Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
STEFANO JOSSA
PETRARCHISMO E ANTIPETRARCHISMO.
UN SONETTO INEDITO DI MARCO ANTONIO MAGNO AL BREVIO
1. Il testo
Nel ms. 843 del Seminario Patriarcale di Venezia alle cc. 54v-55r si legge un so-
netto Di M. Marcantonio Magno al Brevio:
Un baciar furioso, un dispogliarsi,
Un esser nuda, un dirmi, hai fatto in fretta,
Un cavalcar di sopra a la gianetta,
Un pigliarlo a due mani, ed infilzarsi;
Un volger d’occhi, e tutta rimenarsi,
Con una mano aperta, et una stretta,
Un macinar a tempo, un dirmi, aspetta,
Un correr vario, et alfin incontrarsi;
Un nominarmi, aimè traditoraccio,
Un parlar ansioso, e tutta caldo,
Vibrar la lingua, come i serpi fanno;
Un esser stanca, un dir, or fa ch’io faccio,
Un farmi far duo chiodi in una calda,
Son le catene che legato m’hanno.
2. L’autore
L’autore, Marcantonio Magno (1480 circa-1549), fu tra i protagonisti della vita cultu-
rale veneziana e napoletana nel primo Cinquecento. 1 Nato a Venezia, fu bandito dalla
città nel 1502 insieme ad Andrea Superanzio, Antonio Donato, Antonio Contareno e
Manolo Coressi, «pro plurimis et diversis violentiis et aliis excessibus per eos commis-
sis in Insula Sancti Marci et Rivoalti et aliis locis hujus civitatis contra honorem divine
majestatis et ejus gloriosissime virginis matris et contra quietum et bonum statum ci-
vitatis ac dignitatem dominii nostri». Si rifugiò a Napoli sotto la protezione dei Carafa,
con i quali si trasferì in seguito nel feudo di Santa Severina, in Calabria.
Fu riammesso a Venezia nel 1526, grazie all’intercessione di Carlo V e di Andrea
Carafa, ma dopo aver ringraziato il Senato con «una eloquentissima Orazione in
ringraziamento imitando quella di Tullio quando ritornò in patria» rientrò a Napoli, dove
1 Su di lui cfr. CICOGNA 1824-1853: V 232-238 (da qui provengono le successive cita-
zioni). Si può vedere anche GHIRLANDA 2006 (a p. 496 la prima colonna è dedicata a
Marcantonio, padre di Celio).
197
STEFANO JOSSA
partecipò alla guerra del 1528 contro i francesi. Sposatosi a Santa Severina in quegli
anni, ebbe quattro figli, Pompeo, Celio, Alessandro e Giulia. Nel corso degli anni
Trenta il Magno strinse amicizia con Giulia Gonzaga, cui dedicherà la traduzione
dell’Alfabeto cristiano di Valdès (Venezia, Nicolò de Bascarini, 1545). 2 La sua attività
letteraria fu ricca e articolata, ma sotto il suo nome apparve a stampa solo un’ ora-
zione tenuta a Napoli in occasione della morte di Ferdinando il Cattolico nel marzo
del 1516, pubblicata da Sigismondo Mayr con una dedica ad Andrea Carafa conte
di Santa Severina. 3 Suoi testi compaiono però nell’epistolario di Giano Teseo Caso-
pero (Venezia, Vitali, 1535), 4 nel Vocabolario del Luna (Napoli, Sultzbach, 1536), 5
nel Dioscoride volgarizzato da Pierandrea Mattioli (Venezia, Nicolò de Bascarini,
1544), 6 nella Fabbrica del mondo di Francesco Alunno (Venezia, Nicolò de Bascarini,
1546) 7 e nella raccolta di componimenti in morte di Pietro Bembo (s. i. t., ma suc-
cessiva al 18 gennaio 1547). 8 Nell’antologia di epitaffi stampata ad Anversa da Pie-
randrea Canonerio (o Canoniero) nel 1627 compaiono due distici in morte del car-
dinal Carafa. 9 Manoscritti si conservano I sette libri sibillini (Venezia, Biblioteca Na-
zionale Marciana, Mss. it., cl. IX, 231 [=6889]), in terza rima, un’Oratio de Spiritu San-
cto (ibid., mss. lat., cl. XI, 85 [=4194]), vari Carmina (ibid., mss. lat., cl. IX, 172; cl. XII,
176; cl. XIV, 243), e il sonetto qui riportato. Secondo la tradizione, infine, il Magno
fu revisore del Furioso 10 e corrispondente dell’Aretino. 11
2 Cfr. DE VALDES 1938 (in partic. le pp. XXIV-XXVI dell’Introduzione di Croce), DE VAL-
DÉS 1998 (in partic. le pp. 14-16 dell’Introduzione di Prosperi) e DE VALDÉS 1994 (in partic. le
pp. CLI-CLX della Nota al testo di Firpo). Dello stesso Firpo andrà visto, infine, Marcantonio Ma-
gno e l’«Alfabeto cristiano» di Juan de Valdés, in Storia sociale e politica 2006: 151-166.
3 Cfr. Marci Antonii Magni Oratio habita Neapoli in funere Ferdinandi Hispaniarum regis catholici
calendis martii MDXVI, Napoli, Sigismondo Mayr, 1516. La notizia proviene da CICOGNA
1824-1853: V 234.
4 Cfr. Iani Thesei Casoperi Epistolarum libri duo, Venezia, Vitali, 1535. A p. 21v si trova una
lettera del Magno al Casopero «di Santa Severina XVIII Cal. sept. 1531» (cfr. CICOGNA 1824-
1853: V 234).
5 Cfr. Fabrizio Luna, Vocabulario di cinquemila vocabuli toschi, Napoli, Sultzbach, 1536. Alla
fine della lettera Q compare un’ottava del Magno: Charon, Charon? ch’è st’importun che grida (cfr.
CICOGNA 1824-1853: V 234).
6 Cfr. Di Pedacio Dioscoride Anazarbeo libri cinque della historia, & materia medicinale tradotti in lin-
gua volgare italiana da M. Pietro Andrea Matthiolo Sanese medico, Venezia, Nicolò Bascarini, 1544.
Alla fine dell’opera si trova un sonetto elogiativo del Magno (cfr. CICOGNA 1824-1853: V 235).
7 Cfr. Della fabrica del mondo di m. Francesco Alunno da Ferrara libri dieci, Venezia, Nicolò Ba-
scarini, 1546. Dopo la dedica compaiono una lettera e un sonetto del Magno (cfr. CICOGNA
1824-1853: V 235).
8 Cfr. Epigrammi latini, et sonetti volgari, et altre compositioni, di diversi autori raccolte insieme. Fatte
sopra la morte del cardinale Bembo, s. i. t. Nell’ultima carta compare un distico del Magno (cfr. CI-
COGNA 1824-1853: V 235).
9 Cfr. Flores illustrium epitaphiorum ex praeclarissimarum totius Europae civitatum et praestantissimo-
rum poetarum monumentis excerpti per Petrum Andream Canonherium, Antverpiae, ex officina Hie-
ronymi Verdussii, 1627 (cfr. CICOGNA 1824-1853: V 235).
10 Cfr. Orazio Toscanella, Bellezze del Furioso, Venezia, Franceschi, 1574, pp. 324 e 326
nell’epistolario di Antonio Minturno, che nell’aprile del 1540 gli indirizza una lettera in cui
rievoca il comune servizio alla corte di Galeotto Carafa (cfr. MINTURNO 1549: V 5).
198
UN SONETTO INEDITO DI MARCO ANTONIO MAGNO AL BREVIO
3. Il destinatario
La prima cosa sorprendente, di fronte a un testo del genere, è constatare che il desti-
natario del sonetto è un prete. 12 Giovanni Brevio è un sacerdote, amico dell’Aretino,
autore di un canzoniere di stretta osservanza petrarchesca (Rime e prose volgari, Roma,
Blado, 1545). S’incontra subito un apparente ossimoro: amico dell’Aretino e seguace
di Petrarca, trasgressivo e classicista. Come si spiega questa contraddizione? Bisogne-
rà allora rivedere alcune delle categorie con cui siamo abituati a leggere la cultura cin-
quecentesca: l’opposizione tra Aretino e Petrarca potrebbe non funzionare più, così
come non funziona più l’opposizione tra classicismo e anticlassicismo.
4. Il contesto
Il sonetto del Magno è senza dubbio «di argomento indecente», come diceva il Cico-
gna. Sia il testo del sonetto sia la biografia dell’autore spingono del resto verso una
collocazione sul versante della ‘trasgressione’, visto che il carattere decisamente anti-
petrarchesco del componimento fa pendant con l’inquieta esperienza religiosa del
Magno. Il sonetto andrebbe collocato, perciò, sul versante della ‘natura’ in opposi-
zione a quello dell’‘arte’, secondo uno schema collaudato di lettura della tradizione
poetica cinquecentesca: da un lato i poeti della trasgressione, del realismo, del corpo
e del sesso, dall’altro i poeti dell’ordine, del classicismo, della censura e dell’idealizza-
zione. Lo schema, proposto da Arturo Graf nel suo fondamentale saggio su Petrar-
chismo e antipetrarchismo, scritto con l’intento di rivalutare una tradizione fino ad allora
negletta, è ancora oggi una delle linee-guida dominanti della presentazione manuali-
stica della cultura cinquecentesca: al petrarchismo, «malattia cronica della letteratura
italiana», si contrappone «una forza grande, piena di uno spirito vigoroso». 13
Si tratta, però, di un sonetto nient’affatto spontaneo, né realistico. Il sonetto
gioca invece con la tradizione letteraria, collocandosi all’interno di una costella-
zione di riferimenti colti. Il modello parodiato è senza dubbio Petrarca, Canzonie-
re CCXXIV:
S’una fede amorosa, un cor non finto,
un languir dolce, un desiar cortese,
s’oneste voglie in gentil foco accese,
un lungo error in cieco laberinto;
se ne la fronte ogni pensier depinto,
od in voci interrotte a pena intese,
or da paura, or da vergogna offese;
s’un pallor di viola et d’amor tinto;
s’aver altrui più caro che se stesso;
se sospirare et lagrimar maisempre,
pascendosi di duol, d’ira et d’affanno;
s’arder da lunge et agghiacciar da presso
son le cagion’ ch’amando i’ mi distempre,
vostro, donna, ’l peccato, et mio fia ’l danno. 14
199
STEFANO JOSSA
L’anafora di «un», le rime -ese ed -esso, la conclusione con «son le cagion che»
smascherano anche qui chiaramente l’avantesto.
Seguiva il modello petrarchesco anche Gaspara Stampa nel sonetto Un veder
tôrsi a poco a poco il core:
Un veder tôrsi a poco a poco il core,
misera, e non dolersi de l’offesa;
un veder chiaro la sua fiamma accesa
negli altrui lumi e non fuggir l’ardore;
un cercar volontario d’uscir fore
de la sua libertà poco anzi resa;
un aver sempre a l’altrui voglia intesa
l’alma vaga e ministra al suo dolore;
un parer tutto grazia e leggiadria
ciò che si vede in un aspetto umano,
se parli o taccia, o se si mova o stia,
son le cagion ch’io temo non pian piano
cada nel mar del pianto, ov’era pria,
la vita mia; e prego Dio che ’nvano. 16
L’anafora di «un» e le rime in -esa (con la proposta delle parole rima offesa :
accesa : intesa) sono tutti segnali che rimandano al sonetto CCXXIV del Canzoniere
15 Si cita da Poeti del Cinquecento 2001: 804-805. L’ultima terzina presenta una variante:
«un morbo, un puzzo, un cesso, / un toglier a pigion ogni palazzo / son le cagioni ch’io
mi meni il cazzo» (così, ad esempio, nelle edizioni a cura di Danilo Romei [BERNI 1985:
30] e di Giorgio Bàrberi Squarotti [BERNI 1991: 43]; cfr. BERNI 1934: 37-38).
16 Si cita da Lirici 1957: 154.
200
UN SONETTO INEDITO DI MARCO ANTONIO MAGNO AL BREVIO
petrarchesco, che viene sia confermato (la ripresa) sia parodiato (la variazione),
come in ogni operazione di riscrittura classicista che si rispetti.
L’operazione della Stampa è però più complicata: oltre a essere una riscrit-
tura di Petrarca, il sonetto Un veder tôrsi a poco a poco il core è una risposta a Berni.
Sarebbe facile dire, col ricorso a schemi rassicuranti, che la Stampa conferma Pe-
trarca e rifiuta Berni; va riconosciuto, tuttavia, che il suo sonetto gioca, lettera-
riamente, col sonetto di Berni, di cui è esplicitamente una parodia. Si tratta allora
di una parodia al quadrato, come ha spiegato di recente Giorgio Forni: la Stam-
pa non rompe col petrarchismo, come voleva Croce, ma lo risemantizza, rifiu-
tando tanto l’imitazione quanto la parodia. 17 Torna a Petrarca contro Berni, ma
lo fa, al tempo stesso, insieme a Berni: paròdia, cioè, in simultanea, tanto Berni
quanto Petrarca.
Prima di tornare al Magno bisogna leggere un altro sonetto. È il numero VI del-
le Rime di Pietro Bembo («non posteriore», secondo Dionisotti, «ai primi del ’500»):
Moderati desiri, immenso ardore,
speme, voce, color cangiati spesso,
veder, ove si miri, un volto impresso,
e viver pur del cibo, onde si more,
mostrar a duo begli occhi aperto il core,
far de le voglie altrui legge a se stesso,
con la lingua e lo stil lunge e da presso
gir procacciando a la sua donna onore,
sdegni di vetro, adamantina fede,
sofferenza lo schermo e di pensieri
alti lo stral e ’l segno opra divina,
e meritar e non chieder mercede,
fanno ’l mio stato, e son cagion ch’io speri
grazie, ch’a pochi il ciel largo destina. 18
Il sonetto di Bembo sta alla base di tutta la tradizione che abbiamo fin qui
ricostruito. Senza di esso, anzi, quella tradizione non è comprensibile. Il primo
motivo è il nesso col sonetto CCXXIV del Canzoniere: benché il sonetto sia un in-
tarsio di temi motivi e stilemi petrarcheschi, tutti puntualmente rilevati dai
commentatori, questo nesso non è stato finora sottolineato. Eppure l’elenco dei
sintomi del sentimento d’amore, la rima in -esso e la conclusione con «son cagion
ch’» scoprono chiaramente l’avantesto petrarchesco.
Il sonetto va letto insieme al precedente, il n. V Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e
pura, cui è accomunato dalla chiusa, che è una citazione di un capoverso famoso del
Petrarca (Canzoniere, CCXIII): essi vengono a costituire, come dice sempre Dionisot-
ti, «il dittico del perfetto amore, cortese e platonico, a mezza via fra il II e il III libro
17 Cfr. FORNI 2006, dove, in polemica col ritratto crociano della Stampa come di co-
201
STEFANO JOSSA
degli Asolani». Del sonetto Crin d’oro crespo del Bembo Berni aveva offerto una paro-
dia con il sonetto Chiome d’argento fino, irte e attorte. 19
Il sonetto «delle puttane» di Berni va allora letto come parodia non solo di Pe-
trarca, ma anche di Moderati desiri, immenso ardore; il sonetto della Stampa come paro-
dia di Berni e ritorno a Petrarca (con le modalità che abbiamo visto), ma anche co-
me professione (parodica) di bembismo contro Berni. In questa prospettiva la pa-
rodia si configura, insieme, come recupero e trasgressione, ritorno alla norma e ri-
cerca di stile: all’insegna del conflitto e della contraddizione, che sembrano, oggi, le
categorie più utili per interpretare la cultura del Classicismo al di fuori di schemi fa-
cili e rassicuranti. La Stampa torna a Bembo, infatti, ma lo fa esibendo una conno-
tazione sul versante del “più petrarchesco” rispetto a Bembo, l’anafora di «un». Ri-
conosciuto ciò, non sarà difficile il passo successivo: nel momento stesso in cui pa-
rodia Berni, la Stampa gli conferisce una leggibilità (che è una legittimazione) sul
versante del “più petrarchesco” rispetto a Bembo. Ciò significa che il gioco della
parodia cinquecentesca non può più essere letto alla luce dell’opposizione tra pe-
trarchisti e antipetrarchisti: parodiando Bembo, Berni si proponeva, paradossalmen-
te, sul piano retorico (almeno per un carattere, ma di quelli connotanti) come “più
petrarchesco”.
Ci troviamo di fronte, dunque, a un vero e proprio gioco intertestuale, in cui la
ripresa conta persino di più del capovolgimento o della conferma. Ciò che importa,
infatti, è inscriversi in una tradizione, conoscerne i meccanismi, partecipare a un
gioco di gruppo. Parodiando Petrarca, Berni parodia in realtà Bembo; parodiando
Berni, la Stampa fornisce una parodia al quadrato. Con l’aggiunta di un paradosso:
recuperando l’anafora di «un», essi finiscono col collocarsi nell’ambito di un “più
petrarchista” rispetto a Bembo. In tal modo la Stampa, Berni e Magno finiscono su
un versante “più ortodosso” di Bembo rispetto al modello petrarchesco, dato che,
sul piano retorico, il massimo della trasgressione si dovrà proprio a Bembo, anziché
a Berni o al Magno.
Come Berni, la Stampa recupera direttamente da Petrarca (nonostante, quasi con-
tro, Bembo) l’anafora introdotta da «un». Anche qui ci troviamo di fronte, quindi, a
un “più petrarchesco” rispetto a Bembo: col paradosso, però, che l’operazione della
Stampa finisce col legittimare idealmente la collocazione di Berni sul versante del pe-
trarchismo anziché dell’antipetrarchismo, in quanto “più petrarchesco” di Bembo.
Con le riscritture del sonetto S’una fede amorosa, un cor non finto ci troviamo dun-
que di fronte a quel fenomeno di riuso dei materiali petrarcheschi che, nel corso del
tempo, porta al progressivo affrancamento da Petrarca, nel nome di una retorica
che è essa sola, al di là di qualsiasi modello, legge compositiva della poesia lirica. Ci
troviamo nell’ambito, così, di quella distinzione tra imitare un modello e imitare un
metodo che verrà sancita da Antonio Minturno nella sua Arte poetica:
stimo a ciascuno esser lecito l’usare le maniere del dire di colui, il quale ha preso
ad imitare, e le parole o sien proprie, o mutate; e il prender’ ardimento di mutare
con l’essempio di lui il parlare. Conciossiacosa che percioché quegli ha tolto mol-
te cose da gli altri, molte parole anchora ha mutato, niuno altro a se stesso non
BUSCHHAUS, Satire oder Burleske? Bemerkungen zu Bernis Sonett “Un dirmi ch’io gli presti e ch’io
gli dia”, leggibile on line al sito http://gams.uni-graz.at/usb/register.htlm.
202
UN SONETTO INEDITO DI MARCO ANTONIO MAGNO AL BREVIO
conceda quel, che stimò quegli essergli permesso. Nell’altre cose, che quegli tro-
vò, quella medesima Poetica maniera io giudico, che si debba seguire, la qual’ es-
sere a lui piaciuta si vede. Terrà questa via, non chi piglierà le cose, e le parole, di
che quegli il suo Poema compose; ma chi userà la medesima ragione di trovare, e
di locare, e la medesima forma del dire. 20
5. Petrarchismo e antipetrarchismo
203
STEFANO JOSSA
sembrare una sottigliezza linguistica per svincolarsi da categorie critiche troppo legate alla
tradizione romantica e idealistica; al fondo c’è, però, un’esigenza di revisione dei para-
digmi culturali, improntata alla consapevolezza che non di antagonismo di tratta, ma di
estremismi, implosioni, eccessi, tutti interni, sempre e comunque, al sistema della retorica
bembiana e petrarchesca: cfr., per il quadro di fondo Cinquecento capriccioso 1999. Utili
spunti in questa direzione si trovano anche in BORTOT 2006, in particolare pp. 182-185.
26 ARIANI 2007: 954-955.
204
UN SONETTO INEDITO DI MARCO ANTONIO MAGNO AL BREVIO
Forse anche la tradizionale opposizione tra amore e sesso nella cultura cinque-
centesca andrà allora rivista: il discorso d’amore, in tutte le sue forme e le sue
manifestazioni, appartiene al petrarchismo. Anche quando si parla di sesso.
6. Una domanda
Resta aperta (e legittima) una domanda. Perché il sonetto del Magno non venne
pubblicato? La risposta più facile risiede nel fatto che si tratta di un sonetto «di ar-
gomento indecente». Molti sonetti «di argomento indecente» vennero però pubbli-
cati nel corso del XVI secolo. Bisognerà allora ammettere che il dato editoriale
non basta a misurare la fortuna di un testo cinquecentesco. Il sonetto del Magno
circolò, venne copiato e trasmesso, al punto da poter giungere fino a noi (in una
sola attestazione, certo, ma comunque tale da garantirne la sopravvivenza: in una
biblioteca seminariale, si badi bene). C’era a quel tempo un lavoro collettivo sulle
forme e i linguaggi, in cui spesso la prassi e la partecipazione contavano più
dell’individualità dell’autore: 28 a questo gioco, prima che i modelli si irrigidissero e
le forme diventassero legge, parteciparono in tanti, petrarchisti veri e finti, imitato-
ri e parodisti, nella consapevolezza della mobilità della scrittura e della vitalità della
parola, lasciando tracce che in genere non sono più visibili, ma che a volte riaffio-
rano, come un sostrato più profondo, depositi della storia prima dei cataclismi che
generano rovine, dai testi divenuti poi classici. Forse, senza il sonetto di Magno, i
sonetti di Bembo, Berni e la Stampa perderebbero qualcosa.
205
STEFANO JOSSA
206