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LA

SCHIENA DI PARKER

La moglie di Parker era seduta sul pavimento della veranda davanti a casa, e stava sgranando fagioli.
Parker era seduto su un gradino a una certa distanza da lei e la guardava fissamente, di malumore. Era
brutta, davvero brutta. Aveva la pelle della faccia sottile e tirata come quella di una cipolla e gli occhi
grigi e acuminati come due punteruoli da ghiaccio. Parker capiva perché l’aveva sposata – non avrebbe
potuto averla in altro modo – ma non riusciva a capire perché restasse ancora con lei. Era incinta, e le
donne incinte non erano il suo genere. Con tutto ciò rimaneva, come se lei gli avesse fatto una fattura. Era
perplesso e si vergognava di sé.
La casa che avevano in affitto sorgeva, isolata, con soltanto un grande noce americano vicino, su un
alto terrapieno che dominava la provinciale. Ogni tanto un’auto sfrecciava sotto di loro, e gli occhi della
moglie di Parker si giravano di scatto, seguendone il rumore, poi tornavano a posarsi sul giornale pieno di
fagioli che aveva in grembo. Una delle tante cose che disapprovava erano le automobili. In aggiunta a
tutte le altre cattive qualità, non faceva che fiutar peccati. Non fumava, non masticava tabacco, non
beveva whisky, non si dipingeva la faccia, e sapeva Iddio quanto l’avrebbe migliorata, un po’ di tinta,
pensava Parker. Data la sua avversione per i colori era davvero straordinario che avesse sposato lui. A
volte Parker pensava che l’avesse sposato per salvargli l’anima. Altre volte gli veniva il sospetto che in
realtà le piacessero tutte le cose che diceva di detestare. In un modo o nell’altro, lei riusciva a spiegarla:
era se stesso che Parker non riusciva a capire.
La ragazza voltò la testa verso di lui e disse: “Non c’è ragione che tu non debba lavorare per un uomo.
Non è obbligatorio che sia una donna.”
“Oh, chiudi il becco, per una volta,” borbottò Parker.
Se fosse stato certo che era gelosia della donna per cui lavorava, sarebbe stato contento, ma era più
probabile che lei si preoccupasse del peccato che ne sarebbe conseguito se lui e la padrona si fossero
piaciuti. Le aveva detto che era una bionda, giovane e prosperosa: in realtà aveva quasi settant’anni ed
era troppo rinsecchita per interessarsi a qualcosa, se non a farlo sgobbare il più possibile. A volte capitava
che una vecchia si attaccasse a un giovane, specie se era un bel ragazzo, come Parker riteneva di essere,
ma quella lo guardava esattamente come guardava il suo vecchio trattore: come se dovesse rassegnarsi a
lui perché non aveva di meglio. Il secondo giorno che Parker lo guidava, il trattore gli si era bloccato, e la
vecchia l’aveva spedito a potare i cespugli, dicendo con la bocca torta al negro: “Tutto quello che tocca
rompe.” L’aveva anche pregato di tenere la camicia addosso, quando lavorava; Parker se l’era tolta anche
se la giornata non era calda, ed era tornato a infilarsela con riluttanza.
La brutta donna che Parker aveva sposato era la sua prima moglie. Aveva avuto altre donne, ma non
aveva mai pensato di far le cose legalmente. La prima volta, l’aveva vista una mattina che il furgoncino gli
si era guastato, sulla provinciale. Era riuscito a toglierlo dalla strada e a spingerlo in un cortile
accuratamente spazzato, dove sorgeva una casetta di due stanze con la vernice scrostata. Scese, aprì il
cofano e cominciò a studiare il motore. Parker aveva un sesto senso che l’avvertiva se nelle vicinanze
c’era una donna che lo guardava. Era curvo sul motore da qualche minuto quando cominciò a sentire un
pizzicorio al collo. Diede un’occhiata al cortile deserto e alla veranda della casa. Doveva esserci una
donna, poco distante, invisibile dietro una macchia di caprifoglio o in casa, a spiarlo dalla finestra.
Di botto, Parker si mise a saltare su e giù e ad agitare una mano come se gli fosse stata schiacciata dal
meccanismo. Poi si piegò in due, premendosi la mano sul petto con l’altra. “Maledizione,” urlò. “Cristo
ladro! Vacca boia!” E continuò a ripetere le stesse bestemmie senza sosta, a voce altissima.
Senza preavviso, un terribile artiglio irsuto lo colpì alla guancia, e Parker cadde all’indietro, sul cofano.
“Non si dicono sconcezze, qui!” strillò una voce al suo fianco.
Parker aveva la vista così confusa che per un attimo pensò di esser stato aggredito da una creatura
ultraterrena, un gigantesco angelo dagli occhi di falco, che brandiva un’arma implacabile. Quando gli si
snebbiò la vista, si trovò davanti una ragazza lunga e tutt’ossa, con una scopa in pugno.
“Mi sono fatto male alla mano,” si lamentò Parker. “Mi sono fatto male alla mano!” Si era tanto scaldato
da dimenticarsi che non si era fatto male alla mano. “Forse è rotta,” concluse ringhiando, sebbene avesse
ancora la voce malferma.
“Vediamola,” disse la ragazza, in tono di comando.
Parker tese la mano e lei si avvicinò a guardarla. Sul palmo non c’erano segni: la ragazza la prese e la
voltò. La mano di lei era asciutta e ruvida, ma al contatto Parker si sentì ravvivare di colpo. Guardò meglio
la ragazza. Non voglio averci a che fare, con questa, pensò.
Lei scrutò con occhi penetranti la mano rossastra e setolosa che teneva nella sua. Sul dorso, in una
cornice rossa e blu, era tatuata un’aquila appollaiata su un cannone. Parker aveva la manica arrotolata
fino al gomito. Sopra l’aquila c’era un serpente, c’erano dei cuori, alcuni dei quali trafitti da una freccia. E
sotto il serpente c’erano alcune carte da gioco disposte a ventaglio. Tutto il braccio di Parker, dal polso al
gomito, era coperto di disegni chiassosi. La ragazza lo guardò, con un sorriso quasi inebetito per la
sorpresa, come se per sbaglio avesse raccolto un serpente velenoso, e lasciò cadere la mano.
“La maggior parte degli altri tatuaggi me li sono fatti all’estero,” spiegò Parker. “Questi, sono quasi
tutti americani. Il primo, l’ho fatto che avevo appena quindici anni.”
“Non dica niente,” ordinò la ragazza. “Non mi piacciono. Mi danno sui nervi.”
“Dovreste vedere quelli che non si vedono,” insinuò Parker, e strizzò l’occhio.
Sulle guance della ragazza erano comparse due macchie rosse come mele, che l’addolcivano. Parker
era perplesso e incuriosito. Non poteva nemmeno pensare che i tatuaggi non le piacessero. Non aveva mai
conosciuto una donna che non ne fosse attratta.
Parker aveva quattordici anni, quando, a una fiera di paese, aveva visto un uomo coperto di tatuaggi
dalla testa ai piedi. Salvo il basso ventre, avvolto in una pelle di pantera, il corpo dell’uomo era coperto da
un unico disegno intricatissimo, a colori squillanti, o almeno così era sembrato a Parker che era quasi in
fondo alla tenda, in piedi su uno sgabello. L’uomo, piccolo e tarchiato, camminava su e giù lungo la
piattaforma, flettendo i muscoli, in modo che l’arabesco di uomini, animali e fiori sul suo corpo sembrava
animato da una misteriosa vita propria. Parker era pieno d’emozione, esaltato come certa gente quando
vede passare la bandiera. Era un ragazzotto che di solito guardava tutto a bocca aperta: massiccio, leale e
ordinario come una pagnotta. Quando lo spettacolo era terminato, era rimasto in piedi sulla panca, con gli
occhi fissi nel punto dove aveva visto l’uomo tatuato, fino a quando la tenda non si era svuotata quasi del
tutto.
Prima d’allora, Parker non aveva mai provato il più vago moto di stupore per se stesso. Finché non
aveva visto l’uomo della fiera, non gli era mai venuto in mente che ci fosse qualcosa di straordinario, nel
fatto di esistere. E non gli venne in mente neanche allora, però un singolare disagio mise radici dentro di
lui. Era come un ragazzo cieco, girato con tanta delicatezza da non accorgersi che la sua destinazione era
cambiata.
Qualche tempo dopo si era fatto fare il primo tatuaggio: l’aquila appollaiata sul cannone. L’aveva
eseguito un artista del paese e gli aveva fatto pochissimo male, quanto bastava per dargli l’idea che ne
valesse la pena. E anche questo era strano perché, prima d’allora, Parker aveva pensato che valesse la
pena di fare solo le cose che non dolevano. L’anno dopo aveva lasciato la scuola, perché aveva sedici anni
e poteva farlo. Per un certo periodo aveva seguito un corso commerciale, poi aveva piantato anche il corso
e aveva fatto l’inserviente per sei mesi in un garage. Lavorava unicamente per pagarsi nuovi tatuaggi. Sua
madre era fissa in una lavanderia e poteva mantenerlo, ma si rifiutava di pagare i tatuaggi. Gliene
concesse solo uno, un cuore col suo nome sopra, che Parker si fece fare protestando. Comunque, il nome
era Betty Jean, e nessuno era obbligato a sapere che si trattava di sua madre. Parker scoprì che i tatuaggi
attiravano il tipo di ragazze che gli piacevano, ma alle quale prima d’allora non era mai piaciuto. Cominciò
a bere birra e a fare a pugni. Sua madre piangeva, accorgendosi di quello che stava succedendo. Una sera
lo trascinò a una riunione religiosa senza dirgli dove andavano. Quando vide l’enorme chiesa illuminata,
Parker si liberò di colpo della sua stretta e scappò via. Il giorno dopo, mentendo sulla sua età, si arruolò in
marina.
Parker era troppo grosso per gli stretti pantaloni da marinaio, ma lo stupido berrettino bianco, tirato
giù sulla fronte, faceva sembrare per contrasto la sua faccia pensosa e quasi appassionata. Dopo un paio
di mesi di marina, Parker smise di guardare tutto a bocca aperta. I lineamenti gli s’indurirono e
diventarono quelli di un uomo. Rimase in marina cinque anni, e parve diventare tutt’uno con la nave grigia
e meccanica, salvo gli occhi, che erano dello stesso pallido color ardesia dell’oceano e riflettevano gli
spazi immensi intorno a lui, come un microcosmo del mare misterioso. A terra, Parker andava in giro
paragonando i posti dove si trovava con Birmingham, Alabama. E dovunque andasse, collezionava
tatuaggi.
Aveva abbandonato quelli senza vita, come le ancore e i fucili incrociati. Aveva una tigre e una pantera
sulle spalle, un cobra attorcigliato a una fiaccola sul petto, dei falchi sulle cosce, Elisabetta II e Filippo
rispettivamente sullo stomaco e sul fegato. Non si curava molto del soggetto, purché fosse pittoresco. Sul
ventre aveva qualche oscenità, ma solo perché gli sembrava il posto adatto. Parker era contento di ogni
tatuaggio nuovo per circa un mese, poi il disegno cominciava a perdere ogni attrattiva. Ogni volta che
trovava uno specchio di dimensioni ragionevoli, vi si piantava davanti e studiava il proprio aspetto
generale. L’effetto non era quello di un intricato arabesco di colori, ma di una serie di chiazze sparse a
caso. Allora una titanica insoddisfazione calava su di lui, e Parker andava in cerca di un esperto di
tatuaggi per far riempire un altro spazio vuoto. La parte anteriore era quasi tutta coperta, ma sul dorso
non c’era nulla. Parker non voleva tatuaggi dove non poteva vederli subito, comodamente. Man mano che
lo spazio sul davanti diminuiva, la sua insoddisfazione cresceva e diventava generale.
Dopo una licenza, Parker non tornò in servizio: rimase a terra senza permesso, ubriaco, in una pensione
di una città che non conosceva. La sua insoddisfazione, cronica e latente, aveva raggiunto d’improvviso la
fase acuta. Era come se la pantera e il leone, i serpenti, le aquile e i falchi gli fossero affondati sotto la
pelle e vivessero dentro di lui, facendosi una guerra senza quartiere. La marina lo rintracciò, lo mise al
fresco per nove mesi, poi lo congedò radiandolo dai quadri.
Dopo questo episodio, Parker decise che l’unica aria respirabile era quella di campagna. Affittò la
casetta sul terrapieno, comprò il vecchio furgone e cominciò a prendere dei lavori che teneva finché gli
facevano comodo. All’epoca in cui aveva incontrato la sua futura moglie, comprava mele a ceste di venti
chili e le rivendeva, facendo pagare lo stesso prezzo per mezzo chilo, ai proprietari delle case isolate, nelle
strade interne di campagna.
“Questa roba sembra la pensata di un indiano scemo,” disse la ragazza, indicando il braccio. “È un
mucchio di vanità.” Sembrò che avesse trovato la parola che cercava. “La vanità delle vanità,” sentenziò.
Be’, cosa diavolo m’importa di quello che pensa questa?, si domandò Parker, ma era chiaramente
sbalordito.
“In ogni caso, ce ne sarà pure uno che le piace più degli altri,” disse, tirando in lungo, per inventare
qualcosa che facesse colpo sulla ragazza. E le piantò di nuovo il braccio sotto il naso. “Quale preferite?”
“Nessuno. Però la gallina è meno peggio del resto.”
“Quale gallina?” domandò Parker, quasi gridando.
La ragazza indicò l’aquila.
“Quella è un’aquila! Chi sarebbe tanto idiota da farsi tatuare una gallina sul braccio?”
“Per me, sono idioti tutti quelli che si fanno tatuare,” replicò la ragazza, e gli voltò le spalle. Rientrò
lentamente in casa e lo piantò lì, padrone d’andarsene. Per quasi cinque minuti, Parker rimase a fissare
l’uscio oltre il quale era scomparsa.
Il giorno seguente, ritornò con una cesta di mele. Non era tipo da farsi mettere sotto i piedi da una
ragazza brutta come quella. A lui piacevano le donne bene in carne, quelle che sembravano senza muscoli
e senza ossa, a toccarle. Quando arrivò, la ragazza era seduta sul gradino superiore della veranda, e il
cortile era pieno di bambini poveri e magri come lei. Parker si ricordò che era sabato. Non gli piaceva far
la corte a una donna con dei bambini intorno. Ma per fortuna aveva preso la cesta delle mele dal furgone.
Quando i bambini si avvicinarono per vedere che cos’aveva in mano, diede una mela a ciascuno e ordinò
che si levassero dai piedi. Così si liberò di tutto il branco.
La ragazza non diede segno di essersi accorta della sua presenza. Parker avrebbe potuto essere una
capra o un maiale randagio capitato nel suo cortile in un momento in cui era troppo stanca per prendere
la scopa e cacciarlo via. Parker depose il cesto delle mele accanto a lei e si sedette un gradino più sotto.
“Si serva,” disse, indicando la cesta, e sprofondò nel silenzio.
Lei prese una mela, fulminea, come se il cesto potesse sparire da un momento all’altro. La gente
affamata rendeva nervoso Parker. Lui aveva sempre avuto da mangiare in abbondanza. Il suo disagio
crebbe. Giunse alla conclusione che non aveva niente da dire, quindi perché parlare? Non riusciva a
capire perché fosse venuto e perché non se ne andasse prima di sprecare un’altra cesta di mele con quel
branco di bambini. Dovevano essere i fratelli e le sorelle della ragazza, pensò.
Lei masticava la mela adagio, con una specie di concentrazione voluttuosa. La vista, dalla veranda,
spaziava su un lungo declivio tempestato di gramigne rosse e viola, oltre la provinciale fino a un’ampia
distesa di colline e a una sola montagna, molto piccola. I grandi paesaggi deprimevano Parker. Guardi
nello spazio e cominci a sentirti come se qualcuno ti corresse dietro. La marina, il governo o la religione.
“Di chi sono quei bambini, suoi?” si decise a domandare.
“Sono della mamma,” rispose lei. “Io non sono ancora sposata.” Parlava come se fosse solo questione di
tempo.
Ma chi la sposerebbe, questa, in nome di Dio?, si domandò Parker.
Una donna grossa, con la faccia larga e molti spazi vuoti fra i denti, comparve sulla soglia, dietro a
Parker. A quanto pareva, era lì da un po’.
“Buona sera,” fece lui.
La donna attraversò il portico e prese il cesto con quel che restava delle mele. “Grazie infinite,” disse, e
rientrò in casa, portandoselo dietro.
“È la sua vecchia?” domandò Parker.
La ragazza accennò di sì col capo. Parker conosceva parecchie battute di spirito da buttare lì a quel
punto, tipo: “Le mie condoglianze!” ma tacque, immusonito. Restò là immobile, a guardare il panorama.
Pensò che probabilmente stava covando una malattia.
“Se trovo delle pesche, domani gliele porto,” disse.
“Gliene sarò molto obbligata.”
Parker non aveva intenzione di tornare con una cesta di pesche, ma il giorno dopo si ritrovò a farlo. Lui
e la ragazza non avevano quasi niente da dirsi. Una delle poche cose che le disse fu: “Sulla schiena non ho
tatuaggi.”
“E cos’ha?” domandò la ragazza.
“La camicia,” rispose Parker. “Ah!”
“Ah, ah,” rise lei, educatamente.
Parker era convinto di star perdendo la ragione. Non riusciva a credere, neanche per scherzo, di essere
attratto da una donna come quella: non s’interessava a niente, se non a quel che le portava, finché la terza
volta, lui comparve con due meloni. “Come si chiama?” gli domandò allora.
“O. E. Parker.”
“E cosa significa O. E.?”
“Può chiamarmi O. E.,” rispose lui. “Oppure Parker. Nessuno mi chiama col mio nome.”
“Ma cosa significano le iniziali?” insisté lei.
“Lasciamo perdere. E lei come si chiama?”
“Glielo dirò quando mi avrà detto che cosa significano le iniziali,” replicò la ragazza. Nel suo tono c’era
una vaga ombra di civetteria che andò immediatamente alla testa di Parker. Non aveva mai rivelato il suo
nome a nessuno, uomo o donna, solo alla marina e al governo, ed era scritto sul certificato di battesimo,
che aveva ricevuto all’età di un mese perché sua madre era metodista. Quando il nome era trapelato
dall’archivio della marina, per un pelo Parker non aveva ammazzato il compagno che l’aveva usato.
“Andrà in giro a rifischiarlo a tutti.”
“Giuro che non lo dirò a nessuno. Lo giuro sulla santa parola di Dio.”
Parker rimase in silenzio per qualche minuto. Poi le mise una mano sul collo, e tirandosi il suo orecchio
vicino alla bocca le rivelò il nome a bassa voce.
“Obadiah,” sussurrò la ragazza, illuminandosi lentamente in viso, come se quel nome fosse un presagio
fausto, per lei. “Obadiah.”
Il nome continuava a essere una schifezza, per Parker.
“Obadiah Elihue,” disse la ragazza, in tono reverente.
“Se mi chiama così a voce alta, le rompo la testa,” annunciò Parker. “E lei come si chiama?”
“Sarah Ruth Cates.”
“Lieto di conoscerti, Sarah Ruth.”
Il padre di Sarah Ruth era un predicatore del Vangelo Semplice, ma era lontano, a far propaganda in
Florida. La madre aveva l’aria di non preoccuparsi delle attenzioni che Parker rivolgeva alla figlia, fintanto
che questi si presentava con un cesto di roba, quando andava a trovarla. Quanto a Sarah Ruth, dopo tre
visite di Parker si convinse di essere pazza di lui. Lo amava, anche se si ostinava a dire che i disegni sulla
pelle erano vanità delle vanità, anche dopo averlo sentito bestemmiare, anche dopo avergli domandato se
la sua anima fosse salva ed essersi sentita rispondere che lui non vedeva niente di particolare da cui
bisognasse salvarla. Quella volta, Parker, ispirato, aveva aggiunto: “Sarei salvo se tu mi baciassi.”
Lei aveva aggrottato la fronte.
“Quella non è salvezza,” aveva precisato.
Poco tempo dopo, accettò di fare una passeggiata in furgoncino. Parker si fermò in una strada deserta e
le propose di andare a sdraiarsi nel cassone.
“No, finché non saremo sposati,” disse lei, tranquilla.
“Oh, non è necessario sposarsi,” ribatté Parker.
Quando fece il gesto di afferrarla, lei lo respinse con tanta forza che la portiera si staccò e lui si trovò a
terra, piatto sulla schiena. In quell’istante, decise di non aver più niente a che fare con lei.
Si sposarono all’ufficio di stato civile, perché Sarah Ruth giudicava le chiese idolatre. Parker non aveva
opinioni in merito. L’ufficio era tappezzato di scatole d’archivio di cartone e di registri dai quali
spuntavano striscioline di carta gialla impolverata. L’ufficiale di stato civile era una vecchia dai capelli
rossi che era in carica da quarant’anni e aveva un’aria polverosa come i suoi libri. Li sposò da dietro la
grata di una scrivania verticale e quando ebbe finito disse, con voce squillante: “Tre dollari e cinquanta, e
finché morte non vi divida.” E compilò fragorosamente dei moduli con la macchina per scrivere.
Il matrimonio non cambiò d’una virgola Sarah Ruth e rese Parker ancora più tetro. Tutte le mattine
decideva che ne aveva abbastanza e che la sera non sarebbe tornato a casa, e tutte le sere tornava. Ogni
volta che pensava di non farcela più, Parker si faceva fare un tatuaggio nuovo, ma ormai l’unica superficie
libera che gli restava era la schiena. Per guardare un tatuaggio sulla schiena, avrebbe dovuto prendere
due specchi e mettersi nel mezzo, in una certa posizione, e questo gli sembrava un ottimo sistema per far
la figura dell’imbecille. Sarah Ruth, che se avesse avuto buon senso avrebbe potuto godersi il tatuaggio
sulla schiena, non voleva nemmeno guardare quelli che aveva altrove. Quando lui cercava di farle notare i
particolari più importanti, chiudeva gli occhi, ben stretti, e gli voltava anche la schiena. Fuorché al buio
pesto, preferiva che stesse vestito, e con le maniche della camicia tirate giù.
“Davanti al tribunale di Dio, Gesù ti domanderà: ‘Che cos’hai fatto nella tua vita, oltre a riempirti di
disegni su tutto il corpo?’” gli diceva.
“Non me la dai a bere,” rispondeva Parker. “Tu hai paura che la bella ragazzona prosperosa per la
quale lavoro s’incapricci di me e mi dica: ‘Andiamo, signor Parker, andiamo a...’”
“Tu tenti il peccato,” replicava lei, “e davanti al tribunale di Dio ti toccherà rispondere anche di questo.
Dovresti tornare a vendere i frutti della terra.”
Quando era a casa, Parker non faceva granché, oltre ad ascoltare come gli sarebbe andata davanti al
tribunale di Dio, se non avesse cambiato vita. Quando poteva, interrompeva quelle tirate con racconti
sulla ragazza prosperosa per la quale lavorava.
“Signor Parker,” gli aveva detto, “io l’ho assunta per la sua intelligenza.” (E aveva soggiunto: “E allora
perché non se ne serve?”)
“E avresti dovuto vedere che faccia ha fatto la prima volta che mi ha visto senza camicia,” raccontava.
“Signor Parker,” mi ha detto, “lei è un arazzo ambulante!” E questa era stata, effettivamente,
l’osservazione della padrona, però gliel’aveva fatta con la bocca torta.
L’insoddisfazione di Parker aumentò a tal punto che non ci fu più mezzo di contenerla, all’infuori di un
tatuaggio. E bisognava farlo sulla schiena, per forza. Un’ispirazione nebulosa e informe cominciò a
mulinargli nella mente. Immaginava di farsi fare un tatuaggio al quale Sarah Ruth non avrebbe potuto
resistere, un soggetto religioso. Pensò a un libro aperto, con la scritta SACRA BIBBIA tatuata sotto, e un
versetto autentico, a caratteri di stampa, sulla pagina. Per un po’, questa gli parve l’idea risolutiva, poi
cominciò a immaginare Sarah Ruth che diceva: “Ma non ce l’ho già, una vera Bibbia? Cosa credi, che
voglia leggere all’infinito lo stesso versetto, quando posso leggerla tutta?” Aveva bisogno di qualcosa di
meglio della Bibbia! Ci pensava tanto che cominciò a perdere il sonno. Peso, ne stava già perdendo,
perché Sarah Ruth si limitava a buttare il cibo nella pentola e a lasciarlo bollire. Il fatto di non sapere di
sicuro perché continuasse a vivere con una donna brutta, incinta e pessima cuoca, lo rendeva
grandemente nervoso e irritabile, e gli venne un piccolo tic a una guancia.
Un paio di volte, si scoprì a voltarsi di scatto, come se qualcuno lo pedinasse. Uno dei suoi nonni era
finito al manicomio statale, sia pure dopo i settantacinque anni. Ma per quanto urgente fosse in lui il
bisogno di un nuovo tatuaggio, era altrettanto urgente trovare quello giusto, che avrebbe messo al
tappeto Sarah Ruth. Più rimuginava, più gli occhi gli s’incavavano e assumevano un’espressione
tormentata. La vecchia per la quale lavorava gli disse che, se non era capace di stare attento a quello che
faceva, lei sapeva dove trovare un negro di quattordici anni che ne era capace. Parker era tanto
preoccupato che non si offese nemmeno. In passato, l’avrebbe piantata sui due piedi, dicendo seccamente:
“Benissimo, allora vada a prenderlo.”
Due o tre mattine dopo, Parker stava legando le balle di fieno con la miserabile pressa e il trattore
sfiancato della vecchia, in un grande pascolo che aveva solo un enorme albero secolare nel mezzo. La
padrona era il tipo che non faceva abbattere un vecchio albero perché era un vecchio albero. Lo indicò a
Parker, come se lui non avesse gli occhi, e gli raccomandò di non urtarlo, mentre la macchina raccoglieva
fieno lì attorno. Parker cominciò all’esterno del campo e proseguì verso l’albero, in cerchi concentrici.
Ogni tanto doveva scendere dal trattore per sbrogliare il cordone della pressa o per liberare la strada da
un sasso. La vecchia gli aveva ordinato di portare i sassi sul bordo del prato, cosa che Parker faceva
quando lei lo guardava. Quando pensava di farla franca, ci passava sopra. Mentre girava intorno al campo,
non faceva che pensare al disegno più adatto per la schiena. Il sole, delle dimensioni di una palla da golf,
cominciò a scivolargli dietro e a tornargli davanti con un moto regolare, ma a Parker sembrava di vederlo
da tutt’e due le parti contemporaneamente, come se avesse avuto gli occhi anche sulla nuca. D’un tratto,
s’accorse che l’albero allungava i rami per afferrarlo. Un colpo feroce lo catapultò in aria e udì se stesso
gridare, a voce incredibilmente alta: “Dio del cielo!”
Atterrò sulla schiena, mentre il trattore si rovesciava, schiantandosi contro l’albero, e prendeva fuoco.
La prima cosa che Parker vide, furono le proprie scarpe, divorate velocemente dalle fiamme: una sotto il
trattore, l’altra a una certa distanza, che bruciava per conto suo. Lui non c’era, dentro. Sentiva sulla
faccia il fiato caldo dell’albero che bruciava. Arretrò, seduto, con gli occhi fondi come caverne, e se avesse
saputo farsi il segno della croce l’avrebbe fatto.
Il suo furgoncino era fermo su una strada sterrata, ai margini del pascolo. Parker si diresse verso di
esso, ancora seduto, ancora all’indietro, ma sempre più in fretta. A metà strada si alzò e si mise a correre,
tutto curvo, tanto che cadde in ginocchio due volte. Gli sembrava di avere le gambe come due vecchie
grondaie arrugginite. Alla fine arrivò al camion e partì a zig-zag. Passò davanti alla casa sul terrapieno e
puntò dritto verso la città, che distava una cinquantina di miglia.
Durante il tragitto, non si concesse di pensare. Sapeva solo che era avvenuto un grande cambiamento,
nella sua vita, un balzo in avanti verso un ignoto peggiore, e che lui non poteva farci nulla. Era successo, a
tutti gli effetti.
L’artista di tatuaggi aveva due grandi stanze, disordinate e piene di roba, sopra lo studio d’un callista,
in una viuzza interna. Parker, ancora a piedi nudi, gli piombò in casa senza rumore poco dopo le tre del
pomeriggio. L’artista, che aveva circa l’età di Parker, ventotto anni, ma era esile e calvo, era al tavolo da
disegno a ricalcare uno schizzo con l’inchiostro verde. Alzò lo sguardo, irritato, e parve non riconoscere
Parker nella creatura dagli occhi infossati che gli stava davanti.
“Mi faccia vedere il libro con tutti i ritratti di Dio,” ansimò lui. “Quello religioso.”
L’artista continuò a fissarlo col suo sguardo intellettuale e superiore.
“Non faccio tatuaggi agli ubriachi,” avvertì.
“Ma lei mi conosce!” protestò Parker, indignato. “Sono O. E. Parker! Ha già lavorato per me, e l’ho
sempre pagata!”
L’uomo guardò nuovamente Parker, come se non fosse affatto sicuro. “La vedo piuttosto malconcio,”
osservò. “Deve essere stato in prigione.”
“Sposato.”
“Oh.” Con l’aiuto di due specchi, l’artista si era tatuato in cima alla testa una civetta in miniatura,
perfetta in ogni particolare. Aveva le dimensioni di una moneta da mezzo dollaro e gli serviva per farsi
pubblicità. C’erano artisti più a buon mercato, in città, ma Parker aveva sempre voluto soltanto il meglio.
L’artista andò a un secrétaire in fondo alla stanza, e cominciò a sfogliare dei libri d’arte.
“Cosa le interessa?” domandò. “Santi, angeli, Cristo o che cosa?”
“Dio.”
“Padre, Figlio o Spirito Santo?”
“Dio,” ripeté Parker con impazienza. “Cristo. Non ha importanza. Purché sia Dio.”
L’artista tornò con un libro. Sbarazzò un altro tavolo dalle carte, vi appoggiò il libro e invitò Parker a
sedersi e a scegliere il disegno che preferiva. “Quelli moderni sono in fondo,” avvertì.
Parker si sedette e bagnò il pollice. Cominciò a sfogliare il libro partendo dalle ultime pagine, dove
c’erano i ritratti moderni. Qualcuno lo riconobbe: il Buon Pastore, “Lasciate che i pargoli...”, Gesù
sorridente, Gesù amico del medico. Ma man mano che sfogliava velocemente il libro all’indietro, i ritratti
diventavano sempre meno rassicuranti. Uno era la faccia verde e consunta di un morto, rigata di sangue.
Uno era giallo, con gli occhi viola e cadenti. Il cuore di Parker si mise a battere sempre più veloce, finché
cominciò a rombare dentro di lui come un enorme generatore di corrente. Parker voltava le pagine sicuro,
pensando che quando fosse giunto all’immagine predestinata avrebbe avuto un segno. Continuò a
sfogliare, finché arrivò quasi all’inizio del libro. Da una pagina, un paio d’occhi gli lanciarono un rapido
sguardo. Parker proseguì svelto, poi si fermò. Pareva che gli avessero staccato la corrente dal cuore: il
silenzio era assoluto. E diceva chiaro, come se fosse stato un linguaggio: “Torna indietro!”
Parker tornò all’illustrazione, la testa severa e senza rilievo di un Cristo bizantino, dagli occhi divoranti.
Rimase a sedere, scosso da un tremito, e il cuore riprese lentamente a battergli, come se una forza
inspiegabile l’avesse riportato in vita.
“Ha trovato quello che le interessa?” domandò l’artista.
Parker aveva la gola troppo secca per essere in grado di rispondere. Si alzò e gli piantò sotto il naso il
libro aperto alla pagina del ritratto.
“Questo vi costerà un mucchio di soldi,” annunciò l’artista. “Ma immagino che non vorrà tutti quei
quadretti: basteranno i contorni e qualcuno dei tratti più belli.”
“Lo voglio esattamente così,” dichiarò Parker. “O così o niente.”
“Contento lei... Ma un lavoro simile non lo faccio per quattro soldi.”
“Quanto?”
“Ci vorranno due giorni di lavoro.”
“Quanto?” ripeté Parker.
“A rate o in contanti?” domandò l’artista. Gli altri lavori, Parker li aveva fatti a rate, ma l’aveva sempre
pagato. “Dieci di deposito e dieci per ogni giorno di lavoro.”
Parker tirò fuori dieci dollari dal portafoglio; gliene rimasero tre.
“Venga domattina,” disse l’artista, intascando il denaro. “Prima dovrò tirar giù lo schizzo dal libro.”
“No, no!” esclamò Parker. “O fa lo schizzo subito o mi dà indietro i miei soldi.” E gli occhi gli
scintillavano minacciosi, come se fosse pronto a fare a pugni.
L’artista acconsentì. Un tipo così stupido da volere un Cristo sulla schiena, rifletté, poteva anche
cambiare idea da un momento all’altro, ma una volta cominciato il lavoro non avrebbe più avuto modo di
tirarsi indietro.
Mentre ricalcava il disegno, disse a Parker di andarsi a lavare la schiena all’acquaio col sapone
speciale. Parker obbedì, poi tornò e si mise a passeggiare avanti e indietro, flettendo nervosamente le
spalle. Aveva voglia di andare a guardare di nuovo la figura e allo stesso tempo non ne aveva voglia. Alla
fine, l’artista si alzò e gli disse di sdraiarsi sul tavolo. Gli sfregò la schiena col cloruro d’etile, poi cominciò
a tracciare la testa con la matita allo iodio. Passò un’ora, prima che prendesse in mano l’ago elettrico.
Parker non sentì un dolore eccessivo. In Giappone gli avevano tatuato un Buddha sull’omero con degli
aghi d’avorio; in Birmania, un ometto marrone, che pareva una radice, gli aveva tatuato un pavone per
ginocchio con dei bastoncini appuntiti lunghi sessanta centimetri; e parecchi dilettanti l’avevano lavorato
con spilli e fuliggine. Di solito, Parker era così disteso e tranquillo, sotto le mani dell’artista, che gli
capitava di addormentarsi, ma quella volta rimase sveglio, con tutti i muscoli tesi.
A mezzanotte, l’artista annunciò che doveva smettere. Piantò sul tavolo contro il muro uno specchio
d’un metro e venti di lato, andò al gabinetto a prenderne uno più piccolo e lo mise in mano a Parker.
Parker voltò le spalle allo specchio sul tavolo e mosse l’altro finché non vide scaturire un’esplosione di
colori sgargianti: aveva la schiena quasi completamente coperta di quadretti rossi e blu, color avorio e
zafferano. Parker distinse i lineamenti della faccia: una bocca, l’attaccatura delle sopracciglia folte, un
naso dritto. Ma il volto era vuoto: gli occhi non erano ancora stati tracciati. Sulle prime, gli sembrò che
l’artista l’avesse imbrogliato e avesse disegnato Gesù amico del medico.
“Non ha gli occhi!” esplose.
“Arriveranno a suo tempo,” promise l’artista. “Abbiamo ancora un giorno di lavoro.”
Parker passò la notte su una branda alla missione cristiana Porto di luce. Aveva scoperto che erano
quelli i posti migliori per alloggiare in città, perché erano gratuiti e fornivano anche un pasto, per quanto
misero. Si accaparrò l’ultima branda disponibile e, dato che era a piedi nudi, accettò un paio di scarpe
usate che nella confusione infilò per andare a letto: era ancora scosso per tutto quello che gli era capitato.
Rimase sveglio tutta la notte, nel lungo dormitorio pieno di brande, ciascuna col suo carico gibboso.
L’unica luce veniva da una croce fosforescente, che splendeva in fondo allo stanzone. L’albero allungò di
nuovo i rami per afferrarlo, poi s’incendiò di colpo; la scarpa bruciava tranquillamente, per conto suo; gli
occhi, nel libro, gli dicevano chiaro: “Torna indietro!” ma non emettevano alcun suono. Parker non
avrebbe voluto essere in quella città, in quel Porto di luce, in quel letto da solo. Con sconsolato ardore,
desiderava la vicinanza di Sarah Ruth. La sua lingua tagliente e i suoi occhi a punteruolo erano il solo
conforto che riuscisse a immaginare. E venne alla conclusione che lo stava perdendo. Gli occhi di Sarah
Ruth gli sembravano docili e indecisi, al confronto di quelli del libro, che non riusciva a ricordare
esattamente, ma di cui avvertiva ancora la forza di penetrazione. Sotto quello sguardo si sentiva
trasparente come l’ala di una mosca.
L’artista dei tatuaggi gli aveva detto di non andare da lui prima delle dieci di mattina, ma quando
arrivò, all’ora fissata, lo trovò seduto per terra nell’andito buio, ad aspettarlo. Appena sveglio, Parker
aveva deciso che una volta finito il tatuaggio non l’avrebbe nemmeno guardato, che tutte le sue
impressioni del giorno e della notte prima erano quelle di un pazzo e che avrebbe ricominciato a
comportarsi secondo il suo sano buon senso.
L’artista riprese da dove aveva smesso. “Una cosa, vorrei sapere,” disse a un certo punto, mentre
lavorava alla schiena di Parker. “Perché vuole avere addosso questa immagine? Si è dato alla religione?
Vuole salvarsi l’anima?” domandò, in tono canzonatorio.
Parker si sentiva la gola secca e salata. “Nooo, me ne sbatto, io, di quelle fesserie,” dichiarò. “Un uomo
che non è capace di salvarsi da solo mi fa ridere.” Le parole sembrarono uscirgli dalla bocca come
fantasmi ed evaporare immediatamente, come se non le avesse mai pronunciate.
“Allora perché...”
“Ho sposato una donna redenta,” spiegò Parker. “E ho fatto male. Dovrei piantarla. Ha avuto la bella
idea di restare incinta.”
“Peccato,” disse l’artista. “Allora è stata lei a farle fare questo tatuaggio.”
“Nooo. Lei non ne sa niente. È una sorpresa.”
“Pensa che le piacerà e che la lascerà in pace per un po’?”
“Non potrà farne a meno. Non potrà dire che non le garba la faccia di Dio.” Parker decise che aveva già
raccontato abbastanza dei fatti suoi all’artista. Gli artisti andavano benissimo, se stavano al loro posto, ma
non gli piaceva che mettessero il naso negli affari della gente normale. “Stanotte non ho dormito,” disse.
“Penso che dormirò un po’ adesso.”
Questo chiuse la bocca all’artista, ma non portò il sonno a Parker. Se ne stava bocconi, immaginando
Sarah Ruth che rimaneva senza parole, folgorata dalla faccia sulla sua schiena, e ogni tanto quella
fantasia era interrotta dalla visione dell’albero incendiato, con la scarpa che vi bruciava sotto.
L’artista lavorò fin quasi alle quattro, senza pausa per il pranzo, senza praticamente staccare l’ago
elettrico, se non per asciugare i colori che sgocciolavano dalla schiena di Parker. Alla fine il tatuaggio fu
terminato.
“Adesso può andare a guardarlo,” disse.
Parker si rizzò a sedere, ma rimase sull’orlo del tavolo.
L’artista era soddisfatto della sua opera e voleva che Parker la vedesse subito, ma Parker continuava a
star seduto sull’orlo del tavolo, con aria assente.
“Che le prende?” domandò l’artista. “Vada a guardarlo.”
“Sto benone,” ribatté Parker, improvvisamente bellicoso. “Il tatuaggio non scappa. Quando vorrò
guardarlo sarà ancora lì.” Prese la camicia e cominciò a infilarsela con precauzione.
L’artista lo agguantò bruscamente per un braccio e lo spinse tra i due specchi.
“E ora guardi,” ordinò, furioso perché la sua opera veniva ignorata.
Parker guardò, diventò pallido e s’allontanò, ma gli occhi del ritratto continuarono a guardarlo,
immobili, fissi, divoranti, avvolti nel silenzio.
“L’idea è stata sua, ricordi,” disse l’artista. “Per me, le avrei consigliato qualcosa di diverso.”
Parker non aprì bocca. Indossò la camicia e imboccò la porta, mentre l’artista urlava: “E aspetto tutti i
miei soldi! Aspetto i soldi!”
Parker andò in un emporio all’angolo, comprò una pinta di whisky, se la portò in un vicolo poco distante
e la bevve tutta nel breve volgere di cinque minuti. Poi andò in una sala da biliardo che frequentava
quando scendeva in città. Era uno stanzone ben illuminato, che pareva un granaio, con un bar da una
parte, le macchinette mangiasoldi dall’altra e i tavoli da biliardo che troneggiavano sul fondo. Come
Parker entrò, un omone in camicia a quadretti rossi e neri lo salutò con una manata e urlò: “Eeeeeeilà! O.
E. Parker!”
Era ancora presto, per battere Parker sulla schiena. “Giù le mani,” protestò. “Ho un tatuaggio nuovo,
lì.”
“Cos’è, stavolta?” domandò l’uomo, e gridò ai clienti delle macchinette: “O. E. si è fatto un tatuaggio
nuovo!”
“Niente di speciale, stavolta,” brontolò Parker, e s’incamminò avvilito a una macchinetta libera.
“Dai!” fece l’omone. “Diamo un’occhiata al tatuaggio di O. E.!” Mentre Parker si divincolava dalle loro
mani, gli uomini gli tirarono su la camicia. D’un tratto, Parker sentì tutte le mani cadergli di dosso, e la
camicia gli calò sulla faccia, come un velo. Nella sala da biliardo scese un silenzio che parve diffondersi
dal gruppo intorno a lui fino alle fondamenta, sotto l’edificio, e verso l’alto, più su delle travi del tetto.
Finalmente qualcuno esclamò: “Cristo!” E tutti si misero a far baccano. Parker si voltò, con un sorriso
incerto.
“Queste trovate le ha solo O. E.!” esclamò l’uomo con la camicia a quadretti. “Che roba!”
“Magari si è dato alla religione!” gridò qualcuno.
“Col cavolo,” ribatté Parker.
“O. E. si è dato alla religione e si schiera con Gesù, vero O. E.?” domandò maliziosamente un ometto
con un pezzo di sigaro in bocca. “Un sistema molto originale, devo dire.”
“Non ce n’è come O. E., per inventarne di nuove!” dichiarò l’omone.
“Jooohum! Che roba!” gridò qualcuno, e tutti cominciarono a fischiare e a bestemmiare per
complimentarsi, finché Parker sbuffò: “Oooooh, piantatela.”
“Perché l’hai fatto?” domandò un tale.
“Per ridere,” ribatté Parker. “Che ti frega?”
“E allora perché non ridi?” domandò un altro.
Parker si avventò sul gruppo e, come una bufera di vento in un giorno d’estate, ebbe inizio una rissa
che imperversò fra tavolini rovesciati e pugni volanti, finché due uomini afferrarono Parker, lo
trascinarono di corsa alla porta e lo buttarono fuori. Allora nella sala da biliardo scese una pace
sconvolgente, come se lo stanzone che pareva un granaio fosse la nave dalla quale Giona era stato gettato
in mare.
Parker rimase a lungo seduto per terra, nel vicolo dietro la sala da biliardo, a scrutare la propria anima.
La vedeva come una ragnatela di verità e di bugie, assolutamente priva d’importanza per lui, ma
necessaria a dispetto delle sue opinioni. Gli occhi che ormai dimoravano per sempre sulla sua schiena
erano occhi ai quali si doveva obbedire. Ne era certo, come raramente gli era accaduto di esser certo di
qualcosa. Per tutta la vita, a volte protestando e a volte bestemmiando, sovente spaventato e una volta in
estasi, Parker aveva obbedito a tutti gli impulsi di quel genere che l’avevano ispirato: in estasi quando si
era infiammato alla vista dell’uomo dei tatuaggi, alla fiera; spaventato quando si era arruolato in marina;
protestando quando aveva sposato Sarah Ruth.
Il pensiero di lei lo spinse lentamente ad alzarsi. Sarah Ruth l’avrebbe consigliato sul da farsi, avrebbe
sistemato anche il resto, e se non altro sarebbe stata soddisfatta. Il furgoncino era ancora fermo davanti
all’edificio dove c’era lo studio dell’artista, non molto lontano. Parker lo raggiunse e lasciò la città,
entrando nella notte campestre. Aveva la testa quasi completamente sgombra dai fumi dell’alcool, e si
accorse che l’insoddisfazione era sparita, ma non si sentiva del tutto se stesso. Era come se fosse se stesso
ma estraneo a se stesso, e viaggiasse in un paese nuovo, sebbene tutto quello che vedeva gli fosse
familiare, persino la notte.
Alla fine arrivò a casa, sul terrapieno, fermò il furgoncino sotto il noce americano e scese. Fece tutto il
baccano possibile, per stabilire che era ancora lui il padrone, che il fatto di esser stato via una notte senza
una parola non significava nulla, se non che lui le cose le faceva così. Sbatté la portiera, salì i due gradini
e attraversò la veranda, pestando i piedi. Scosse violentemente la maniglia della porta, che però non
cedette. “Sarah Ruth!” gridò. “Fammi entrare!”
La porta non aveva chiave, ma evidentemente Sarah Ruth aveva incastrato una sedia sotto la maniglia.
Parker cominciò a battere alla porta e a scuotere la maniglia, contemporaneamente.
Sentì le molle del letto cigolare e si chinò a guardare dal buco della serratura, ma era stato tappato con
un pezzo di carta. “Fammi entrare!” tempestò, martellando di nuovo la porta. “Perché mi hai chiuso
fuori?”
Una voce tagliente, vicino all’uscio, domandò: “Chi è?”
“Io,” rispose Parker. “O. E.”
Aspettò un momento.
“Io,” ripeté con impazienza. “O. E.”
All’interno sempre silenzio.
Parker tentò di nuovo. “O. E.,” disse ancora, dando due o tre manate alla porta. “O. E. Parker. Mi
conosci.”
Silenzio. Poi una voce disse lentamente: “Io non conosco nessun O. E.”
“Smettila di scherzare,” implorò lui. “Non hai motivo di trattarmi così. Sono io, O. E., sono tornato. Non
avrai paura di me.”
“Chi è?” domandò la stessa voce spietata.
Parker voltò la testa, come se si aspettasse che qualcuno alle sue spalle gli suggerisse la risposta. Il
cielo si era lievemente schiarito e due o tre nastri gialli fluttuavano sopra l’orizzonte. Poi, mentre Parker
guardava, una sorta di albero di luce scaturì dal confine del cielo.
Parker ricadde contro la porta, come se ce l’avessero inchiodato con una lancia.
“Chi è?” chiese la voce all’interno, che adesso aveva qualcosa di definitivo. La maniglia crepitò, e la
voce domandò, perentoria: “Chi è, insomma?”
Parker si chinò e appoggiò la bocca alla serratura tappata. “Obadiah,” bisbigliò, e d’un tratto sentì la
luce riversarsi in lui, trasformando la sua anima-ragnatela in un perfetto arabesco di colori, un giardino di
alberi, di uccelli e di animali.
“Obadiah Elihue,” mormorò.
La porta si aprì e Parker entrò incespicando. Sarah Ruth torreggiava indistinta sulla soglia, con le mani
sui fianchi. E attaccò subito: “Non era una bionda prosperosa, la tua padrona, e dovrai pagarle fino
all’ultimo soldo il trattore che hai fatto a pezzi. Non è assicurata. È venuta qui, abbiamo fatto una lunga
chiacchierata e io...”
Tremando, Parker armeggiò per accendere la lampada a petrolio.
“Cosa ti viene in mente? Perché sprechi il petrolio, che è quasi giorno?” volle sapere lei. “Non ho
bisogno di vederti.”
Un bagliore giallo li avvolse. Parker mise giù il fiammifero e cominciò a slacciarsi la camicia.
“E stamattina non sognarti di prendermi,” l’avvisò Sarah Ruth.
“Chiudi il becco!” disse Parker, tranquillo. “Guarda questo, e poi non voglio più sentire una parola, da
te.” Si tolse la camicia e le voltò le spalle.
“Un altro disegno,” ringhiò Sarah Ruth. “Avrei dovuto immaginarlo che eri andato a farti disegnare
altre porcherie sulla pelle.”
Parker si sentì svuotare le ginocchia. Si girò di scatto e urlò: “Guardalo! Non stare lì a parlare e basta!
Guardalo!”
“Ho guardato.”
“E non sai chi è?” gridò lui, tra mille tormenti.
“No, chi è?” s’informò Sarah Ruth. “Non è nessuno che conosco.”
“È lui.”
“Lui chi?”
“Dio!” gridò Parker.
“Dio? Ma Dio non è così.”
“E come fai, tu, a sapere che faccia ha?” gemette Parker. “Mica l’hai visto.”
“Dio non ha la faccia,” spiegò Sarah Ruth. “È uno spirito. Nessun uomo vedrà mai il suo volto.”
“Ascolta,” si lamentò Parker, “questo è proprio il suo ritratto.”
“Idolatria!” tuonò Sarah Ruth. “Idolatria! Ti scaldi la testa con gli idoli a ogni passo che fai. Io posso
sopportare le bugie e le vanità, ma non voglio idolatri in questa casa!” E, afferrando la scopa, cominciò a
picchiarlo sodo sulla schiena.
Parker era troppo sbalordito per resistere. Restò seduto e lasciò che lei lo picchiasse finché fu sull’orlo
dello svenimento, e sul viso del Cristo si formarono grossi cordoni di gonfiore. Poi si alzò e si diresse alla
porta, barcollando.
Sarah Ruth batté due o tre volte la scopa sul pavimento, poi andò alla finestra e la scosse fuori, per
liberarla del contagio di Parker. Sempre con la scopa in mano, guardò verso il noce americano, e gli occhi
le si fecero ancora più duri. L’uomo che si chiamava Obadiah Elihue era là, appoggiato all’albero, e
piangeva come un bambino.

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