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Epica italiana*
*
Le edizioni di riferimento delle opere citate in questo contributo sono le seguenti: Luigi Alaman-
ni, Avarchide, Firenze, Giunti, 1570; Id., Girone il cortese, Venezia, Comin da Trino di Monferra-
to, 1549; Dante Alighieri, La Divina Commedia, a c. di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze
2002, 3 voll.; Id., De vulgari eloquentia; introd., trad. e note di V. Coletti, Garzanti, Milano 1991;
Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a c. di C. Segre, Mondadori, Milano 1976; Id., Cinque canti,
in Id., Orlando furioso e Cinque canti, a c. di R. Ceserani e S. Zatti, UTET, Torino 2006, 2 voll.,
vol. II; Matteo Maria Boiardo, L’inamoramento de Orlando, ed. crit. a c. di A. Tissoni Benvenuti e
C. Montagnani, introd. e commento di A. Tissoni Benvenuti, Ricciardi, Milano-Napoli 1999, 2
voll.; Francesco Bracciolini, Lo scherno degli dei, Mascardi, Roma 1626; Carlo de’ Dottori, L’asino,
a c. di A. Daniele, Laterza, Bari 1987; Teofilo Folengo, Baldus, in T. Folengo, P. Aretino e A. F. Do-
ni, Opere, I. Opere di Teofilo Folengo, a c. di C. Cordié, Ricciardi, Milano-Napoli 1977; Giambat-
tista Giraldi Cinzio, Dell’Hercole, Gadaldini, Modena 1557; Id., Discorso intorno al comporre dei ro-
manzi, in Id., Scritti critici, a c. di C. Guerrieri Crocetti, Marzorati, Milano 1973; Giovanni Bat-
tista Lalli, La moscheide e La franceide; introd. e note di G. Rua, UTET, Torino 1927; Lorenzo Lip-
pi, Malmantile racquistato, Stamperia alla Condotta, Firenze 1688; Giambattista Marino, L’Adone,
a c. di G. Pozzi, Mondadori, Milano 1976, 2 voll.; Giovan Battista Pigna, I romanzi, ed. crit. a c.
di S. Ritrovato, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1997; Id., Gli Heroici, Gabriel Giolito
de’ Ferrari, Venezia 1561; Angelo Poliziano, Stanze – Orfeo – Rime; introd., note e indici di D. Puc-
cini, Garzanti, Milano 20045; Luigi Pulci, Morgante e opere minori, a c. di A. Greco, UTET, Tori-
no 2006, 2 voll.; Bernardo Tasso, Amadigi, Gabriel Giolito de’ Ferrari, Venezia 1560; Torquato Tas-
so, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a c. di L. Poma, Laterza, Bari 1964; Id., Gerusalem-
me liberata, a c. di F. Tomasi, Rizzoli, Milano 2009; Id., Lettere poetiche, a c. di C. Molinari, Guan-
da, Parma 1995; Id., Rinaldo, a c. di L. Bonfigli, Laterza, Bari 1936; Alessandro Tassoni, La secchia
rapita e scritti poetici, a c. di P. Puliatti, Panini, Modena 1989; Gian Giorgio Trissino, La Italia li-
berata da Gotthi, Valerio e Luigi Dorici, Roma 1547.
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Matteo Navone
senti nei testi dei poeti della corte di Federico II, riferimenti che pas-
seranno poi anche nei versi dei cosiddetti rimatori siculo-toscani. La
trascrizione e circolazione dei romanzi arturiani in prosa è poi assicu-
rata da altri centri, come per esempio Genova, mentre cominciano a
comparire i primi testi di questo genere composti in Italia – seppur non
ancora in italiano, ma in lingua d’oïl – come il Meliadus (1272-1274
ca.), summa delle vicende degli eroi della Tavola Rotonda e della Tavo-
la Vecchia, composta dal futuro trascrittore del Milione di Marco Po-
lo, Rustichello da Pisa, e le Prophécies de Merlin (1276-1279 ca.), ope-
ra di un anonimo autore veneziano incentrata sulla figura del mago pro-
tettore di Artù. A questa fase si accompagna anche quella dei primi vol-
garizzamenti, ancora in prosa, tra i quali i più significativi appaiono il
cosiddetto Tristano Riccardiano, risalente al tardo Duecento, e la già tre-
centesca Tavola Ritonda – la più importante summa arturiana realizza-
ta in Italia –, ambedue incentrate sul personaggio di Tristano, le cui vi-
cende, soprattutto nelle seconda, vengono abilmente inserite nel ciclo
della Tavola Rotonda, secondo un’interpolazione già introdotta in fon-
ti come il Tristan en prose. Nonostante l’indiscutibile rilevanza di que-
sti e altri volgarizzamenti – nei quali, superata l’iniziale ossequiosità ai
modelli, cominciano a profilarsi margini sempre più ampi di origina-
lità nella trattazione della materia – va precisato che, almeno fino al pri-
mo Quattrocento, saranno i testi in francese a essere ancora preferiti,
secondo una consuetudine che, come scrive anche Dante nel De vul-
gari eloquentia, identificava nella lingua d’oïl il veicolo espressivo con-
sacrato alla narrazione delle «Arturi regis ambages pulcerrime» (I 10, 2).
In effetti, nel medesimo passo, Dante inserisce nel ‘dominio’ della lin-
gua d’oïl, accanto ai racconti arturiani, anche le composizioni «cum
Troianorum Romanorumque gestibus», altro settore della produzione ro-
manzesca che godette di particolare successo nell’Italia centro-meri-
dionale – di contro a un centro-nord decisamente più orientato verso
la materia bretone – sempre in collegamento con ben precisi modelli
transalpini, come il Roman de Thèbes, il Roman de Troie di Benoît de
Sainte-Maure, l’Eneas, il Roman de Brut di Robert Wace. I più antichi
e significativi tra i testi italiani incentrati sulla materia antica sono tut-
tavia composizioni in prosa non ascrivibili al genere epico: ciò vale sia
per le romanesche Storie de Troia e de Roma, anonimo volgarizzamen-
to duecentesco di una compilazione latina di un secolo più antica – che,
oltre a documentare una tradizione del mito troiano diversa da quella
del Roman de Troie, costituisce il più antico testo di argomento ‘stori-
co’ nella nostra lingua –, sia per l’Historia destructionis Troiae (1272-
1287 ca.) di Guido delle Colonne (con ogni probabilità coincidente
con il poeta della ‘scuola’ siciliana), opera colta e raffinata che presen-
ta però, stavolta, forti debiti nei confronti del romanzo di Benoît de
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Matteo Navone
stare fin dall’inizio il suo iter a quello dell’eroe troiano («Io non Enëa,
io non Paulo sono»; Inf. II 32): se già quello di Enea era stato un per-
corso salvifico dalle fiamme del «superbo Ilïón […]» (Inf. I 75) alla sal-
vezza della nuova patria italica, anche il Dante viator, innalzandosi dal-
la selva del peccato alla beatitudine della visione divina, ripropone un
analogo itinerario esemplare, seppur nell’ambito di una risemantizza-
zione cristiana del tópos. Se dunque il paradigma epico di riferimento è,
come si è visto, Enea, quello antitetico corrisponde invece al primo pro-
tagonista di un’epopea di viaggio, Ulisse, grande protagonista del rac-
conto (dantesco però, non omerico) di Inf. XXVI. La contrapposizione
tra il percorso dell’eroe greco e quello di Dante è, com’è noto, resa evi-
dente da una serie di rimandi intratestuali: «folle volo» (Inf. XXVI 125)
e «varco / folle […]» (Par. XXVII 82-83) è qualificata l’impresa di Ulis-
se, non sorretta dal Cielo perché animata da un ardore di conoscenza fi-
ne a se stesso e incurante di ogni freno, con un’insistenza sul motivo del-
la follia (da intendersi come atto di superba travalicazione dei limiti im-
posti da Dio all’uomo), già umilmente paventata da Dante per il suo
viaggio ultramondano («Temo che la venuta non sia folle»; Inf. II 35,
ma cfr. anche Inf. VIII 89-91), timore infondato, trattandosi nel suo ca-
so di «alto volo […]» (Par. XV 54) voluto dalla grazia divina, che già
aveva guidato, seppur per altri scopi, il pellegrino Enea. Al di là dei tan-
ti altri legami verbali e tematici che sono stati osservati tra i personaggi
di Dante, Enea e Ulisse, importa rilevare come, già a livello di questa ri-
presa del motivo del viaggio, la Commedia dimostri di voler portare avan-
ti un dialogo con la tradizione epica classica svolto in termini originali,
dialogo che continua sul piano del recupero di un altro tópos canonico,
quello della catabasi.
Anche in questo caso, è il precedente virgiliano a fare scuola: par-
tendo dal modello della nékuia del libro XI dell’Odissea, il poeta latino,
nel VI dell’Eneide, aveva sviluppato ulteriormente il tópos, facendo en-
trare il suo Enea direttamente nell’Ade – senza arrestarlo semplicemen-
te sulla soglia a compiere un rito di evocazione delle anime dei defunti
– e caricando inoltre di un’ulteriore valenza quella centralità narrativa e
strutturale dell’episodio già ravvisabile nel precedente omerico. Tale cen-
tralità, evidenziata dalla tradizionale collocazione di questi racconti in
prossimità (nell’Odissea) o in coincidenza (nell’Eneide) della metà del-
l’opera, è legata al fatto che l’incontro con i morti segna sempre, per l’e-
roe, un momento di svolta nel proprio percorso, di conquista conosci-
tiva capace di dare un senso all’esperienza passata e, soprattutto – me-
diante l’espediente, anch’esso topico, della profezia – di illuminare il
cammino futuro: se questi elementi, nell’Odissea, sono legati esclusiva-
mente al destino individuale del protagonista (tutto ciò che Ulisse ap-
prende dall’ombra di Tiresia riguarda infatti il suo ritorno a Itaca e gli
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Epica italiana
Anche nel quadro di questa catabasi cristiana, l’eroe acquista così co-
scienza del compito che gli è stato destinato (anticipato e ribadito an-
che altrove, per es. da Beatrice in Purg. XXXII 103-105 e da S. Pietro
in Par. XXVII 64-66), compito che implica ancora una sublimazione,
in direzione sacra, del dichiarato precedente classico, visto che pertiene
all’ammaestramento morale di un’umanità intera corrotta dal peccato,
attraverso la testimonianza della sorte ultraterrena delle «anime che son
di fama note» (Par. XVII 138), rivelata agli occhi del viator.
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Matteo Navone
Alla stessa finalità mirano i doppi sensi osceni (presenti anche nelle se-
quenze belliche, come nel combattimento tra paladini e Amazzoni in
XXII 165-70, tutto giocato sulla sovrapposizione tra scontro armato e
rapporto sessuale), le descrizioni di bevute, abbuffate, beffe di stampo
novellistico (come quella tesa da Malagigi a Orlando e Rinaldo nel can-
tare X, o quella portata a segno da Margutte ai danni dell’ostiere Dor-
mi nel XVIII), furfanterie varie cui neanche paladini come Rinaldo si
sottraggono, e ancora le tante metafore e similitudini che attingono di
preferenza a un repertorio quotidiano – proverbi, usanze e persino gio-
chi popolari – piuttosto che ai modi gravi e solenni più convenziona-
li nell’uso epico di queste figure. Anche negli ultimi cinque cantari –
pur più sorvegliati e stilisticamente sostenuti dei precedenti – risulta
chiaro come Pulci non ricerchi mai un’intonazione epica pura: così an-
che il racconto di Roncisvalle è intervallato da squarci comico-realisti-
ci (le feste e le danze con cui Lucifero e i diavoli festeggiano il gran nu-
mero di anime pagane che Orlando e compagni fanno precipitare agli
Inferi, in XXVII 54-55), mentre l’immagine del campo di battaglia
inondato di sangue viene resa, tra l’altro, mediante iperboli grottesca-
mente macabre:
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Epica italiana
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Epica italiana
more e del disamore, o in quello della ventura di Orlando nel regno del-
la fata Morgana, personificazione della Fortuna), che arricchisce la tra-
ma con continui e fantasiosi sviluppi, facendo di questa componente –
che anche Ariosto importerà abbondantemente nel Furioso – uno degli
elementi più graditi al pubblico che decreterà il successo del romanzo
cavalleresco. In secondo luogo l’entrelacement, preziosissimo strumento
di regia narrativa che Boiardo riprende in maniera originale, sia sfrut-
tandolo abilmente per creare effetti di suspense, sia legandolo sempre agli
interventi della voce narrante, che segnala al suo pubblico i passaggi da
una storia all’altra, nel quadro di quella finta dimensione orale, connes-
sa alla maniera canterina, di cui si è detto (un esempio tra i tanti possi-
bili: «E lui [Rinaldo in balia di un mostro] lasciamo in quela gran pau-
ra, / ché bisogna che altrove io mi converta: / hor de una dama [Ange-
lica] lo amoroso caldo / contar convensi, e poi torno a Renaldo»; I, IX
1). L’uso dell’entrelacement impone ai personaggi percorsi non indiriz-
zati linearmente verso una meta, individuale o collettiva, ben definita,
ma segnati piuttosto dall’erranza, da un continuo precipitare in venture
(questo meccanismo, per cui il paladino di turno viene coinvolto, spes-
so per amore, in una vicenda avventurosa che prevede il superamento di
varie prove, prevale qui sulla più unificante inchiesta) che alimentano un
intreccio sempre pronto a rigenerarsi ogni volta che si esaurisce un filo-
ne narrativo. Tale struttura, pur nel suo policentrismo, appare comun-
que attentamente calibrata, e non priva di un disegno generale che solo
l’incompiutezza dell’opera ci impedisce di afferrare a pieno.
I temi magici e amorosi costituiscono solo un aspetto del raffinato
eclettismo che caratterizza l’Inamoramento, improntato a una docta va-
rietas (Villoresi, La letteratura… cit., p. 157) sulla quale può aver eserci-
tato un certo ascendente anche un’opera come le Metamorfosi ovidiane.
Boiardo integra le fonti romanzesche e volgari con una cospicua compa-
gine classica (Omero, Virgilio, Ovidio, Stazio e molti altri), introdotta
all’evidente scopo di variare e nobilitare i popolareschi materiali cavalle-
reschi, arricchiti anche dalla mescolanza di motivi di diversa provenien-
za e intonazione, che spaziano dal guerresco al lirico, dal comico all’alle-
gorico, dal bucolico all’orroroso, senza dimenticare gli inserti novellisti-
ci, modellati su racconti di Ovidio, Apuleio, Boccaccio. È presente ov-
viamente anche una misura epica, che contraddistingue episodi specifi-
ci, come i duelli tra Orlando e Agricane nel primo libro, anche se biso-
gna ammettere che Boiardo non dà il meglio di sé nelle scene di batta-
glia, spesso rese con monotone sequenze di armature infrante e lance spez-
zate. In generale, più che un registro propriamente epico, prevale un gu-
sto divertito di recuperare, per l’intrattenimento del proprio pubblico,
gli ingredienti tipici del genere cavalleresco, dai quali l’autore conserva
però un evidente distacco, lasciando non di rado intravedere un sorriso:
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Matteo Navone
non mancano infatti spunti comici che abbassano lo status eroico dei per-
sonaggi, presentando, per esempio, un Orlando innamorato impacciato
o un Carlo Magno che inveisce trivialmente contro il nipote, che lo ha
abbandonato nel momento del bisogno (cfr. I, II 64-65).
L’Inamoramento de Orlando impresse una tale svolta al genere caval-
leresco da diventarne l’imprescindibile modello di riferimento per oltre
un ventennio, dall’ultimo decennio del Quattrocento agli anni venti del
Cinquecento. Tale centralità è manifestata dalla capacità dell’Inamora-
mento di generare continuazioni, emulazioni, e perfino riscritture, quel-
le di Francesco Berni e Ludovico Domenichi che, dagli anni quaranta
del Cinquecento fino all’Ottocento, finirono per eclissare il testo origi-
nale di Boiardo, pesantemente modificato da tutta una serie di ripuli-
ture linguistiche, aggiunte di personaggi e censure moralistiche. Il fe-
nomeno più interessante resta però quello delle ‘giunte’ all’Inamora-
mento: il capolavoro boiardesco non si limitò infatti a influenzare auto-
ri che seguivano altri filoni della narrativa cavalleresca (è il caso, ad esem-
pio, di Francesco Cieco da Ferrara e del suo Mambriano, del 1509, che
riprende l’Inamoramento sul piano della ricchezza intertestuale e degli
inserti novellistici, rifiutandone però altri aspetti, come l’esaltazione po-
sitiva dell’amore), ma attrasse anche una schiera di continuatori pronti
a colmare lo spazio bianco lasciato da Boiardo in coda al suo poema. Si
tratta di operazioni dettate certo da un mercato librario ansioso di trar-
re profitto dal successo dell’Inamoramento, e abbastanza spregiudicato
per accorpare poema e appendici spesso omettendo di specificare la di-
versa paternità di queste ultime; ma esse testimoniano anche come la ci-
clicità, quella capacità di originare circuiti di narrazioni dimostrata già
dai poemi omerici, si confermi caratteristica storica del genere epico an-
che nell’ambito della sua variante cavalleresca, tutta fondata, del resto,
su un continuo raccordarsi dei nuovi racconti con quelli preesistenti. Per
limitarsi adesso al caso specifico di Boiardo, tra il 1505 e il 1521 com-
parvero i tre libri aggiunti da Niccolò degli Agostini, il Quinto libro di
Raffaele Valcieco da Verona, continuazione del Quarto dell’Agonistini,
e il Sesto libro di Pierfrancesco de’ Conti, collegato al Quinto del Valcie-
co: opere per lo più dozzinali e scialbe, facilmente surclassate dall’unica
‘giunta’ capace di proseguire il percorso innovativo aperto dall’Inamo-
ramento, ovvero l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto.
eroi la ricerca dei loro oggetti del desiderio. Inoltre, nel passaggio dalla
prima alla terza edizione, Ariosto definisce meglio il ruolo nodale rico-
perto dalla caduta di Orlando nella follia. Collocato poco prima della
metà esatta dell’opera, alla fine del canto XXIII (nel primo Furioso si tro-
vava poco oltre la metà, alla fine del c. XXI), l’evento viene a segnare un
autentico spartiacque, esaurendo definitivamente quello che era stato fi-
no a questo momento lo spunto narrativo principale, che perdurava ad-
dirittura dall’Inamoramento de Orlando (la fuga di Angelica, con l’eroi-
na che, dopo un’ultima apparizione nel c. XXIX, esce definitivamente
di scena), inaugurandone di nuovi (le contese per le armi disseminate
dal paladino) e segnando l’ingresso nella seconda parte dell’opera, dove
i motivi avventuroso-romanzeschi lasciano sempre maggiore spazio a
quelli epico-guerreschi. Non mancano poi simmetrie e giustapposizio-
ni che istituiscono significativi parallelismi tra diverse parti dell’azione,
come avviene per le vicende dei due eroi, l’eponimo Orlando e l’enco-
miastico Ruggiero. Al di là delle più evidenti corrispondenze – il salva-
taggio di Olimpia dall’orca marina, compiuto da Orlando nel c. XI (rac-
conto questo aggiunto nel terzo Furioso) è una duplicazione variata del-
l’analogo episodio del c. X, che vede Angelica minacciata dallo stesso
mostro e soccorsa da Ruggiero – sono i percorsi dei due eroi a essere co-
struiti in maniera specularmente opposta. Entrambi attraversano mo-
menti di caduta, in cui un amore malriposto li porta a macchiare il lo-
ro decoro guerriero (Ruggiero ridotto a effeminato drudo della lussu-
riosa Alcina, Orlando reso pazzo dalla gelosia), recuperato solo grazie al-
l’ausilio di altri personaggi (Melissa e Logistilla nel primo caso, Astolfo
nel secondo); tuttavia, mentre il percorso più progressivamente virtuo-
so viene riservato al capostipite estense – che passa dal paganesimo al
cristianesimo e, soprattutto, dall’amore lussurioso (Alcina) alla conqui-
sta della virtù (Logistilla) e dell’amore consacrato e coniugale (Brada-
mante) – a Orlando tocca quello più alienante, segnato dall’allontana-
mento dai suoi doveri verso Dio e verso Carlo e dall’ossessivo insegui-
mento di una donna sorda ai suoi sentimenti, culminante nella degra-
dazione della follia e della bestialità.
Ma in questo processo di ordinamento e nobilitazione del genere
cavalleresco, Ariosto guarda soprattutto ai maestri latini, non recupe-
rando in toto le strutture dell’epica antica, ma comunque cercando di
ordinare le forme romanzesche entro argini di classica chiusura. Così,
il Furioso corregge lo schema ciclico del romanzo, fondato su un cir-
cuito di storie sempre aperto a continue ripartenze, cercando, nella sua
seconda metà, di chiudere i filoni narrativi principali – molti dei qua-
li ereditati, incompiuti, dall’Inamoramento de Orlando –, e dandosi co-
sì una forma che è sì variegata, ma comunque conclusa, dotata di una
sua compattezza e persino di una sua peculiare unità, rilevabile se si
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Matteo Navone
guarda non alle singole fila dell’intreccio, ma alla tela, all’ordito strut-
turale del poema nel suo complesso (cfr., su questa parte, S. Zatti, Il
Furioso tra epos e romanzo, Lucca, Pacini Fazzi, 1990, pp. 9-37). A Or-
lando e Ruggiero, in particolare, spettano degli esiti che possiamo de-
finire epici: da un lato il paladino, recuperato il senno e liberatosi fi-
nalmente dell’amore per Angelica, può tornare ad assolvere ai suoi do-
veri di campione della cristianità, trascurati fin dalle prime pagine del-
l’Inamoramento («Ogni suo studio, ogni disio rivolse / a racquistar quan-
to già amor gli tolse», dice il poeta di lui rinsavito in XXXIX 61), gui-
dando l’espugnazione di Biserta (cc. XXXIX-XL) e partecipando alla
battaglia di Lipadusa (cc. XLI-XLII), che dà la vittoria definitiva ai cri-
stiani, ponendo fine alla guerra contro Agramante; dall’altro Ruggiero
accetta la conversione e il battesimo e, superato l’ultimo ostacolo (Bra-
damante promessa dai genitori a Leone), sposa l’amata realizzando il
suo destino dinastico. Seppure non si possa ancora parlare di un fina-
le epico di respiro unitario e collettivo, gli esiti delle vicende di Orlan-
do e Ruggiero – entrambi prescritti dalla provvidenza divina – per-
mettono di rintracciare nell’opera una teleologia che ordina almeno una
parte dei fatti narrati: gli errori romanzeschi dei due eroi, gli impedi-
menti vari (come gli interventi del mago Atlante), le avventure colle-
gate di altri personaggi (il viaggio di Astolfo sulla luna, concesso da Dio
per far sì che Orlando recuperi il senno: cfr. XXXIV 67) si configura-
no sì come digressioni, ma collegate a un asse narrativo che procede in
una direzione ben determinata. Ariosto realizza ciò che ancora manca-
va in Boiardo (al quale va però sempre riconosciuta l’attenuante del-
l’incompiutezza, visto che è alquanto probabile che il finale nuziale di
Ruggiero fosse già previsto nel suo disegno encomiastico): accoglie le
divagazioni richieste dal codice romanzesco, utilizzandole (si ripete, in
parte) come dilazioni del realizzarsi di finali epici, anticipando in nuce
una soluzione che Tasso svilupperà ulteriormente. Anche la Liberata in-
fatti recupererà l’apporto del romanzesco, seppur all’interno di una
struttura più compatta, affidandogli una funzione ‘ritardante’ rispetto
alla conclusione della vicenda epica; e non appaia peregrina questa bre-
ve proiezione verso la Liberata, visto che lo stesso Tasso, nell’Apologia
in difesa della ‘Gerusalemme liberata’, riconoscerà, pur imputandoglie-
lo a difetto, che Ariosto «s’assomigliò a gli epici molto più degli altri
che avevano scritto [romanzi] innanzi», definendo il Furioso «animal
d’incerta natura e mezzo» tra l’epos e il romanzo.
A questo va aggiunto che tutta la seconda metà del poema presenta
un progressivo intensificarsi di una fisionomia epica, con la componen-
te guerriera (e dunque carolingia) che acquista sempre maggiore spazio
rispetto a quella bretone-avventurosa prevalente nei primi canti, tanto
che si assiste anche a un notevole diradamento dell’impiego dell’entre-
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Epica italiana
Questi versi – che, non a caso, chiamano in causa, tra gli altri, proprio
Virgilio – gettano un’ombra scherzosa e, al tempo stesso, maliziosa su
tutti gli elogi estensi contenuti nell’opera, dalla vicina profezia su Ippo-
lito d’Este (cfr. XXXV 4-9) alla genealogia inclusa, appunto, nella ‘ca-
tabasi’ del c. III.
Nel variegato quadro del Furioso, Ariosto riesce anche – riprenden-
do ed enfatizzando modalità narrative già impiegate da Boiardo – a ri-
tagliarsi una fisionomia del tutto particolare di narratore epico, che as-
sume il profilo di un vero e proprio personaggio interno al testo, i cui
interventi vengono a costituire un altro dei principali garanti della co-
esione dell’opera. Si è già detto come alcuni di questi di interventi ab-
biano finalità ‘di servizio’, connesse alla gestione dell’intreccio, ma an-
che a un voluto svelamento della natura fittizia delle storie narrate, re-
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Epica italiana
tà: Baldo può essere sodale tanto di Leonardo che di Cingar (e dei suoi
altri compagni pulciani, il gigante Fracasso e il mezz’uomo e mezzo ca-
ne Falchetto), come Morgante poteva accompagnarsi tanto al santo Or-
lando che allo scampaforca Margutte.
Non solo le consuetudini del cavalleresco, ma anche alcuni motivi
dell’epos antico vengono rivisitati nel Baldus, a cominciare dall’invoca-
zione iniziale alle muse, qui trasformate nelle «pancificae […] Musae» (I
13) intente a cucinare – nel loro Parnaso alternativo, fatto di fiumi di
brodo e laghi di zuppa, in cui si pescano gnocchi e salsicce – cibi sem-
plici ma gustosi (cfr. I 17-61) con cui alimentare il «pancificum […] poë-
tam» (I 63), che a sua volta predilige la popolaresca ma saporita mistu-
ra della poesia macaronica (la metafora culinaria è, fin dal nome, carat-
teristica di questa produzione poetica) all’insipido e monotono registro
aulico delle Muse ufficiali. Un altro tópos, quello della catabasi, conosce
un imprevedibile sviluppo nel finale del poema, nella cui seconda par-
te (libri XII-XXV), la scena si sposta dal mantovano a luoghi fantastici,
percorsi da un meraviglioso virato stavolta in direzione demoniaca, po-
polato da streghe e diavoli che Baldo e compagni combattono appunto
fin dentro l’Inferno, trovando finalmente uno scopo più alto per le lo-
ro imprese. In un contesto di epica seria, l’impresa della discesa agli in-
feri avrebbe dovuto completare la crescita eroica di Baldo, rendendolo
cosciente della sua missione, la sconfitta delle forze del male. Tuttavia,
la catabasi abdica qui ai suoi compiti istituzionali: nel loro viaggio infe-
ro, gli eroi giungono prima nella domus Phantasiae (cfr. XXV 476-579),
dove tutti tranne Baldo sono resi folli, preda di deliri sofistici che vo-
gliono satireggiare la filosofia scolastica, e poi in una gigantesca zucca
(XXV 580-641), dove sono puniti in eterno per le loro menzogne astro-
logi e poeti. Tra questi si pone lo stesso autore (celato sotto lo pseudo-
nimo di Merlin Cocai, con cui Folengo firma i suoi lavori macaronici),
che interrompe la narrazione e si congeda dal suo eroe, affidando alla
penna di un altro cantore il prosieguo delle sue gesta nel regno di Luci-
fero, di cui è comunque rivelato l’ovvio lieto esito, il ritorno san salvum
di Baldo nel mondo dei vivi (XXV 642-58). Il trionfo di Baldo sul re-
gno del male assoluto, evento potenzialmente foriero di importanti im-
plicazioni (l’inizio di una generale renovatio?), doveva probabilmente ap-
parire a Folengo un tema troppo sublime per la sua semplice penna ma-
caronica. Così la catabasi stavolta non illumina il destino dell’eroe con
un disegno profetico e provvidenziale, ma contiene semmai una diver-
tita riflessione allegorica che presenta, ambiguamente, la poesia come
un qualcosa di lieve e vano, paragonabile appunto a una zucca vuota al-
l’interno, e al tempo stesso riduce il poeta a un buffone, un matto, un
tessitore di menzogne; e nel mirino sembra esserci soprattutto la poesia
epica, con Omero e Virgilio anch’essi inseriti idealmente nella zucca:
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Matteo Navone
è il mancato rispetto delle regole basilari della Poetica: il titolo del poe-
ma è incoerente con la materia narrata, la componente magica e mera-
vigliosa eccede i limiti del verosimile, l’azione non è unitaria ma molte-
plice, non è continua ma interrotta da ripetuti salti e divagazioni che
creano confusione nel lettore, e infine l’autore si comporta da predica-
tore più che da narratore (per usare le parole di Castelvetro), in quanto
commenta di continuo le vicende in prima persona anziché attraverso
lo schermo dei personaggi, spezzando così l’imitazione mimetica del rea-
le. Per questi detrattori, l’opera di Ariosto non rientra in alcun modo
nella classificazione aristotelica dei generi, e dunque non è affatto un
poema epico, ma piuttosto un tentativo fallito di epos, o un’aberrante
deviazione moderna dalla retta via tracciata dagli antichi. Ed è interes-
sante osservare come, nelle critiche al Furioso, il piano morale e quello
poetico si saldino assieme a quello storico-sociale: l’apertura e il relati-
vismo del Furioso appaiono ormai ideologicamente rischiosi a un senti-
re diffuso nell’Italia di metà Cinquecento, che avverte gli effetti del ge-
nerale clima di irrigidimento dell’autorità politica e religiosa portato dal-
la Controriforma e dal trionfo dell’assolutismo.
torioso. Una scelta insomma, questa della storia, dotata di una forte con-
notazione etica e persino religiosa.
Ma a parte la storia, ci sono altre due autorità ancora più scrupolo-
samente seguite da Trissino, come lui stesso dichiara nella dedica:
Né solamente nel constituire la favola di una azione sola, e grande, e che
abbia principio, mezo, e fine, mi sono sforzato servare le regole d’Aristote-
le, il quale elessi per Maestro, sì come tolsi Omero per Duce, e per Idea; ma
ancora, secondo i suoi precetti, vi ho inserite in molti luoghi azioni formi-
dabili, e misericordiose, e v’ho posto recognizioni, revoluzioni, e passioni,
che sono le parti necessarie de le favole […]. E se ben non mi sono potuto
approssimare a la eccellenza di così divino Poeta; pur ho tentato di segui-
tarlo da la lunga, imitando, et adorando le sue pedate, e cercando, a mio
potere, esser come lui, copioso e largo.
Trissino aveva grande familiarità sia con la Poetica, di cui aveva com-
posto un’esposizione in sei parti (la Sesta divisione, relativa al poema eroi-
co, fu edita postuma, con la Quinta, nel 1562, ma la sua stesura risali-
va al 1549), sia con l’Iliade; la prima gli fornisce i principi teorici (uni-
tà d’azione, narrazione continuata e ordinata, contrapposti al racconto
molteplice, digressivo e non lineare dei romanzi), la seconda lo «sche-
ma» pratico, come scrisse Benedetto Croce (cfr. Poeti e scrittori del pie-
no e del tardo Rinascimento, vol. I, p. 308) su cui ricalcare il suo poema.
Il legame tra queste due opere era già inscritto nella Poetica stessa, ma
Trissino manifesta comunque una notevole indipendenza nell’adottare
l’Iliade come modello principe, una scelta che, saltando quasi del tutto
la mediazione latina, cui l’epica nostrana aveva finora prevalentemente
guardato, voleva risalire direttamente alla fase primigenia dell’epos. L’I-
talia liberata imita tuttavia l’Iliade con una fedeltà ingenua e quasi ‘de-
vozionale’, anticipata del resto già dalla terminologia usata nella dedica
(«Adorando le sue pedate»). Dal poema omerico Trissino recupera an-
zitutto una gran quantità di situazioni narrative: dall’assedio – buona
parte del racconto si svolge attorno a Roma occupata dai Bizantini e as-
sediata dai Goti – ai giochi funebri, dalla sortita notturna in campo ne-
mico alla diserzione del campione di uno dei due schieramenti, per ta-
cere di tante altre. Inoltre, diversi protagonisti dell’Italia liberata sono
ricalcati molto da vicino sui personaggi dell’Iliade: se Belisario, capo del-
la spedizione bizantina, corrisponde ad Agamennone, Corsamonte, il
più valente guerriero dell’esercito imperiale, riprende Achille, così come
Paulo, saggio consigliere di Belisario, è controfigura di Nestore, mentre,
tanto per complicare le cose, c’è anche un Achille, amico di Corsamon-
te, che qui fa le veci di Patroclo, ma con una variatio: nel Trissino è Cor-
samonte a morire e Achille a incaricarsi della vendetta. C’è poi la fami-
gerata equivalenza tra olimpo pagano e cristiano, con Dio e la Vergine
336
Epica italiana
che prendono il posto di Zeus e di Era, ereditando però dai loro prede-
cessori pagani il vizio di infliggere, secondo il loro capriccio, dolori e
stragi agli uomini (anche ai Bizantini che teoricamente proteggono),
mentre anche gli interventi soprannaturali a favore dell’una o dell’altra
parte in lotta sono garantiti dalla divisione tra angeli «celesti», favore-
voli alle truppe imperiali, e «nocivi», favorevoli ai Goti e fautori della lo-
ro dominazione «per penitenza de i commessi errori» (I 31) dell’Italia;
una divisione evidentemente ridicola che, onde evitare pericolose deri-
ve ereticali, deve rientrare nel finale, con la schiera dei «nocivi» che si in-
china alla saggezza del volere divino. A questa imitatio estremistica non
potevano sottrarsi il metro e lo stile: dall’esametro omerico (e virgilia-
no) Trissino ricava la preferenza per l’endecasillabo sciolto – con aboli-
zione delle terzine e delle ottave che, come spiega nella Sesta divisione
della sua Poetica, ostacolano il racconto continuato con il loro creare uni-
tà strofiche separate e gruppi di versi concatenati dalla rima – riprodu-
cendo maldestramente dei versi omerici anche la caratteristica formula-
rità e l’enárgeia (il descrivere le cose in maniera particolareggiata, tanto
da dare al lettore l’impressione di vederle davanti ai suoi occhi), ridotta
dal poeta vicentino a pedante minuzia descrittiva.
Nonostante questi eccessi, Trissino dimostra talvolta di saper trarre
dall’Iliade soluzioni più rielaborate, destinate per di più a essere riprese
anche in altri poemi eroici. In questo senso, particolarmente interessanti
si rivelano le dinamiche connesse al personaggio di Corsamonte, impa-
rentato, oltre che con l’Achille omerico, anche con i paladini dei ro-
manzi: contrapposto a un Belisario ligio al dovere guerresco, e dunque
incarnazione del codice eroico più puro, Corsamonte porta all’interno
dell’Italia liberata la tendenza alla ventura e all’erranza. Due volte egli
abbandona il campo di battaglia, quando resta prigioniero del lussurio-
so giardino delle maghe Acratia e Ligridonia (c. V), e soprattutto quan-
do si allontana da Roma dopo essersi scontrato con Belisario, che non
vuole concedergli la mano dell’amata Elpidia (cc. XI-XIX), una vicen-
da quest’ultima che fonde la sua evidente matrice omerica (la diserzio-
ne di Achille, causata dalla perdita di Briseide) con il tópos romanzesco
del cavaliere che si ribella all’ordine militare per amore. Di questa fu-
sione si ricorderanno sia l’Alamanni sia il Tasso (che la riproporranno
nelle analoghe diserzioni del Lancillotto dell’Avarchide e del Rinaldo del-
la Gerusalemme liberata), in virtù soprattutto di una sua ben precisa fun-
zionalità. Trissino infatti, così come gli altri autori di poemi eroici, è pie-
namente consapevole della necessità di ‘movimentare’ l’unità d’azione
aristotelica, variando il racconto con opportuni inserti episodici lungo
l’asse principale della narrazione, secondo una prassi autorizzata da Ari-
stotele stesso (cfr. Poetica, 1455b, 15-24 e 1459a 17ss.), e per la quale
era facile trovare riscontri nei poemi classici. Un episodio strutturato co-
337
Matteo Navone
Burgenzo (c. XXII), nel quale si può peraltro scorgere un’altra conta-
minazione tra un ricordo classico (la morte di Achille) e uno moderno
(il tradimento di Gano nella saga carolingia): l’immagine di Corsamonte
che cade in trappola è presentata ancora nei termini di un offuscamen-
to dovuto ad amore:
Il parlar di Burgenzo a Corsamonte
non spiacque, e non pensò d’alcuno inganno:
che ’l Re del ciel gli avea la mente ingombra
di tanto amor, che vedea poco lume. (c. XXII)
L’Italia liberata dai Goti fu uno degli insuccessi più clamorosi della
letteratura cinquecentesca, ma rappresentò anche un primo esperimen-
to da cui gli autori successivi (e in particolare Tasso) sapranno trarre pro-
fitto, analizzandone il fallimento e perfezionandone gli esiti. Trissino in-
fatti, se fallisce come poeta, non fallisce del tutto come teorico: molti
elementi cardinali del poema eroico (il ritorno all’epica classica, e se-
gnatamente a quella omerica, il ricorso alla storia, la ritrovata centralità
della materia guerresca, l’apertura verso il romanzesco) si ritrovano già
nella sua Italia liberata, in attesa di una realizzazione meno impacciata
e più consapevole delle ragioni del diletto e delle esigenze del pubblico
contemporaneo.
novità, rispetto alla tradizione classica, del poema cavalleresco, del cui
sistema di regole (commisurato sulle sue peculiarità narrative, in primis
il racconto di più azioni di diversi personaggi) i loro trattati offrono una
prima teorizzazione critica, unendo all’intento apologistico una dimen-
sione analitica.
Nonostante ciò, Giraldi e Pigna non ignorano le sostanziali analogie
di fondo tra epos e romanzo (espressione di valori e comportamenti eroi-
ci, imitazione verosimile della realtà unita ad aperture al meraviglioso,
solennità stilistica), ma avvertono che i precedenti antichi dell’Inamo-
ramento e del Furioso vanno cercati tra i poemi più aperti alla varietà di
personaggi e situazioni (che è già per questi suoi primi studiosi il prin-
cipio basilare della tecnica compositiva romanzesca), come l’Odissea e le
Metamorfosi. Su questo punto, tuttavia, le posizioni dei due eruditi ap-
paiono tutt’altro che coincidenti. Giraldi, più prudente, punta sulla con-
tinuità tra antico e moderno, presentando il romanzo come una sorta di
evoluzione dell’epos, tanto che il suo stesso nome deriverebbe dal greco
rhóme, forza, mentre quello di ‘canto’, dato alle singole parti, si spie-
gherebbe col fatto che gli autori italiani «hanno sempre finto di cantare
dinanzi ai principi ed a nobile brigata i loro poemi», a imitazione del
«costume antico […] di cantar colla lira ne’ conviti e nelle mense […] i
gloriosi fatti e le grandi imprese degli uomini virtuosi e forti» (p. 48; si
cita dall’ed. degli Scritti critici, a c. di C. Guerrieri Crocetti, Milano
1973). Al contrario Pigna – che assegna un’origine medievale sia al ter-
mine ‘romanzo’ (dai ‘Remensi’, popolo francese noto per la sua fierez-
za) sia all’uso di ‘canto’ (dalle performance dei cantori di piazza) – trac-
cia un solco più profondo tra le due forme, ad esempio sotto il profilo
del verosimile. Se Giraldi fa rientrare sia epos che romanzo nell’ambito
del verosimile poetico (aristotelicamente contrapposto al ‘vero’ della sto-
ria) senza particolari distinzioni, Pigna precisa invece che mentre «l’epi-
co sopra una cosa vera fonda una verisimile, e vera intendo […] o in ef-
fetto vera o vera sopposta», i romanzi «alla verità risguardo alcuno non
hanno» (pp. 24-25: si cita dall’ed. di S. Ritrovato, Bologna 1997). Epos
e romanzo utilizzano dunque due tipologie diverse di verosimile, nel pri-
mo caso ancora confinante con la storia e con il suo modo letterale e
consequenziale di esporre i fatti, nell’altro decisamente più orientato ver-
so il racconto mitologico e fantastico, ma non per questo fallace, e anzi
pronto a esprimere le sue moralità con modalità diverse, mediante si-
gnificati nascosti e procedimenti allegorici.
In questi scritti, e particolarmente in quello di Giraldi, c’è però an-
che qualcosa di più di quanto visto finora: nel momento stesso in cui la
forma del romanzo cavalleresco viene fissata criticamente, essa comin-
cia infatti a dissolversi, a veder profilarsi accanto a lei l’ombra del poe-
ma eroico. Nel Discorso, Giraldi a un certo punto precisa che chi si ac-
340
Epica italiana
dinata della materia, che lo porta a ribadire che «le parti e gli episodi»
devono «avere o necessaria o verisimile dipendenza una dall’altra» (pp.
75-76), condicio sine qua non perché la poesia realizzi il suo duplice in-
tento di dilettare e giovare. E di fronte all’obiezione che per Aristotele
«chi si desse a fare simile componimento, il farebbe infinito» (p. 56) –
anche perché tale modello infrange la regola aristotelica e oraziana del-
l’inizio in medias res e non ab ovo (cfr. Poetica, 1459a 30-1459b 5) – Gi-
raldi ribadisce che la ‘giurisdizione’ della Poetica è limitata ai poemi di
una sola azione.
Tutte queste affermazioni non hanno un valore meramente specula-
tivo, ma mirano a legittimare a livello teorico il poema cui Giraldi sta
lavorando, l’Ercole, che vedrà la luce nel 1557 in ventisei canti (ma il
progetto originale ne prevedeva quarantotto). In esso vengono ripropo-
ste le imprese dell’eroe mitologico, il cui nome offriva un facile appiglio
per celebrare come novello Alcide il duca di Ferrara Ercole II, presen-
tando al tempo stesso l’Ercole greco come progenitore estense. Non-
ostante l’innegabile limitatezza del suo valore artistico (giudizio esten-
dibile, del resto, alla totalità dei poemi di metà cinquecento di cui ci stia-
mo occupando), l’Ercole riveste una certa importanza dal punto di vista
storico, per il contributo che esso dà all’evoluzione del genere eroico, del
quale è proposto addirittura come fondatore in un testo ospitato in ap-
pendice alla princeps del poema giraldiano, ovvero uno dei capitoli let-
terari di Francesco Bolognetti, Un medesmo pensier credo che fosse. Già
Stefano Jossa (cfr. La fondazione di un genere. Il poema eroico tra Ariosto
e Tasso, Roma, Carocci, 2002, p. 19) ha recentemente sottolineato il ca-
rattere programmatico di questo capitolo, nel quale Bolognetti – che
stava all’epoca lavorando a un suo poema, il Costante, affine struttural-
mente e tematicamente all’Ercole, che vedrà la luce soltanto tra il 1565
e il 1566 – ascrive a sé e a Giraldi il merito di una svolta impressa al mo-
do di far poesia delle armi in lingua italiana:
Un medesmo pensier credo che fosse,
nobil Giraldi, quel (s’io non mi inganno)
ch’a far poema Eroico ambi ne mosse.
Questo è, perciò ch’i Toschi ancor non hanno
Marte cantato con Eroici carmi
ma rozzi, e inculti fra Romanzi stanno. (1-6)
ri, e l’armi / de Galli erranti, andar cinto d’Alloro / senza ragione (a mio
giudicio) parmi»; 7-9) ma anche all’Italia liberata, liquidata con un’im-
magine già usata da Giraldi nel Discorso («Colui [Trissino] non men, che
con nessun decoro / trovate nuove lettre, al fin d’Omero / colse lo ster-
co, e non conobbe l’oro»; 10-12), e al Girone il cortese di Luigi Alamanni,
che, come vedremo, aveva già tentato un orientamento simile a quello
dell’Ercole e del Costante, ma, dice qui Bolognetti, con risultati ancora
incerti («Di Giron lo scrittor forse il pensiero / ebbe lontan di voler gi-
re a quella / meta, ch’io dico, e prese altro sentiero»; 13-15). Evidente è
l’intento di distinguere la propria operazione in particolare da quella del
Trissino, certificando così l’esistenza di quelle due tendenze da cui sia-
mo partiti.
Ma torniamo all’Ercole: già il proemio conferma il disegno che ave-
vamo visto tracciato nel Discorso:
Le fatiche, i travagli, i fatti egregi
d’Ercole, i’canto e le sue fiamme accese,
e quante palme egli ebbe e quali pregi
e per lo colto e per lo stran paese;
[…]
E ciò comincerò sin dalle fasce,
ché da le fasce Ercol mostrò quel ch’era:
perch’uom simile a lui sin quando nasce
indicio dà de la natura altiera;
ché, se bene ad alcun par che si lasce,
nel cantar de gli eroi, l’età primiera,
questi fanciul mostrò sì la sua viva
virtù, che degno è che sen parli e scriva. (I 1-2)
del giovane principe, implora Dio di salvargli la vita. La realtà viene poe-
ticamente trasfigurata in miracolo, e la lunga orazione dell’angelo, che
occupa la quasi totalità delle ottave, permette di svolgere l’elogio enco-
miastico della virtù di Alfonso, proclamata fin dal proemio:
Qual celeste virtù del gran Monarca
avesse di pietà le voglie accense,
sì ch’aggiungesse fila a la sua Parca
d’Ercol secondo il primo figlio Estense;
Quand’ella a lui di lunga vita parca
spintolo dal corsier quasi lo spense;
tu ch’a la mente eterna t’avicini
dimmi intelletto fuor de tuoi confini. (I)
[…] tutto che non sia poema d’una sola azione», appare avere «più del-
l’eroico degli altri di questa maniera» (cioè dei romanzi), pur rappre-
sentando un genere di poema comunque «diverso dall’epico», e dunque
non «sottoposto alle leggi sue». Anche l’eroico di Bernardo Tasso è in-
somma un ibrido incerto, che risente ancora della pressione del model-
lo ariostesco, pur non volendo restare del tutto bloccato su di esso.
L’Amadigi ebbe dal pubblico una risposta più positiva di quella del-
l’Italia liberata e del Girone, come testimoniano le due edizioni cinque-
centesche (1581 e 1583) che fecero seguito alla princeps, ma non otten-
ne, com’era inevitabile, il consenso dei dotti. Tasso padre lascia in ere-
dità al figlio la necessità di portare l’eroico a un livello di sintesi più ma-
tura, che non obblighi più a scegliere, come ancora aveva dovuto fare
lui, tra «poema di ragione, esemplato sui modelli dell’arte», e «poema di
successo, fondato sull’uso, sul diletto e sul senso comune» (cfr. Jossa, La
fondazione di un genere… cit., p. 51).
sercito crociato, sono tutti momenti della Liberata che trovano nel Gie-
rusalemme la loro prima stesura. I versi proemiali dichiarano già alcune
scelte che saranno alla base dell’impianto della Liberata: racconto di
un’impresa collettiva, che accompagna all’eroe principale, il duce Gof-
fredo, i vari guerrieri crociati («L’armi pietose io canto, e l’alta impresa
/ di Gotifredo, e de’ cristiani eroi»; 1) e adozione di una materia storica
poeticamente rielaborata («Questa, che spiego or de i gran fatti altrui /
antiqua tela, e parte adorno, e fingo; / è verace pittura e certa […]»; 3),
la cui verità è accresciuta dal suo legame con la sfera del religioso.
Diversamente il Rinaldo, poema in dodici canti composto nel 1561-
1562, torna ad attingere ai temi carolingi per raccontare le prime av-
venture cavalleresche e sentimentali di Rinaldo (la conquista del caval-
lo Baiardo e della spada Fusberta, l’innamoramento per Clarice, e altri
episodi attestati nella tradizione pre-boiardesca del personaggio), affi-
liandosi così al ‘ciclo’ epico formatosi, come si è visto, attorno ai perso-
naggi dell’Inamoramento e del Furioso. Un genere di consumo, ma nel
quale Tasso si inserisce dando subito il suo primo saggio di riflessione
poetica nella premessa ai lettori, in cui giustifica la natura ibrida del Ri-
naldo, «parte ad imitazione de gli antichi e parte a quella de’ moderni
composto», tentando di destreggiarsi tra i due poli che già avevano an-
gustiato il padre, regola e diletto. Delle «severe leggi d’Aristotile, le qua-
li spesso hanno reso […] poco grati que’ poemi che per altro gratissimi
[…] sarebbono stati», Tasso assicura di aver rispettato solo quelle che
«non togliono il diletto», trattando, «con perpetuo e non interrotto fi-
lo», di «un sol cavaliero restringendo (per quanto i presenti tempi com-
portano) tutti i suoi fatti in un’azione». L’allusione ai presenti tempi fa
capire che si sta parlando di un’unità d’azione «largamente considera-
ta», temperata cioè attraverso le necessarie concessioni alla molteplicità
romanzesca, ovvero a quelle parti episodiche «che, se non ciascuna per
sé, almeno tutte insieme fanno non picciolo effetto, e simile a quello che
fanno i capelli, la barba, e gli altri peli» nel corpo umano, «de’ quali s’u-
no n’è levato via, non ne riceve apparente nocumento; ma se molti, brut-
tissimo e difforme ne rimane». Del romanzo, il che equivale a dire del
modello ariostesco, resta dunque la varietà ‘dilettevole’, ma non i proe-
mi, le moralità e gli interventi del poeta in prima persona, che rendono
imperfetta l’imitatio e sono superflui in presenza di una racconto con-
tinuo e non a entrelacement, quale è appunto quello del Rinaldo. Simil-
mente a quanto aveva fatto il padre per l’Amadigi, il giovane Tasso non
applica al suo poema né l’etichetta di epos né quella di romanzo, e si di-
chiara anzi consapevole che esso potrà ricevere critiche sia dagli aristo-
telici, «che hanno innanzi gli occhi il perfetto esempio di Virgilio e d’O-
mero» e non «riguardano mai al diletto», sia dei «troppo affezionati de
l’Ariosto», cui non piacerà l’assenza delle moralità: dimostrando una
351
Matteo Navone
ria quale è stato Lucano: egli deve ricercare non la «verità de’ particula-
ri» come fa lo storiografo, ma il «verisimile in universale», ed è dunque
libero di alterare il vero e introdurre elementi di finzione, a patto solo
di non «mutare totalmente l’ultimo fine delle imprese ch’egli prende a
trattare, o pur alcuni di quelli avvenimenti principali e più noti» (pp.
17-18). È lo stesso principio dell’intessere «fregi al ver» confessato poi
nel proemio della Liberata, e lì legittimato in virtù dell’intento didasca-
lico, del delectare messo al servizio del docere l’utile portato dal vero (cfr.
Lib., I 2-3). Torna dunque il nesso tra storia e verità, contrapposto alla
fictio dei romanzi di cavalleria, già diversamente ricercato da Trissino e
Giraldi, anche se è chiaro che qui Tasso ripensa più all’Italia liberata che
non all’Ercole. In virtù di questi presupposti, bisognerà prendere «il sog-
getto del poema epico da istoria […] di secolo non molto remoto», poi-
ché ciò costringerebbe a trattare di usanze e costumi sconvenienti per il
pubblico moderno, «né molto prossimo alla memoria di noi ch’ora vi-
viamo» (p. 10), in quanto parlare di fatti ben noti ai lettori limiterebbe
di fatto la possibilità di intervenire poeticamente su di essi. A tali re-
quisiti risponde il soggetto della Liberata, ovvero l’ultima fase della pri-
ma crociata (l’assedio e la conquista di Gerusalemme del 1099), tratta
liberamente dalla Belli Sacri Historia di Guglielmo di Tiro, una storia
che presentava anche un’altra qualità richiesta nei Discorsi dell’arte poe-
tica, quella di essere sacra. C’erano già stati nel Cinquecento dei tenta-
tivi di coniugare forma poema e temi cristiani, e una prima possibilità
in questo senso era stata esplorata da due testi in esametri latini, il De
partu virginis del Sannazaro (1526), in tre libri, e i Christiados libri sex
di Marco Girolamo Vida (1535). Concentrandosi su momenti ben pre-
cisi della vita di Gesù (l’avvento nel Sannazaro, la passione, crocifissio-
ne e ascesa al cielo nel Vida), e recuperandone altri mediante, rispetti-
vamente, profezie o ricordi di alcuni personaggi, entrambi questi poe-
mi religiosi affrontavano la materia neotestamentaria guardando ad au-
tori come Claudiano, Ovidio, Virgilio, con i sei libri del Vida che si pro-
pongono come una sorta di Eneide cristiana. Pur annoverando questi te-
sti, in particolare quello di Vida, tra le fonti della Liberata, Tasso prefe-
risce evitare la loro pericolosa mescolanza di materia scritturale e cultu-
ra classica. Il poeta eroico deve trarre il suo argomento «da istoria di re-
ligione vera, ma non sì sacra che non sia immutabile» (ibidem): deve in-
somma ispirarsi alla guerra santa più che alla Bibbia, come aveva già fat-
to il Bolognetti nel suo poema La cristiana vittoria marittima, del 1572.
L’evento scelto dal Bolognetti – la battaglia di Lepanto – era troppo con-
temporaneo per i gusti di Tasso, ma la direzione seguita nella Liberata è
evidentemente la stessa: quella di un poema eroico ormai arruolato nel-
la politica culturale controriformista, che deve unire materia storica e
religiosa, diffondendo e celebrando i valori di una collettività, com’era
354
Epica italiana
alle origini dell’epica, con la differenza però che ora tale collettività co-
incide, più che con un popolo o un regime, con una comunità religio-
sa: il mondo cattolico post-tridentino, impegnato da un lato sul fronte
della lotta esterna contro la rinnovata minaccia musulmana, e dall’altro
su quello interno del contrasto all’eresia protestante.
La materia sacra è però anche utile a Tasso per risolvere uno spinoso
problema, quello dell’apparentemente impossibile conciliazione tra ve-
rosimile e meraviglioso. Nell’Arte poetica, il sorrentino avverte dell’op-
portunità di non rinunciare agli ingredienti fantastici tipici dei racconti
cavallereschi («anelli», «scudi incantati», «corsieri volanti», «navi conver-
se in ninfe», «larve che fra’ combattenti si trasmettono»), in quanto «di-
lettevoli» e atti a colpire «non solo l’animo de gli ignoranti, ma de’ giu-
diziosi ancora»; essi possono non compromettere la verosimiglianza del-
l’insieme, a patto che siano resi plausibili per dei lettori cristiani, attri-
buendoli non più alla «deità de’ gentili», ma a «Dio, a gli angioli suoi, a’
demoni o a coloro a’ quali da Dio o da’ demoni è concessa questa pode-
stà, quali sono i santi, i maghi e le fate» (pp. 6-7): il punto è insomma
ottenere, appoggiandosi all’opinione comune, un ‘impossibile credibile’,
già indicato da Aristotele come preferibile a un ‘incredibile possibile’ (cfr.
Poetica, 1460a 26-27 e 1461b 10-12). Il motivo classico dell’intervento
divino nelle vicende umane può finalmente essere recuperato aderendo
al meraviglioso della tradizione biblico-cristiana, senza più bisogno del-
le impacciate sovrapposizioni trissiniane tra Olimpo e Paradiso, con tut-
t’al più un Lucifero ribattezzato Plutone: tale meraviglioso non manca di
ispirarsi ancora a quello antico – e in particolare al suo repertorio di ibri-
di mostruosi, prontamente trasferiti tra le schiere diaboliche – ma se ne
distingue anche per il suo rigido manicheismo tra bene e male, Cielo e
Inferno, applicato pure alla realtà umana, ben più bipartita di quella de-
scritta da Boiardo e Ariosto: da un lato i crociati, su cui vegliano Dio e
gli angeli, dall’altro i pagani e i diavoli loro alleati.
È proprio nel conseguimento di obbiettivi come questo che si misu-
ra, per Tasso, il valore di un poeta, nel raggiungere cioè una convincen-
te conciliazione tra estremi opposti: meraviglioso e verosimile, unità e
varietà, epos e romanzo. Nel secondo discorso, Tasso ribadisce che la «fa-
vola» epica deve essere «integra» – avere cioè un inizio, uno sviluppo in-
termedio e una conclusione –, di «grandezza convenevole» (pp. 19-21),
e infine unitaria, ma la sua dev’essere un’unità composta, che nasce, co-
me quella degli organismi viventi o dell’universo stesso, dalla combina-
zione armoniosa di elementi diversi. Il poeta veramente dotato – riven-
dica Tasso già pensando alla competizione con Ariosto – è quello che sa
far scaturire da un’unica azione, non da «molte e separate», una «gran
varietà d’accidenti» (p. 36), dimostrando così – e qui il rimprovero va
invece a Trissino – la falsità dell’assunto per cui «la moltitudine delle azio-
355
Matteo Navone
ni» sarebbe «più atta a dilettare che l’unità» (p. 34). Anche Tasso, come
il padre, capisce che occorre scendere a patti col «gusto isvogliato» (p.
35) del proprio tempo, ma a differenza del genitore definisce più netta-
mente i confini tra epos e romanzo: rifiutando in questi stessi Discorsi –
sulla scorta delle posizioni dello Speroni e del Minturno – la distinzio-
ne giraldiana in due generi, in quanto le differenze tra le due forme so-
no accidentali e non sostanziali, ragion per cui le regole aristoteliche val-
gono anche per il romanzo, Tasso recupera nella Liberata quel tanto di
romanzesco che gli serve – temi, luoghi e caratteri più che tecniche e mo-
di narrativi, come dimostra, per esempio, il contenuto utilizzo della so-
spensione, che mai sfocia in un autentico entrelacement –, inserendolo
in una struttura aristotelicamente ordinata, come avevano già cercato di
fare, con risultati ben differenti, i suoi predecessori. Nella Liberata, il
proemio identifica il nucleo centripeto ed epico del poema nell’impresa
della liberazione del Santo Sepolcro («Canto l’arme pietose e ’l capitano
/ che ’l gran Sepolcro liberò di Cristo. / Molto egli oprò co ’l senno e con
la mano, / molto soffrì nel glorioso acquisto»: I 1), guidata da Goffredo
di Buglione, comandante dei crociati e incarnazione nel poema dell’or-
dine; ma subito dopo annuncia la componente centrifuga e romanzesca
(«E in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano / s’armo d’Asia e di Libia il
popol misto. / Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi / segni ridusse i suoi
compagni erranti»: ibidem). Azione principale più episodi, formula, co-
me si è detto, autorizzata da Aristotele per garantire la lunghezza epica,
distinta dalla concisione tragica: il rischio da evitare è che la varietà epi-
sodica «passi in confusione» (p. 35), impedisca cioè di far seguire lo svol-
gersi dell’azione principale. A tale scopo, messo da parte il libero anda-
mento digressivo di Ariosto, Tasso compatta gli episodi attorno a una ra-
dice comune, a sua volta connessa al tema unificante della guerra santa,
ponendoli quasi tutti (salvo gli ‘intermezzi’ di Olindo e Sofronia nel c.
II e di Erminia tra i pastori nel VII, non a caso quelli che si rivelarono
più problematici da giustificare per Tasso) sotto il segno degli impedi-
menti che si frappongono all’impresa, e dunque di quella funzione ri-
tardante dell’esito epico (l’espugnazione di Gerusalemme, compiuta uni-
tamente da tutte le forze cristiane) già rintracciabile, come si è visto, al-
meno in una parte del Furioso. Tali impedimenti, come mostra ancora il
proemio, dipendono sia dall’alleanza tra pagani e forze diaboliche – l’in-
flusso di queste ultime si manifesta a partire dal concilio infernale che
apre il c. IV, e si configura come un’aristotelica ‘perturbazione’, un’a-
zione cioè che causa lutti e sofferenze, e che termina con una ‘peripezia’,
ovvero un passaggio da una fase di cattiva a una fase di buona sorte per
i crociati (il «novello ordine di cose» con cui Dio esaudisce la preghiera
di Goffredo alla fine del c. XIII), costruzione questa che mostra come
Tasso tenga conto anche di quelle ‘parti di qualità’ che Aristotele rin-
356
Epica italiana
ti, più compromessi con le passioni terrene, tra i quali spicca Rinaldo,
eroe decisivo ed encomiastico (sull’esempio di Ruggiero, è membro del-
la casa d’Este, e avo del dedicatario Alfonso II). Goffredo presenta sen-
z’altro il pedigree epico più marcato, presentandosi come una sorta di
Enea controriformista. La sua pietas si esprime in un’umile ubbidienza
a Dio e in una dedizione alla missione persino più incorruttibile di quel-
la del suo predecessore troiano: nessun affetto privato, nessuna Didone
scalfisce, anche solo momentaneamente, la sua corazza di soldato di Cri-
sto. Eroe cristiano esemplare, come il Belisario di Trissino, dà corpo nel
poema al concetto di arché, di ordine militare e morale, cui cerca co-
stantemente di ricondurre i più distratti compagni erranti. I principali
esponenti di questo gruppo, Rinaldo e Tancredi, con i loro corredi ge-
netici che mescolano epos eroico e cavalleresco, permettono all’amore
di riconquistarsi uno spazio di rilievo nell’economia dell’opera. Tasso,
del resto, dichiara esplicitamente di ritenere «convenevolissima al poe-
ma eroico» la materia amorosa, ma nell’accezione degli amori «nobili» e
«tragici», nel senso di «perturbati con grandi e meravigliosi accidenti e
grandemente patetici» (Lettere poetiche, pp. 434-35). Questa attenzione
per il tragico e il patetico lascia intuire modalità ben distanti da quelle
dell’Inamoramento e del Furioso. Il nesso armi-amori – formulato da
Boiardo nella sua accezione cortese (è amore «che dà la gloria»), ripresa
da Ariosto (che pur ne mostrava i possibili eccessi nella follia di Orlan-
do) e messa in discussione nei poemi di metà Cinquecento – torna nel-
la Liberata sotto il segno del conflitto: conflitto interiore, memore del
dissidio dell’io lirico petrarchesco, rideclinato però nella sua accezione
tassiana, la contrapposizione tra onore e amore, tra etica religioso-so-
ciale ed etica di natura.
Rinaldo e Tancredi vivono questo conflitto seguendo percorsi diver-
si, che rivelano anche le opposte tipologie eroiche che essi incarnano. In
Rinaldo ritroviamo un erede sì di Achille, ma anche del Corsamonte del-
l’Italia liberata: è l’eroe invincibile – a lui il Cielo ha riservato il ruolo
decisivo per la vittoria cristiana – eppure iracondo e istintivo, la cui dis-
erzione/erranza è dovuta sia all’ira (l’uccisione di Gernando nel c. V) sia
all’amore illecito per Armida. L’eroe, cedendo agli incanti e al fascino
della fattucchiera, perde il suo decoro virile e si femminilizza (cfr. XVI
20ss.), come Ruggiero e l’Ercole di Giraldi; la donna lo allontana dal
suo compito eroico, segregandolo nel suo giardino incantato e labirin-
tico, luogo di «lascivi errori» (XVI 23), dove vige una morale opposta a
quella del campo di battaglia: «Solo chi segue ciò che piace è saggio, / e
in sua stagion de gli anni il frutto coglie. / Questo grida natura […]»,
mentre «nome, e senza soggetto idoli sono / ciò che pregio e valore il
mondo appella» (XIV 62-63). Il canto della sirena che fa cadere Rinal-
do in trappola nell’isoletta sull’Oronte – che anticipa il canto del pap-
358
Epica italiana
pagallo nel giardino vero e proprio (cfr. XVI 14-15), e consuona con
l’altrettanto celebre coro dell’atto I dell’Aminta – antepone natura e amo-
re a onore. Rinaldo, irretito, opta per i primi, ma l’intervento divino (al-
l’epos cristiano non può più bastare qualcosa di simile all’ariostesca, e
più ‘laica’, contro-allegoria di Logistilla), tramite i suoi agenti terreni
(Carlo, Ubaldo e il mago di Ascalona), chiude la parentesi romanzesca
e ristabilisce il primato del codice epico dell’onore: si deve combattere
per conquistare «pregio» e onorare «Cristo», non essere «campion d’u-
na fanciulla» (XVI 32), come Ubaldo rammenta a Rinaldo. Questi re-
cupera rapidamente il suo decoro eroico, ma la sua dicotomia è risolta
solo in apparenza: il richiamo al dovere non può impedirgli di provare,
se non amore, pietà (XVI 52) per Armida, che è costretto ad abbando-
nare, causandole un lamento da Didone abbandonata (cfr. XVI 63-67).
Fin qui, la vicenda non è molto dissimile da analoghi episodi che po-
polano l’epos rinascimentale, ma la novità sta all’epilogo della vicenda,
in cui Armida non resta ripudiata come una qualsiasi Alcina, ma si ri-
congiunge a Rinaldo; ciò avviene nel c. XX, in una scena che in realtà
Tasso, durante la revisione romana, aveva deciso di cassare, in quanto
dissonante con l’intonazione eminentemente epica che – dopo il ritor-
no di Rinaldo e la chiusura di tutti gli errori romanzeschi – caratterizza
gli ultimi canti. Sembra quasi che, in questo esito, Tasso ricerchi una
possibile conciliazione di opposti (e dunque tipicamente tassiana) tra
amore cavalleresco e onore epico, che può realizzarsi solo dati alcuni pre-
supposti moralizzatori. Da un lato, Rinaldo ritrova Armida solo dopo
aver espletato il suo dovere eroico: ha contribuito in maniera decisiva al-
la vittoria finale, sia rompendo gli incanti della selva di Saron, sia fa-
cendo strage di nemici nella presa di Gerusalemme; prima ancora di ciò,
ha compiuto un percorso di penitenza e purificazione morale – la sot-
tomissione a Goffredo, la confessione a Pietro l’Eremita, l’ascesa al mon-
te Oliveto – che gli ha permesso di vincere, nella selva, la visione volut-
tuosa della non vera Armida, segno del conquistato disciplinamento del-
le sue passioni irascibili e concupiscibili a una ratio cristianamente inte-
sa, come spiega l’Allegoria tassiana del poema. Dall’altro lato Armida,
smessi i suoi risentimenti, si offre all’amato come docile ancilla (XX
136), pronta alla conversione e a inscrivere il suo amore in una dimen-
sione lecita. Nell’epilogo, Rinaldo torna ad agire da cavaliere cortese,
impedendo ad Armida di suicidarsi, e adempie così alla promessa fatta
alla donna nel c. XVI: «Sarò tuo cavalier quanto concede / la guerra d’A-
sia e con l’onor la fede» (54, c.n.). Le condizioni sono chiare: si può dar
spazio all’etica cortese, agire per salvare la damigella amata in pericolo,
solo una volta soddisfatte le ragioni dell’onore e di Dio.
Viceversa, nella ben più drammatica vicenda di Tancredi, non c’è
spazio neppure per una conciliazione controriformista come quella con-
359
Matteo Navone
l’errore. Il conflitto non viene superato neppure nel duello mortale con
Clorinda del c. XII, nei cui gesti guerrieri, che mimano gesti amorosi
e sessuali, il nesso amore-armi conosce il suo esito più funesto: amore
e morte (cfr. G. Baldassarri, Il sonno di Zeus. Sperimentazione narrati-
va del poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma, Bulzoni, 1982,
p. 41). Non c’è dubbio che l’episodio sia riconducibile a precedenti
cavallereschi (il duello tra Orlando e Agricane nell’Inamoramento de
Orlando, per l’ambientazione notturna e la richiesta di battesimo in
morte, quello tra Turrismondo e Nicandra nell’Italia liberata dai Go-
ti, per il tardivo riconoscimento, mediante rimozione dell’elmo, del-
l’identità femminile dell’avversario), ma credo non sia sbagliato rav-
visarvi un’intersezione con il modo tragico, che conferisce spessore
drammatico a quella che avrebbe potuto essere una semplice digres-
sione episodica: Tancredi si macchia di una colpa grave e involontaria
– e dunque tipicamente tragica – condita, aristotelicamente, di agni-
zione e peripezia. Un simile scelus è però insolito per la coscienza di
un eroe epico, e conduce di fatto allo scacco del c. XIII, quando Tan-
credi non riesce a debellare gli incanti diabolici della selva di Saron.
Tancredi è sconfitto – anche se non da un avversario in carne e ossa,
ma dallo spettro illusorio di una non vera Clorinda, che è rappresen-
tazione visiva del suo senso di colpa – là dove Rinaldo riuscirà bril-
lantemente, in quanto non approda ‘linearmente’ a una conversione,
a differenza del compagno d’armi, purificatosi dai suoi «superbi sde-
gni e […] folli amori» (XVIII 9), e pertanto capace di esorcizzare i suoi
demoni interiori. Tancredi, solo in apparenza risanato dal discorso di
Pietro l’Eremita e dall’apparizione onirica di Clorinda (cfr. XII 86-88
e 91-93) – che tentano, su fronti opposti, di riportarlo ai doveri della
guerra e della fede – giunge invece alla prova ancora ‘contaminato’ dal-
la sua scissione interiore, rimproveratagli dall’Eremita
O Tancredi, Tancredi, o da te stesso
troppo diverso e da i princìpi tuoi,
chi sì t’assorda? e qual nuvol sì spesso
di cecità fa che veder non puoi?
Questa sciagura tua del Cielo è un messo;
non vedi lui? non odi i detti suoi? (XII 86)
361
Matteo Navone
stioni stilistiche (che occupano ora la seconda metà del trattato) e ap-
profondiscono l’idea di una poesia fondata sul vero non solo in quanto
ispirata a fatti storici (sui quali si restringono ora le possibilità di riela-
borazione), ma anche in quanto depositaria di invenzioni che siano espres-
sione allegorica di verità attinenti al sovrastorico e, in modo particolare,
al divino. È un’idea questa che guida tutta l’attività letteraria dell’ultimo
Tasso (cfr. più ampiamente C. Gigante, Tasso, Roma, Salerno, 2007, pp.
334-71), Gerusalemme conquistata compresa. La riscrittura senile del poe-
ma – cui Tasso lavorò verosimilmente tra il 1588 e il 1593, e che nello
stesso anno fu stampata a Roma – vede infatti accentuarsi sia la dimen-
sione allegorica, sia l’utilizzo di fonti sacre e la fedeltà ai resoconti sto-
riografici, ma non solo. Trama e organizzazione interna del poema sub-
iscono forti modifiche fatte di tagli, aggiunte, riposizionamenti, e molte
di queste – come l’incremento dei canti da venti a ventiquattro – rivela-
no un avvicinamento della Gerusalemme all’Iliade che, pur non toccan-
do gli eccessi dell’Italia liberata, azzera alcuni gradi di distanziamento pre-
senti nella Liberata. Fulcro di questa operazione è Rinaldo, ribattezzato
Riccardo, privato di ogni consanguineità con gli Este e reso sempre più
un novello Achille: gli vengono accostati un suo Patroclo (Ruperto) e una
sua Teti (la madre Lucia), mentre aumenta il peso dell’ira nel suo dissi-
dio con Goffredo, che a sua volta vede accentuato il suo «ruolo repressi-
vo» (Gigante, Tasso… cit., p. 362) nei confronti di ogni devianza dal-
l’ordine, con la conseguenza di rendere più forte lo scontro tra i due per-
sonaggi, a evidente imitazione della lite iliaca. Altri personaggi conosco-
no una coloritura omerica prima assente (tra i tanti esempi possibili, pen-
siamo ad Argante, ‘promosso’ a figlio del re di Gerusalemme e dotato di
moglie e figlio per accostarlo a Ettore), mentre figure femminili come Ar-
mida ed Erminia (ora Nicea) vedono diminuito il loro rilievo (per esem-
pio, non si incontrano più nel finale coi loro amati), circostanza spiega-
bile in parte come ulteriore tributo all’epos omerico, e in parte alla luce
del modo più sorvegliato col quale, nella Conquistata, vengono trattati
gli amori. Le ultime prove di Tasso con la forma poema mettono da par-
te la storia e l’epica per privilegiare unicamente contenuti sacri e scrittu-
rali. Accanto a poemetti come Il monte Oliveto (1588) e le Lagrime di
Maria Vergine (1593), spiccano Le sette giornate del mondo creato (termi-
nato nel 1594, ma edito postumo nel 1607), in cui il tema della crea-
zione permette alla poesia tassiana di soddisfare le sue ambizioni ormai
filosofico-teologiche – espresse anche nel suo ultimo scritto critico, il Giu-
dicio sovra la ‘Gerusalemme’ da lui medesimo riformata, composto nel 1593-
1595, ma edito solo nel 1666 (per tutta questa parte cfr. ancora Gigan-
te, Tasso… cit., pp. 371-412) – tese all’espressione mistico-allegorica del-
la Verità. La dimensione più propriamente epica viene così sostituita da
quella didascalica, in collegamento con il De rerum natura di Lucrezio.
365
Matteo Navone
12.15. Come già quella del Furioso, anche la comparsa della Libera-
ta scatenò un infuocato dibattito, innescato dal Carrafa o vero dell’epica
poesia (1584), in cui il napoletano Camillo Pellegrino proclamava la su-
periorità del poema tassiano su quello ariostesco. A difesa del ferrarese
si alzò subito un fronte toscano formato da Leonardo Salviati e dagli al-
tri membri dell’Accademia della Crusca, che lanciò contro la Liberata
bordate tali da spingere lo stesso Tasso a intervenire con l’Apologia in di-
fesa della ‘Gerusalemme liberata’ (1585). La polemica continuerà a infu-
riare, sempre più ripetitiva, per tutti gli anni ottanta, con in palio la pal-
ma di maggior esponente dell’epica moderna. I presupposti sono diver-
si da quelli del dibattito di metà secolo: la norma vale ormai per tutti, i
difensori di Ariosto non parlano più di romanzo, ma sostengono che il
Furioso è epos a tutti gli effetti, dotato anche di unità aristotelica, ma
perseguita in modo più originale rispetto alla scipita povertà di Tasso.
Scrive Salviati nella sua Stacciata prima (1584):
La tela e non le fila è quella che dee essere una nell’epopeia, e tale è quella
del Furioso: ma tela larga e magnifica e ripiena di molte fila, le quali si par-
tono tutte da una sola testa e finiscono in una coda della predetta tela.
corso di bellezza (c. XVI) e, come se non bastasse, dopo aver dichiarato
di preferire al comando i piaceri dell’amore e della caccia:
Più non presumo, i miei desir desio
d’altrui signoreggiar non signoreggia.
Ambizion non nutre il petto mio,
sichè per grado insuperbir ne deggia.
Finch’essali lo spirito vogl’io
che solo il grembo tuo sia la mia reggia. (XV 227)
371
Matteo Navone
Questi luoghi dei cc. XIV e XVI possono essere utili a definire meglio
l’atteggiamento di Marino verso la materia epico-guerresca: l’autore ri-
conosce il valore positivo delle virtù militari, ma lo colloca in un passa-
to perduto, di cui vengono rimpianti i codici di comportamento, che
peraltro coincidono con quelli testimoniati e cantati nei romanzi di ca-
valleria o nei poemi eroici. Si può pertanto affermare, sulla scia di quan-
to già scriveva Pozzi (cfr. Guida alla lettura… cit., p. 543), che, se c’è
evidentemente nell’Adone un voluto rovesciamento degli statuti narra-
tivi dell’epica, esso presenta anche valenze extra-letterarie, legate a una
reazione a un preciso contesto storico-sociale: non ritrovando segni di
eroismo nel costume militare e nei conflitti sanguinosi del suo tempo,
Marino non perpetua, come i coevi epigoni di Ariosto e Tasso, un’idea-
lizzazione della guerra e dei guerrieri svincolata dalla realtà, ma crea un
poema senza eroe e senza eroismi, che alla storia preferisce la fuga nel
mito, nell’amore e nella sfera privata dei personaggi, ma che non esclu-
de la realtà contingente dal suo orizzonte, e semmai anche dalla sua con-
statazione muove la sua ideologia.
Non sarà un caso se la guerra – che, come si sta vedendo, nell’Adone
è tolta dal centro della scena poematica, ma non del tutto eliminata – è
anche altrove trattata in rapporto alla storia contemporanea. Nel c. X,
il poeta illustra i fatti delle guerre di Francia, del Monferrato e degli
Uscocchi, che Adone vede riflesse nell’ingegnosa sfera di Mercurio: il re-
gistro deve farsi qui altisonante e solenne, visti anche gli intenti enco-
miastici verso la corona francese, ma il resoconto epico tradisce note sto-
nate, e non riesce a nascondere, in diverse ottave, la descrizione dei dis-
astri materiali e sociali portati dalla guerra – per es. in X 239:
Tornano a scorrer l’armi, ov’ancor stassi
la prateria sì desolata e rasa,
che ne stillano pianto e sangue i sassi
poiché fabrica in piè non v’è rimasa,
né resta agli abitanti afflitti e lassi
villa, borgo, poder, castello o casa;
già s’appresta la guerra e già la tromba
altri chiama ala gloria, altri ala tomba.
Il recupero del tema delle armi sembra accompagnarsi sempre a una sua
palinodia più o meno marcata: per dirla in altro modo, l’Adone può ac-
cogliere temi e situazioni epiche, ma mai un registro pienamente eroi-
373
Matteo Navone
co. Lo conferma l’ultimo canto del poema, tutto impostato sul tópos epi-
co dei giochi funebri – indetti da Venere in onore del defunto Adone –
dove la materia marziale è stemperata in un’incruenta competizione spor-
tiva, nella quale, tra l’altro, l’interesse dell’autore punta, più che sul pa-
thos dell’agone, sulle descrizioni particolareggiate e variate dei molti par-
tecipanti, e sulla resa arguta (per esempio attraverso giochi fonici) dei
movimenti dei loro corpi. Questo quadro prelude alla giostra finale, cui
prendono parte figure non più genericamente appartenenti alla dimen-
sione del mito, ma legate alla contemporaneità (i 18 cavalieri rappre-
sentanti famiglie della nobiltà italiana, cui si aggiungono il campione
Fiammadoro e l’amazzone Austria, che simboleggiano la Francia e la
Spagna), come avveniva nelle giostre della letteratura rinascimentale. La
giostra si conclude col duello tra Fiammadoro e Austria, che finiscono
per innamorarsi reciprocamente e sospendere lo scontro, con la benedi-
zione di Venere: l’ovvia allusione all’alleanza tra Francia e Spagna con-
sente al poema di chiudersi su una nota di armonia, riparando alla rot-
tura dell’idillio edenico portata dalla morte di Adone. Non a caso alla
pace – seppur quella ristabilita con la forza al termine delle guerre di re-
ligione, rappresentate sullo scudo istoriato che Venere dona a Fiamma-
doro – è dedicata la penultima ottava del poema, che nel salutare l’ab-
bandono delle armi e il ritorno agli studi e alle arti, pare ribadire un idea-
le al tempo stesso poetico e umano:
Tornan l’Arti più belle e le Virtudi
poco dianzi fugaci e peregrine,
fioriscon gli alti ingegni e i sacri studi,
crescon i lauri a coronargli il crine,
riposan l’armi orrende, i ferri crudi
pendon dimessi e le battaglie han fine.
Son fatti i cavi scudi e i voti usberghi
nidi di cigni e di colombe alberghi. (XX 514)
direzione – cara alla cultura del tempo – dei generi nuovi e ibridi, e più
precisamente di una mescolanza tra epico e comico che vantava prece-
denti antichi (la Batracomiomachia, la cui musa è invocata da Tassoni in
V 23) ma anche moderni e italiani (la sinergia tra cavalleresco e buffo-
nesco di Pulci e Folengo, senza dimenticare come il comico e l’ironico
fossero accolti anche in Boiardo e Ariosto). Gli scritti teorici preparati
da Tassoni per accompagnare il suo poema, aiutano a capire meglio in
cosa la sua operazione si distingua da quelle di questi predecessori e con-
temporanei.
Per cominciare, lo scrittore modenese precisa che la sua Secchia è co-
struita «secondo l’arte, descrivendo con maniera di versi adeguata al sug-
getto un’azzione sola, parte eroica e parte civile, tutta intiera, fondata
sopra istoria nota per fama» (prefazione A chi legge firmata Alessio Bal-
bani, p. 593: questa e tutte le successive citazioni dagli scritti tassonia-
ni sono tratte da A. Tassoni, La secchia rapita e scritti poetici, a c. di Pie-
tro Puliatti, Modena 1989). E altrove: «La Secchia ha per tutto recogni-
zione d’istoria e di verità. La favola è una e, se non è una d’un solo, Ari-
stotele non ristrinse mai i compositori a così fatte stitichezze e strettez-
ze» (prefazione A chi legge dell’ed. 1622, p. 595). La Secchia rispetta dun-
que i principi costitutivi basilari del poema eroico formulati da Tasso:
racconta un’unica azione tratta dalla storia (che in realtà intreccia libe-
ramente il ricordo di vari episodi storici dei secoli XIII e XIV, a partire
da quello della battaglia di Zappolino del 1325 tra modenesi e bolo-
gnesi, cui è legato il particolare della secchia di legno sottratta dai mo-
denesi vittoriosi ai bolognesi sconfitti, su cui Tassoni ricama la sua tra-
ma), rifiutando, ancora nel segno della Liberata, l’unità d’eroe in favo-
re di un’azione collettiva che coinvolge più personaggi. Se a ciò si ag-
giunge il fatto che la Secchia offre uno dopo l’altro tutti i principali tó-
poi e stilemi dell’epica (invocazioni alla musa, rassegne di eserciti, in-
terventi divini, battaglie e duelli, morti eroiche), si capisce subito che
essa conserva quell’impianto canonico dell’epos che nell’Adone era sta-
to radicalmente scardinato: là dove Marino opta per l’éros e il mito, sa-
crificando la narrazione a un ideale di poema-catalogo, che vive di de-
scrizioni e digressioni, Tassoni sceglie ancora un argomento bellico e un
racconto continuato e unitario. Il punto è che, nella Secchia, l’apparato
eroico viene applicato ad azioni tutt’altro che illustri e sublimi, e anzi il
comico nasce proprio da questa frizione tra la forma epica e la materia
anti-epica del testo. Modenesi e bolognesi non si combattono per di-
fendere la fede, come era stato per i crociati di Tasso, e neppure per una
donna, come avevano fatto greci e troiani, ma si massacrano per il pos-
sesso di una banale secchia di legno: il conflitto non è specchio di alti
ideali, ma delle rivalità municipali che da secoli dividono e insanguina-
no l’Italia, non è più scontro tra due civiltà (quella cristiana e quella pa-
375
Matteo Navone
cola causa (la «vil secchia di legno»), così come ai «fieri petti umani» sub-
entra subito la denominazione popolaresca dei bolognesi e dei modene-
si, a preannunciare il livello tutt’altro che eroico degli attori dello scon-
tro. E il medesimo contrasto resta nella seconda metà dell’ottava, che svol-
ge l’invocazione ad Apollo («Febo, che mi raggiri entro lo ’ngegno / l’or-
ribil guerra e gl’accidenti strani»), declassato da divino ispiratore a sem-
plice istitutore («Tu che sai poetar, servimi d’aio / e tiemmi per le mani-
che del saio»). Di sapore quasi epigrammatico è invece la chiusa della ce-
lebre ottava dedicata alla descrizione della guerriera Renoppia:
Bruni gli occhi e i capegli, e rilucenti,
rose e gigli il bel volto, avorio il petto,
le labbra di rubin, di perle i denti,
d’angelo avea la voce e l’intelletto.
Maccabrun dall’Anguille, in que’ commenti
che fece sopra quel gentil sonetto
‘Questa barbuta e dispettosa vecchia’,
scrive ch’ell’era sorda da una orecchia. (I 17)
Altrove Tassoni chiama in causa autori e opere ben precise della tra-
dizione epico-cavalleresca: nella scena del duello tra Salinguera e Volu-
ce, l’autore precisa che «non stettero a parlar de’ casi loro, / come solea-
no far le genti antiche, / né se ’l lor padre fu spagnuolo o moro» (VII 5):
il riferimento va sia ai poeti cavallereschi sia a Omero che, come spie-
gano le annotazioni di Salviani, «finge ragionamenti tra colpo e colpo e,
in particolare, fa narrare la stirpe loro agli stessi combattenti nell’atto del
menar le mani», costume che persino Aristotele avrebbe biasimato, se
«fosse stato soldato» (p. 687). Poco dopo, a Salinguerra che gli chiede di
sospendere lo scontro, per permettergli di soccorrere i suoi soldati fer-
raresi sbaragliati da Manfredi, Voluce replica così:
– Signor Marchese,
è morto Orlando e non è più quel tempo;
ma per non vi parer poco cortese,
se volete fuggir, voi siete a tempo.
Seguite pur, ch’io non farò contese,
la gente vostra e non perdete il tempo
perché mi par che corra come un vento;
ma vo’ venir anch’io per complimento –. (VII 16)
La risposta di Voluce allude alla fonte di questi versi, esplicitata poi dal
solito Salviani, ovvero un passo dell’Inamoramento de Orlando (I, XVI
37-43), dove Agricane chiede a Orlando di interrompere il loro duello
affinché possa aiutare i suoi Tartari, di cui sta facendo strage Archiloro,
richiesta cui il paladino acconsente. Il codice cortese appare invece inap-
plicabile a Voluce, la cui sarcastica disponibilità rovescia la magnanimi-
tà di Orlando, che si offriva persino di dar manforte ad Agricane. In am-
bedue i casi, l’evidente parodia gioca sul contrasto tra l’idealizzazione
epica della guerra e la sua pratica reale, molto meno disponibile verso i
nobili gesti. Un’ulteriore modalità si osserva nella parti in cui Tassoni si-
mula un’adesione più stretta al registro epico, come nella sequela di com-
379
Matteo Navone
battimenti del c. VI, dove trovano spazio episodi eroici come la strenua
resistenza di re Enzo alla cattura (31 ss.) e la morte dei due amici Erne-
sto e Iaconia (49-62). In quest’ultimo caso, l’imitazione dei precedenti
di Eurialo e Niso e Cloridano e Medoro è solo in apparenza fedele, in
quanto Tassoni replica qui, a livello microtestuale, l’espediente su cui si
fonda l’intera poema: la futile ragione per cui Ernesto si ostina a non ri-
tirarsi – vendicare la morte del suo cavallo – rende vano il sacrificio di
Iaconia (cui il poeta dedica parole di compianto che vogliono, in realtà,
desublimare la situazione: «Ma quello sforzo aprì la piaga e sparse / l’al-
ma col sangue. E certo fu peccato, / ch’amico più fedel non potea dar-
se / e non bevea giammai vino inacquato»; VI 60), che aveva cercato di
indurlo in ragione («– Ernesto –, gli dicea – la nostra gente / rotta si fug-
ge e noi facciam dimora / e perdiamo la vita inutilmente. / […] // Ma
se l’affanno d’un destrier già morto / e la vendetta sua quivi t’arresta, /
prenditi in dono il mio – […]»; VI 54-55) e ridimensiona l’eroismo del-
lo stesso Ernesto. Per lo stesso principio, la solenne similitudine epica
con cui si apre il canto, che equipara, come da convenzione, lo scontro
tra i due eserciti alle forze naturali –
Qual su lo stretto ove il figliol di Giove
divise l’Ocean dal nostro mare,
se l’uno e l’altro la tempesta move,
vansi l’onde superbe ad incontrare,
[…]
trema il lido, arde il ciel, tuonano i lampi;
tal fu il cozzar de’ due famosi campi; (VI 2)
– non può non suscitare un sorriso, se si pensa alla reale entità delle for-
ze in campo e alle ragioni dello scontro: l’abbassamento dall’epico al co-
mico è sempre a disposizione del lettore, anche quando non è esplicita-
to nel testo.
Il gioco beffardo della Secchia non è tuttavia rivolto solo alla lettera-
tura, ma anche ai tempi del poeta: accanto alla parodia e al divertisse-
ment arguto, trova infatti spazio anche la satira. Si è già detto come mol-
ti dei nomi elencati nelle sequenze belliche corrispondano ad amici del
poeta o ad altre figure reali, talvolta segnalate nelle note di Salviani, e
comunque facilmente riconoscibili per molti lettori del tempo: tra que-
sti spiccano ovviamente il Conte di Culagna, al secolo Alessandro Bru-
santini, acerrimo nemico di Tassoni, e il romano Titta – dietro il quale
è rappresentato probabilmente Giovan Battista Vettori, nipote di papa
Paolo V –, due personaggi che assurgono al rango di buffoni protago-
nisti nei cc. X-XI. Gli intenti satirici si mischiano alla riscrittura di un
tópos epico nel c. II, dove il concilio divino, più che parodiare i suoi pre-
cedenti letterari, prende in giro la corte papale e la condotta dei cardi-
380
Epica italiana
nali, assimilati addirittura agli dei pagani attraverso vari elementi, come
il concilio definito concistoro (28), la descrizione di Apollo che ha «ros-
so il manto e ’l cappel di terziopelo / e al collo […] il toson del Re di
Spagna» (30), l’immagine di Ercole che fa largo al padre tra la folla co-
me «un imbriaco svizzero […] / di quei che con villan modo insolente
/ sogliono innanzi ’l Papa il dì di festa / romper a chi le braccia, a chi la
testa» (39), o ancora «lo scettro in forma […] di pastorale» (41) di Gio-
ve. Anche questi dèi-cardinali, stimolati dal pontefice-Giove, metteran-
no becco nelle vicende mondane, schierandosi per l’una o l’altra parte,
in un episodio che rappresenta solo la punta di una vena anticlericale
che, come già in Pulci e Folengo, riaffiora in diversi luoghi dell’opera.
Ma più in generale, è la stessa rilettura dell’epos a veicolare un disilluso
sguardo sulla contemporaneità: come Marino, anche Tassoni si rende
conto dell’improponibilità di un’ennesima, stereotipata epica eroica (pu-
re il modenese, come l’autore dell’Adone, aveva lasciato da parte un ten-
tativo in questo senso, l’Oceano, poema sulle scoperte colombiane) a
fronte di un presente che offre eventi di segno completamente opposto.
Le insensate lotte intestine tra stati italiani, che lasciano campo libero
agli oppressori stranieri, sono una realtà ancora attuale, e non certo re-
legata nel Medioevo: il poeta stesso riconosce il parallelismo, nel passo
in cui Giove invita Ercole e Mercurio a non accapigliarsi per la guerra
tra modenesi e bolognesi, e a riservare i loro odi per un futuro conflit-
to, quello tra Lucca e il ducato estense di Modena per il possesso della
Garfagnana, combattuto appunto al tempo di Tassoni. La profezia di
Giove preannuncia una «cruda e sanguinosa guerra» (VII 39), che però
non può che fare il paio con quella cantata nel poema: il suo pretesto è
il possesso di «alpestri monti» (VII 38), abitati da «popoli montagnuo-
li» che «per bassezza d’animo si tagliavano le viti e si scorzavano i casta-
gni l’un l’altro» (Dichiarazioni di Gaspare Salviani, p. 640; e cfr. anche
VII 37), il suo svolgimento non offre materia per narrazioni eroiche, ma
semmai episodi di codardia (l’aiuto chiesto dai lucchesi agli spagnoli per
costringere a deporre le armi l’esercito estense, che stava per espugnare
la fortezza di Castiglione, vicenda sulla quale Tassoni polemizza anche
in alcune sue lettere: cfr. VII 39-40). La consueta degradazione del to-
no epico investe anche questo conflitto della stessa ironia con cui è rac-
contato quello della secchia rapita:
Due popoli fra questi arditi e pronti
in fera pugna si daran di morso
e si faran co’ denti e con le mani
conoscer che son veri graffignani, (VII 38)
con l’ultima voce che vale sia per ‘garfagnini’ che per ‘ladri’.
381
Matteo Navone
12.18. Sulla scia della Secchia rapita nascono nel Seicento diversi
poemi di intonazione genericamente comica, ma solo in alcuni casi
ascrivibili appieno alla sfera dell’eroicomico. I più fedeli alla lezione tas-
soniana sono quelli che ne riprendono, in maniera spesso pedissequa,
lo schema narrativo: un’azione principale unitaria, coincidente con una
guerra tra due città, causata da un’offesa compiuta dall’una ai danni
dell’altra (generalmente il furto di un oggetto vile, ma comicamente fo-
riero di gravi conseguenze), e ispirata a episodi di storia locale (per lo
più di epoca medievale) che offrono il pretesto per un mascheramento
farsesco del presente. Tale impostazione si ritrova in opere come Il ca-
torcio d’Anghiari di Federigo Nomi (edito solo nel 1830, ma composto
attorno al 1684), incentrato sulla lotta tra gli abitanti di Anghiari e Bor-
go San Sepolcro, scoppiata per il furto di un catorcio (il grosso chiavi-
stello di una delle porte cittadine di Anghiari), o ancora ne La presa di
San Miniato di Ippolito Neri (stampata nel 1760), dove a scontrarsi so-
no stavolta empolesi e sanminiatesi. Un rilievo particolare fra queste
opere va riconosciuto a L’asino di Carlo de’ Dottori (1652), i cui dieci
canti narrano un conflitto medievale che vede i vicentini impegnati a
recuperare un’insegna raffigurante l’animale eponimo, sottrattagli dai
nemici padovani durante uno scontro. Oltre che per la trama e per l’a-
dozione di un apparato di note (attribuite a Sertorio Orsato, cugino
dell’autore) che svela i riferimenti a padovani e vicentini del tempo, il
Dottori si avvicina a Tassoni anche nella capacità di svolgere quei re-
pentini abbassamenti tonali già caratteristici della Secchia, come mo-
stra il proemio («Io vo’ cantar le guerre e le ruine, / che seguiro in Ita-
lia al tempo antico / fra l’armi padovane e vicentine, / per cosa poi che
non valeva un fico»; I, 1) o la similitudine incastonata nel duello tra
Ruteno e Viviano, per il resto trattato con una certa solennità: «Parean
due gallinacci riscaldati, / cui nel fervor d’una battaglia fiera / veggon-
si i capi rossi e i colli enfiati» (I 84). A ben guardare tuttavia, Dottori
persegue una combinazione tra epico e comico più schematica rispet-
to a quella del suo predecessore. Significativa a questo proposito è la
lettera prefatoria, firmata dallo sfuggente Francesco Grimaldi, nella qua-
le, oltre che dichiarare il carattere ludico dell’operazione («Egli ha com-
posto il suo poema in pochi mesi, e più per ischerzo che per altro», p.
6; si cita da C. de’ Dottori, L’Asino, a c. di A. Daniele, Roma-Bari 1987),
si descrive l’eroicomico come un «mischiare il ridicolo del comico con
la gravità dell’epico» (p. 4), gravità quest’ultima che deve essere pre-
servata dalla contaminazione del burlesco in alcune ‘zone franche’; una
di queste è individuata nell’azione del personaggio di Azzo, eroe esten-
se schierato al fianco dei padovani, dotato di «una virtù sovrana» e di
un’importanza quasi achillea («Quando si ritira ferito, manca la fortu-
na a’ Padovani»), e introdotto in scena «in tempo convenevole, non […]
382
Epica italiana
nella presa della bandiera, dove la bassezza del burlesco sarebbe mal
conveniente all’eccellenza dell’eroe» (p. 5). Non si delinea insomma l’i-
dea di un «drappo cangiante», ma piuttosto di una giustapposizione
meno screziata tra parti (le più ampie) che sviluppano in chiave comi-
co-burlesca tópoi epici o cavallereschi (il concilio divino in osteria nel
c. II, con Mercurio che si fa cantastorie per pagare le sue gozzoviglie
gastronomiche in quel di Vicenza, o ancora la presa del castello di Car-
mignano nel c. X, con la surreale apparizione finale dell’asino volante
che ristabilisce la pace), e altre che tendono invece verso un pathos eroi-
co o sentimentale: tra queste ultime, oltre a quelle connesse all’eroismo
di Azzo – che va certo ricollegato allo status encomiastico del perso-
naggio, omaggio al dedicatario Rinaldo d’Este, ma che è comunque ri-
fuggito, almeno a questi livelli di esemplarità, dal Tassoni –, trova spa-
zio anche un episodio puramente tragico-patetico come quello di De-
smanina (cfr. IV 42-55), che diventa guerriera per vendicarsi di Ezze-
lino, che l’ha ripudiata, e finisce uccisa proprio dall’inconsapevole ti-
ranno, con echi della vicenda tassiana di Tancredi e Clorinda.
Prossimi all’eroicomico, ma in forme più autonome rispetto al mo-
dello tassoniano, appaiono anche due poemetti di Giovanni Battista Lal-
li, la Moscheide (1624), in cinque canti, e la Franceide (1629), in sei. Nel
primo testo – che racconta della guerra ingaggiata da Domiziano con-
tro le mosche, intrecciata con la vicenda dell’amore non corrisposto del-
l’imperatore per la sposata Olinda – Lalli sceglie di rifarsi, più che alla
Secchia, all’eroicomico antico della Batracomiomachia, da cui riprende
sia l’idea di raccontare una guerra combattuta da animali – qui schiera-
ti su un solo fronte, anche se sono comunque le mosche le vere presen-
ze eroiche del poema – sia la scelta di narrare la storia con uno stile uni-
formemente epico, applicato a una materia giocosa che nulla ha più di
verosimile, come mostrano questi versi, in cui è presentato un duello tra
due mosche a cavallo di grilli:
Già dato il segno, un contra l’altro stringe
l’acuta lancia in minaccevol vista;
l’un contro l’altro il corridore sospinge,
e vibra in van la spaventosa arista.
Vanno al secondo incontro, e tocca e spinge
Serpentin l’elmo a Trappolino e ’l pista;
ma con far Trappolin botta più bella,
poco mancò che nol gettò di sella. (V 62)
Inevitabili sono gli effetti parodistici verso modi e situazioni della let-
teratura alta, come in II 63-70, dove la mosca Guastasonno sceglie
eroicamente di morire accanto all’amata Zaramellina, annegata da
Domiziano, dopo averne pronunciato un compianto che reimpiega
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Matteo Navone
comicamente tópoi della lirica amorosa, come questo elogio degli ‘oc-
chi’ della mosca:
Ahi, dove son le tue verghette d’oro
che ti splendean così leggiadre in viso?
E dove gli occhi ond’io languisco e moro,
gli occhi che m’han dal petto il cor diviso?
[…]
Occhi chiari cerulei, occhi lucenti,
ecco io vi miro, ohimè, languidi e spenti! (II 64)