso d’opera, dise-
gnando però un’evoluzione che va in direzione contraria a quella segui-
ta dall’Alamanni. Per Tasso, l’impostazione classicista non è punto d’ar-
rivo ma di partenza, e cade nel momento in cui si scontra con un fatto-
re ormai non più eludibile, il gusto del pubblico contemporaneo. È no-
to l’episodio, raccontato dal figlio Torquato nella sua Apologia, della let-
tura del primo Amadigi ‘aristotelico’, data presso la corte del principe di
Salerno Ferrante Sanseverino, alle cui dipendenze Bernardo si trovava
allora: la sala, inizialmente gremita di cortigiani, durante la lettura si
svuotò del tutto, dimostrando chiaramente al povero Bernardo quanto
il rispetto delle regole aristoteliche compromettesse la piacevolezza del-
l’opera, e dunque la sua possibilità di avere successo. Del resto a Ber-
nardo bastava guardare ai verdetti toccati alle fatiche dei suoi predeces-
sori per trovare ulteriori conferme di questa realtà: gli sforzi in direzio-
ne classicistica si erano negli anni moltiplicati, ma alla fine il gusto del
pubblico di corte continuava a premiare il modello romanzesco e ario-
stesco, accogliendo freddamente opere come L’Italia liberata, il Girone
e l’Avarchide. Bernardo rimise pertanto mano al suo poema, impegnan-
dosi in una laboriosa revisione nella quale coinvolse, come consiglieri,
alcuni dei più autorevoli letterati del tempo: Giraldi Cinzio, Sperone
348
Epica italiana

Speroni, Alamanni, Ludovico Dolce e altri. Nel carteggio che testimo-


nia questa fase revisoria, Tasso manifesta più volte ai corrispondenti, e
soprattutto al Giraldi, la necessità, per lui inderogabile, di adeguare il
progetto dell’Amadigi al gusto del suo «corrotto secolo» cui «nulla ag-
grada se non quello che diletta». Il giudizio negativo sul proprio tempo
(che anche Torquato farà suo) è evidentemente netto, ma si accompa-
gna alla consapevolezza che non tener conto dell’uso contemporaneo
equivarrebbe a precludersi la via del consenso: tale esigenza non era an-
cora emersa nel dibattito sull’eroico con la centralità che si osserva nel
caso di Tasso senior, per il quale anche Giraldi non aveva tenuto in de-
bito conto questo problema, rendendo il suo Ercole «pieno di erudizio-
ne», «dottrina» e «utilità», ma decisamente deficitario sul piano della «di-
lettazione». Lo sbocco di queste riflessioni non poteva che essere un poe-
ma molto diverso dalla formulazione originaria, ovvero l’Amadigi in cen-
to canti che Bernardo dà alle stampe a Venezia nel 1560, nel quale è evi-
dente, fin dalle prime battute, la rinuncia a ogni velleità unitaria:
L’eccelse imprese, e gli amorosi affanni
del prencipe Amadigi, e d’Oriana,
il cui valore dopo tanti, e tant’anni
ammira, e ’nchina ancor l’Austro, e la Tana:
e d’altri cavalier, ch’illustri inganni
fecero al tempo; e la sua rabbia vana;
cantar vorrei con sì sonoro stile;
che l’udisse Ebro, Idaspe, e Battro, e Thile. (I 1)

Come attesta la prefazione di Ludovico Dolce, Bernardo sceglie di


abbracciare «più azioni […] accostandosi a quella piacevole varietà, che
ne l’Ariosto è stata dall’universale giudicio de gli uomini lodata, e ap-
provata». A questo riavvicinamento al Furioso vanno ricollegati il recu-
pero dell’ottava e del binomio cavalleresco per eccellenza (eccelse impre-
se e amorosi affanni), così come la scelta di intrecciare alla storia di Ama-
digi e Oriana altre vicende (come gli amori tra la sorella di Amadigi, Mi-
rinda, e il fratello di Oriana, Alidoro, o ancora quelli tra Filidora e Flo-
ridante, personaggio quest’ultimo cui Bernardo dedicherà un poema più
unitario e incompiuto, pubblicato dal figlio Torquato nel 1587 col ti-
tolo Floridante), inventate da Tasso tenendo ben presenti gli esempi di
Boiardo e Ariosto. Al tempo stesso, precisa sempre Dolce, Bernardo ha
respinto alcuni elementi del romanzo ariostesco, come «le moralità ne’
principii di ciascun canto», sostituiti spesso da descrizioni di albe e not-
turni. Pur restando sostanzialmente nell’alveo del poema cavalleresco,
l’Amadigi sembra voler sfuggire a una definizione troppo specifica. Non
a caso, in una lettera a Girolamo Molino del gennaio 1558, Bernardo
afferma che l’Amadigi, a detta di «alcuni eccellenti, e giudiziosi uomini,
349
Matteo Navone

[…] tutto che non sia poema d’una sola azione», appare avere «più del-
l’eroico degli altri di questa maniera» (cioè dei romanzi), pur rappre-
sentando un genere di poema comunque «diverso dall’epico», e dunque
non «sottoposto alle leggi sue». Anche l’eroico di Bernardo Tasso è in-
somma un ibrido incerto, che risente ancora della pressione del model-
lo ariostesco, pur non volendo restare del tutto bloccato su di esso.
L’Amadigi ebbe dal pubblico una risposta più positiva di quella del-
l’Italia liberata e del Girone, come testimoniano le due edizioni cinque-
centesche (1581 e 1583) che fecero seguito alla princeps, ma non otten-
ne, com’era inevitabile, il consenso dei dotti. Tasso padre lascia in ere-
dità al figlio la necessità di portare l’eroico a un livello di sintesi più ma-
tura, che non obblighi più a scegliere, come ancora aveva dovuto fare
lui, tra «poema di ragione, esemplato sui modelli dell’arte», e «poema di
successo, fondato sull’uso, sul diletto e sul senso comune» (cfr. Jossa, La
fondazione di un genere… cit., p. 51).

12.14. Le due tendenze generali che abbiamo visto guidare, in con-


correnza con il permanere della lezione ariostesca, i primi tentativi di
poesia eroica – epica omerica e collettiva o poema di un solo eroe – si
ritrovano ben rappresentate negli esperimenti poetici giovanili di Tor-
quato Tasso. Il suo apprendistato epico si svolge tra il 1559 e il 1562,
quando Tasso si muove tra Padova, dove frequenta l’università, e Vene-
zia, dove aiuta il padre nella correzione dell’Amadigi. In questo periodo,
attraverso sia la collaborazione alla revisione del poema paterno, sia la
frequentazione di intellettuali e letterati come Sperone Speroni, Gian
Mario Verdizzotti e Danese Cataneo (quest’ultimo autore dell’Amor di
Marfisa, del 1562, altro poema che mescola matrice ariostesca e ado-
zione di moduli epico-classici, come l’unità d’azione, e che sarà uno dei
punti di riferimento del Rinaldo), Tasso viene a conoscenza delle varie
scuole di pensiero che stanno animando il dibattito sul poema eroico,
acquisendone una precoce consapevolezza che si riflette nei due frutti di
questo suo apprendistato letterario, l’uno, il Gierusalemme, rimasto in-
terrotto, e l’altro, il Rinaldo, portato a termine e pubblicato a Venezia
nel 1562. L’interruzione del primo progetto – composto probabilmen-
te nel 1559-1560, prima del Rinaldo – si spiega facilmente: il Gierusa-
lemme altro non è che un primo abbozzo, limitato al primo canto, di un
poema sulla prima crociata – idea ispirata forse al Tasso dal Cataneo, se-
condo la testimonianza del Verdizzotti –, destinato dunque a confluire,
almeno in parte, nel più maturo disegno della Liberata. La materia è in-
fatti grosso modo quella dei primi due canti del poema maggiore: la mar-
cia verso Gerusalemme dei crociati guidati da Goffredo, l’ambasceria
presso il loro campo dei musulmani Alete e Argante, l’inquieto nottur-
no dei cristiani ansiosi di raggiungere la città santa, la rassegna dell’e-
350
Epica italiana

sercito crociato, sono tutti momenti della Liberata che trovano nel Gie-
rusalemme la loro prima stesura. I versi proemiali dichiarano già alcune
scelte che saranno alla base dell’impianto della Liberata: racconto di
un’impresa collettiva, che accompagna all’eroe principale, il duce Gof-
fredo, i vari guerrieri crociati («L’armi pietose io canto, e l’alta impresa
/ di Gotifredo, e de’ cristiani eroi»; 1) e adozione di una materia storica
poeticamente rielaborata («Questa, che spiego or de i gran fatti altrui /
antiqua tela, e parte adorno, e fingo; / è verace pittura e certa […]»; 3),
la cui verità è accresciuta dal suo legame con la sfera del religioso.
Diversamente il Rinaldo, poema in dodici canti composto nel 1561-
1562, torna ad attingere ai temi carolingi per raccontare le prime av-
venture cavalleresche e sentimentali di Rinaldo (la conquista del caval-
lo Baiardo e della spada Fusberta, l’innamoramento per Clarice, e altri
episodi attestati nella tradizione pre-boiardesca del personaggio), affi-
liandosi così al ‘ciclo’ epico formatosi, come si è visto, attorno ai perso-
naggi dell’Inamoramento e del Furioso. Un genere di consumo, ma nel
quale Tasso si inserisce dando subito il suo primo saggio di riflessione
poetica nella premessa ai lettori, in cui giustifica la natura ibrida del Ri-
naldo, «parte ad imitazione de gli antichi e parte a quella de’ moderni
composto», tentando di destreggiarsi tra i due poli che già avevano an-
gustiato il padre, regola e diletto. Delle «severe leggi d’Aristotile, le qua-
li spesso hanno reso […] poco grati que’ poemi che per altro gratissimi
[…] sarebbono stati», Tasso assicura di aver rispettato solo quelle che
«non togliono il diletto», trattando, «con perpetuo e non interrotto fi-
lo», di «un sol cavaliero restringendo (per quanto i presenti tempi com-
portano) tutti i suoi fatti in un’azione». L’allusione ai presenti tempi fa
capire che si sta parlando di un’unità d’azione «largamente considera-
ta», temperata cioè attraverso le necessarie concessioni alla molteplicità
romanzesca, ovvero a quelle parti episodiche «che, se non ciascuna per
sé, almeno tutte insieme fanno non picciolo effetto, e simile a quello che
fanno i capelli, la barba, e gli altri peli» nel corpo umano, «de’ quali s’u-
no n’è levato via, non ne riceve apparente nocumento; ma se molti, brut-
tissimo e difforme ne rimane». Del romanzo, il che equivale a dire del
modello ariostesco, resta dunque la varietà ‘dilettevole’, ma non i proe-
mi, le moralità e gli interventi del poeta in prima persona, che rendono
imperfetta l’imitatio e sono superflui in presenza di una racconto con-
tinuo e non a entrelacement, quale è appunto quello del Rinaldo. Simil-
mente a quanto aveva fatto il padre per l’Amadigi, il giovane Tasso non
applica al suo poema né l’etichetta di epos né quella di romanzo, e si di-
chiara anzi consapevole che esso potrà ricevere critiche sia dagli aristo-
telici, «che hanno innanzi gli occhi il perfetto esempio di Virgilio e d’O-
mero» e non «riguardano mai al diletto», sia dei «troppo affezionati de
l’Ariosto», cui non piacerà l’assenza delle moralità: dimostrando una
351
Matteo Navone

consapevolezza che fa tesoro delle esperienze precedenti (il fallimento di


Trissino, le riflessioni teoriche di Giraldi e Pigna, la tormentata rielabo-
razione dell’Amadigi), Tasso insegue ormai un eroico inteso come terza
via alternativa tanto ai modelli antichi quanto a quelli moderni, che pre-
leva da Ariosto e da Omero senza ripiegarsi completamente né sul Fu-
rioso né sull’Iliade.
Detto questo, bisogna pur sempre tener presente che non siamo an-
cora alle prese con la Liberata, ma con un primo esperimento giovani-
le, che mescola in maniera ancora acerba ricordi classici e materiali ca-
vallereschi. La via seguita più da vicino è quella delle tante azioni di un
solo eroe, in contiguità con l’Ercole e, soprattutto, il Girone il cortese, di
cui il Rinaldo eredita i limiti e le forti contaminazioni col romanzesco.
Come anticipa l’incipit («Canto i felici affanni e i primi ardori / che gio-
vinetto ancor soffrì Rinaldo, / e come il trasse in perigliosi errori / desir
di gloria e amoroso caldo»; I 1), Rinaldo è ancora un cavaliere errante,
che affronta una dopo l’altra le classiche venture tenute insieme, in ma-
niera comunque posticcia, dalla sola onnipresenza del protagonista, sen-
za che si delinei una teleologia ben definita, cosicché il racconto si in-
terrompe con il matrimonio tra Rinaldo e Clarice più perché giunto al
termine del soggetto prescelto (la giovinezza dell’eroe) che non per un
autentico esaurirsi dell’azione. Inoltre, se è vero che Rinaldo combatte
molto, lo fa per scopi ancora individualistici, agisce cioè non come un
eroe epico ma ancora come un cavaliere, spinto dalla volontà di accre-
scere la sua fama (desir di gloria) e di conquistare l’amore di Clarice (amo-
roso affanno). Nel ‘clima’ ancora romanzesco dell’insieme, l’amore è av-
vertito solo talvolta (cfr. II 1-8) in contrasto con l’onore guerriero, e si
ritaglia intermezzi lirici che sono un primo annuncio di quelli della Li-
berata. Per il resto, le armi hanno sì il primato, ma sono anche, come
nelle Stanze di Poliziano, veicolo per conquistare l’amore («Segui, Ri-
naldo, il tuo desir primiero / di venir chiaro in arme, e fia tua moglie /
Clarice allora […]», dice un oracolo a Rinaldo in V 67), regola che va-
le anche per Florindo, compagno di ventura di Rinaldo e innamorato
respinto della principessa Olinda, che solo seguendo la via delle armi
(cfr. V 68) potrà superare ogni impedimento al suo amore. Accanto al-
l’amore lecito e onesto, c’è spazio immancabilmente anche per quello
che porta a deviare dal cammino eroico: anche Rinaldo dimentica per
un po’ le sue ambizioni guerriera e la sua Clarice invaghendosi della prin-
cipessa Floriana (cfr. c. IX), più prossima però a una Didone che non a
un’Alcina o a un’Armida.
Che il Rinaldo sia una sorta di prima presa di contatto con i mecca-
nismi e le questioni dell’epica contemporanea, per ‘farsi le ossa’, nel-
l’attesa di riprendere il più impegnativo discorso iniziato col Gierusa-
lemme, lo conferma il proemio stesso del poema giovanile, in cui l’au-
352
Epica italiana

tore prefigura al dedicatario, il cardinale Luigi d’Este, una futura ele-


zione al soglio papale che lo vedrà banditore di una nuova crociata, an-
nunciandogli per l’occasione la composizione di un’opera che ne cele-
brerà le «imprese e l’arme», ma per la quale sarà necessario «cangiar la
lira in tromba e ’n maggior carme» (I 5), affermazione che esplicita già
la possibilità e la volontà di raggiungere un’intonazione epica più alta.
Ciò avviene quando Tasso torna a lavorare sull’idea giovanile di un poe-
ma dedicato alla prima crociata: essa è recuperata e portata a un primo
compimento tra il 1565 e il 1575, anche se negli anni successivi si al-
terneranno varie stesure che risentono dei continui ripensamenti del-
l’autore e dei dubbi instillatigli dagli illustri ‘consulenti’ (lo Speroni, l’a-
mico di gioventù e futuro cardinale Scipione Gonzaga, il poeta Piero
Angeli da Barga, detto il Bargeo, lo studioso classico e filosofo neopla-
tonico Flaminio de’ Nobili, il teologo e severo censore ecclesiastico Sil-
vio Antoniano) contattati, sull’esempio paterno, per la revisione dell’o-
pera, detta romana per il fatto che i membri di questo gruppo di lettu-
ra – coi quali Tasso comunicava attraverso intermediari, per via episto-
lare – si trovavano per l’appunto a Roma. In questa sua tormentata ge-
nesi il poema, già atteso con impazienza, è tenuto ostinatamente lonta-
no dalla stampa, ma solo finché Tasso è in grado di controllare la diffu-
sione dei suoi scritti, facoltà che viene meno durante la reclusione a San-
t’Anna (1579-1586): già dal 1579 cominciano a circolare edizioni ‘pi-
rata’ parziali del poema, cui seguono le prime complete (le due stampe
curate nel 1581 dal letterato Angelo Ingegneri), che lo consegnano alla
storia col titolo di Gerusalemme liberata, coniato dall’Ingegneri e sem-
pre rifiutato dall’autore. Ma al di là degli incidenti biografici, l’officina
della Liberata si contraddistingue per la sua singolare sinergia tra mo-
mento speculativo e impegno compositivo. Per Tasso, l’operazione di
scrittura del poema non può prescindere da una riflessione preliminare
sul genere eroico, volta anche a elaborare un modello teorico che costi-
tuirà la base di partenza per la costruzione del poema; tale riflessione ha
luogo nei tre Discorsi dell’arte poetica, composti dall’autore in gioventù,
negli stessi anni del Rinaldo, ma poi certamente rimaneggiati, e pubbli-
cati nel 1587, assieme alle Lettere poetiche (che testimoniavano la fase
della revisione romana), in un altro volume non autorizzato da Tasso.
Se considerati in parallelo, Discorsi giovanili e Liberata rivelano un
progetto certamente innovativo, ma che porta anche a compimento quei
propositi di riforma già inseguiti dai vari Trissino, Giraldi, Alamanni.
La prima pietra della costruzione la pone la Poetica aristotelica, ed è il
verosimile: l’epica deve raccontare azioni illustri che comunichino
un’«opinion di verità» in grado di coinvolgere il lettore, e tali possono
essere solo quelle tramandate dall’«auttorità della istoria». Il poeta tut-
tavia, continua Tasso, non deve essere un semplice versificatore della sto-
353
Matteo Navone

ria quale è stato Lucano: egli deve ricercare non la «verità de’ particula-
ri» come fa lo storiografo, ma il «verisimile in universale», ed è dunque
libero di alterare il vero e introdurre elementi di finzione, a patto solo
di non «mutare totalmente l’ultimo fine delle imprese ch’egli prende a
trattare, o pur alcuni di quelli avvenimenti principali e più noti» (pp.
17-18). È lo stesso principio dell’intessere «fregi al ver» confessato poi
nel proemio della Liberata, e lì legittimato in virtù dell’intento didasca-
lico, del delectare messo al servizio del docere l’utile portato dal vero (cfr.
Lib., I 2-3). Torna dunque il nesso tra storia e verità, contrapposto alla
fictio dei romanzi di cavalleria, già diversamente ricercato da Trissino e
Giraldi, anche se è chiaro che qui Tasso ripensa più all’Italia liberata che
non all’Ercole. In virtù di questi presupposti, bisognerà prendere «il sog-
getto del poema epico da istoria […] di secolo non molto remoto», poi-
ché ciò costringerebbe a trattare di usanze e costumi sconvenienti per il
pubblico moderno, «né molto prossimo alla memoria di noi ch’ora vi-
viamo» (p. 10), in quanto parlare di fatti ben noti ai lettori limiterebbe
di fatto la possibilità di intervenire poeticamente su di essi. A tali re-
quisiti risponde il soggetto della Liberata, ovvero l’ultima fase della pri-
ma crociata (l’assedio e la conquista di Gerusalemme del 1099), tratta
liberamente dalla Belli Sacri Historia di Guglielmo di Tiro, una storia
che presentava anche un’altra qualità richiesta nei Discorsi dell’arte poe-
tica, quella di essere sacra. C’erano già stati nel Cinquecento dei tenta-
tivi di coniugare forma poema e temi cristiani, e una prima possibilità
in questo senso era stata esplorata da due testi in esametri latini, il De
partu virginis del Sannazaro (1526), in tre libri, e i Christiados libri sex
di Marco Girolamo Vida (1535). Concentrandosi su momenti ben pre-
cisi della vita di Gesù (l’avvento nel Sannazaro, la passione, crocifissio-
ne e ascesa al cielo nel Vida), e recuperandone altri mediante, rispetti-
vamente, profezie o ricordi di alcuni personaggi, entrambi questi poe-
mi religiosi affrontavano la materia neotestamentaria guardando ad au-
tori come Claudiano, Ovidio, Virgilio, con i sei libri del Vida che si pro-
pongono come una sorta di Eneide cristiana. Pur annoverando questi te-
sti, in particolare quello di Vida, tra le fonti della Liberata, Tasso prefe-
risce evitare la loro pericolosa mescolanza di materia scritturale e cultu-
ra classica. Il poeta eroico deve trarre il suo argomento «da istoria di re-
ligione vera, ma non sì sacra che non sia immutabile» (ibidem): deve in-
somma ispirarsi alla guerra santa più che alla Bibbia, come aveva già fat-
to il Bolognetti nel suo poema La cristiana vittoria marittima, del 1572.
L’evento scelto dal Bolognetti – la battaglia di Lepanto – era troppo con-
temporaneo per i gusti di Tasso, ma la direzione seguita nella Liberata è
evidentemente la stessa: quella di un poema eroico ormai arruolato nel-
la politica culturale controriformista, che deve unire materia storica e
religiosa, diffondendo e celebrando i valori di una collettività, com’era
354
Epica italiana

alle origini dell’epica, con la differenza però che ora tale collettività co-
incide, più che con un popolo o un regime, con una comunità religio-
sa: il mondo cattolico post-tridentino, impegnato da un lato sul fronte
della lotta esterna contro la rinnovata minaccia musulmana, e dall’altro
su quello interno del contrasto all’eresia protestante.
La materia sacra è però anche utile a Tasso per risolvere uno spinoso
problema, quello dell’apparentemente impossibile conciliazione tra ve-
rosimile e meraviglioso. Nell’Arte poetica, il sorrentino avverte dell’op-
portunità di non rinunciare agli ingredienti fantastici tipici dei racconti
cavallereschi («anelli», «scudi incantati», «corsieri volanti», «navi conver-
se in ninfe», «larve che fra’ combattenti si trasmettono»), in quanto «di-
lettevoli» e atti a colpire «non solo l’animo de gli ignoranti, ma de’ giu-
diziosi ancora»; essi possono non compromettere la verosimiglianza del-
l’insieme, a patto che siano resi plausibili per dei lettori cristiani, attri-
buendoli non più alla «deità de’ gentili», ma a «Dio, a gli angioli suoi, a’
demoni o a coloro a’ quali da Dio o da’ demoni è concessa questa pode-
stà, quali sono i santi, i maghi e le fate» (pp. 6-7): il punto è insomma
ottenere, appoggiandosi all’opinione comune, un ‘impossibile credibile’,
già indicato da Aristotele come preferibile a un ‘incredibile possibile’ (cfr.
Poetica, 1460a 26-27 e 1461b 10-12). Il motivo classico dell’intervento
divino nelle vicende umane può finalmente essere recuperato aderendo
al meraviglioso della tradizione biblico-cristiana, senza più bisogno del-
le impacciate sovrapposizioni trissiniane tra Olimpo e Paradiso, con tut-
t’al più un Lucifero ribattezzato Plutone: tale meraviglioso non manca di
ispirarsi ancora a quello antico – e in particolare al suo repertorio di ibri-
di mostruosi, prontamente trasferiti tra le schiere diaboliche – ma se ne
distingue anche per il suo rigido manicheismo tra bene e male, Cielo e
Inferno, applicato pure alla realtà umana, ben più bipartita di quella de-
scritta da Boiardo e Ariosto: da un lato i crociati, su cui vegliano Dio e
gli angeli, dall’altro i pagani e i diavoli loro alleati.
È proprio nel conseguimento di obbiettivi come questo che si misu-
ra, per Tasso, il valore di un poeta, nel raggiungere cioè una convincen-
te conciliazione tra estremi opposti: meraviglioso e verosimile, unità e
varietà, epos e romanzo. Nel secondo discorso, Tasso ribadisce che la «fa-
vola» epica deve essere «integra» – avere cioè un inizio, uno sviluppo in-
termedio e una conclusione –, di «grandezza convenevole» (pp. 19-21),
e infine unitaria, ma la sua dev’essere un’unità composta, che nasce, co-
me quella degli organismi viventi o dell’universo stesso, dalla combina-
zione armoniosa di elementi diversi. Il poeta veramente dotato – riven-
dica Tasso già pensando alla competizione con Ariosto – è quello che sa
far scaturire da un’unica azione, non da «molte e separate», una «gran
varietà d’accidenti» (p. 36), dimostrando così – e qui il rimprovero va
invece a Trissino – la falsità dell’assunto per cui «la moltitudine delle azio-
355
Matteo Navone

ni» sarebbe «più atta a dilettare che l’unità» (p. 34). Anche Tasso, come
il padre, capisce che occorre scendere a patti col «gusto isvogliato» (p.
35) del proprio tempo, ma a differenza del genitore definisce più netta-
mente i confini tra epos e romanzo: rifiutando in questi stessi Discorsi –
sulla scorta delle posizioni dello Speroni e del Minturno – la distinzio-
ne giraldiana in due generi, in quanto le differenze tra le due forme so-
no accidentali e non sostanziali, ragion per cui le regole aristoteliche val-
gono anche per il romanzo, Tasso recupera nella Liberata quel tanto di
romanzesco che gli serve – temi, luoghi e caratteri più che tecniche e mo-
di narrativi, come dimostra, per esempio, il contenuto utilizzo della so-
spensione, che mai sfocia in un autentico entrelacement –, inserendolo
in una struttura aristotelicamente ordinata, come avevano già cercato di
fare, con risultati ben differenti, i suoi predecessori. Nella Liberata, il
proemio identifica il nucleo centripeto ed epico del poema nell’impresa
della liberazione del Santo Sepolcro («Canto l’arme pietose e ’l capitano
/ che ’l gran Sepolcro liberò di Cristo. / Molto egli oprò co ’l senno e con
la mano, / molto soffrì nel glorioso acquisto»: I 1), guidata da Goffredo
di Buglione, comandante dei crociati e incarnazione nel poema dell’or-
dine; ma subito dopo annuncia la componente centrifuga e romanzesca
(«E in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano / s’armo d’Asia e di Libia il
popol misto. / Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi / segni ridusse i suoi
compagni erranti»: ibidem). Azione principale più episodi, formula, co-
me si è detto, autorizzata da Aristotele per garantire la lunghezza epica,
distinta dalla concisione tragica: il rischio da evitare è che la varietà epi-
sodica «passi in confusione» (p. 35), impedisca cioè di far seguire lo svol-
gersi dell’azione principale. A tale scopo, messo da parte il libero anda-
mento digressivo di Ariosto, Tasso compatta gli episodi attorno a una ra-
dice comune, a sua volta connessa al tema unificante della guerra santa,
ponendoli quasi tutti (salvo gli ‘intermezzi’ di Olindo e Sofronia nel c.
II e di Erminia tra i pastori nel VII, non a caso quelli che si rivelarono
più problematici da giustificare per Tasso) sotto il segno degli impedi-
menti che si frappongono all’impresa, e dunque di quella funzione ri-
tardante dell’esito epico (l’espugnazione di Gerusalemme, compiuta uni-
tamente da tutte le forze cristiane) già rintracciabile, come si è visto, al-
meno in una parte del Furioso. Tali impedimenti, come mostra ancora il
proemio, dipendono sia dall’alleanza tra pagani e forze diaboliche – l’in-
flusso di queste ultime si manifesta a partire dal concilio infernale che
apre il c. IV, e si configura come un’aristotelica ‘perturbazione’, un’a-
zione cioè che causa lutti e sofferenze, e che termina con una ‘peripezia’,
ovvero un passaggio da una fase di cattiva a una fase di buona sorte per
i crociati (il «novello ordine di cose» con cui Dio esaudisce la preghiera
di Goffredo alla fine del c. XIII), costruzione questa che mostra come
Tasso tenga conto anche di quelle ‘parti di qualità’ che Aristotele rin-
356
Epica italiana

traccia nella tragedia, ma considera comuni anche all’epica (cfr. Poetica,


1459 b, 10ss.) – sia, più genericamente, dal motivo dei compagni erran-
ti (che deviano, spazialmente e moralmente, dal dovere della conquista
gerosolimitana), in cui può rientrare anche la particolare vicenda di Tan-
credi. Il romanzesco, sotto forma di amori e magie, confluisce in questa
zona ‘negativa’ dell’opera, a dimostrazione che la Liberata, seppur teori-
camente aperta a ogni aspetto del reale (la celebre immagine del poema
come «picciol mondo», contenuta nel secondo dei Discorsi dell’arte poe-
tica: cfr. pp. 35-36), di fatto cataloga quel reale secondo una precisa ge-
rarchia etica: l’idea di erranza già dal proemio si configura ormai come
una pericolosa devianza eterodossa, anche se – particolarmente nella sua
accezione sentimentale – essa fa sentire ancora tutta la sua forza amma-
liatrice e seduttrice, tanto che né l’autore né i suoi personaggi riescono a
respingerla con assoluta fermezza.
La terza parte dell’Arte poetica, dedicata all’elocutio, rivela in apertu-
ra un altro dettaglio importante: «lo stile eroico», scrive Tasso, «è in mez-
zo quasi fra la semplice gravità del tragico e la fiorita vaghezza del liri-
co, e avanza l’una e l’altra nello splendore d’una meravigliosa maestà».
A esso si addice dunque la solennità dello stile ‘magnifico’ dello ps. De-
metrio Falereo, pronta però a virare, quando lo richieda il contenuto,
verso la «semplicità del tragico» o «le lascivie del lirico» (pp. 41-42). È
una dichiarazione importante, che rivela la volontà tassiana di innesta-
re, nell’epos della Liberata, elementi provenienti non solo dal romanzo
ma anche da altri codici, a cominciare appunto da quello tragico, sotto
la guida della Poetica aristotelica, e da quello lirico, sotto l’egida del Can-
zoniere di Petrarca (per la cui influenza sulla Liberata cfr. Claudio Scar-
pati, Tasso, i classici e i moderni, Padova, Antenore, 1995, pp. 1-74). In
entrambi i casi, si tratta di intarsi rilevabili a livello non solo retorico e
stilistico, ma anche tematico e narrativo, all’insegna di una variatio di
registri introdotta per rinnovare la forma epica classica, rendendola frui-
bile presso un pubblico vasto ed eterogeneo come quello del Furioso.
L’impianto generale della Liberata, con la sua ben definita teleolo-
gia, mostra strette parentele sia con l’Iliade, sia con l’Eneide: alla prima
rinviano il tema dell’assedio e la dimensione corale dell’azione, elemen-
ti recuperati attraverso la mediazione dell’Italia liberata dai Goti, supe-
rata però, sul piano dell’ortodossia omerica e aristotelica, con la scelta
di un racconto che entra in medias res, selezionando solo una parte del-
la crociata; all’Eneide – importantissima fonte dell’architettura narrati-
va e stilistica del poema (cfr. E. Raimondi, Poesia come retorica, Firenze,
Olschki, 1980, pp. 85 ss.) – rimandano diversi aspetti, a cominciare dal
carattere provvidenziale e divino della missione epica, la cui realizzazio-
ne è però stavolta divisa tra il leader Goffredo, che incarna in maniera
incorruttibile lo spirito militante dell’impresa, e i suoi cavalieri crocia-
357
Matteo Navone

ti, più compromessi con le passioni terrene, tra i quali spicca Rinaldo,
eroe decisivo ed encomiastico (sull’esempio di Ruggiero, è membro del-
la casa d’Este, e avo del dedicatario Alfonso II). Goffredo presenta sen-
z’altro il pedigree epico più marcato, presentandosi come una sorta di
Enea controriformista. La sua pietas si esprime in un’umile ubbidienza
a Dio e in una dedizione alla missione persino più incorruttibile di quel-
la del suo predecessore troiano: nessun affetto privato, nessuna Didone
scalfisce, anche solo momentaneamente, la sua corazza di soldato di Cri-
sto. Eroe cristiano esemplare, come il Belisario di Trissino, dà corpo nel
poema al concetto di arché, di ordine militare e morale, cui cerca co-
stantemente di ricondurre i più distratti compagni erranti. I principali
esponenti di questo gruppo, Rinaldo e Tancredi, con i loro corredi ge-
netici che mescolano epos eroico e cavalleresco, permettono all’amore
di riconquistarsi uno spazio di rilievo nell’economia dell’opera. Tasso,
del resto, dichiara esplicitamente di ritenere «convenevolissima al poe-
ma eroico» la materia amorosa, ma nell’accezione degli amori «nobili» e
«tragici», nel senso di «perturbati con grandi e meravigliosi accidenti e
grandemente patetici» (Lettere poetiche, pp. 434-35). Questa attenzione
per il tragico e il patetico lascia intuire modalità ben distanti da quelle
dell’Inamoramento e del Furioso. Il nesso armi-amori – formulato da
Boiardo nella sua accezione cortese (è amore «che dà la gloria»), ripresa
da Ariosto (che pur ne mostrava i possibili eccessi nella follia di Orlan-
do) e messa in discussione nei poemi di metà Cinquecento – torna nel-
la Liberata sotto il segno del conflitto: conflitto interiore, memore del
dissidio dell’io lirico petrarchesco, rideclinato però nella sua accezione
tassiana, la contrapposizione tra onore e amore, tra etica religioso-so-
ciale ed etica di natura.
Rinaldo e Tancredi vivono questo conflitto seguendo percorsi diver-
si, che rivelano anche le opposte tipologie eroiche che essi incarnano. In
Rinaldo ritroviamo un erede sì di Achille, ma anche del Corsamonte del-
l’Italia liberata: è l’eroe invincibile – a lui il Cielo ha riservato il ruolo
decisivo per la vittoria cristiana – eppure iracondo e istintivo, la cui dis-
erzione/erranza è dovuta sia all’ira (l’uccisione di Gernando nel c. V) sia
all’amore illecito per Armida. L’eroe, cedendo agli incanti e al fascino
della fattucchiera, perde il suo decoro virile e si femminilizza (cfr. XVI
20ss.), come Ruggiero e l’Ercole di Giraldi; la donna lo allontana dal
suo compito eroico, segregandolo nel suo giardino incantato e labirin-
tico, luogo di «lascivi errori» (XVI 23), dove vige una morale opposta a
quella del campo di battaglia: «Solo chi segue ciò che piace è saggio, / e
in sua stagion de gli anni il frutto coglie. / Questo grida natura […]»,
mentre «nome, e senza soggetto idoli sono / ciò che pregio e valore il
mondo appella» (XIV 62-63). Il canto della sirena che fa cadere Rinal-
do in trappola nell’isoletta sull’Oronte – che anticipa il canto del pap-
358
Epica italiana

pagallo nel giardino vero e proprio (cfr. XVI 14-15), e consuona con
l’altrettanto celebre coro dell’atto I dell’Aminta – antepone natura e amo-
re a onore. Rinaldo, irretito, opta per i primi, ma l’intervento divino (al-
l’epos cristiano non può più bastare qualcosa di simile all’ariostesca, e
più ‘laica’, contro-allegoria di Logistilla), tramite i suoi agenti terreni
(Carlo, Ubaldo e il mago di Ascalona), chiude la parentesi romanzesca
e ristabilisce il primato del codice epico dell’onore: si deve combattere
per conquistare «pregio» e onorare «Cristo», non essere «campion d’u-
na fanciulla» (XVI 32), come Ubaldo rammenta a Rinaldo. Questi re-
cupera rapidamente il suo decoro eroico, ma la sua dicotomia è risolta
solo in apparenza: il richiamo al dovere non può impedirgli di provare,
se non amore, pietà (XVI 52) per Armida, che è costretto ad abbando-
nare, causandole un lamento da Didone abbandonata (cfr. XVI 63-67).
Fin qui, la vicenda non è molto dissimile da analoghi episodi che po-
polano l’epos rinascimentale, ma la novità sta all’epilogo della vicenda,
in cui Armida non resta ripudiata come una qualsiasi Alcina, ma si ri-
congiunge a Rinaldo; ciò avviene nel c. XX, in una scena che in realtà
Tasso, durante la revisione romana, aveva deciso di cassare, in quanto
dissonante con l’intonazione eminentemente epica che – dopo il ritor-
no di Rinaldo e la chiusura di tutti gli errori romanzeschi – caratterizza
gli ultimi canti. Sembra quasi che, in questo esito, Tasso ricerchi una
possibile conciliazione di opposti (e dunque tipicamente tassiana) tra
amore cavalleresco e onore epico, che può realizzarsi solo dati alcuni pre-
supposti moralizzatori. Da un lato, Rinaldo ritrova Armida solo dopo
aver espletato il suo dovere eroico: ha contribuito in maniera decisiva al-
la vittoria finale, sia rompendo gli incanti della selva di Saron, sia fa-
cendo strage di nemici nella presa di Gerusalemme; prima ancora di ciò,
ha compiuto un percorso di penitenza e purificazione morale – la sot-
tomissione a Goffredo, la confessione a Pietro l’Eremita, l’ascesa al mon-
te Oliveto – che gli ha permesso di vincere, nella selva, la visione volut-
tuosa della non vera Armida, segno del conquistato disciplinamento del-
le sue passioni irascibili e concupiscibili a una ratio cristianamente inte-
sa, come spiega l’Allegoria tassiana del poema. Dall’altro lato Armida,
smessi i suoi risentimenti, si offre all’amato come docile ancilla (XX
136), pronta alla conversione e a inscrivere il suo amore in una dimen-
sione lecita. Nell’epilogo, Rinaldo torna ad agire da cavaliere cortese,
impedendo ad Armida di suicidarsi, e adempie così alla promessa fatta
alla donna nel c. XVI: «Sarò tuo cavalier quanto concede / la guerra d’A-
sia e con l’onor la fede» (54, c.n.). Le condizioni sono chiare: si può dar
spazio all’etica cortese, agire per salvare la damigella amata in pericolo,
solo una volta soddisfatte le ragioni dell’onore e di Dio.
Viceversa, nella ben più drammatica vicenda di Tancredi, non c’è
spazio neppure per una conciliazione controriformista come quella con-
359
Matteo Navone

cessa a Rinaldo e Armida. Tancredi è anzitutto il personaggio tassiano


che più originalmente si distinguerebbe in una immaginaria galleria dei
più grandi eroi dell’epica: è sì un forte guerriero ma, a differenza di Ri-
naldo, ha anche evidenti tratti anti-eroici che lo differenziano nettamente
da archetipi come quelli di Achille o Enea. A separare Tancredi dai suoi
antenati classici è in primo luogo il vulnus da cui nasce la sua ‘etero-
dossia’ epica, ovvero l’intensità con cui vive il suo sentimento per Clo-
rinda, «follia d’amore» (I 45) irrealizzabile, perché rivolta a una guerrie-
ra nemica, e più ‘colpevole’ di quella di Rinaldo, in quanto non instil-
lata da alcun sortilegio. L’affiorare del sentimento di Tancredi compor-
ta sempre interpolazioni liriche in contesti epici, come avviene nei cc.
III e VI quando, sul campo di battaglia, Tancredi scorge Clorinda. L’e-
pifania della sua bellezza produce effetti pietrificanti sull’innamorato,
che smette di combattere e «lei veggendo impetra» (III 23) – improvvi-
sandosi subito dopo in una dichiarazione d’amore
Il mio cor, non più mio, s’a te dispiace
ch’egli più viva,
volontario more:
è tuo gran tempo, e tempo è ben che trarlo
omai tu debbia, e non debb’io vietarlo; (III 27)

– o ancora, mentre sta per scendere a singolar tenzone con Argante,


immobil si ferma, e pare un sasso
[…]
sol di mirar s’appaga, e di battaglia
sembiante fa che poco or più gli caglia. (VI 27)

Alle evidenti infrazioni di Tancredi al codice di comportamento eroi-


co (esitazione, estraniazione dal contesto bellico, sospensione dell’a-
zione guerriera), motivate dall’amore, si accompagna l’introduzione di
immagini (la scissione cuore/amante, il potere meduseo della donna)
di evidente provenienza lirico-petrarchesca. Anche Tancredi, come Ri-
naldo, vive una dicotomia tra identità cavalleresca ed epica, nonché
tra essere e dover essere, e se ne dimostra cosciente quando, imprigio-
nato da Armida dopo aver inseguito Erminia, creduta Clorinda (si no-
ti come pure in Tasso sia sempre la donna a trascinare, anche invo-
lontariamente, l’eroe nell’erranza), così si rammarica pensando al duel-
lo che mancherà con Argante: «Troppo […] al mio dover mancai; / ed
è ragion ch’ei mi disprezzi e scherna! / O mia gran colpa! o mia ver-
gogna eterna!» (VII 49). Tancredi appare in questo un eroe più pe-
trarchesco di Rinaldo: capisce che il suo «vano amor […]» (I 9) è in-
conciliabile col suo dovere di crociato, eppure non riesce a sottrarsi al-
360
Epica italiana

l’errore. Il conflitto non viene superato neppure nel duello mortale con
Clorinda del c. XII, nei cui gesti guerrieri, che mimano gesti amorosi
e sessuali, il nesso amore-armi conosce il suo esito più funesto: amore
e morte (cfr. G. Baldassarri, Il sonno di Zeus. Sperimentazione narrati-
va del poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma, Bulzoni, 1982,
p. 41). Non c’è dubbio che l’episodio sia riconducibile a precedenti
cavallereschi (il duello tra Orlando e Agricane nell’Inamoramento de
Orlando, per l’ambientazione notturna e la richiesta di battesimo in
morte, quello tra Turrismondo e Nicandra nell’Italia liberata dai Go-
ti, per il tardivo riconoscimento, mediante rimozione dell’elmo, del-
l’identità femminile dell’avversario), ma credo non sia sbagliato rav-
visarvi un’intersezione con il modo tragico, che conferisce spessore
drammatico a quella che avrebbe potuto essere una semplice digres-
sione episodica: Tancredi si macchia di una colpa grave e involontaria
– e dunque tipicamente tragica – condita, aristotelicamente, di agni-
zione e peripezia. Un simile scelus è però insolito per la coscienza di
un eroe epico, e conduce di fatto allo scacco del c. XIII, quando Tan-
credi non riesce a debellare gli incanti diabolici della selva di Saron.
Tancredi è sconfitto – anche se non da un avversario in carne e ossa,
ma dallo spettro illusorio di una non vera Clorinda, che è rappresen-
tazione visiva del suo senso di colpa – là dove Rinaldo riuscirà bril-
lantemente, in quanto non approda ‘linearmente’ a una conversione,
a differenza del compagno d’armi, purificatosi dai suoi «superbi sde-
gni e […] folli amori» (XVIII 9), e pertanto capace di esorcizzare i suoi
demoni interiori. Tancredi, solo in apparenza risanato dal discorso di
Pietro l’Eremita e dall’apparizione onirica di Clorinda (cfr. XII 86-88
e 91-93) – che tentano, su fronti opposti, di riportarlo ai doveri della
guerra e della fede – giunge invece alla prova ancora ‘contaminato’ dal-
la sua scissione interiore, rimproveratagli dall’Eremita
O Tancredi, Tancredi, o da te stesso
troppo diverso e da i princìpi tuoi,
chi sì t’assorda? e qual nuvol sì spesso
di cecità fa che veder non puoi?
Questa sciagura tua del Cielo è un messo;
non vedi lui? non odi i detti suoi? (XII 86)

e dal persistente pensiero di Clorinda, unica debolezza, capace però di


compromette la sua perfezione eroica:
Così quel contra morte audace core
nulla forma turbò d’alto spavento,
ma lui che solo è fievole in amore
falsa imago deluse e van lamento. (XIII 46; c.n.)

361
Matteo Navone

Mai il nesso armi-amori aveva conosciuto un’accezione tanto dramma-


tica. Tancredi conserva la sua dimensione anti-eroica anche quando ri-
torna finalmente all’azione guerriera. Nel duello finale con Argante (cfr.
XIX 9-28), come nei precedenti fatti d’armi che lo vedono coinvolto,
Tancredi dimostra grande abilità schermistica, ma certo non la potenza
quasi invulnerabile di un Rinaldo o di un qualsiasi paladino romanzesco,
tanto che al termine del cozzo il crociato, vittorioso, ma stremato e gra-
vemente ferito, cade a terra privo di sensi – in parallelo con la caduta in
trance successiva all’uccisione di Clorinda – mentre il poeta chiosa: «E ’l
vincitor dal vinto / non ben saria nel rimirar distinto» (XIX 28). Non c’è
trionfo neppure nella vittoria per Tancredi, ma solo, anche per lui, una
speranza d’amore, tra le amorevoli cure di Erminia (cfr. XIX 104-14).
L’apertura ai codici lirico e tragico determina nella Liberata una par-
ticolare attenzione per il patetico, per l’espressione e la commozione de-
gli affetti, che riesce talvolta a ritagliarsi spazi considerevoli per un poe-
ma epico. È ciò che accade nel c. VI, diviso tra una prima metà domi-
nata dalle armi (la disfida lanciata da Argante ai crociati), e una seconda
interamente dedicata ai toni sentimentali ed elegiaci dell’avventura not-
turna di Erminia, dove il momento dell’azione (la sortita sotto le menti-
te spoglie di Clorinda e il fallito tentativo di raggiungere l’amato Tan-
credi per curarlo) è preceduto dalla disputa interiore della fanciulla tra
Onore e Amore (cfr. VI 70-77), che, pur partendo dal ricordo dei di-
lemmi amorosi di altre eroine epiche, divise tra le ragioni del cuore e quel-
le della reputazione (la Medea di Apollonio, la Didone di Virgilio, la Scil-
la di Ovidio), è ancora rielaborazione narrativa del dissidio petrarchesco,
seppur sempre ridefinito nei ben noti poli tassiani. Al di là del versante
amoroso, il pathos si carica di tensione tragica là dove Tasso dà voce ai
sentimenti e al punto di vista dei vinti musulmani, come quando descrive
il terrore dilagante nelle strade di Gerusalemme per le violenze compiu-
te dai crociati (cfr. per es. XIX 29-38), istituendo, attraverso la trama in-
tertestuale, un parallelo tra la caduta di Gerusalemme e quella di Troia,
raccontata nel secondo dell’Eneide. Ma non solo la paura, anche il senso
dell’ineluttabilità della sconfitta, del venir meno di un mondo, trova
espressione nelle voci dei pagani, dal re Aladino («Ben si può dir: “Noi
fummo”. A tutti è giunto / l’ultimo dì, l’inevitabil punto»; XIX 40) ai fe-
roci ma strenuamente valorosi Argante e Solimano: il primo è consape-
vole che la sua resistenza altro non è stata che un vano «sostegno / […]
de la fatal ruina» (XIX 10) di Gerusalemme, mentre il secondo vede, nel-
l’infuriare della battaglia finale, l’emblema dell’«aspra tragedia de lo sta-
to umano», dei «gran giochi del caso e de la sorte» (XX 73). Ai loro oc-
chi di infedeli, la provvidenza divina torna a essere il fato immutabile del-
l’epos antico, contro cui nessuna forza umana o divina può nulla, e di
fronte al quale l’unica opzione resta aderire fieramente al proprio dovere
362
Epica italiana

e al proprio destino, fino all’ineluttabile esito. Veicolo dell’espressione di


questo pathos non è però solo la voce dei personaggi, ma anche quella
dell’io narrante, che – pur lasciando del tutto da parte le infrazioni me-
taletterarie e gli accostamenti tra l’esperienza dei personaggi e quella del-
l’autore, tipici dell’Ariosto – non rinuncia a ritagliarsi spazi di interven-
to che vogliono proprio sottolineare i momenti di maggior densità emo-
tiva del testo. Riproponendo e amplificando modalità soprattutto virgi-
liane, il «narratore passionato» della Liberata (la definizione viene da un
importante saggio di Raimondi, ora in I sentieri del lettore, a cura di A.
Battistini, Bologna, Il Mulino, 1994, 3 voll., vol. I, pp. 533-50) fonde
talvolta il suo punto di vista emotivo con quello del personaggio (come
avviene con Solimano in X 25), oppure al personaggio rivolge appassio-
nate apostrofi (come quella, celebre, al misero Tancredi in XII 58-59, che
preannuncia il tragico esito del duello con Clorinda), manifestando un
coinvolgimento con la materia narrata che esclude, anche qui, una nar-
razione rigorosamente oggettiva.
Tasso, come si è visto, sa rapportarsi con autonomia ai contenuti del-
la tradizione epica, e ciò vale anche per le molte situazioni topiche pre-
levate principalmente dall’Iliade, ma sottoposte poi a variatio, spesso con
la complicità di altri modelli antichi e moderni: oltre ai vari duelli, che
molto devono alle prove di Achille ed Ettore o di Enea e Turno, vanno
ricordati i cataloghi dell’esercito crociato (I 37-64) e di quello egiziano
(XVII 13-36) – contrapposti a distanza, secondo una soluzione virgilia-
na già importata dal Trissino – e la sortita notturna di Clorinda e Ar-
gante (su questi tópoi cfr. Baldassarri, Il sonno di Zeus… cit., pp. 100-
27), o ancora la teichoskopía del c. III, in cui Erminia indica ad Aladi-
no, dalle mura di Gerusalemme, i principali campioni crociati, come
Elena a Priamo nel III dell’Iliade (cfr. su questo la lettura del c. III pro-
posta da Daniela Foltran in Lettura della «Gerusalemme liberata», Ales-
sandria, Edizioni dell’Orso, 2005, pp. 55-58). Un discorso a parte me-
rita poi il tópos della discesa agli inferi. Nella Liberata, il tema della ca-
tabasi non viene utilizzato in funzione genealogico-encomiastica come
era stato nel Furioso – a tale scopo viene riattivato un altro tópos, quello
dello scudo istoriato, che il mago di Ascalona dona a Rinaldo, e sul qua-
le sono effigiate in ékphrasis, sulla scia dei precedenti di Omero e, so-
prattutto, Virgilio, le imprese degli antenati estensi del giovane crocia-
to (cfr. XVII 64-81) –, mentre i dialoghi tra i vivi e i defunti avvengo-
no semmai in sogno (Clorinda e Ugone che appaiono, rispettivamente,
a Tancredi e Goffredo nei cc. XII e XIV). Se nessun personaggio approda
realmente nell’aldilà, è pur vero che nella geografia del poema troviamo
un spazio omologo a quello degli Inferi, la già ricordata selva di Saron
del c. XIII. Luogo oggettivamente infernale, in quanto infestato dai de-
moni evocati da Ismeno, che qui danno parvenza visiva alle paure e ai
363
Matteo Navone

traumi interiori dei crociati, la selva appare ad Alcasto, dantescamente,


come «novella Dite» cinta da «fiamme torbide e fumanti», che «hanno
figura / di castelli superbi e torreggianti» (XIII 27), mentre come oltre-
tomba si manifesta a Tancredi, che apprende da un’iscrizione posta sul
tronco di un cipresso di essere giunto «dentro a i chiostri de la morte»
(XIII 39). Questa catabasi fittizia e ingannevole, che deriva la sua orro-
rosa scenografia e i suoi ‘effetti’ visivi e sonori dal bosco di Marsiglia del
terzo della Pharsalia, ma anche dagli Inferi descritti nel sesto dell’Enei-
de (cfr. l’analisi di Raimondi in Poesia come retorica… cit., pp. 102-11),
ricopre una funzione analoga a quella delle catabasi ‘reali’ (in primis pro-
prio quella di Enea), rappresenta cioè una prova dalla quale l’eroe deve
uscire perfezionato e rinnovato, con una nuova coscienza di sé e del sen-
so della sua missione. Su questa eredità Tasso innova liberamente, dan-
do al cimento i connotati di una prova collettiva che chiama in causa
tutto l’esercito cristiano: in un primo momento, la prova fallisce – con
la significativa débâcle legata a Tancredi che, anziché conoscere una ri-
nascita, tocca qui il punto più basso della sua parabola anti-eroica –, ma
l’impedimento sarà infine superato da Rinaldo, l’unico a cui la selva non
si presenta come luogo infernale e sepolcrale, ma anzi come locus amoe-
nus, anche se solo per coerenza con la particolare natura della sua terre-
na vulnerabilità. Nella selva, Rinaldo completa il perfezionamento del
suo status epico, consentendo all’impresa di avviarsi al suo provviden-
ziale epilogo. Questo detto, va precisato che se le variazioni apportate
da Tasso a tanti tópoi nascono spesso da un abile uso combinatorio del-
le fonti, nel caso del bosco di Saron non si può non pensare anche a una
risposta al luogo ‘illusorio’ per eccellenza del Furioso, il castello di At-
lante, risposta marcata da un ‘peggioramento’ dell’artefice (si passa in-
fatti da un mago pur sempre mosso da un sentimento d’affetto a un ne-
gromante sacerdote del male) e da un passaggio dalla rappresentazione
dei desideri inappagati al loro specchio negativo, i fantasmi interiori ra-
dicati (come spiega ancora l’Allegoria) nella «falsità delle ragioni e delle
persuasioni, la qual si genera nella selva, cioè nella moltitudine e varie-
tà de’ pareri e de’ discorsi umani», e che travia gli uomini verso il vizio.
L’impegno tassiano sul poema non si fermò, com’è noto, alla Libera-
ta: il poeta aveva visto diffondere il suo progetto epico, nella sua formu-
lazione sia teorica, sia pratica, in forme che non considerava definitive e
che, nel dopo Sant’Anna, sentì il bisogno di ripensare alla luce di nuove
letture e nuove idee, per arrivare a un risultato nel quale potesse final-
mente riconoscersi appieno. Sul fronte teorico si arriva così ai Discorsi del
poema eroico, editi in sei libri nel 1594, che pur senza rinnegare alcuni
pilastri dei discorsi giovanili – l’unità commista di varietà, l’importanza
della componente amorosa e di quella meravigliosa, quest’ultima sempre
plasmata sull’immaginario cristiano – ampliano la parte dedicata alle que-
364
Epica italiana

stioni stilistiche (che occupano ora la seconda metà del trattato) e ap-
profondiscono l’idea di una poesia fondata sul vero non solo in quanto
ispirata a fatti storici (sui quali si restringono ora le possibilità di riela-
borazione), ma anche in quanto depositaria di invenzioni che siano espres-
sione allegorica di verità attinenti al sovrastorico e, in modo particolare,
al divino. È un’idea questa che guida tutta l’attività letteraria dell’ultimo
Tasso (cfr. più ampiamente C. Gigante, Tasso, Roma, Salerno, 2007, pp.
334-71), Gerusalemme conquistata compresa. La riscrittura senile del poe-
ma – cui Tasso lavorò verosimilmente tra il 1588 e il 1593, e che nello
stesso anno fu stampata a Roma – vede infatti accentuarsi sia la dimen-
sione allegorica, sia l’utilizzo di fonti sacre e la fedeltà ai resoconti sto-
riografici, ma non solo. Trama e organizzazione interna del poema sub-
iscono forti modifiche fatte di tagli, aggiunte, riposizionamenti, e molte
di queste – come l’incremento dei canti da venti a ventiquattro – rivela-
no un avvicinamento della Gerusalemme all’Iliade che, pur non toccan-
do gli eccessi dell’Italia liberata, azzera alcuni gradi di distanziamento pre-
senti nella Liberata. Fulcro di questa operazione è Rinaldo, ribattezzato
Riccardo, privato di ogni consanguineità con gli Este e reso sempre più
un novello Achille: gli vengono accostati un suo Patroclo (Ruperto) e una
sua Teti (la madre Lucia), mentre aumenta il peso dell’ira nel suo dissi-
dio con Goffredo, che a sua volta vede accentuato il suo «ruolo repressi-
vo» (Gigante, Tasso… cit., p. 362) nei confronti di ogni devianza dal-
l’ordine, con la conseguenza di rendere più forte lo scontro tra i due per-
sonaggi, a evidente imitazione della lite iliaca. Altri personaggi conosco-
no una coloritura omerica prima assente (tra i tanti esempi possibili, pen-
siamo ad Argante, ‘promosso’ a figlio del re di Gerusalemme e dotato di
moglie e figlio per accostarlo a Ettore), mentre figure femminili come Ar-
mida ed Erminia (ora Nicea) vedono diminuito il loro rilievo (per esem-
pio, non si incontrano più nel finale coi loro amati), circostanza spiega-
bile in parte come ulteriore tributo all’epos omerico, e in parte alla luce
del modo più sorvegliato col quale, nella Conquistata, vengono trattati
gli amori. Le ultime prove di Tasso con la forma poema mettono da par-
te la storia e l’epica per privilegiare unicamente contenuti sacri e scrittu-
rali. Accanto a poemetti come Il monte Oliveto (1588) e le Lagrime di
Maria Vergine (1593), spiccano Le sette giornate del mondo creato (termi-
nato nel 1594, ma edito postumo nel 1607), in cui il tema della crea-
zione permette alla poesia tassiana di soddisfare le sue ambizioni ormai
filosofico-teologiche – espresse anche nel suo ultimo scritto critico, il Giu-
dicio sovra la ‘Gerusalemme’ da lui medesimo riformata, composto nel 1593-
1595, ma edito solo nel 1666 (per tutta questa parte cfr. ancora Gigan-
te, Tasso… cit., pp. 371-412) – tese all’espressione mistico-allegorica del-
la Verità. La dimensione più propriamente epica viene così sostituita da
quella didascalica, in collegamento con il De rerum natura di Lucrezio.
365
Matteo Navone

12.15. Come già quella del Furioso, anche la comparsa della Libera-
ta scatenò un infuocato dibattito, innescato dal Carrafa o vero dell’epica
poesia (1584), in cui il napoletano Camillo Pellegrino proclamava la su-
periorità del poema tassiano su quello ariostesco. A difesa del ferrarese
si alzò subito un fronte toscano formato da Leonardo Salviati e dagli al-
tri membri dell’Accademia della Crusca, che lanciò contro la Liberata
bordate tali da spingere lo stesso Tasso a intervenire con l’Apologia in di-
fesa della ‘Gerusalemme liberata’ (1585). La polemica continuerà a infu-
riare, sempre più ripetitiva, per tutti gli anni ottanta, con in palio la pal-
ma di maggior esponente dell’epica moderna. I presupposti sono diver-
si da quelli del dibattito di metà secolo: la norma vale ormai per tutti, i
difensori di Ariosto non parlano più di romanzo, ma sostengono che il
Furioso è epos a tutti gli effetti, dotato anche di unità aristotelica, ma
perseguita in modo più originale rispetto alla scipita povertà di Tasso.
Scrive Salviati nella sua Stacciata prima (1584):
La tela e non le fila è quella che dee essere una nell’epopeia, e tale è quella
del Furioso: ma tela larga e magnifica e ripiena di molte fila, le quali si par-
tono tutte da una sola testa e finiscono in una coda della predetta tela.

È un’analisi che consuona con la lettura critica moderna – le diver-


se fila romanzesche legate entro una tela epicamente ordinata – e che
scorge nel Furioso un’unità più originale di quella fondata su una sola
azione, e impreziosita per di più da una chiarezza espressiva che con-
sente un ampio accesso all’opera. Di contro, i sostenitori di Tasso rico-
noscono solo nella Liberata un’autentica unità, e celebrano la sua poe-
sia che antepone il verosimile storico al falso immaginato, e l’innova-
zione retorico-stilistica alla ricerca di una chiarezza ecumenica.
La polarità Ariosto-Tasso continuerà nei secoli successivi, venendo a
rappresentare una costante della nostra cultura; tra la fine del Cinque-
cento e l’inizio del Seicento però, pur con la notevole eccezione delle
Considerazioni al Tasso di Galilei (che promuovono il Furioso a «galleria
regia», adorna di bellissime sculture e pitture, e degradano la Liberata a
«studietto di qualche ometto curioso», affollato di oggetti rari e antichi,
ma di scarso valore artistico), sembra essere Tasso il vincitore. Lo dimo-
stra il fatto che la produzione epica del XVII secolo – quantitativamen-
te molto cospicua, anche se qualitativamente poco rilevante – individua
nella Liberata il proprio principale punto di riferimento, cercando tal-
volta di imitarlo, talvolta di variarlo o superarlo. In questa produzione
si notano anzitutto poemi che, come era accaduto per il Furioso, si rac-
cordano alla trama della Liberata, raccontandone gli antefatti o il segui-
to: è il caso del Tancredi di Ascanio Grandi (1636), una sorta di nóstos
sul ritorno in patria dell’eroe crociato, condito di viaggi e nuove impre-
366
Epica italiana

se guerriere, o del Boemondo ovvero Antiochia difesa di Giovanni Leone


Sempronio (1651), incentrato su una fase precedente della crociata –
l’assedio di Antiochia guidato da Boemondo – che permette all’autore
di definire il background di personaggi come Tancredi, nipote di Boe-
mondo, Clorinda, Erminia, Solimano. Altri poemi riprendono dalla Li-
berata l’idea di affrontare un evento storico al quale attribuire una va-
lenza religiosa: si ricordino almeno La Croce racquistata di Francesco
Bracciolini (1605 e 1611), sulla campagna bizantina per recuperare la
Santa Croce finita nelle mani dei Persiani, che rivela l’ambizione di ga-
reggiare con il modello della Liberata, variandolo sotto il profilo conte-
nutistico e stilistico, e il Conquisto di Granata di Girolamo Graziani
(1650), uno dei maggiori successi del secolo, in cui l’unità d’azione (il
motivo omerico-tassiano dell’assedio) si combina con un entrelacement
quasi ariostesco di armi e amori, che approfondisce l’ipotesi tassiana del
poema come «picciol mondo». Un tema alquanto sfruttato è poi quello
della scoperta del Nuovo Mondo, echeggiato in poemi come il Tancre-
di e il Conquisto, ed elevato a impresa epica di conquista cristiana ne Il
mondo nuovo di Tommaso Stigliani (1617 e 1628) che, favoleggiando
sul viaggio di Colombo, unisce il motivo odissiaco e romanzesco del
viaggio alla componente bellica, mentre altri poemi si aprono a sogget-
ti di storia antica o biblica (come la Reina Esther e il Furio Camillo, 1615
e 1623, entrambi del genovese Ansaldo Cebà) o ancora di storia con-
temporanea (la Roccella espugnata, 1630, ancora del Bracciolini), tra-
sgredendo apertamente al monito tassiano di evitare sia gli eventi trop-
po remoti o troppo recenti sia le vicende tratte dalle Scritture. Non man-
cano, infine, poemi di argomento esclusivamente sacro, modellati più
sul Mondo creato che non sulla Liberata, come la Creazione del mondo di
Gasparo Murtola (1608). Nella sostanziale stereotipia dei contenuti –
in cui l’auctoritas tassiana è combinata con più o meno marcati ritorni
nei territori del romanzo ariostesco – si registra qualche novità, almeno
a livello metrico, grazie a un noto sperimentatore come Gabriello Chia-
brera: autore di vari poemi e tentativi di poema di argomento storico (si
ricordi almeno l’Amedeide, sulle imprese di Amedeo V di Savoia contro
i turchi, la cui edizione definitiva è del 1620), nonché di più brevi poe-
metti sacri e profani, Chiabrera riscrisse il suo Firenze – poema su Co-
simo de’ Medici, e sulla lotta della città toscana contro Fiesole – pas-
sando dalla tradizionale ottava della prima edizione (1615) agli endeca-
sillabi variamente rimati della seconda (1628). Tale scelta è argomenta-
ta ne Il Vecchietti, breve dialogo sul «verso eroico volgare», edito solo nel
1811, nel quale si afferma la necessità, per il poeta epico, di adottare un
metro che, al contrario dell’ottava, non vincoli con l’obbligo della rima
la sua libertà espressiva. Sebbene Chiabrera non opti radicalmente per
lo sciolto come aveva fatto Trissino, la sua proposta (peraltro mutuata
367
Matteo Navone

da Lo stato rustico, poema del genovese Gian Vincenzo Imperiale), così


come quelle avanzate da altri autori – come Angelita Scaramuccia, che
scrisse il suo Belisario (1635) in sestine – non riusciranno, neppure in
un ambito aperto agli sperimentalismi formali come quello secentista,
a insidiare la secolare fortuna dell’ottava, che sia Marino sia i poeti eroi-
comici si terranno ben stretta.

12.16. Nel Seicento, il poema epico è dunque ancora un genere di


grande prestigio, del quale tuttavia, già a inizio secolo, si comincia da
più parti a intravedere il logoramento e l’incipiente stereotipizzazio-
ne. La cultura barocca cerca di reagire a questo stato di cose nella ma-
niera per lei più naturale, ripensando il genere all’insegna della co-
struzione ardita e bizzarra, dell’ibridismo, del rovesciamento della tra-
dizione precedente.
Non a caso, Giambattista Marino parte dall’aspirazione a compor-
re un poema regolare di materia storico-religiosa o direttamente sacra,
come testimoniano il progetto incompiuto della Gerusalemme distrut-
ta e quello compiuto de La strage de gl’Innocenti, uscita postuma nel
1632. Gli argomenti sono, rispettivamente, la conquista romana di Ge-
rusalemme, voluta dal Cielo per punire gli ebrei che avevano crocifis-
so Cristo, e l’evangelica strage ordinata da Erode: Tasso, come sappia-
mo, non avrebbe approvato simili scelte, ma resta evidentemente lui il
modello che Marino vorrebbe non solo emulare ma superare. L’ambi-
zioso agone con la Liberata, che tiene in realtà nel mirino anche il Fu-
rioso, finisce però per essere affidato al progetto nel quale Marino con-
fida maggiormente, e sul quale lavora più a lungo, quello dell’Adone,
nato a cavallo tra Cinquecento e Seicento come poemetto in tre libri,
e poi dilatatosi nel tempo fino a diventare, compiuto (è pubblicato per
la prima volta a Parigi nel 1623), uno dei più lunghi poemi della no-
stra letteratura. Con l’Adone, la competizione si sposta su un altro li-
vello: non più il tentativo di misurarsi sul terreno già battuto dai pre-
decessori cinquecenteschi, ma il progetto ben più ambizioso di supe-
rarli creando un modello alternativo, che faccia parlare al ‘poema gran-
de’ un linguaggio diverso dal consueto. È l’idea già rintracciabile nel
menzionato Stato rustico dell’Imperiale (1607 e 1611), opera che cer-
tamente Marino tenne presente, come ammette introducendo il poeta
ligure, nei panni del pastore Clizio, nel primo canto dell’Adone: il poe-
ma dell’Imperiale, difficilmente etichettabile (potremmo provare con
‘didascalico-allegorico’), non parla di guerre o avventure, ma di un viag-
gio iniziatico (quello del protagonista Clizio che, sotto la guida della
musa Euterpe, lascia Genova per immergersi nel mondo della natura e
attingere, sull’Elicona, alla vera poesia, all’insegna di una celebrazione
della vita aristocratica di campagna e dell’otium intellettuale, contrap-
368
Epica italiana

posti al negotium cittadino e mercantile), e privilegia il momento de-


scrittivo rispetto a quello narrativo, elementi questi destinati a tornare
nell’Adone. Marino esibisce più di Imperiale il suo punto di partenza
(conserva l’ottava e alcuni modi e temi dell’epica, seppur reimpostati),
per far ancor più risaltare la novità del risultato finale, che lo Chape-
lain, abile prefatore della princeps parigina, inserisce in una nuova ca-
sella del sistema dei generi coniata appositamente per l’occasione, quel-
la del ‘poema di pace’. Esso rappresenta, afferma il letterato francese,
l’opposto complementare del tradizionale poema di guerra: la macchi-
na diegetica non ambisce al racconto fatto di azione, intreccio, avven-
ture, ma si accontenta di una «favola angusta e incapace di varietà d’ac-
cidenti» (sono parole di Marino), ovvero la mitologica storia d’amore
tra Venere e Adone, dal cui esile sviluppo narrativo si diparte una mi-
riade di espansioni episodiche e digressive, che spaziano tra una mol-
teplicità di argomenti, generi, fonti, e che appaiono accostate tra loro
per accumulo progressivo, più che saldate in una struttura compatta,
guidata da una consequenzialità necessaria tra le parti. Più che alla Li-
berata, all’Iliade e all’Eneide, Marino guarda al Furioso, alle Dionisiache
di Nonno di Panopoli e soprattutto alle Metamorfosi, cui lo accomuna
la scelta dell’epos mitologico come veicolo per creare un’opera dispo-
nibile a trattare ogni ambito del reale, modulando di volta in volta il
registro della propria parola poetica. Come sempre, se latita Virgilio,
entra in scena Ovidio, ma non si perdano di vista le differenze. Da un
certo punto di vista, il policentrismo dell’Adone, in virtù della sua esi-
lità narrativa, appare più contenuto e persino ‘regolato’ di quello delle
Metamorfosi o anche solo del Furioso: prevede un solo protagonista (sep-
pur protagonista a suo modo) e presenta una vicenda circoscritta nel
tempo (un anno) e, con poche eccezioni, nello spazio (l’isola di Cipro).
Da un altro punto di vista, guardando cioè genericamente al contenu-
to più che alla trama, la varietas tematica dei poemi ovidiano e arioste-
sco è mitigata da un’omogeneità di fondo (il riferimento al repertorio
mitologico e al principio della metamorfosi in un caso, e al repertorio
cavalleresco nell’altro) che è ben più arduo trovare nell’Adone, in cui al-
la componente propriamente mitologica se ne aggiungono altre (av-
venturoso-romanzesca, scientifico-didascalica, allegorica, persino sto-
rico-sociale), che portano con sé diverse tradizioni e reminescenze let-
terarie, conferendo al mito stesso nuovi colori e valenze (cfr. su questo
E. Russo, Marino, Roma, Salerno, 2008, pp. 270ss., ma recuperando
anche Giovanni Pozzi, Guida alla lettura, nel t. II dell’ed. da lui cura-
ta dell’Adone, Milano, Mondadori, 1976, vol. II, pp. 47-74).
Anche se quella di ‘poema di pace’ è una definizione applicata a po-
steriori all’opera, inquadra bene la volontà di Marino di inseguire la for-
ma grande e nobile del poema per vie diverse da quelle del poema eroi-
369
Matteo Navone

co, ovvero marginalizzando il tema bellico a favore del binomio éros-mi-


to. Nel proemio, Venere è invocata ed elogiata in questi termini:
Per te Giano placato il tempio serra,
addolcito il Furor tien l’ire a freno;
poiché lo dio del’armi e dela guerra
spesso suol prigionier languirti in seno
e con armi di gioia e di diletto
guerreggia in pace ed è steccato il letto. (I 2)

L’immagine di Marte che giace in seno alla dea dell’amore è emblema-


tica di un revisione programmatica delle fondamenta tanto del caval-
leresco quanto dell’eroico: l’Adone non vuole essere un poema di armi
e amori, ma il poema dell’amore di Venere e Adone. L’amore è il tema
centrale, il criterio che presiede alla scelta di pressoché tutti gli altri mi-
ti raccontati dai personaggi. Esso è rappresentato anzitutto nella sua di-
mensione edenica, erotica, voluttuosa (gli amori di Venere e Adone a
Cipro), quella che Tasso aveva sempre cercato di controllare, finendo
per escluderla quasi del tutto dalla Conquistata. Accanto a questa di-
mensione di ozio sereno, c’è spazio anche per quella del conflitto, ma
anche in questo caso si resta sempre nell’ambito della casistica amoro-
sa: come preannuncia l’equivalenza letto-campo di battaglia nell’ulti-
mo verso di I 2 – topica della lirica, da Ovidio a Petrarca e Tasso –, il
conflitto si configura nel poema principalmente come gelosia, rivalità,
infedeltà, separazione.
Da questo punto di vista, uno dei principi costruttivi dell’Adone ap-
pare essere una sorta di espansione di quello spazio – il giardino di deli-
zie amorose – e di quella tipologia di comportamento maschile – l’eroe
femminilizzato – che nell’epica avevano sempre rappresentato le alterna-
tive più forti al campo di battaglia e al codice di comportamento eroico-
guerresco. Adone infatti è un protagonista da un lato depotenziato di
ogni qualità eroica, e dall’altro costitutivamente androgino, femmineo
nel comportamento e negli atteggiamenti, anche quando non indossa
abiti femminili, come pur fa nel c. XIV per sfuggire al pericolo (e come
effemminato è di fatto deriso da uno dei suoi antagonisti, il rozzo Luci-
ferno, in XVI 240-45). La sua unica virtù è la sua straordinaria bellezza,
che fa innamorare donne e uomini, indipendentemente dalla sua volon-
tà: per tutta l’opera Adone è un oggetto del desiderio passivo e imbelle,
semplice spettatore degli eventi che si innescano intorno a lui e, spesso,
da lui. Questa passività si riscontra già nel rapporto con Venere, dove è
alla dea che spetta l’iniziativa, non certo al mortale Adone, all’insegna di
una superiorità della donna nella coppia che rappresenta un’ulteriore ano-
malia. Adone conquista il potere (la corona di re di Cipro) non dimo-
strando forza e abilità in un torneo cavalleresco, ma trionfando in un con-
370
Epica italiana

corso di bellezza (c. XVI) e, come se non bastasse, dopo aver dichiarato
di preferire al comando i piaceri dell’amore e della caccia:
Più non presumo, i miei desir desio
d’altrui signoreggiar non signoreggia.
Ambizion non nutre il petto mio,
sichè per grado insuperbir ne deggia.
Finch’essali lo spirito vogl’io
che solo il grembo tuo sia la mia reggia. (XV 227)

Adone non brama imprese gloriose


Altri con l’armi pur seguendo vada
schiere nemiche e pace unqua non aggia.
[…]
Per questa vita, e credimi ti giuro,
nulla mi cal di porpore o tesori.
Sazio del poco mio, sprezzo e non curo
l’oro adorato e gl’indorati onori, (XV 228-29)

ma la tranquillità del quotidiano e degli affetti privati. Dell’eroe epi-


co Adone non ha del resto neanche il coraggio e il valore, come emer-
ge nei cc. XII-XIV, l’unica zona del poema in cui – con prelievi da
Eliodoro, Boiardo e Ariosto – l’azione si movimenta, grazie alla rot-
tura della quiete edenica causata dall’arrivo del geloso Marte, che co-
stringe Adone a separarsi da Venere. Il giovane fugge impaurito all’ar-
rivo di Marte senza minimamente provare a contrastarlo, è fatto pri-
gioniero dalla fata Falsirena, innamoratasi di lui, si libera solo grazie
all’aiuto di Mercurio e solo nel momento in cui la fata non può dis-
porre dei suoi poteri (cc. XII-XIII), prima di finire tra le grinfie di un
gruppo di banditi ed essere coinvolto in altre peripezie (c. XIV): Ado-
ne riesce a sottrarsi ai pericoli non perché capace di dominare gli even-
ti a suo favore, ma in quanto assistito dalla buona sorte. Nell’unica cir-
costanza in cui riesce a cavarsela senza aiuti esterni, ovvero quando si
imbatte in un cavaliere (Sidonio) che lo minaccia, lo fa rifiutando il
combattimento e cercando di blandire l’avversario mediante il lin-
guaggio dell’amore:
Uopo qui non vi fia di brando o d’asta
signor, giostra non vo, guerra non cheggio;
cheggio pace e pietà che ben mi basta
se con Fortuna e con Amor guerreggio.
[…]
Lasso, che con altr’armi e d’altra sorte
per man d’altra guerrera ebbi la morte. (XIV 187)

371
Matteo Navone

Sottraendosi così allo scontro, come mai ci si aspetterebbe dall’eroe di


un poema epico (per non parlare del suo successivo offrirsi all’avversa-
rio come scudiero: cfr. XIV 190), Adone certifica una volta di più una
debolezza che, più che una caratteristica negativa, appare un elemento
coerente con la costruzione di un personaggio totalmente altro rispetto
ai vari Achille e Orlando, estraneo ai valori marziali della forza, dell’o-
nore e del potere, tanto che l’unica attività virile a lui concessa – la cac-
cia, peraltro prescritta dal mito – gli risulterà fatale. È un eroe di pace
Adone, incapace di ambizioni e desideri diversi dai baci e dagli abbrac-
ci di Venere.
Dell’epica nell’Adone restano lacerti sparsi, immagini e stilemi che
Marino, come suo costume, svuota delle loro valenze originarie ri-
contestualizzandoli: ai casi già segnalati da Sergio Zatti (cfr. L’ombra
del Tasso: epica e romanzo nel Cinquecento, Milano, Mondadori, 1996,
pp. 225-29) si può aggiungere la similitudine di XVI 12-13, che equi-
para i pretendenti che si preparano al concorso di bellezza ai guerrie-
ri che affilano e controllano le loro armi prima di una giostra: il con-
corso diventa così «quasi» una «militar palestra», addirittura un «peri-
glioso agone», in vista del quale ognuno «se stesso ai colpi essercitan-
do addestra», pettinandosi, imbellettandosi e studiando ogni mossa e
gesto. Lo slittamento tra i due termini di paragone sembra procedere
in entrambi i sensi: anche gli aspiranti giostranti, in fondo, appaiono
quasi più interessati alla lucidatura delle armi che al loro uso («Terge
il fin elmo, impiuma il bel cimiero»), e possono dunque essere ritenuti
anch’essi destinatari della successiva invettiva (XVI 15-21) contro la
«vanità mortal, gloria de’ folli», indirizzata sì contro l’eccesso di bel-
letto che altera l’aspetto naturale, producendo una vuota parvenza di
bellezza, ma anche contro il vacuo esibizionismo militaresco. Viene
naturale allora il collegamento con l’analoga invettiva che apre il c.
XIV – rivolta, come la precedente, ai tempi dell’autore – che lamenta
la moderna decadenza dell’arte militare, ormai affidata a cavalieri da
parata, pronti a mostrarsi nei tornei con i loro «usberghi […] risplen-
denti» ed «elmi luminosi» (XIV 3) più che a procacciarsi l’onore in
battaglia, e talmente privi di virtù «che, sol rubando e violando, al fi-
ne / son le guerre per lor fatte rapine» (XIV 6). Si tratta di un passo
significativo, proprio perché posto in apertura del canto più guerresco
di tutta l’opera, dove duelli e combattimenti solo nella seconda parte
sono sostenuti da una figura almeno parzialmente eroica (Sidonio),
mentre nella prima ne sono protagonisti due bande di malfattori che
si scontrano: gli sgherri di Falsirena, guidati da Orgonte, e i masna-
dieri capitanati da Malagorre. Marino li equipara esplicitamente ai fal-
si guerrieri biasimati nell’incipit (cfr. XIV 7), e fa in particolare di Ma-
lagorre un emblema di virtù militare decaduta a brigantaggio:
372
Epica italiana

Più d’una volta in guerra armò la mano


ch’a nobil’opre, a grand’imprese er’atta;
ma di vendette cupido e di prede
al’indegno mestier poscia si diede. (XIV 17)

Questi luoghi dei cc. XIV e XVI possono essere utili a definire meglio
l’atteggiamento di Marino verso la materia epico-guerresca: l’autore ri-
conosce il valore positivo delle virtù militari, ma lo colloca in un passa-
to perduto, di cui vengono rimpianti i codici di comportamento, che
peraltro coincidono con quelli testimoniati e cantati nei romanzi di ca-
valleria o nei poemi eroici. Si può pertanto affermare, sulla scia di quan-
to già scriveva Pozzi (cfr. Guida alla lettura… cit., p. 543), che, se c’è
evidentemente nell’Adone un voluto rovesciamento degli statuti narra-
tivi dell’epica, esso presenta anche valenze extra-letterarie, legate a una
reazione a un preciso contesto storico-sociale: non ritrovando segni di
eroismo nel costume militare e nei conflitti sanguinosi del suo tempo,
Marino non perpetua, come i coevi epigoni di Ariosto e Tasso, un’idea-
lizzazione della guerra e dei guerrieri svincolata dalla realtà, ma crea un
poema senza eroe e senza eroismi, che alla storia preferisce la fuga nel
mito, nell’amore e nella sfera privata dei personaggi, ma che non esclu-
de la realtà contingente dal suo orizzonte, e semmai anche dalla sua con-
statazione muove la sua ideologia.
Non sarà un caso se la guerra – che, come si sta vedendo, nell’Adone
è tolta dal centro della scena poematica, ma non del tutto eliminata – è
anche altrove trattata in rapporto alla storia contemporanea. Nel c. X,
il poeta illustra i fatti delle guerre di Francia, del Monferrato e degli
Uscocchi, che Adone vede riflesse nell’ingegnosa sfera di Mercurio: il re-
gistro deve farsi qui altisonante e solenne, visti anche gli intenti enco-
miastici verso la corona francese, ma il resoconto epico tradisce note sto-
nate, e non riesce a nascondere, in diverse ottave, la descrizione dei dis-
astri materiali e sociali portati dalla guerra – per es. in X 239:
Tornano a scorrer l’armi, ov’ancor stassi
la prateria sì desolata e rasa,
che ne stillano pianto e sangue i sassi
poiché fabrica in piè non v’è rimasa,
né resta agli abitanti afflitti e lassi
villa, borgo, poder, castello o casa;
già s’appresta la guerra e già la tromba
altri chiama ala gloria, altri ala tomba.

Il recupero del tema delle armi sembra accompagnarsi sempre a una sua
palinodia più o meno marcata: per dirla in altro modo, l’Adone può ac-
cogliere temi e situazioni epiche, ma mai un registro pienamente eroi-
373
Matteo Navone

co. Lo conferma l’ultimo canto del poema, tutto impostato sul tópos epi-
co dei giochi funebri – indetti da Venere in onore del defunto Adone –
dove la materia marziale è stemperata in un’incruenta competizione spor-
tiva, nella quale, tra l’altro, l’interesse dell’autore punta, più che sul pa-
thos dell’agone, sulle descrizioni particolareggiate e variate dei molti par-
tecipanti, e sulla resa arguta (per esempio attraverso giochi fonici) dei
movimenti dei loro corpi. Questo quadro prelude alla giostra finale, cui
prendono parte figure non più genericamente appartenenti alla dimen-
sione del mito, ma legate alla contemporaneità (i 18 cavalieri rappre-
sentanti famiglie della nobiltà italiana, cui si aggiungono il campione
Fiammadoro e l’amazzone Austria, che simboleggiano la Francia e la
Spagna), come avveniva nelle giostre della letteratura rinascimentale. La
giostra si conclude col duello tra Fiammadoro e Austria, che finiscono
per innamorarsi reciprocamente e sospendere lo scontro, con la benedi-
zione di Venere: l’ovvia allusione all’alleanza tra Francia e Spagna con-
sente al poema di chiudersi su una nota di armonia, riparando alla rot-
tura dell’idillio edenico portata dalla morte di Adone. Non a caso alla
pace – seppur quella ristabilita con la forza al termine delle guerre di re-
ligione, rappresentate sullo scudo istoriato che Venere dona a Fiamma-
doro – è dedicata la penultima ottava del poema, che nel salutare l’ab-
bandono delle armi e il ritorno agli studi e alle arti, pare ribadire un idea-
le al tempo stesso poetico e umano:
Tornan l’Arti più belle e le Virtudi
poco dianzi fugaci e peregrine,
fioriscon gli alti ingegni e i sacri studi,
crescon i lauri a coronargli il crine,
riposan l’armi orrende, i ferri crudi
pendon dimessi e le battaglie han fine.
Son fatti i cavi scudi e i voti usberghi
nidi di cigni e di colombe alberghi. (XX 514)

12.17. L’altra alternativa primo-secentesca all’eroico è rappresentata


dall’eroicomico di Alessandro Tassoni e della sua Secchia rapita, com-
posta nel 1614-1616 e poi pubblicata dapprima col titolo La secchia nel
1622, poi, col titolo definitivo (ma anche aggiustamenti imposti dalla
censura ecclesiastica) nel 1624, e ancora nel 1630, l’edizione più im-
portante, provvista anche delle annotazioni firmate da Tassoni sotto lo
pseudonimo di Gaspare Salviani. ‘Eroicomico’ è termine usato da Tas-
soni stesso per designare la sua opera, e rivela da subito due elementi:
primo, l’ambizione barocca di inaugurare una nuova spezie di poema,
costruita a partire dal modello che si intende rinnovare (l’eroico tassia-
no e post-tassiano), ambizione che accomuna la Secchia al ‘poema di pa-
ce’ mariniano; secondo, la scelta di orientare questa nuova strada nella
374
Epica italiana

direzione – cara alla cultura del tempo – dei generi nuovi e ibridi, e più
precisamente di una mescolanza tra epico e comico che vantava prece-
denti antichi (la Batracomiomachia, la cui musa è invocata da Tassoni in
V 23) ma anche moderni e italiani (la sinergia tra cavalleresco e buffo-
nesco di Pulci e Folengo, senza dimenticare come il comico e l’ironico
fossero accolti anche in Boiardo e Ariosto). Gli scritti teorici preparati
da Tassoni per accompagnare il suo poema, aiutano a capire meglio in
cosa la sua operazione si distingua da quelle di questi predecessori e con-
temporanei.
Per cominciare, lo scrittore modenese precisa che la sua Secchia è co-
struita «secondo l’arte, descrivendo con maniera di versi adeguata al sug-
getto un’azzione sola, parte eroica e parte civile, tutta intiera, fondata
sopra istoria nota per fama» (prefazione A chi legge firmata Alessio Bal-
bani, p. 593: questa e tutte le successive citazioni dagli scritti tassonia-
ni sono tratte da A. Tassoni, La secchia rapita e scritti poetici, a c. di Pie-
tro Puliatti, Modena 1989). E altrove: «La Secchia ha per tutto recogni-
zione d’istoria e di verità. La favola è una e, se non è una d’un solo, Ari-
stotele non ristrinse mai i compositori a così fatte stitichezze e strettez-
ze» (prefazione A chi legge dell’ed. 1622, p. 595). La Secchia rispetta dun-
que i principi costitutivi basilari del poema eroico formulati da Tasso:
racconta un’unica azione tratta dalla storia (che in realtà intreccia libe-
ramente il ricordo di vari episodi storici dei secoli XIII e XIV, a partire
da quello della battaglia di Zappolino del 1325 tra modenesi e bolo-
gnesi, cui è legato il particolare della secchia di legno sottratta dai mo-
denesi vittoriosi ai bolognesi sconfitti, su cui Tassoni ricama la sua tra-
ma), rifiutando, ancora nel segno della Liberata, l’unità d’eroe in favo-
re di un’azione collettiva che coinvolge più personaggi. Se a ciò si ag-
giunge il fatto che la Secchia offre uno dopo l’altro tutti i principali tó-
poi e stilemi dell’epica (invocazioni alla musa, rassegne di eserciti, in-
terventi divini, battaglie e duelli, morti eroiche), si capisce subito che
essa conserva quell’impianto canonico dell’epos che nell’Adone era sta-
to radicalmente scardinato: là dove Marino opta per l’éros e il mito, sa-
crificando la narrazione a un ideale di poema-catalogo, che vive di de-
scrizioni e digressioni, Tassoni sceglie ancora un argomento bellico e un
racconto continuato e unitario. Il punto è che, nella Secchia, l’apparato
eroico viene applicato ad azioni tutt’altro che illustri e sublimi, e anzi il
comico nasce proprio da questa frizione tra la forma epica e la materia
anti-epica del testo. Modenesi e bolognesi non si combattono per di-
fendere la fede, come era stato per i crociati di Tasso, e neppure per una
donna, come avevano fatto greci e troiani, ma si massacrano per il pos-
sesso di una banale secchia di legno: il conflitto non è specchio di alti
ideali, ma delle rivalità municipali che da secoli dividono e insanguina-
no l’Italia, non è più scontro tra due civiltà (quella cristiana e quella pa-
375
Matteo Navone

gana), ma tra due fazioni, quella modenese e quella bolognese, ognuna


col suo seguito di alleati italiani che si combattono tra loro. È dunque
la prospettiva ideologica del modello eroico tassiano, non la sua impal-
catura formale, a essere rovesciata: il passato è deriso e non mitizzato, il
meraviglioso – che nasce, come precisa Tassoni stesso (cfr. A chi legge…
cit., pp. 593-94), dalla sproporzione tra le dimensioni della guerra e l’e-
siguità del pretesto – è in realtà un bizzarro grottesco che vuol divertire
i lettori più che colpirli con la sua grandiosità; e gli eroi, a loro volta, la-
sciano il posto a una molteplicità di figure ben più prosastiche e legate
alla realtà, spesso vere e proprie caricature di personaggi contemporanei.
Da questi punti si può partire per capire in cosa Tassoni si differenzi
da Pulci o Folengo. In effetti, è chiaro che la Secchia si pone sulla scia di
opere come il Morgante e il Baldus, cui la accomunano per esempio al-
cuni procedimenti espressivi (come l’uso di un lessico triviale e scatolo-
gico) che determinano una certa analogia di esiti. Ma quest’analogia non
deve far pensare a una totale convergenza: Tassoni stesso marca le distanze
da coloro che potevano essere indicati come suoi precursori, il Berni del
rifacimento dell’Inamoramento de Orlando, liquidato in breve («Non fe-
ce poema epico e solamente aggiunse alcune poche ottave ai canti del
Boiardo»), e poi il Pulci, che «uscì dall’arte e perdè la carriera, avendo
cantate con versi dozinali azzioni inverisimili e favole puerili» (A chi leg-
ge... cit., p. 593). Ancora più interessante è quanto Tassoni scrive nelle
Dichiarazioni di Gaspare Salviani (ma nella loro prima stesura, compo-
sta attorno al 1625 e attestata solo in forma manoscritta), ovvero che Pul-
ci trattò «burlescamente le cose eroiche» e «gravi», cosa che «è più tosto»
da «stile buffonesco che eroicomico» (p. 635). La Secchia pertanto si dif-
ferenzia dal Morgante in quanto è costruita «secondo l’arte» (e qui, a onor
del Pulci, va precisato ciò di cui Tassoni non tiene conto, e cioè che il suo
predecessore toscano aveva come riferimento la struttura del cantare ca-
valleresco, non certo quella del poema eroico), utilizza non «versi dozzi-
nali», ma uno stile che sa adeguarsi anche, dove necessario, all’altezza del-
l’epico, e, soprattutto, crea una nuova e più articolata mescolanza tra epi-
co e comico, là dove Pulci si limitava a prendere una materia alta (le im-
prese dei paladini) e a trattarla, talvolta, in termini burleschi. Anche se
Tassoni non lo nomina, un distinguo similare può valere anche nei con-
fronti di Folengo: il Baldus è forse più vicino alla Secchia sotto certi aspet-
ti (l’inserimento della storia entro un contesto ristretto e municipale, l’ac-
costamento tra registro stilistico nobile e basso, dato nel Baldus dalla com-
binazione macaronica di latino e volgare), ma se ne distanzia per la sua
adesione di fondo a un codice di eroismo, pur venato di connotati bur-
leschi e ‘picareschi’: Baldo è pur sempre un novello Orlando o Rinaldo,
i guerrieri della Secchia no. Tassoni coglie la differenza che esiste tra il bur-
lesco pulciano e folenghiano e il suo eroicomico: se il primo abbassa una
376
Epica italiana

materia alta ed eroica calandola (anche) entro forme e contesti buffone-


schi, il secondo prende una materia bassa e inconsistente e la innalza al
livello epico, non per nobilitarla, ma per ottenere un effetto di strania-
mento ironico e creare un nuovo ibrido poetico. La Secchia si presenta
come un «drappo cangiante, in cui mirabilmente risplendono ambidue
i colori del burlesco e del grave» (Dichiarazioni di Gaspare Salviani, p.
613), ovvero come un’inedita e stretta interdipendenza di comico ed epi-
co finalizzata a uno scopo ludico, che è poi quello che Tassoni assegna in
generale alla poesia: è ancora lui stesso a dichiarare infatti di aver voluto
comporre un’opera che potesse dilettare
tanto i dotti quanto gl’idioti […], percioché i dotti ordinariamente leggo-
no i poeti per passatempo e si dilettano più de le baie, quando sono ben
dette, che de le cose serie e gl’idioti, oltre il gusto che cavano da le cose bur-
lesche, sono eziandio rapiti dalla maraviglia che le azioni eroiche e grandi
sogliono parturire. (A chi legge… cit., p. 595)

Questo discorso implica un ultimo corollario: anche la Secchia, co-


me già il Morgante e il Baldus, non è definibile complessivamente come
parodia né di un’opera specifica (come era invece per l’‘eroicomico’ an-
tico della Batracomiomachia, tutto giocato sul rovesciamento dell’Iliade)
né della forma poema eroico, che Tassoni anzi conserva, variandola uni-
camente dall’interno. Si può invece dire che la parodia, intesa come pro-
cedimento espressivo e non come genere, investe nella Secchia diversi tó-
poi epici: il fine resta però quello non di demolire ma di deformare que-
sti tópoi, applicandoli a un contesto svilente o collegandoli a contenuti
satirici indirizzati al presente. Si tratta, in ultima analisi, di una riscrit-
tura certo ironica, ma pur sempre dipendente dal modello irriso (cfr. su
questo Clotilde Bertoni, Percorsi europei dell’eroicomico, Pisa, Nistri-Li-
schi, 1997, pp. 13-41; e si vedano anche le riflessioni sull’eroicomico di
Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. it., Tori-
no, Einaudi, 1997, pp. 151-62).
Questa riscrittura si realizza nel testo secondo varie modalità. Poiché
nella Secchia epico e comico sono convocati ognuno col proprio registro
stilistico (altra differenza rispetto alla Batriacomiomachia, che invece ro-
vesciava l’epos applicando uniformemente il suo stile al racconto della
guerra tra topi e rane), la modalità più diffusa consiste nel creare una bru-
sca discesa dall’«altezza» del livello «sublime ed eroico […] ad uno scher-
zo repentino e inaspettato» (dedica ad Antonio Barberini dell’ed. 1624,
p. 604). Si tratta di una tipologia testimoniata sin dal proemio: «Vorrei
cantar quel memorando sdegno / ch’infiammò già ne’ fieri petti umani
/ un’infelice e vil secchia di legno / che tolsero ai Petroni i Gemignani»
(I 1). Evidente è l’antitesi che si determina tra i due distici iniziali: l’at-
tesa creata dal memorando sdegno degrada nella rivelazione della sua ridi-
377
Matteo Navone

cola causa (la «vil secchia di legno»), così come ai «fieri petti umani» sub-
entra subito la denominazione popolaresca dei bolognesi e dei modene-
si, a preannunciare il livello tutt’altro che eroico degli attori dello scon-
tro. E il medesimo contrasto resta nella seconda metà dell’ottava, che svol-
ge l’invocazione ad Apollo («Febo, che mi raggiri entro lo ’ngegno / l’or-
ribil guerra e gl’accidenti strani»), declassato da divino ispiratore a sem-
plice istitutore («Tu che sai poetar, servimi d’aio / e tiemmi per le mani-
che del saio»). Di sapore quasi epigrammatico è invece la chiusa della ce-
lebre ottava dedicata alla descrizione della guerriera Renoppia:
Bruni gli occhi e i capegli, e rilucenti,
rose e gigli il bel volto, avorio il petto,
le labbra di rubin, di perle i denti,
d’angelo avea la voce e l’intelletto.
Maccabrun dall’Anguille, in que’ commenti
che fece sopra quel gentil sonetto
‘Questa barbuta e dispettosa vecchia’,
scrive ch’ell’era sorda da una orecchia. (I 17)

Questi abbassamenti tonali possono chiamare in causa anche porzioni


di testo più ampie, nonché ben precisi tópoi. Il canto III si apre sulla no-
ta solenne di Venere che appare in sogno a re Enzo per spronarlo a scen-
dere in guerra al fianco dei modenesi: se già il sogno contiene probabil-
mente degli spunti parodistici (la dea preannuncia al re che salverà la fa-
tale secchia e che entrerà «ne la città nemica», profezia quantomeno am-
bigua e reticente, visto che Enzo entrerà sì in Bologna, ma come pri-
gioniero: cfr. III 2-4), a degradare la solennità iniziale è la scena imme-
diatamente seguente, in cui il sovrano, destatosi, in un impeto di foga
guerriera urta con la spada l’orinale, cosicché «con lunga riga, fuor spar-
sa di botto, / per la stanza del Re corse l’orina» (III 6). La mescolanza
tra serio e faceto può darsi anche in forme più intrecciate: le lunghe se-
quenze di battaglia alternano atti di valore e codardia, ma in ogni caso
l’epicità della situazione contrasta con i nomi popolani e spesso comi-
camente parlanti dei combattenti. Il risultato sono spesso situazioni in
cui anche il macabro non sfugge al riso, come in questa zuffa tra Man-
fredi e alcuni soldati ferraresi:
Manfredi a Pasqualin di Pocointesta
tagliò d’un sottobecco il mento e ’l naso,
e fece rimaner con mezza testa
Piero Simon di Gasparin Pendaso. (VII 11)

Stesso discorso dicasi per le rassegne, come quella dedicata ai modenesi


e ai loro alleati che occupa quasi tutto il canto III, dove la solennità del
tópos scade nella presentazione non di eroi ma di giocatori e bestem-
378
Epica italiana

miatori, avanzi di galera e vigliacchi vanagloriosi (come il celebre conte


di Culagna, «cavalier bravo e galante, / filosofo, poeta e bacchettone, /
ch’era fuor de’ perigli un Sacripante, / ma ne’ perigli un pezzo di pol-
mone»; III 12), rappresentanti non di nazioni ma di ville, borghi e con-
trade, e per di più accompagnati da improbabili insegne:
Eran guidati dal dottor Masello,
ch’avea lasciato i libri a la ventura
e s’era armato che parea un Marcello,
con la giubba a l’antica e l’armatura.
Portava per impresa un ravanello
con la sementa d’or grande e matura. (III 31)

Altrove Tassoni chiama in causa autori e opere ben precise della tra-
dizione epico-cavalleresca: nella scena del duello tra Salinguera e Volu-
ce, l’autore precisa che «non stettero a parlar de’ casi loro, / come solea-
no far le genti antiche, / né se ’l lor padre fu spagnuolo o moro» (VII 5):
il riferimento va sia ai poeti cavallereschi sia a Omero che, come spie-
gano le annotazioni di Salviani, «finge ragionamenti tra colpo e colpo e,
in particolare, fa narrare la stirpe loro agli stessi combattenti nell’atto del
menar le mani», costume che persino Aristotele avrebbe biasimato, se
«fosse stato soldato» (p. 687). Poco dopo, a Salinguerra che gli chiede di
sospendere lo scontro, per permettergli di soccorrere i suoi soldati fer-
raresi sbaragliati da Manfredi, Voluce replica così:
– Signor Marchese,
è morto Orlando e non è più quel tempo;
ma per non vi parer poco cortese,
se volete fuggir, voi siete a tempo.
Seguite pur, ch’io non farò contese,
la gente vostra e non perdete il tempo
perché mi par che corra come un vento;
ma vo’ venir anch’io per complimento –. (VII 16)

La risposta di Voluce allude alla fonte di questi versi, esplicitata poi dal
solito Salviani, ovvero un passo dell’Inamoramento de Orlando (I, XVI
37-43), dove Agricane chiede a Orlando di interrompere il loro duello
affinché possa aiutare i suoi Tartari, di cui sta facendo strage Archiloro,
richiesta cui il paladino acconsente. Il codice cortese appare invece inap-
plicabile a Voluce, la cui sarcastica disponibilità rovescia la magnanimi-
tà di Orlando, che si offriva persino di dar manforte ad Agricane. In am-
bedue i casi, l’evidente parodia gioca sul contrasto tra l’idealizzazione
epica della guerra e la sua pratica reale, molto meno disponibile verso i
nobili gesti. Un’ulteriore modalità si osserva nella parti in cui Tassoni si-
mula un’adesione più stretta al registro epico, come nella sequela di com-
379
Matteo Navone

battimenti del c. VI, dove trovano spazio episodi eroici come la strenua
resistenza di re Enzo alla cattura (31 ss.) e la morte dei due amici Erne-
sto e Iaconia (49-62). In quest’ultimo caso, l’imitazione dei precedenti
di Eurialo e Niso e Cloridano e Medoro è solo in apparenza fedele, in
quanto Tassoni replica qui, a livello microtestuale, l’espediente su cui si
fonda l’intera poema: la futile ragione per cui Ernesto si ostina a non ri-
tirarsi – vendicare la morte del suo cavallo – rende vano il sacrificio di
Iaconia (cui il poeta dedica parole di compianto che vogliono, in realtà,
desublimare la situazione: «Ma quello sforzo aprì la piaga e sparse / l’al-
ma col sangue. E certo fu peccato, / ch’amico più fedel non potea dar-
se / e non bevea giammai vino inacquato»; VI 60), che aveva cercato di
indurlo in ragione («– Ernesto –, gli dicea – la nostra gente / rotta si fug-
ge e noi facciam dimora / e perdiamo la vita inutilmente. / […] // Ma
se l’affanno d’un destrier già morto / e la vendetta sua quivi t’arresta, /
prenditi in dono il mio – […]»; VI 54-55) e ridimensiona l’eroismo del-
lo stesso Ernesto. Per lo stesso principio, la solenne similitudine epica
con cui si apre il canto, che equipara, come da convenzione, lo scontro
tra i due eserciti alle forze naturali –
Qual su lo stretto ove il figliol di Giove
divise l’Ocean dal nostro mare,
se l’uno e l’altro la tempesta move,
vansi l’onde superbe ad incontrare,
[…]
trema il lido, arde il ciel, tuonano i lampi;
tal fu il cozzar de’ due famosi campi; (VI 2)

– non può non suscitare un sorriso, se si pensa alla reale entità delle for-
ze in campo e alle ragioni dello scontro: l’abbassamento dall’epico al co-
mico è sempre a disposizione del lettore, anche quando non è esplicita-
to nel testo.
Il gioco beffardo della Secchia non è tuttavia rivolto solo alla lettera-
tura, ma anche ai tempi del poeta: accanto alla parodia e al divertisse-
ment arguto, trova infatti spazio anche la satira. Si è già detto come mol-
ti dei nomi elencati nelle sequenze belliche corrispondano ad amici del
poeta o ad altre figure reali, talvolta segnalate nelle note di Salviani, e
comunque facilmente riconoscibili per molti lettori del tempo: tra que-
sti spiccano ovviamente il Conte di Culagna, al secolo Alessandro Bru-
santini, acerrimo nemico di Tassoni, e il romano Titta – dietro il quale
è rappresentato probabilmente Giovan Battista Vettori, nipote di papa
Paolo V –, due personaggi che assurgono al rango di buffoni protago-
nisti nei cc. X-XI. Gli intenti satirici si mischiano alla riscrittura di un
tópos epico nel c. II, dove il concilio divino, più che parodiare i suoi pre-
cedenti letterari, prende in giro la corte papale e la condotta dei cardi-
380
Epica italiana

nali, assimilati addirittura agli dei pagani attraverso vari elementi, come
il concilio definito concistoro (28), la descrizione di Apollo che ha «ros-
so il manto e ’l cappel di terziopelo / e al collo […] il toson del Re di
Spagna» (30), l’immagine di Ercole che fa largo al padre tra la folla co-
me «un imbriaco svizzero […] / di quei che con villan modo insolente
/ sogliono innanzi ’l Papa il dì di festa / romper a chi le braccia, a chi la
testa» (39), o ancora «lo scettro in forma […] di pastorale» (41) di Gio-
ve. Anche questi dèi-cardinali, stimolati dal pontefice-Giove, metteran-
no becco nelle vicende mondane, schierandosi per l’una o l’altra parte,
in un episodio che rappresenta solo la punta di una vena anticlericale
che, come già in Pulci e Folengo, riaffiora in diversi luoghi dell’opera.
Ma più in generale, è la stessa rilettura dell’epos a veicolare un disilluso
sguardo sulla contemporaneità: come Marino, anche Tassoni si rende
conto dell’improponibilità di un’ennesima, stereotipata epica eroica (pu-
re il modenese, come l’autore dell’Adone, aveva lasciato da parte un ten-
tativo in questo senso, l’Oceano, poema sulle scoperte colombiane) a
fronte di un presente che offre eventi di segno completamente opposto.
Le insensate lotte intestine tra stati italiani, che lasciano campo libero
agli oppressori stranieri, sono una realtà ancora attuale, e non certo re-
legata nel Medioevo: il poeta stesso riconosce il parallelismo, nel passo
in cui Giove invita Ercole e Mercurio a non accapigliarsi per la guerra
tra modenesi e bolognesi, e a riservare i loro odi per un futuro conflit-
to, quello tra Lucca e il ducato estense di Modena per il possesso della
Garfagnana, combattuto appunto al tempo di Tassoni. La profezia di
Giove preannuncia una «cruda e sanguinosa guerra» (VII 39), che però
non può che fare il paio con quella cantata nel poema: il suo pretesto è
il possesso di «alpestri monti» (VII 38), abitati da «popoli montagnuo-
li» che «per bassezza d’animo si tagliavano le viti e si scorzavano i casta-
gni l’un l’altro» (Dichiarazioni di Gaspare Salviani, p. 640; e cfr. anche
VII 37), il suo svolgimento non offre materia per narrazioni eroiche, ma
semmai episodi di codardia (l’aiuto chiesto dai lucchesi agli spagnoli per
costringere a deporre le armi l’esercito estense, che stava per espugnare
la fortezza di Castiglione, vicenda sulla quale Tassoni polemizza anche
in alcune sue lettere: cfr. VII 39-40). La consueta degradazione del to-
no epico investe anche questo conflitto della stessa ironia con cui è rac-
contato quello della secchia rapita:
Due popoli fra questi arditi e pronti
in fera pugna si daran di morso
e si faran co’ denti e con le mani
conoscer che son veri graffignani, (VII 38)

con l’ultima voce che vale sia per ‘garfagnini’ che per ‘ladri’.
381
Matteo Navone

12.18. Sulla scia della Secchia rapita nascono nel Seicento diversi
poemi di intonazione genericamente comica, ma solo in alcuni casi
ascrivibili appieno alla sfera dell’eroicomico. I più fedeli alla lezione tas-
soniana sono quelli che ne riprendono, in maniera spesso pedissequa,
lo schema narrativo: un’azione principale unitaria, coincidente con una
guerra tra due città, causata da un’offesa compiuta dall’una ai danni
dell’altra (generalmente il furto di un oggetto vile, ma comicamente fo-
riero di gravi conseguenze), e ispirata a episodi di storia locale (per lo
più di epoca medievale) che offrono il pretesto per un mascheramento
farsesco del presente. Tale impostazione si ritrova in opere come Il ca-
torcio d’Anghiari di Federigo Nomi (edito solo nel 1830, ma composto
attorno al 1684), incentrato sulla lotta tra gli abitanti di Anghiari e Bor-
go San Sepolcro, scoppiata per il furto di un catorcio (il grosso chiavi-
stello di una delle porte cittadine di Anghiari), o ancora ne La presa di
San Miniato di Ippolito Neri (stampata nel 1760), dove a scontrarsi so-
no stavolta empolesi e sanminiatesi. Un rilievo particolare fra queste
opere va riconosciuto a L’asino di Carlo de’ Dottori (1652), i cui dieci
canti narrano un conflitto medievale che vede i vicentini impegnati a
recuperare un’insegna raffigurante l’animale eponimo, sottrattagli dai
nemici padovani durante uno scontro. Oltre che per la trama e per l’a-
dozione di un apparato di note (attribuite a Sertorio Orsato, cugino
dell’autore) che svela i riferimenti a padovani e vicentini del tempo, il
Dottori si avvicina a Tassoni anche nella capacità di svolgere quei re-
pentini abbassamenti tonali già caratteristici della Secchia, come mo-
stra il proemio («Io vo’ cantar le guerre e le ruine, / che seguiro in Ita-
lia al tempo antico / fra l’armi padovane e vicentine, / per cosa poi che
non valeva un fico»; I, 1) o la similitudine incastonata nel duello tra
Ruteno e Viviano, per il resto trattato con una certa solennità: «Parean
due gallinacci riscaldati, / cui nel fervor d’una battaglia fiera / veggon-
si i capi rossi e i colli enfiati» (I 84). A ben guardare tuttavia, Dottori
persegue una combinazione tra epico e comico più schematica rispet-
to a quella del suo predecessore. Significativa a questo proposito è la
lettera prefatoria, firmata dallo sfuggente Francesco Grimaldi, nella qua-
le, oltre che dichiarare il carattere ludico dell’operazione («Egli ha com-
posto il suo poema in pochi mesi, e più per ischerzo che per altro», p.
6; si cita da C. de’ Dottori, L’Asino, a c. di A. Daniele, Roma-Bari 1987),
si descrive l’eroicomico come un «mischiare il ridicolo del comico con
la gravità dell’epico» (p. 4), gravità quest’ultima che deve essere pre-
servata dalla contaminazione del burlesco in alcune ‘zone franche’; una
di queste è individuata nell’azione del personaggio di Azzo, eroe esten-
se schierato al fianco dei padovani, dotato di «una virtù sovrana» e di
un’importanza quasi achillea («Quando si ritira ferito, manca la fortu-
na a’ Padovani»), e introdotto in scena «in tempo convenevole, non […]
382
Epica italiana

nella presa della bandiera, dove la bassezza del burlesco sarebbe mal
conveniente all’eccellenza dell’eroe» (p. 5). Non si delinea insomma l’i-
dea di un «drappo cangiante», ma piuttosto di una giustapposizione
meno screziata tra parti (le più ampie) che sviluppano in chiave comi-
co-burlesca tópoi epici o cavallereschi (il concilio divino in osteria nel
c. II, con Mercurio che si fa cantastorie per pagare le sue gozzoviglie
gastronomiche in quel di Vicenza, o ancora la presa del castello di Car-
mignano nel c. X, con la surreale apparizione finale dell’asino volante
che ristabilisce la pace), e altre che tendono invece verso un pathos eroi-
co o sentimentale: tra queste ultime, oltre a quelle connesse all’eroismo
di Azzo – che va certo ricollegato allo status encomiastico del perso-
naggio, omaggio al dedicatario Rinaldo d’Este, ma che è comunque ri-
fuggito, almeno a questi livelli di esemplarità, dal Tassoni –, trova spa-
zio anche un episodio puramente tragico-patetico come quello di De-
smanina (cfr. IV 42-55), che diventa guerriera per vendicarsi di Ezze-
lino, che l’ha ripudiata, e finisce uccisa proprio dall’inconsapevole ti-
ranno, con echi della vicenda tassiana di Tancredi e Clorinda.
Prossimi all’eroicomico, ma in forme più autonome rispetto al mo-
dello tassoniano, appaiono anche due poemetti di Giovanni Battista Lal-
li, la Moscheide (1624), in cinque canti, e la Franceide (1629), in sei. Nel
primo testo – che racconta della guerra ingaggiata da Domiziano con-
tro le mosche, intrecciata con la vicenda dell’amore non corrisposto del-
l’imperatore per la sposata Olinda – Lalli sceglie di rifarsi, più che alla
Secchia, all’eroicomico antico della Batracomiomachia, da cui riprende
sia l’idea di raccontare una guerra combattuta da animali – qui schiera-
ti su un solo fronte, anche se sono comunque le mosche le vere presen-
ze eroiche del poema – sia la scelta di narrare la storia con uno stile uni-
formemente epico, applicato a una materia giocosa che nulla ha più di
verosimile, come mostrano questi versi, in cui è presentato un duello tra
due mosche a cavallo di grilli:
Già dato il segno, un contra l’altro stringe
l’acuta lancia in minaccevol vista;
l’un contro l’altro il corridore sospinge,
e vibra in van la spaventosa arista.
Vanno al secondo incontro, e tocca e spinge
Serpentin l’elmo a Trappolino e ’l pista;
ma con far Trappolin botta più bella,
poco mancò che nol gettò di sella. (V 62)

Inevitabili sono gli effetti parodistici verso modi e situazioni della let-
teratura alta, come in II 63-70, dove la mosca Guastasonno sceglie
eroicamente di morire accanto all’amata Zaramellina, annegata da
Domiziano, dopo averne pronunciato un compianto che reimpiega
383
Matteo Navone

comicamente tópoi della lirica amorosa, come questo elogio degli ‘oc-
chi’ della mosca:
Ahi, dove son le tue verghette d’oro
che ti splendean così leggiadre in viso?
E dove gli occhi ond’io languisco e moro,
gli occhi che m’han dal petto il cor diviso?
[…]
Occhi chiari cerulei, occhi lucenti,
ecco io vi miro, ohimè, languidi e spenti! (II 64)

Diversamente, nella Franceide Lalli opta per una mescolanza di registri


(«Non serba lo mio stil sempre un tenore, / ch’ora troppo s’abbassa or
s’erge e sale», si dichiara nel proemio: I 3) indirizzata al solito scopo lu-
dico («Legga quest’opra sol chi ha dolce umore / […] / ch’io fatta l’ho
per l’increscevol ore / e per lo sollione e ’l carnevale»; ibidem), anche se
in realtà prevale l’intenzione di narrare «con parlar quasi da Zanni, / del
mal francese i lagrimosi affanni» (I 1). L’argomento è infatti l’eziologia
mitologica data al diffondersi della sifilide (una vendetta di Giunone
contro gli amanti protetti dall’odiata Venere), su cui si innestano vari
episodi, come un’inconsueta versione della disfida di Barletta – in cui i
tredici campioni francesi e italiani giostrano per decidere a quale dei due
popoli debba spettare l’ignominia di dare il nome alla nuova malattia –
e una spedizione in India, suggerita in sogno da Esculapio all’eroe ita-
liano Consalvo, per trovare il «legno guaiaco» (III 13), rimedio al male.
Per questa materia, Lalli ricorre soprattutto a uno stile familiare e farse-
sco che non disdegna anche la satira sociale e il grottesco macabro (la
rassegna dei contaminati dal morbo in II 26ss.), e che lascia spazio, tal-
volta, a parti serie, come il racconto della disfida (II 90-98) e il prece-
dente lamento sulle divisioni dell’Italia, preda di potenze straniere (cfr.
III 81-86): il rapporto tra i due registri appare limitato a una semplice
accostamento tra parti di diversa tonalità, senza che si diano quelle più
dinamiche soluzioni che in Tassoni si articolavano anche nello spazio di
una sola ottava.
Un’impronta marcatamente locale caratterizza invece la variante dia-
lettale di questo tipo di produzione: nella ricca letteratura secentesca in
vernacolo trovano spazio infatti, accanto a versioni in dialetto dei capo-
lavori cinquecenteschi (Furioso e Liberata), opere ascrivibili a un eroi-
comico sui generis, in cui l’adozione della parlata locale (e di un livello
stilistico dunque ‘basso’) tratteggia quadri di vita popolare che mesco-
lano toni seri e comici, limitando però lo spazio riservato alla materia
propriamente bellica. A Napoli Giulio Cesare Cortese compone La Vaias-
seide (1612) – ‘poema arroico’ che canta (riprendendo le formule di fin-
ta oralità caratteristiche della narrazione canterina, nonché, come si è vi-
384
Epica italiana

sto, di quella boiardesca e ariostesca) le vicende sentimentali delle ‘vaias-


se’ (serve) napoletane e dei loro amati – e il Micco Passaro ’nnamorato
(1619), che racconta le disavventure amorose e guerresche dell’‘eroe’
eponimo (già comparso nella Vaiasseide, e ispirato a una figura realmente
esistita), rissoso ‘guappo’ napoletano che decide di andare a combatte-
re contro i banditi in Abruzzo, dove in realtà è spesso distratto dalla bat-
taglia da Grannizia, ‘vaiassa’ di cui si è invaghito, e dagli espedienti mes-
si in atto da Nora, la donna che ha abbandonato a Napoli, per ricon-
durlo a sé. In queste opere predominano scene corali di vita popolana
(feste nuziali, schermaglie tra innamorati e zuffe tra ‘guappi’), tratteg-
giate dall’autore non senza una certa compartecipazione emotiva (ad
esempio per la difficile condizione delle ‘vaiasse’), mentre restano trac-
ce di cliché epico-cavallereschi declinati in forme giocose, come nel ca-
so del curioso duello tra Ciullo e Maso (cfr. Vaiasseide, V), concluso da
un bel pranzo in taverna. Il romanesco (o meglio un italiano mescolato
a elementi sintattici e lessicali romaneschi) è utilizzato da Giovanni Ca-
millo Peresio ne Il maggio romanesco overo il palio conquistato (1688) e
da Giuseppe Berneri nel Meo Patacca (1695). Le due opere, che pur pre-
sentano ambientazioni diverse (Peresio racconta una vicenda ambienta-
ta nella Roma medievale di Cola di Rienzo, Berneri riprende un recen-
te episodio di cronaca), sono accomunate dalla volontà di rendere pro-
tagonista del racconto, più che singoli personaggi, la giocosa vitalità, ma
anche la rozzezza e la crudeltà della plebe romana, ritratta, in Peresio,
nella girandola di rivalità e amori nati attorno alla competizione ‘spor-
tiva’ del palio (e complicati dagli interventi della strega Crizia), e in Ber-
neri negli eventi suscitati nel 1683 dall’arrivo a Roma della notizia del-
l’assedio turco a Vienna, con lo sgherro Meo Patacca che, per andare a
combattere gli infedeli, allestisce una mobilitazione di uomini e soldi
che si risolve poi, una volta appresosi che l’assedio turco è già stato sba-
ragliato, in gaudenti feste. In questi impianti collettivi emergono co-
munque figure di rilievo come, nel poema di Peresio, l’eroe del quartie-
re Monti Iacaccio, vincitore del palio ai danni del trasteverino Titta, e,
nell’opera di Berneri, il protagonista eponimo, che dimostra talvolta una
generosa virtù contrapposta alla cieca violenza della plebe romana, co-
me quando pone fine, nel c. XII, all’assalto contro il ghetto ebraico, or-
ganizzato con il pretesto della presunta complicità tra ebrei e turchi nel-
l’assedio di Vienna.
Poco in comune con l’eroicomico propriamente detto sembra inve-
ce avere Lo scherno degli dei di Francesco Bracciolini, che pur contese
con la Secchia il primato dell’invenzione del genere, anticipando al 1618
la pubblicazione dei primi quattordici canti (nel 1626 diventeranno ven-
ti), proprio per battere sul tempo il rivale modenese. Secondo le dichia-
razioni proemiali, lo Scherno nasce dalla volontà dell’autore di dimo-
385
Matteo Navone

strare la versatilità del suo ingegno poetico, cimentandosi in un’opera


di intonazione opposta a quella della Croce racquistata:
Io che sin’or con la matita rossa
e con la nera a disegnar mi misi
le virtù degli eroi, l’armi e la possa,
pochi ne celebrai, molti n’uccisi,
men piacqui forse alla volgare e grossa
gente, perché severo unqua non risi;
me ne pento lettore, e vo’ mostrarti
che in palco saprei far tutte le parti. (I 1)

Al di là dell’accostamento alla Croce, lo Scherno sembra porsi come ro-


vesciamento più del poema mitologico che non di quello eroico: non ri-
propone le strutture dell’epica tassiana – sempre nel proemio, Braccio-
lini dichiara di voler «seguitar» solo «natura», e chiede licenza di volge-
re le spalle all’arte, la cui osservanza è invece rivendicata da Tassoni – ma
propone una successione di episodi che vogliono mettere alla berlina le
favole mitologiche degli dèi (in particolare le vicende amorose che co-
involgono Venere, Marte e Vulcano), con un’improbabile finalità mo-
ralizzatrice, insegnare alle «stolte genti a non lasciarsi più né sedurre né
ingannare e a schernire più tosto con esso noi Venere, Marte e Giove»,
come recita il dialogo tra le muse Urania e Talia che introduce il poema
fin dalla princeps. La direzione della beffa è dall’altezza della materia mi-
tologica verso il basso della sua irrisione, e tende dunque più al burle-
sco che all’eroicomico, del quale manca soprattutto una reale compre-
senza di serio e faceto, sostituita dalla prevalenza pressoché monocorde
di un’intonazione comico-farsesca. Le forme epiche, lungi dall’essere l’o-
biettivo primario dell’autore, non sempre rientrano nei meccanismi del
dileggio, anche se sono maggiormente riecheggiate negli ultimi sei can-
ti, incentrati sulla lotta condotta contro gli dei, precipitati sulla terra,
dagli uomini, sotto la guida di Prometeo e di Taccone, leader fiero ma
un po’ troppo attratto dalla bottiglia. Gli esiti non vanno comunque più
in là di occasionali deformazione grottesche, come nel caso del duello
tra il diavolo Calcabrino, trasformato in maiale volante, e l’aquila tor-
turatrice di Prometeo (cfr. XX 29ss.).
Per analoghe ragioni, restano distanti dall’eroicomico della Secchia
anche travestimenti burleschi come l’Eneide travestita del già ricordato
Lalli (1633) e l’Iliade giocosa di Giovanni Francesco Loredano (1653),
che conservano la materia degli antichi poemi riscrivendola in uno sti-
le basso e familiare, con ovvio cambiamento di registro e connessi effet-
ti caricaturali, destinati a incrementarsi col passaggio di questo sottoge-
nere in Francia dove, a seguito del Virgile travesti di Scarron (1648-1649),
esso si diffonde come una vera e propria moda. Volutamente sbilancia-
386
Epica italiana

to sul versante del burlesco è anche l’interessante Malmantile racquista-


to del pittore fiorentino Lorenzo Lippi (1676), in dodici canti, che rac-
conta la riconquista del regno di Malmantile (nella realtà un castello vi-
cino a Firenze) da parte della legittima regina Celidora, grazie all’aiuto
dell’esercito guidato dal valoroso Baldone. Dalla storia municipale, se-
guita dal Tassoni e dai suoi più fedeli epigoni, si passa ormai all’inven-
zione fantastica, elemento che, assieme alla presenza di inserti novelli-
stici e fiabeschi (ispirati anche al Cunto de li cunti di Basile) e alla deno-
minazione di cantari attribuita alle singole parti, la dice lunga su quan-
to il Malmantile voglia rifarsi, più che alla tradizione eroica, a quella ca-
valleresca (soprattutto nella sua variante pulciana), come conferma il fat-
to che Lippi presenti la sua opera non come «poema» ma come «leg-
genda», autonoma pertanto dalle regole compositive dell’epica tradizio-
nale. Particolarmente accentuata è la marcatura municipalistica dell’o-
pera, con un testo è disseminato sia di espressioni proverbiali e gergali
fiorentine, sia di riferimenti a personaggi fiorentini del tempo (facil-
mente decodificabili solo per i primi destinatari dell’opera, i concitta-
dini del Lippi): in entrambi i casi, un sussidio fondamentale alla com-
prensione è offerto dalle note (che si confermano elemento ricorrente
nei testi eroicomici e burleschi del Seicento italiano), redatte da vari au-
tori e affiancate al Malmantile a partire dall’ed. 1588. La cifra burlesca
è qui notevolmente incrementata rispetto a un testo come il Morgante,
tanto da assumere una portata sostanzialmente esclusiva, in coerenza con
la finalità eminentemente ludica di quest’opera, comune anche alle al-
tre menzionate in precedenza.
Eroicomico e burlesco continueranno a produrre frutti significativi
anche nei secoli successivi, dentro e fuori d’Italia. L’eroicomico in par-
ticolare conoscerà importanti ridefinizioni, che ne rivitalizzeranno la cir-
colazione nella cultura letteraria europea, in opere come il Lutrin di Boi-
leau (1674) e il Rape of the lock di Alexander Pope (1712), ma troverà
anche in Italia, tra Sette e Ottocento, nuove attestazioni: se la Marfisa
bizzarra di Carlo Gozzi (1772) recupera il mondo dei paladini per far-
ne un doppio satirico delle mode e della politica dell’età dei Lumi, una
strategia eroicomica (combinata ovviamente con altre ascendenze lette-
rarie) è ravvisabile anche ne Il giorno di Parini (le cui prime due parti, Il
mattino e Il mezzogiorno, uscirono nel 1763 e nel 1765), che utilizza an-
tifrasticamente uno stile epicheggiante per satireggiare il tema del suo
canto, la vacua esistenza del ‘giovin signore’, ‘eroe’ protagonista di un’an-
ti-epopea, le cui ‘alte imprese’ altro non sono che le vane occasioni che
scandiscono la vita aristocratica, alcune delle quali descritte come iro-
nici rovesciamenti proprio di tópoi epici, come nel caso della vestizione
del ‘giovin signore’, che rifà il verso a quella del guerriero prima della
battaglia. Nell’Ottocento sarà poi l’eroicomico pseudo-omerico a esse-
387
Matteo Navone

re recuperato e attualizzato dalla penna di Leopardi nei Paralipomeni al-


la Batracomiomachia (sui quali cfr. il saggio di Enrica Salvaneschi in que-
sto stesso volume).
Un’ultima osservazione va fatta a questo punto: si è visto come nel
Seicento l’epica mostri chiari segni di stanchezza, divisa com’è tra una
produzione post-tassiana ammanierata e ripetitiva ed esperimenti come
quelli di Marino e dei poeti eroicomici e burleschi, impegnati a cercare
di innovare un genere che in realtà deformano solo dall’interno, accele-
randone la consunzione. Di fatto, già nel secolo XVII, un nuovo gene-
re letterario, il romanzo in prosa, sta sottraendo al poema epico il suo
primato in campo narrativo e il suo successo presso il pubblico. Il ro-
manzo si sviluppa soprattutto sulla scorta di modelli stranieri, spesso a
loro volta imparentati con il poema cavalleresco italiano del Cinque-
cento (risapute sono le strette relazioni tra Don Quijote e Orlando furio-
so), e, pur non producendo capolavori nell’ambito del Seicento lettera-
rio italiano, raccoglie di fatto l’eredità del genere epico, recuperando
principalmente il romanzesco avventuroso e sentimentale dell’epos ca-
valleresco e mescidandolo con i ricordi della tradizione pastorale, no-
vellistica, lirica, e perfino del romanzo antico. Il passaggio di consegne
non avviene ovviamente in maniera repentina, e non è privo di resi-
stenze: fermo restando che l’epica continuerà sempre a esercitare la sua
auctoritas sul romanzo e altre forme letterarie (come fonte di storie, per-
sonaggi, strategie narrative, ma anche e soprattutto come paradigma di
riferimento per ogni ambizione di sublimità stilistica, di racconto di am-
pio respiro), essa, anche come genere a sé, riesce a ritagliarsi, nei secoli
XVIII e XIX, spazi di sopravvivenza, seppur sempre più residuali. Nel
Settecento ad esempio, complice la latitanza del romanzo italiano, si im-
pone una ricca produzione di poemi e poemetti (spesso però di argo-
mento didascalico e satirico più che propriamente eroico), cui vanno ri-
condotte esperienze come quella citata del Giorno pariniano. Ancora nel
primo Ottocento alcuni fermenti narrativi trovano la via del poema (ba-
sti pensare a I lombardi alla prima crociata di Tommaso Grossi, del 1826),
ma a quest’altezza temporale la vittoria del romanzo può ormai cele-
brarsi definitivamente anche in Italia. Sarà proprio il principale artefice
di tale vittoria, Alessandro Manzoni, a sancire – nel suo discorso Del ro-
manzo storico, e in genere de’ componimenti misti di storia e d’invenzione,
composto verso il 1830 – il sostanziale esaurimento della secolare for-
tuna del poema epico, accantonato da lettori e scrittori di tutta Europa
in virtù della sua inadeguatezza a soddisfare le istanze dei tempi nuovi,
e in particolare quella volontà di indirizzare il racconto letterario verso
la verità della storia già vagheggiata da diverse epopee classiche e mo-
derne (da Virgilio e Lucano fino a Trissino e Tasso), ma ormai perseguita
con soluzioni e sensibilità inevitabilmente diverse.
388

Potrebbero piacerti anche