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Medio Evo barbarico e Cinquecento italiano

Author(s): Carlo Dionisotti


Source: Lettere Italiane , OTTOBRE-DICEMBRE 1972, Vol. 24, No. 4 (OTTOBRE-DICEMBRE
1972), pp. 421-430
Published by: Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.

Stable URL: https://www.jstor.org/stable/26252082

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Medio Evo barbarico
e Cinquecento italiano

La polemica
compiantosul Medioe amico,
maestro Evo, anche
Giorgionel libro
Falco, ha leche così s'intitola
sue premesse nello di un
sforzo che a metà del Quattrocento la nuova cultura umanistica italiana
fece per rendersi conto di come fosse andata per secoli perduta quella
civiltà classica che ultimamente, dopo lungo intervallo e in condizioni
tanto mutate, era tornata in vita e pareva aver riacquistato intero il suo
vigore.
Sul lungo intervallo, un millennio, e sul mutamento nelle condizioni
generali dell'Italia e dell'Europa dopo la dissoluzione dell'impero di Roma,
si appuntò allora lo sforzo di alcuni storici italiani, di uno in ispecie,
Biondo Flavio, che ancora un poco stenta oggi, ma assai meno che non
ieri ο ier l'altro, a ottenere il riconoscimento che gli compete, di essere
stato uno dei maggiori storici d'ogni età e di gran lunga il maggiore del
l'età sua. Non gli è mancato invece mai, né poteva mancargli, il riconosci
mento di essere stato il fondatore della storia medioevale, quale ancora
oggi da noi s'intende. Nel citato libro del Falco, dove Biondo figura nel
capitolo dedicato tutt'insieme alla storiografia italiana del Quattrocento e
del Cinquecento, salta agli occhi, a proposito di lui, il rilievo che da un
competente medioevalista, qual'era il Falco, ci si poteva attendere: « qui
si tratta proprio del nostro medioevo ».
λ Dioiiao si accompagnano, in quei capitolo dei noro aei falco, altri
storici, che nell'ordine sono, se mai di ordine si possa parlare, Bruni,
Machiavelli, Giambullari, Sigonio, Sant'Antonino, Sabellico. Il cronologico
guazzabuglio di questo elenco disturba e offende oggi noi molto più di
quanto facesse quarant'anni fa (il libro del Falco apparve nel 1933),
quando la moda della cosiddetta cronologia ideale incoraggiava a saltare
di palo in frasca, e quando, per la storiografia italiana del Rinascimento,
faceva testo il manuale del Fueter, in cui normale era e trionfale il disor
dine cronologico e logico. Resta che, fra gli storici considerati dal Falco,

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uno solo può, a distanza, fare coppia c


medioevo. Dovrebbe essere, ma forse
solo è il Sigonio, e che pertanto la dis
è anche cronologica, più di un secolo,
alla seconda metà del Cinquecento. I d
non perché ad accoppiarli sia giunto
studiosi, ma perché il secondo, nella f
storia del Regno d'Italia, onestamente
diato predecessore. Si spiega che il Sig
dell'opera di Biondo, e così mirasse a
dello stesso tema. Che però egli fac
chiaramente risuita dal giudizio negativo, senza alcuna attenuante, cne
subito segue in quella prefazione, sulla storia del Sabellico. Di altri storici
italiani il Sigonio non era tenuto a render conto: già era di troppo il
giudizio sul Sabellico, valido solo a ricordare come e quanto fosse scaduta
nei seguaci del tardo Quattrocento la ricerca proposta e perseguita
da Biondo.
Esiste dunque, nella storiografia italiana del Rinascimento, una esile
linea di ricerche sull'età medioevale, che si estende per più di un secolo,
da Biondo al Sigonio. È presumibile che si tratti di una linea continua, e
certo, come si è visto, il punto di arrivo richiama al punto di partenza.
Ma non è da credere a un pacifico sviluppo ascensionale di quella esile
linea, né alla continuità di un'industria monastica sullo sfondo tutt'altro
di eventi che scossero e rinnovarono dalle fondamenta, in quel secolo,
l'assetto dell'Italia e dell'Europa. La presumibile continuità non esclude,
anzi probabilmente comporta l'incidenza e prevalenza di altre linee di
ricerca divergenti ο addirittura opposte, e insomma, come di regola accade
in ogni processo storico, un'alterna vicenda di repulsioni e di recuperi,
di acquisti e di perdite.
Il primo capitolo, quattrocentesco, di questa vicenda non rientra nel
tema del presente discorso che, come il titolo avverte, è dedicato al Cin
quecento italiano. Bastino pochi cenni. Già si è visto che, a giudizio dello
stesso Sigonio, l'impresa di Biondo era rimasta senza seguito. Nella so
stanza, e nel particolare esempio del Sabellico, il giudizio del Sigonio
appare anche a noi oggi esatto. Ma per quanto è del Sabellico, allora e poi
i> J: 1__: I
iruppu laLUC UCIbagllU, a impune li ime vu eue ι v/pexa ut X Ut A vuxvvu
una storia universale, non, come quella di Biondo, una storia dell'età
medioevale, dalla caduta dell'impero romano innanzi. Legittimo e inop
pugnabile è il giudizio negativo su questa ο quella parte dell'opera, ma è
chiaro che dai particolari bisogna risalire all'insieme, dall'esecuzione, ine
vitabilmente compilatoria e purtroppo maldestra, al disegno e all'impianto
che di per sé fanno prova di quanto il Sabellico fosse ormai lontano da
Biondo. Già se n'era allontanato un buon tratto in quella storia di Venezia
che gli aveva dato le ali d'Icaro per tentare il volo della storia universale.

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Medio Evo barbarico e Cinquecento italiano 423

Ma nella storia di Venezia il Sabellico si era prudentemente attenuto a una


via ben segnata già, per Firenze, da Leonardo Bruni, e che ancora era
normale nella seconda metà del Quattrocento. Che anormale fosse diven
tata nel frattempo la via segnata da Biondo, si spiega. Il forlivese Biondo,
fedele quant'altri mai alla sua terra e però disposto quant'altri mai a
intendere e illustrare la disparata struttura dell'Italia, disposto anche a
fermare lo sguardo su di un particolare, eccezionale fenomeno della storia
moderna, qual'era Venezia, non si era mai dipartito da una visione gene
rale, così del presente come del passato, quale poteva aversi in quel
l'età dalla specola di Roma. Era nel presente, per un uomo cresciuto
nell'i tà conciliare, la visione di un'Italia e di un'Europa ancora sommosse
da una crisi che pareva ormai risolversi felicemente, ma che risolta non
era. L'unità della Chiesa si era ricostituita in Roma, e Biondo poteva
guardare alle reliquie dell'antica grandezza con occhi più riposati che non
fossero quelli del pellegrino Petrarca un secolo innanzi. Il rapporto fra il
presente e il passato era diventato più agevole e perciò anche più urgente.
Tnfrt'intrvrnn anrVtP α Krpvp distanza ria IRrvma t-irpvalpwa VinrprtRWci

l'animosa e smaniosa ricerca di un diverso ordine. L'aretino Bruni poteva


sposare la causa di Firenze, ma Biondo, quand'anche non fosse vissuto
più a lungo, guardando a Firenze dall'esterno, non poteva mancar di
riconoscere anche là i sintomi della generale inquietudine e incertezza.
Non stupisce che il solo degno erede di Biondo nel dominio di una storio
grafia aperta all'Italia e all'Europa, intenta alla crisi generale dell'Italia
e dell'Europa, fosse Enea Silvio Piccolomini, protagonista egli stesso, nei
panni pontificali di Pio II, dell'ultimo, sfortunato tentativo di risolvere
quella crisi nel modo, che anche a Biondo sarebbe piaciuto, richiamando
l'Italia e l'Europa insieme allo sforzo di una nuova Crociata. Al di là
di quel tentativo fallito senza riparo, a tutti s'impose, in Italia e fuori,
nella stessa Roma, una mira prudente, conchiusa per ciascuno nei limiti
del proprio particolare spazio e tempo di vita. Di fatto, in Italia e fuori,
durante la seconda metà del Quattrocento, la crisi pareva essersi risolta
nel graduale consolidamento di un sistema politico decentrato, incapace
di uno sviluppo concorde ma sufficiente alla continuità e alla relativa
indipendenza dei singoli stati.
A queste condizioni del presente non poteva corrispondere più la vi
sione che Biondo aveva attuto del passato. Corrispondeva la visione che
il Bruni aveva proposto, di una particolare tradizione, municipale ο nazio
nale, la prefigurazione e giustificazione storica del consolidamento di un
singolo stato in quel sistema che, pur essendo recente, pareva assicurato
dalla sua prudente mediocrità, e proprio perché recente e mediocre,
autorizzava l'innocua ostentazione, da parte dei singoli componenti, di
una propria, remota e autonoma tradizione. In quanto al di là delle
origini classiche queste tradizioni attraversavano l'età medioevale, la le
zione di Biondo ancora era insostituibile, ma l'impianto e la mira di storie

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municipali e nazionali si ponevano su di


mente, a torto ο a ragione, la continuità, e
origini classiche, prevalevano nella ricer
storie sulla violenta irruzione di nuove e d
che aveva affascinato Biondo. L'Italia quattr
imperiali e francesi e in cui si era ormai a
gonese, non poteva riconoscersi più ne
barbari d'oltralpe. Il concetto stesso di bar
piuttosto alla letteratura e alla scienza, a u
che non alla politica, alla geografia e alla s
J»11> 11_ ι :ì r. J~:

più ormai contava il


alle università italian
liano, la disponibilità
civiltà prodotta in I
damentale, che non t
giosa, e durava perta
vano ormai a un pas
mente era più allett
sul presente, ossia su
storiografia.
D'un tratto, sulla fine del Quattrocento, l'Italia si ritrovò corsa da
un capo all'altro e dominata da eserciti stranieri. Al primo urto il sistema
fondato sulla gelosia e sull'impotenza dei singoli stati era andato in pezzi
senza riparo. Non restava più spazio alla mediocrità, fosse pur aurea, alla
neutralità, alla scaltrezza e tolleranza, al beneficio del tempo. Neppure
alla commemorazione del passato. Il presente, che già era prevalso prima
che la crisi scoppiasse, ora incombeva e s'imponeva per opposti motivi,
per la grandiosità degli eventi che in Italia decidevano il destino del
l'Europa, per la sofferenza e aspettazione di un totale rivolgimento del
l'assetto così dell'Italia come dell'Europa. Vero è che nel corso della
crisi, nella suprema difesa di quanto ancora potesse sopravvivere della
originaria autonomia, anche le tradizioni municipali tornarono ad essere
strumenti ο titoli validi proprio per la loro antichità e continuità: onde
le Istorie fiorentine del Machiavelli e la Cronica di Mantua dell'Equicola,
per citare due esempi contemporanei, che l'assoluta disparità dei moventi
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t pi ULLUiUXVil li 1V11UV. l(U 1 · XVVJ LU VllVj W«X VXXUYXV MX VJ ui vvxux

dilli, la linea maestra della storiografia italiana durante la pri


Cinquecento fu segnata dai fatti di cui gli storici erano stati
e attori.
La vocazione storica del Guicciardini, quanto era profonda e
prepotente, tanto era segreta e subordinata sempre all'orgog
sponsabilità e all'esperienza dell'uomo politico. Non si può
della storiografia italiana di quell'età senza di lui, ma neppure

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facendo, prescindere dalla solitudine e dal riserbo che egli impose a


se stesso.

In primo piano, sulla scena di quell'età, sta il Giovio, storico di p


sione, e ci sta benissimo. La scena faceva per lui tutt'uno con la p
sione. Eccezionalmente, per opportunità ο per curiosità, s'indu
gettar ι uccnio ira te quinte aet passaiu. vucsic eiezioni moicano 1111 uuve
e in che misura egli giungesse con lo sguardo. Risulta anzitutto che
emergevano dall'ombra e contavano per lui gli uomini, non le istituz
gli eventi, le idee, i costumi. Risulta poi che gli uomini memorabil
presentavano a lui in una serie continua solo a cominciare dal Duec
non prima. Si spiega che tale apparisse a lui umanista la serie dei mo
uomini memorabili per virtù d'ingegno, filosofi, letterati e giuristi
cioè la serie si aprisse con Alberto Magno, non prima, che ad Al
dovessero tener dietro S. Tommaso e Scoto, ai tre filosofi Dante, Pet
e Boccaccio, ai tre letterati Bartolo e Baldo, e che insomma questi o
non potessero mancare e però bastassero a rappresentare due secoli
contro ai novantotto rappresentanti del Quattrocento e primo Cinq
cento. Più significativa è l'altra serie degli uomini memorabili per
politica e militare. Qui il Giovio ritenne di dover risalire all'antich
a Romolo e Numa, Artaserse, Alessandro, Pirro, Annibale e Scipione
avendo cominciato, si trovò a dover colmare in qualche modo l'inter
fra gli antichi e i moderni, e decise d'includere Attila, Totila, Nars
Carlo Magno, Goffredo di Buglione, il Saladino e Federico Barba
Ind'innanzi, con Farinata degli Uberti, celebrato dall'eterno encomi
Dante (« aeterno Dantis poetae praeconio »), il Giovio si ritrovava a
agio, e procedendo svelto attraverso il Duecento e il Trecento, p
raggiungere già nel secondo libro dell'opera sua il Quattrocento
stere su questo e sul primo Cinquecento nei cinque libri successivi.
Gli elogi ο ritratti degli uomini illustri sono opera tarda del Gio
ormai giunto al culmine della sua carriera: opera meritamente cele
ma per lui accessoria rispetto a quella cui aveva dedicato lo sforzo d
anni migliori, la storia cioè dell'età sua con le annesse biografie di
principi e condottieri di quell'età. Sulla dimensione temporale della
visione storica non possono dunque sorgere dubbi: essa era tu
di qua del passato, di quel passato remoto in ispecie, che non sol
Biondo ma anche gli storici municipali avevano tenuto in conto. Re
a vedere la dimensione spaziale della visione storica del Giovio. Era, c
si sa, eccezionalmente ampia: non soltanto verso il Medio Oriente, d
l'attenzione di uno storico italiano necessariamente era attratta
minacciosa avanzata dei Turchi, ma anche verso il Settentrione, a o
dente e a oriente, dalla Inghilterra alla Russia, verso nazioni perife
dell'Europa, che poco ο nulla avevano a che fare con la crisi in cui a
si dibatteva l'Italia. Ovvio è a questo punto il rilievo che, mentre p
dimensione temporale della sua visione storica il Giovio si dimos

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426 Carlo Dionisotti

lontanissimo dal Biondo, per la dimens


di ogni altro storico italiano di quell
come già s'è visto, era stato di Biondo u
ma perciò stesso esige un poco di rifle
parziale recupero di una visione dell'Eu
settentrionali dell'Europa sul versante
l'Italia, non poteva essere disgiunto d
ciante che l'Europa continentale avev
Guicciardini, che della crisi era stato p
insomma riviveva come storico la sua e
e doveva contentarsi di riconoscere che
era decisivamente prevalsa la storia
sponsabile e libero da ogni soggezion
nenza al clero e alla corte di Roma di
della politica italiana, non poteva ma
d'Italia, pur occupando il bel mezzo
uaatava più ua auia <x ammalia, vjia ciauu 111 uuuu iiujj.icj.l7 su. amen ι

protagonisti della nuova storia d'Italia. Inoltre, ai mar


crescevano e si agitavano genti oscure, destinate forse a
parte di primo piano nel futuro. Significativo è che il G
la sua descrizione della Moscovia poco dopo la morte di A
straniero, dedicandola a un prelato italiano che era stato
collaboratori di quel papa, e che scrivendola si richiam
della Germania di Tacito e facesse esplicito riferimento
religiosa da poco scoppiata in Germania: « ora che nu
genti della Germania, che volevano già più dell'altre
nute, con modi stolti e scelerati divenuti son ribelli
ma ancora di Iddio e de' Santi ».
Come di qui stesso risulta, il vescovo Giovio non era né fu mai
sospettabile di alcuna simpatia ο condiscendenza nei confronti della Ri
forma. E campò abbastanza per dimostrarsi immune da alcuna simpatia
per la conseguente riforma cattolica. Era fino all'osso un umanista ita
liano che nella Roma di Leone X aveva riconosciuto le premesse e la
speranza di un assetto civile conforme ai propri gusti e ideali. Ma essendo
per l'appunto un umanista italiano, membro di una casta allora più forte
che non fosse quella dell'episcopato, non aveva commesso la sua vita a
una speranza di lì a poco disastrosamente delusa, era rimasto spettatore
attento e appassionato ma, per quanto da lui dipendesse, al riparo dal
maltempo, sicuro di sé e soddisfatto dello spettacolo. Così essendo, il
Giovio riuscì a vedere non più a fondo ma più largamente, e poiché la
sua visione si traduceva in opere che avevano immediato successo in
Italia e in Europa, egli anche riuscì ad aprire gli occhi dei contemporanei
sul diverso rapporto che attraverso gli eventi politici e militari e al di
là di quelli si veniva allora istituendo fra l'Italia e l'Europa.

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Medio Evo barbarico e Cinquecento italiano 427

Importa e basta considerare qui l'aspetto storiografico della questione.


Al Giovio si deve la pubblicazione nel 1544 dei Mémoires di Commynes in
versione italiana. La versione non era naturalmente sua, ma era stata da
lui sollecitata e a lui dedicata, né sarebbe apparsa a stampa senza il suo
patrocinio. Su questo libro si potrebbe e dovrebbe fare un lungo discorso.
Non era soltanto il primo testo storico, ma il primo testo francese di
autore noto in qualunque genere che mai fosse apparso a stampa in ver
sione italiana. Appena occorre ricordare che ai primi del secolo un oscuro
umanista italiano, Paolo Emilio, era diventato storico ufficiale della
Francia, e un altrettanto oscuro suo compatriota, Polidoro Vergilio, del
l'Inghilterra. Indi innanzi, non soltanto quei due storici espatriati, ma i
letterati tutti in Italia si erano resi conto dell'esistenza di Bude, di
Tommaso Moro, di Erasmo, di Reuchlin, del fatto cioè che di mezzo ai
barbari erano sorti uomini capaci di eguagliare e forse anche superare i
maestri italiani. Ma la spiacevole constatazione del fatto non poteva di
per sé dar luogo a una ricerca, anche più spiacevole oltreché difficile, delle
oscure origini di quegli uomini: ovvia, confortevole e in parte giustificata
era l'attribuzione del fatto al recente successo in Europa della civiltà
rinascimentale propria dell'Italia. Se i Mémoires di Commynes non fos
sero stati, com'erano, una preziosa fonte per la storia recente, anche e in
ispecie per la storia italiana, difficilmente il Giovio ο altri in Italia se ne
sarebbero curati. Con tutto ciò di una fonte storica si trattava, in lingua
francese, non in latino: il ghiaccio era rotto di una tradizione storio
grafica univoca, e un primo varco era aperto al riconoscimento di una
storiografia non italiana, che in quanto tale non poteva essersi ristretta
né restringersi all'età recente, doveva pur essersi ripiegata, come la sto
riografia italiana aveva fatto a suo tempo, sulle origini, sull'intiero corso
di sviluppi storici affatto diversi da quello della storia d'Italia.
Negli anni in cui il Guicciardini febbrilmente attendeva alla composi
zione dell'opera sua maggiore, nessun dubbio poteva più sussistere sul
l'esito della crisi italiana, ma chiaro non poteva essere l'esito della crisi
aperta dalla Riforma e conseguentemente il posto che all'Italia sarebbe
toccato in Europa. Ancora negli anni immediatamente successivi alla
scomparsa αεί Vruicciaraini, dai 104 i al 44, a rtatisbona parve cne la
frattura religiosa fosse sanabile, a Ceresole che l'Italia tuttavia fosse il
campo di battaglia su cui inevitabilmente le grandi potenze erano chiamate
a misurarsi fra loro. Ma di contro a questi scarsi appigli di illusioni legit
time, promosse dall'esperienza del passato, non soltanto dall'interesse, in
quello stesso giro d'anni si moltiplicavano e sempre più gravavano i prean
nunci di una realtà diversa, di una frattura religiosa insanabile, di una
neutralizzazione dell'Italia ai margini di una nuova Europa che richiamava
e spiegava il nerbo delle sue forze lungo le grandi arterie fluviali del Reno
e del Danubio. In Italia poteva durare l'illusione che la propria lette
ratura in lingua moderna, dal Duecento innanzi, fosse la sola a far para

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428 Carlo Dionisotti

gone di sé con le due grandi letterature


Chiesa di Roma e la ormai incontrollab
proponevano un diverso quadro della
guardarsi attorno, bisognava anche gua
tempo, a tradizioni storiche per cui q
Duecento non contava e che avevano rad
da quello mediterraneo e italiano, co
barbari dell'Europa continentale non sol
prepotenza politica e militare, ma anch
menti della civiltà rinascimentale italia
non Dastava più guaruarc a ìoru c giuuiLarn, uisugnava aliene assonare
quel che dicevano di sé e imparar da loro. Tanto più bisognava, q
più, come già si è visto nel caso del Giovio, la storiografia italiana
ritratta dal passato remoto. Per contro, e per owii motivi, su qu
sato aveva insistito la nuova storiografia che, rifacendosi a modelli i
quattrocenteschi, in ispecie a Biondo, si era sviluppata durante la p
metà del Cinquecento fuori d'Italia. E si spiega che tale sviluppo tro
fertile terreno in Germania, più che altrove, e più si distaccasse iv
proposito, dai modelli italiani, concorrendo in esso l'impeto polemico
rivoluzione religiosa.
Non era facile l'incontro della storiografia italiana con quella
niera a metà del Cinquecento. La difficoltà non era soltanto religio
disciplinare, come si dimostrò quando, di lì a poco, Giovanni Sle
fornì, da parte tedesca, una fondamentale interpretazione della
contemporanea d'Europa in aperto contrasto con l'interpretazione fo
dal Giovio. C'erano, anche per il passato remoto, difficoltà intrinse
all'orientamento affatto diverso della storiografia italiana. Che ciò
stante l'incontro avvenisse subito, e proprio a Firenze, dove nel frat
si era trasferito il Giovio ma dove più forte era la tradizione storiog
italiana, prova quale peso la questione avesse e con quale animo
fosse affrontata. A Firenze dunque, già nel 1547, Pier Francesco
bullari, un letterato che prima d'allora solo si era occupato di quest
linguistiche e non si era mai impicciato di questioni politiche, p
scrivere una storia d'Europa, che, lasciata incompiuta alla sua mort
1555, apparve poi a stampa nel 1566. Il titolo, Storia dell'Europ
salvo errore non ha esatto riscontro prima né in latino né in alcuna
moderna, basterebbe a colpire oggi l'attenzione di chiunque, facendo
della storiografia, non sia dimentico di quella bazzecola che l'Eu
stata nella storia moderna, fino all'età nostra. Che un concittadino
Guicciardini, poco dopo la morte di lui, giungesse a rendersi conto
come la Storia d'Italia si era sovrapposta alle Istorie fiorentine d
chiavelli, così alla storia d'Italia poteva sovrapporsi una storia d'Eur
non è cosa strana, se anche non sia, per i motivi già addotti, cosa o
Ma sorprendente a prima vista è che il Giambullari ritrovasse

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Medio Evo barbarico e Cinquecento italiano 429

storia d'Europa nell'età squallida e ferrea dei secoli IX e X, subito dopo


la dissoluzione dell'impero carolingio, quando al centro Germania e Francia
si erano definitivamente separate, quando tutt'intorno, dai Balcani alla
Boemia, alla Polonia, alla Russia, alla Scandinavia, alle isole britanniche,
alla Spagna, si era primamente sviluppata quella barbarica selva di nazioni
che tuttavia sussisteva dopo più di sei secoli, più rigogliosa che mai
prima, e quando per contro l'Italia e Roma erano state respinte ai margini
dell'Europa, affondate nell'abisso da cui erano gradualmente emerse nei
secoli successivi. Basterebbe la scelta dell'argomento a rendere l'opera del
Giambullari significativa e importante. Ma la scelta imponeva una que
stione di fonti. Bisognava tornare a Biondo, a Pio II, ma in quei termini
così stretti di tempo, meno di un secolo, dall'887 al 947, e così larghi
di spazio, era una storia che solo in minima parte poteva essere ricostruita
su fonti italiane. Il Giambullari non esitò a ricorrere, debitamente citan
dole, alle fonti straniere, a testi recentemente recuperati, rielaborati ο
prodotti da umanisti tedeschi, per lo più ispirati da un acceso naziona
UVtVXViXkl uxxa XVUUXUIU·

Fin dove il Giambullari volesse giunge


completar l'opera, non risulta, ma dal co
rava l'impero germanico di Ottone I co
un'età più limpida, dopo la notte fonda e
a descrivere. Certo era l'alba di un nuov
Chiesa dall'Impero e per esso da una fi
ecclesiastica e cavalleresca. Certo non e
chiaro che bisogna a questo punto chieder
la morale della favola. La risposta è ovvi
un tempo della tradizione comunale guel
dava sulle rovine di quella tradizione il s
ducato, ossia al vicariato imperiale sulla
le istituzioni, le idee, i costumi volgev
ordine rigido, imposto dall'alto. Quel c
era tipico del regno di Napoli, il predomi
feudale, diventava modello a gran part
i titoli e privilegi, le precedenze e cerim
gliosa e fastosa ossequenza alla norma,
m erranti! p nrenrievanrv noni atrvrnn r>iìi il crvnrax7\7iar»Fr\ là rlz-vtro Ai un

secolo prima, i banchieri e mercanti, cittadini e gentiluomini senza alcun


titolo di Firenze e Venezia e fin gli avventurieri di Romagna avevano
trattato da pari a pari con principi e re. Più su di tutti, remoto e però
incombente con la sua autorità sull'Italia come su gran parte dell'Europa,
era ora il nuovo Ottone, l'imperatore Carlo V.
Era insomma, proprio in quel giro d'anni, l'avvento di un'era nuova,
che cercava e trovava i suoi antecedenti a mezza via fra l'antichità classica
e l'età moderna, fuori del sistema mediterraneo che nell'una e nell'altra

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430 Carlo Dionisotti

era prevalso, quasi che d'un tratto il co


Di quel che l'Italia era stata dal Duece
al centro dell'Europa, sole sopravviveva
vivenza delle lettere importava che la s
alla realtà nuova, quale che essa fosse,
cipazione e corresponsabilità politica del
presente, trasferendosi là dove ora si
lontano dall'Italia, che è per l'appunto
altro Guicciardini, Lodovico, autore d
cose più memorabili seguite in Europa,
dalla pace di Cambrai del 1529 insin
Anversa nel 1565 e l'anno stesso a Ve
Giambullari aveva fatto, senza muove
remote origini di quella realtà nei seco
barbariche si erano assoggettate alla
e avevano prodotto le monarchie nazion
cristiana della prima crociata, iscrivendo nella sua lingua, il ijiambuiian
si era bonariamente contentato di seguire le sue fonti, che in Italia ave
vano esse stesse il sapore della novità, su di una via che doveva parere,
a lui e ai suoi lettori del medio Cinquecento, meravigliosa come per una
selva orrida delle favole. Vent'anni più tardi su quella via si rimetteva il
Sigonio, armato di una filologia che ancora era in quel momento pari
all'impresa, pari alla più alta filologia europea, e sulla traccia segnata più
di un secolo prima da Biondo giungeva primo a spianare la via del me
dioevo italiano fino agli albori del secolo XIII e non oltre. L'opera del
Sigonio s'intitolava De regno Italiae, titolo inapplicabile alla storia del
l'Italia rinascimentale, dal secolo XIII innan2i, e però trasmissibile a un
ancora lontano risorgimento politico dell'Italia.
Carlo Dionisotti

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