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SVNAS 8th Edition Annotated Solutions Chapter 2
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e Mattia imperatore conferiva la nobiltà all’arlecchino Cecchino, prova
che del successo di que’ componimenti gran parte era dovuta alla
gesticolazione [149].
Appunto per ciò commedie che tanto divertivano recitate, or pajono
esangui e grossolane; in tutte il ridicolo solletica i sensi, anzichè eccitare
l’intelletto con que’ motti arguti che sono altrettanti giudizj. L’oscenità
non vi è solo condimento, come in Aristofane, ma il fondo, raffinata,
senza vergogna; nè sfoggiata solo da cortigiane, ma da figliuole e mogli.
Quell’arbitraria giocosità di personaggi di convenzione troppo palesa il
proposito di eccitare il riso; un riso tutto di sensi e di fantasia, non di
ragione, non fondato su pittura evidente della vita, su opposizione di
caratteri e di sentimenti: pare che evitino a studio le situazioni patetiche,
condotte dal soggetto proprio; all’azione preferiscono il racconto;
tolgono effetto alla satira collo sparpagliarla ed esagerarla; barcollanti fra
la noja e la lascivia, non ti offrono una scena, una situazione, un carattere
imitabile, o che diano traccia de’ costumi d’allora. Ci presentano uomini
disoccupati, non un atto di cuore, un nobile tratto, una parola che
annunzi o desti un pensiero. I nostri cataloghi ne contano fino 6000, e
nessuna buona, nessuna caratteristica. Eppure erano quel che l’Europa
possede di meglio, largamente vi attinsero i maggiori comici forestieri, e
più felicemente il Molière [150].
Ma il teatro nostro rimase troppo discosto e dalla originalità spagnuola,
che, propostosi un fine, un sentimento, un fatto, lo svolge sotto tutti gli
aspetti possibili, qualunque sia il mezzo adoperato; e dalla regolarità
francese, che dà ragione d’ogni passo, arruffa la matassa pel solo piacere
di ravviarla; e dalla grandezza inglese, che presenta l’uomo coll’intimità
delle virtù e de’ vizj suoi.
Miglior vanto trae l’Italia dalla musica: questa espressione dell’ordine
nel tempo emulò i trionfi della scultura e della pittura, espressioni
dell’ordine nello spazio. Al par di esse fu educata nel tempio; ma il
sentimento musicale era proprio anche del popolo, e il popolo inventò le
intonate, le ballate, le maggiolate, i canti carnascialeschi e altre
melodie, delle quali non sarebbe facile indovinare la natura; giacchè quel
che ce ne rimane è lavorato in contrappunto. In questo seguivansi le
regole stesse della musica sacra, ma con maggior libertà, il che recò a
miglioramenti che dalla sacra vennero poi adottati.
Nel 1274 il Marchetti di Padova, nel Lucidarium artis musicæ e nella
Musica mensurabilis, pel primo parlò di diesis accidentale, del
contrappunto cromatico, della preparazione e risoluzione degli accordi
dissonanti, delle armoniche e del temperamento; col che diede lo sfratto
agli errori più grossolani. Anche dopo Guido d’Arezzo restavano
imperfettissime le note, segnando bensì i gradi dell’intonazione, ma non
le differenze di durata; finchè da Giovanni Muris parigino, che notò
diversamente le massime, lunghe, brevi, semibrevi, minime, può dirsi
cominciasse l’armonia moderna. Anche la dissonanza s’introdusse, ma
timidamente e quasi ritardo d’una consonanza: nelle armonie del
secolo si trovano accordi di quarta e quinta, terza e settima, e fin di terza
e nona: sbocciò di poi il contrappunto doppio, che divenne armonia a
quattro parti, dopo che gl’intervalli del contrappunto furono condensati
in accordi.
Migliori andamenti pigliò la musica nel secolo . Franchino Gaffurio,
lodigiano, maestro di cappella a Milano, procuratosi copie e traduzione
dei trattati di musica antica, si perdè in ricerche sulla tonalità antica, che
più non era in relazione coi bisogni del tempo: ma riportò fama colla
Pratica musicæ in quattro libri [151], ove tratta dei principj e della
costituzione dei toni nel canto fermo, con varie intonazioni giusta il rito
ambrosiano; poi del contrappunto, della proporzione delle note e dei
tempi.
I Fiamminghi erano considerati maestri e chiamati anche in Italia, dove
in singolar pregio aveansi i madrigali francesi. Di Spagnuoli
principalmente fornivasi la cappella papale; e Bartolomeo Ramos Pereira
di Salamanca, chiamato da Nicola V a professar musica nell’università di
Bologna, mostrò l’insufficienza del sistema di Guido d’Arezzo, e
propose un temperamento che, quantunque combattuto dal Gaffurio e da
altri, venne adottato. Esso Gaffurio e i fiamminghi Bernardo Hycart,
Giovanni Tintore, Guglielmo Guarnerio, chiamati da re Ferdinando, a
Napoli fondarono un’accademia, donde uscirono i migliori maestri.
Il Gaffurio già adoprava la massima, la lunga, la breve, la semibreve, la
minima; al principio del secolo , si trovano la nera, la croma e la
biscroma; Enrico Isacco, verso il 1475, notava a Firenze i canti
carnascialeschi di otto, dodici e fin quindici voci. Il suono e il canto
furono vera passione di quei tempi: per sentire Antonio degli Organi
fiorentino organista venivasi fin d’Inghilterra e dal Settentrione [152];
Leonardo da Vinci fu chiamato alla Corte milanese per sonare:
Benvenuto Cellini si gloria della sua abilità al liuto, quanto del bulino;
principi e re vi si esercitavano.
Girolamo Mei trattò della musica antica e moderna e dei modi: ma molte
opere d’antichi si ignoravano, altre mal interpretavansi. Giuseppe Zarlino
da Chioggia, per le istituzioni e le dimostrazioni armoniche è considerato
ristoratore della musica. Vincenzo Galilei, padre di Galileo, nel Fronimo
ed altri dialoghi sulla musica, ha erudizione copiosa e buone riflessioni;
ed essendone nata controversia fra don Nicolò da Vicenza e Vincenzo
Lusitania, tutti i dotti vi presero parte, e se ne disputò nella cappella
papale. Il primo sosteneva, la musica greca non essere che una
confusione dei nostri generi cromatico, diatonico ed enarmonico; l’altro,
non comprendere che il diatonico, e riportò la palma.
I cori e intermezzi delle commedie e tragedie erano madrigali a più voci:
la compagnia dei Rozzi a Siena ne inframmettea spesso alle sue
rappresentazioni, cantati da un personaggio che chiamavano l’Orfeo: ai
Filarmonici di Verona, istituiti da Alberto Lavezzola pel miglioramento
della musica, era imposto a certi tempi d’uscire colla lira in mano
divertendo la città.
Forse nell’Orfeo del Poliziano, che fu rappresentato in Mantova, i cori si
cantavano, recitavasi il resto. Molti drammi pastorali gli vennero dietro,
innovazione condannata dai puristi; e tali furono l’Aretusa d’Alberto
Lollio, lo Sfortunato di Agostino Argenti con note di Alfonso della
Viola, che forse fu il primo ad unire il canto alla declamazione [153].
Al Sagrifizio di Agostino Beccari, rappresentato a Ferrara il 1554 a spese
degli studenti, assisteva Torquato Tasso, e dagli applausi dati all’autore
incitato ad emularlo, compose l’Aminta, che poi fu esposta nel 73 e
superò tutti. Ivi i fiori poetici sono profusi; e l’uniforme lindura, e quel
parlare tutti con altrettanta forbitezza, perfino il satiro, tempera agli
amatori del vero l’ammirazione, che nei cercatori del bello suscita quella
lambiccatissima composizione.
Pensò emularlo Giambattista Guarini, il cui Pastor fido fu recitato a
Torino nell’85. L’arte, suprema nella drammatica, di tener in susta la
curiosità e connettere le scene gli è ignota; in seimila versi stempera
l’azione, ritardata da dialoghi lenti, da riflessioni vane, da luoghi
comuni; pure il frequente calore, il tutt’insieme della favola (tratta
dall’avventura di Coreso e Calliroe di Pausania), la padronanza dello
stile, la pietosa dipintura dell’amore, il rendono pregevole. Ma porlo a
petto dell’Aminta è ingiustizia, giacchè ai difetti medesimi, alla maggior
raffinatezza nei pastori tramutati in personaggi di anticamera, alle
arguzie più lambiccate, unisce l’evidente imitazione di Torquato, il quale
a ragione diceva: — E’ non sarebbe giunto a tanto se non avesse veduto
me».
Nel bisogno universale di scrivere e di cantare, uno stormo di poeti si
applicò anche a questo genere; e al fine del Seicento già si numeravano
dugento drammi pastorali.
Il canto era sempre serbato a solo alcuna parte lirica; ma avendo qualche
erudito opinato che gli antichi cantassero i drammi, si volle imitarli. Il
cavaliere Giovan Bardi de’ conti del Vernio, presso cui conveniva il
meglio di Firenze, per le nozze di Ferdinando Medici con Cristina di
Lorena nel 1589 fece rappresentare in sua casa il combattimento
d’Apollo col serpente. Di poi con magnifico apparato don Grazia di
Toledo, vicerè di Napoli, la pastorale del Tansillo; e così l’Aminta del
Tasso con intermezzi del gesuita Marotta.
Ma nella pratica la musica restava ingombrata e bizzarra, disattenta delle
parole a tal punto, che si cantò il primo capitolo di san Matteo con quei
nomi sì poco armonici. Anzi lavoravasi un canto, poi vi si accomodava
sotto la prosa. Vincenzo Galilei si oppose a tal guasto, e trovò un nuovo
modo di melodie ad una voce sola, puntando l’Ugolino di Dante, poi i
Treni di Geremia. Giulio Caccini, nella brigata del Bardi suddetto, tolse a
perfezionare quest’invenzione del Galilei, massime coll’applicare
l’armonia a parole passionate. E poichè quelle dei classici mal
s’addicevano alla musica, e i madrigali bilicavansi s’un pensiero arguto,
poco opportuno alla passione, si chiesero strofe apposta, e don Angelo
Grillo fece i Pietosi affetti, altre esso conte del Vernio. Essendosi questo
mutato a Roma, l’adunanza si trasferì in casa di Jacopo Corsi; il quale,
col Caccini e con Ottavio Rinuccini, pensò accomodare la musica alle
parole, credendo avere scoperto il vero recitativo degli antichi. La Dafne
del Rinuccini vi fu rappresentata con note di esso Caccini e di Jacopo
Peri; e meglio riuscì l’Euridice, esposta in occasione che Enrico IV
sposava Maria Medici, e puntata dal Corsi, dal Peri e dal Caccini [154].
Così Firenze, che sembra dal cielo privilegiata a tutte le iniziative, vide
prima accoppiato nell’opera la scelta della favola, la squisitezza della
poesia, l’espressione della musica, l’illusione delle scene.
Altri drammi furono poi rappresentati, massime l’Arianna del Rinuccini,
con scene magnificamente preparate, e con musica del Monteverde,
musica scarsa di note, poco variata, e che ben non distingue il tempo, ma
di mirabile semplicità, e rispettosa ai diritti della parola. Quantunque il
recitativo del Peri e quello del romano Emilio del Cavaliere nella
Rappresentazione di anima e di corpo, fossero poco meglio d’una
declamazione notata, pure, veduta la necessità di porre sui versi
un’accentuazione, e perfezionandosi la frase poetica, ne uscì la vera frase
melodica, poi quella del periodo che ne è lo sviluppo.
Gli strumenti si erano perfezionati. Alcuno attribuisce ai Crociati l’aver
portato il violino dall’India: ma in un bassorilievo della porta maggiore
di San Michele a Pavia, che, se non longobardo, è di poco posteriore al
Mille, una rozza figura suona questo stromento; in un manoscritto
dell’ secolo trovasi pure uno stromento ad archetto, foggiato come un
mandolino ad una corda sola. La rebeca era usata dai menestrelli. La
viola portava sette corde, col manico a tasti divisi per semitoni come la
ghitarra, e se n’aveano infinite varietà, viola di gamba, di braccio, di
bordone con quarantaquattro corde, d’amore con dodici, di cui sei sopra
un cavalletto alto, sei sovra uno basso sovrapposto. Generalissimo era il
liuto, e sue varietà la pandora, la mandòla, il mandolino, con corde
d’ottone e doppie, il colascione, il pantalone, il salterio, il timpano.
Nicolò Vicentini inventò un archicembalo, Francesco Nigetti il cembalo
onnicordo, Bernhard l’organo a pedali. Il clavicembalo fu poi
perfezionato, nel secolo scorso, da Giovanni Sebestiano Bach in
Germania, in Italia da Domenico Scarlatti, in Francia da Francesco
Couperin; destinato poi, come la spinetta, a soccombere ai pianoforti, de’
quali il primo fu fabbricato da Silbermann, organista sassone. Eccellenti
liuti fabbricavansi a Cremona, massime dagli Amati. Il violino alla
francese divenne comune, e se ne valsero i compositori ne’ primi saggi
drammatici. Il canonico Afranio dei conti d’Albonese in Lomellina,
ch’era ai servigi del cardinale Ippolito d’Este, ci è dato per l’inventore o
perfezionatore del fagotto, che portò a ventidue voci [155].
Invece però di quell’unità che noi diciamo orchestra, gli stromenti ne
costituivano diverse parziali, ciascuno riservato ad accompagnare un tal
personaggio o un tal coro. Nell’Orfeo del Monteverde rappresentato il
1607, due gravicembali sonavano i ritornelli e gli accompagnamenti del
prologo cantati dalla musica; dieci soprani di viola facevano i ritornelli al
recitativo d’Euridice; Orfeo accompagnavano due contrabassi di viola;
l’arpa doppia, un coro di ninfe; due violini francesi a quattro corde, la
Speranza; due ghitarre, Caronte; due organi di legno, il coro degli spiriti
infernali; con tre bassi di viola cantava Prosperina, con quattro tromboni
Plutone, coll’organo di regale Apollo, il coro finale di pastori era
sostenuto dallo zufolo, dai corni, dalla chiarina e da tre trombette a
sordina.
I ritornelli, conosciuti importanti a preparar lo spirito degli uditori,
vennero perfezionati ed allungati; indi si fece preceder l’opera da una
sinfonia: talchè la musica, subordinata fin allora al canto e al ballo,
giungeva a vita indipendente, facendosi puramente istromentale.
Si moltiplicarono le scuole musicali. In Napoli furono istituite quella di
Santa Maria di Loreto nel 1537, della Pietà dei turchini e di Sant’Onofrio
nell’83, de’ Poveri di Gesù Cristo nell’89: e in quella città si cominciò la
musica popolare a più voci, consistente in melodie, dette arie, villotte,
villanelle o simili: Denticio al 1554 descrive un concerto nel palazzo di
Giovanna d’Aragona, dove le voci erano accompagnate da orchestra, e
ciascuna cantava su diverso stromento. Dalla scuola veneta, fondata da
Adriano Willaerst di Bruges, uscirono Giovanni Gabriel e Costanzo
Porta, capo della Lombarda. A Milano nel 1560 Giuseppe Caimo
componeva madrigali; ballate Giacomo Castoldi da Caravaggio, e
Giuseppe Biffi: e famoso organista vi fu Paolo Cima. Potremmo
aggiungere il Festa, pieno di grazia, di ritmo, di facilità; il Corteccia,
maestro di cappella di Cosmo granduca; altri ed altri.
Nell’opera si predilesse il meraviglioso, come quello che si presta a
maggiori situazioni e a sfoggiate decorazioni, e rendea men deformi le
inverosimiglianze. La prima buffa che si conosca è l’Amfiparnaso,
musica e parole del modenese Orazio Vecchi, dedicata a don Alessandro
d’Este il 1597; dove le maschere parlavano ciascuna il proprio dialetto,
con musica bizzarra quanto il soggetto. San Filippo Neri introdusse gli
oratorj, che tentavano ritornare alla musica di teatro quell’alito religioso,
che avea rinnegato.
CAPITOLO CXLIII.
Indole di quella letteratura. I mecenati. Gli artisti.