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ARIOSTO 2

Ludovico Ariosto (Reggio Emilia, 1474 - Ferrara, 1533) è stato uno dei più importanti poeti italiani
dell'epoca rinascimentale e uno dei principali scrittori della nostra tradizione. Di famiglia nobile ma
con difficoltà economiche, è stato uomo di corte e di quell'ambiente ha sperimentato aspetti positivi
e negativi, pur vivendo per anni a Ferrara presso gli Este cui la sua fama è indiscutibilmente
legata. Si è cimentato nei generi poetici più diversi, scrivendo rime di ispirazione petrarchesca,
satire (uno dei pochi esempi della letteratura del XVI sec.) e commedie, dedicando al teatro una
parte non irrilevante della sua attività di scrittore. Il suo capolavoro assoluto resta comunque
l'Orlando Furioso, il poema epico-cavalleresco che prosegue idealmente il racconto
dell'Innamorato e lo adatta al nuovo sentire del Rinascimento, nel quale l'autore fa confluire il suo
vissuto e la sua visione del mondo dominando il tutto con ironia e maestria sapiente di grande
scrittore (l'opera ha avuto anche il merito, non trascurabile, di aver imposto la soluzione della lingua
proposta da Bembo). Il poema fu accompagnato da uno straordinario successo tra il pubblico delle
corti ed è tuttora una delle opere italiane più note al mondo, avendo prodotto anche adattamenti
teatrali, televisivi e rifacimenti letterari in chiave moderna come quello di Italo Calvino.
Biografia
La giovinezza e il servizio a Ippolito d'Este

L. Ariosto (ritr. di Tiziano, 1515)


Ludovico Ariosto nacque l'8 sett. 1474 a Reggio Emilia, da Niccolò (capitano della rocca della
città) e Daria Malaguzzi Valeri. La famiglia era nobile ma di condizioni economiche non agiate
(Ludovico era primo di dieci fratelli), così il padre lo spinse a seguire gli studi di legge a Ferrara,
cui il giovane si adattò con poco entusiasmo e scarso profitto; più tardi ottenne di dedicarsi alla
formazione umanistica, anche se imparò bene il latino e male il greco contrariamente
all'impostazione classicista del secolo. Nella sua gioventù condusse una vita brillante ed ebbe varie
relazioni amorose, sino al 1500 quando la morte del padre lo costrinse a occuparsi della famiglia (il
cui patrimonio era in dissesto) e a entrare al servizio degli Este, i signori di Ferrara: nel 1502
divenne capitano della rocca di Canossa e nel 1502 fu nominato segretario del cardinale Ippolito,
fratello del duca Alfonso I. Iniziò un periodo travagliato per l'Ariosto, continuamente impegnato in
viaggi e missioni diplomatiche per conto del suo signore (era diventato "di poeta, cavallaro", come
lui stesso scrisse nelle Satire, VI.238) e talvolta con rischio per la propria persona, come nel 1512
quando lui e il duca furono a Roma presso Giulio II e incorsero nell'ira del papa, salvandosi per
miracolo. Ariosto, che nel frattempo aveva iniziato la composizione del Furioso, avrebbe voluto
dedicare più tempo alla letteratura e questo inasprì i rapporti col cardinale, che per di più era un
uomo alquanto rozzo e sordo alle lettere, anche se a lui è dedicata la prima edizione
del poema apparsa nel 1516 (alcuni videro tuttavia nelle parole di elogio una punta di ironia). Nel
1513 conobbe a Firenze Alessandra Benucci, moglie di Tito Strozzi, e tra i due iniziò una relazione
sentimentale che sarebbe durata tutta la vita, anche se all'inizio il rapporto fu tenuto segreto per il
fatto che lei era sposata e perché lui non voleva rinunciare a privilegi ecclesiastici ottenuti in
precedenza. Ebbe vari figli illegittimi da diverse donne, incluso Virginio che fu sempre il prediletto
(la madre era Orsola Sassomarino) e che alla fine riconobbe, educandolo all'amore per la letteratura.

La rottura con Ippolito e il rapporto con Alfonso

Il duca Alfonso I d'Este (ritr. XVI sec.)


I rapporti col cardinale Ippolito si incrinarono definitivamente nel 1517, quando il prelato fu
nominato vescovo di Buda e pretendeva che Ariosto lo seguisse quale suo segretario in Ungheria: il
poeta si rifiutò, motivando la scelta con motivi di salute (soffriva in effetti di stomaco, anche se
questa appare più come una scusa per non lasciare la Benucci e il figlio Virginio) e fu quindi
licenziato dal suo protettore, ritrovandosi senza lavoro. È probabile che il "gran rifiuto" fosse
motivato anche da ragioni di orgoglio personale, poiché la pubblicazione nel 1516 della prima
edizione del poema aveva dato grande fama all'Ariosto e lui mal si adattava al ruolo subalterno cui
il servizio al cardinale lo costringeva (lui stesso giustificò ironicamente la sua scelta nella Satira I).
Dovette comunque trovare un nuovo impiego e nel 1518 fu assunto dal duca di Ferrara Alfonso I, in
una posizione di minor disagio personale e maggiore dignità; la sua fama a corte era grande, tuttavia
le sue condizioni economiche erano sempre modeste e ciò lo indusse ad accettare, sia pure a
malincuore, l'incarico di governatore della Garfagnana dal 1522 al 1525, periodo di grande
difficoltà per lui. La Garfagnana era da poco tornata sotto il controllo degli Este ed era una regione
remota e selvaggia, per di più infestata da bande di briganti e focolai occasionali di peste, per cui si
può comprendere il poco entusiasmo con cui Ariosto assolse l'incarico, riuscendo comunque a
compiere in modo dignitoso il suo compito (tornò poche volte a Ferrara per vedere la Benucci e il
figlio Virginio). Nel 1528 sposerà in segreto la donna, sempre per conservare i propri benefici
ecclesiastici, dopo che Alessandra era rimasta vedova del marito.

Il ritorno a Ferrara e gli ultimi anni


La casa di Ariosto a Ferrara
Nel 1525 poté tornare a Ferrara e col denaro messo assieme grazie al servizio svolto, oltre che
attingendo all'esigua eredità paterna, si comprò una casetta in contrada Mirasole con attiguo
orticello, fatto banale ma cui il poeta diede grande importanza e che ai suoi occhi era il simbolo di
una raggiunta indipendenza economica: sulla facciata della casa fece scrivere il distico
latino Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non  / Sordida, parta meo sed tamen aere
domus ("Piccola, ma adatta a me, ma non soggetta a nessuno, ma non miserabile, ma tuttavia
acquistata col mio denaro"). Qui si ritirò a vivere negli ultimi anni insieme alla Benucci, sposata nel
1528, e al figlio Virginio, inoltre si dedicò alla riscrittura del Furioso che aveva avuto una seconda
edizione nel 1521 e che ora il poeta voleva ancora rivedere, accrescendone la materia e soprattutto
modificando la lingua secondo i dettami di Pietro Bembo, che aveva conosciuto e di cui era
diventato amico. Negli ultimi tempi il poema veniva sottoposto ai giudizi e alle critiche degli amici
letterati che frequentavano la sua casa e l'ultima definitiva edizione vide la luce nel 1532, pochi
mesi prima della morte dell'autore avvenuta il 6 luglio del 1533. La notizia della sua scomparsa non
fece rumore e raggiunse la corte estense solo pochi giorni più tardi, e i funerali si svolsero in forma
modesta, secondo il suo stesso volere, nella chiesa di S. Benedetto; i suoi resti vennero in seguito
tumulati nel Palazzo Paradiso di Ferrara, dove riposano tuttora.
Ariosto uomo del suo tempo

L. Ariosto (ritr. di Tiziano, 1510)


Ludovico Ariosto era di famiglia aristocratica, benché questa avesse un patrimonio alquanto
dissestato, e durante tutta la sua vita fece parte di quel mondo nobile che esauriva il suo orizzonte
nei limiti angusti della corte, un ambiente chiuso e disinteressato al destino delle classi subalterne:
ciò non vuol dire che il poeta ignorasse la complessità e le implicazioni della società
cinquecentesca, tuttavia è chiaro che tutta la sua visione letteraria risente di questa prospettiva e
rientra pienamente in quel "classicismo aristocratico" che è largamente dominante nella civiltà
rinascimentale, trovando espressione soprattutto nella sua opera principale, l'Orlando furioso. Nel
poema, infatti, la cavalleria e il suo sistema di valori vengono altamente celebrati, tuttavia con
maggior coscienza critica di quanto non avvenisse nell'Innamorato di Boiardo e con la
consapevolezza che quel sistema sociale stava andando in crisi, a causa anche del declino della
figura militare del cavaliere e dell'evoluzione delle guerre (► OPERA: Orlando furioso). La
visione di Ariosto è perciò realistica e in linea coi tempi, fatto che risente della particolare
condizione del poeta che era cortigiano e sperimentava su se stesso i limiti che questo ruolo
imponeva nella società del primo XVI sec., essendo l'uomo di corte sempre più uno stipendiato del
signore al suo completo servizio e sottoposto talvolta alla sua tirannia, in modo diverso da quanto
avveniva ad es. alla corte di Lorenzo de' Medici nella Firenze del Quattrocento. Questo vale per
l'esperienza di Ariosto soprattutto al servizio del cardinale Ippolito, almeno fino alla decisione di
non seguirlo in Ungheria che gli costerà il posto, e trova espressione in alcune delle Satire scritte a
partire dal 1517, come la prima in cui giustifica in modo ironico la scelta di rompere col suo
protettore e lamenta la triste situazione del segretario (► TESTO: La vita del cortigiano), oppure
quella in cui, rivolgendosi all'amico Pietro Bembo cui chiede un precettore per il figlio Virginio, si
sfoga ricordando di essere stato "oppresso" dal cardinale che non lo "lasciò fermar molto in un
luogo" e lo trasformò "di poeta, cavallar", per cui era così impegnato da non avere il tempo di
imparare il greco e altre lingue antiche (VI, 232 ss.). La critica della corte torna anche nel poema,
specie nell'episodio di Astolfo sulla Luna dove "il servir de le misere corti" viene sferzato con
ironia (► TESTO: Astolfo sulla Luna) e dove si punta il dito soprattutto sull'adulazione che è la
miglior qualità per il cortigiano, per cui emerge con chiarezza la denuncia della progressiva
riduzione della libertà intellettuale di chi è al servizio dei potenti, situazione che si sarebbe
ulteriormente aggravata nell'età della Controriforma. Nonostante questa visione critica, tuttavia, va
detto che Ariosto all'ambiente di corte seppe ben adattarsi e la sua critica non andò mai al di là di
una blanda ironia nei confronti dei suoi potenti protettori, se è vero che passò dal servizio di
Ippolito a quello del duca Alfonso e fu in stretti rapporti con i migliori esponenti della società
aristocratica del suo tempo, inoltre (come detto) la sua visione del mondo ignora o quasi il destino
degli umili che erano esclusi dalla dimensione dorata della corte rinascimentale, nei confronti dei
quali Ariosto, come gran parte dei suoi colleghi scrittori del Cinquecento, ostentò sempre
indifferenza se non disprezzo (sul punto si veda specialmente il poema e la rappresentazione in esso
del mondo contadino).

Le poesie latine e volgari

L. Ariosto (ritr. XVI sec.)


La prima attività poetica di Ariosto fu in latino e sembra, tra l'altro, che egli aspirasse inizialmente
alla gloria proprio in questo campo, anche se fu un periodo di breve durata: scrisse circa una
settantina di componimenti variamente ispirati ai principali autori classici studiati in gioventù, tra
cui Catullo, Virgilio, Ovidio, Orazio, nessuno dei quali rivela particolari elementi di interesse e che
risentono di una certa mancanza di esperienza. Più interessanti le Rime in volgare scritte durante un
arco abbastanza ampio di tempo, la cui edizione definitiva è postuma e risale al 1546: si tratta di
liriche di stampo petrarchista come la maggior parte di quelle composte in quegli anni, anche se il
petrarchismo di Ariosto non è di stretta osservanza e le poesie rivelano una notevole originalità,
mentre i temi spaziano da quello amoroso (► TESTI: O sicuro, secreto e fido porto; Se mai cortese
fusti) alle osservazioni morali, subendo ancora l'influsso della poesia latina classica.
Le Rime comprendono una novantina di componimenti tra cui sonetti (in maggior
parte), madrigali, canzoni, nonché due egloghe e una trentina di capitoli in terza rima, scritti in
una lingua che riproduce fedelmente il toscano letterario secondo la proposta del Bembo, proprio
come avverrà per il Furioso. Una certa attenzione è riservata da Ariosto anche ai poeti minori della
tradizione ferrarese, incluso Boiardo che con i suoi Amorum libri rappresenta uno dei modelli, per
cui la lirica ariostesca non si rifà strettamente al "canone" teorizzato dall'amico Bembo e si muove
in modo ancora relativamente autonomo, cosa che di lì a qualche anno non sarebbe stato più
possibile. Da ricordare, infine, che il petrarchismo più ortodosso fu oggetto di ironia da parte
dell'autore e si ha un'eco di questa sua posizione in un passo del poema, quando Orlando, ormai
impazzito, "petrarcheggia" alla maniera dei più rigorosi emuli del Canzoniere (► TESTO: La follia
di Orlando).

Le Satire

Ippolito d'Este e il segretario (ritr. di G. da Carpi, 1550)


Tra i componimenti poetici di Ariosto rientrano anche sette Satire in terza rima, composte tra il
1517 e il 1525 e dedicate a vari argomenti attinenti alla vita dell'autore che si ispira in modo
evidente al poeta latino Orazio: in comune con i Sermones i testi di Ariosto hanno lo stesso
carattere bonario e uno stile giocoso e "mediocre", in quanto non prendono di mira in modo acre un
bersaglio polemico e si limitano a osservazioni ironiche di natura moraleggiante sui costumi della
società e del mondo. La scelta del metro rientrava in questi criteri, poiché la terza rima o "capitolo"
stava diventando nella poesia del XVI sec. tipico di quei componimenti in tono minore e discorsivo,
dal contenuto spesso grave e moraleggiante, e Ariosto lo utilizza cimentandosi in un genere, quello
della satira appunto, che fino ad allora non aveva avuto grandi esempi nella tradizione italiana.
Le Satire hanno tema vario e alcune si riferiscono a episodi ben precisi della biografia dell'autore,
come la I (1517) in cui motiva ironicamente il rifiuto di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria e
lamenta la condizione dell'uomo di corte (► TESTO: La vita del cortigiano), mentre la IV (scritta
nel 1523 in Garfagnana) racconta il suo soggiorno in quella terra e il desiderio di tornare a Ferrara,
così come la VII del 1524 spiega il rifiuto (l'ennesimo...) di recarsi a Roma quale ambasciatore del
duca Alfonso presso papa Clemente VII. Le altre sono dedicate a temi più generali o ad
osservazioni morali, come la II (1517) che critica la corruzione ecclesiastica, la III (1518) che
lamenta la vanità delle illusioni (► VAI AL TESTO), la V (1521) che è dedicata al cugino
Annibale Malaguzzi in procinto di sposarsi e discorre del matrimonio, la VI (1525) in cui chiede
a Pietro Bembo di trovargli un precettore per il figlio Virginio e accenna alle vessazioni un tempo
subìte dal cardinale Ippolito. Le Satire sono concepite come epistole in versi che Ariosto indirizza a
interlocutori reali, come i già citati Bembo e Malaguzzi o come il fratello Alessandro e il
gentiluomo Ludovico da Bagno, con i quali chiacchiera alla buona e in modo apparentemente
svagato, saltando da un aneddoto all'altro con inserzione di racconti e favolette di derivazione
classica; l'atteggiamento è, come detto, bonario e indulgente, per quanto la famosa "ironia"
ariostesca sia una sorta di filtro con cui egli rappresenta la realtà del suo secolo, della cui
complessità è pienamente consapevole e che bacchetta in modo talvolta pungente, specie nei versi
dedicati al suo ex-protettore Ippolito d'Este. Ne emerge il ritratto di un uomo perfettamente inserito
nel mondo della corte che pure critica per molti aspetti, ma che sa accontentarsi di poco e rinuncia
in una certa fase della sua vita a maggiori onori in cambio di una vita modesta e ritirata, criticando
le eccessive ambizioni degli altri uomini che si affannano tanto per non ottenere gran che (è la
stessa tesi che affiora in diversi passi del Furioso, ad es. nella rassegna delle cose perdute sulla terra
che finiscono sulla Luna; ► TESTO: Astolfo sulla Luna). Interessanti nelle Satire anche alcuni
apologhi ispirati con evidenza alla letteratura classica, come la favola della gazza fedele al padrone
che va al pozzo assetata e rimane indietro (III, 109 ss.), a indicare che c'è poco da sperare nella
generosità dei potenti che preferiscono beneficare i loro figli e parenti (il riferimento è al nepotismo
dei papi), o il racconto degli uomini che cercano di raggiungere la luna (III, 208 ss.) e non vi
riescono, proprio come coloro che sperano nella "ruota di Fortuna" e non raggiungono alcuno scopo
poiché i beni autentici risiedono altrove.

Le commedie

Frontespizio del "Negromante" (ed. veneziana del 1562)


Ariosto si dedicò anche all'attività teatrale nell'arco di buona parte della sua vita, sia come addetto
all'allestimento degli spettacoli alla corte di Ferrara (il teatro rinasce nel Cinquecento dapprima
proprio per impulso delle famiglie signorili), sia come autore di commedie la cui messa in scena
curò personalmente e nelle quali talvolta lui stesso recitò: si tratta di una produzione interessante e
tutt'altro che marginale nella carriera del poeta, anche se il grande successo e l'importanza
preminente del poema finì per oscurare tutte le opere minori, che in seguito vennero sottovalutate
dalla critica. Ariosto compose cinque commedie, le prime due in prosa (la Cassaria, 1508, e
i Suppositi, 1509), anche se in seguito le riscrisse in versi, e le successive in versi
sdruccioli (il Negromante, 1520, e la Lena, 1528), mentre una quinta commedia intitolata Gli
studenti rimase incompiuta e venne terminata e pubblicata dal fratello Gabriele col titolo La
scolastica, nel 1547. Le commedie di Ariosto sono tra le prime del Cinquecento ad essere scritte in
volgare e non in latino, proprio come la Calandria del card. Bibbiena il cui Prologo (scritto dal
Castiglione) ne rivendica con orgoglio la novità, mentre la loro struttura è regolare e ispirata a
quella delle commedie latine di Plauto e Terenzio, cui sono simili anche per la trama e le soluzioni
sceniche (al centro vi è spesso un complicato intreccio con servi astuti e sciocchi, padroni avari,
amanti contrastati, e così via). L'ambientazione è per lo più moderna, anche se i nomi dei
personaggi sono spesso greci e la trama si rifà alle commedie latine del III-II sec. a.C., mentre
numerosi sono i riferimenti alla società moderna e al malcostume che l'autore colpisce anche in altre
opere, soprattutto nelle Satire. Ecco, in sintesi, la trama e le caratteristiche di ognuna di esse.

La Cassaria (1508)

Il titolo significa "Commedia della cassa" ed è esemplato su quello di diverse commedie di Plauto,
ad es. la Aulularia ("Commedia della pentola"). Scritta inizialmente in prosa e in seguito versificata
(nel 1528-29), la commedia è ambientata nella città greca di Metelino (oggi Mitilene, sull'isola di
Lesbo) dove due giovani scapestrati, Erofilo e Caridoro, vogliono riscattare le fanciulle amate,
Eulalia e Corisca, comprandole dal lenone che le sfrutta, Lucrano. Su consiglio del servo
astuto Volpino, Erofilo dà a Lucrano in pegno una cassa di ori filati che ha sottratto al padre
Crisobolo, approfittando della sua assenza. L'inatteso ritorno del vecchio però smonta l'inganno e
Volpino viene imprigionato; il servo di Caridoro, Fulcio, riesce in seguito a spillare una somma di
denaro a Crisobolo con un inganno e a liberare Volpino, mentre in seguito anche le due ragazze
vengono riscattate. L'intreccio segue strettamente il modello della nea greca e della commedia
latina di Plauto, in cui spesso un giovane dissoluto vuole liberare una schiava di cui è innamorato e
inganna il vecchio padre avaro, aiutato da un servus callidus (questo avviene ad es.
nella Mostellaria, con pochissime varianti). L'opera risente ancora di un'imitazione scolastica dei
modelli greco-latini ed è meno interessante di quelle successive, più ricche di riferimenti alla
società contemporanea.
I Suppositi (1509)
Papa Leone X (ritr. di Raffaello, 1518-19)
Rappresentata per la prima volta alla corte di Ferrara nel carnevale del 1509, la commedia (il cui
titolo significa "Gli scambiati") si rifà esplicitamente all'Eunuchus di Terenzio e
ai Captivi  di Plauto, di cui riprende in parte la trama; è ambientata a Ferrara, dunque ha un taglio
più moderno rispetto alla Cassaria  e la prima redazione è in prosa, mentre verrà riscritta in versi nel
1528-31. I protagonisti sono il giovane studente Erostrato, innamorato di Polinesta, e il suo fedele
servo Dulippo, che appunto attuano lo "scambio": poiché il padre della ragazza si oppone alla
relazione, Erostrato assume l'identità del suo servo ed entra al servizio della famiglia di Polinesta
per poterle stare vicino, mentre Dulippo dovrà fingere di essere il suo padrone. La finzione non dura
a lungo a causa dell'improvviso arrivo del padre di Erostrato a Ferrara, quindi l'inganno è scoperto e
la commedia rischia di finire in tragedia, anche se poi tutto si appiana grazie a un fortunato
riconoscimento e i due innamorati possono sposarsi. La commedia contiene numerosi riferimenti
alla società ferrarese del tempo e fu famosa una sua rappresentazione a Roma nel 1519, alla
presenza di papa Leone X che rimase entusiasta (per l'occasione Raffaello Sanzio dipinse il fondale
con una prospettiva della città di Ferrara). Superiore alla Cassaria quanto agli esiti artistici, appare
meno fondata sugli equivoci e le trovate sceniche e più sul confronto tra i vari personaggi, oltre a
presentare il motivo del "teatro nel teatro" attraverso lo scambio di ruoli tra i protagonisti, ognuno
dei quali recita una parte (qualcosa di simile avverrà anche nelle tragedie di Shakespeare, ad es.
nell'Amleto).

Il Negromante (1520)

Venne completata nel 1520 dopo un primo abbozzo risalente forse al 1509 ed è la prima commedia
di Ariosto in versi (l'autore scelse come metro l'endecasillabo sdrucciolo, più adatto secondo lui a
riprodurre i versi latini di Plauto e Terenzio). Ne inviò il testo a papa Leone X per un allestimento
che doveva avvenire a Roma, sull'onda del successo dei Suppositi, anche se poi non se ne fece
nulla; della commedia, ambientata a Cremona, esistono però due diverse versioni, una appunto
"romana" e una "ferrarese" per una successiva messa in scena del 1528, che presentano alcune
varianti e l'aggiunta di poche scene. Il protagonista è un falso mago (da qui il titolo) di
nome Lachelino, una sorta di ciarlatano che viene tra l'altro pagato da Cintio per far credere alla
sua impotenza sessuale e ottenere così la separazione dalla moglie Emilia, che era stato costretto a
sposare contro la sua volontà pur essendo già legato a Lavinia. Alla fine il servo Temolo smaschera
le sue furberie e ne segue una sorta di pacificazione generale, dalla quale viene però escluso il mago
che, anzi, è sottoposto a beffe e punizioni. La commedia è interessante non solo per l'ambientazione
moderna, ma anche per la descrizione di quel mondo di truffatori e imbroglioni che trova spazio
anche in altri testi comici del tempo (ad es. nella Calandria del Bibbiena in cui compare il
personaggio del negromante Ruffo), nonché per il riferimento alla stregoneria che era di gran moda
nella società del Cinquecento in cui molti, anche ad alti livelli, credevano nei maghi (cfr. Fur.,
XXXIV.85.4 quando l'autore irride chi perde senno "dietro alle magiche sciocchezze"; ► TESTO:
Astolfo sulla Luna; ► SCHEDA: Magia e astrologia nel Cinquecento).
La Lena (1528)

Frontespizio della "Lena" (ediz. 1588)


Considerata la migliore commedia di Ariosto, è scritta in versi e venne rappresentata
a Ferrara (dove è tra l'altro ambientata) nel 1528, insieme al Negromante e a un altro testo del
Ruzante. Al centro della vicenda vi è il giovane Flavio, figlio di Ilario, che ama la fanciulla Licinia,
figlia di Fazio, che è l'amante di una prostituta sua vicina di casa, la Lena che dà il titolo all'opera
(il nome è fortemente allusivo, poiché il termine lena in latino significa "mezzana"). Flavio si
rivolge alla donna perché l'aiuti ad avere la ragazza amata e questa offre i suoi servigi di ruffiana in
cambio di venticinque fiorini, anche grazie all'aiuto del marito Pacifico che la sfrutta; si intromette
però il servo astuto della situazione, Corbolo, che vuole aiutare il suo padrone Flavio spillando al
padre Ilario la somma necessaria, anche se una serie di imprevisti e fatalità manda a monte i suoi
raggiri (► TESTO: Corbolo, il servo astuto). Alla fine la tresca viene scoperta e Fazio acconsente
al matrimonio tra Flavio e Licinia, mentre Lena rimane scornata in quanto non prende un soldo, ma
può tenersi come amante il ricco Fazio che è innamorato di lei. Nonostante i classici elementi della
tradizione plautina (il servus callidus che aiuta il padroncino, il vecchio avaro, l'amore
contrastato...), la commedia presenta interessanti agganci con la realtà sociale della Ferrara
dell'epoca e appare fondata sul confronto tra i personaggi più che sull'intreccio, in modo simile per
certi versi ai Suppositi con la quale condivide peraltro una trama complicata. Ad alcuni critici
l'ambientazione è parsa velata di disincanto e pessimismo, dal momento che molti dei protagonisti
appaiono come individui alquanto materiali che badano esclusivamente ai propri interessi, tra cui
ovviamente la protagonista Lena ma anche altri, a cominciare dal marito Pacifico e dall'avido Fazio
(► TESTO: Fazio, il vecchio avaro); Lena si presenta inoltre come una prostituta con un certo
"orgoglio professionale", meno disonorata delle donne di strada e in grado di mantenere il marito
Pacifico, dimostrando uno spiccato senso degli affari (► TESTO: Lena, la prostituta orgogliosa).
La commedia venne successivamente ripresa dall'autore nel 1532 e rimaneggiata, con un nuovo
prologo e l'aggiunta di alcune scene.

Gli Studenti (1518-19)

Abbozzata nel periodo 1518-19 quando Ariosto, passato al servizio del duca Alfonso d'Este, era più
libero di dedicarsi alla letteratura, la commedia si colloca nell'ambiente universitario di Ferrara ed
ha come protagonisti due studenti, Claudio ed Eurialo che danno appunto il titolo all'opera. I due
amano una fanciulla, Ippolita, figlia del vecchio avaro Bonifazio, e ricorrono all'aiuto dei soliti
servi astuti (Accursio e Pistone) per ordire un inganno con cui perseguire i loro scopi: attuano cioè
uno scambio di persona coi servi fingendosi due contadini per farsi assumere da Bonifazio, mentre i
loro famigli prenderanno il posto dei padroni all'Università. Alla fine i loro inganni verranno
smascherati, tuttavia Ariosto lasciò la composizione interrotta alla quarta scena dell'Atto IV quando
l'intreccio, particolarmente ingarbugliato, non appare ancora sciolto. La commedia, abbastanza
simile nella trama ai più felici Suppositi, venne poi completata dal fratello di Ariosto, Gabriele, e
pubblicata nel 1547 col titolo La scolastica, mentre un altro rifacimento meno noto fu realizzato dal
figlio Virginio col titolo L'imperfetta, in entrambi i casi in endecasillabi sdruccioli come la
redazione originale di Ludovico. Quest'ultimo in una lettera del 17 dic. 1532 a Guidobaldo della
Rovere parla della commedia incompiuta, dicendo "Gli è vero che già molt’anni ne principiai
un’altra [commedia] la quale io nomino I Studenti; ma per molte occupazioni non l’ho mai finita",
anche se i reali motivi di questo abbandono non sono mai stati chiariti.

L'Orlando furioso, capolavoro della letteratura cavalleresca

G. Doré, Astolfo sulla Luna


La fama di Ariosto è legata in modo indissolubile al suo capolavoro, quell'Orlando furioso cui
iniziò a lavorare già intorno al 1502-1503 e che completò con una prima edizione nel 1516, per poi
correggerlo e rivederlo sin quasi alla fine della sua vita (l'ediz. definitiva è del 1532) e
rimaneggiandolo ulteriormente, per cui si può affermare che il poema sia stato l'opera di tutta la
vita. Al Furioso è dedicata un'apposita sezione del sito, a cui si rimanda per una trattazione
dettagliata, tuttavia occorre sottolineare quale importanza abbia avuto la sua pubblicazione nella
cultura e letteratura italiana, non solo perché l'opera rappresenta il capolavoro e il modello
riconosciuto dell'epica cavalleresca nel XVI sec., finendo per oscurare
l'Innamorato del Boiardo cui pure si era in parte ispirato, ma soprattutto sul piano linguistico,
poiché le correzioni apportate all'ediz. del 1532 che adottavano la soluzione di Bembo (amico
personale del poeta) imposero di fatto il fiorentino letterario come lingua letteraria in Italia e il
successo del Furioso ne sancì il trionfo a scapito delle varie altre proposte, tracciando una strada
che quasi tutti i poeti colti avrebbero percorso fino alla soluzione manzoniana del XIX sec. Il poema
è considerato anche un capolavoro sul piano della costruzione poetica e del controllo della materia
narrativa, poiché l'autore tiene saldamente in pugno tutti i fili dell'intreccio (straordinariamente
complesso e ricchissimo di personaggi e filoni di racconto secondari, come poche altre opere nella
nostra tradizione) e osserva dall'alto con la sua ironia quasi proverbiale le sue creature che si
muovono affannate sulla scena del mondo, traendone una "morale" che teorizza un ideale di vita
modesta, di tipo oraziano e molto vicino alla filosofia espressa nelle Satire (sul punto si veda sopra).
Il Furioso è anche l'opera nella quale i valori estetici e letterari del Rinascimento, ovvero la ricerca
dell'armonia, dell'equilibrio, della grazia delle forme, trovano espressione in maniera del tutto
compiuta, mentre altamente celebrato è anche l'ideale cortese di cavalleria, benché con un certo
disincanto e l'amara consapevolezza che esso appartiene al passato e che la "gran bontà de'
cavallieri antiqui" è ormai inattuale in una società, come quella del Cinquecento, dominata dai
conflitti con le armi da fuoco e da corti divenute sempre più centri di potere, per cui la prospettiva
dell'autore è assolutamente realistica e molto attenta alla realtà "effettuale". Molto interessante
anche la commistione tra linguaggi e stili piuttosto diversi tra di essi, passando dal registro solenne
e quasi tragico di celebri episodi (Cloridano e Medoro, la morte di Zerbino, le imprese
di Rodomonte a Parigi...), ad altri in cui domina il tono più dimesso dell'elegia amorosa (l'amore
di Angelica e Medoro, quello contrastato tra Ruggiero e Bradamante...), ad altri ancora in cui si
scende verso il comico-realistico e la parodia (ad es. l'intermezzo di Iocondo e Astolfo), senza mai
tuttavia scadere nella volgarità e con una leggerezza che domina largamente su tutta l'opera,
veramente rinascimentale sotto questo aspetto. Da ricordare ancora che nel secondo Cinquecento
nasceranno molte discussioni sul genere del poema epico e il Furioso verrà spesso messo a
confronto col capolavoro di Tasso, la Gerusalemme Liberata che con molte varianti rientra nel
medesimo filone, e fra gli autori che si occuperanno della questione vi sarà a sorpresa anche lo
scienziato Galileo Galilei, il quale accorderà la sua preferenza proprio al capolavoro ariostesco.

Per approfondire: ► OPERA: Orlando furioso

L'epistolario

Alfonso I d'Este (ritr. di Tiziano, 1523)


Ariosto ci ha lasciato 214 lettere rimaste pressoché sconosciute sino alle scoperte del secondo
Ottocento e alle successive sistemazioni editoriali, utili per conoscere particolari della vita
dell'autore e aspetti talvolta inediti della sua personalità: le epistole sono state scritte tra il 1509 e il
1532, dunque in un arco assai ampio della vita del poeta, e molte di esse risalgono al periodo della
missione in Garfagnana per conto degli Este (1525-28), concepite per lo più come missive ufficiali
indirizzate al duca Alfonso o ad altri membri del governo ducale; Ariosto vi si lamenta del fatto che
le sue decisioni come commissario vengano puntualmente sconfessate dalle decisioni di Alfonso,
per cui la sua autorità viene minata e l'efficacia del suo governo della regione (infestata da banditi e
criminali) è resa nulla, mettendo diplomaticamente in discussione l'operato del suo signore. Molte
lettere sono di carattere privato e colloquiale e sono indirizzate ai destinatari più diversi, specie ad
amici e conoscenti di Ariosto in cui lo scrittore mette spesso a nudo se stesso e usa molta auto-
ironia: tra queste è interessante una missiva a Benedetto Fantino del 1513 (► VAI AL TESTO), in
cui il poeta racconta il suo viaggio a Roma per rendere omaggio a papa Leone X da poco eletto
pontefice, e la sua delusione nel non ricevere grandi promesse di benefici (cfr. a questo
proposito Sat., III, VI.82 ss.; ► TESTO: La felicità delle piccole cose). Notevole anche la lettera
inviata allo stesso Leone X nel 1520 con cui gli manda il testo del Negromante, la commedia che si
sarebbe dovuta rappresentare a Roma anche se poi non se ne fece nulla, e quella a Pietro
Bembo del 1531 in cui gli raccomanda il figlio Virginio, giunto a Padova per studiare (cfr. anche
la Satira VI, in cui chiede all'amico letterato un precettore per il figlio). Completano l'epistolario
anche varie lettere inviate al cardinale Ippolito negli anni 1509-1516, con osservazioni puntuali su
dati socio-economici della realtà e utili anche a conoscere aspetti vari della società rinascimentale in
cui il poeta era perfettamente inserito, oltre a illuminarci in parte sui complessi rapporti che
intercorrevano tra lui e il suo potente protettore con cui nel 1517 romperà le relazioni.

L'Erbolato
È una sorta di monologo in prosa risalente agli ultimi anni della vita dell'autore (forse dopo il 1524)
e stampato postumo nel 1545 a Venezia: concepito probabilmente come intermezzo da collocare
durante la messa in scene di una commedia, il testo riproduce un discorso del personaggio
immaginario Antonio da Faenza, una specie di ciarlatano che dapprima magnifica i poteri della
medicina moderna, poi pubblicizza un "elettuario" (una sorta di preparato farmaceutico artigianale)
in grado di curare ogni malattia e garantire una vita lunga e sana, tanto che i fratelli del duca Ercole
I d'Este l'avrebbero sperimentato e sarebbero vissuti sino a ottant'anni. Il testo colpisce forse in
modo ironico un medico realmente vissuto nel Cinquecento, un tale Antonio Cittadini che insegnò
a Ferrara e a Pisa, e allude anche al medico ferrarese Niccolò da Lunigo che proprio in quegli anni
sbandierava le proprietà quasi taumaturgiche di un preparato assai simile a quello descritto
nell'operetta satirica (erbolato significa appunto "venditore di erbe medicinali"). Lo scritto è
interessante perché rientra in certo qual modo nella tardiva produzione teatrale di Ariosto e in esso
l'autore mette a berlina la credulità popolare e degli stessi nobili, pronti a cadere vittime dei raggiri
di personaggi poco raccomandabili dediti alla truffa (► TESTO: Un rimedio miracoloso), inoltre il
tema è analogo a quello della commedia Il Negromante il cui protagonista è un venditore di fumo
assai simile ad Antonio da Faenza, anche se alla fine viene punito per le sue ribalderie (sappiamo
che Ariosto non credeva minimamente nelle "magiche sciocchezze" e nei tarocchi, che tuttavia
erano molto diffusi nella elegante società aristocratica del Cinquecento; ► SCHEDA: Magia e
astrologia nel Cinquecento).

Fama e fortuna critica


G. Galilei (ritr. di J. Sustermans, XVII sec.)
Ariosto ebbe durante la sua vita una fama assai ampia, assicuratagli anzitutto dall'Orlando
furioso  che già nell'edizione del 1516 riscosse ampi consensi e lo indusse, forse, a sperare un
miglioramento della sua situazione economica e sociale (ciò potrebbe essere all'origine della sua
rottura col cardinale Ippolito, per cui si veda sopra) e poi consolidata attraverso i successivi
rifacimenti del poema e la rappresentazione delle commedie, inferiori sul piano artistico ma molto
apprezzate dal pubblico rinascimentale. Dopo la morte il successo del Furioso fu tale da oscurare
del tutto l'Innamorato del Boiardo cui pure si era ispirato e da imporre la soluzione della lingua
proposta da Bembo nelle Prose, che Ariosto aveva di fatto applicato nella riscrittura dell'opera; nel
secondo Cinquecento il poema fu il modello indiscutibile del genere epico-cavalleresco che
conobbe un grande rilancio nella letteratura italiana e solo la pubblicazione della Gerusalemme
liberata di Tasso, sia pure avvenuta in circostanze travagliate, rinnovò in parte i canoni del poema,
peraltro sulla scorta delle molte discussioni che sul poema eroico stavano nascendo specie negli
ambienti vicini all'aristotelismo (► OPERA: Gerusalemme liberata). Nacquero di qui, tra la fine
del XVI e l'inizio del XVII sec., ulteriori polemiche e diatribe tra gli intellettuali su quale fosse il
modello migliore di poema cui rifarsi e molti si divisero nella preferenza da accordare ad Ariosto o
Tasso: la querelle fu iniziata, ancora vivente il Tasso, dal poeta Camillo Pellegrino che in un trattato
del 1584 accusava Ariosto di aver tradito i principi dell'aristotelismo, cui risposero Leonardo
Salviati e altri intellettuali dell'Accademia della Crusca difendendo il poeta emiliano soprattutto sul
piano linguistico e stilistico; alla discussione prese poi parte anche lo scienziato e scrittore Galileo
Galilei, che nelle sue Postille all'Orlando Furioso e le Considerazioni al Tasso si schierò
decisamente a favore di Ariosto, dimostrando una conoscenza delle opere tutt'altro che superficiale
(Galilei fu anche appassionato cultore di Dante, per inciso). In età barocca il genere epico andò
perdendo di interesse e finì per scomparire quasi del tutto, portando con sé le polemiche letterarie
del secolo precedente, mentre anche il culto ariostesco iniziò un lento declino per poi riaffiorare in
pieno Ottocento, quando critici e studiosi tornarono a occuparsi dell'opera dell'autore con maggiore
coscienza critica e alla luce di nuove scoperte (come quella del ricco epistolario, per cui si veda
sopra). Nel XX sec. hanno dedicato importanti studi su Ariosto critici letterari del peso
di Benedetto Croce, che ha evidenziato soprattutto nella sua poesia gli elementi del distacco
ironico e della ricerca dell'armonia, mentre in anni più recenti vi sono stati i contributi soprattutto di
Lanfranco Caretti e Cesare Segre. Da ricordare, infine, che il grande romanziere Italo Calvino ha
dedicato al poema una sua personale riscrittura in prosa, intitolata Orlando furioso di Ludovico
Ariosto raccontato da Italo Calvino (edita nel 1970) che ebbe grandi apprezzamenti e fu anche
usata nelle scuole per avvicinare gli studenti più giovani all'opera del grande poeta del Cinquecento
(► OPERA: Orlando furioso).

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