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access to Lettere Italiane
sterminio di tutti gli infedeli ostinati. Indi pace e baldoria per tutti e
nel bel mezzo, sul podio, lui, Girolamo Amaseo, cantore dell'età nuova.
Di lì a poco Francia e Spagna si spartivano il Regno di Napoli, poi
subito si azzuffavano per la divisione del bottino, e sulle rive del Gari
gliano per la prima volta si rendeva chiaro che i cavalieri di Francia
avevano trovato pane per i loro denti, e che prima di muovere allo ster
minio degli infedeli in Oriente, le potenze cristiane dovevano ancora risol
vere, con altro che chiacchiere di negoziatori e di poeti, con guerre e
battaglie sterminatrici dei loro propri eserciti, talune questioni decisive per
il predominio dell'una ο dell'altra potenza sull'Italia e sull'Europa. Ve
nezia, tagliata fuori dagli sviluppi della guerra di Napoli, e consapevole
dell'oscura minaccia che si andava addensando sul destino suo e dell'Italia,
si affrettava, come già nel 1479, a metter da parte i progetti e vaticinii di
una crociata, e a far pace, a qualunque costo, coi Turchi. Non era, nel
1503, quando la pace fu fatta, un segno di eccessiva cautela. Alla fine
di quello stesso anno, con l'avvento al pontificato di Giulio II e la liqui
dazione della sinistra eredità dei Borgia, Roma riprendeva risolutamente
l'iniziativa, e facendo leva sulla momentanea tregua della rivalità franco
spagnola, mobilitava i vecchi e nuovi rancori suscitati dalla prepotenza e
dalla fortuna di Venezia. Si apriva così, apparentemente improvvisa ma
in realtà lungamente maturata, la crisi della lega di Cambrai, della disfatta
di Agnadello, dell'ultima difesa cui Venezia fu costretta, sulle mura di
Padova e nelle poche rocche superstiti, non più della sua grandezza, ma
della sua stessa esistenza. Non stupisce che l'eroica condotta e il finale
successo di questa difesa abbiano assunto nella letteratura storica un
rilievo maggiore che non la precedente disfatta, e che della disfatta stessa,
i motivi immediati, politici e militari, siano stati considerati più attenta
mente che non quelli di sfondo, dell'opinione pubblica, della propaganda,
e, che qui importa, della letteratura. Fu in realtà come il taglio netto di
un ascesso in cui erano confluiti tutti i veleni prodotti durante un secolo
dalla prepotenza e insieme dall'anomalia di Venezia nella quattrocentesca
Italia dei principati. Questa Italia era stata messa a soqquadro dal 1494
innanzi, ma perciò appunto essa ritrovava nella crociata contro l'indenne
Venezia il furore di un'ultima e disperata rivalsa. Si spiega che il furore
non durasse e che anzi, tagliato l'ascesso e rimarginata la ferita, Venezia
godesse poi in Italia, nel corso del Cinquecento, una popolarità tutta nuova
e diversa. Ma questa popolarità successiva non deve distrarre l'attenzione
dai caratteri propri della crisi del 1509. L'apertura della crisi innanzi tutto
dimostra che fu possibile allora, ai danni di Venezia, proprio quella soli
dale mobilitazione di forze che non era prima stata fatta, né, per cin
quant'anni ancora, sarebbe stata possibile contro la minaccia dei Turchi.
Ed è pur notevole che nel 1509 la crociata antiveneziana potesse essere
presentata in termini letterari come un'apertura verso l'Oriente. Basti
citare gli orrendi, ma eloquentissimi versi latini dell'anonima Venatio
Non può esser dubbio che questa accusa circolasse tra i nemici e
gli estranei. Press'a poco di quegli anni deve essere una vivacissima satira,
apparsa a stampa a Bologna, che si intitola Cinquanta stanze del magnifico
Arcibravo Vinetiano ne le quali dottamente e bene egli narra cose oltra
modo terribili grandi et non mai più intese della sua destrezza gagliardia
et fatti. L'arcibravo fra l'altro, durante una battaglia navale contro i Tur
chi, piglia al volo le palle dell'artiglieria nemica e le ributta. È chiaro che
una caricatura così fatta non potè sorgere dalla guerra, ma dalla pace,
probabilmente da una pace comoda ma vergognosa come quella del 1540.
Alle testimonianze veneziane può essere utile aggiungere quella di un
dalmata, Ludovico Pascale, i cui carmi latini apparvero postumi a stampa,
per cura di Ludovico Dolce, nel 1551. Perché il giovane Pascale, oltre
che dalmata, e però più direttamente esperto della minaccia turca, scrisse
buona parte dei suoi carmi mentre al servizio veneziano si trovava a Creta
ο imbarcato sulla flotta. Scriveva insomma sotto l'assillo di una guerra
imminente, interpretando sì l'animo dei suoi capi veneziani, ma senza
esser legato dalle loro preoccupazioni e cautele politiche. In un carme
dedicato alla mobilitazione delle forze cristiane « in Caroli Caesaris pan
nonicam expeditionem », il Pascale così descriveva l'intervento della flotta
veneziana:
Si spiega così che anche più innanzi, come si vede benissimo nelle rime
di un altro giovane e autentico poeta veneziano, Giacomo Zane, l'immagine
cara, preziosa, dorata di Venezia, in un'aura serena e felice, prevalesse
su ogni altra. Queste rime dello Zane apparvero postume nel 1562 e
importano qui perché ci rappresentano il poeta lontano da Venezia, per
l'appunto in Oriente, a Creta, in prima linea di fronte alla minaccia dei
Turchi. Orbene, non c'è alcun accento guerriero: c'è la tristezza della
lontananza, della solitudine, dell'incertezza. Insistente il pensiero torna
a Venezia, ai palazzi e canali, alla famiglia, agli amici, agli amori, a quel
vivere così splendido e dolce; ed è poesia tutta elegiaca di una civiltà
Trofeo, la raccolta cioè messa insieme nel 1572 dal Cieco d'Adria, non è
notevole soltanto per tale proposta, che è del resto anche più esplicita nelle
due orazioni di lui apparse già nel 1571. La raccolta si presentava fin dal
titolo come di rime e carmi dettati « da i più dotti spiriti de' nostri
tempi nelle più famose lingue d'Italia ». I carmi latini erano tutti raccolti
in fine al volume, in sole sedici carte di contro alle centoventi prima
dedicate alle rime. La sproporzione fra le due lingue è a quella data nor
male, ma eccezionale deve considerarsi, in una raccolta che era da presu
mersi eroica, la presenza in buon numero, nella sezione italiana, di rime
dialettali. Di questa anomalia era naturalmente ben consapevole il Cieco
d'Adria che così la giustificava nella sua prefazione: « Mi pare udirmi
riprendere perché io habbia appeso a questo Trofeo altre compositioni che
Tosche ο Latine, ma io brievemente rispondo che ogni spirito e ogni
lingua loda il Signore e egli si contenta esser da ogni spirito e con ogni
lingua lodato, e che un Bergamasco ο un Forlano può così trovare un
gentil concetto come un Tosco ο un Latino ». Superfluo sottolineare l'im
portanza storica di questa semplice e decisiva giustificazione. Superfluo
ricordare che durante il Cinquecento Venezia aveva per prima in Italia
prodotto una organica e legittima letteratura dialettale, e che ciò era avve
nuto proprio perché ivi, prima e più che altrove, un rigido controllo della
lingua letteraria aveva escluso il rischio della contaminazione dialettale.
Restavano però, nel quadro della letteratura rinascimentale, due tradizioni
parallele che sviluppandosi su piani diversi non potevano neppure occasio
nalmente incontrarsi. È probabile che l'occasione buona per un così impre
vedibile incontro fosse proprio l'esultanza e commozione universale pro
dotta dalla vittoria di Lepanto, ed è d'altra parte certo che l'incontro
non potè allora avvenire senza che fosse al tempo stesso implicitamente
accantonato il principio dell'imitazione e dell'ossequenza a una tradizione
storica, su cui era fondata la letteratura dell'età rivolta.
Non si può fare storia delle idee, e per l'appunto dei gentil concetti
che al Cieco d'Adria e ai suoi contemporanei importavano ormai più che
le diverse lingue, senza fare storia insieme degli eventi e delle passioni
nuove, magari labili, scatenate dagli eventi negli individui e nelle masse.
Un poeta veneziano, Jacopo Tiepolo, che già abbiamo incontrato nel 1549
alle prime sue armi, tornando dopo lungo silenzio alla poesia e pubbli
cando nel 1572 Tre sorelle: corone di sonetti ... sopra la felicissima vit
toria navale, si giustificava con una prefazione che rappresenta con evidente
schiettezza il rimescolio e soqquadro verificatosi in quei giorni nella so
cietà veneziana e nella coscienza dei singoli: « per ciò che la fresca vittoria
navale pare che abbia invitato tutti i più rari e pellegrini ingegni d'Italia
a raccontarla e celebrarla in diverse maniere e col verso specialmente,
io, come che fossi da molti amici miei a fare lo stesso confortato, nulla
di meno parte conoscendomi mal atto a così fatta impresa, parte non vo
lendo affatto, per niuna occasione, sturbare il dolcissimo riposo dell'animo